Grice e Catucci: l’implicatura
conversazionale d’ego et alter, E ed A – i giocchi cooperativi – Meinong et al.
teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read
profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian
phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher,
viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” -- Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via
‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics
the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre
opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven
Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La
Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della
musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto
Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri);
Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a
Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a
Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed.
Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca
presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui
manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di
carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica
trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi
husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è
stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio
spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri).
Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per
Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La
linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in
particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di
Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze, L'arte è un progetto? C. Estetica Elementare - L'esperienza del
coro fra etica e tecnica C.-Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto,
relazione e musica in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come
filosofia C. -AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) -
Di cosa parliamo quando parliamo di teoria C. Cinque temi del moderno
contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C.
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole. Il Kitsch: ieri, oggi, domani C. Riga -
Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society C. International Yearbook
of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Saggio, Trattato
Scientifico Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata C. Il corpo e le forme. Note sul discorso
spirituale nella filosofia e nell'arte C. Della materia spirituale dell'arte -
On the spiritual matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C.
-Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Foucault's
Militancy and Thought C.- Prison Architecture and Humans - Postfazione C. -
Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri
nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami C. - Incompiute, o
dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Foucault C. Prefazione
a L. Romagni, Strutture della composizione C. - Strutture della composizione. Architettura e
musica - - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme C. Articolo in rivista
paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo
della matematica C. La vetrata artistica
della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - A roadmap
toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro; Mattoni; Gugliermetti;
Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Ca. Atto di convegno in
volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical
Engineering, EEEIC (Florence Italy)
book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical
Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. - I percorsi
dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua
ombra C. L'estetica e le arti. Studi in
onore di Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Foucault e la vita degli
uomini infami C. AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia
primordiale e Growing Design C.; Lucibello, ANANKE (Firenze: Alinea,
Preliminari a un'estetica della plastica C.Plastic Days. Materiali e Design /
Materials & Design - Antropomorfismo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The
name of the present C. DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare
dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna -
Filosofia dell'eccedenza sensibile C. - 02a Capitolo o Articolo book: Vice
Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni
estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo
- - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. - 02a Capitolo o Articolo book:
Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile:
note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. C. - 02a Capitolo o
Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze -
Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. - 02c
Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto
- - Mission to Mars- C.- HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle
Giulia", universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and
Beauty C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new
perspective in planning and organization -
Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di
convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural
Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di
Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education -
Estetica della speranza C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica
del desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione
e politica in Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La
coscienza e il sogno. A partire da Valéry -Visione e dispersione. La regia
architettonica Moretti Catucci, Stefano -
Atto di convegno in volume conference: Moretti architetto del Novecento
(Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Moretti
architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in rivista
paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale
di Strategie editoriali, -Avezzano (AQ):
Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua)
Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx:
paralleli e paradossi - La terza dimensione C. Articolo in rivista paper:
VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie
terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO
VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques
domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing C. Atto di convegno in
volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione
dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a
un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione
urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II,
Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. -
Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di
discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.;
Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico Il lavoro della
dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a
Foucault C. Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con
Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco;
Giuriati, Giovanni; C.; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - Capitolo o Articolo book: Parlare di
musica Costruire, abitare, patire C. -
Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del
parlare obliquo: la musica classica alla radio C. Parlare di musica - La
proprietà intellettuale come problema estetico C. FORME DI VITA (Roma:
DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov C. GOMORRA (Roma:
Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una critica delle
narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO
(Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Foucault filosofo
dell’urbanismo C. Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto di
convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via
dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani C. Atto di comunicazione a
congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società
del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio
delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E.
Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi della libertà Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista: «Gomorra»
Dizionario di Estetica C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Il colosso senza immaginazione C. Osservatorio Nomade: immaginare
Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e
l’invisibile. Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo
book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non
passa. Bachelard e la fine dell’abitare C. Simbolo, metafora, esistenza. Saggi
in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C. - 01a Articolo in rivista paper:
GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, La
“natura” della natura umana Catucci, Stefano - Prefazione/Postfazione book:
Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - Estetica e
Architettura C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali
di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo -
(Criticare l’estetica per criticare il presente C.Articolo in rivista paper:
GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le
Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA'
DEGLI STUDI DI CAMERINO) Foucault: dalla novità storica all’estetica
dell’esistenza C. Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi
La pensée picturale C. Atto di convegno
in volume conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La littérature et les arts
(Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - Attraverso
Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario- Tre versioni del
misurare C. SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI
STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il
senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una
filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács
- L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica
dell'abitare C. Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e
maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela Ambiguità C. - 02d Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano -
Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Architettura,
teorie della C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Censura Ca. -Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Distruzione delle opere d'arte C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario Dizionario
di Estetica - Originalità C/ Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Realismo C.-Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - - Retorica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Rispecchiamento C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica
- Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Storicità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Struttura C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. -
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C.Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico C.
-Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Estetica e
politica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in
musica C. GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan)
- Estetica della censura C. Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile -
Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune
Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme C. Capitolo
o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci, Stefano -
06a Curatela - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria
1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia.
Lukács lettore della «Critica del Giudizio» C. Senso e storia dell'estetica - La filosofia
critica di Husserl C. Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica
di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione C. Capitolo
o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La
fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F.
Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis, Bologna: CLUEB) LA TEORIA COOPERATIVA Come
accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata introdotta da von
Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda- mentale per aver
reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per aver proposto un
cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi dell’economia, delle
scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo proposto consiste nel tradurre
i problemi in giochi opportuni, nel trovare le soluzioni di questi con le
tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre le soluzioni trovate in
termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di GIOCO COOPERATIVO dall’esigenza
di analizzare il comportamento razionale di agenti che interagiscono in
situazioni non strettamente competitive. In tal 15Strategia dominata invece `e
quella tale che, ne esiste un’altra che procura al giocatore maggiore utilit`a,
qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia dominata non pu`o far parte di un
equilibrio di Nash. caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano
fare alleanze, formare coalizioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di
garantire una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che
cosa distingue IL GIOCO COOPERATIVO da quello non cooperativo? Il fatto che si
ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i
giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento
possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non
cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo Harsanyi,
con Nash, per l’Economia, un gioco `e definito cooperativo se GL’ACCORDI TRA I
DUE GIOCATORI SONO VINCOLANTI. In caso contrario, il gioco `e non cooperativo.
All’interno dei giochi cooperativi, la teoria distingue fra quelli d’utilit`a
trasferibile e quelli d’utilit`a non trasferibile. Qui ci limitiamo a qualche
esempio di gioco d’utlita trasferibile gi`a sufficiente comunque a introdurre
le idee principali di questo approccio. Per definire un gioco cooperativo
abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei giocatori, e dal dato, per
ogni A ⊂ N, di
un numero reale, denotato con v(A). “A ⊂ N” rappresenta una possibile coalizione; “v(A)” rappresenta
l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la stessa `e in grado di garantirsi
se i giocatori di A si alleano. V `e detta la funzione caratteristica del
gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante questa definizione `e di
illustrarla con qualche esempio. Due persone sono interessate ad un bene che `e
in possesso di una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo
valuta meno di chi lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di
interazione tra i tre). Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore
assegna al bene. Gli altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano
il bene 200 e 300. Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le
coalizioni sono otto: {φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} =
N}16. Possiamo inoltre porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0,
v({1, 2}) = 200, v({1,3} = v(N) = 30017. Consideriamo invece il caso di un
compratore (giocatore 1) e due venditori dello stesso bene; la situazione pu`o
essere descritta efficacemente ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2,
3}, zero altrimenti. In questo caso, quando la funzione caratteristica v assume
solo valori zero e uno, il gioco si chiama semplice, e v assume piu` il
significato di indice di forza della coalizione (A `e coalizione vincente se e
solo se v(A) = 1). Il gioco non cambia se al posto di 1 mettiamo un altro
numero positivo. 16φ rappresenta l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non
contiene giocatori. Anche se pu`o sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla
in considerazione; qualunque sia v, si assume che v(φ) = 0. 17 Perch ́e abbiamo
definito in questo modo il gioco? Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3})
= 0 perch ́e la coalizione {2,3} non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e
la coalizione {1, 3} possiede il bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva
per meno). Esempio: La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a
per azioni). Gli Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi
cooperativi. Nel caso della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non
un’utilit`a. E` naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo
della pista piu` lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione.
Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) =
v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente
che `e un problema analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu`
complicato, perch ́e non `e chiaro a priori che cosa una coalizione possa
garantire per s ́e. Una stima molto prudente potrebbe essere quello che rimane
dopo che tutti gli altri creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a
per azioni, siamo in presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle
coalizioni in grado da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi
di votazioni (semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco
cooperativo con N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore
ad n componenti, ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato
dovrebbe essere chiaro: se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e
l’utilit`a assegnata (o il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i.
Tanto per fare un esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se
proponessimo come soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del
gioco prevede un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione
invece rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino particolari
propriet`a. Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di
vettori, ad un altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene
osservare che la soluzione in genere non `e interessata a quanto viene
assegnato alle coalizioni, ma solo a quel che viene dato ai giocatori. Ancora
una volta va ricordato che le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui
utilizzano per ottenere il meglio per se. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı
generale da rendere necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione:
qui accenniamo rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve
per prima cosa essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale
che: 1. xi ≥ v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. SI RICHIEDE CIOE AD
OGNI SOLUZIONE DI GODERE DELLE PROPRIETA DI *RAZIONALITA* INDIVIDUALE E DI
EFFICIENZA COLLECTIVE. Ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado
di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile.
Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili proposta
sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in questo
modello soluzione. Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100) nel
gioco dei due compratori e un venditore ( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e
un compratore, mentre in quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1,
1). va distribuito (e ovviamente non di piu`). Questa richiesta `e quindi
da ritenere minimale. In realt`a, visto che le coalizioni sono possibili,
sembra naturale richiedere che esse stesse gradiscano una distribuzione di
utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori potrebbe ritirarsi. Si arriva
cos`ı ad uno dei concetti fondamentali di soluzione: il nucleo del gioco v `e
l’insieme di quelle distribuzioni di utilit`a che nessuna coalizione ha
interesse a rifiutare. D’altra parte, la coalizione A rifiuta quel che le viene
proposto se la somma delle utilit`a proposte ai suoi giocatori `e inferiore al
valore v(A) che, come detto, rappresenta quel che lei `e complessivamente in
grado di procurarsi. Per capire meglio l’idea vediamo di caratterizzare il
nucleo in un esempio. Quello dei due venditori e un compratore. Un elemento del
nucleo `e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora
scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare: x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0
x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 . x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1. La
prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli
individui. Essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga
riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di
garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2,
cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima
coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda
si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0.
Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora
x1 = 1. Quindi, il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che
cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi. Nel gioco dei due compratori e
un venditore, la soluzione proposta dal nucleo `e che il primo vende l’oggetto
al terzo (che lo valuta di piu` rispetto al secondo), ad un prezzo che pu`o
variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il nucleo propone in questo caso piu`
spartizioni possibili). Nel gioco invece in cui ci sono un compratore e due
venditori dello stesso bene, come abbiamo visto il nucleo consiste nell’unico
vettore (1,0,0), il che significa che il compratore ottiene il bene per nulla.
E` interessante notare che, nel primo esempio, il ruolo del secondo giocatore,
che pure alla fine non fa nulla, `e messo in evidenza dal fatto che il prezzo
di vendita `e influenzato dalla sua presenza. D’altra parte questo `e logico. Se
il terzo facesse un’offerta minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a
sua volta fare un’offerta superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se
non si assume esplicitamente, l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A ⊂ N `e verificata in quasi
tutti i giochi interessanti. Anzi, spesso i giochi verificano l’ipotesi detta
di superadditivit`a, che cio`e v(A ∪ B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = ∅, che stabilisce che l’unione
fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i giocatori si
metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N). In
questo caso, il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o
che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in
maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del
compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al
compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni propongono una soluzione
diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono
del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa
proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono
infinite varianti. Una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e
quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti
sinistri, rispettivamente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno.
Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo
caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa
che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono
cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa
che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando
un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni
proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di
soluzione molto importante, soprattutto in applicazioni economiche. Per`o il
nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti
casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di
tre giocatori che si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo
porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal caso, le coalizioni di due
giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la
coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un
calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile
la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire possibili spartizioni
anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia soddisfatta della
spartizione proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a parole, considera,
per ogni possibile imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi.
L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni
A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora
qualunque sia la distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si
lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per
ogni imputazione x, il lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella
che si lamenta maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di
utilit`a efficiente che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le
distribuzioni che hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle
che minimizzano il secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in
questo modo si arriva ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata
il nucleolo del gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di
vendita `e 250, e cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del
nucleo. Le condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle
coalizioni formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 +
x2 + x3) ≥ 3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2
+ x3 = 1. Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione
dell’imputazione x: e(A, x) = v(A) − i∈A intermedio fra quello minimo e quello massimo
proposti dal nucleo; nel gioco di maggioranza a tre giocatori, propone
l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ): in questo caso ogni coalizione di due giocatori
si lamenta 13 , e non `e difficile verificare che ogni distribuzione di
utilit`a diversa farebbe lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati
precedenti non sono sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che
gode di forti propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o
dare risultati bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e
natu- ralmente questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un
compratore il nucleolo assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto
di soluzione che qui consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula
`e un po’ complicata, ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi
non si capiscono i dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi,
questo non impedisce a chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto
va osservato che questa soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante
propriet`a di assegnare un’unica distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore.
La indichiamo con S, in onore di Shapley. Risulta cos`ı definita, per un
qualunque gioco v22: Si(v) = (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \ {i})]. i∈A⊂N n! L’indice di Shapley
associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni
coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i}
esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica
inte- n! ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi
per giocare, in un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)!
rappresenta la probabilit`a n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri
giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice
fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il
nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ).
Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12
fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’
piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente,
perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori
col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti,
ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei
giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione
di un Parlamento, potrebbe essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli
Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi
fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti:
esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di
Arrow. Data una coalizione A, indicheremo con a la sua cardinalit`a, cio`e il
numero dei giocatori che formano la coalizione A. 23Il contributo marginale che
il giocatore i porta alla coalizione C `e la quantit`a v(C ∪ {i}) − v(C). Chiaramente pu`o
essere interpretato come l’apporto che il giocatore porta alla coalizione.
24Assumendo equiprobabile l’ordine d’arrivo dei giocatori. per
l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le Scienze Sociali. Il valore
Shapley `e quindi uno dei modi possibili per valutare il potere dei giocatori
in un gioco. Per concludere, ecco la risposta che d`a l’indice di Shapley al
problema di come suddividere le spese per la costruzione della pista
dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2 − 16c1, il
terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto significativo ma, per
prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio c3, il
che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice `e
efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il risultato, ha la seguente
interpretazione molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1, divide
questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello stesso
servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1: questa
spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista. Il
resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno del
terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a
espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non
deve essere considerato sintomo di confusione. La variet`a di situazioni che
vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si
considerino diverse soluzioni possibili. Sta a chi utilizza questi modelli
scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni
gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due
compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato
sensato. Per questo le varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a
che servono a descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley
ed il nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non
privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci.
Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica
della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento,
parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief,
Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna,
musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica
fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The
Swimming-Pool Library. Catucci.
Grice
e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu
accolto nel suo circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla
vittoria di Vercelli sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che
provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato
dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna
capitale che lo attende. Compose epigrammi latini, un liber de consulatu
et de rebus gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio
Lutazio Catulo.Catulo.
Grice e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). A member of the Porch and a tutor of Antonino. Cinna
Catulo. Catulo.
Grice e Cavalcanti:
l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I
like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic –
therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like
Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del
corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare
non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e
nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze,
copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue
beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne.
Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno.
Ritratto di C., in Rime. Figlio di Cavalcante dei C., nacque in una nobile
famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e
che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in
seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini
nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente
posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata
degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli
Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel
Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo
punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si
considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Alighieri, priore di
Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi
delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a
Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La
condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a
causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato
oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu
amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei
che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché
meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i
due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo
ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e
nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina
Commedia e in una novella del Decameron. La sua personalità,
aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli
filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile
figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e
solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella
di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico. Noto per
il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron
VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica
sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De
civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro
rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente
il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la
poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali
dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di
una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a
cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in
una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un
emblema della leggerezza. L'episodio figura anche nell'omonimo testo di
France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua
vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica. La opera di
Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici
ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza
ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto,
seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna
la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una
costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la presenza di rime
retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann Heinrich Füssli.
Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C.. I temi della sua
opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto
“Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La
concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene
l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima
sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie
parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa –
L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che,
destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della
devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da
un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo
dell'amante. Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia
ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei
temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. C. e un fine filosofo
– scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci
resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente
scritte. Il poetare di C., dal ritmo soave e leggero è di una grande
sapienza retorica. I versi di C. possiedono una fluidità melodica, che
nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato,
dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche. Cavalcanti:
la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).
“Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove
prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia
e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico
lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti,
Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido
Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli
italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia.
Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia
al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo C. lo deve
essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa,
sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta
parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural
dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e
le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce
l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che
l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa
definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua
dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La
sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che
cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di
essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a C., egli afferma che
l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad
esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste
piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo
(sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria.
Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele,
poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima,
Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non
intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura
che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo
la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo
unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti:
anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le
funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione)
degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i
sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la
terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo
dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene
all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della
sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di
vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di
questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una
sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si
imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima
sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione
della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa
immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa
intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia
aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può
essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il
pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele,
dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è
impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una
parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine
dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della
stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si
potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e
l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono
nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime
nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando,
nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della
donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene
nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e
disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto
della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene
all’anima sensitiva. C. ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima
sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità
insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che
di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico
intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le
facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in
contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando
l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva,
unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo.
Questa complessa psicologia che C. mutua da Averroè è la base del suo celebre
pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché
l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai
sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella
intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto;
come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la
conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena
sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli
uomini. Quello che C. intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se
forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima
sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere
raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta
chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne
male”). Ciononostante, C. ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura
(“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni
naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima
sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come
interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario,
anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo
greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad
esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il
compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima
vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione;
pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste
nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. C., dunque, seguendo
Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana
violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai
bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli
animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e
che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un
naturale bisogno della nostra sensualità. sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον,
comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine
aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita
come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta
all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among the best
known Italian poets a sonnet asking interpretation of a dream. The god of
love, so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed
her with Dante's own heart, and had then departed weeping.
Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a
probable solution of this, and other such distressing visions, a dose of
salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri- ously. Of
their various interpretations that which best pleased Dante, though not quite
satisfied him, was C.’s " And this," wrote Dante later in the
New Life, " was, as it were, the beginning of the friendship between
him and me, when he knew that I was he who had sent it (the sonnet) to
him." C.s interpretation was in an important particular
ambiguous. Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing that
"vostra donna la morte chedea" To understand this clause as
meaning " Death claimed your lady" is natural, and would make
the interpretation interestingly prophetic; but, whether or not this
reading might be justified symbolically, Dante himself forbids it. For,
in spite of his pleasure in his " first friend's " explanation
of the dream, he added : " The true meaning of this dream was not
then seen by any one, but now it is plain to the simplest." It was
easy for him after the event to read prophecy of Beatrice's death into
the dream ; but he expressly denies to Guido among the rest the
prescience. We are bound, therefore, to take as the interpreter's meaning
that there was malice prepense in the cannibal appetite of the sleeping
lady, that she claimed the death of her servant's heart. No wonder the
love god wept as he carried her off sated ! Irreverent though
it be, one thinks of The Vampire of Kipling. For Guido the gentle
Beatrice was as "the woman who couldn't understand," sucking,
asleep, in a sort of diabolical innocence, the life blood, literally
eating the heart, out of her helpless victim. And Dante, the lover, the
victim, approves the picture ! Of course the gruesomeness of this
symbolism may be explained away as merely a conceitfully emphatic
reassertion of the ancient fancy that a lover's heart is no longer his
own, but has passed into the custody of his mistress. Only, the dream
then and its interpre- tation would indeed be a much ado about nothing.
And why, at so customary a happening, should love weep? In fact, Guido's
thought cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a
sense, from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire
uplifted into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of
mysticism. Before attempting to let in light directly upon this dim
utterance it is expedient to recall certain facts in Guido's life and
personality. " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e
intento alio studio " — so Guido is introduced into the Florentine
Chronicle of Dino Compagni, who knew him personally. Guido could not have
been much over twenty-five when, at the death of his father, his elder
brother being in orders, he became head and champion of one of the two or
three most powerful and aristocratic families in the republic. For
gen- erations the Cavalcanti had been leaders in the state,
haughtily contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic
inde- pendence against those who were willing to sacrifice this for
the dream of a " Greater Italy " united under a revivified
Emperor of the West. To this great feud and to the lesser local feuds
which grew out of it Guido may be said to have been a predestined, yet
mostly a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his
life long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his
best friend ; it certainly killed him before his time. It
married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene- vento,
when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell with
Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent peace by
marrying together certain sons and daughters of victors and vanquished.
Among the rest C. was wedded, or then more likely betrothed, — for he
could not have been more than fifteen, — to Bice, daughter of the
Ghibelline leader, the Florentine " Coriolanus," Farinata degli
Uberti. Seven years before Farinata had "painted the Arbia red"
with the blood of Florentine Guelphs at Monteaperti; and it had been a
kinsman of Guido who com- manded the Guelphs on that disastrous day. We
do not know how this real " Capulet-Montague " match turned
out, — only that Monna Bice bore children to her husband and outlived him
many years, and that the peace which their union, among others, was
intended to effect did not come to pass. On the contrary the
great Guelph families, in secure possession of the city, soon quarreled,
even connived against each other with the ever-ready Ghibelline exiles,
or with popular dema- gogues, so great was their common jealousy.
Meanwhile, during the distraction of the nobles, the middle classes had
been prosper- ing ; and coming at last to feel their strength and the
weakness of those above them, they rebelled and crushed the
aristocrats. In the first insolence of triumph they excluded the nobles
abso- lutely from public office, but two years later conceded eligibility
to such nobles as would join one of the Arti, or trades unions.
This virtual abdication of caste C. refused to make. In vain good
easy Dino pleaded with him. I am ever singing your praises," he
wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are, and
brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how compact
with sifted learning your mind is, and how you can run and leap and
outlast the best. Nor is there lacking you high birth nor wealth ... in
fine, the one thing wanting to give scope to all these gifts and powers
is a mere name. " Ahi! com saresti stato om mercadiere! "
Now almost certainly some generations back the C. had been in
trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had pleased
them to entertain a genealogy reaching royally back into Germany and
descending into Italy with Charlemagne's baronage. To traverse this
pleasing legend with the gross title "om merca- diere,"
tradesman, was out of the question : Guido declared himself
irreconcilable. Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a
temperament, had accepted the situation even cordially, and was taking
active part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido
must have regarded his friend's secession with disgust seems natural.
It was worse than an offense against party; it was an offense
against caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era
troppo tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido.
Fastidious, exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to
feel this consorting of his friend with vulgar political upstarts
incompatible with their own intimacy. And the matter was made worse by
its open denial of their poetic profession of faith in the " cor
gentile." This vulgar folk was that " fango," that human
" mud " of which Guinizelli had written : Fere lo
sole il fango tutto'l giorno, Vile riman . . . how might the
" gentle heart " mix itself with this irredeemable
"mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a
sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1 lo vengo
il giorno a te infinite volte e trovoti pensar troppo vilmente :
allor mi dol de la gentil tua mente e d'assai tue virtu che ti son
tolte. Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi la
noiosa gente, di me parlavi si coralemente che tutte le tue rime
avei ricolte. Or non ardisco per la vil tua vita, far
mostramento che tu' dir mi piaccia, ne vengo 'n guisa a te che tu mi
veggi. Se '1 presente sonetto spesso leggi lo spirito noioso
che ti caccia si partira da Panima invilita. 2 1 1 believe
that Lamma, in his Questioni Dante sche, Bologna, is the first to propose
this construction of the famous " reproach." It seems to me the
best of all. 2 1 come to thee infinite times a day And find
thee thinking too unworthily : Then for thy gentle mind it grieveth
me, And for thy talents all thus thrown away. Whether the two
friends again came together in life is not known. The next situation in
which we hear of them is tragic. Dante is sit- ting among his "
first friend's " judges ; Guido is condemned to exile, and goes — in
effect — to his death. Under the new bourgeois rule civic disorders
rather increased than otherwise. Prime mover of discord was the
Florentine " Catiline," as Dino calls him, Corso Donati.
Somewhat ineffectually opposing his self-seeking machinations were the
parvenu Cerchi, powerful only through wealth and the popularity of their
cause. With these also stood Guido. Hatred, no less than misfortune,
makes strange bed- fellows ; and the hatred between Guido and Corso was
intense. Each had sought the other's life : Corso meanly, by hired
assassins ; Guido openly, in the public street, by his own hand. Violence
followed violence ; the number of factionaries increased, until at last the
city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido was
conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among these
Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with fever ;
and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso, were
recalled within the year, it was too late. A few months afterward, Guido died.
" E fu gran dommaggio" wrote Dino. It was a strange
preparation for "gentle and gracious rhymes of love," — this
short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is but one direct echo
of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet to a kinsman, Nerone C.i.
Nerone had made Florence too To flee the vulgar herd was
once thy way, To bar the many from thine amity ; Of me thou spakest
then so cordially When thou hadst set thy verse in full array.
But now I dare not, so thy life is base, Make manifest that I
approve thine art, Nor come to thee so thou mayst see my face.
Yet if this sonnet thou wilt take to heart, The perverse
spirit leading thee this chase Out of thy soul polluted shall
depart. hot for the rival Buondelmonti, and Guido hails him with
ironical deprecation. Novelle ti so dire, odi, Nerone,
che' Bondelmonti treman di paura, e tutt* i fiorentin' no li
assicura, udendo dir che tu a* cor di leone. E piu
treman di te che d' un dragone veggendo la tua faccia, ch* e si
dura che no la riterria ponte ne mura se non la tomba del re
faraone. De ! com' tu fai grandissimo peccato si alto sangue
voler discacciare, che tutti vanno via sanza ritegno. Ma ben
e ver che ti largar lo pegno, di che potrai V anima salvare se
fossi paziente del mercato. Guido's disdainful temper both piqued and
puzzled his townsfolk. Sacchetti's anecdote of the Florentine small boy
who, having slyly nailed Guido's gown to his bench, then teased him until
the irate gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him,
has 1 News have I for thee, Nero, in thine ear. They of
the Buondelmonte quake with dread, Nor by all Florence may be
comforted, For that thou hast a lion's heart they hear. And
more than any dragon thee they fear, For looking on thy face they
are as dead : Bastion nor bridge against it stands in stead, Nor
less than Pharaoh's grave were barrier. Marry ! but thou hast done
a wicked thing, Having the heart to scatter such high blood,
For without let now one and all they flee. And 'sooth, a truce-bait
too they proffered thee, So that thy soul might still be with the
Good, Hadst but had stomach for the bargaining. For the first
quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.
In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the
pope has misled him. 2 // aVm 53^ its point in a very
human satisfaction at the scorner scorned. Boc- caccio's novella 1 is
more significant, illustrating vividly, if perhaps by a fictitious
occurrence only, the subtle mingling of awe and defi- ance which Guido
inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a eulogy.
" He was one of the best thinkers (Joici) in the world and an
accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a most
engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what- ever he
undertook, and in all that befitted his rank." This character,
together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boccaccio's
narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind Ophelia's
character of Hamlet : The courtier's, soldier's, scholar's eye,
tongue, sword ; The expectancy and rose of the fair state, The
glass of fashion and the mould of form, The observed of all observers. .
. . But, if we may still trust Boccaccio, " that noble and
most sovereign reason " of Guido was also " out of tune and
harsh " with scrupulous doubt ; " so that lost in speculation,
he became abstracted from men. And since he held somewhat to the opinion
of the Epicureans, gossip among the vulgar had it that these speculations
of his only went to establish, if established it might be, that there was
no God." BOCCACCIO (si veda) does not call Guido an atheist ;
that was mere vulgar gossip. He does not even declare him a convinced
Epicurean, one of those who with his own father . . . P anima
col corpo morta fanno. Boccaccio's charge is qualified : " he
held somewhat to the opinion of the Epicureans " {egli alquanto tmea
della opinione degli Epicurj). Dante's commentator, indeed, Benvenuto da
Imola, is more cate- gorical and extreme : " Errorem, quern pater
habebat ex ignorantia, ipse (Guido) conabatur defendere per scientiam."
Benvenuto is even remoter in time, however, than Boccaccio ; and his
phrasing suggests at least a mere perpetuation of that vulgar gossip
which Boccaccio con- temptuously records. But can we trust Boccaccio's
own testimony? At least there is no antecedent improbability. Skepticism
was common, especially in the highly educated class to which Guido (Decam.)
belonged ; and it was not unnatural at any rate for him to weigh
carefully an opinion held by his own father. Again, there is noth- ing in
either his life or writings to indicate an active faith. Much indeed has
been made of his " pilgrimage " to the shrine of St. James at
Compostella; but the mood of this was so little serious that a pretty
face at Toulouse was enough to change his intention. The ironical sonnet
of Muscia of Siena is a hint that his contemporaries could not take him
very seriously as a pious pilgrim; and Muscia stresses Guido's excuse for
breaking his supposed vow that there was no vow in the case — " non
v' era botio" Guido may have started in a moment of reaction from
his doubt — does not doubt itself imply a wavering will ? He may have
left Florence as a matter of prudence — Corso tried to have him
assassinated on the way as it was. As for his writings, these,
considering the intimate theological associa- tions of the school of
Guinizelli, are noticeably barren of religious feeling or phrase ; and he
certainly scandalized the worthy, if narrow, Orlandi by his jesting
sonnet about the thaumaturgic shrine of "my Lady." The
hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the other hand, in
his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his answer to the
elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend " had
not accompanied him, has beendiscredited after twenty years of support by
its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be sure, still a moot
question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his recanta- tion, still
admits the allegorical taking of it to be plausible as a sec- ondary
intention on Dante's part. In any case, even waiving the confirmation,
the tradition of Guido's skepticism is not impugned ; and in view of the
persistent tradition, and of the antecedent probability in its favor, the
burden of disproof would seem to rest on those who reject the tradition.
Meanwhile, I propose to test the credibility of the tradition by assuming
it. If the assumption proves to be a factor in a coherent and credible
interpretation of Guido's poetry, the credi- bility of the assumption
proportionately increases. The argument is of course a circle, but I
think not a vicious circle. There is also another tradition, which
happens likewise to be sub- sidiary to the same end. As the one tradition
charges Guido with unfaith in religion, so the other charges him with
faithlessness in love. i Inf., X, 60. Hewlett, in his
Masque of Dead Florentines, has seized upon this supposed fickleness of
Guido as Guido's char- acteristic trait. Guido is made to say :
My way was best. From lip to lip I past, from grove to grove
: I am like Florence ; they call me Light o' Love. I am
dubious indeed about that literal criticism which surmises a "
family skeleton " in every locked sonnet. Heine assuredly reckoned
without his Scholar when he complained : Diese Welt glaubt nicht an
Flammen, Und sie nimmt's fur Poesie. When Guido writes a
sonnet describing how Love had wounded him with three arrows, — Beauty,
Desire, Hope of Grace, — it is hardly fair for Rossetti to entitle his
own translation He speaks of a third love of his. Rossetti the scholar
should have known better. Of course Guido is simply copying a conceit
from the Romance of the Rose : the three arrows are three arrows from the
eyes of one lady, not of three ladies. Again, it is almost worse when
poor Guido essays a pretty pastourelle, which is by definition a gallant
adventure between a pass- ing knight and a shepherdess, to discuss the
" peccadillo " in a solemn footnote ! Yet Rossetti, himself a
poet, does so. Nay, Guido's latest learned editor, Signor Rivalta, speaks
1 of his singing "anche i suoi desideri meno puri e piu umani come
nella ballata : In un boschetto trovai pasturella . . ."
This ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such
pseudo- revelations of a stethoscopic criticism, there are, considering the
meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough besides the mention
of several ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference her whom Dante
calls Giovanna — to accept with discretion sober Guido Orlandi's perhaps
malicious insinuation, when he inquires of C. concerning the nature, the
effects, the virtues of Love : Io ne domando voi, Guido, di lui
: odo che molto usate in la sua corte ; Le Rime di C. Bologna. and
even the cruder implication in Orlandi's boast of his chaster mind :
Io per lung' uso disusai lo primo amor carnale : non tangio nel
limo. Reckless feudist, unbeliever, " light o' love,"
squire of dames, pro- found thinker, gracious gentleman — a perplexing
motley of a man; it is no wonder that his poetry, reflecting himself,
more easily with its many-faceted light dazzles rather than illumines the
understand- ing. In addition, one has to contend in his more doctrinal
pieces, especially in the famous canzone of love, with a rigorous
scholastic terminology dovetailed into a most intricate metrical schema,
and with a text at the best corrupt. In spots Guido — as we have him —
is as hopeless as Persius; yet we may waive these and still venture
upon a general interpretation. In general, Guido's love poems hinge
upon two parallel but opposite moods, — a radiant mood of worshipful
admiration of his lady, a tragic mood of despair wrought in him by his
love of her. His sight of her is a rapture, as in the most magnificent of
his sonnets, beginning " Chi e questa che ven ":
Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira e fa tremar di chiaritate
V a're, e mena seco amor si che parlare null' omo pote, ma ciascun
sospira? O Deo, che sembra quando li occhi gira dica '1
Amor, ch' i' no '1 savria contare : cotanto d' umilta donna mi
pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira. Non
si poria contar la sua piagenza, ch' a lei s' inchina ogni gentil
virtute, e la beltate per sua dea la mostra. * Non f u si
alta gia la mente nostra e non si pose in noi tanta salute,
che propriamente n' aviam canoscenza. 1 1 Lo! who is this
which cometh in men's eyes And maketh tremulously bright the air,
And with her bringeth love so that none there Might speak aloud, albeit
each one sighs ? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It
contains, as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love,
— namely, in the lines describing his mistress as Lady of
Meekness such, that by compare All others as of Wrath I recognize,
(cotanto d* umilta donna mi pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam'
ira.) Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis
dominates Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant
of imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection,
of peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she,
the lovable, in a state of meekness, — Quiet she, he
passion-rent. The identification of passionate love with a state of
wrath is fun- damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of
the doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to
the query as to the where and whence of the passion — La ove
si posa e chi lo fa creare — he declares that In quella parte
dove sta memora prende suo stato, si formato come diaffan da
lume, — d'una scuritate la qual da Marte vene e fa dimora. 1
" In that part where memory is love has its being ; and, even as
light enters into an object to make it diaphanous, so there enters into
the Dear God, what seemeth if she turn her eyes Let Love's
self say, for I in no wise dare : Lady of Meekness such, that by
compare All others as of Wrath I recognize. Words might not
body forth her excellence, For unto her inclineth all sweet merit,
Beauty in her hath its divinity. Nor was our understanding of
degree, Nor had abode in us so blest a spirit, As might thereof
have meet intelligence. 1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition
of Ercole Rival ta, Bologna, 1902. constitution of love a dark ray from
Mars, which abides." Now Dante conceives love as an emanation from
the star of the third heaven, Venus, along a bright ray : " I say
then that this spirit (i.e. of love) comes upon the * rays of the star '
(i.e. of the third heaven, Venus), because you are to know that the rays
of each heaven are the path whereby their virtue descends upon things
that are here below. And inas- much as rays are no other than the shining
which cometh from the source of the light through the air even to the
thing enlightened, and the light is only in that part where the star is,
because the rest of the heaven is diaphanous (that is transparent), I say
not that this ' spirit/ to wit this thought, cometh from their heaven in
its totality but from their star. Which star, by reason of nobility in
them who move it, is of so great virtue that it has extreme power upon
our souls and upon other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido,
on the other hand, while accepting the notion of love as an emanation,
holds the emanation to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along
a dark ray. The power over the soul of this star is no less extreme
than that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather
than of light. It may strike at life itself — Di sua potenza
segue spesso morte. The passion which its influence excites passes all normal
bounds in any case, destroying all healthful equilibrium :
L'esser e quando lo voler e tan to ch' oltra misura di natura
torna: poi non s' adorna di riposo mai. Move cangiando color riso e
pianto e la figura con paura stoma. . . . Finally, — and here we reach
the gist of the matter, — the influ- ence of the choleric planet
engenders sighs and fiery wrath in the Conv.. (Wicksteed's
translation.) 2 It has its being when the passionate will
Beyond all measure of natural pleasure goes : Then with repose
unblest forever, starts Laughter and tears, aye changing color
still, And on the face leaves pallid trace of woes. lover, impotent
to reach the ever-receding goal of his desire (non fermato
loco): La nova qualita move sospiri e vol ch' om miri
in non fermato loco destandos' ira, la qual manda foco.This
strangely pessimistic reading of love seems to have struck at least one
of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only at the
apparent slight upon love, but also at the silence seeming to give assent
of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his Acerba, iii,
1, denies that so sweet a thing as love could emanate from the planet
Mars, seeing that from that planet rather " proceeds violence with
wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore : Errando
scrisse C. . . . qui ben mi sdegna lo tacer di Danti. In
fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,
apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —
Spesse fiate vegnommi a la mente l'oscure qualita ch' Amor mi
dona — and proceeds to describe, though not by this name, just such
a " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable
from love. With Dante, of course, the mood is but passing. For him love
is in its essence a beneficent power. For Guido also it might
seem that this tragic wrath of desire is not incurable. There is a power
in meekness to overcome wrath and to subdue wrath also to meekness. And
the meek one is impelled to exercise this power, to confer this boon, by
pity for the one suffering in wrath. It is the failure to follow this
blessed impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of
the sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that
she is one . . . for whom availeth not Nor grace nor pity nor
the suffering state. . . . (. . . verso cui non vale Merzede
ne pieta ne star soffrente. . . .) 1 The novel state incites to
sighs, and makes Man to pursue an ever-shifting aim, Till in him
wrath is kindled, spitting flame. Meekness, grace, pity, the suffering
state of wrath — the terms have a scriptural sound, and of right ; for
they are actually scriptural anal- ogies applied to love. Precisely this
poetical analogy was the innova- tion of Guinizelli, whom Dante called
" father of me and of my betters," — of which last C. was in
Dante's mind first, if not alone. Before Guinizelli Italian poets had
accepted the other analogy of the troubadours of Provence, which applied
to love the canon of feudal homage. For these the lady of desire was as
the haughty baron to whom they owed servile fealty, and whose
inaccessible mood was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming
willfully of her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh
canon of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry
built upon an analogy with it must needs be an affectation. These
burgher poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard
girls were only play barons. Affectation, the pen following not the
dicta- tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the
precise charge which Dante, from the standpoint of the " sweet new
style," brings against the older style. 1 But if as free burghers
Italians could not really feel the alien mood of feudal homage, yet as
Christian gentle- men they could, and should, sanctify their love of
women with the mood of religious awe. There need be no affectation in
that. Free burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute
baron ; Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship,
min- istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom,
as the Psalmist had declared, the Lord has beautified with
salvation. Guido therefore can no more worthily praise his mistress
than by calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further
analogy he sets her above the angels themselves; for the Christ himself
had said : "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in
heart." For him- self, " passion-rent " in his love, the
poet speaks as St. Paul, — " we . . . had our conversation ... in
the lusts of our flesh, fulfilling the desires of the flesh and of the
mind ; and were by nature the children of wrath (filii irae)" And
the merzede, the "grace," for which he sues — solu- tion of
wrath by the spirit of meekness — is again in accord with Paul's promise
to these very "children of wrath," — "By grace are ye
saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one
divinity as the other. i Purg. This is pious doctrine indeed for
the righting cavalier, skeptic, Love- lace I have in a measure assumed
Guido to be. Is then his love creed also a pose, worse than the apes of
Provence whom Dante exposed, because he thus adds hypocrisy to
affectation ? Well, if so, the same Dante would hardly have hailed him as
"first friend" in life and master after Guinizelli in poetry,
nor have outraged the memory of Beatrice by associating her in the New
Life with Guido's lady Joan. The solution of the apparent antinomy
lies in the meaning for Guido of that rnerzede, that " grace,"
the granting of which by ; the lady, the meek one, might appease the
lover, the one in "wrath." The term itself — Italian merzede or
English " grace " — has a fourfold significance according as it
is a function of the lady, of the lover, or of the reciprocal
relationship between them. "Grace" in her signifies her
beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which
through faith and loving service deserves the boon, or "grace,"
of her con- descension to redeem him from his "state of wrath,"
for which condescension it would be befitting him to render thanks,
"yield graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante,
— render mercede. Of this fourfold intention of the term the one
funda- mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted
by the act of condescension of the lady : what then is the grace or boon
that the lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire
? The answer is no mystery. The end of desire is always
possession, in one sense or another, of the thing desired. In the
practical sense possession of the loved one means union, physical or
social, or both, sacramentally recognized, in marriage ; but the sacrament
of marriage allows a more mystical sense, presenting the ideal,
hardly realizable on earth, of a spiritual union which is also a unity of
two in one : The single pure and perfect animal, The
two-cell'd heart beating with one full stroke, Life. So
Tennyson modernly ; but more in accord with the metaphysical mood of
Guido is the old Elizabethan phrasing : So they loved, as love in
twain Had the essence but in one ; Two distincts, division
one: Number there in love was slain. To the " gentle
heart " there is no love but highest love ; there is no union but
perfect union, wherein two shall Be one, and one another's
all. Until the "gentle heart " may attain to that perfect
union its desire is unappeased, its " wrath " unsubdued.
Tennyson premises it for the right marriage; but there is ever the
doubter ready to remark that if such marriages are really made in heaven,
they certainly are kept there. Human sympathy cannot quite bridge the
span between two souls: self remains self; and though hands meet
and lips touch and wills accord, there is always something deeper
still, inexpressible, unreachable. Yes ! in the sea of life
enisled, With echoing straits between us thrown, Dotting the
shoreless watery wild, We mortal millions live alone. In vain,
says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the division
(of the primeval man-woman in one), the two parts of man, each desiring
his other half, came together, and threw their arms about one another
eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes in effect goes on,
Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered " man-woman
" by physical union ; but that consolation the " gentle heart
" must forever regard as of itself inadequate and unworthy.
There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read further into
the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built upon that —
to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of a love
extending into a mystic otherworld — at least so Christians read her
teaching — where in the bosom of God all become as one. There
"wrath" is resolved into "meekness" perfectly.
The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of happier men
of which Arnold speaks : Of happier men — for they, at least,
Have dream '</ two human hearts might blend In one, and
were through faith released From isolation without end
Prolong'd. But if Guido, even as Arnold, lacked this faith, doubted
this mystic otherworld whither therefore he might not accompany his first
friend to find his Giovanna, as Dante his Beatrice, perfect in
meekness, purged of all wrath, and to learn from her release hereafter
from the dividing flesh, union at last with her spirit at peace ? — if he
was of those, even uncertainly wavered with those, who . . . F
anima col corpo morta f anno ? — then indeed for him, in degree as
his desire was ideally exalted, so its grace, its merzede, became an
irony, a tragic paradox. His must be a passionate loneliness forever
teased by an illusion, a phantom mate of its own conjuring. And I at
least so understand the concluding words of the canzone : For
di colore d'esser e diviso, assiso mezzo scuro luce rade :
for d'onne fraude dice, degno in fede, che solo di costui
nasce mercede. That is, the only love of which grace is born, entire
possession granted, is love of the dim immaterial idea, — " la
figlia della sua tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls it. Ixion
embraces his Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her "
meekness," exists not in her, but in his glorified ideal of her,
" bereft " as that is " of color 1 Bereft is (love)
of color of existence, Seated half dark, it bars the light (i.e.
which might make it visible). Without deceit one saith, worthy of
faith, That born of such a love alone is grace. Rivalta's
reading without in would apparently make mezzo adverbial. The commoner reading,
" assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as
a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not
substantially different. The reading in mezzo, however, is more
suggestive, as implying not only the immateriality of the mental fact but
also the darkening of the " medium," i.e. the imagination, by
the " Martian " ray of passion. The assertion of the
invisibility of love is in answer to Orlandi's question restated by C. — "
s* omo per veder lo po y mostrare." Question and answer are alike
absurd, however, unless we understand "love" to mean the object
loved, which it may naturally do ; one's §l love " means both one's
passion and one's lady. of existence." Therefore Guido's mood is
essentially one with Leo- pardi's when the latter exclaims :
Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar
sepolto, Alia guardia seder del mio dolore. 1 Guido has
himself described with quaint " preraphaelite " symbol- ism the
process of progressive detachment of the ideal from the real in the
ballata beginning " Veggio ne gli occhi." Cosa m* avien
quand* i' le son presente ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire :
veder mi par de la sua labbia uscire una si belladonna, che la
mente comprender no la pu6 ; che 'nmantenente ne nasce un* altra di
bellezza nova, da la qual par ch' una Stella si mova e dica: la
salute tua e apparita. 2 The imagery here is manifestly in accord
with contemporary pictorial symbolism, in which souls as living manikins
issue forth from the lips of the dead; but the significance of the
passage is, I take it, at one with that of the so-called Platonic "
ladder of love " by which through successive abstractions the pure
idea, the intelligible virtue, is reached. The following stanza in the
same ballata again defines this "virtue" as
"meekness," and again declares it to be merely "
intelligible," for di colore d' esser . . . diviso,
assiso mezzo scuro luce rade ; 1 Only my heart pleased me, and with
my heart In a communing without cease absorbed, Still to keep
watch and ward o'er my own smart. 2 Something befalleth me when she
is by Which unto reason can I not make clear: Meseems I
see forth through her lips appear Lady of fairness such that
faculty Man hath not to conceive ; and presently Of
this one springs another of new grace, Who to a star then seemeth
to give place, Which saith: Thy blessedness hath been with
thee. only instead of the metaphysical directness of the canzone, the
poet employs the theological tropes of the dolce stil. La
dove questa bella donna appare s'ode una voce che le ven davanti, e
par che d' umilta '1 su' nome canti si dolcemente, che s' P '1 vo' contare
sento che '1 su* valor mi fa tremare. E movonsi ne 1' anima sospiri
che dicon : guarda, se tu costei miri vedrai la sua vertu nel ciel
salita. 1 And now the tragic note in Guido's is explained. It is
neither the polite fiction, the " pathetic fallacy " of the
Sicilian school, nor yet the quickly passing shadow of this life set
between Dante and the sun of his desire. La tua magnificenza
in me custodi, SI che P anima mia che fatta hai sana,
Piacente a te dal corpo si disnodi. Cosi orai "So I
prayed," writes Dante, triumphant in expectation ; but for those Che
1 'anima col corpo morta fanno, there could be health of soul
neither now nor hereafter. Wherefore Guido's text in the analysis of his
own passion is in all literalness the words of the Preacher, — " All
his days ... he eateth in dark- ness, and he hath much sorrow and wrath
in his sickness." Until 1 There where this gentle lady comes
in sight Is heard a voice which moveth her before And,
singing, seemeth that Meekness to adore Which is her name, so sweetly,
that aright I may not tell for trembling at its might. And then
within my soul there gather sighs Which say: Lo ! unto this one turn
thine eyes: Her virtue to heaven wingeth visibly. 2 Farad.,
XXXI, 88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as
Dante, but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e
Morte: Nova, sola, infinita Felicita il suo (the lover's)
pensier figura : Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier
disio, Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1 Poi, quando
tutto avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor Tinvitta
cura, Quante volte implorata Con desiderio intenso, Morte,
sei tu dair affanoso amante ! 2 Precisely in this mood Guido
invokes death : Morte gientil, rimedio de' cattivi,
merze merze a man giunte ti cheggio : vienmi a vedere e prendimi,
che peggio mi face amor : che mie' spiriti vivi 1 Not only
are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but even their
figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism
between the soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening
Martian ray of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have
conceived his " dark ray " as a real phenomenon. 2
New, infinite, unique Felicity ... he pictures to his mind : And
yet because of it the wrath of storm Foreboding in his heart, he longs
for calm, Longs for the quiet haven Far from that fierce
desire, Which even now, rumbling, darkens all around. Then,
when o'erwhelmeth him The fury of its might, And in his heart
thunders unconquerable care, How many times he calls In agony of
need, Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si,
che quivi, dov* i' stava gioioso, ora mi veggio in parte, lasso, la
dov' io posseggio pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi
ancora in piu di mal s' esser piu puote ; perche tu, morte, ora
valer mi puoi di trarmi de le man di tal nemico. Aime ! lasso
quante volte dico : amor, perche fai mal pur sol a' tuoi come
quel de lo 'nferno che i percuote ? 1 At other times Guido
describes the combat to the death between his " spirits " of
life and love. He enlarges his canvas and, calling to aid a whole
dramatis personae of the various " souls " and "animal
spirits" of scholastic psychology, objectifies his mood into
miniature epic and drama. This mythology of the inner world arose
naturally enough to mind from the ambiguity of the term "
spirits," meaning at once bodily humors and bodiless but personal
creatures ; and in Guido's delicate handling the symbolism is singularly
effective. Only by exaggeration of imitation did it grow stale and
ludicrous, meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte piene
di 1 Gentle death, refuge of th' unfortunate, Mercy,
mercy with clasp'd hands I implore : Loo^ down upon me, take me, since
more sore Hath been love's dealing : in so evil state Are
brought the spirits of my life, that late Where I stood joyous, now
I stand no more, But find me where, alas ! I have much store Of
pain and grief with weeping : and my fate Yet wills more woe if
more of woe might be; Wherefore canst thou, death, now avail
alone To loose the clutch of such an enemy. How many times I
say, Ah woe is me 1 Love, wherefore only wrongest thou thine
own, As he of hell from his wrings misery ?
3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate
his manner in this kind. L' anima mia vilment' e
sbigotita de la battaglia ch* ell' ave dal core, che, s T
ella sente pur un poco amore piu presso a lui che non sole, la
more. Sta come quella che non a valore, ch' e per temenza da
lo cor partita : e chi vedesse com' ell* e fuggita diria per certo
: questi non a vita. Per gli occhi venne la battaglia in
pria, che ruppe ogni valore immantenente si, che del colpo fu
strutta la mente. Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,
se vedesse li spirti fuggir via, di grande sua pietate piangeria. 1
It transpires then for Guido as for Leopardi that the only grace,
the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is verified
1 The spirit of my life is sore bested By battle whereof at
heart she heareth cry, So, that if but a little closer by
Love than his wont she feeleth, she must die. She is as one
dejected utterly ; The heart she hath deserted in her dread :
And who perceiveth how that she is fled, Saith of a certainty : This man
is dead. First through the eyes swept down the battle-tide,
Which broke incontinently all defense, And by its wrath wrecked the intelligence.
Whoever he that most of joy hath sense, Yet if he saw the spirits
scattered wide, In his excess of pity must have sighed. %\
the warning of those who came to meet him when he first entered the
court of love : Quando mi vider, tutti con pietanza dissermi
: fatto se' di tal servente che mai non dei sperare altro che morte.
1 In reality, he knows the futility of any appeal to his lady for
aid. She is indeed the innocent occasion of his suffering, but of it she
is a mere passive spectator, hardly understanding it, and certainly
help- less to relieve it ; and so Guido himself describes her in the
sonnet beginning " S' io prego questa donna." In the midst of
his agony, Allora par che ne la mente piova una figura di
donna pensosa, che vegna per veder morir lo core. 2 Here then
at last we find the explanation of his interpretation of Dante's sonnet,
when he said that love fed Dante's heart to his lady, vegendo
che vostra donna la morte chedea. She claimed its death not willfully
indeed, as the capricious mistress of Ulrich von Lichtenstein "
claimed " his mutilation, but innocently, unwittingly, in that her
beauty was as a firebrand, her perfection, her " meekness," a
goal of unavailing consuming desire. She is helpless to relieve him,
because — and here is the core of the matter — it is not she, not the
real woman, that he loves, but that idealization of her which exists only
in his own mind — for di colore d' esser e diviso,
assiso mezzo scuro luce rade. Compared with this glorified
phantom "nel ciel (that is, into the intelligible world) salita,"
the real woman also is but "ira," wrath and imperfection. So he
pines for his lady of dreams, who thus a 1 When they beheld me,
unto me all cried Pitiful : bondman art thou made of one
Such that for nought else mayst thou look but death. 2 "
Into my mind then seems it that there rays a figure of a pensive lady,
com- ing to behold my heart die." ghostly " vampire "
feeds upon his human heart ; but the real woman, " the woman who
does not understand," is no longer of moment to him. She is, as it
were, but the nameless model to his artist mind. When that has drawn from
her all that is of fitness for its master- piece, it straightway leaves
her for another otherwise completing the ideal type. Giovanna passes ;
Mandetta arrives. Una giovane donna di Tolosa bell' e
gentil, d' onesta leggiadria, tant' e diritta e simigliante
cosa, ne' suoi dolci occhi, de la donna mia, ch' e
fatta dentro al cor desiderosa P anima in guisa, che da lui si
svia e vanne a lei ; ma tant* e paurosa, che no le dice di qual
donna sia. Quella la mira nel su* dolce sguardo, ne lo qual
face rallegrare amore, perche v' e dentro la sua donna dritta.
Po' torna, piena di sospir, nel core, ferita a morte d* un
tagliente dardo, che questa donna nel partir li gitta. 1
Plainly it is not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his
ideal woman, of whom Giovanna herself was but a reminiscence, that
1 A lady of Toulouse, young and most fair, Gentle, and of unwanton
joyousness, So is the very image and impress, In her sweet eyes, of
one I name in prayer, That my soul's wish is more than it can bear
: Wherefore it 'scapeth from the heart's duress And cometh
unto her ; yet for distress What lady it obeys may not declare.
She looketh on it with her gentle mien, Whereunto by the will
of love it yearns, Because that lady there it may perceive.
Then to the heart it, full of sighs, returns, Unto death wounded by
an arrow keen, The which this lady loosed when taking
leave. Mandetta reminds him. In her turn Mandetta will pass also.
Then will come Pinella, or another — what does it matter? What
cared Zeuxis for any one of his five Crotonian maidens, once each in
her turn had supplied that particular trait of loveliness which only she,
perhaps, had to offer, but had to offer only ? Mentre ch* alia
belta, ch* i* viddi in prima Apresso V alma, che per gli ochi vede,
L' inmagin dentro crescie, e quella cede Quasi vilmente e senza alcuna
stima. 1 The words are Michelangelo's, but the idea is in effect
Guido's. And it is an idea which, I think, renders perfectly compatible
in him con- stancy in ideal love with inconstancy in real loves. To keep
faith with perfection is to break faith with imperfection. The love
of Guido brooked no compromise. The perfect one might be unattain-
able in this life; perfect union with her, even if found, might be
impossible in this life; there might be no other life than this so marred
by the perpetual " state of wrath " to which his impossible
desire in its impotence doomed him ; yet nevertheless Guido was willing
to be damned for the greater glory of Love. In conclusion, I would
quote a passage from the elegy to Aspasia of Leopardi, which puts into
modern phrasing exactly what I con- ceive to be Guido's intention,
obscured as that is for us by its scholastic terminology and its mixture
of chivalric and obsolete psychological imagery. Especially I would call
attention to the precisely similar way in which Leopardi, like Guido,
combines in his mood the loftiest idealization of Woman with the most
contemptuous conception of women. So Hamlet insults, even while he
adores. Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's
immortal rebuke, — when he . . . volse i passi suoi per via
non vera, Imagini di ben seguendo false. 1 While to the
beauty, which first drew my gaze, My soul I open, which looketh
through the eyes, The inward image grows, the outward dies In scorn
away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism,
ultimate unfaith, by the promise of perfect union with his ideal in
paradise. That promise Guido, like Leopardi, rejected. Here is
Leopardi's confession : Raggio divino al mio pensiero
apparve, Donna, la tua belta. Simile effetto Fan la bellezza e i
musicali accordi, Ch' alto mistero d* ignorati Elisi Paion sovente
rivelar. Vagheggia II piagato mortal quindi la figlia Delia sua
mente, l'amorosa idea, Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,
Tutta al volto, ai costumi, alia favella Pari alia donna che il rapito
amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non gia,
ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin
Perrore e gli scambiati oggetti Conoscendo, s' adira . ("
Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a
gloss to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath
directed against the real woman, innocent occasion of his illusion and
disillu- sion. Leopardi continues :) e spesso incolpa La
donna a torto. A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile
ingegno; E ci6 che inspira ai generosi amanti La sua stessa belta,
donna non pensa, Ne comprender potria. (" The woman who does
not understand " !) Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto.
E male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera V uomo ingannato,
e mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Piu che virili,
in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli E piu
tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve.
1 So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns
himself with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last
truly mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have
not somewhere gone off on a tangent, I have described my circle.
Guido's philosophy of love at least fits with the hypothesis of his
skepticism, and a practical consequence of both would be that actual
fickleness of heart to which tradition again bears witness. 1
A ray celestial to my thought appeared, Lady, thy loveliness. Similar
effects Have beauty and those harmonies of music Which the high
mystery of unfathomed heavens Seem ofttimes to illumine. Even so
Enamoured man upon the daughter broods Of his own fancy, the amorous
idea, Which great part of Olympus comprehends, In feature all, in
manner, and in speech Unto the woman like, whom, rapturous man, In
his false lights he seems to see and love. Yet her he doth not, but that
other, even In corporal embracings, crave and love. Until, his
error and the intent transferred Perceiving, he grows wrathful ; and oft
blames With wrong the woman. To that ideal height Rarely indeed the
wit of woman rises ; And that which is in gentle hearts inspired By
her own beauty, woman dreams not of, Nor yet might understand. No room
have those Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly
Upon the spirited flashing of that glance Builds the infatuate man, and
fondly seeks Meanings profound, undreamt-of, and much more Than
masculine, in one than man in all By kind inferior. For if more
tender, More delicate of limb, so with a mind Less broad, less
vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria
dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante
non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo
perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto. – l’amore come incontro disastroso di due
entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool
Library. Cavalcanti.
Grice e Cavallo: l’implicatura
conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro –
fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo,
and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t
strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a
couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to …
electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a
‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that
it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still
sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine
abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore
di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche
studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia.
Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la
possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo
elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio
di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni
suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti,
inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali,
anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per
chiarezza, sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per
i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come
gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità
ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da
Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo
salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano
inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo
pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non
riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta
riempito di gas. Fisico; recatosi per commercio in Inghilterra, ivi si dedicò a
ricerche di fisica e di chimica. Ha intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard.
Storia e pratica dell'aerostazione, C. La piastra I, che illustra l'apparato
chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II,
che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di
idrogeno C. pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del
temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le
chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il
memoriale di Coutts, Old St. Pancras. Il nome di C. è verso il basso, ma
mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di
Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è
elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte
in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic,
tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Cambiagi);
“Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le
proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato
completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica
dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria
fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia
di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma
gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici
di C. comunicato da Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di
Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI.
FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec. A voi
solo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale
ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di
compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della vostra nazione,
è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti
gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che
avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare
delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in que queſta Voſtra
generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più
profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA
Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo
a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore
della medeſima, della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione, anco
per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro.
Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu
queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e traſmeſſe alcune addizioni e
cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati
con una corteſe let tera del tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella
riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO
biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E.
lettricità. La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente
che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e
che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo. Suo C., Sig. Magellan Nevils
Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI C. SULL' ELETTRICITA'. In vece di è quaſi
tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe.
Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un
corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il
paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina
nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. .
Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi:
Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello
di ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro
più potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di
fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio
meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi,
cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL
diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che
comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più
riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro
parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano
anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto, che
poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di
quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La
prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi
naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi
ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In
queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe
chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo
medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe
promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non
per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità
della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più
breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità.
Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi
glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare
la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli
eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari
che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi
dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere
altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag
guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero
però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un
breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in
conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte
di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi
che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili
congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora
ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt'
opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per
diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il
quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna
particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è
ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of
fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che
l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze
erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per
rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole
in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione.
Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione
d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli
elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di
eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità
comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della Boccia di
Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità..
Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell
elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e
negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici,
e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità
pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari
macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti
neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap
parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e
re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla
bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull'
influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per
difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti
fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della
boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. .
Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello
Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti
coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia.
Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire
l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti
e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni
fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano
l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo
divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan
preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi
ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono
riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del
loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo
ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha
fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo
declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di
queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra
tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo.
Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua
forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è
ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre
relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re
pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi:
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al FILOSOFO, all' opulento ugualmente
che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo
ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine,
dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti
poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che
reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare
altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della
ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche effetto
elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori
circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è
nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il Lincurio
poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era tutto
cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la
medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione
di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto
per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non troviamo
nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta,
e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo rimaſta
queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico
Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale a
cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente
chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà
d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà
particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono
egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie
particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono
ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando
benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità,
a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte
ope razioni. Tale fu Bacone, Boyle,
Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati
per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità.
Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza
che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in
preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie
apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con
una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo
il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata,
rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei
Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in
riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora
grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d' oblivione
a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran
ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi
può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il
numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig.
Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente,
fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua
lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque vuole
informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga
l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Priestley,
opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto
ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un
lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio
dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto
oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro
effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in
una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu.
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata da Muſchenbroeck. Allora lo ſtudio dell'
Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa
degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi
foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento.
Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti,
di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da
ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le
ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri
meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi
eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere
tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per
altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto
lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita
altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d'
uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural
Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of
Philofophizing. The word FILOSOFIA, though used by ancient authors in senses somewhat
different, does, however, in its most usual acceptation, mean the love of
general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philosophy
treats of the manners, the duties, and the condud of man, considered as a
rational and social beings but the business of natural philosophy, is to colled
the history of the phenomena which take place amongst natural things, viz.
among the bodies of the universes to investigate their causes and effects; and
thence to deduce such natural laws, as may afterwards be applied to a variety
of useful purposes. The word philosophy is of Greek origin. PITAGORA, a learned
Greek, seems to have been the firfl who called himfelf philosopher j viz. a
lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural
things means all bodies; and the assemblage or fyftem of them all is called the
universe. The word “phenomenon” signifies an appearance, or, in a more enlarged
acceptation, whatever is perceived by our senses. Thus the fall of a stone, the
evaporation of water, the folution of salt in water, a tlafh of lightning, and
fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to
different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of
the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c.
therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the
properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes,
and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a
lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is
derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or
behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos,
manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology,
and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature,
or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a
dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly
derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been
univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. “Phenomenon,”
whose plural is “phenomena”, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to
appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will
find in the courfe of this work, an account of the principal properties of
natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their
efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained
by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal
hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have
not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of
nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar
facts; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical
inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought
neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or
for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not
fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its
application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom,
will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes
place about us. The properties of the air we breathe; the action and power of
our limbs; the light, the found, and other perceptions of our fenfes; the
adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c.; the
viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io
forth; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in
general; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them.
A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be
fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural
philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft
of mankind. Their. difcoveries and improvements in aftronomy, optics,
navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which
depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with
innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have
extended their powers to a degree even beyond the expectations of our
predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes,
viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar
properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of
others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties
of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the
l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances
as may be called hypothetical; their exiftenee having not yet been
iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the
limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other
properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The
fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the
defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot
conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy,
or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are
fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a
few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or
nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or
reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety
of this axiom; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed
by the action of fire; alfo that water may be caufed to difappear by means of
evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the
lubftances are not annihilated; but they are only difperfed, or removed from
one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude
our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part
of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which
does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood.
Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in
general; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different
ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either
adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after
the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in
great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the
original piece of wood. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is
proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe
axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and
confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any
experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms
of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of
the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far
re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal
axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of
philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the
purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the
dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and
ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules
of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than
fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to
the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes.
III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and
which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments,
are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In
experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general
induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding
any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena
occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to
exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in
natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in
general be capable of luch abfolute certainty as the branches of
mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a
fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to
the mind; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in
natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have
been conflantly produced under certain circumftances; therefore they will moft
likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as
the lame circumftances exifl; and likewife that they do, in all probability,
depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \
as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed,
affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may
ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the
demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft
neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences
themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are
pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the
principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been
found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct
itfelf to certain parrs of the world; upon which property the mariner’s compafs
has been conftructed; and it has been likewife obferved, that this directive
property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the
interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any
other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous
bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows,
that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any
fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver
other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9
confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical
one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable; for though
all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been
found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle, yet
we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not.
hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this
obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm; my only objedt
being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be
annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience may become
neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to
the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy
of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of
mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry,
and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the
do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar
tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible; and that the
mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of
hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek
anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of
Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature. Mary
Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary
of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in
experiments with electricity on the dead Jamie Doward It is one of the most famous novels of all
time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost
as well known as its terrifying central character. Mary Shelley’s
Frankenstein: or the Modern Prometheus was published. It was the result of a challenge laid down by
Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow
poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland. The party had
hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the
greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of
bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they
huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should
write a horror story. For days Shelley suffered writer’s block until she
came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched
together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe
Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned
the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an
alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for
experimentation. But it now appears Shelley’s true source of inspiration
for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a
foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University
Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of
Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically
generated electricity – that sparked her imagination. Shelley. Shelley.
Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished
Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated
by science, in particular the creation of electricity. “He was very excited by
galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he
would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the
family sit around the dining room table holding hands, and he’d turn up with
some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.”
On one occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at
Oxford. Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She
corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that
the book was, contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is
by her and should be attributed to her.” Sent down from Oxford for
co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term
at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got
from talking to her husband about laboratories was that they were really filthy
places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction
when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white
coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein.
There was something really disreputable about medical science, which Mary
Shelley is fascinated in.” She would have been aware of notorious public
experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in
London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom
said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes.
A very Frankenstein moment.” At the time Mary was writing, the rights of
animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that
Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have
rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford
comparable rights to non-human sentient creatures?” Two centuries on, the
novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing
questions about matters such as artificial intelligence and genetic
modification. But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully
recognised. “Her reputation has been overtaken by the films, which have
oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the
sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of
the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s
intelligent and sentient. “People need to see this as a novel for today.
It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still
concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico,
filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.
Grice
e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is
presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with
food.
Grice
e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius
insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the
school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings
in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible
to a wide audience.
Grice e Cazzaniga:
l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated
once – BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity
is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of
the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and
latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies;
only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a
handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close
circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!”
-- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa
con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e
conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli,
Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità:
fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica
italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor”;
Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI);
Storia d'Italia. Annali: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia.
Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). C., “Massoneria e letteratura: Dalla
'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia,
ed. C. et al. (Milan: Unicopli), C., “Origine ed evoluzione dei rituali
carbonari italiani,” in C., La Massoneria, Chi anche in questa fine di
millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per
la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle -
soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità,
uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei
moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra,
C. ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago
multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però
la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non
solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione
spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali
in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini
Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i
mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e
un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi
intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet,
Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere
massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più
nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato
praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... -
risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e
chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido,
raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come C., il saggui
non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia
curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai
valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del
nostro mondo che già aveva indotto C. a esplorare "Fin'amors e cortezia
nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico".
Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di
Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle
esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto
dalla Rivoluzione Francese. C. stesso segnala il debito con i dioscuri
fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità
citando a conclusione del commento su Bonneville le parole che hanno costituito
l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social
indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e
le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi
moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale
dalle guerre di religione. Per molti cittadini della République des Lettres la
massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti,
terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e
luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla
nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea
e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue
radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico
recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di
costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella
situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da
questa prospettiva la ricerca di C. trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa
intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica,
identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del
mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla
convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio"
di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum
ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma
politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che
poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente
ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti
politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia
rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al
tempismo di C. è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente
non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine,
ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un
capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non
condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le
crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e
sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha
costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi
dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà
"un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx
non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta
all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale
non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno
dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità
progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente
naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli,
in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente
padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile
storico di questa religione riveli la
sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo
in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del
destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito
filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse
ancora imparare a cimentarsi. THE MASCULINE CROSS
t PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP A
DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF THE
ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE CROSS AN
ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, PHALLICISM, BACCHIC
FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON.
The present somewhat slight sketch of a most interesting subject, whilst
not claiming entire originality, yet embraces the cream, so to speak, of
various learned works of great cost, some of which being issuedfor
private circulation only, are almost unobtainable. During the
past few years several books have been written upon Phallicism in
conjunction with other kindred matters, but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery, the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of
the ancient world. Many of the topics have received only
slight treatment, being little more than indicated ; but the work will
enable the reader to understand and possess the truth concerning
the Phallic Worship of the Ancients. Those who desire to know
more, or to authenticate the statements and facts given in this book,
should consult the large and important works of Payne Knight, Higgins,
Dulaure, Kolle, Inman, and other writers. It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject, but the length of the list prevented its being
added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP Sex Worship
has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same
feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or
the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same—the veneration
of the generative principle. Thus we find a close relationship between
the various mythologies of the ancient nations, and by a comparison
of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring from the same
source, namely, the worship of the forces and operations of nature, the
original of which was doubt¬ less Sun worship. It is not necessary to
prove that in primitive times the Sun must have been worshipped
under various names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life,
and the Giver of Food. In the earliest times the worship of the
generative power was of the most simple and pure character, rude in
manner, primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme
power, the Author of life. Afterwards the worship became more
depraved, a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a
priesthood who were not slow to take advantage of this state of affairs,
and inculcated with it profligate and mysterious ceremonies, union of
gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was
not long before the emblems lost their pure and simple meaning and
became licentious statues and debased objects. Hence we have the
depraved ceremonies at the worship of Bacchus, who became, not only the
representative of the creative power, but the God of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries,
willing to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical
bliss, as was the case in India and Egypt, and among the Phoenicians,
Babylonians, Jews and other nations. Sex worship once
personified became the supreme and governing deity, enthroned as the
ruling God over all; dissent therefrom was impious and punished. The
priests of the worship compelled obedience; monarchs complied to
the prevailing faith and became willing devotees to the shrines of Isis
and Venus on the one hand, and of Bacchus and Priapus on the other, by
appealing to the most animating passion of nature. This is the
worship of the reproductive powers, the sexual appointments revered as
the emblems of the Creator. The one male, the active creative
power; the other the female or passive power ; ideas which were
represented by various emblems in different countries. These emblems
-were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people ; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the.present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the
priests and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on the
“ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,” the writer
traces the superstition westward, and gives an account of its prevalence
through¬ out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain have
been found numerous relics and remains; and many of our ancient customs
are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to Britain,” says
the writer, “ we find this worship established no less firmly and
extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery
covered with obscene pictures, are found wherever there are any extensive
remains of Roman occupation, as our antiquaries know well. The numerous
Phallic figures in bronze found in England are perfectly identical
in character with those that occur in France and Italy.” All
antiquaries of any experience know the great number of obscene subjects
which are met with among the fine red pottery which is termed Samian
ware, found so abundantly in all Roman sites in our island. “ They
represent erotic scenes, in every sense of the word, with figures of
Priapus and Phallic emblems.” The Phallus, or Lingam, which stood for the
image of the male organ, or emblem of creation, has been worshipped
from time immemorial. Payne Knight describes it as of the greatest
antiquity, and as having prevailed in Egypt and all over Asia.
The women of the former country carried in their re¬ ligious
processions, a movable Phallus of disproportionate magnitude, which
Deodorus Siculus informs us signified the generative attribute. It has
also been observed among the idols of the native Americans and
ancient Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus
alone, and changed the personified attribute into a distinct deity,
called Priapus. Phallus, or privy member (membrum virile),
signifies, “ he breaks through, or passes into.” This word survives
in German pfahl, and pole in English. Phallus is supposed Phallic Worship ii
to be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or phallo , “ to
brandish preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance and
meaning to Phallus, that one is quite likely to be parent of the other.
In Sanskrit it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “
to be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and is
also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then,
was the ancient emblem of creation: a divinity who was companion to
Bacchus. The Indian designation of this idol was Lingam, and
those who dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “ that they had in any
way departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” The Phallus and its emblems were representative of the
gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and Asher, who were
all Phallic deities. The symbols were used as signs of the great creative
energy or operating power of God from no sense of mere animal
appetite, but in the highest reverence. Payne Knight, describing
the emblems, says : Forms and ceremonials of a religion are not always to
be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered
as symbolical representations of some hidden meaning extremely wise and
just, though the symbols themselves, to those who know not their
true signification, may appear in the highest degree absurd and
extravagant. It has often happened that avarice and superstition have
continued these symbolical representations for ages after their original
meaning has been lost and forgotten; they must, of course, appear
nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant. Such is the
case with the rite now under consideration, than which nothing can be
more monstrous and indecent, if considered in its plain and obvious
meaning, or as part of the Christian worship ; but which will be found to
be a very natural symbol of a very natural and philosophical system
of religion, if considered according to its original use and
intention.” The natural emblems were those which from their
character were most suitable representatives; such as poles, pillars,
stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish divinities.
Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to be found at
Narmada and other places, which is sacred to the Hindu deity Siva; these
emblem stones were anointed, like the stone consecrated by the
Patriarch Jacob. Blavalsky further says that these stones are
“ identical in shape, meaning, and purpose with the * pillars ” set
up by the several patriarchs to mark their adoration of the Lord
God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even now be carried
in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew derivation
being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with the
serpent upon it, was a representative of its divine wisdom and symbol of
life. The serpent upon the tree is the same in character, both are representative
of the tree of life. The story of Moses will well illustrate this, when
he erected in the wilderness this effigy, which stood as a sign of
hope and life, as the cross is used by the Catholics of the present day ;
the cross then, as now, being simply an emblem of the Creator, used as a
token of resurrection or regeneration. iEsculapius, as the restorer of
health, has a rod or Phallus with a serpent entwined. The
Rev. M. Morris has shown that the raising of the May-pole is of Phallic
origin, the remains of a custom of India or Egypt, and is typical of the
fructifying powers of spring. The May festival was carried on
with great licentious¬ ness by the Romans, and was celebrated by nearly
all peoples as the month consecrated to Love. The May-day in
England was the scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to
the Roman Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a
relic of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England: “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer¬
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes; and in
the mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes and
branches of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest
jewell thei bryng from thence is their Maie pole, whiche thei bryng home
with great veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke
of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers placed on the tippe
of his homes, and these oxen drawe home this Maie pole (this stinckyng
idoll rather), which is covered all over with flowers and hearbes,
bound rounde aboute with strynges from the top to the bottome, and
sometyme painted with variable colours, with two or three hundred men,
women, and children, foliowyng it with great devotion. And thus beyng
reared up, with handekerchiefes and flagges streamyng on the top,
thei strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute it,
sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by it. And then fall thei
to banquet and feast, to leape and daunce aboute it, as the heathen
people did at the dedication of their idols, whereof this is a perfect
patterne, or rather the thyng itself.” The ceremony was almost identical
with the Roman festival, where the Phallus was introduced with
garlands. Both were attended with the same licentiousness, for
Stubbes gives a further account of the depravity attending the festivities. PILLARS Another
type of emblem was the stone pillar, remains of which still exist in the
British Isles. These pillars or so called crosses generally consist of a
shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are
very common, standing in the market and receiving the name of “ The
Cross.” These stone pillars were first erected in honour of
the Phallic deity, and on the introduction of Christianity were not
destroyed, but consecrated to the new faith, doubtless to honour the
prejudices of the people. These monolisks abound in the Highlands, they
are stones set up on end, some twenty-four or thirty feet high, others
higher or lower and this sometimes where no such stones are to be
quarried. We learn that the Bacchus of the Thebans was a
pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,
consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an account of this
practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as a custom for a
superstitious man, when he passed by these anointed stones in the streets
to take out a phial of oil and pour it upon them and having fallen
on his knees to make his adorations, and so depart. In various
parts of the Bible the Pillar is referred to as of a sacred character, as
in Isaiah xix. 19, 20, “In that day shall there be an altar to Jehovah in
the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border thereof to
Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the Lord.”
The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle of
the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of
Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who describes the
Towers as “ Temples constructed by the early Indian colonists of
the country in honour of the 'Fructifying principle of nature, emanating
as was supposed from the Sun, or the deity of desire instrumental in that
principle of universal generativeness diffused throughout all nature.”According
to the same author these towers were very ancient, and of Phoenician
origin, as similar towers have been found in Phoenicia. “ The Irish
themselves,” says O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the
tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the
priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superinendent of Baal tower.”
This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went, and was
represented by a pillar or stone or similar objects. The stone that
Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship, became
afterwards an object of worship to the Phoenicians. The earliest
navigators of the world were the Phoenicians, they founded colonies and
extended their commerce first to the isles of the Mediterranean, from
thence to Spain, and then to the British Isles. Historians have
accorded to them the settlements of the most remote localities. They
formed settlements in Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the
principal settle¬ ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s
testimony is, that the Phoenicians, even before Homer, had
possessed themselves of the best part of Spain. Where the
Phoenicians settled, there they introduced their religion, and it is in
these countries we find the remains of ancient stone and pillar worship. Loggin
stones are by Payne Knight considered as Phallic emblems. “ Their
remains,” he says, “ are still extant, and appear to have been composed
of a crone set into the ground, and another placed upon the point
of it and so nicely balanced that the wind could move it, though so
ponderous that no human force, unaided by machinery, can displace it;
whence they are called * logging rocks * and * pendre stones,’ as they
were anciently * living stones ’ and * stones of God,’ titles which
differ very little in meaning from that on the Tyrian coins. Damascius
saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in
Syria, particularly one which was then moved by the wind; and they
are equally found in the Western extremities of Europe and the Eastern
extremities of Asia, in Britain, and in China.” Bryant
mentions it as very usual among the Egyptians to place with much labour
one vast stone upon another for a religious memorial. Such
immense masses, being moved by causes seeming so inadequate, must
naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant
observers, and persuaded them that they were animated by an emanation of
the vital spirit, whence they were consulted as oracles, the
responses of which could always be easily obtained by interpreting the
different oscillatory movements into nods of approbation or
dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and
many other places, even in modern times. A physician, writing to Dr.
Inman, says : “ I was in Egypt last winter (1865-66), and there certainly
are numerous figures of gods and kings, on the walls of the temple at
Thebes, depicted with the male genital erect. The great temple at
Karnak is, in particular, full of such figures, and the temple of
Danclesa likewise, though that is of much later date, and built merely in
imitation of old Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs are pointed
out by Ezek. B 14. I remember one scene of a king (Rameses
II) returning in triumph with captives, many of whom were
undergoing the process of castration.” Obelisks were also
representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost
every nation. All have their Trinity in Unity, three in one, which can be
distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or triple, the
constitution of the three persons of most sacred Trinity forming the
Triune system. In the analysis of the subject by Rawlinson, we find
the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or
Hoa. Asshur, the supreme god of the Assyrians, represents the Phallus or
central organ or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu
was given to the right testis, while that of Hea designated the
left. It was only natural that Asshur being deified, his
appendages should be deified also. “ Beltus,” says Inman, “ was the
goddess associated with them, the four together made up Arba or Arba-il,
the four great gods,” the Trinity in Unity. The idea thus broached
receives great confirmation when we examine the particular stress
laid in ancient times respecting the right and left side of the body in
connection with the Triad names given to offspring mentioned in the
scriptures with the titles given to Anu and Hea. The male or active principle
was typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the
females or passive by the principles of “ water,” “ soft¬ ness,” and
other feminine principles. Thus the goddess Hea was associated with
water, and according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the Abyss, was
sometimes repre¬ sented to be the great Hea, without whom there was
no creation or life, and whose godhead embraced also the female
element water. Rawlinson also gives a similar conclusion, and
states as far as he could determine the third divinity or left side
was named Hea, and he considered this deity to correspond to Neptune.
Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the abyss, and king
of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach, mankind, in common
with all animal life, originally sprung from the sea ; so
physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the supreme god of
the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It
is remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which properly
should be called the symbol of symbols. One of the most remarkable of
these is a cross, in the form of the letter (T), which thus served as the
emblem of creation and generation before the Church adopted it as a sign
of salvation.” Another writer says, “ Reverse the position of
the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure of the
ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient Hebrews. It is one
of the oldest conventional forms of the cross. It is also met with in Gallic,
Oscan, Arcadian, Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic,
and Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the exact
prototype and image of the cross, or rather, to state the fact in order
of merit and time, the cross is made in the exact image of the Ethiopic *
tau.’ The fig-leaf, having three lobes to it, became a symbol of the
triad. As the male genital organs were held in early times to
exemplify the actual male creative power, various natural objects were
seized upon to express the theistic idea, and at the same time point to
those parts of the human form. Hence, a similitude was recognised in a
pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a club between
two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two ribbons with the
two ends pendant, a thumb and two fingers, the caduceus. Again, the
conspicuous part of the sacred triad Asshur is symbolised by a single
stone placed upright—the stump of a tree, a block, a tower, spire,
minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name
which seems designed to perpetuate the triad, since it signifies *
my Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ” We must not
omit to mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the
goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier; and
still further per¬ sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius,
Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,
Asher, and others. If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as
Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in his
day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says “
whoredom was committed with the images of men,” or, as the marginal note
has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this
god-mark —a cross in the form of the letter T—that Ezekiel was
directed to stamp the foreheads of the men of Judata who feared the Lord
(Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin
we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality—worship of the generative principle of man and nature, male
and female. The cross became the emblem of the male feature, under
the term of the triad —three in one. The female was the unit ; and,
joined to the male triad, con¬ stituted a sacred four. Rites and
adoration were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to
the two in one. So great was the veneration of the cross
among the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the
Egyptians as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa¬
tion of eternal life. Schedeus describes it as customary for the Druids “
to seek studiously for an oak tree, large and handsome, growing up with
two principal arms in the form of a cross , besides the main stem
upright. If the two horizontal arms are not sufficiently adapted to
the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they consecrate in
this manner: Upon the right branch they cut in the bark, in fair
characters, the word ‘ Hesus ’; upon the middle, or upright stem, the
word ‘ Taranius ’; upon the left branch ‘ Belenus ’; over this, above
the going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;
under all, the same repeated, Thau.” YONI There is in
Hindostan an emblem of great sanctity, which is known as the “
Linga-Yoni.” It consists of a simple pillar in the centre of a figure
resembling the outline of a conical ear-ring. It is expressive of the
female genital organ both in shape and idea. The Greek letter “ Delta
” is also expressive of it, signifying the door of a house.
Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means (1) the vulva,
(2) the womb, (3) the place of birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine,
a hole, or pit. As Asshur and Jupiter were the representatives of the
male potency, so Juno and Venus were representatives of the female
attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers
have generally spelled the word, * Yoni,’ which I prefer to write ‘
IOni.’ As Lingam was the vocalised cognomen of the male organ, or
deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight: “ The female
organs of generation were revered as symbols of the generative powers of
nature or of matter, as those of the male were of the generative powers
of God. They are usually represented emblematically by the shell
Concoa Veneris , which was therefore worn by devout persons of antiquity,
as it still continues to be by the pilgrims of many of the common people
of Italy ” (“ On the worship of Priapus,” p. 28). If Asshur,
the conspicuous feature of the male Creator, is supplied with types and
representative figures of himself, so the female feature is furnished
with substitutes and typical imagery of herself. One of these
is technically known as the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol.
The bars across the fenestrum, or opening, are bent so that they cannot
be taken out, and indicate that the door is closed. It signifies
that the mother is still virgo intacta —a truly immaculate female—if the
truth can be strained to so denominate a mother. The pure virginity of
the Celestial Mother was a tenet of faith for 2,000 years before the
accepted Virgin Mary now adored was born. We might infer that
Solomon was acquainted with the figure of the sistrum , when he said, “ A
garden enclosed is my spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song
of Sol. iv. 12). The sistrum, we are told, was only used in the
worship of Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a
contrite form, or boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in
the worship of Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own
significance. The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian
monuments, and yet more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or
the Lingam, we find Ab, the Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea,
Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun),
Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva,
Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,
tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ; while the
Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus, Diana, Artemis,
Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of
Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark, the ship,
the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,
and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian, and visited the
temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are two Phalli
standing in the porch with this inscription on them, “ These Phalli I,
Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The Papal religion
is essentially the feminine, and built on the ancient Chaldean basis. It
clings to the female element in the person of the Virgin Mary.
Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers, if
there be any meaning in a concrete name. Bear in mind, names and pictures
perpetuate the faith of many peoples. Neptoah is Hebrew for “ the vulva,”
and, A 1 or El being God, one of the unavoidable renderings of Naphtali
is “ the Yoni is my God,” or “ I worship the Celestial Virgin.” The
Philistine towns generally had names strongly connected with sexual
ideas. Ashdod, aisb or esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to
love,” “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the
heat of love,” or “ the fire which impels to union.” Could not those
people exclaim . Our “ God is love ” ? (i John iv. 8).
The amatory drift of Solomon’s song is undisguised. 26
Phallic Worship though the language is dressed in the
habiliments of seem¬ ing decency. The burden of thought of most of it
bears direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman say, “
He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 13). Again, of
the Phallus, or Linga, she says, “I will go up the palm-tree, I will take
hold of the boughs thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are
euphemisms of the male genitals. The nations surrounding the
Jews practising the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it
is not to be supposed that the Jews escaped their influence. It is
indeed certain that the worship of the Phallics was a great and important
part of the Hebrew worship. This will be the more plainly seen when
we bear in mind the importance given to circumcision as a covenant
between God and man. Another equally suggestive custom among the
Patriarchs was the act of taking the oath, or making a sacred promise,
which is commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says
: “ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age
was, that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidently arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe¬
mistic expression thigh, was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much
coveted by the ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges
vii. 30. Hence the creative organ became the symbol of the Creator, and
the object of worship among all nations of antiquity. It is for this
reason that God claimed it as a sign of the covenant between
himself and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing
therefore could render the oath more solemn in those days than touching
the symbol of creation, the sign of the covenant, and the source of that
issue who may at any future period avenge the breaking a compact made
with their progenitor.” From this we learn that Abraham, himself a
Chaldee, had reverence for the Phallus as an emblem of the Creator. We
also learn that the rite of circumcision touches Phallic or Lingasic
worship. From Herodotus we are informed that the Syrians learned
circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews. Says Dr. Inman: “I
do not know anything which illustrates the difference between ancient and
modern times more than the frequency with which circumcision is
spoken of in the sacred books, and the carefulness with which the subject
is avoided now.” The mutilation of male captives, as practised by
Saul and David, was another custom among the worshippers of Baal,
Asshur, and other Phallic deities. The practice was to debase the victims
and render them unfit to take part in the worship and mysteries. Some
idea can be formed of the esteem in which people in former times
cherished the male or Phallic emblems of creative power when we note the
sway that power exercised over them. If these organs were lost or
disabled, the unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of
the Lord, and disqualified to minister in the holy temples.
Excessive 28 Phallic Worship punishment
was inflicted upon the person who had the temerity to injure the sacred
structure. If a woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut
off without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in
the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and
prophetic books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in
pieces the brazen serpent that Moses had made, for unto those days
the children of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred
groves here alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr.
Smith describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is
the name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great
Monarchies of the Ancient World , describes Ashera to imply something
that stood straight up, and probably its essential element was the stem
of a tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree
of Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus,
sometimes erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and
Lingi. We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven
image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in
2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns
of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Greeks and
Romans, Phallic Worship 2 9 was
extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in his
name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected
an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived the temple itself,
for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he allowed the Ashera to
remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work
on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,
undoubtedly proves that during the monarchial period of Israel, the
sanguinary wars and violent conflicts between the two kingdoms of Judah
and Israel were between the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by
the priesthood at the chief places of worship, concerning the true
patriarch, and each party manufacturing and inserting legends to give a
more ancient and important part to its own faith. It is not
at all improbable that the conflict was between the two portions of the
Phallic faith, the Lingam and Yoni parties. The cause of this conflict
was the erection of the consecrated stones or pillars which were put
up by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar erected
by Jacob at Bethel was a pillar, for according to Bernstein the word
altar can only be used for the erection of a pillar. Jacob likewise set
up a Matzebah, or pillar of stone, in Gilead, and finally he set one up
upon the tomb of Rachel. A great portion of the facts have
been suppressed by the translators, who have given to the world
histories which have glossed over the ancient rites and practices
of the Jews. An instance is given by Forlong on the important
word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, “ It should not be, but I fear it is, necessary to
explain to mere English readers of the Old Testament that the Stone or
Rock Tsur was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,
that this would be clear to Christians were the Jewish writings
translated according to the first ideas of the people and Rock used as it
ought to be, instead of ‘ God,’ * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written
where Tsur occurs . Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s
worship of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations
are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars
were also used by the Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we
find Jacob setting up a pillar as a witness, that he would not pass over
it. Connected with this pillar worship is the ceremony of anointing
by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob at Bethel.
According to Sir W. Forbes, in his Oriental Memoirs, the “pouring of oil
upon a stone is practised at this day upon many a shapeless stone
throughout Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids
as practising the same rite, and describes many of the stones found
in England as having a cavity at the top made to receive the
offering. The worship of Baal like the worship of Priapus was attended
with prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work: “ The women of every rank and condition held it to be an
indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which,
whether little or much, was accepted, and applied to a sacred
purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of
the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once
seated must remain until she has been selected by a piece of silver being
cast into her lap, and the rite performed outside the temple.”
Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even in Palestine,
and were a feature of the worship of Baal Peor. The Hebrew prophets
described and denounced these excesses which had the same characteristics
as the rites of the Babylonian priesthood. The identical custom is
referred to in i Sam. ii. 22, where “ the sons of Eli lay with the women
that assembled at the door of the tabernacle of the congregation.”
Words and history corroborate each other, or are apt to do so if
contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh, designate in Hebrew “ a
consecrated one,” and history tells the unworthy tale in descriptive
plainness, as will be shown in the sequel. That the religion
was dominating and imperative is determined by Deut. xvii. 12, where
presumptuous refusal to listen to the priest was death to the
offender. To us it is inconceivable that the indulgence of passion
could be associated with religion, but so it was. Much as it is covered
over by altered words and substituted expressions in the Bible—an example
of which see men for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out
offensively bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬
crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially the same. They
indicate the passion of amatory devotion. It is among the Hindus of
to-day as it was in Greece and Italy of classic times ; and we find that
“ holy women ” is a title given to those who devote their bodies to be
used for hire, the price of which hire goes to the service of the
temple. As a general rule, we may assume that priests who
make or expound the laws, which they declare to be from God, are
men, and, consequently, through all time, have thought, and do think, of
the gratification of the masculine half of humanity. The ancient and
modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Idol , selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh per¬ forming a wild and enticing dance ; likewise we
have the leaping of the prophets of Baal. It is again
significant that a great proportion of Bible names relate to "
divine,” sexual, generative, or creative power; such as Alah, “ the
strong one ” ; Ariel, “ the strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ”
; Asher, “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah
” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is upright ” ; Ara, “ the
strong one,” “ the hero ” ; Aram, “ high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal
Shalisha, “ my Lord the trinity,” or “ my God is three ” ;
Ben-zohett, “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ;
Cainan, “ he stands upright
” ; these are only a few of the many names of a similar
signification. It will be seen, from what has been given, that the
Jews, like the Phoenicians (if they were not the same), had the
same ceremonies, rites, and gods as the surrounding nations, but enough
has been said to show that Phallic worship was much practised by the
Jews. It was very doubtful whether the Jehovah-worship was not of a
monotheistic character, but those who desire to have a further insight
into the mysteries of the wars between the tribes should consult
Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting chapter
is taken from a valuable book issued a few years ago anonymously :
“ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of the most
general type. Religious genius gave the female quality to the earth with
a special meaning. When once the idea obtained that our world was
feminine, it was easy to induce the faithful to believe that natural
chasms were typical of that part which characterises woman. As at
birth the new being emerges from the mother, so it was supposed that
emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are
still to be seen in those structures which are called Druidical, both
in the British Isles and in India. It is impossible to say when
these first arose; it is certain that they survive in India to this day.
We recognise the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i,
in the charge to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.”
We have also an indication that chasms were symbolical among the
same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked among the Jews were
described as “ inflaming themselves with idols under every green tree,
and slaying the children in the valleys under the clefts of the rocks.”
It is possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated
stone, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed
their hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh—that is
the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says: “ These stones
are so placed as to have a hole under them, through which devotees passed
for religious purposes. There is one of the same kind in Ireland,
called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham Crags there is
a place made for the devotees to pass through. We read in the accounts of
Hindostan that there is a very celebrated place in Upper India, to
which immense numbers of pilgrims go, to pass through a place in
the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of Bombay, at
Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there is a
natural crevice, which communicates with a cavity opening below. This
place is used by the Gentoos as a purification of their sins, which
they say is effected by their going in at the opening below, and emerging
at the cavity above—“ born again.” The ceremony is in such high repute in
the neighbouring countries that the famous Conajee Angria ventured
by stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform the
ceremony, and got off undiscovered. The early Christians gave them a bad
name, as if from envy; they called these holes “ Cunni Diaboli ” (
Anacalypsis , p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia
and Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names for the same
god, the festivals were celebrated at different times and in a somewhat
different manner. The Liberalia is celebrated on the 17th of March,
with the most licentious gaiety, when an image of a Phallus is carried
openly in triumph. These festivities are more particularly celebrated
among the rural or agricultural population, who, when the preparatory
labour of the agriculturist is over, celebrate with joyful activity
Nature’s reproductive powers, which in due time is to bring forth the
fruits. During the festival, a car containing a huge phallus is
drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs
and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest
matron suddenly lays aside her decency and runs screaming among the
woods and hills half-naked, with dishevelled hair, interwoven with which
were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts are celebrated in the
latter part of October when the harvest is completed. Wine and figs
are carried in the procession of the Bacchants, and lastly come the
Phalli, followed by honourable virgins, called canephora , who carry baskets
of fruit. These were followed by a company of men who carry poles, at
the end of which are figures representing the organ of generation.
The men sing the Phallica and are crowned with violets and ivy, and have their
faces covered with other kinds of herbs. These are followed by some
dressed in women’s apparel, striped with white, reaching to their ancles,
with garlands on their heads, and wreaths of flowers in their hands,
imitating by their gestures the state of inebriety. The priestesses run
in every direction shouting and screaming, each with a thyrsus in
their hands. Men and women all intermingle, dancing and frolicking
with suggestive gesticulations. Deodorus says the festivals are carried
into the night, and it is then frenzy reaches its height. Deodorus says,
“ In performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run
about frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then the
women in a body offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus
in song as if he were present, in imitation of the ancient Mamades, who
accompanied him.” These festivities are carried into the night, and as
the celebrators become heated with wine, they degenerate into
extreme licentiousness. Similar enthusiastic frenzy is
exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan
(under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his
Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the
streets, striking the women they met on the hands and belly, which is
held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing the
same ostentatious display as the Bacchants at the festival of
Bacchanalia. The festival of Venus is celebrated towards the
beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car, followed by
a procession of Roman women to the temple of Venus. Says a writer, “ The
loose women of the town and its neighbourhood, called together by the
sounding of horns, mix with the multitude in perfect nakedness, and
excite their passions with obscene motions and language until the
festival ends in a scene of mad revelry, in which all restraint is laid
aside.” It is said that these festivals take their rise from
Egypt, from whence they were brought into Greece by Metampus, where
the triumph of Osiris was celebrated with secret rites, and from thence
the Bacchanals drew their original; and from the feasts instituted by
Isis came the orgies of Bacchus. It seems not at all
improbable that the deities wor¬ shipped by the ancient Britons and the
Irish, were no other then the Phallic deities of the ancient Syrians
and Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius Periegites,
who lived in the time of Augustus Caesar, states that the rites of
Bacchus were celebrated in the British Isles ; while Strabo, who lived in
the time of Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier
writer described the worship of the Cabiri to have come
originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,
says, the supreme god above the rest was called Seodhoc and Baal. The
name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is the same
as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien, was the
chief deity of the Irish, in whose honour the round towers were
erected, which structures the ancient Irish themselves designated
Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be found a
mention of a similar pillar consecrated to Baa]. Many of the same customs
and superstitions that existed among the Druids and ancient Irish,
will likewise be found among the Israelites. On the first day of
May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise offering him
sacrifices. A similar account is given of a custom of the Druids by Toland,
in an account of the festival of the fires ; he says :—“ on May-day
eve the Druids made prodigious fires on these earns, which being
everyone in sight of some other, could not but afford a glorious show
over a whole nation.” These fires are said to be lit even to the present
day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called by them
Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as given them in the
Highlands of Scotland. A similar practice to this will be noticed
as mentioned in the II Book of Kings, where the Canaanites in their
worship of Baal, are said to have passed their children through the
fire of Baal, which seems to have been a common practice, as Ahaz, King
of Israel, is blamed for having done the same thing. Higgins in his
Anacalypsis, says this super¬ stitious custom still continues, and that
on “ particular days great fires are lighted, and the fathers taking
the children in their arms, jump or run through them, and thus pass
their children through them; they also light two fires at a little
distance from each other, and drive their cattle between them.” It will
be found on reference to Deuteronomy, that this very practice is
specially for¬ bidden. In the rites of Numa, we have also the
sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and
of India, accompanied with an establishment of nuns or vestal virgins. A
sacred fire is said to have been kept burning by the nuns of Kildare,
which was established by St. Bridget. This fire was never blown with
the mouth, that it might not be polluted, but only with bellows;
this fire was similar to that of the Jews, kept burning only with peeled
wood, and never blown with the mouth. Hyde describes a similar fire which
was kept burning in the same way by the ancient Persians, who kept
their sacred fire fed with a certain tree called Hawm Mogorum; and
Colonel Vallancey says the sacred fire of the Irish was fed with the wood
of the tree called Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at
Kildare, the glorious Bridget was rendered illustrious by many
miracles, amongst which was the sacred fire, which had been kept burning
by nuns ever since the time of the Virgin. The earliest
sacred places of the Jews were evidently sacred stones, or stone circles,
succeeded in time by temples. These early rude stones, emblems of
the Creator, were erected by the Israelites, which in no way
differed from the erections of the Gentiles. It will be found that the
Jews to commemorate a great victory, or to bear witness of the Lord, were
all signfied by stones : thus, Joshua erected a stone to bear witness ;
Jacob put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the same
for a place of worship; Samuel erected a stone as a boundary, which was
to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in
his travels names several that he saw in Palestine. It is curious
that where a pillar was erected there, sometime after, a temple was
put up in the same manner that the Round Towers of Ireland were,—always
near a church, but never formed part of it. We find many instances in the
Scriptures of the erection of a number of stones among the early
Israelites, which would lead us to conclude that it was not at all
unlikely that the early places of worship among them, were similar to the
temples found in various parts of Great Britain and Ireland. It is
written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in the morning, and
builded an altar under the hill, and twelve pillars, according to
the twelve tribes of Israel, were erected. It is also given out that when
the children of Israel should pass over the Jordan, unto the land which
the Lord giveth them, they should set up great stones, and plaster
them with plaster, and also the words of the law were to be written
thereon. In many other places stones were ordered to be set up in the
name of the Lord, and repeated instances are given that the stones should
be twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have
been erected in all countries of the world, and even in America, where,
among the early American races are to be found customs,
superstitions, and religious objects of veneration, similar to the
Phoenicians. An American writer says:—“ There is sufficient evidence that
the religious customs of the Mexicans, Peruvians and other American
races, are nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . .
. We moreover discover that many of their religious terms have,
etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of
Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was
simply a temple of the god Bacchus. Of all the nations of
antiquity the Persians were the most simple and direct in the worship of
the Creator. They were the puritans of the heathen world, and not
only rejected all images of God and his agents, but also temples and
altars, according to Herodotus, whose authority we prefer to any other,
because he had an opportunity of conversing with them before they
had adopted any foreign superstitions. As they worshipped the
ethereal fire without any medium of personification or allegory, they
thought it unworthy of the dignity of the god to be represented by any
definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was
his temple, and the all-pervading element of fire his only symbol. The
Greeks appear originally to have held similar opinions, for they were
long without statues and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built
by Adrastus—who lived in an age before the Trojan war— which
consisted of columns only, without wall or roof, like the Celtic temples
of our northern ancestors, or the Phyroetheia of the Persians, which were
circles of stones in the centre of which was kindled the sacred fire,
the symbol of the god. Homer frequently speaks of places of worship
consisting of an area and altar only, which were probably enclosures like
those of the Persians, with an 42 Phallic
Worship altar in the centre. The temples dedicated to the
creator Bacchus, which the Greek architects called kypcethral, seem
to have been anciently of this kind, whence probably came the title (“
surround with columns ”) attributed to that god in the Orphic litanies. The
remains of one of these are still extant at Puzznoli, near Naples, which
the inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments of
grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it to have been of
Bacchus. Serapis was indeed the same deity worshipped under another form,
being usually a personification of the sun. The architecture is of
the Roman times ; but the ground plan is probably that of a very
ancient one, which this was made to replace—for it exactly resembles that
of a Celtic temple in Zeeland, published in Stukeley’s Itinerary. The
ranges of square buildings which enclose it are not properly parts of
the temple, but apartments of the priests, places for victims and
sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬ ordinate deities,
introduced by a more complicated and corrupt worship and probably unknown
to the founder of the original edifice. The portico, which runs
parallel with these buildings, encloses the temenss , or area of
sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was circular, but
is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland, and the Indian
pagoda before described. In the centre was the holy of holies, the seat
of the god, consisting of a circle of columns raised upon a
basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been occasionally
floated with water; the drains and conduits being still to be seen, as
also several fragments of sculpture representing waves, serpents,
and various aquatic animals, which once adorned the basement. The
Bacchus here worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above
cited, the sun in his character of extinguisher of the fires which once
pervaded the earth. He is supposed to have done this by exhaling the
waters of the ocean and scattering them over the land, which was
thus supposed to have acquired its proper temperature and fertility. For
this reason the sacred fire, the essential image of the god, was
surrounded by the element which was principally employed in giving effect
to the beneficial exertions of the great attribute. From a
passage of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident
that Stonehenge and all the monu¬ ments of the same kind found in the
north, belong to the same religion which appears at some remote period
to have prevailed over the whole northern hemisphere. According to
that ancient historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul
, as large as Sicily , in which Apollo was worshipped in a circular
temple considerable for its si^e and riches. Apollo, we know, in the
language of the Greeks of that age, can mean no other than the sun,
which according to Caesar was worshipped by the Germans, when they knew
of no other deities except fire and the moon. The island can evidently be
no other than Britain, which at that time was only known to the Greeks by
the vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain and
obscure that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians,
doubts of its existence. The circular temple of the sun being noticed in
such slight and imperfect accounts, proves that it must have been
some¬ thing singular and important; for if it had been an
inconsiderable structure, it would not have been mentioned at all; and if
there had been many such in the country, the historian would not have
employed the singular number. Stonehenge has certainly been a
circular temple, nearly the same as that already described of the Bacchus
at. Puzznoli, except that in the latter the nice execution and
beautiful symmetry of the parts are in every respect the reverse of the
rude but majestic simplicity of the former. In the original design they
differ but in the form of the area. It may therefore be reasonably
supposed that we have still the ruins of the identical temple described
by Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have received his
information from Phoenician merchants, who had visited the interior parts
of Britain when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of
the same kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated
to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of
stone found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and
near Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name .—Pajne Knight’s Worship of
Priapus. Says Hyslop :—“ The hot cross-buns of Good
Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in the
Chaldean rites just as they do now. The buns known, too, by that
identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Boun’ Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says :—“ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual
organs, but that they were so in ancient limes we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated ; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)
says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses, they
offered cakes called mulloi, shaped like the female organ, and in some
temples where the priestesses were probably ventriloquists, they so far
imposed on the credulous multitude who came to adore the Vulva as
to make them believe that it spoke and gave oracles.” We can
understand how such things were allowed in licentious Rome, but we can
scarcely comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to
all innocent surprise we find they were, from the second part of
the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in
the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in the form of the
Phallus are made as offerings at Easter, carried and presented from house
to house. Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in
the town of Saintes, was called le fete des pinnes —feast of the privy
members—and that during its continuance the women and children carried in
the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne , at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at
Brives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne,
and other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The
ark of the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews,
and like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of
construction the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the
Egyptians were exactly alike, and were carried in processions in a
similar manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all tilings
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”
The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians were the
Phallus, the Egg, and the Serpent; the first representing the sun, fire,
and male or generative principle —the Creator; the second, the passive or
female, the germ of all animated things—the Preserver; and the last
the Destroyer: the Three of the sacred Trinity. The Hindu women,
according to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated symbol
of the generative attribute of the deity, in solemn procession between
two serpents; and in a sacred casket, which held the Egg and the
Phallus in the mystic processions of the Greeks, was also a
Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the
ancient religions.” It was often represented in the form of a boat, or
ship, as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with those of
Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or cavern,
held an important place in their mysteries. In the story of Osiris, like
that of the Siva, will be found the reason for the emblem being
carried in the sacred chest, and the explanation of one of 48
Phallic Worship the mysteries of the Egyptian priests. It
is said that Osiris was torn to pieces by the wicked Typhon, who
after cutting up the body, distributed the parts over the earth. Isis
recovered the scattered limbs, and brought them back to Egypt; but, being
unable to find the part which distinguished his sex, she had an image
made of wood, which was enshrined in an ark, and ordered to be
solemnly carried about in the festivals she had instituted in his honour,
and celebrated with certain secret rites. The Egg, which
accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This
egg was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law; we find too that the Jews were ordered to place in the ark
Aaron’s rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility :
showing that the ark was considered as the receptacle of the life
principle—as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During the passage they
poured drink offerings from the river, and when the ceremony had been
duly performed, they raised a shout that Osiris had again risen—that the
dead had been restored to life. After this followed the second or joyful
part of the mysteries. The s imila rity of this custom with the Good
Friday celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on account
of his resurrection on Easter Sunday, will be at once observed. It is
further said that the missing part of Osiris was eaten by a fish, which
made the fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good
Friday brought together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs
is very ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn,
which signified the liberating of imprisoned life at the opening or
spring of the year, which had been destroyed by Typhon. The opening
of the year at that time commenced in the spring, not according to our
present reckoning; thus, the Egg was a symbol of the resurrection of life
at the spring, or our Easter time. The author of the “ Worship of
the Generative Powers,” describes the origin of the hot cross¬ bun
at Easter, which is a further parallelism of the Christian and Pagan
festivals. The author also draws a further conclusion—that the cakes or
buns have in reality a Phallic origin, for in France and other parts, the
Easter cakes were called after the membrun virile. The writer says
:—“ In the primitive Teutonic mythology, there was a female deity named
in old German, Ostara, and in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we
know of her is the simple statement of our father of history, Bede,
that her festival was celebrated by the ancient Saxons in the month of
April, from which circumstance that month was named by the Anglo-Saxons,
Easter-mona or Eoster- mona, and that the name of the goddess had been
frequently given to the Paschal time, with which it was identical.
The name of this goddess was given to the same month by the old
Germans and by the Franks, so that she must have been one of the most
highly honoured of the Teutonic deities, and her festival must have been
a very important one and deeply implanted in the popular feelings, or
the Church would not have sought to identify it with one of the
greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans
considered this month as dedicated to Venus, no doubt because it was that
in which the productive powers of nature began to be visibly
developed. When the Pagan festival was adopted by the Church, it
became a moveable feast, instead of being fixed to the month of April.
Among other objects offered to the goddess at this time were cakes, made
no doubt of fine flour, but of their form we are ignorant. The
Christians when they seized upon the Easter festival, gave them the
form of a bun, which indeed was at that time the ordinary form of bread ;
and to protect themselves and those who ate them from any enchantment—or
other evil influences which might arise from their former heathen
character— they marked them with the Christian symbol—the cross.
Hence we derived the cakes we still eat at Easter under the name of hot
cross-buns, and the superstitious feelings attached to them; for
multitudes of people still believe that if they failed to eat a hot
cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all the rest of the
year.” The earliest capital seems to have been the bell or seed
vessel, simply copied without alteration, except a little expansion at
the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were then
added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit,
being fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo; its capital being the same seed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and dry—the only state probably in which it had
been seen in Europe. The flutes in the shaft were made to hold
spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ”
as part of a column. The triglyphs and blocks of the cornice were also
derived from utility, they having been intended to represent the projecting
ends of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic
capital has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which
have the same symbolical meaning. To them is frequently added the
ornament which architects call a honeysuckle, but which seems to be
meant for the young petals of the same flower viewed horixontally, before
they are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact, composed
of eggs and spear-heads, the symbols of female generation and male
destructive power, or in the language of mythology, of Venus and Mars
.—Payne Knight. Stripped, however, of all this splendour and magnificence
it was probably nothing more than a symbolical instrument, signifying
originally the motion of the elements, like the sistrum of Isis, the
cymbals of Cybele, the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to
have overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon
with her sistrum, and the ringing of the bells and clatter of metals were
almost universally employed as a means of consecration, and a charm
against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed the
new moon with such noises, which the simplicity of the early ages
employed almost everywhere to relieve her during eclipses, supposed then
to be morbid affections brought on by the influence of an adverse power.
The title Priapus , by which the generative attribute is distinguished,
seems to be merely a corruption of Brt'apuos (clamorous); the beta and pi
being commutable letters, and epithets of similar meaning, being
continually applied both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many
Priapic figures, too, still extant, have bells attached to them, as the
symbolical statues and temples of the Hindus are; and to wear them was a
part of the worship of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes
find them of extremely small size, evidently meant to be worn as
amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians
and also the high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to
their sacerdotal garments ; and the Brahmins still continue to ring a
small bell at the interval of their prayers, ablutions, and other acts
of devotion; which custom is still preserved in the Roman Catholic
Church at the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass
vessel or pan, on the death of their kings, and we still retain the
custom of tolling a bell on such occasions, though the reason of it
is not generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing. 1 It will be observed that the bells used by the
Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight’s “ Symbolical Language of ancient Art and
Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were
suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the
gods were invited to descend upon the altars by the ringing of bells ;
they were likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,
and were worn on the garments of the Bacchantes, much in the same manner
as they are used at our carnivals and masquerades.The following curious
fable is given by Sir William Jones, as one of the stories of the Hindus
for the origin of Phallic devotion:—“ Certain devotees in a remote time
had acquired great renown and respect, but the purity of the art
was wanting, nor did their motives and secret thoughts correspond with
their professions and exterior conduct. They affected poverty, but were
attached to the things of this world, and the princes and nobles were
constantly sending their offerings. They seemed to sequester them¬
selves from this world ; they lived retired from the towns ; but their
dwellings were commodious, and their women numerous and handsome. But
nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to
shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him; and assumed
the appearance of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a
damsel of matchless worth. She went before the devotees who were
assembled with their disciples, awaiting the rising of the sun, to
perform their ablutions and religious ceremonies. As she advanced
the refreshing breeze moved her flowing robe, showed the exquisite shape
which it seemed intended to conceal. With eyes cast down, though
sometimes opening with a timid but tender look, she approached them, and
with a low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.
The devotees gazed on her with astonishment. The sun appeared, but the
purifications were forgotten; the things of the Poojah (worship) lay
neglected; nor was any worship thought of but that of her. Quitting
the gravity of their manners, they gathered round her as flies
round the lamp at night—attracted by its splendour, but consumed by its
flame. They asked from whence she came; whither she was going. ‘ Be not
offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight; the vow was forgotten, and the policy of
years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions,
and absent from their homes, Sheevah entered their village with a
musical instrument in his hand, playing and singing like some of those
who solicit charity. At the sound of his voice, the women immediately
quitted their occupation; they ran to see from whom it came. He was as
beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their
jewels without turning to look for them ; others let fall their garments
without perceiving that they discovered those abodes of pleasure which
jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed
forward with their offerings, all wished to speak, all wished to be
taken notice of, and bringing flowers and scattering them before
him, said—‘ Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou
whose countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose! Stay with us and we will serve thee; not will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee.’ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the
desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep closed the eyes
and lulled the senses. In the morning the Pandaram was gone. When they
awoke they looked round with astonishment, and again cast their
eyes on the ground. Some directed to those who had formerly been remarked
for their scrupulous manners, but their faces were covered with their
veils. After sitting awhile in silence they arose and went back to
their houses, with slow and troubled steps. The devotees returned
about the same time from their wanderings after Prakeety. The days that
followed were days of embarrass¬ ment and shame. If the women had failed
in their modesty, the devotees had broken their vows. They were
vexed at their weakness, they were sorry for what they had done; yet the
tender sigh sometimes broke forth, and the eyes often turned to where the
men first saw the maid—the women, the Pandaram. “ But the
women began to perceive that what the devotees foretold came not to pass.
Their disciples, in consequence, neglected to attend them, and the
offerings from the princes and nobles became less frequent than before.
They then performed various penances; they sought for secret places among
the woods unfrequented by man; and having at last shut their eyes from
the things of this world, retired within themselves in deep
meditation, that Sheevah was the author of their misfortunes. Their
understanding being imperfect, instead of bowing the head with humility,
they were inflamed with anger; instead of contrition for their
hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new sacrifices and
incantations, which were only allowed to have effect in the end, to show
the extreme folly of man in not submitting to the will of heaven.
“ Their incantations produced a tiger, whose mouth was like a
cavern and his voice like thunder among the mountains. They sent him
against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the vale. He
smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow with
his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬ selves
frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another, and
sent serpents against him of the most deadly kind; but on approaching him
they became harmless, and he twisted them round his neck. They then
sent their curses and imprecations against him, but they all recoiled
upon themselves. Not yet disheartened by all these disappointments, they
collected all their prayers, their penances, their charities, and other
good works, the most acceptable sacrifices ; and demanding in
return only vengeance against Sheevah, they sent a fire to destroy his
genital parts. Sheevah, incensed at this attempt, turned the fire witti
indignation against the human race; and mankind would soon have
been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger, implored him
to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented ; but it was
ordained that in his temples those parts should be worshipped, which the
false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country
implies. Of the same kind, too, appears to have been the cross in the
form of the letter tau, attached to a circle, which many of the figures
of Egyptian deities, both male and female, carry in their left hand ; and
by the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,
representing the planet Venus, worshipped by them as the emblem or image
of that goddess. The cross in this form is sometimes observable on coins,
and several of them were found in a temple of Serapis, demolished at
the general destruction of those edifices by the Emperor
Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of that time to
signify the future life. In solemn sacrifices, all the Lapland idols were
marked with it from the blood of the victims ; and it occurs on many
Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of an age
long anterior to the approach of Christianity to those countries, and
probably to its appearance in the world. On some of the early coins of
the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads placed in a
circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. BEADS Beads were anciently used to reckon
time, and a circle, being a line without termination, was the natural
emblem of its perpetual continuity ; whence we often find circles
of beads upon the heads of deities, and enclosing the sacred symbols upon
coins and other monuments. Perforated beads are also frequently found in
tombs, both in the northern and southern parts of Europe and Asia,
whence are fragments of the chaplets of consecration buried with the
deceased. The simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of
sovereignty, had a similar meaning, and was originally confined to the
statues of deities and deified personages, as we find it upon the
most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in the “ Iliad,”
brings the diadem, or sacred fillet, of the god upon his sceptre, as the
most imposing and invocable emblem of sanctity ; but no mention is made
of its being worn by kings in either of the Homeric poems, nor of
any other ensign of temporal power and command, except the royal
staff or sceptre. THE LOTUS The double sex typified by
the Argha and its contents is by the Hindus represented by the “ Mymphoea
” or Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where the
whole plant signifies both the earth and the two principles of its
fecundation. The germ is both Meru and the Linga; the petals and
filaments are the mountains which encircle Meru, and are also a type of
the Yoni; the leaves of the calyx are the four vast regions to the
cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are the Dwipas or
isles round the land of Jambu. As this plant or lily was probably the
most celebrated of all the vegetable creation among the mystics of the
ancient world, and is to be found in thousands of the most beautiful
and sacred paintings of the Christians of this day—I detain my
reader with a few observations respecting it. This is the more necessary
as it appears that the priests have now lost the meaning of it; at least
this is the case with everyone of whom I have made enquiry ; but it is
like many other very odd things, probably understood in the
Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the
different plants which ornament our globe, there is not one which has
received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins's Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant grows
in the water, among its broad leaves puts forth a flower, in the centre
of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone,
and perforated on the top with little cavities or cells, in which the
seeds grow. The orifices of these cells being too small to let the
seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the
places where tney are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix
to nourish them, until they acquire such a degree of magnitude as to
burst it open and release themselves, after which, likfe other aquatic
weeds, they take root wherever the current deposits them. This
plant, therefore, being thus productive of itself, and vegetating from
its own matrix, without being fostered in the earth, was naturally
adopted as the symbol of the productive power of the waters, upon which
the active spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,
to matter. We accordingly find it employed in every part of the northern
hemisphere, where the symbolical religion, improperly called idolatry ,
does or ever did prevail. The sacred images of rhe Tartars, Japanese, and
Indians are almost placed upon it, of which numerous instances
occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India
is represented as sitting upon his Lotus throne, and the figure upon the
Isaaic table holds the stem of this plant surmounted by the seed vessel
in one hand, and the Cross representing the male organs of
generation in the other; thus signifying the universal power, both active
and passive, attributed to that goddess.” Nimrod says :—“ The Lotus
is a well-known allegory, of which the expansive calyx represents the ship
of the gods floating on the surface of the water ; and the erect
flower arising out of it, the mast thereof. The one was the galley or
cockboat, and the other the mast of cockayne ; but as the ship was Isis
or Magna Mater, the female principle, and the mast in it the male deity,
these parts of the flower came to have certain other significations,
which seem to have been as well known at Samosata as at Benares.
This plant was also used in the sacred offices of the Jewish religion. In
the ornaments of the temple of Solomon, the Lotus or lily is often
seen.” The figure of Isis is frequently represented holding
the stem of the plant in one hand, and the cross and circle in the
other. Columns and capitals resembling the plant are still existing among
the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of Pbilce. The Chinese
goddess, Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in
that country Lin, with many arms, having symbols signifying the various
operations of nature, while similar attributes are expressed in the
Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus is also a
prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant appears to
have the same tendency with the Sphinx, of marking the connection
between that which produces and that which is produced. The Egyptian
Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant is
acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients: We find Brahma emerging from the Lotus.
The whole universe was dark and covered with water. On this
primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose for the
space of one Calpho (a thousand years); after which period the intention
of creating other beings for his own wise purposes became pre¬
dominant in the mind of the Great Creator . In the first Phallic
Worship 63 place, by his sovereign will was produced
the flower of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought
to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma, emerging from
the cup of the Lotus, looked round on all the four sides, and beheld from
the eyes of his four heads an immeasurable expanse of water. Observing
the whole world thus involved in darkness and submerged in water,
he was stricken with prodigious amazement, and began to consider with
himself, £ Who is it that produced me ? ’ * whence came I ? ’ ‘ and where
am I ? * “ Brahma, thus kept two hundred years in contem¬
plation, prayers, and devotions, and having pondered in his mind that
without connection of male and female an abundant generation could not be
effected—again entered into profound meditation on the power of the
Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God, was produced
from his right side Swayambhuvah Menu , a man of perfect beauty; and from
the Brahma’s left side a woman named Satarupa. The prayer of Brahma
runs thus :—‘ O Bhagavat! since thou broughtest me from nonentity
into existence for a particular purpose, accomplish by thy benevolence
that purpose.’ In a short time a small white boar appeared, which
soon grew to the size of an elephant. He now felt God in all, and
that all is from Him, and all in Him. At length the power of the
Omnipotent had assumed the body of Vara. He began to use the instinct of
that animal. Having divided the water, he saw the earth a mighty
barren stratum. He then took up the mighty ponderous globe (freed
from the water) and spread the earth like a carpet on the face of the
water; Brahma, contemplating the whole earth, performed due reverence,
and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the first
land said to have appeared, but with the Brahmins it is a disputed point,
for many affirm that Cast or Benares was the sacred ground.
MERU The learned Higgins, an English judge, who for some
years spent ten hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of
Isaiah and Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the
Greeks. Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus,
which because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount
Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might be represented by
a bare head. The Bible translators perpetuate the same idea in the word “
calvaria.” Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its
name from its being the place of the crucifixion of Jesus. Looking
elsewhere and in earlier times for the bare calvaria, we find among
Oriental women, the Mount of Venus, mons veneris , through motives of
neatness or religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We
see Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a
priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave
the head. To make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of
Thibet, it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,
or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process of
the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a
volume describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than
Cleopatra’s Needle.” In one oi the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual
invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented
by female votaries, who take especial care to keep it clean washed,
and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst the
attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights and
bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into
which the light itself was placed. No symbol was more venerated or
more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says :—“ Women sought a remedy for
barren¬ ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they
appear to have placed a part of their body, naked, against the image of
the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold
an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or to be
practised openly ; but it appears to have been innocently represented
by lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,
understood to represent him without the presence of the energetic member.
In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in
France, there is a stone called the chair of St. Fiacre, which confers
fecundity upon women who sit upon it; but it is necessary nothing
should intervene between their bare skin and the stone. In the church of
Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the
same purpose and which had perhaps replaced some less equivocal
object.” The principal object of worship at Elora is the stone,
so frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he
apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an
emblem not generally known, but as frequently met with as the Cross in
Catholic worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative
character, the base of which is usually inserted in the Yoni. The
stone is of a conical shape, often black stone, covered with flowers (the
Bella and Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the
Ling stone to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the
same as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in
the worship at the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is
often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the
passive generative power was expressed in symbolical writing, by
different enigmatical representations of the most distinguished
characteristic of the female sex: such as the shell or Concha Veneris ,
the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta, all of which occur very
frequently upon coins and other ancient monuments in this sense. The
same attribute personified as the goddess of Love, or desire, is
usually represented under the voluptuous form of a beautiful woman,
frequently distinguished by one of these symbols, and called Venus,
Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology. She is said to
be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and
female personifications of the all-pervading Spirit of the Universe ;
Dione being the female Dis or Zeus, and there¬ fore associated with him
in the most ancient oraculai temple of Greece at Dodona. No other
genealogy appears to have been known in the Homeric times ; though
a different one is employed to account for the name of Aphrodite in
the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The Genelullides or Genoidai
were the original and appropriate ministers or companions of Venus, who
was however, afterwards attended by the Graces, the proper and
original attendants of Juno; but as both these goddesses were
occasionally united and represented in one image, the personifications of
their respective sub¬ ordinate attributes were on other occasions
added: whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a beard,
and other appearances of virility, which seems to have been the most
ancient mode of representing the celestial as distinguished from the
popular goddess of that name—the one being a personification of a
general procreative power, and the other only of animal desire or
concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when advanced to
maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them ; and, in a
celebrated work of Phidias, we find the former represented with her
foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,
the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an androgynous
animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ; and the goat
was equally appropriate to what was meant to be expressed in the
other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the Phallic
Worship 69 Phallus in the ancient processions in
honour of Bacchus, and still continuing among the common people of
Italy to be an emblem of what it anciently meant: whence we often
see portraits of persons of that country painted with it in one hand, to
signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also arose the
Italian expression far la fica , which was done by putting the thumb
between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna¬ ments extant; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit
still prevails among those nations whose religion is founded on the
same principles. “ The Siamese,” says a traveller of the
seventeenth century, “ shun disputes and believe that almost all
religions are good ” (“ Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador
of Louis XIV asked their king, in his master’s name, to embrace
Christianity, he replied, “ that it was strange that the king of
France should interest himself so much in an affair which concerns
only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave it wholly to
our discretion. Had it been agreeable to the Creator that all nations
should have had the same form of worship, would it not have been as easy
to His omnipotence to have created all men with the same sentiments and
dispositions, and to have inspired them with the same notions of the True
Religion, as to endow them with such different tempers and inclinations ?
Ought they not rather to believe that the true God has as much pleasure
in being honoured by a variety of forms and ceremonies, as in being
praised and glorified by a number of different creatures ? Or why should
that beauty and variety, so admirable in the natural order of things, be
less admirable or less worthy of the wisdom of God in the
supernatural ? ” The Hindus profess exactly the same opinion. “
They would readily admit the truth of the Gospel,” says a very
learned writer long resident among them, “ but they contend that it is
perfectly consistent with their Shastras. The Deity, they say, has appeared
innumerable times in many parts of this world and in all worlds, for the
salvation of his creatures ; and we adore, they say, the same God,
to whom our several worships, though different in form, are equally
acceptable if they be sincere in substance.” The Chinese sacrifice
to the spirits of the air the mountains and the rivers ; while the
Emperor himself sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom
all these spirits are subordinate, and from whom they are derived.
The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged this primitive elementary
worship with some of the allegorical fables of their neighbours ; but
still as their creed—like that of the Greeks and Romans—remains
undefined, it admits of no dogmatical theology, and of course no
persecution for opinion. Obscure and sanguinary rites have, indeed, been
wisely prescribed on many occasions ; but still as actions and not as
opinions. Atheism is said to have been punished with death at
Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted whether the
atheism, against which the citizens of that republic expressed such fury,
consisted in a denial of the existence of the gods ; for Diagoras, who
was obliged to fly for this crime, was accused of revealing and
calum¬ niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from the
opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe that his
offence was of the same kind, though he had not been initiated.
These were the only two martyrs to religion among the ancient
Greeks, such as were punished for actively violating or insulting the
Mysteries, the only part of their worship which seems to have possessed
any vitality; for as to the popular deities, they were publicly ridiculed
and censured with impunity by those who dared not utter a word
against the populace that worshipped them; and as to the forms and
ceremonies of devotion, they were held to be no otherwise important, then
as they were constituted a part of civil government of the state;
the Phythian priestess having pronounced from the tripod, that
whoever performed the rites of his religion according to the laws of his
country, performed them in a manner pleasing to the Deity. Hence the
Romans made no alterations in the religious institutions of any of the
conquered countries ; but allowed the inhabitants to be as absurd and
extravagant as they pleased, and to enforce their absurdities and
extravagances wherever they had any pre-existing laws in their favour. An
Egyptian magistrate would put one of his fellow-subjects to death for
killing a cat ora monkey; and though the religious fanaticism of
the Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely
free from restraint, a chief of the synagogue could order anyone of his
congregation to be whipped for neglecting or violating any part of the
Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of one
plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist of
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. “
Even they who worship other gods, says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know
it not ''— Payne Knight. Mario Cazzaniga. Gian Mario
Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria,
esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale,
conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.
Grice e Ceccato: l’implicatura
conversazionale del plusquamperfectum -- implicatura imperfetta -- il perfetto filosofo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano.
Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession
with geometrical conjunctions and my
favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also
philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to
give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the
‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see
it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised
on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological
findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of
happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how
not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised
on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to
be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the
perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver
proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello
sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e
perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente
"metodologia operativa" e in seguito "cibernetica".
Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica.
Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso
successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad
interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della
successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua
adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a
Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività
Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di
Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro
ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre"
di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si
crede Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso
nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come
filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con
la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions
Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano);
“Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti,
Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il
gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un
cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e
responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La
cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e
attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova,
Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE,
di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione
delle Attivita... L ' Anatomica methodus, di Laguna, Pisa, Giardini, C., comp: Corso di
linguistica operativa. A cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni
nel testo. Milano, Longanesi, lllus.
Language and Behavior was published in Italian translation, thanks to C. (cf.
Petrilli). C., padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava
mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “
intelligente ”, di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle
macchine. Studi in memoria di C. - Page 5books.google.com › books·
Translate this page · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio
Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i
giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli
alla figura di C.. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's
little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet
shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta
delle Macchine) This monograph presents a discussion of the problems
encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to
develop techniques to be used in... Foundations of Language, Page
171books.google.com › books 1965 · Snippet view FOUND INSIDE .. with his hand,
when he moves the pieces, he performs a manual, a physical activity.
Foundations of Language. The two types of activity can be distinguished in a
171 C.. I use an operational approach to mental activity based on C.. TECNICA
OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest approaches implemented on a
computer (University of Milan). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare
processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di C., di cui un primo
abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951.
Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the Italian pioneer in the
analysis of mental operations and construction, told me that once, after a
public discussion of his theory, he overheard a philosopher say: " If
Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group exploited
semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames,
and C.s approach also involved the use of world knowled. It is the
purpose of this paper to define and differentiate the various uses of the
imperfect indicative, to discover if possible their origin and trace
their interrelations, to outline in fact the history of the tense in
early Latin. The term ' early Latin is used somewhat elastically as
including not only all the remains of the language down to about the time
of Sulla, but also the first volume of inscriptions and the works of VARRONE,
for Varrone belongs distinctly to the older school of writers in
spite of the fact that the Rerum rusticarum libri were written as
late as 37 B. c. But exact chronological periods are of little
meaning in matters of this sort, and the present outline, being but a
fragment of a more complete history of the tense, may stop at this point
as well as another. Before proceeding to the investigation of the
cases of the imperfect occurring in early Latin it is necessary to
describe briefly the system by which these cases have been classified.
In the first place all cases of the same verb have been placed
together so that the individual verb forms the basis of classification. Then
verbs of similar meanings have been combined to form larger groups. There
result three main groups, and some subdivisions, which for the better
understanding of this may be
tabulated thus: Verbs of physical action or state. Motion of
the whole of a body, e. g. eo, curro. Action of a part of a body, e. g.
do, iacio.Verbal communication, e. g. dico, promilto. 4. Rest or
state, e. g. sum, sto, sedeo. Verbs of psychic action or state. Thought,
e. g. puto, scio, spcro. Feeling, e. g. metuo, atno. Will, e. g.
volo, nolo. Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. Auxiliary verbs, i. e. verbs
which represent such English words as could, should, might, &c,
&c, e. g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course, many
inconsistencies. The verb ago, for instance, may be a verb of action or
of verbal com- munication, but since instances of this sort are comparatively
rare and affected no important groups of verbs it has seemed best not to
separate cases of the same verb. Again I. 3 is logically a part of I. 2,
or the verbs grouped under III might perhaps have been distributed among
the different subdivisions of I and II. But the object of the
classification, to discover the function of each case, has seemed best
attained by grouping the verbs as described. By this system, verbs of
similar meaning, whose tenses are therefore similarly affected, are
brought together and this is the essential point. In a very large
collection of cases a stricter subdivision would doubtless prove of
advantage. There are about 1400 cases of the imperfect indicative in
the period covered by this investigation. Of these, however, it has
been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a
consideration of which the results have been obtained. The TENSE appears,
therefore, NOT TO HAVE BEEN A FAVOURITE,
and its comparative infrequency which I have noted already for Plauto and
Terenzio 3 may here be asserted for the whole period of early Latin.
About three-quarters of the total number of cases are supplied by Plauto,
Terenzio, and Varrone. A study of these 1226 cases reveals three general uses
of the imperfect indicative: the progressive or true imperfect; the
aoristic imperfect, and the shifted' mperfect. Let us consider these in
order. In the following pages I have made an effort to state and
illustrate the facts, reserving theory and discussion for the third
section of this paper. These are cases doubtful for one reason or another,
chiefly because of textual corruption or insufficient context. For the
latter reason perhaps too many cases have been excluded, but I have
chosen to err in this direction since so much of the material consists of
fragments where one cannot feel absolutely certain of the force of the
tense. The true imperfect shows several subdivisions: the simple
progressive imperfect, the imperfect of customary past action, and the
frequentative imperfect. Of these I A and I B include several more
or less distinct variations, but all three uses together with their
subdivisions betray their relationship by the fact that all possess or
are immediately derived from the progressive function. This progressive
idea, the indication of an act as progressing, going on, taking place, in
past time or the indication of a state as vivid, is the true ear-mark of
the tense. The time may be in the distant past or at any point between
that and the immediate past or it may even in many contexts extend into
the present. In duration the time may be so short as to be inappreciable
or it may extend over years. The time is, however, not a distinguishing
mark of the imperfect. The perfect may be described in the same
terms. The kind of action * remains, therefore, the real criterion
in the distinction * of the imperfect from other past tenses. I A.
The Simple Progressive Imperfect. Under this heading are included
all cases in which the tense indicates simple progressive action, i. e.
something in the 'doing', ' being ', 4 &c. The idea of progression is
present in all the cases, but there are in other respects considerable
differences according to which some distinct varieties may be noted. All
told there are 680 cases of this usage constituting more than half the
total. I I have chosen progressive as more expressive than durative
which seems to emphasize too much the time. 2 'Kind of
action' will translate the convenient German Aktionsart while ' time ' or
' period of time ' may stand for Zeitstufe. % Herbig in his very
interesting discussion, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. '896), comes to
the conclusion that 'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe ' and that
though many tenses are used timelessly none are used in living speech
without 'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present
participle (and in parti- cipial adjectives), and indeed the imperfect,
especially in subordinate clauses, is often interchangeable with a
participial expression, falling naturally into participial form in
English also. How close the effect of the imperfect was to that of the
present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4 nebat . .
. texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2 Of
these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In its ordinary
form this usage is so well understood that we may content ourselves with
a few illustrations extending over the different groups of verbs.
I.i. Verbs of motion. Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi animus frustra
me ire, quom exibam domo. 1 With the principles of formal
description as last and best expressed by Morris (On Principles and
Methods of Syntax) all syntacticians will, I believe, agree. Nearly all
of them will be found well illustrated in the present paper. For purposes
of tense study, however, I have been unable to see any essential
modification in function resulting from variation of person and number,
although some uses have become almost idiomatic in certain persons, e. g.
the immediate past usage with first person sing, of verbs of motion (p.
15). Just how far tense function is affected by the kind of sentence in
which the tense stands I am not prepared to say. In cases accompanied by
a negative or standing in an interrogative sentence the tense function is
more difficult to define than in simple affirmative sentences. It is
easier also to define the tense function in some forms of dependent
clauses, e. g. temporal, causal, than in others. This is an interesting
phenomenon, needing for its solution a larger and more varied collection
of cases than mine. At present I do not feel that the influence upon the
tense of any of these elements is definite enough to call for greater
complexity in the system of classification. While, therefore, I have
borne these points constantly in mind, the tables show the results rather
than the complete method of my work in this respect.In the citation of cases
the following editions are used: Fragments of the dramatists, O.
Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta (I & II), Lipsiae -8
(third edition). Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti comoediae
(editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti Afri comoediae, Lipsiae
Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, Turici.
Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae.
Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber, Lipsiae, and
H. Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae extant, Lipsiae
i860. Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad Herennium, C. L.
Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres, Lipsiae.
Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I. Ennius (the Annals),
L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli. Naevius (Bell,
poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli. Varro,
H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum libri tres, Lipsiae Varro, A.
Spengel, M. Terenti Varronis de lingua latina, Berolini Varro, BUcheler, M.
Terenti Varronis saturarum Menippearum reliquiae, Lipsiae. Id. Amph.
199, Nam quom pugnabant maxume, ego turn fugiebam maxume.
Lucilius, Sat.,l ibat forte aries' inquit; I. 2. Verbs of action.
Ex incertis incertorum fabulis (comoed. pall.) XXIV. R., sed sibi cum
tetulit coronam ob coligandas nuptias, T\b\ ferebat; cum simulabat se
sibi alacriter dare, Turn ad te ludibunda docte et delicate
detulit. Plautus, True. 198 atque opperimino : iam exibit, nam
lavabat. Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336 (temptabam),
Epid. 138 (mittebam); Terence, Andr. (dabam); Auctor ad Herenn. 4,
20, 27 (oppetebat). Verbal communication. Plautus, Men, Quin
modo Erupui, homines qui ferebant te. Apud hasce aedis. tu clamabas
deum fidem, Ex incert. incert. &c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes
saxo sternentem Hectora, Vidi tegentem clipeo classem Doricam
: Ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam. State.
Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes non erat. Id. Mil.
181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est? Pe. Quom exibam, hie
erat. Varro, R. R. III. 2. 2., ibi Appium Claudium augurem
sedentem invenimus . . . sedebat ad sinistram ei Cornelius
Merula . . . Cf. also Plautus, Rud. 846, (sedebanf), Amph. 603
(stabam) &c. &c. Verbs of thought.
Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent nesciebani, ilico
manserunt. Plautus, Pseud. 500-1, Non a me scibas pistrinum in
mundo tibi, Quom ea muss[c]itabas ? Ps. Scibam. Cf.
also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2. 25. (ignorabat),
&c. II. 2. Feeling. Plautus, Epid. 138, Desipiebam mentis,
quom ilia scripta mittebam tibi. Id. Bacch. 683, Bacchidem
atque hunc suspicabar propter crimen, Chrysale, II. 3.
Will. Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod
quis- que volebat: In these cases the act or state indicated by
the tense is always viewed as at some considerable distance in the past
even though in reality it may be distant by only a few seconds. The
speaker or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at
some distance and as confined within certain fairly definite limits in
the past. If, now, the action be conceived as extending to the im-
mediate past or the present of the speaker, a different effect is
produced, although merely the limits within which the action progresses
have been extended. This phase of the progressive imperfect we might term
the imperfect of the immediate past 1 or the interrupted 2 imperfect,
since the action of the verb is often interrupted either by
accomplishment or by some other event. A few citations will make these
points clearer: Plautus, Stich. 328, ego quid me velles
visebam. Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see
what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying (and still
pity) these women.' In the first verb the action is interrupted by the
meeting ; in the second it continues into the present, the closest
translation being our English compound pro- gressive perfect, a tense
which Latin lacked. The imperfect ibam is very common in this usage, cf.
Plautus, True. 921, At ego ad te ibam = l was on my way to see you (when
you called me), cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr. But
the usage is by no means confined to verbs of motion (I. 1) alone. It
extends over all the categories: I. 2. Motion. Plautus,
Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656. 1 In Greek the aorist is
used of events just past, but of course with no pro- gressive coloring,
cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E. Rodenbusch, De temporum usu
Plautino quaest. selectae, Argentorati 1888, pp. n-12, recognizes and
correctly explains this usage, adding some examples of similar thoughts
expressed by the present, e. g. Plautus, Men. 280 (quaeris), ibid. 675
(quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common leave-taking formula). In
such cases the speaker uses imperfect or present according as past or
present predominates in his mind, the balance between the two being
pretty even. Verbal communication. Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut.
781 (dicebam) ; Plautus, Trin. 212 (aibanf). I. 4.
Rest. Plautus, Cas. 532 (eratn), cf. Men. n 35. Terence, Eun.
87 (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar). II. 1. Thought. Terence,
Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309. Plautus, Men. 1072 (censebam), cf.
Bacch. 342, As. 385 &c. II. 2. Feeling. Plautus, Stich.
329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V R. (sperabam). II. 3.
Will. Plautus, As. 392 and 395 (volebatn), Most. 9, Poen.Auxiliary
verbs. Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph. 711. Terence,
Phor- mio 52 (conabar). In this usage the present or immediate past
is in the speaker's mind only less strongly than the point in the past at
which the verb's action begins. The pervading influence of the
present is evident not only because present events are usually at hand
in the context, but also from the occasional use with the imperfect
of a temporal particle or expression of the present, cf. Plaut. Merc.
884, Quo nunc ibas = ' whither were you (are you) going ? ' Terence,
Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis aerumnas meas, Haec
nuptiae non adparabanfur mihi, Rodenbusch labours hard to show that this
case is like the preceding and not parallel with the cases of volui which
he cites on p. 24 with all of which an infinitive of the verb in the main
clause is either expressed or to be supplied. Following Bothe, he alters
deicere to dice (which he assigns to Adelphasium) and refers quod to the
amabo and amflexabor of I230 = 'meine Absicht'. But there is no need of
this. Infinitives occur with some of the cases cited by Rodenbusch
himself on p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn . . .
fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas.
674 Dicere vilicum volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It
is true that the perfect is more common in such passages, but the
imperfect is by no means excluded. The difference is simply one of the
speaker's point of view: quod volui = ' what I wished * (complete) ; quod
valebant = ' what I was and am wishing ' (incomplete). As. 212, which
also troubles Rodenbusch, is customary past. Nee postulabat
nunc quisquam uxorem dare. Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse
in terra atque in tuto loco : Verum video. In the last two
cases note the accompanying presents, set's and video. The
immediate past also is indicated by a particle, e. g. Plautus, Cas. 594
ad te hercle ibam commodum. There are in all 207 l cases of this
imperfect of the immediate past. They are distributed pretty evenly over
the various groups of verbs as will be seen from the following
table: No. of Cases. I. I Verbs of motion,
26 I. 2 it " action, 17 I.
3 (i "verbal
communication, 31 I. 4
state, 35 II. 1 it " thought, 36 II. 2 " "
feeling, 35 II. 3 " " will, 13
Auxiliary verbs, The verbs proportionately most common in this use are
ibam and volebam which have become idiomatic. The usage is
especially common in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring outside
the dramatic literature represented chiefly, of course, by Plautus and
Terence. By virtue of its progressive force the imperfect is a
vivid tense and as is well known, became a favorite means in the
Ciceronian period of enlivening descriptive passages. It was especially
used to fill in the details and particulars of a picture (imperfect of
situa- tion). 8 This use of the tense appears in early Latin also, but
with much less frequency. The choice of the tense for this purpose
is a matter of art, whether conscious or unconscious. At times, indeed,
there is no apparent reason for the selection of an imper- fect rather
than a perfect except that the former is more graphic, 1 Somewhat less
than one-third of the total (680) progressive cases. 5 These cases
are Ennius, Ann. 204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L. L. 5. 9
(1 case), and Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2.
2 (2 cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these
are in passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially
those in auctor ad Herenn., in epistolary passages. 3 I use
this term for all phases of the tense used for graphic purposes. and if
it were possible to separate in every instance these cases from those in
which the imperfect may be said to have been required, we should have a
criterion by which we might dis- tinguish this use of the imperfect from
others. But since the progressive function of the tense is not altered,
such a distinction is not necessary. Statistics as to the
frequency of the imperfect of situation in early Latin are worth little
because the chief remains of the language of that period are the dramatists
in whom naturally the present is more important than the past. The
historians, to whom we should look for the best illustrations of this
usage, are for the most part preserved to us in brief fragments.
Nevertheless an examination of the comparatively few descriptive passages
in early Latin reveals several points of interest. In Plautus
and Terence the imperfect was not a favorite tense in descriptions.
Bacch. 258-307, a long descriptive passage of nearly 50 lines,
interrupted by unimportant questions, shows only 4 imperfects (1
aoristic) amid over 40 perfects, historical presents, &c. Capt.
497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show but one case each. Stich.
539-554 shows 5 cases of erat. In Epid. 207-253 there are 10 cases.
In the descriptive passages of Terence the imperfect is still far
from being a favorite tense, though relatively more common than in
Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11
imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut. 96-150 only
3. Another very instructive passage is the well-known
description by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between Manlius
and a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this passage
of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage
describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by Gellius
(IX, n) probably from the same Quadrigarius contains 8 imperfects in 24
lines. Since Gellius is obviously retelling the second story, the
presumption is that the passage in its original form was similar in the
matter of tenses to the passage about Manlius. In other words Gellius has
'edited' the story of Valerius, and one of his improvements consists in
enlivening the tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q.
Claudius primo annalium purissime atque illustrissime simplicique
et incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex
et incompta suavitas is due in large measure to the fact that Quadrigarius
has used the simple perfect (19 times), varying it with but few (4)
presents and imperfects (2). A closer com- parison of the passage with
the story of Valerius reveals the difference still more clearly.
Quadrigarius uses (not counting subordinate clauses) 19 perfects, 4
presents, 2 imperfects ; Gellius, 4 perfects, 9 presents, 8 imperfects.
In several instances the same act is expressed by each with a different
tense : Quadrigarius. Gellius. processit (bis), f
procedebat, \ progrediiur, constitit, c congrediuntur, consistent,
constituerunt, conserebantur manus, 8 perfects of acts in 5
imperfects of acts combat. of the corvus. Gellius has secured
greater vividness at the expense of simplicity and directness.
This choice of tenses was, as has been said, a matter of art,
whether conscious or unconscious. The earlier writers seem to have
preferred on the whole the barer, simpler perfect even in passages which
might seem to be especially adapted to the imperfect, historical present,
&c. The perfect, of course, always remained far the commoner tense in
narrative, and instances are not lacking in later times of passages 1 in
which there is a striking preponderance of perfects. Nevertheless the
imperfect, as the language developed, with the growth of the rhetorical
tendency and a consequent desire for variety in artistic prose and
poetry, seems to have come more and more into vogue. 2 The
fact that the function of a tense is often revealed, denned, and
strengthened by the presence in the context of particles of various
kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c, &c, 1
E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5. s The relative infrequency of
the tense in early Latin was pointed out on p. 164. Its growth as a help
in artistic prose is further proved by the fact that the fragments of the
later and more rhetorical annalists, e. g. Quadrigarius, Sisenna, Tubero,
show relatively many more cases than the earliest annalists. This is
probably not accident. When compared with the history of the same
phenomenon in Greek, where the imperfect, so common in Homer, gave way to
the aorist, this increase in use in Latin may be viewed as a revival of a
usage popular in Indo-European times. Cf. p. 185, n. 2. was pointed out in
Trans. Am. Philol. Ass. What was there 1 said of Plautus and Terence may here
be extended to the whole period of early Latin. The words and
phrases used in this way are chiefly temporal. Some of those occurring
most frequemly are: modo, commodum ; turn, tunc; simul; dudum, iam dudum;
iam, primo, primulum ; nunc; ilico; olim, quondam; semper, saepe; fere,
plerumque ; Ha, 2 &c, &c. A rough count shows in this class about
120 cases,' accompanied by one or more particles or expressions of this
sort. Some merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c.
Others, as saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with
the function. Naturally the effect of the latter group is clearest
in the imperfects of customary past action, the frequentative, &c,
and will be illustrated under those headings. Here I will notice only a
few cases with iam, primulum, &c, which illustrate very well how
close the relation between particle and tense may be. The most striking
cases are : Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem.
ilico Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men. 1
1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum. id. Merc. 197,
Equidem me iam censebam esse in terra atque in tuto loco : Verum
video . . . id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela mea,
Anus ei <quom> amplexast genua . . . id. Merc. 212, credet
hercle: nam credebat iam mihi. The unquestionably inceptive force
of these cases arises from the combination of tense and particle. No
inceptive* function can be proved for the tense alone, for I find no
cases with inceptive force unaccompanied by such a particle.
Cf. also Morris, Syntax, p. 83. 5 How far the nature of the
clause in which it stands may influence the choice of a tense is a
question needing investigation. That causal, explanatory, characterizing,
and other similar clauses very often seem to require an im- perfect is
beyond question, but the proportion of imperfects to other tenses in such
clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1. s No introductory
conjunctions are included in this total, nor are other particles
included, unless they are in immediate connection with the tense. 4
In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least
Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an error. The
inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is
very common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the
phenomenon discussed on p. 177. There are a few cases in which the
imperfect produces the same effect as the imperfect of the so-called
first periphrastic conjuga- tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro
moritur cognatus senex. Horunc: ea ad hos redibal lege
hereditas.=reditura erat, English ' was coming ', ' was about to revert
', cf. Greek pi\\a> with infinitive. Cf. Phorm. 929, Nam
non est aequum me propter vos decipi, Quom ego vostri honoris causa
repudium alterae Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat
&c. In these cases the really future event is conceived very
vividly as already being realized. Plautus, Amph. 597 seems
to have the effect of the English 'could': Neque . . . mihi
credebam primo mihimet Sosiae Donee Sosia . . . ille . . . But the
* could ' is probably inference from what is a very vivid statement. A
Roman would probably not have felt such a shading. 1 I B. The
Imperfect of Customary Past Action. The imperfect may indicate some
act or state at some appreci- able distance in the past as customary,
usual, habitual &c. The act or state must be at some appreciable
distance in the past (and is usually at a great distance) because this
function of the tense depends upon the contrast between past and present,
a contrast so important that in a large proportion of the cases it is
enforced by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived
as repeated at longer or shorter intervals, for an act does not
become customary until it has been repeated. This customary act usually
takes place also as a result or necessary concomitant of certain
conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores nosiri olim
&c, prepares us for a statement of what they used to do. The act may
indeed be conceived as occurring only as a result of a certain expressed
condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier quidquid dixerat, 1
Some of the grammars recognize ' could' as a translation, e. g., A. &
G. § 277 g- 8 E. g. turn, tunc, olim &c. with the
imperfect, and nunc &c. with the con- trasted present.
Idem ego dicebam = my words would be uttered only as a result
of hers. 1 There are 462 cases of the customary past usage of which
218 occur in independent sentences, 244 in dependent. This large
total, more than one-third of all the cases, is due to the character of
Varro's De lingua latina from which 289 cases come. This is veritably a '
customary past ' treatise, for it is for the most part a discussion of
the customs of the old Romans in matters pertaining to speech.
Accordingly nearly all the imperfects fall under this head. Plautus and
Terence furnish 112. The remaining 61 are pretty well scattered.
As illustrations of this usage I will cite (arranging the cases
according to the classes of verbs) : I. 1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu
in vigiliam quando ibat miles, quom tu Has simul, Conveniebatne in
vaginam tuam machaera militis ? Terence, Hec. 157, Ph. Quid ? interea
ibatne ad Bacchidem ? Pa. Cottidie. Varro, L. L. 5. 180, qui
iudicio vicerat, suum sacramentum e sacro auferebat, victi ad
aerarium redibat. I. 2. Plautus, Bacch. 429, Saliendo sese exercebant
magis quam scorto aut saviis. (cf. the whole passage). Hist,
fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius, patre libertino natus, scriptum
faciebat (occupation) isque in eo tempore aedili curuli apparebat, . .
. I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex semper maxumas Mihi agebal
quidquid feceram : Varro, L. L., 5. 121, Mensa vinaria rotunda
nominabalur Cili- bantum ut etiam nunc in castris. Cf. L. L. 7. 36,
appellabant, 5. 118, 5. 167 &c. 1 This usage seemed to me
formerly sufficiently distinct to deserve a special class and the name
'occasional', since it is occasioned by another act. It is at best,
however, only a sub-class of the customary past usage and in the present
paper I have not distinguished it in the tables. It is noteworthy that
the act is here at its minimum as regards repetition and that it may occur
in the immediate past, cf. Rud. 1226, whereas the customary past usage in
its pure form is never used of the immediate past. The usages may be
approxi- mately distinguished in English by 'used to', 'were in the habit
of &c. (pure customary past), and 'would' (occasional), although
'would' is often a good rendering of the pure customary past. Good cases
of the occasional usage are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ;
Terence, Hec. 804 ; Hist, fragg. p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4
cases). Plautus, Bacch. 421, Eadem ne erat haec disciplina tibi,
quom tu adulescens eras ? C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio
adsiduo florebat ad omnis. II. 1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23,
Maiores nostri si quam unius peccati mulierem damnabant, simplici iudicio
multorum rnaleficiorum convictam putabant. quo pacto ? quam
inpudicam iudicarant, ea venefici quoque damnata existutnabatur.
Cato, De ag., 1, amplissime laudari existimabatur qui ita lau-
dabatur. II. 2. Plautus, Epid. 135, Illam amabam olim: nunc tarn
alia cura impendet pectori. Varro, R. R. III. 17.8, etenim
hac incuria laborare aiebat M. Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod
aestivaria idonea non haberent. III. 3. Plautus, As. 212,
quod nolebant ac votueram, de industria Fugiebatis neque
conari id facere audebatis prius. Cf. the whole passage. Varro, L.
L. 5. 162, ubi quid conditum esse volebant, a celando Cellam
appellarunt. III. Terence, Phorm. 1 90, Tonstrina erat quaedam : hie
sole- bamusfere Plerumque earn opperiri, . . . Varro,
L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die sistere videbatur . . . The
influence of particles 2 and phrases in these cases is very marked. I
count about 1 10 cases, more than I of the total, with which one or more
particles appear. Those expressions which emphasize the contrast are most
common, e. g. turn, olim, me puero with the imperfect, and nunc, iam
&c. with the contrasted present. This class also affords
excellent illustrations of the reciprocal influence of verb-meaning' and
tense-function. In Varro there are 50 cases, out of 289, of verbs of
naming, calling, &c, which are by nature evidently adapted to the
expression of the customary past. Such are appellabam, nominabam,
vocabam, vocitabam, &c. But the most striking illustration is found
in verbs of customary action, e. g. soleo, adsuesco, consuesco, which by
their 1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 19. s
Note as illustrations the italicized particles in the citations, pp.
175-6. 3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with note.
meaning possess already the function supplied to other verbs by the tense
and context. When a verb of this class occurs in the imperfect of
customary past the function is enhanced. Naturally, however, these verbs
occur but rarely in the imperfect, for in any tense they express the
customary past function. It is interesting to note the struggle for
existence between various expressions of the same thought. A Roman
could express the customary past idea in several ways, of which the
most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an
infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these
possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There are
but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect
indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9 of them
are imperfects of customary past action. 1 One would expect to find in
common use the perfect of these verbs with an infinitive, but, although I
have no exact statistics on this point, a pretty careful lookout has
convinced me that such expressions are by no means common. 2 Periphrases
with mos, consuetudo, &c, are also rare. Comparing these facts with
the large number of cases in which the customary past function is
expressed by the imperfect, we must conclude that this was the favorite
mode of expression already firmly established in the earliest literature.
8 I C. The Frequentative Imperfect. In the proper
context 4 the imperfect may denote repeated or insistent action in the
past. Although resembling the imperfect of customary past action, in
which the act is also conceived as 1 Terence, Phorm. go; Varro,
R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor ad Herenn. 4. 54. 67 ;
Lucilius, IV. 2, &c. s A collection of perfects covering 18
plays of Plautus shows but 15 cases of solitus est, consuevit, &c. My
suspicion, based on Plautus and Terence, that these periphrases would
prove common has thus been proven groundless. 8 The variation
between imperfect and perfect is well illustrated by Varro, L. L. 5. 162,
ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique quos
obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even
in the perfect the customary past function. For the variation
between the customary past imperfect and the perfect of statement cf.
Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda
nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare
5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35
qua ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter
dictum. 4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated,
the frequentative usage differs in that there is no idea of habit or
custom, and the act is depicted as repeated at intervals close together
and without any conditioning circumstances or contrast with the present.
I find only 13 cases of this usage, 7 of which are syntactically
independent, 6 dependent. All occur in the first three classes of verbs.
The cases are : Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos,
quia non visitabam. Ibid. 432, id tibi suscensui, Quia
te negabas credere argentum mihi. Rud. 540, Tibi auscultavi : tu
promittebas mihi Mi esse quaestum maxumum meretricibus : Capt.
917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae modiales erant : Cocum
percontabatur, possentne seriae fervescere : As. 938, Dicebam, pater,
tibi ne matri consuleres male. Cf. Mil. Gl. 1410 (dicebaf).
True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum poscebat sibi
? Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione epistulas
Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas). Merc. 631, Promittebas te
os sublinere meo patri : ego me[t] credidi Homini docto rem
mandar<e>, . . . Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana,
repente recessit. Nee sese dedit in conspectum corde cupitus,
quamquam multa manus ad caeli caerula templa iendebam lacrumans et blanda
voce vocabam. Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita
per sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per militem
licebat expoliabaniur. This class is so small and many of the cases are
so close to the simple progressive and the imperfect of situation that it
is tempting to force the cases into those classes. 1 A careful con-
1 How close the frequentative notion may be to the imperfect of the
immediate past is well illustrated by As. 938 (cited above). In this case
we have virtually an imperfect of the immediate past in which, however,
the frequentative coloring predominates : dicebam means not ' I've been
telling ', but 'I've kept telling', &c. Cf. also Pseud. 422
(dissimulabam) for another case of the imperfect of the immediate past
which is close to the frequentative. In its pure form, however, the
frequentative imperfect does not hold in view the present. sideration
of each case has, however, convinced me that the frequentative function
is here clearly predominant. In Plautus, Pers. 20, E pid. 131, Capt.
917, it is impossible to say how much of the frequentative force is due
to the tense and how much to the form of the verbs themselves ; both are
factors in the effect. Verbs like mitto,promitio, voco, and even dico,
are also obviously adapted to the expression of the frequentative
function. It is noteworthy that in this usage a certain emphasis is
laid on the tense. In eight of the cases the verb occupies a very
em- phatic position, in verse often the first position in the line, cf.
the definition on p. 177. I D. The Conative Imperfect.
The imperfect may indicate action as attempted in the past. There
must be something in the context, usually the immediate context, to show
that the action of the verb is fruitless. There are no certain cases of
this usage in early Latin. I cite the only instances, four in number,
which may be interpreted as possibly conative : Plautus, As.
931, Arg. Ego dissuadebam, mater. Art. Bellum filium.
Id. Epid. 215, Turn meretricum numerus tantus quantum in urbe
omni fuit Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus
: Eos captabant. Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum
pluribus aliis ire celerius coepit. illi praeco faciebat
audientiam; hie subsellium, quod erat in foro, cake premens dextera
pedem defringit et . . . Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte
coepit hostibus castra simulare oppugnare, eum hostem delectare,
dum collega id caperet quod capiabat. But in the second
and fourth cases the verb capto itself means to 'strive to take', 'to
catch at' &c, and none of the conative force can with certainty be
ascribed to the tense. In the first case, again, the verb dissuadebam
means 'to advise against', not 'to succeed in advising against'
(dissuade). Argyrippus says : ' I've been advising against his course,
mother', not ' I've been trying, or I tried, to dissuade him'. The
imperfect is, therefore, of the common immediate past variety. 1
1 Cf. a few lines below (938) dicebam. In Auct. ad
Herenn., 4. 55. 68, the imperfect is part of the very vivid description
of the scene attending the death of Tiberius Gracchus. Indeed the whole
passage is an illustration of demon- stratio or vivid description which
the author has just defined. The acts of Gracchus and his followers are
balanced against those of the fanatical optimates under Scipio Nasica:
'While the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio
was arming himself &c. Though it may be true that the act indi-
cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems a remote
inference and one that cannot be proved from the context. If
my interpretation of these cases is correct, there are no certain 1
instances of the conative imperfect in early Latin. There is but
one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and one of temptabam (Plautus,
Mil. gl. 1336). Both of these belong to the immediate past class, the
conative idea being wholly in the verb. II. The Aoristic
Imperfect. The imperfect of certain verbs may indicate an act or
state as merely past without any idea of progression. In this usage
the kind of action reaches a vanishing point and only the temporal
element of the tense remains. The imperfect becomes a mere preterite, cf.
the Greek aorist and the Latin aoristic perfect. The verbs to which this
use of the imperfect is restricted are, in early Latin, two verbs of
saying, aio and dico, and the verb sum with its compounds.
There are 56 cases of the aoristic imperfect in early Latin (see
Table II), 48 of which occur in syntactically independent sen- tences.
Some citations follow: Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei
dixit contumelias. Adulterare eum aibat rebus ceteris. Id.
Most. 1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare : Ideo aedificare hoc
velle aiebat in tuis. Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi.
Id. Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere:
Ingenuas Carthagine aibat esse. 1 Faciebat audientiam seems a
technical expression, cf. lexicon. 2 The case cited by
Gildersleeve- Lodge, § 233, from Auct. ad Herenn., 2. I. 2, ostendebatur
seems to me a simple imperfect and there is nothing in the context to
prove a conative force, cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note
the parallel cases of dixit, cf. id. Trin. 1140, Men. 1 141 &c,
&c. I note but three cases of dicebam: Terence, Eun. 701,
Ph. Unde [igitur] fratrem meum esse scibas ? Do. Parmeno Dicebat eum
esse. Cf. Plautus, Epid. 598 for a perfect used like this. Varro,
R. R. II. 4. 11, In Hispania ulteriore in Lusitania [ulteriore] sus cum
esset occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax et multarum rerum
peritus in doctrina, dicebat L. Volumnio senatori missam esse offulam cum
duabus costis . . . Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos
sacrificanti tibi, Varro, ad tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas
ad extremum litus atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . .
In these cases the verb dico becomes as vague as is aio in the preceding
citations. Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua
mater fuit, Pater tuos is erat frater patruelis meus,
Et is me heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat
lanam nauta non erat. Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio
amator. Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi
non erat, Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium
viderit. 1 Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius
mulieris, Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat
domum. In such cases as the last the imperfect has become
formulaic, cf. quam maxime poter at, &c. 1 Rodenbusch,
pp. 8-10, after asserting that the imperfect of verbs of saying and the
like is used in narratio like the perfect (aorist), cites a number of
illustrations in which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But
a case in which the imperfect force may still be felt does not illustrate
the imperfect in simple past statements, if that is what is meant by
narratio. Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and
these are all cases of aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most.
1002). The same may be said of the citations on p. g, of which only Eun.
701 is aoristic. J. Schneider (De temporum apud priscos latinos usu
quaestiones selectae, program, Glatr, 1888) recognizes the aoristic use
of aibat, but his statement that the comic poets used perfect and
imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted Imperfect.
In a few cases the imperfect appears shifted from its function as a
tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present; or (2) an
imperfect or pluperfect subjunctive. The cases equivalent to a
present 1 are all in Varro, L. L., and are restricted to verbs of
obligation {oportebat, debebaf) : L. L. 8. 74, neque oportebat
consuetudinem notare alios dicere Bourn greges, alios Boverum, et signa
alios Iovum, alios Ioverum. Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis
formas ternas ut in hoc Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam
binas . . . ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam
multi- tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici
oportebat. Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non]
dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.* The
cases equivalent to the subjunctive are confined to sat &c. + erat (6
cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and sequebatur (1 case). As
illustrations may be cited : Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti
hercle : nam idem hoc homini- bus sat [a] era\ti\t decern.
Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo quod
esset satis, curarent poetae. = ' would have been,' cf. ibid. 4. 16. 23
(iniquom erat), Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = '
might be ' or ' might have been '. Id. Merc. 983 b, Vacuum
esse istac ted aetate his decebat noxiis. Eu. Itidem ut tempus anni,
aetate<m> aliam aliud factum condecet. Varro, L. L. 9. 23, si
enim usquequaque non esset analogia, turn sequebatur ut in verbis quoque
non esset, non, cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . .
This is a very odd case and I can find no parallel for it.* 1
Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present
of general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times
as equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit =
oportet). The perfect infinitive is equivalent to the present, e. g. in
8, §61 and §66 (debuisse . . . dici). The tenses are of very little
importance in such verbs. 8 Note the presents expressed in the
second and fourth citations. 3 The remaining cases are: Plautus,
True. 511 (poterai), id. Rud. 269 (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M.
(sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23 (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53
(quae separatim dictae infimae
erant). Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists
Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical
work are included in the historians. 'Including the epic fragments of
Ennius and Naevius. Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes
of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted.
Ind.Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep
.I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c. (tram
220) Psychical. Will Auxiliaries. american
journal of philology. Historical and Theoretical. The
original function of the imperfect seems to have been to indicate action
as progressing in the past, the simple progressive imperfect. This is
made probable, in the first place, by the fact that this usage is more
common than all others combined, including, as it does, 680 out of a
total of 1226 cases. This proportion is reduced, as we should remember,
by the peculiar character of the literature under examination, which
contains relatively so little narrative, and especially by the nature
of Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the
customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage itself, and
also the frequentative and the conative, are to be regarded as offshoots
of the progressive usage of which they still retain abundant traces, so
that if we include in our figures all the classes in which a trace of the
progressive function remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are
true imperfects (see table II). Another support for the view
that the progressive function is original may be drawn from the probable
derivation of the tense. Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect
from the infinitive in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of
progression was thus originally inherent in the ending -bam.
Let us now establish as far as possible the relations subsisting
between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D), turning our
attention first to the simple progressive (IA) and its variations.
The relation between the progressive imperfect in its pure form and
the usage which has been named the imperfect of the immediate past is not
far to seek. The progressive function remains essentially unchanged. The
only difference lies in the extension of the time up to the immediate
past (or present) in the case of the immediate past usage. The transition
between: ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when
l See p. 175. 2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 §
113, p. 376. Lindsay, Latin Lang., pp. 489-490, emphasizes the nominal
character of the first element in the compound, and suggests a possible
I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of Latin -bam, -ids, -bat. He
also compares very interestingly the formation of the imperfect in
Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin formation,
except that the ending comes from a different root. 3 Cf. Plautus,
Merc. I saw him at a more or less definite point in the
past) and ibat exulatum = ' he was going (has been going)
into exile' (but we have just met him) is plain enough. The
difference is one of context. In this imperfect of the immediate past the
Romans possessed a sub- stitute for our English compound perfect tense,
'have been doing ', &C 1 In the imperfect of situation
also the function of the tense is not altered. The tense is merely
applied in a different way, its progressive function adapted to vivid
description, and we have found it already in the earliest 2 literature
put to this use. In its extreme form it occurs in passages which would
seem to require nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must
guard against the view that the imperfect is a stronger tense than
the perfect; it is as strong, but in a different way, and while the
earlier writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect grew
gradually in favor until in the period marked by the highest development
of style the highest art consisted in a happy combination * of the
two. The imperfect of customary past action is, as we have
seen, already well established in the earliest literature. A glance
at Table I would seem to show that it grew to sudden prominence in
Varro, but the peculiar nature of Varro's work has already been pointed
out, so that the apparent discrepancy between the proportion of cases in
Varro and in Plautus and Terence, for instance, means little. It should
be remembered also that this discrepancy is still further increased by
the nature of the drama, whose action lies chiefly in the present. While,
therefore, in Plautus and Terence the proportion of customary pasts is i,
1 Latin also exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925,
te carens dum hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut
sis sciens. Cf. Schmalz in I. Mttller's Handb. s In the
Greek literature, which begins not only absolutely but relatively much
earlier than the Latin, the imperfect was used to narrate and describe,
and Brugmann, indeed, considers this a use which goes back to Indo-
European times. Later the imperfect was crowded out to a great extent by
the aorist, as in Latin by the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I.
Mailer's Handb. i The power of the perfect lies in its
simplicity, but when too much used this degenerates into monotony and
baldness. and in Varro f , the historians with J probably present a
juster average. The relation of this usage to the simple
progressive imperfect has already been pointed out, 1 but must be
repeated here for the sake of completeness. If we inject into a sentence
containing a simple progressive imperfect a strong temporal contrast, e.
g., if facit, sed non faciebat becomes nunc facit, olim autem non
faciebat, it is at once evident how the customary past usage has
developed. It has been grafted on the tense by the use of such particles
and phrases, expressions which were in early Latin still so necessary
that they were expressed in more than one-quarter of the cases ; or, in
other words, it is the outgrowth of certain oft-recurring contexts, and
is still largely dependent on the context for its full effect.
Transitional cases in which the temporal contrast is to be found, but no
customary past coloring, may be cited from Plautus, Rud., Dudum
dimidiam petebas partum. Tr. Immo etiam nunc peto. Here the action
expressed by petebas is too recent to acquire the customary past notion.
2 The progressive function caused the imperfect to lend itself more
naturally than other tenses 3 to the expression of this idea. 4
Although the customary past usage was well established in the
language at the period of the earliest literature, and we cannot actually
trace its inception and development, I am con- vinced that it was a
relatively late use of the tense by the mere fact that the language
possesses such verbs as soleo, consuesco, &c, and that even as late
as the period of early Latin the function seemed to need definition, cf.
the frequent use of particles, &c. The small number of cases
(13) which may be termed frequenta- tive indicates that this function is
at once rare and in its infancy in the period of early Latin. The
frequentative function is so closely related 5 to the progressive that it
is but a slight step from 1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men.
729. s How strong the effect of particles on other tenses may be is
to be seen in such cases as Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim
oderat, sectabat ultro ac detinet. 4 The process was
therefore analogous to that which can be actually traced in cases of the
frequentative and conative uses. 5 Terence, Adel. 332-3, affords a
good transitional case : iurabat . . . dicebat — (almost) ' kept swearing
' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47 n. 1. It should the latter to
the former. Latin 1 seems, however, to have been unwilling to take that
step. The vast number of frequentative, 2 desiderative and other
secondary endings also prove that the tense was not the favorite means
for the expression of the frequentative idea. Nevertheless since the
progressive and fre- quentative notions are so closely related and since
frequentative verbs must again and again have been used in the
imperfect subject to the influence of the progressive function of
particles such as saepe, etiam atgue etiam, and since finally a simple
verb must often have appeared in similar situations, e. g. poscebat
for poscitabat, the tense inevitably acquired at times the
frequentative function. We have here, therefore, an excellent
illustration of the process by which a secondary function may be grafted
on a tense and the frequentative function is dependent to a greater
degree than the customary past upon the influence and aid of the
context. That it is of later origin is proved by its far greater rarity
(see Table II). If the frequentative imperfect in early Latin
is still in its infancy, the conative usage is merely foreshadowed. The
fact that there are no certain instances proves that relatively too much
im- portance, at least for early Latin, has been assigned to the
conative imperfect by the grammars. Statistics would probably prove
it rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed
for the expression of the conative function. The most
powerful influence in moulding tense functions is context. 3 In the case
of the conative function this becomes all powerful for we must be able to
infer from the context that the act indicated by the tense has not been
accomplished. The also be pointed out that the frequentative
imperfect is very closely related to the imperfect of situation. To
conceive an act as frequentative necessarily implies a vivid picture of
it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to interpret as vivid
imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4; Plautus, True.
506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me that the
frequentative idea predominates. 1 In Greek, however, the imperfect
was commonly used with an idea of repetition in the proper context. This
use is correctly attributed by Brugmann (I. Milller's Handb. &c.) to
the similarity between the progressive and frequentative ideas as well as
to the fondness for description of a re- peated act. 5 Ace.
to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative
formations in Indo-European. 8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82,
&c. 1function thus rests upon inference from the context- The
presence in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that
the conative function, like the frequentative, was a secondary
growth grafted on the tense in similar fashion, but at a later period,
for we have no certain instances in early Latin. This function of
the imperfect certainly originates within the period of the written
language. The fact that the preponderance of the aoristic cases
occurs in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this
usage was rather colloquial. This is further supported by the fact
that the majority of the cases are instances of aibam, a colloquial
verb, and of eram which in popular language would naturally be con-
fused with/i«. In this usage, therefore, we have an instance of the
colloquial weakening of a function through excessive use in certain situations,
a phenomenon which is common in secondary formations, e. g. diminutives.
The aoristic function is not original, but originated in the progressive
usage and in that application of the progressive usage which is called
the imperfect of situation. Chosen originally for graphic effect the
tense was used in similar contexts so often that it lost all of this
force. All the cases of aibam, for instance, are accompanied by an
indirect discourse either expressed (38 cases) or understood (2
cases). The statement contained in the indirect discourse is the
important thing and aibam became a colorless introductory (or
inserted) formula losing all tense force. 1 If this was the case with the
verb which, in colloquial Latin at least, was preeminently the mark
of the indirect discourse it is natural that by analogy dicebam, when
similarly employed, should have followed suit. 2 With eram the
development was similar. The loss of true imperfect force, always weak in
such a verb, was undoubtedly due 1 Cf. Greek iXeys, tjv <5'
iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„ (graphic present).
Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183) denies that the Greek
imperfect ever in itself denotes completion, but he cites no cases of
verbs of saying. Although one might say that the tense does not denote
completion, yet if there was so little difference between imperfect and
aorist that in Homer metrical considerations (always a doubtful
explanation) decided between them (cf. Brugmann, ibid.), Brugmann seems
to go too far in dis- covering any imperfect force in his examples. The
two tenses were, in such cases, practical equivalents and both were
colorless pasts. 8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause for the
frequency of aibat in this use the impossibility of telling whether ait
was present or perfect. This seems improbable. to the vague
meaning of the verb itself. Indeed it seems probable that eram is thus
but repeating a process through which the lost imperfect of the root *fu}
must have passed. This lost imperfect was doubtless crowded out " by
the (originally) more vivid eram which in turn has in some instances lost
its force. If the aoristic usage is not original, but the product
of a collo- quial weakening, we should be able to point out some
transitional cases and I believe that I can cite several of this
character: Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn
videret . . .? Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn conspiceret
pater? Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti, quia
tuam gnatam es ratus ? Quibus de signis agnoscebas? Pe.
Nullis. Phi. Quarefiliam Credidisti nostram ?* In these
cases the tense is apparently used for vivid effect (im- perfect of
situation), but it is evident that the progressive function is strained
and that if these same verbs were used constantly in such connections,
all real imperfect force would in time be lost. This is exactly what has
occurred with aibam, dicebam, and eram. The progressive function if
employed in this violent fashion simply to give color to a statement,
when the verbs themselves {aibam, dicebam) do not contain the statement
or are vague (eram), must eventually become worn out just as the
diminutive meaning has been worn out of many diminutive endings.
In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper
sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense stripped of its
main characteristic, the progressive function, though still in possession
of its temporal element as a tense of the past, in the shifted cases both
progressive function and past time (in some instances) are taken from the
tense. In those cases where the temporal element is not absolutely taken
away it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently due
in the first place to the contrary-to-fact idea which is present in the
context of each case, and secondly to the meaning of some of the verbs
involved. In many of the cases these two reasons 1 There was no
present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf. Lindsay, Lat.
Lang., p. 490. 'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu
</«- in fui &c., then the fact that it was assuming a new function
in composition would help to drive it out of use as an independent form,
eram (originally *isom) taking its place. 3 Cf. Terence, Phorm.;
Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339. are merged into one,
for the verbs themselves imply a contrary- to-fact notion, e. g. debebat,
oportebat, poterat (the last when representing the English might, could,
&c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies
that the Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911
Bonus vaies poteras esse implies that the person addressed is not a
bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of their chief
function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb- meaning coincides
very closely with mode, just as in soleo, conor, &c, verb-meaning
coincides closely with tense. The modal idea is all important, all other
elements sink into insignificance, and the force of the tense naturally
becomes elusive. 2 Let us summarize the probable history of the
imperfect in early Latin. The simple, progressive imperfect represents
the earliest, probably the original, usage. Of the variations of
this simple usage the imperfect of the immediate past and the im-
perfect of situation are most closely related to the parent use. Both of
these are early variants, the latter probably Indo- European, 3 and both
may be termed rather applications of the progressive function than
distinct uses, since the essence of the tense remains unchanged, the
immediate past usage arising from a widening of the temporal element, the
imperfect of situation from a wider application of the progressive
quality. Later than these two variants, but perhaps still pre-literary,
arose the custom- ary past usage, the first of the wider variations from
the simple progressive. This was due to the application of the tense
to customary past actions, aided by the contrast between past and
present. Later still and practically within the period of the earliest
literature was developed the frequentative usage, due chiefly to the
close resemblance between the progressive and frequentative ideas and the
consequent transfer of the frequentative function to the tense. Finally
appears the conative use, only foreshadowed in early Latin, its real
growth falling, so far as the remains of the language permit us to infer,
well within the 1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.
8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought
from a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler,
Uebergang zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he
also con- siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar
meaning of the verbs themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts,
§ 3. »Cf. note. Ciceronian period. In all these uses
the progressive function is more or less clearly felt, and all alike
require the influence of context to bring out clearly the additional
notion connected with the tense. The first real alteration in
the essence of the tense appears in the aoristic usage in which the tense
lost its progressive function and became a simple preterite. This usage,
due to colloquial weakening, is confined in early Latin to three verbs,
aidant, dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-
literary in fact, but later than the imperfect of situation, from which
it seems to have arisen. A still greater loss of the essential features
of the tense is to be seen in the shifted cases in which the temporal
element, as well as the progressive, has become insignificant. This
complete wrenching of the tense from its proper sphere is confined to a
limited number of verbs and some phrases with eram, and is due to the
influence of the pervading contrary-to-fact coloring often in combination
with the meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur
lateinischen Syntax, I. Teil, Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted
considerable space to my article, "The Imperfect Indicative in Early
Latin" (American Journal of Philology). Since Blase professes
to present the substance of my article, except to the 'relatively few'
German scholars who have access to the American periodical, and since he
makes a number of errors in mere citation and statement, it becomes
necessary for me in self-defense to make some corrections. 1 But apart
from these errors of detail, which will be pointed out at the proper
places, Blase disagrees with some of the more important conclusions of my
paper and it is with the purpose of elucidating these views in the light
of his criticism and contributing something more, if possible, to a
better understanding of the problem that I offer the present
discussion. The functions of the imperfect indicative in early
Latin may be summarized as follows: I. The Progressive 2 or
True Imperfect, comprising several types or varieties: A.
Simple Progressive. 1. dicebat = il he was saying."
1 That such corrections are justifiable is proved by the fact that K.
Wimmerer, who knows my article only through Blase's presentation,
reproduces several of Blase's in- correct statements. I regret the
unavoidable delay in the publication of this paper the less because it
has enabled me to use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im
Hauptsatze irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four
pages of his article are devoted to a general discussion of Blase's
critique of my views. 2 In this paper technical terms will be used
as follows : progressive = German vor sich gehendes (less exactly
fortechreitendes) ; continuative or durative = wiaftrendes; nature or
kind of action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive=
schilderndes; reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation
(relative, etc.)= Beziehung, etc. Other terms are, it is hoped,
intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The
nature of the action may be either progressive 1 or con- tinuative
(durative). The time is past, but the period covered by the action of the
tense may vary with the circumstances described from an instantaneous
point to any required length. The time is contemporaneous with, usually
more extensive than, the time of some other act or state expressed or
implied. When the tense- action is continuative and extends into the
immediate past or, by inference, the present of the speaker, I would
distinguish a sub-class : a) The Imperfect of the Immediate
Past: dicebat—"he was saying" or "he's been
saying." The action may or may not be interrupted by something in
the context. If interrupted, it ends sharply and we may term the
tense the "interrupted" type of this immediate past. 2.
The Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in description)
. dicebat="he was saying" (in English often rendered
by "said"). This is in its purest form a simple
progressive imperfect employed in the vivid presentation of past actions
or states. 3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used
in reminiscence). dicebat=^ u he was saying" (as I
remember, or as you will remember). In this usage the
imperfect is a simple progressive implying an appeal to the recollection
of the speaker or hearer. B. Customary Past Type.
dicebat="he used to say, would say, was in the habit of
saying, etc." The nature of the action is the same as in A
except that with the aid of the context there is an implication that the
act or state recurred on more than one (usually many) occasions.
These recurrences are usually at some considerable distance in the
past and contrasted with the present, but cases of the immediate
past usage (Ala)) with customary coloring occur. i Hoffmann
Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the
im- perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der
Phase ihres Vollzuges, ein Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein
Vergangenes Sein noch wahrend seines Bestehens." Impebfect
Indicative in Eably Latin 359 C. The Frequentative or Iterative
Type. dicebat = "he kept saying" (at intervals very close
together). This type is like B, except that it has no customary element
and the repetitions refer to one situation within comparatively
narrow limits of time. The link connecting all these
varieties with one another is the progressive function. 1 II.
The Aoristic Imperfect. aibat = "he said" (equivalent to
dixit, aoristic perfect). The time is still past, but the progressive
force is lost. III. The Shifted Imperfect. debebat = "he
ought" (now). The time is shifted to the present and the
progressive force is very much weakened, in some cases wholly lost,
because of the auxiliary character of the verbs involved. For
a more detailed treatment of the foregoing classes (except the imperfect
in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select
certain points for discussion by way of elucidation and supplement to what
was said there. the impebfect of the immediate past
The simplest progressive usage is well enough understood, but the
usage termed by me the imperfect of the immediate past or interrupted
imperfect 2 calls for some remarks. As a type of this imperfect in its
interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam ego ibam ad te. — et hercle
ego istuc ad te. Here the action is con- ceived as continuing until
interrupted by the meeting of the speak- ers. The fact of the
interruption does not, of course, inhere in the tense but is inferred
from the context. Indeed, the interruption may not occur at all, as will
be seen by comparing the second type, e. g., Stick. 328 f. : ego quid me
velles visebam. nam mequidem harum miserebat. Here visebam is interrupted
like ibam above, 1 The nature of the action seems to me the most
distinctive feature of the tenses. In this I differ radically from Cauer,
who considers contemporaneousness the essential feature of the imperfect,
cf. Grammatical militans, against Methner, whose Untersuchungen zur lat.
Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen. 2 B.
Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the fact that this
imperfect of the immediate past in its interrupted form is still common in
Italian. 360 Arthur Leslie Wheeler but the
action of miserebat is conceived as continuing not only up to the
immediate past, but into and in the present of the speaker. But again
this continuance in the present is not inherent in the tense; it is
inferred from the context. The nature of the action is in both these
types still progressive, or more exactly, continua- tive, but temporally
stress is laid on that period of time immediately preceding or even
extending into the present. 1 In this usage the Romans possessed a
somewhat inexact sub- stitute for the English progressive perfect
definite, e. g., mequidem . . . . harumnusere6a/ = (practically)
"I've been pitying,"a form which, like the Latin, may be used
in the proper context to indi- cate that the pity still continues in the
present. 2 On the other hand, the English "I was pitying,"
superficially a more exact rendering, does not so clearly indicate this
continuance in the present, though "I was going to your house,
etc." is an exact rendering of Cas. 178. Blase himself
has collected some exactly similar cases, 3 of which he says:
Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die zwar
in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie- hung
auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae- ritas?
Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist es nur in
Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende Zeit bis zur
Ankunft vor dem Hause gebraucht. 'Blase {Kritik, p. 6)
misrepresents my statement concerning this usage. He cites from my paper
Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro- gressive
use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was
used as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes
me as believing that in the immediate past usage the action takes place
within exactly defined limits ("genau bestimmten Granzen").
Here is atwofold error. My statement (Am. Jour. Phil.) is "fairly
definite limits" and refers to the simple progressive usage, not to
the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.
2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express
these shades of thought with greater exactness, e. g., by the combination
of a present participle with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc
te carens dum hie fui sustentabam. Here carens .... fui is exactly
equivalent to the English "I've been lacking," whereas
sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But
Latin did not develop such expressions as carens .... fui into real
tenses, and remained content with the less exact imperfect, cf . also iam
diu, etc., with the present. See Am. Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase
Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of such cases would be
interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 : sum
indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.
"Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book
had not reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was
written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361 With the
first part of this statement I fully agree, but is it true that in As.
395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die Vergangenheit,
etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort," then
we are forced to say that the imperfect is used not merely with reference
to the past, but with reference to the present. The speaker really has in
mind both past and present, and uses the imperfect to express this double
temporal sense, the action continuing from the past into the present, because
at the moment of speaking the past is somewhat more prominent. The tense
is, therefore, as explained above, only an approximate expression
of the thought. Had the present been more prominent, other elements being
equal, some expression like iam diu volo would have been
employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the
speaker has in mind both beginning and end of the action is not
capable of proof. It is true, I think, that the speaker has usually
no definite point in mind at which the action began. He simply
indicates the action as beginning somewhere in the past and con- tinuing
in the present. But in the very numerous "interrupted" cases he
has in mind a sharply defined end of the action. Blase's criticism seems
justified, then, only with reference to those cases of which Stich. 328,
.... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage
under no less than three different heads in his Tempora und Modi. In
addition to the case cited above, As. 392 volebam, which he interprets,
as I have tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed
'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc.
884; quo nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam. 2 B.
Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta- tierung
eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect,
"fiir einen glucklichen Gedanken," though he would not make a
special type of this use. It seems to me so common (about 200 cases) as
to deserve the degree of special notice which I have given it (Am. Jour.
Phil He adds in a note: "Hier tut Blase m. E. Wheeler einigermassen
unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der Sprecher in diesen Fallen
Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich nennt. Wheeler
kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken handelt,
der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn
konstatiert," pointing out also that Blase would be justified only
in criticizing the form of my ex- pression so far as I wished to apply it
to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases where there is
no interruption?). 362 Arthur Leslie Wheeler
aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc.
885: quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of
the tense is essentially the same in all these cases, the only
variant being the presence or absence of interruption which is inferred
in all cases from the context. Since Blase classifies so many
of these cases under the head of the conative imperfect, a consideration
of that usage seems here in place. A "conative"
imperfect ought to mean an imperfect which expresses attempted action,
but since there is no trace, at least in early Latin (cf. Am. Jour. Phil.
XXIV, pp. 179, 180), of such a function, the term is a bad one. 2 Why then
retain it, as Blase does, for those imperfects which express "den
wahrenden, aber nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These
imperfects are chiefly of the type which I have termed
"interrupted," where the context implies it, or imperfects of
the "immediate past," where there is no interruption. 3 In
neither case is there anything more than a simple variation of the
progressive (here more exactly continuative) imperfect. But
most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter- rupted or
immediate past variety. They are simple progressives in contexts which
imply that the action was interrupted 4 or not liftam occurs often
in this use : True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ; cf .
Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70. 2 Blase Syntax, p. 148,
recognizes the inexactness of the term by his expression,
"sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by
Mutzbauer (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II,
p. 306): "Ungenau werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von
einem Versuch liegt in der Form nichts" (Grundlagender griech.
Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : "
In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."
^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see
why Blase appears to think that there is a difference between his
conception of the imperfect de conatu and mine. Blase says (Kritik, p.
11), after defining these imperfects as above : " Die hier
vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen, die
Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case,
so far as Blase confines his citations to instances of the interrupted
type. There is, then, no essential difference in our interpretation of
the function of the tense in these cases. Blase clings, apparently
against his will, to the old terminology to which everybody seems to
object, whereas I would group these cases under a new term which seems to
me more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all
the cases that belong together. 4 1 use interrupted here not
of what has been termed the "interrupted" usage, whose
distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past,
but as Impeepect Indicative in Early Latin 363
completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus
simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469: pallam ad
phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis pariebatur (just like
all the other imperfects in the passage — progressive of the descriptive
variety); id.Milo 9: interfectus ab eo est, cui vim afferebat (simple
progressive, the interruption being expressed by interfectus est) ; id.
Ligar. 24: veniebatis in Africam (progressive, the interruption being
implied in prohibiti 1 five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex
silvis rari propug- nabant nostrosque intra munitiones ingredi
prohibebant (but prohibebant is exactly like propugnabant — both were
interrupted by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and
note the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti
lenie- bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of
mitigating, but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:
mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna .... aderat et
Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive in description —
that the act did not succeed is shown by reppulit) ; Curtius vi. 7. 11:
alias .... effeminatum et muliebrieter timi- dum appellans, nunc ingentia
promittens .... versabat animo tanto facinore procul abhorrentem (again
graphic description: there is here nothing in the immediate context to
show that an effect was or was not produced. In fact versare animum does
not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely to work
on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver- sare muliebrem
animum in omnes partes, where versare sums up the preceding infinitives,
but no effect is produced. So in Cur- tius, loc. cit. , versabat has the
same kind of action as is indicated by the participles appellans ....
promittens, which are summed up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his
et similibus notos pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat (
again graphic description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus
adiuvabat). referring to interruptions in the more distant past.
Where the interruption belongs to the immediate past I have so indicated
in the following criticism. 1 Surely the hearer in such a case as
this would not have connected even the idea of " nicht zu Ende
gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i.
e., the interruption belongs purely to the context and not the immediate
context at that. This is true of many other so-called conative
imperfects. 364 Arthur Leslie Wheeler Vergil
Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic description = what
Juno "was doing" at the time, and only the outcome of the story
proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque
ruinas solabar, fatis contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros
.... inse- quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast
in nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now, etc.
This is one of the transitional cases between the pure custo- mary part
and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 186, where
Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam petebas partem, immo nunc peto; Men.
729: at mihi negabas dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante
oculos, attines, are cited. In both of these passages, though there is no
customary coloring, there is the same contrast between continuance in
the past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably
term both of the Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann.
i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common form of
graphic description in Tacitus = the soldiers were being crowded into
.... but (ni) . . . . i. e., the effect was partly produced, but was
prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above). In all these cases, then,
I can see no essential alteration in the function of the tense. The idea
"der nicht zu Ende geftihrten Handlung" is derived in each case
wholly from the context and there is no reason for making a special
category of imperfects which happen to occur in contexts of this kind.
Moreover, the meaning of the verb has often been overlooked, e. g.,
prohibebant (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from
the context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;"
cf. redimebat, mittebatur, versabat, etc. Whether the idea of
real attempted action ever became con- nected functionally with the
imperfect remains to be investigated. Certainly this did not occur in
early Latin, and I doubt whether it ever occurred. Among the cases cited
by Blase are two which more closely approximate this idea than any
others. These are Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo
belli moram redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut
gratia effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1:
reducebat. Impebfect Indicative in Early Latin 365
It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-
nent in such cases. We regard as more important the attempt which is
implied in the context, but the Romans preferred to rep- resent the act
graphically as in progress, leaving the idea that it was not successful
to be inferred. When a Roman wished clearly to express attempt (real
conatus), he chose a clear conative expression, 1 e. g., conari with
infinitive. In strict accuracy we ought not to speak of a
"descriptive" imperfect, but of the progressive imperfect in
description. The term "descriptive" imperfect would be
justified only in case we could distinguish from the simple progressives
those cases in which the tense is used purely for graphic presentation of
actions which might more naturally have been indicated by the perfect.
Such a distinction may often be drawn, especially after the development
of a consciously artistic style, but the separation would be worth little
since the progressive function is equally characteristic of both. The
tense was chosen for graphic purposes because its pro- gressive function
made it the most vivid of the past tenses. The chief difference
between Blase's treatment here and my own will become evident from a
consideration of his definition (Hist. Syntax) : Aber seiner
Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein Tempus der
Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine Stelle hat zur
Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend anderer genannter
Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im Hauptsatz bei
Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche in Beziehung
stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten praeteritalen
Handlung. ! This whole question needs investigation. All the forms
of expression of real conatus should be collected and compared with the
tenses as has been done for "cus- tom" by Miss E. M. Perkins
The Expression of Customary Past Action or State in Early Latin, Bryn
Mawr dissertation, 1904. 2 " Reminiscence, reminiscent"
are here proposed as equivalents for the German "Erz&hlung,
erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether
noun or adjective, does not, as may the German "Erz&hlung,"
etc., imply an appeal to the memory or recollection. Blase points out
(Kritik, p. 12) that I misunderstood the Latin equivalents narratio,
etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu Plautino, Strassburg,
1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung" into
Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.
366 Abthub Leslie Wheeler This elevates the descriptive power
of the imperfect to a higher position than seems to me justified, unless
one defines all cases having the progressive function as descriptive
which Blase evi- dently does not do, for he makes separate categories of
the "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen,
of the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the
action as progressive. Again it is to be noted that he speaks
of the 'description of customs,' etc., i. e., he does not regard the use
of the imperfect to indicate customary action as important enough even
for a sub- class, although he makes at least varieties of the reminiscent
and conative uses. I shall take up this point more fully below, 2
merely remarking here that the cases usually termed customary are
fully as peculiar as those termed by Blase conative and far more
numerous, at least in early Latin. 1 would, then, understand as an
imperfect used in description one which is used in a descriptive passage
to present any act or state vividly to the hearer or reader. What Blase's
conception is, I can not discover. He appears to make a distinction
(Kritik, p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here
"narrative"?) and"Schilde- rung" ( — description),
e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt. 497-515, Terence Andr. 48ff.,
74-102 — passages which I had cited as descriptive, 4 he sees "reine
Erzahlung, keine Schilde- rung." On the other hand, in Terence
Phorm. 60-135, which I had also cited, he sees "eine Erzahlung mit
einzelnen Situations- malereien." Without quibbling over our
characterization of the i "Conative" is used in this
passage merely as representing Blase's classification. 2 With
regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent and
independent clauses I would remark that in the study of probably two or three
thousand cases of the tense I have never been able to see any essential
difference in function due to the presence of a case in a dependent
clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten,
Gebrauchen") maybe described in a subordinate clause as well as in
an independent clause. sif " Erzahlung " is here used by
Blase in its technical sense as explained on p. 365, note, my objections
are strengthened, for there is certainly no special "appeal to
recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say
that the descriptive presents and infinitives (so-called historical) in
the Bacchides passage, etc., are different from the same usages in, say,
Livy, because here the speaker is supposed to be telling of personal
experiences, which is chronologically impossible in Livy's case.
4 Some of the imperfects are primarily customary.
Imperfect Indicative in Early Latin 367 passages in question
let us consider the main point, so far as it can be discerned in Blase's
discussion: that there is to him some difference between the imperfects
in the first group of passages and those in the Phorm. 60-135. With his
characterization of the latter passage I agree, and I had classified the
imperfects in it as imperfects used in description
("Situationsmalereien"). 1 But what is the difference in the
effect of imperfects in this pas- sage and those in the Bacchides or
those, to take a typical passage from Blase's Tempora und Modi, in Caesar
Bell. civ. i. 62. 3 ? I give the essential parts of the three
passages: Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est
puellulam .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque
quod daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, ....
nos otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum
ilico tonstrina erat quaedam, etc. Bacch.flf . : dum
circumspecto, atque ego lembun conspicor .... is erat communis cum
hospite et praedonibus .... is ... . nostrae navi insidias dabat. occepi
ego opservare .... interea nostra navis solvitur .... homines remigio
sequi, navem extemplo statuimus .... Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in
which Blase expressly characterizes nun- tiabatur, etc., reperiebat as
" schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar .... hue iam
reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat, possent tamen
.... flumen transire, pedites vero ad transeundum impediuntur. sed tamen
eodem fere tempore pons in Hibero prope effectus nuntiabatur, etc.
To me there is no difference between the imperfects in the passages
of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and those of the
Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All seem to me to be
progressive imperfects in description, some are also customary (see the
collection) and have been classified under that head as the more
important element. Is it not better to separate such cases as Phorm. 87
operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to
group all together, 3 as is done by Blase?* 1 This term
refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify
exactly what he means. 2 Primarily customary. 3 Blase
apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,
p. 7 and see below. 4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute
my assertion that the words of Quad- rigarius are not exactly given by
Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res
368 Arthur Leslie Wheelek The usage termed by Blase
"erzahlendes," for which I have proposed in English the term
"reminiscent," seems to me to be closely related to the
so-called descriptive imperfect. Blase not only considers this an
important variety {Syn. Ill), but is inclined to regard it as perhaps an
original function. 1 According to his definition {Syn., loc. cit. after
Delbriick) the imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus
seiner personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche
Erinne- rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive
and reminiscent uses, therefore, result from the use of the
progressive function to represent a past act vividly. The reminiscent
effect is due to the fact that in this usage the past acts are restricted
to those which concern the personal experience of the speaker or
hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from Blase's
list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam, ut
heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est plane nullam esse rem
publicam. Here Cicero clearly indicates that he is repeating the
substance of his own words of the day before = " as I was saying
yesterday, let me remind you." 2 So Catullus 30. 7: eheu quid
faciant, die, homines, cuive habeant fidem ? certo tute iubebas animam
tradere, inique, me .... idem nunc retrains te, etc., where the poet
reminds his friend (?) of the latter's advice. In both cases the
progressive force is clear, and, as Blase says, the tenses stand in no
clear temporal relation to any preterite in their context. Now since the
peculiar .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But
profecto refers to the content, not to the exact, words of the passage in
the libri annates. And when Gellius gives a word-for-word citation, he
introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba Q. Olaudii
.... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut
quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion
of Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of
Quadrigarius is not given, but Gellius was probably taking the substance
of the account from him. I have excluded this passage from the certain
remains of early Latin. iKritik, p. 15: "War die
vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des Alt-Indischen
(vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s , §
539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine
uralte Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f. 2 The English
imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as
fol- lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like
" Warn't I tellin' ye?" Usually the time is denned by some
adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the contrast between past and
present as expressed in both passages by nunc. Impebfect
Indicative in Early Latin 369 appeal to recollection is the
distinguishing feature of this remi- niscent imperfect, it would seem
proper to confine the usage to those cases in which such an appeal is
clear. Without discussing doubtful cases I content myself with indicating
those found in Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent.
Plautus Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past
of the interrupted type). In the same category I would place Cicero
Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo nunc tamen et
agam studiosius et contendam — -except that here the action of faciebam
is not interrupted, but is continued in the present, cf. agam et
contendam. Other immediate pasts are Ovid Fasti i. 50: qui iam fastus
erit, mane nefastus erat; ibid. 718: si qua parum Komam terra timebat,
amet; ibid. ii. 79: quern modo caelatum stellis Delphina videbas, is
fugiet visus nocte sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si
quis Borean horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit.
Varro R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me
absente patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e
villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive and (also
against Blase) contemporaneous with vidi just above. dicebat is difficult
and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the exact details given by
the speaker ; or did the phrase in annos singulos influence the choice of
the tense ? So in Cic. Off. i. 108 : erat in L. Crasso, .... multus
lepos; 109 : sunt his alii multi multum dispares .... qui nihil ex
occulto, nihil de insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-
bamus, the imperfect seems to be progressive used in description. In Ovid
Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio' sermo, the imperfect
seems to be customary; cf. antiquus and Paulus s. v. Agonium: Agonium
dies appellabatur quo rex hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam
vocabant. But however much the interpretation of single cases may
vary, this is clear: the progressive force is discernible in all these
cases. It would be better, therefore, to content ourselves with this and
not to discover an additional appeal to recollection, unless such force
is perfectly clear, since the real imperfect function is not altered
whether the reminiscent force be present or absent. lOf. p.
359. One more remark needs
to be made concerning the remini- scent imperfect. This category has
served as a convenient catch- all for many cases of the imperfect which
are difficult to classify and especially for those in which it is
difficult or impossible to discern any progressive force, many of which I
have classified as aoristic. To classify these last cases as reminiscent
is doubly wrong ; first, because it usually involves a petitio principii,
i. e. , an effort to discover imperfect function because the form
is imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-
nected only with instances in which the imperfect (progressive) function
is clear. The shadowy appeal to memory does not exist as a separate
function It has already been pointed out that Blase would not
elevate this variety of the progressive imperfect to the dignity of a
sub- class. The tense, however, occurs so often in the expression
of custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-
ration from other varieties of the progressive. In early Latin I have
counted about 450 instances in which the customary coloring seems tome
the most prominent element (see the table). Blase (Kritik, p. 9)
has objected to my statement ( Am. Jour. Phil.) that verbs whose meaning
implies repe- tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well
adapted to the expression of the customary past function. He gives
no reason with regard to the first group, vocito, etc., where the
mean- ing is connected with the form. With regard to soleo, etc.,
he says only that the reciprocal influence of verb-meaning and
tense- function appears "nicht nachweisbar, da doch der
Verfasser selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich
findet, weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary
past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-
understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too brief. I
did not mean by reciprocal influence of verb-meaning and tense-function
that the tense borrows anything, as Blase seems to understand me, from
the meaning of the verb, but that when a verb whose meaning implies
repetition or custom occurs i See p. 378 for further remarks.
Imperfect Indicative in Eaely Latin in the imperfect tense,
the expression of custom becomes especially clear. The meaning of the
verb and the function of the tense are mutually helpful to the expression
of the thought. 1 Verbs like appello, voco, vocito, dico
(="name") imply not merely a single act of naming, but usually
many acts at intervals. 2 There are numerous instances of such verbs in
the imperfect (see the collection) and nothing seems to me to be clearer
than that these verbs are especially well adapted to the expression of
custom — • past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17.
2: iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162:
ubi cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first
case the tense merely states, while the verb-meaning, together with
the context, gives the idea of custom or habit; in the second (voeitabant)
the verb- meaning is reinforced by the imperfect tense — both aid in the
expression of custom. This does not mean that a Roman more often used the
imperfect tense of such verbs when he wished to express custom, but that
when the imperfect was used, a clearer expression of customary past
action resulted. 3 As to soleo, consuesco, etc., the same principle
holds, for cus- tom and repetition are inseparably connected; but since
these verbs imply by their meaning the very function (custom) in
question, it is clear that the imperfect tense would occur more rarely.
When, however, the imperfect was used, there was, just as in vocito,
etc., a more emphatic expression of the customary idea; cf. Phorm. 90:
Tonstrina erat quaedam: hie solebamus fere plerumque earn opperiri ....
Here tense, verb, and particles all lend their aid to the expression of
the idea of custom or habit. The same idea would have been expressed less
clearly by hie fere plerumque opperiebamur, or by hie fere plerumque
soliti sumus opperiri, or by hie opperiebamur. In the last form only does
the i Cf . Trans. Am. Philolog. Ass., where I first expressed
this view. That verbs like soleo "dominate the tense" I no
longer believe; they aid the tense, but it is impossible to say whether
the tense or the verb-meaning is more influential in the total effect.
Cf. also Morris, Principles and Methods in Syntax, 1901, p. 72.
2 If the intervals are very close together without the implication of
custom, I would classify as frequentative ; see below. 3 Am.
Jour. Phil., and the dissertation of Miss Perkins cited above.
tense-form become entirely dissevered from the influence of verb-
meaning and accompanying particles, and even here context is operative.
The progressive function inherent in all true imperfects renders the
tense well fitted to express repetition in the past. The repeated acts
may naturally occur at wider or narrower intervals, as the case may
require. All expressions of custom, for example, involve an idea of
repetition, but it is only to cases of the imperfect which indi- cate an
act as repeated insistently, usually at intervals very close together,
that I would give the title "frequentative" or
"iterative," i. e., imperfects in which this element of
repetition becomes more prominent than any other. It seems to me that the
existence of a few such cases in early Latin is not fanciful. In
Plautus' Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae modiales
erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a single
situation is described wherein the parasite repeatedly and insist- ently
asked, kept asking, whether, etc. There is something more than mere
progressive force, on the one hand, and there is no idea of habit or
custom, on the other. The primary element of the tense is here
repetition. When, therefore, Blase sees in As. 207 ff. repetition, he is
right, for repetition in a general way is present in all cases of the
customary imperfect; but he is wrong in viewing repetition as the more
important element. The more important element seems to me custom and in
accordance with this we ought to classify these cases as customary.
3 iln a review of Miss Perkins' dissertation Woch.f. kl. Phil.,
1904, cols. 1277-80, Blase has since admitted the truth of my assertion
with regard to the influence of verb-meaning: "Die Verbalbedeutung
ist massgebend z. B.bei alien Verben, die 'nennen,' 'benennen,'
bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der Name entsteht durch ein
gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand gegeben (by Miss Perkins)
fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler bezweifelt habe."
2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud. 540, which was
nevertheless cited, but escaped him because by a misprint the imperfect
was not italicized. On the same page he cites ten passages and says that
I "hier uberall gewohnheitsmftssige Handlungen erkenne." This
is very inaccurate, unless "hier" refers to the last two
passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list which I have
classified as customary. My classification of the other eight passages
may be seen by referring to the collection at the end of this
paper. 3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that the
frequentative imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere said
this and my statement, Imperfect Indicative in Early Latin
373 the aoristic imperfect Excessive deference to the
principle that a difference of form implies a difference of meaning and
the well-known tendency of investigators to abhor an exception are
chiefly responsible for the unwillingness of some scholars to admit that
the imperfect occurs in Latin with no progressive force, i. e., as an
aorist. While I can not pretend to criticize this method as applied to
Sanskrit and Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons
against its application, in the same degree at least, to Latin. The
situa- tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and
in Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of
the imperfect in which real progressive force is not discernible,
and the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two
verbs, aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon
arose on Latin ground alone and has its explanation in some peculiarity
of the few verbs concerned. Again the greater wealth of tenses in
Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect Am. Jour. Phil,
"Latin seems .... to have been unwilling to take that step,"
implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the
fre- quentative imperfect in early Latin is still in its infancy,
etc.," it was naturally not implied that it ever passed out of its
infancy ! The facts in later Latin are not known because they are not
collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both these
errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of
no ad- vantage to separate so-called iterative imperfects from those of
customary nature: " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des
gewahlten Tempus aus dem Zusam- menhange erkannt wird, dass es sich um
eine Gewohnheit handelt." To this it must be answered, first, that
it is by no means always, and often not at all, on the basis of the tense
that we recognize the presence of customary action. Such action may be
expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the
cases interpreted by me as frequentative are really essentially different
from any other variety of the progressive, then they should be classified
separately, at least until it can be proved that they belong
elsewhere. 1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements.
He says of the Greek tenses : "Man muss sich eben mit der Erwagung
begnugen, dass es einem Schriftsteller bald gut schien, zu konstatieren,
bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer klar machen
konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method
is evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt
(of Sanskrit) in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr
im Stande." This is at least safe agnosticism, biding its time until
the lost distinctions shall be found. Blase is in entire agreement even
as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf . Kritik, p.
12. 2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt
doch auch eine grosse Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund
fur die Wahl des Tempus nicht ausfindig machen konnen."
374 Arthur Leslie Wheeler in those languages a larger number
of instances in which it is hard to differentiate similar tenses, whereas
the much narrower tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the
functions of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated
per- fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance
with this preliterary development we should expect indications of
the same tendency in the literary period. The aoristic imperfect
is, I believe, an illustration of this tendency, resulting from the
merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in certain
verbs. The restricted range of the phenomenon and its probable
explanation (see below) would make it unlikely that we are here dealing
with a survival of an Indo-European confusion. As illustrations of
the aoristic usage I will cite : Plautus Poen. 1069 : nam mihi sobrina
Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit), pater tuos is erat frater patruelis
meus. Here there seems to be no difference between erat and fuit. Ibid.
900: et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos
Carthagine aibat esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For
other cases see the collection. It is quite possible that
others may be able to detect true im- perfect force in some of the cases
which I have classified as aoristic. Blase, though not quite certain of
his own classification, has con- vinced me that I may have been wrong
with regard to Varro H. r. ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania
.... sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax ....
dicebat .... L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus
costis, etc. There are so many exact details here that we suspect
Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice- bat. 1
But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the total of those
which seem to me aoristic, enough remain to establish this category on a
firm basis. The exact process by which the progressive function
became lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am.
Jour. Phil.) that it is a weakening due to the constant
'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as
customary. I neglected to exclude this from four cases cited from
Rodenbusch. It was classified on my own slips as customary. 2
1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.
Imperfect Indicative in Early Latin 375 use of certain
verbs in ever-recurring similar contexts, until in the case of aibam the
originally graphic ' force was used out of the form and aibam became a
mere tag to indicate an indirect discourse. 2 With eram the vagueness of
the verb-meaning and the frequency of its occurrence side by side with
fui were the chief influences. In contexts where there are many other
imper- fects all of a definite time, these usually colorless verbs
naturally take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208
aibas. In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase
expresses his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert
and J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-
partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems
absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says (Quom,
pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris- tic perfect
and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der Unterschied
zwischen beiden gering war." "Grering" indicates that
there was to him some difference, even though it was slight. Schneider's
statements are not consistent. In his De temporum apud priscos scriptores
latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases
no difference can be seen between aibat and dixit, and that "aibat
aoristi munere fungi," but he adds that the imperfect represents an
act as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam."
Hoff- mann's supposed refutation is very weak. In the first place
he 1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for
the reminiscent usage is due to the speaker's effort to represent a past
act graphically. 2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the
indirect discourse is always present or implied (rarely) with aibam.
Occasionally the object is represented by a pronoun. Bacch. 982: quid
ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc. 8 Cf. Blase
(Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-
holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst
werden kann." 4 But cf. O. Seyffert in Bursian's
Jahresb.: " Das Imperf. findet sich. bekanntlich bei den Scenikern
mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede vom Perf . und
bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche Anderung
des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das
eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei
den verba dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende
Perfect;" cf. ibid. LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement
that aibat, e. g., Ps. 1083, represents the lost perfect of aio. In Am.
Jour. Phil. I had overlooked this
remarkable anticipation of my own conclusions. confuses different
uses of the tense, asserting, for example, that in Plautus Tri. 400:
aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly analogous to that in
Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat. commotus est Tiberius,
etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus, donee, etc., and that in the
last two cases the imperfect jars on us because such an action is not
usually presented "in der Phase ihres Vollzugs." Such an
application of the tense may seem strange to a German, but to one who
speaks English, it is entirely natural and could not for a moment be
mistaken for anything but a simple progressive imperfect. To refute such
a usage as a supposed aorist is to knock down a man of straw. The
supposed analogy of these cases to Tri. 400 does not bear on the point,
but it may be remarked that ibam is analogous only in the fact that its
action is progressive and interrupted, but it belongs to the immediate
past type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which
may be taken aoristically, and asserts that the tense is in all
used "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on
entirely inadequate foundation. 2 the shifted imperfect
Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one class
(Kritik) = an imperfect subjunctive with present meaning; for, as he
says, there is no real shifting if the preterital sense remains. But when
he adds 3 that "ein sicherer derartiger Fall ist weder bei Plautus
und Terenz, noch sonst im Altlatein vorhanden," I can not agree. He
accepts as cases of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra
senis casibus .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est
analogia, and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in
patrico denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque
esset analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset,
non, 2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de
temporum usu, Saarbriicken, 1877, apparently believes that eram and fui
in Vergil are so nearly equivalent that metrical convenience often
decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I have not seen
this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.
S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn
der klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der
Vergangenheit in die der Gegenwart erfahren."
Imperfect Indicative in Eably Latin 377 cum esset
usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are real cases of
shifting, how do the following differ ? Plautus Merc. 983 e : temperare
istac aetate istis decet ted artibus .... vacnom esse istac ted aetate
his decebat noxiis. itidem at tem- pus anni, aetate alia aliud factum
convenit; Mil. 755: insanivisti hercle (perf. def.): nam idem hoc
hominibus sa/[a] era[n]t decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam
quae sunt futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the
present (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct.
ad Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant.
2 That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei
Per- fekten" (Blase) is accidental. 3 This peculiar
shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal
(contrary-to-fact) idea present in the context or in the meaning of the
verb (oportebat, etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also
calls attention to the auxiliary character 4 of the verbs involved and
thinks that the shifting began with verbs of possibility and necessity
which seems a probable view. In conclusion a few words are
necessary with regard to some general aspects of the subject and its
method of treatment. The original function or functions 5 of the
imperfect can not, of course, be certainly inferred from a syntactical
investigation of material which is relatively so late even with the aid
of etymology and comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184)
that the progressive function was probably original was therefore
intended i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424.
For the other eases see collection. 2 But not iv. 16. 23,
which I now see is not shifted. 8 And both are cases of debuerunt!
In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion (loc. cit., p. 181, n.
1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are
shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66.
I am glad to find my view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264
: " Denn da der Grund der Ver- schiebung hier vor allem in der
Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise ebenso gut ein
debuit wie ein debebat verschoben werden." «Cf. Am. Jour.
Phil. XXIV, p. 190. 6 It is uncertain whether the original meaning
of the tense was vague, admitting several uses which gradually became
narrowed to one (the progressive), or whether there was one original
meaning which split into several related uses. The facts seem to point to
the second alternative. 378 Arthur Leslie Wheeler
only as a probability based upon the existence of this force in
nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of the
imperfect form. But nothing like proof was claimed for this theory. Blase
is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to regard the reminiscent
usage also as an original one (cf. p. 26, n. 2), but he rightly says that
no statistics can prove which of these two is earlier. If my view that
the reminiscent usage is rather an application of the progressive than
itself a separate function is correct, then the progressive is older. The
existence of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek
certainly makes it very probable, as Blase says, that it existed in
preliterary Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the
same general origin as the so-called descriptive imperfect — to the
effort to present a past act (here a personal experience) vividly.
1 But the search for original meanings must ever remain
within the realm of theory; nor can we hope even theoretically to
reach any considerable degree of probability in the establishment
of such meanings without the most careful collection and
classifica- tion of the facts within the period of written speech. And
this should precede the appeal to etymology and comparative phi-
lology. What is actually found in any given language, not what according
to comparative philology ought to be found, should be our first aim.
Although I would not minimize the importance in syntactical study of the
comparative method, it seems to me prop- erly applied only as a
supplement, not as the controlling factor to which all else is
subordinated. Indeed, a premature appeal to comparative philology may
result in premature conclusions, for an investigator whose head is filled
with preconceived notions drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to
imagine peculi- arities in Latin phenomena which he would not have
perceived at all, had he approached by a Latin route alone; and
such peculiarities have little value unless they can be recognized
as Latin without foreign assistance. Once recognized they may, and often
do, receive much additional light from comparative philology. While it is
true, then, that scholars will differ with •Cf. Am. Jour. Phil.,
where it was surmised that the descrip- tive application of the tense was
Indo-European. Imperfect Indicative in Early Latin 379
regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon and the
ultimate classification must not neglect the aid of comparative
philology, yet the chief basis of investigation is agreement among
scholars with regard to the great majority of such cases viewed as purely
Latin phenomena. If this agreement is lacking, comparative philology can
rarely bring reliability to the results. The statistical table shows that this
investigation is based upon a collection of 1,223 imperfects. It has been
my aim to exclude from consideration (and from the table) all passages of
dubious authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170
cases have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it
must be remembered that much of the literature of the third and second
centuries before Christ is fragmentary and very often there is not enough
context to render classification at all certain. In so large a body of
text it is probable that some cases have escaped my notice, but most of
the ground has been examined at least twice and such omissions can hardly
be numerous or alter essentially the results. I have subjected the
material to a careful revision and the table differs slightly from that
published in Am. Jour. Phil. It would seem unnecessary nowadays for
any syntactical scholar to state that he lays no stress on statistics as
such, but when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I
have proved this and that by just so many exact figures, it seems
proper for me to disclaim any such conviction. The fact that exact
figures do not in themselves mean anything does not, however, excuse one
from being as exact as possible. iCf. Wimmerer Wien. Stud.:
"die syntaktischen Einzeltatsachen sind viel zu sehr umstritten als
dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation und Erkl&rung der
Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches gesttizt
werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a
"brauch- bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with
reference to my inference that the progressive function is original:
"Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach- wissenschaft langst
festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be
regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine
as chief ies. 2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p.
289. 380 Abthuk Leslie Wheelee The method of
citation adopted in the collection will doubtless seem to many
inadequate. It is especially true, however, of the classification of
tense functions, that very often a large body of context must be taken
into consideration. For this reason very many of the citations even in
Blase's "Tempora und Modi" are quite useless and misleading
because of their brevity. It seemed best, therefore, to cite as fully as
possible in the body of the article, but in the collection to cite only
each form and the place of its occurrence. Those who are interested in
examining a given usage in detail will in any case revert to the complete
context, as I know by experience. I. Progressive Imperfect A.
Simple Types, including imperfects in description, reminiscence, and the
"immediate" past variety. Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed.
minor, Lipsiae, 1892-96. Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant ....
fugiebam; 251 com- plectabantur;
aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam; 603 stabam;
711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant; 1095 rebamur; 1096
confulgebant. 14 As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392
volebam; 395 volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889
suspi- cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931
dissua- debam. 13 Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179
abibam; poterat; 376 erat;
424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625 radebat ....
croccibat; 667 censebam expectabam .... abstrudebat; 754 scibas;
827 apparabas. 15 Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat
dabat; 297 dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676
nescibas; 683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983
auscultabat .... loquebar. 14 Capt. 273 erat; 491
obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat; 654 assimulabat; 407
audebas; 913 frendebat. 7 Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432
trepidabant .... fes- tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar;
594 ibam; 674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat
.... erat. Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569
adiura- bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723
quaeritabas; 759 quaeritabam. 9 Cure. 390 quaerebam;
541 credebam. 2 Imperfect Indicative in Early Latin
381 Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam;
214 occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-
stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar; 241 ibat; 409
apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam. 482 deperibat; 587 vocabas;
603 dicebant; 612 aderat. 20 Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195
amabas .... oportebat; 420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564
ferebat; 605 censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636
cense- bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat;
1042ai[e]bat; 1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072
censebam; 1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136
censebat; 1145 vocabat. 28 Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175
quaerebas; 190 abstrudebas; 191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247
cruciabar; 360 habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat ....
quae- ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15 Miles 54 erant; 100
amabant; 111 amabat; 181 exibam .... erat; 320 ai[e]bas; 463
dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale- bat .... amburebat; 853 erat;
854 erat; 1135 exoptabam; 1323 eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat;
1430 habebat. 18 Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar;
257 erat; 787 erat; 806 aiebat; 961 faciebat. 6 Persa 59
poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar; .... censebam; 262
erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477 credebam; 493 occultabam; 626
pavebam; 686 metuebas. 12 Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485
accidebant; 509 scibam; 525 properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178
aderat; 1179 complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam.
12 Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492
nole- bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam; 502
aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam; 698
arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas .... erat; 800
sedebas .... eras; 912 circumspectabam .... metuebam; 957 censebam; 1314 negabas.
24 Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat;
324 suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-
bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846 sedebant; 956a
faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete- bas; 1186 credebam; 1251
monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat; 1308 erat. 24 Stich.
130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat; 365 superabat;
390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545 erant; 559 postulabat.
11 382 Arthur Leslie Wheeler Trin. 195 volebam;
212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam .... quibam; 901 erat .... gerebat; 910
vorsabatur; 927 latitabat; 976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam.
12 True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat
metue- batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;
733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat .... petebat;
921 ibat. 16 Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2
Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2 Plautus,
IA, Total 291 Terence, ed. Dziatzko, 1884. Ad. 78 agebam; 91
amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153 gaudebam; 234 eras; 274 pudebat;
307 instabat; 332 iurabat; 333 dicebat; 461 quaerebam; 561 aibas; 567
audebam; 642 mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas; 821
ibam; 901 eras. 19 And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60
gaudebam; 62 erat; 63 erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant;
90 gaude- bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat;
108 curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat; 175
mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat; 533 quaerebam; 534
aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar- abantur; 657 postulabat; 792
poterat; exit, suppositic. I expec- tabam. 31 Eun. 86 eras;
87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113 scibat .... erat; 114
addebat; 118 credebant; 119 habebam; 122 eras; 155 nescibam; 310
congerebam; 323 stomachabar; 338 volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378
iocabar; 423 erat; 432 ade- rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant;
569 erat; 574 cupi- ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620
faciebat .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat
.... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000 quaerebat;
1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089 ignorabat. 43
Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-
bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta- bat; 445
erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta- bam; 781 dicebam;
785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat; 924 aiebas; 960 aiebas; 966
erat. 22 Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat;
162 erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322
poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422 expectabam;
455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam; 581 rebar; 651
optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23 Imperfect
Indicative in Eaely Latin 383 Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat
.... supererat; 83 servi- ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat;
97 erat? 99aderat; 105 aderat; 109 amabat; 118 cupiebat ....
metuebat; 298 duce bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468
erant; 472 quae- rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570
manebat; 573 commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat
.... quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat;
652 ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam;
760daba- mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900
iba- mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013
erat; 1023 erat. 47 Terence, I A, Total 185 Cato
ed. Jordan, Lipsiae, 1860. p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur.
Total 2 Dramatic and epic fragments. Naevius. Bell, pun., ed.
Mueller, 1884. 5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65
inerant. tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98. I
p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant. II p. 30 VII
faciebant .... tintinnabant. 9 Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.
Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant; 87
expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147 volabat; 190
sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307 agitabant; 309
explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408 sollicitabant; 459
parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21 Scenica. 15 eiciebantur; 123
erat; 127 inibat; 251 petebant; 324 scibas. Saturar. 65
adstabat. Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8 Pacuvius, ed.
Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1 Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V
ostentabat; p. 162 VII scibam; p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat;
p. 210 XII commiserebam .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251
XIII mollibat. 8 Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII
hortabar; p. 285 XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4
Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;
p. 120 X videbar. 3 Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II
aibat. 1 Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217
XII sup- ponebas. 2 Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303
II cubabat. 1 Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat
simulabat. 2 Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60
384 Arthur Leslie Wheeler Historicorum fragm., ed. Peter,
1883. p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72.
27 can- tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat
.... habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5
erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista- bat;
138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant; 143. 46
captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant .... apparebat; 149. 81
mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus erat .... defendebant; 178. 8
erat .... tegebat; 178. 9 pot- erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat;
184. 86 erat. I A, Total 34 Orator, fragm., ed Meyer, Turici,
1842. p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam ....
arbitra- bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur ....
lavabantur. I A, Total 8 Lucilius, ed. Marx, 1904. 393
stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108 gemebat;
1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175 ducebant; 1187
haerebat; 1207 premebat. I A, Total 11 Auctor ad Herennium,
ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in C. F. W. Mueller's
Cicero, Vol. I, has been compared throughout. 1. 1. 1 intelligebamus ....
attinebant .... videbantur; 1. 10. 16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13.
23 defendebant .... erant; 2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2.
2 videbatur; 2. 5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat ....
videbat .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-
bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant .... erant ....
videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote- rant .... videbant;
4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio- sus erat, doctus erat, ....
amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22 removebas .... abalienabas; 4. 16.
23 damnabant .... ini- quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19.
26 proderas .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-
bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas; 4. 24. 34
habebamus .... habebam .... erat .... obside- bamur .... videbar; 4. 33.
44 adsequebatur .... profluebat .... erat; 4. 33. 45 pulsabat ....
ducebat; 4. 34. 46 videban- tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41.
53 veniebat .... occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.
I A, Total 62 Corpus Inscr. Lat., Vol. I. 201. 6 animum ....
indoucebamus .... scibamus .... arbi- trabamur. I A, Total
3 Imperfect Indicative in Early Latin 385 Varro,
De lingua Lat., ed. Spengel, 1885. 5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5.
128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat; 7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59
erant. 8 De re rust., ed Keil, 1889, 1. 2. 25 ignorabat
.... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12 ibam; 3.2. lstudebamus; 3.
2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice- bat .... erat .... cenabamus; 3. 5.
18 dicebatur; 3. 16. 3 erat; 3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat.
14 Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1.
9 findebat. 2 I A, Total 24 Grand Total, I A,
680 B. Imperfect of Customary Action. Plautus
As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;
208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-
ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-
vectabant. 13 Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2
Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;
429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8
Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3 Cist. 19
dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3 Epid. 135 amabam. 1
Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717
ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123
vocabant; 1131 erat. 11 Merc. 217 credebat. 1
Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat
.... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com
- plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11
Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731
erat. 5 Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat.
3 Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3
Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4 Rud.
389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam. Stich. 185
utebantur. 1 Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2 True. 81
memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba- mus; 393 habebat;
596 erat. 6 Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat.
3 I B, Total 84 386 Arthur Leslie Wheeler
Terence Adel. 345 erat. 1 And. 38 servibas; 83
observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90 quaerebam ....
comperiebam; 107 habitabat; 109 conla- crumabat. 8 Eun.
398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3 Heaut. 102
accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant .... dabant. 4
Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804
accedebam; 805 negabant. 6 Phorm. operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364
con tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6 I B, Total
28 Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan,
1860. 1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....
laudabatur. Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant ....
deverte- bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur
.... laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat
.... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur. I B, Total 18
Dramatic and epic. Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.
Scenica 355 suppetebat. 3 Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I
aspectabant .... obvertebant. 2 Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V
flabat .... erat. 2 I B, Total 7 Historicor.
fragg. p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128
temptabam .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-
ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque- bantur;
123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant .... educebant
.... continebant .... cogebant .... insuebant. I B, Total
16 I B, Total 2 I B, Total 1
Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas. Lucilius, ed.
Marx 1236 solebat. 1 Perhaps different versions of the same
passage ; cf . Peter. I count them as one case.
Imperfect Indicative in Early Latin 387 Auctor ad Herenn.,
ed. Kayser. 4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant ....
poterant; 4. 16. 23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-
bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat. I
B, Total 11 CIL. I. 1011. 17 florebat. I B, Total 1
Varro, De ling. Lat., ed. Spengel. 5. 3 dicebant .... dicebant ....
significabant; 5. 24 dicebant; 5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33
progrediebantur; 5. 34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant
.... vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....
colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat .... advehebantur
.... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat .... putabat; 5. 68
dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur; 5. 82 dicebatur; 5. 83
dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86 praeerant .... fiebat ....
mittebantur; 5. 89 fiebat .... mittebant .... pugnabant .... deponebantur
.... subside- bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5.
95 perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;
5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant condebant;
5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant .... vocabant; 5. 108
edebant .... ferebat .... decoque- bant; 5. 116 faciebant .... habebant
.... opponebatur; 5. 117 fiebant; 5. 118 appellabant .... erat ....
ponebant; 5. 119 infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant ....
ponebant; 5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat dabant sumebant erat vocabatur ponebatur
erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat
vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant
portabatur sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant
fiebat erat erat aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur
dicebatur impluebat compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant
cenabant exigebant legebant ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant
insternebant appellabant operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant
erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant auferebat
redibat exigebatur; dicebant erant ponebant stipabant componebant
pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant dicebat videbatur
dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant conveniebant
dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur appellabatur dicebant
promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat videbatur intererat
fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur poterant dicebantur
fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant committebant dicebat
animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur erat erant erat dicebantur
erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat dicebant valebat dicebatur constabat
dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil, Lipsiae solebant dicebat poterat
.... effodiebat appellabant faciebant vocabant pendebat dicebantur faciebant
erant laudabatur providebant dabant dicebant inserebantur vocabant praeponebant
putabant appellabant reiciebant hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant
dicebant habitabant sciebant alebantur redigebant; credebant habebant serebant
pascebant habebat ostendebas accipiebat .... dicebat dicebat dicebant erat
pascebantur erat erat habebant erat laudabant aiebat dicebant
vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant appellabant dabat consumebat
habebat adgerebant coiciebat erat laborabat aiebat .... despiciebat Sat.
Menipp., ed. Eiese P. erat radebat vehebantur sol vebat loquebantur solebat;
suscitabat habebant habitabant. Total Imperfect Indicative in Early Latin
Imperfect of Frequentative Action. Plautus, Asin. dicebam;
Capt. percontabatur; Epid. mittebat;
missiculabas; Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas;
Kud. promittebas; True. poscebat Ennius,
Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total Aoristio
Imperfect Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;
Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas;
Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant;
Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat; Poen.
aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich.
aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat;
Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant
sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad
Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect Plautus, Merc.
6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence,
Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant
oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant.
Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A.
Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato
Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad
Herenn. Varro Except historical works the citations from which are
included among the historians. Laberius and later writers not
included. 3 Nepos and later historians not included. 4
Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a
theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio
Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella
di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria
della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di
Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione,
adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale,
modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- -- l’aspetto
perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.
Grice Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of CICERONE,
and an expert on divination. According to Seneca, he wrote a book about
lightning. Aulo Cecina. Cecina.
Grice e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore. He
belonged to the Porch. He becomes involved ina plot against the emperor Claudio.
He was condemned to commit suicide and his wife encouraged him to go through it
by committing suicide first, and passing the knife in the proceeding with the
infamous utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto. Cecina.
Grice e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Cheilas.
A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. An ally of Pelagius, he argues that because sin is an
act of free will, the existence of sin proves the existence of free will. Celestio.
Grice e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He composes a
history of medical thought and translated some of the works of Sorano. Celio
Aureliano. Celio.
Grice e Cellucci: l’implicatura
conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand
vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa
Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on
Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s
earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice:
“Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of
Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena,
Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione,
filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre
opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento”
(Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no?
“La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia
e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria
della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della
storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La
logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo
Novecento [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza,
Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e
matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della
dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti
di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica,
Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio
Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia.
Un colloquio con (e su) C.; La spiegazione in matematica. Periodicodi
Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has
zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze,
Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica
ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione,
mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia
della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi,
I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per
l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La logica della macchina,
in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della
matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in
Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano, Del metodo matematico, Boringhieri,
Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione
(Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza,
Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità
delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica
Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle
teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza
e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui
fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di
coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C. Cellucci ha illustrato gli
scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali
scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente
nell ' ottenere. Infiniti LM Prima di addentrarci nelle questioni
concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che
sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad
opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti Cardinalità di
insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10 appartamenti? Infiniti.
Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo associato
univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e 10. In
termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza biunivoca tra
l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10} Infiniti LM f è un’iniezione di A in B
se è una corrispondenza biunivoca tra A e un sottoinsieme di B Siano A e B due
insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione, ossia una legge tale per cui
per ogni a ∈ A
esiste uno e un solo b ∈
B tale che f (a) = b.. Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca) f
è una corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b ∈ B esiste uno e un solo a ∈ A tale che f (a) = b.
Definizione 2 (Iniezione) Dire quali di queste funzioni sono
iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta.
(a) f:N→{numeripari},n→2n
(b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio → mamma (c) f : quadrati → R, quadrato → area del quadrato (d)
f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e)
f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato → area del
quadrato Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75
LM Esercizio 1 Dire quali di queste funzioni
sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la
risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f : {esseri umani} → {donne},
figlio →
mamma (c) f : quadrati → R, quadrato → area del quadrato (d) f : {quadrati
centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f : {quadrati
centrati in O} → R, quadrato → area del quadrato Soluzione
dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione
(a) corrispondenza biunivoca (b) niente Questo caso scriveremo |A|
= n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli
elementi di un insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0,
1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la
nozione di corrispondenza biunivoca. Definizione 3 (Cardinalità
degli insiemi finiti) Sia A un insieme e n un numero naturale.
Diremo che A ha n elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In
Diremo che A è un insieme finito se esiste n ∈ N tale che |A| = n; Diremo
che A è un insieme infinito se non è finito. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 15 / 75 Proprietà della cardinalità di insiemi
finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben
note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. Proprietà della cardinalità di insiemi
finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben
note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un
insieme finito. Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La
cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1)
due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza
biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un
insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B,
allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà. Due insiemi finiti
hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra
loro. Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee
biunivoche A a b c d e f g h B 1 2 3 4 equivalgono
a A a b c d e f g h B La nozione di corrispondenza biunivoca
vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza
sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta). La nozione di
corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti
di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una
retta). Questo ci permette di estendere il concetto di
"equinumerosità": Diremo che due insiemi A e B
(qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un
numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per
l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione
astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli
insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di
"maggiore numerosità". se A è un sottoinsieme proprio di
un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se
esiste un’iniezione di A in B B a b c d g h A
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di
un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a
disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi.
Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli
insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini
tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito
protagonista di questa storia è l’insieme dei
numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla
all’Hotel Infinito, noto per avere infinite stanze.
Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di
zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da alassie, e
di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le stanze erano occupate. tutte
le g Soluzione del problema... Il direttore dec ide di
spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2 nella 3 e così
via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene spostato lo
zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1» Il problema si complica
perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia per
partecipare al congresso interstellare dei filatelici Il direttore, come
soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello
della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere
l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n» Così, gli zoologi occuparono
l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme
delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda
ottenne il numero di stanza «2n-1» rimettere tutto in ordine e a chiudere
tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos I costruttori dell’Hotel
Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con
infinite stanze. Furono costretti, però, a
Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di
infiniti hotel nel suo hotel, già pieno. COME FARE ? Ion propose di usare
solo le progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi,
nessuna delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle
dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due
occupanti! Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia. Mostrare che
N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7} (2) A={2n+1,
ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta storia. Mostrare
che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7} (2) A={2n+1,
ninN} Soluzione 2 01234 n 7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9
2n+1 L’ultimo partecipanti, che sostanzialmente ci racconta che l’insieme
prodotto N × N ha la stessa cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo
più tardi. I risultati dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del
pensiero. caso descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con
infiniti Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75
Povero Euclide! LM Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi
n0 termini (pensate n0 grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente
la stessa cardinalità di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da
Euclide: "il tutto è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300
a.C.) Ricordiamo che Euclide è probabilmente il più grande matematico
dell’antichità e i suoi Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale
opera di riferimento per la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno
degli 8 enunciati di "nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello
in cui vengono fissati tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la
geometria nota all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo
problemMa si era accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste
son di quelle difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col
nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che
noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente,
perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non
convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire uno essere maggiore o
minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo,
possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è esatta il giusto
attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga agli infiniti
mente Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi
di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una
corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un
insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤
|B|. LM Riepilogo e domande Finora
sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità
infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa
cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra
loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un
insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione
di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il
momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità
diverse? Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra
cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la
stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca
tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità
di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una
iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è
arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con
cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di
tutte le altre? Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di
confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi)
hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza
biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la
cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se
esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è
arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con
cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di
tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le
altre? Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra
cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi)
hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza
biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la
cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se
esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.
Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti
con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola
di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte
le altre? Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo
ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in
corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme
proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra
questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|.
Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La
storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in corrispondenza biunivoca
il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra
complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci
aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a → a è un’iniezione di A
in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di
Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione
(m,n) →
2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un
sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza
biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|.
Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Sia A un insieme
infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A,
ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera
ricorsiva. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75
LM Teorema Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤
|A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad
ogni n ∈ N un
unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a
n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in
grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim:
Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A.
Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi
elemento a0 ∈ A.
Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di
associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai
numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A
è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare
al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del
Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni sottoinsieme infinito di N ha la
stessa cardinalità di N. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.
Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n
∈ N un
unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a
n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in
grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai
numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A
è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare
al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del
Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni sottoinsieme infinito di N ha la
stessa cardinalità di N. In particolare, {p ∈ N della forma p = 2m3n, n, m ∈ N}, ha la stessa cardinalità
di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N. Cardinalità numerabile Quindi
la cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola cardinalità
infinita". Per questo si è meritata un "nome proprio" e un
simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’
NUMERABILE. Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera
dell’alfabeto ebraico. Diremo che un insieme A è numerabile
se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con
N. 14/3/18 36 /
75 LM N⊂Z⊂Q⊂R Ricordiamo brevemente cosa
sono per poi confrontare le loro cardinalità. Esistono insiemi infiniti con
cardinalità diversa (maggiore) da quella numerabile? Per rispondere a questa
domanda usiamo gli insiemi numerici come prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z =
{...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri NATURALI numeri INTERI p Q = q , p intero, q ̸=
0 naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni
strette: I numeri interi Z =
{...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri
naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si
ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo
rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata.
Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura
disegnare tutti punti equidistanti dal successivo. -6-5-4-3-2-10 1
2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei
numeri naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme
numerabile. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75
Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n 2 sen=0oppuresenèpari
−n+1 senèdispari 2 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 /
75 Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 14/3/18 n 2 sen=0oppuresenèpari an
= 2 −n+1 senèdispari 012345678 39 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 Ann 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 14/3/18
46 / 75 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 Abbiamo così ottenuto
che Z è numerabile. LM I numeri razionali Q = qp
, p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri
interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono
considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che
quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non
nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri
razionali.
(i numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸=
0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata
dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando
tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi
determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo.
Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra
un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero
01 Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali
dMistinti c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro
media). 0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili
medie delle medie). 01131 424 113 084828481 Si intuisce che
i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. Da quanto abbiamo detto
sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono
densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano
a stupirci: Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali
siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche
in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci: Q ha
cardinalità numerabile. Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza
biunivoca tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di
"etichettare" con numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo
utilizzeremo il cosiddetto (primo) metodo diagonale di Cantor. Trovare un
percorso che passa una sola volta per ogni stellina e numerare le stelline man
mano che si incontrano (nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite
stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆···11 20 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ⋆14/3/18 1 → 2 6 → 7 15 → 16 ⋆ ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ⋆ ⋆ ↓↗↙↗↙ 4 9 13 18 ⋆ ⋆ ⋆ ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ↓↗↙ 52 / 75
Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567
1111111 1234567 2222222 1234567 3333333
1234567 4444444 1234567 5555555 e percorrerla con il metodo che abbiamo
determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ·2222222 ↓↗↙ 1234567 3333333 ↙ 1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . Abbiamo così mostrato
come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con
i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali
positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti
i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Abbiamo così
mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali
positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri
razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si
dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile.
Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪ B è numerabile. Questo
produce una corrispondenza biunivoca tra A ∪ B e N. LM Abbiamo così
mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali
positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri
razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si
dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile.
Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪ B è numerabile
Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi numerabili, allora esiste
una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei numeri pari e una corrispondenza
biunivoca tra B e l’insieme dei numeri dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} =⇒ A ∪ B ←→ N. Voglia di
misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA
RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la
retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia
che i punti corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece
scoprirono presto che manca qualcosa... 1 ?
Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da
ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si
può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso
da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R =
{allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre} ed
è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca
con i punti della retta (difficile da dimostrare). Quali numeri mancano?
Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le
possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come
allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo
l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti
decimali con un numero arbitrario di cifre} ed è quella giusta,
nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della
retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22 Quindi,
geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i buchi" sulla
retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali (abbiamo aggiunto
tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati aggiunti tanti
elementi... invece l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità
numerabile! R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa
sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due
intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni
intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in
corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la
stessa cardinalità) Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75
Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che
l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo:
supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli
nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13
a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0,
βj ̸=9, ∀j
appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero),
ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver
enumerato tutti i valori nell’intervallo. Quindi sicuramente la
cardinalità dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo
a dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa
cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione.
Esercizio 4 Determinare (geometricamente) una corrispondenza
biunivoca tra due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale.
Suggerimento: allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura:
a c b d P P a c b d si
proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai
due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in
formule utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza
biunivoca cercata. Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un
intervallo limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta
di “meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea
geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla
retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia; −1
1 R Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75
LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1
tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale
circonferenza; P −1 1 R −1 1 Proiezione stereografica
fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P R
65 / 75 Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi
punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza;
P −1 1 R −1 1
Proiezione stereografica tracciamo la retta per P e il punto della
circonferenza; associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione
tra la retta considerata e la retta reale; P R
Se facciLamo questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1)
costruiamo una corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta
reale. −1 1 Il meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite
una semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini
a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P Cardinalità del continuo
La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità del continuo.
Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali irrazionali
algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti interi (ad es.
tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali trascendenti: tutti gli
altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente tantissimi irrazionali
algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali
sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri
razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle informazioni
riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente, si può
dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità numerabile;
quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente tanti!
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75 QuantLe e quali
altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi numerici abbiamo trovato due
cardinalità distinte, quella del numerabile e quella del continuo. E’ del tutto
naturale porsi due domande: ci sono cardinalità intermedie tra queste due? ci
sono cardinalità superiori a quella del continuo? La prima apre una questione
particolarmente affascinante (o frustrante, dipende dai punti di vista) che
prende il nome di Ipotesi del continuo nda ha una risposta stup ci sono
infinite cardinalità (infinite) distinte! La seco efacente: CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella
dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto
che CH fosse vera. CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna
cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei
reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel
1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”
non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei
naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che
CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria
degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen
dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno
dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica
applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua
indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale
(fisica, ingegneria, informatica...) CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella
dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto
che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale
teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul
Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può
nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile nell’ambito
della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto coerente
prenderla come vera che prenderla come falsa. ∅ {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c}
{a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda
introduciamo una nuova nozione. Insieme delle parti
Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A sottoinsieme
di X}. Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme formato dai
seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)| = 2n >
|X|. Esistono infinite cardinalità infinite Teorema di
Cantor Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza
del Teorema di Cantor, otteniamo che esiste una sequenza di cardinalità
infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente. Partendo
da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima, basta iterare il
passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| <
|P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · · Dimostriamo il
teorema di Cantor. L’applicazione ”x → {x}” è un’iniezione di X in P(X). Quindi
|P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione biunivoca tra X e
P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con ”x ↔ A(x)”.
Consideriamo l’insieme C ∈ P(X) C = {x ∈ X tali che x ̸∈ A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 ∈ X tale che C = A(x0). Si ha
che se x0 ∈ C =
A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸∈ C = A(x0) se x0 ̸∈ C = A(x0), allora, per come
sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ∈ C = A(x0) Le contraddizioni
trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca.
Se ne conclude che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca tra X e
l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 74 /
75 Aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben
können. Insiemi infiniti 1. Introduzione Finch ́e gli insiemi che si
considerano sono finiti (cio`e si pu`o contare quanti sono i loro elementi
mettendoli in corrispondenza biiettiva con i numeri che precedono un certo
numero naturale) la nozione di insieme pu`o fornire un comodo modo di
esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto Cantor per primo elabor`o la
nozione di insieme per risolvere problemi di quantita` di elementi in insiemi
infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si dice che due classi hanno la
stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a tra le due classi. In tal caso
si dir`a anche che le due classi sono equinumerose. Definizione. Si dice che un
insieme A `e finito se esistono un numero naturale n e una biiettivit`a da A
sull’insieme dei numeri naturali che precedono n; in questo caso diremo che A
ha n elementi. Se ci`o non succede, si dice che l’insieme `e infinito. Se un
insieme A `e finito e un altro insieme B `e contenuto propriamente (contenuto
ma non uguale) in A allora A e B non sono equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna
biiettivit`a tra i due. Questo risultato dipende dal fatto che per nessun
numero naturale ci pu`o essere una biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo
precedono e l’insieme di quelli che precedono un diverso numero naturale.
L’ultima affermazione non si estende agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo
con un con- troesempio gi`a considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo. I numeri pari sono un sottinsieme
proprio dei numeri naturali, ed entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre
la funzione che a un numero naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a
dai numeri naturali sui numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali
sono tanti quanti i numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio
dell’insieme dei naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se
hanno lo stesso numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un
altro o meno. Per fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i
numeri naturali che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli
insiemi infiniti non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora
quando un insieme ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare
a dire che un insieme `e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi
infiniti porta naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia
simile a quella fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse
propriet`a degli insiemi finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due
insiemi. Diremo che la cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella
dell’insieme B, e scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale
iniettiva di A in B. Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e
stretto n ́e largo. Non `e stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta
considerare la funzione identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o
accadere che |A| ≤ |B| e anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio
quello in cui A `e l’insieme dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali
pari. Scopo di queste note `e di studiare le propriet`a di questa relazione.
Attraverso essa potremo arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e
ci`o che ci interessa. 1 2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e
un insieme e B ⊆ A,
allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri
naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non
lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 2x se x ≥ 0, −2x−1
sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma
anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora
|X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0,
la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi
con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn,
xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f:
{x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y ∈/ Im(f) (altrimenti Y avrebbe
n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale iniettiva g : X → Y
che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la definizione che ci interessa
maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due insiemi. Diremo che A e B hanno la
stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A| = |B|, quando esiste una funzione
biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la definizione di cardinalit`a, per la
quale occorrerebbe molta piu` teoria e che non ci servir`a. Sar`a piu`
rilevante per noi scoprire le connessioni fra le due relazioni introdotte. 3.
Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti (C1) Se A `e un insieme,
allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| = |B|, allora |B| = |A|.
(C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|. Queste tre proprieta`
sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la funzione identit`a; nel
secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a A → B; nel terzo si
prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la biiettivit`a B → C. (M1)
Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2) Se A, B e C sono insiemi, |A|≤|B|e|B|≤|C|,
allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste due `e facile (esercizio). C’`e un
legame fra le due relazioni? La risposta `e s`ı e sta proprio nella “propriet`a
antisimmetrica” che sappiamo non valere per ≤. Il risultato che enunceremo ora
`e uno fra i piu` importanti della teoria degli insiemi e risale allo stesso
Cantor, poi perfezionato da altri studiosi. Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder,
Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤ |B| e |B| ≤ |A|, allora |A| =
|B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono una funzione f : A → B
iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva totale. Per completare la
dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva h: A → B. Un elemento a ∈ A ha un genitore se esiste un
elemento b ∈ B tale
che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b ∈ B ha un genitore se esiste a ∈ A tale che f(a) = b. Siccome
f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un
elemento a ∈ A
oppure b ∈ B,
possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e
i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo
chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo al passo (b).
Partendo da un elemento a ∈ A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina;
scriveremo che a ∈
A0; 3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura
termina in un elemento di A; scriveremo che a ∈ AA; • la procedura termina in
un elemento di B; scriveremo che a ∈ AB. Analogamente, partendo da un elemento b ∈ B, possono accadere tre casi:
• la procedura non termina; scriveremo che b ∈ B0; • la procedura termina in
un elemento di A; scriveremo che b ∈ BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b ∈ BB. Abbiamo diviso ciascuno
degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 ∪ AA ∪ AB , B = B0 ∪ BA ∪ BB . Se prendiamo un elemento
a ∈ A0, `e
evidente che f(a) ∈ B0,
perch ́e, per definizione, a `e genitore di f(a). Dunque f induce una funzione
h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a). Questa funzione, essendo una restrizione di f,
`e iniettiva e anche totale. E` suriettiva, perch ́e, se b ∈ B0, esso ha un genitore a che
deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a ∈ AA, allora f(a) ∈ BA: infatti a `e genitore di
f(a) e la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una
funzione hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva,
perch ́e ogni elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente,
se partiamo da un elemento b ∈ BB, allora g(b) ∈ AB e g induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e
suriettiva, esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0
∪hA ∪h−1. Allora h `e una funzione
h: A → B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio.
Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N →
Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 4z se z ≥ 0, −4z−2
sez<0. Quali sono gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente
quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri
dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro
stessi. Consideriamo x0 = 2 ∈ N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 ∈/ Im(f), la procedura si ferma
e 2 ∈ NZ.
Consideriamo invece x0 = 4 ∈ N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti,
perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 ∈ N. Poich ́e 1 ∈/ Im(g), abbiamo che 4 ∈ NN. Studiamo ora x0 = 16 ∈ N; siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo
x2 = 4 ∈ N;
siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 ∈ Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 ∈ N. La procedura si ferma qui,
dunque 16 ∈ NN. Si
lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o
allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto
come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o
definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le
relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la
cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a
infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.
Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e
infinito, esso non `e vuoto; sia x0 ∈ A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste x1 ∈ A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠
A, quindi esiste x2 ∈
A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di avere scelto gli
elementi x0, x1, . . . , xn ∈ A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste
xn+1 ∈A\{x0,...,xn}.
Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la
funzione n →
xn `e iniettiva.
Questo risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 4 INSIEMI
INFINITI Corollario 3. Sia A ⊆ N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non
`e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e
A ⊆ N. Per
il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Un altro corollario `e
la caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito.
Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme
proprio B ⊂ A tale
che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo
sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che
A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva
totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: f(n+1) seesisten∈Ntalechex=f(n), x se x ∈/ Im(f). La condizione “esiste
n ∈ N tale
che x = f(n)” equivale alla condizione “x ∈ Im(f)”. La funzione g `e ben
definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x = f(n) per qualche n, questo n
`e unico. Osserviamo anche che x ∈ Im(f) se e solo se g(x) ∈ Im(f). Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia
totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x ∈/ Im(f), allora g(x) = x;
dunque non pu`o essere y ∈ Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • Sex∈Im(f),`ex=f(n)perununicon∈N. Allorag(x)=f(n+1)∈Im(f). Perci`o g(y) = g(x) =
f(n + 1) ∈ Im(f)
e quindi, per quanto osservato prima, y ∈ Im(f). Ne segue che y = f(m) per un unico m ∈ N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo
allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x
= f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che f(0) ∈/ Im(g). Viceversa, ogni
elemento di A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se
allora consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa
`e una biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \
{f(0)}, abbiamo il sottoinsieme cercato. Notiamo che, nella dimostrazione
precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio si trovi in modo analogo
al precedente un sottoinsieme C ⊂ A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili
Il teorema secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci
porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a).
Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di
N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z
(insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare
alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e
numerabile, allora A ∪
B `e numerabile. Dimostrazione. Se A ⊆ B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A ∪ B = (A \ B) ∪ B possiamo supporre che A e B
siano disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora
scrivere A = {a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo
una funzione f : N → A ∪
B ponendo an
se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) = 4. INSIEMI NUMERABILI 5 E`
facile verificare che f `e una biiettivit`a. Teorema 6. Se A e B
sono numerabili, allora A ∪ B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili,
allora A1 ∪ A2 ∪ ··· ∪ An `e un insieme numerabile.
Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla prima per induzione
(esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩ B = ∅. Abbiamo due biiettivit`a f :
N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A ∪ B ponendo: f n 2 h(n) = n − 1 g 2 Si verifichi che
h `e una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo A∪B = A′ ∪(A∩B)∪B′; questi tre insiemi sono a
due a due disgiunti. I casi possibili sono i seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono
infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e
finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito,
B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e
infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito. Ci basta applicare quanto appena
dimostrato e il teorema precedente. Si concluda la dimostrazione per induzione
della seconda affermazione. Il prossimo teorema pu`o essere
sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme
numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n ∈ N, sia An un insieme
numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = ∅. Allora A={An :n∈N} `e numerabile.
Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei
numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perognin∈N,gn:An
→Nunafunzionebiiettiva. Sex∈A,esisteununicon∈N tale che x ∈ An; poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x)
Per esempio, se x ∈ A2,
sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0
⊆Aequindi
|N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| =
|N|.
Il teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due
a due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una
conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile.
Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m ∈ N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e
numerabile. E` evidente che n∈N An = N × N. Ancora piu` sorprendente `e forse
quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e numerabile.
se n `e pari, se n `e dispari. B′ =B\(A∩B) INSIEMI INFINITI. Un
numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo come m/n, con m, n ∈ N primi fra loro (cio`e
aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che l’insieme Q′ dei
numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m e n primi fra
loro) possiamo associare la coppia (m, n) ∈ N × N e la funzione cos`ı
ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei
numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′
definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo
applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ ∪ {0} ∪ Q′′. C’`e un altro modo per
convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si 1/5
1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1
Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove
segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere
tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni
numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente
i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a
incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il
punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato
come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5.
Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono
insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci
siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che,
intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una
costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci-
sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A
ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se
|A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|. 5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7
Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una
funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B.
Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B
non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva
di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un
altro esempio: l’insieme N ∪ {−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N ∪ {−2} non `e suriettiva.
Infatti la funzione f : N → N ∪ {−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una
biiettivit`a. L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo
da un insieme X `e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme,
allora |X| < |P (X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione
totale iniettiva X → P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x ∈ X } cio`e la funzione che
all’elemento x ∈ X
associa il sottoinsieme {x} ∈ P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive
di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva.
Consideriamo C ={x∈X :x∈/ g(x)}. La definizione di C
ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X, dunque si hanno sempre due
casi: x ∈ g(x)
oppure x ∈/ g(x).
Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c ∈ X tale che C = g(c).
Dunquesihac∈C
oppurec∈/C.
Supponiamo c ∈ C;
allora c ∈ g(c) e
quindi, per definizione di C, c ∈/ C: questo `e assurdo. Supponiamo c ∈/ C; allora c ∈/ g(c) e quindi, per
definizione di C, c ∈
C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una
contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e suriettiva. L’insieme P(X) ha la
stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con 2X l’insieme
delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un sottoinsieme di
X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0, 1} definita da 1 sex∈A, χA(x)= 0 sex∈/A. Possiamo definire due funzioni,
f:P(X)→2X eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per A∈P(X)siponef(A)=χA;perφ∈2X sipone g(φ)={x∈X :φ(x)=1}. Teorema 11. Per
ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g
sono funzioni identit`a. Sia A ∈ P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={x∈X :χA(x)=1}=A, per definizione
di χA. Sia φ ∈ 2X;
dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x ∈ X : φ(x) = 1}.
Occorreverificarecheφ=χB. Siax∈X;seφ(x)=1,allorax∈BequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x ∈/ B e quindi χB(x) = 0. Non
essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A ∈ P(X) si ha A = g(f(A)), g `e
suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ ∈ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e
suriettiva e g `e iniettiva. 8 INSIEMI INFINITI 6. La
cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a
disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei
numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo
l’intervallo aperto I={x∈R:0<x<1}
e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2
1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che
Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2
arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti.
Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento
decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 =
0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i
puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico
nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri
irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso
modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri,
scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 =
0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 =
0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4
=0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente
nei primi tre casi. In generale un numero r ∈ I si scrive come r = 0,a0a1a2
..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le
successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai
numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione
f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0,
a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e
totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0, se x =
0. 7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N →
I. Prendiamo φ ∈ 2N; la
tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo
binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per
esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 ∈/ I. Se anche escludessimo
questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro
modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ)
= 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo uno zero fra ogni termine. E`
chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale.
Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|. Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione
le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I, entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤
|2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|.
Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N| = |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| =
|P(N)|, come voluto. Occorre commentare questo risultato. Per dimostrarlo
abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo
potuto scrivere esplicitamente una biietti- vit`a di R su P (N). Ma non `e
questo il punto piu` importante. La conseguenza piu` rilevante del teorema `e
che non `e possibile descrivere ogni numero reale, perch ́e, come vedremo in
seguito, i numeri reali che possono essere espressi con una formula sono un
insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor Un’altra applicazione del teorema
di Cantor porta alla costruzione del cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa
espressione vuole indicare l’esistenza di una successione di cardinalit`a
infinite ciascuna strettamente maggiore della precedente. Allo scopo basta
iterare il passaggio all’insieme dei sottinsiemi, per esempio a partire
dall’insieme dei numeri naturali, per ottene- re una successione di insiemi la
cui cardinalit`a, per il teorema di Cantor, continua a crescere strettamente:
|N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)|
< ··· Si potrebbe ancora andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X,
Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora possiamo considerare l’insieme Y1 = Pn(N), n∈N e si pu`o dimostrare che
|Pn(N)| < |Y1|, per ogni n ∈ N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di
tutte quelle trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2
=
Pn(Y1) n∈N e
ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di
cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della
successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto
naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a
strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se,
dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | <
|P(X)|.
10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N|
< |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del
continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta
brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile
rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto
coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti
semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che,
per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN
indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri
naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali
strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli
insiemi 3N ∪ {2, 5}
e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una
funzione biiettiva tra gli insiemi 4N ∪ { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni
insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si
dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste.
Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale
e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in
cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione
biiettiva tra gli insiemi Z ∪ { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta,
se gli insiemi (5N \ {5, 15}) ∪ {√3, 25 } e 2N ∪ {11, 17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica,
motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 ∪ 5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa
cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈/ A. Si costruisca una
biiezione tra gli insiemi A e A ∪ {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈ A. Si costruisca una
biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri
reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte
le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P =
{I | I ⊆ N e I
`e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la
cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme
P(3N) `e numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico
filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la
rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo,
platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine,
regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella
storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista,
prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di
nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege,
logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor,
parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il
problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e
connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno
uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. Cellucci
Grice
e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden during the principate of
Nerone.
Grice
e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he teaches philosophy
in Rome.
Grice
e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Siracusa). Filosofo italiano. A rich friend of Socrates who enjoyed
philosophical discussions. Cefalo.
Grice e Centi: l’implicatura
conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like
Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas,
o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also
philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the
expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice:
“According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della
filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San
Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine
domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il
Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato
per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma
Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di
san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli
(Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae
etc.) e varie Questiones Disputatae.
Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure
storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione
storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha
difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui
attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo
che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua
condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro
VI. Altre opere: “La somma teologica,
testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C.,
Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo
Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto
del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che
sconvolse Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e
ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio
di Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra
Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos
Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino,
Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano
intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare,
segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della
metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e
rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura –
segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un
segno particolare o particolarizato è
quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della
grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo
essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno
e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un
concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita
(efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione
del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno
naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De
interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei
opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la
relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il
rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla
combinazione di queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa
un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione
su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem
huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc
libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis
sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti
tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum
oportet constituere, id est definire quid sit nomen et quid sit verbum. In graeco
habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari
quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet.
Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit,
sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex
necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo
simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et
ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.
Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam,
quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest
dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non
differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et
melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius
cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter
ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit
in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo ARISTOTELE praetermisit tractatum de hypotheticis
enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Si
quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat
enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem
continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione:
quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum.
Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae
possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam
esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo
dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur.
Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea,
de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel
incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de
vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat.
Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam
significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum
et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem
significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum
sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum
uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones,
ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter
animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus
conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones SIGNIFICANT NATURALITER quaedam voces hominum, ut GEMITUS
INFIRMORUM et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis EX INSTITUTIONE humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem
sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce
sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam
manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens
hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces,
significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et
diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae
eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam
in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in
Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur
elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur,
sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius
exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce,
sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba
quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces NATURALITER
SIGNIFICANT, sed ex institutione humana. VOCES AUTEM ILLAE, QUAE NATURALITER
SIGNIFICANT, SICUT GEMITUS INFIRMORUM ET ALIA HUIUSMODI, SUNT EADEM APUD OMNES.
Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse,
sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem;
idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum
passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur
enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non
proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam
eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet
passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit
esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones
autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur
ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in
intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non
attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut
et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem
animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia
naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem quidam,
ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant
voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES ANIMAE conceptiones
intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud
omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia
etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non
autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in
III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas
significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere
intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat,
non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus
sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio,
quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum
hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo
significatas. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in
quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et
respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam
intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui
loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet
quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio
Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem
ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae
apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem
ad res, quas similiter dicit esse easdem. Tertio, ibi: de his itaque
etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae
passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima.
Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam
philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum
significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et
circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam;
ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus
praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur,
ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam,
quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum
sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo
considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio
intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et
falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima
aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate
habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas
conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse
est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero
et falso, quaedam autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem
etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de
intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad
intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur
quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero
horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et
divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est
indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit
absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est
homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus
est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit.
Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et
dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione
non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo
videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia
sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas,
ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint
similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et
nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum
quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et
est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam,
si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est
compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu,
nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si
referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio.
Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi
apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones;
divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res
esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur
compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero
dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem. Ulterius autem
videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo
quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel
falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam
simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et
falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio
modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in
eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente
vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut
signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum
autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo,
sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum
speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod
conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis
non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt
quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod
est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera,
quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res
aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non
essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis
per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae,
formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit
quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus
institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex
natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est
signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret
quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in
vas. Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex
parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium
accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam
subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum,
necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum
definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo,
quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero
nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia,
vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur,
simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas
accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus
autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas
formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum
dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito
hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus
naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.
Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt
nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus
significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari.
Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest
significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari
id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et
principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio,
ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore.
Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et
pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum
dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et
primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi:
secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex
praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur
in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat
ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita,
in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars
ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus
ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum
simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus.
Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad
significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam
animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis
proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est
nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat
naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam
opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant:
nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina
omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines
rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad
hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit;
quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit
naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus
significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex
diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est
autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium
non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus
leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum
est. Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis
ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem
vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim
nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam
determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod
dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat.
Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non
ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum
natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum
natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit: CATONIS
autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni
et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter
nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi
autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam
declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit.
Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur,
eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur
rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut
stilus qui cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius
etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit
quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus
nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel
erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in
obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt
quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum
vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur
ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed
contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est
praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum
Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem
nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio
non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum
significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum
instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic
determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo,
excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.;
tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se
dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem
verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et
cetera. Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non
ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea
intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem
tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine,
in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in
definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula
est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars
nihil extra significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione
nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox
significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione
nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur
ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam
orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut
ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur,
ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in
subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina
locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est
quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem;
proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem
actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam
res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio,
cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a
substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum
modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia
actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde
est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam
actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut
nomina prout significant quasi res quasdam. Potest etiam obiici de hoc
quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum
dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum
curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem,
sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res
quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur
materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum dicit: dico vero quoniam
consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod
dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod
est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera.
Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam
particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut
cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de
cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam
autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur
ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum
semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet
esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur
subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel
in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter
praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto
praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel
passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae
dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et
ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de
subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione
utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles
dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est
sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum
praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt
quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum
quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio
fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid
essentialiter sive accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et
non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum;
secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel
currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur
verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel
passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel
passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent.
Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae
supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat
tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio
eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum
est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia
negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat
actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita
praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si
quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo
sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo
communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia
deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum
huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in
aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo
vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit
quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod
est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt
verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum
consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde
circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter
praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in
instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens
tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per
actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non
sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel
pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est
agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est
secundum quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis
rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia
praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum
quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. Cum autem
declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio
quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis
variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae
est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit
casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et
verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis
temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum
dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa
hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum;
ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba
secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae
sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico,
currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed
haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non
respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout
communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam
rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa
verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus
comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur,
significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se
existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. Deinde cum dicit: et
significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba
significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant
verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera.
Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum
significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio
perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se
dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere
velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum
est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui
dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam
operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit
audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius
prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam
operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel
nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. Et
ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis.
Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc
consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non
esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet
esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non
esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat
hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per
id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum
nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non
significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius
esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit),
quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per
se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur
proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur
de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil
significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam
accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem
praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat
naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat
quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem,
quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur
dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset
neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo
aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest
non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit:
consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit,
consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed
consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem
significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc
commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse
secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam
speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod
ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum
ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest
non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens:
quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per
hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens
significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul
dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in
hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in
quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis
non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit
veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat
enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam
est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum
verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est
communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis,
inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter
inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter
vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid
autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat
compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae
sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc
determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus
eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem
orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit
errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio
orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum
significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid,
ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem
Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt
enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut
puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit
soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus
partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum
mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis,
scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una
hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis
esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione
nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum
quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt
huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. Deinde cum
dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis
oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis:
quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo,
quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis,
sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem
corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur
ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo
ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis
non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis
enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars
haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de
diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi
adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio
et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit
enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc.,
in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est
enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem
enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio
ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit
quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem
relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae
est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc
melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non
sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de
nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium
inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione
proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod
considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas orationis
refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas
voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine
et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est
etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed
tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale
mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae
quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione
est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen
multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia
plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est
pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio,
vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si
vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura
significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia
ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum;
ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio
non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per
disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem
aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est
sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen
haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius
est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat
quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis.
Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura
significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus
pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod
secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae
non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae
est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et
non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam
quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est
simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in
quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque
significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles
quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia
plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen
multa significans. Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, “Petrus currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante,
vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso
proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando
respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est
proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum
quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat
secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur
in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit
enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi;
et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex
enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad
affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO
dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non
esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas
negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus,
idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu
praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est,
contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit
affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari
nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non
est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod
affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita
sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod
quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium
illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod
negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum
nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis,
ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE non disputat, non
est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim
dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio,
requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen,
sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est
quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio
una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est,
quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non
sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem.
Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur
omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim
esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio.
Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo,
secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur,
Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus
ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde
et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non
est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures
quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et
quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in
disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et
litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I
elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis
esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit
distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur
quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam
divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum
assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et
cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum
differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum
enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est
enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco
nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus,
quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per
divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt
singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per
definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari,
singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno
solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, PLATONE
autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut
probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res
existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt
nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio
rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales,
sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum
quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum
aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam,
quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod
est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod
intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu
definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium
intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio
alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc
impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si
omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter
conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi
solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est
alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est
quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de
universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit,
sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu.
Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic
considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si
dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species.
Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae
intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam.
Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet
apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet
ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae
sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc
enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet
homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes
homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione
intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei.
Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc
dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum
attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur
principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis.
Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur,
puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum
dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno
modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est
singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae
communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui
ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”. Et totidem etiam modis negationes
variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra
dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus.
Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero
coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur
secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex
et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem
et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur
secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est
pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad
qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod
differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae
sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno
solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum
praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato,
qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem
adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur;
et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid
praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est
homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum
dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et
negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo,
manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.;
tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et
cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur
aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes,
sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico
autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est
quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter.
Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis.
Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus
subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est
albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur,
est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia
non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed
modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de
subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de
eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod
dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati
si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes
ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando
universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex
oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo
tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis
negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur
circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa,
altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis
negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio
consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem
affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex
necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest
nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis
affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod
universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et
particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit:
contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit
quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut,
omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.
Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se
habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non
sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat
propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod
facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera.
Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis
propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum
subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio
et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod
quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter
sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed
possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et,
homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. In
quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod
indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc
astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata,
se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis
trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa,
quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse
sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum
destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem,
sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod
indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt
quod philosophi, et etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro
universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res;
et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes
non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur
pro peiori, verum est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat
privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in
Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia
non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita
semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori,
non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere
affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote
particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis
negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est
potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius
etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen
adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro
particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest
aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde
sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod
designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae
sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas
particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia
similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel
ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis
pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et
utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de
universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc.,
probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt
quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et
fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in
permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis,
quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam
homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est
vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut
huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec
negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed
si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est
sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex
sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero
negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae,
in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio
affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare,
sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed
hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod
affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola
negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud
praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino
diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates
est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates
non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est
universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est
albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae
aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis
subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic
affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio,
nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis.
Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite
sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria
eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias,
lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod
negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem
non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit
de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur
intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc
potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini
ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio
negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui
singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio
etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod
uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et
negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae
sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut
supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel
falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione
affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper
una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non
verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae,
sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem
et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul.
Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia
scilicet in his quae vere sunt contradictoria. Deinde cum dicit: una
autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod
quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum
significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo
universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit
ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo
facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per
multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo,
ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur
sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod
una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum
quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale,
sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si
subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista
affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa
quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia
exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae
requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est
praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem
enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se
multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis
singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in
uno communi. Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola
unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis
ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat
utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum
quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod
ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est
nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est,
ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et
sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una.
Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si
tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba,
aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus,
et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam
ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum
ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem,
nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo.
Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus,
et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem.
Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera
nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione
facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret
distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed
hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum
dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui
attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.
Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in
his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper
oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud
negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum
oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum
scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus
enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem
divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem
enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione
una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est
affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de
futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem
impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et
particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus.
In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus
vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod
omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si
hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat
consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat
aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem
ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere,
sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat
consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod
verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat
consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate
sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur
quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quaedam
enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam
vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem,
quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in
pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si
autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo
dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent
contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter
causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in
paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod
significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi,
manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera,
oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic
tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum,
nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit
tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea
proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest
dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque quoniam
etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique
oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum
dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est
verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque
non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus
rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et
falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam
esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse
quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus
et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit
inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit:
primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo
circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. Circa
primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc.,
probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili
posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud
non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse
impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc.,
ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt,
quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum,
alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum
fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel
negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae
enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter
etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit
affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic
ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum,
ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod
necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri;
consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si
haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo,
per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis;
secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum
autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod
homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus
existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod
quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et
omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas
persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus
homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota
civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod
homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc
quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis
contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent.
Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id
quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non
fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse,
contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu
semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate
sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis
ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in
pluribus. Est autem considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in
commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati.
Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud
esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit;
possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero
distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium
esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod
semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non
prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima
distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper
erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in
aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est
necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista
distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod
in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est
determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino
determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat
aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod
BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc
loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem
quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod
materia est in potentia ad utrumque oppositorum. Sed videtur haec ratio
non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur
in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus
invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter,
sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad
utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi
etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad
unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest,
consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem
modo. Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in
ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad
unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu
connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet
causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se
non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae
sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed
hanc rationem solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque
propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed
solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam;
quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato
dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod
est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis
huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti,
necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens
sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa
combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur
combustio. Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera,
infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet
effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut
post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque
esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in
praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem
causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit
salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur
a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo
Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum
esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes
quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui
est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est
per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut
musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et
similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa
aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se,
quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed
causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam
suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. Quidam vero non
attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere
omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam
ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes
nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest
provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex
intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti
caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in
ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima,
impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas
virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se,
nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium
per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro
de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit
his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis
caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet
intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod
passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati.
Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per
philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non
provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec
in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per
accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in
causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad
unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod
haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat
unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum
signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et
tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis
illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam
caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in
aliquam causam naturaliter agentem. Sed considerandum est quod id quod
est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum,
quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in
quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc
contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in
aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum
locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de
alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc
quod in certo loco sibi occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia
quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia,
reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc
quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum
intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam
intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius
sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum
scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum
intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum
velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est
bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius
cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex
hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse
perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Sed si
providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem
bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte
scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit,
videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim
Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex
necessitate eveniant. Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio
divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum,
quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo
quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad
cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis
cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae
totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest
ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et
posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in
tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet
eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de
praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes;
quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se
sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non
potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in
aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem
simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in
comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo
unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine
temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo
necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est
quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et
futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu
aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem
non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum
quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in
seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non
tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen
certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet,
quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur
relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt
in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem
contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi,
aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt
esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis
videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse
impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando
est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est:
et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest
simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod
non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando
est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam
primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem
absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse;
quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate
non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra
dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod
etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. Deinde cum
dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et
necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem
ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod
non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia
necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute
fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod
sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et
haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est
contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque
non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum
accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum:
quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam
etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa
orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate,
sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis
magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non
tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera
vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit
principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse
in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate
esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et
falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt
esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia
scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum
falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic
terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de
enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum
quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in
enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel
subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est
affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare,
ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit
quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim
supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim
praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco
nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens
praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est
quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates
est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in
rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale
praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum
subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut
asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante
hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali
praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia
est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato
facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in
tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando
est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est
iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum
dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam
tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen,
prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia
dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus
magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad
hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde
cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo,
ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae
quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et
cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium
adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes,
consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium
adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum
dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum
ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad
affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum
correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae
vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a
diversis expositum est. Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic
exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae,
quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem,
quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut
privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim
duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad
illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam,
scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non
iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum
consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est
iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus,
affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod
Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et
similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum
consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus,
ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec,
homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura.
Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato,
scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa
de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa.
In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo
duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et
negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt
de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto,
scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non
habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur,
duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed
hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes,
duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas
subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur
intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt
de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur.
Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Et ideo, ut Ammonius
dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor
propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad
affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes.
Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito
praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum
privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter
affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec
hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim infra: haec igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur
ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum
dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo
praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam considerandum est
quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo
totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec
enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere
potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est
iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non
est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex
negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod
sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum
iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non
habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim
est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non
iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut
etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod
penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam
negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de
homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de
quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest
dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent
habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est exponere praesentem
litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae
quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest
ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum
consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut
duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur
negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus),
ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in
plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam
affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex
sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex
quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae
est etiam privativarum. Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae
relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime,
idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent
ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam
negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita:
ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed
affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet
quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae
se habent ad infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi
subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam
littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas
respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam BOEZIO ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes:
loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum
praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta
secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod
adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum
negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni
autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in
supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim
quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo
est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est
iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum
est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc
diversificantur quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod
praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout
dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem,
quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco
homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et
non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus
quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur
ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in
quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro,
quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit
sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut
ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice:
“You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call
him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando
infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why
Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool
Library. Centi.
Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale
della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Calci).
Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in
the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani –
notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the
Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” –
how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most
importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration
on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee
for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner,
Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the
nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si
laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore
secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica.
I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità
del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse.
E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per
tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a
Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e
il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto.
Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!)
vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua
scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono.
I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il
servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno.
I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio
finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima
vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in
un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo
di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi
della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è
facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità
loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza
e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei
tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia
alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e
gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando
surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime
umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai
separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture
delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di
quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto,
e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di
densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti
usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore.
Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono
cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il
più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea
religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella
setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione
dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae) e uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione
del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo
interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto.
Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se
veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna
imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer
sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al
sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a
goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il
riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura
trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa,
la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la
compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di
Bruckero (Hist. crit. phil., Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto
a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato
possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità,
molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza,
vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei
che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la
verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità
col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo
la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo,
“si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre*
dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn
fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio consuona al
principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da
Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche
la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure,
se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e
primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto
materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama
la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con
profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni
procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma
suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna,
dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e
dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non
conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia
dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la
presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione
radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie
del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne
ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi
non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo
testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese
pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la
insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche
iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza
discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica;
e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto
e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo
di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene
Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano,
Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret
auctoritas” (De Nat. Deor.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale
riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo
altri (Clem. Aless..) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di
‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla
verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni
effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che
puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio.
Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e
proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del
trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza
dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel
discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro
se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col
quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il
santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa
difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno
pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora
passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo
(pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato
o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno
alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento
siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure
Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al
buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma
il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e
segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero
né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina,
il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare
sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione
--, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e
conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano
la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura,
speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi
nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della
contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione
epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”),
ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores,
gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine,
o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto
alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al
volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci
sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica
cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi
dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica
con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P..;
Giamblico). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi
uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove
esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla
cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni
prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che
prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce
armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a
della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a
conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione.
Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla
dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara,
ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il
corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio,
con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera
al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino,
ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della
cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto,
al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.). Questo
e l’ordine, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale
che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed
abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a
quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col
mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il
pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste
di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La
breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare
alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria
nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare
e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola
quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo
nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o
scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue
parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè
una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che
altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo
dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui
quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua
apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede
conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione
dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in
quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi
universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta
pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di
essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente
risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica.
L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea
pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si
congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le
prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e
riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere
il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che
implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che
precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora
(o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri
si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli
estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria.
Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di
questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia,
alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un
rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla
filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del
filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera
della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale.
Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto).Isocrate reca a Pitagora la
prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous
Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E CICERONE lo fa viaggiare per la Liguria (De
Finibus). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo
diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a
farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina – Laerzio --
la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente
Alessandrino (Strom.). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione
di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa
trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente
notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono
bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora,
secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi
“cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque
vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit
facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle
presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar
fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare
Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel
dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val.) e tutti gli altri filosofi meno
antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto
antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc.). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro
Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.) ci lasciò
notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era
anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a
dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla
Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra
quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico
dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro
dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza
e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere
alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non
ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi
che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto
riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea
(segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata
quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non
fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano
pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la
razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e
Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione
puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è
nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che
la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una
dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo
ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in
Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta
a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col
magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè
la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice,
setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al
primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo
al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a
un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso
valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e
simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè
Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza,
o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da
tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della
misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura
sempiterna. Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il
nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due
versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e
da Porfirio ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola
del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου
φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym
fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph.). Il Moshemio
sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento
pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla
duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s.
20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo
genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o
filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli
ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi
anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è
sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno
altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini,
capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le
greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa
cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand'
opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il
tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio,
che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma
sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento
suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto,
l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di.
qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia
necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una
verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e
sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il
principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a
intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico). Riferi scansi i
suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui
raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e
renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto,
che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e
legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il
vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi,
prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa
tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia
de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad
ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola
pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie
tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5
); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro
anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei
piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da'
loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino
dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il
quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza
medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché
la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen
dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale
e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando
degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di
Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa
sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio) Da tuttociò
si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche
qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo
condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad
esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre
questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta
solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro
opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare,
Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a
distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie.
garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne
abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce
sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide,
visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici
più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover
dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri
viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a
somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie,
le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven.; Niebuhr, Hist. rom., ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti
il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le
istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i
superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben
risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre
Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P.; Porfirio, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad
ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno
discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle
contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo
prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e
ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci:
e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle
colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa;
fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle
idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se
ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli
di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il
quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des
anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione
delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec.-- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito; Valerio
Massimo; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente
connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno
dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa
eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà
cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui
l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero,
Odiss., Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa
Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di
quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo
sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini
della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la
musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si
compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale
e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de'
giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi
pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce
sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e
son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava,
ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo
di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu
già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste
società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el
lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni
jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe
importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci
alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono
nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era
il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume
della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio
un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non
seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica
di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della
pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia
delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica
dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose
che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero
essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo
onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle
perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani
ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di
necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e
alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende
opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma
alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose
più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce
lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo
degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli
Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue
riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano
l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della
verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone
nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle
Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck
scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in
transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et
nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira
orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e
le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli
surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i
legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri
sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva
per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e
rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle
tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove
idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito
di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io
non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei
misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica.
Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere
l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà,
fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre
opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le
altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita
gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio; Giamblico, V. P. Valerio
Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem
domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis
me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col
Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie
illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal. E anco Lampredi trova analogia
fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state
comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena
comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici,
scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di
divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e
comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col
pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare
il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello
di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui
che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli
Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora
il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall.; Diodoro Siculo; Valerio Massimo;
Ammiano Marcellino. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique
magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire
profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in
specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus
effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως.
Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem
stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati
sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti
pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica.
Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand'
uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a
fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse
il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio.
Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella
civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e
dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è
quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato
vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora
dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche
generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica
con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea
scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde. Ma l'opportunità del luogo
non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a
migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta
tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi
greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò
costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati;
ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e
ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante
fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di
desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla
profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del
rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse
alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva,
indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui
divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente
alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora
chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune
facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità
nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e
nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed
apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la
scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio
le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante
scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa
pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum,
qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas
simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella
Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa
invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti
nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che
essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene
era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale.
Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro
che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori.
L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione
progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi
svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto
è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che
la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi
vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e
forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare,
secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la
musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore,
è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti
nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi
cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta
quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili
potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel
l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata
conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a
scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta,
come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente
recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico
sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran
colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a
Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.; Tuscul.), ma e
per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo,
i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e
continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla
veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.; Dicearco, ap. Giamblico,
V. P.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm.) doversi
attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos
sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e
costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu
pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni.
Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini
giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi
impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e
di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla
Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti
comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina
all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle
altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa
attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita
adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e
tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano
sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità.
Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς
oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,....
oportere hominem quoque fieri unum (Str..). Imperocchè fin dalla loro prima
istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa
bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto
fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la
suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che
alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta
della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse
essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore.
Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non
conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise
in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e
le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede
leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo,
venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa
società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello
almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma
essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a
generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe
dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione
miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma
di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino
dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla
vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de'
singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia
tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella
società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime
intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui
disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe
spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la
pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne
risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli
necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella
quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico.
Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo
consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella
sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era
libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che
fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che
egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia,
nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si
potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè
ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o
genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da
quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do
mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi
col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come
a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non
potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro
di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che
ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero
arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione,
e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina,
e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica,
e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna
ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano
tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della
scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale
nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico
che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo
è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met.) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle
scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp.), se mai potessero essere assolutamente
contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella
filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio
scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che
esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole
ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne,
non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir.) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore. Noi qui osserveremo che
nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna
concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici;
dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι.
Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe
(ivi, epodo 2.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo
chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora
miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose
sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.). Ma noi abbiamo già
notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della
sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza,
che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare
cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti
de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum
omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis
praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre
luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis
denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno,
allegato da Porfirio (V. P. ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè,
questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta
forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle,
rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze
e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e
mansueti (Giamb., V. P.). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non
dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore
congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della
gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra,
chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe
sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e
dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba
di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere,
fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che
ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del
fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia,
di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo
la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus
explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam
deorum. De Nat. Deor.La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di
che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro
di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina,
da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio,
da Valerio Massimo, e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggitori.
Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il
fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di
severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la
società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa
ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che
sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica
delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli
studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non
vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i
pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella
religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti
gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata
dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non
contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita
con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca
la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose,
che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse
cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano
non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per
sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la
Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano
cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle
menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della
sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni,
fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore
importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le
volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori
nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla
quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte
quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene
continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è
imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo
pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto
il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa
dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di
discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le
une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le
classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea
sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo
verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero
adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello,
la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e
aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso,
promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto
larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi
erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima
formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si
debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono
esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima
forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto
il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in
questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che
in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli,
fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la
politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano
avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici,
ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a
raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva
fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in
quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni?
O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni
legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro
consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione
mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro
dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose
non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche
le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero
degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a
tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più
pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il
segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette
inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto
difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di
Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle
opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di
questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il
popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi
motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all'
apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e
ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero.
Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in
opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e
miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli
cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara
proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e
diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli:
parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi
una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea
coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio
migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste
ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la
necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa
disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per
cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le
varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto.
-- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et
accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. E dopo averlo
conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per
altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi
tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al
Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso,
quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita
gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e
in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come
potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita
del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e
non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle
profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio
con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po'
lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti
più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto
solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non
hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia
che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro
necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di
fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti
trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi
quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico:
infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma
dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità
degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte
norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e
massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i
piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento
loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu
strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di
primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura.
I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a
meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi
alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto
giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose
e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa,
la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda
iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed
erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto
delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il GIOBERTI vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono. Noi principalmente
abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili
deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale
concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino,
indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione
piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non
potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo
comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri
potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben
si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero
essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di
Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè
torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca
come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e
quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari.
Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi
le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente
unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e
studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse,
quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in
questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che
comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu
favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide,
stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro
pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri
concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide
pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il
che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità
miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la
sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica
essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi
doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole
a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον
απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5,
VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum
necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi
fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse
cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con
questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la
morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao,
quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di
Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che
molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., da Porfirio, da
Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai
tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui
adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le
autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Cocchi,
scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che
tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane,
che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par
conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla
pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà
furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie
jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero.
L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a
estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è
piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali
spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle
città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del
secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle
gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico
scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero
destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è
nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e
i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si
compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente
copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al
magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della
mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e
là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a
riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni,
e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi limiti
bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i
paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e
formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere
nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre
sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i
Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose
mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi
divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano
a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi
insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e
Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici
antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di
Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e
vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine
liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d'
Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono
stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima
dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil
morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi
oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le
imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore
di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu
fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta
di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle
arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in
errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a
perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La
speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla
scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli
ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico
di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione
prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora,
come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes
Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da
ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali
argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti
presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se
veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia
bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il
piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai
sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle.
Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè.
Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo:
semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar
l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le
anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede
dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne
restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni
ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un
pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il
resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc.
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv
fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio
(VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il
detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose,
"κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide,
i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre
punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia.
E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè
spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che
presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono
essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde
l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive
Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" --
come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du,
tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa
nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo
proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto
ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado
questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine
stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini
discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi
impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi
i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi
la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai
gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con
gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V.
P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la
casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo
ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente
astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano
la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual
musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse
eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le
cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei
templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano
argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane,
miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai
civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino,
ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle
cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun
pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii
lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali:
e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E
prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante
fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali
alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri
i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio,
rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero
le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente
si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos?
ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud
ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini,
questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via
formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate
ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella
dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col
mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così
il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era
necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e
quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa
bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa
essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità
degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si
consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una
certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia;
e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal
quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui
quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli
uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una
sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel
nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne
vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che
sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta,
Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer
tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure
di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica
instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi
risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni
risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità
molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto
della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia
contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un
ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla
sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia,
sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e
con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima
intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων
) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa
viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la
cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino
(Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice
erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente,
la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa.
Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di
Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra
conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una
filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque
vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes
Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia
secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio,
id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci
dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo
nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo,
aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che
è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione
latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad
un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta,
non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione
del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice
Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da
Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche
conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι
παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature
animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele,
è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella
divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento
organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati:
l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava
oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che
risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota
nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si
fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei
Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual
proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle
essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa
contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre
dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si
ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità
recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora
essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e
l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e
perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia
anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di
perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e
l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua
società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome
vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del
fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio.
Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e
mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de'
Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora.
Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che
dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa
Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il
tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro,
altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da
Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali
riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento
pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως
ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem
perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio
sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del
giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa
sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV,
$ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre
sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a
Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini
delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è
sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un
ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli
uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli
viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e
costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una
grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo,
che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un
principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica
applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera
stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella
vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica
e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la
persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume
ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo
agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica
della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli
fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello
che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore
di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il
pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie
massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee.
Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo
forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle
quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un
concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol
ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che
son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno
arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito,
non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua
propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni
posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti
a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non
confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose
vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il
mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia
nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di
dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che
dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di
un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in
sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo
secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente
determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse
eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla
comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della
sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le
origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni
e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a
questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà
sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era
organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde
il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa
forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti,
che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una
setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina
siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa
naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi.
Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù,
Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες
το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è
creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è
ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni
a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto
reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e
generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina
pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo
la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di
Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini
legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento
a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide
istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro
il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare
anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra
occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti
nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi
questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non
solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui
perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall'
Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono
esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al
curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all '
incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII;
Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale
saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio
eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede
questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la
civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica
di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra
filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min.
ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella
studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte
le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo
presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una
disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo
le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia,
ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda
vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi
e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più
razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il
Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa
notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la
formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini
legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva
la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non
osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e
ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi
nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo
gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea
pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole
sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al
nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine
jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo
nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo
per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni.
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea,
fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo
della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e
di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la
concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste
sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina
jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità
cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle
misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare
un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi,
fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni
non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di
Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza
ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella
storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita
pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime
sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi
di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto
disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione
della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità
suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel
sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem
psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam
sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis
illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., Prodigiosi
effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i
fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora.
Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella
filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e
degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si
diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa
antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei
miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione
con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare
questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar
feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi
l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma
attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e
nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della
scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali
carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di
un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli
gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre
meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali
cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le
leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa
sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte
le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora
in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V.
P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati
post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea
in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi
poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre
memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E
anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica,
e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi
potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli
dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio
questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e
le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia
col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non
recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno
quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di
colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano
gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29;
Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla
de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum,
ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et
diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae
praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas
esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου
καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per
isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo
sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit.
Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la
teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol
1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la
instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee,
alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de'
popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a
Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle
consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che
se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le
parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di
cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio
alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e
congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura
umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già
ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata
grandezza. Questa è la con clusione grande che ci risulta dai
preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi
nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause
che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad
esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c.
V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse
eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche
in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e
volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti
divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga
moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se
stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione
degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi
guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica
primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver
civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e
conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi.
Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed
esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici
aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione
dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde
si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa
piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina
dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e
scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di
Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale
collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero
appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente
far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti
poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare
questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi
privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed
ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali
dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per
meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo
vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue
idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e
le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo
di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una
società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da
stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco,
era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di
elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento
di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im
perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali,
desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque
chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere
inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente
molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la
sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale
e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de'
suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità
ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale
principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore
storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua
propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora
note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do.
veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente
della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria,
nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia,
nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per
supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro.
Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la
sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal
fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto
il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or
dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di
ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità
dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το
όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos. Che se l' uno è presupposto
sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono:
e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi
conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le
intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si
adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e
costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di
combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli
ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale,
non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo
secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e
quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita
cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose;
e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e
coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la
ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si
determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella
geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa,
questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici
precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde
gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura.
Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella
morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è
il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai
profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl'
iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del
principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le
condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro
essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine,
fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero.
E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della
psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti
leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla
filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh.
Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia
esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele
veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici
antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι
αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che
questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo
concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se
non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di
quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la
condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano
che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a
un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che
eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti
nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai
vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar
loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica,
che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da
Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o
generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire
quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee:
γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica
delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione
corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che
qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque,
inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci
di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo
scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co
smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee
esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi
all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di
una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli
di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose.
Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a
una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere
consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina
tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le
cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la
dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli
furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro
nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e
linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse
le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio
ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la
segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità
poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se
Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella
storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da
Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto
fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα.
Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere
le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche
pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non
creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata
ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque
natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose
pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali
che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui
mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed
imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e
danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio,
e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno
della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII
Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al
primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C.
Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal
l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma,
la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli
scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città.
" * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori
l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de'
Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il
Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma,
quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello
che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser
favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era
uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su
questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia
stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi.
Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti
che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor
narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come
quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj;
tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i
quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide
scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore
anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la
storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso
più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri
ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma
altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte
del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad
abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri
vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso
delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del
Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle
rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e
di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito
alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da
prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno
al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non
avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti
ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono
la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che
fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar
nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand'
ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli
uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano,
Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e
ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne;
ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo,
contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e
Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone,
presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ).
Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono,
prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli
Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un
secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana
eravi in Italia una città nomi nata Roma.
Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed
altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città;
altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo
di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini,
il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in
Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città
questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori
gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di
Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo,
e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi
placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor
di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni
pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco,
partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di
Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente
raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in
casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si
mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un
membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e,
ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a
Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale
nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per
gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue
figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania.
Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in
Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel
primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali
tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi
Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco
siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de'
secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione
appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con
quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una
fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece
prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta,
4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una
certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di
tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine
di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti
due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier
loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava
poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando
minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e
meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che
finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo
vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la
Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha
moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la
prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi
luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per
ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che
nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento
erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla
guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli
Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in
moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi
luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito
Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut
reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque
l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri
storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani
alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353
anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio,
sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio
presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla
figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai
sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri
Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge
alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio,
Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa
in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona,
acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due
bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo
ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni
dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma
quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in
una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir
giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la
riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente
dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale
ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè
chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico,
il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior
parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre
Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di
Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre
conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e
Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa
vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale
calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu
concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito
Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto
per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu
chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del
nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti
di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a
canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di
loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i
Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a
colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella
affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse
per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere
armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere
un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto
favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale
specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal
carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per
altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel
mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella
festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la
chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato
anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si
era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La
conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i
casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola
straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro
istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que'
primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che
accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere
la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di
questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23
di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si
festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma
Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor
romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio
di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care
a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume;
e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa,
e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima
pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti,
e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una
cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche
pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo
cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che
il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla
piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse
amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze,
che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era
senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la
sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa
lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto
celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo,
dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro,
perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per
quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?.
Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo,
coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co,
incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano
si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i
Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da
Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a
Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede
faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che
si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta
la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1.
XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse
i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più
probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale
di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi
pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte
l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono
chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La
nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede
subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole.
Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un
coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però
mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle
conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini,
facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi
nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano
essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano
de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami,
considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro
eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano
gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un
uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce,
i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla
violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati
in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli
fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che
diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso
dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica,
e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia
d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior
sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s '
appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo
via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero
loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della
preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano
molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez
za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era
dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi
con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta
tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente
vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed
accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del
fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva
di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava,
egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani,
persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a
rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore
ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di
lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo
nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere,
e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i
fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e
soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando
unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od
a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno
alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce
mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi
prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più
» re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli
rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da
prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due
fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e
calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir »
sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da
farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per
quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde
fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti
a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati,
siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri
cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume.
Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi
caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono
essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi
morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene
corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella
speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente
abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora
strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo
e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede
allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo
addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto
basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente.
Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine
pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle
guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon
dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si
accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba
qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero
esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da'
caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito,
fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale,
essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si
tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi
ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar
menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse
volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi
figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che
con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio:
conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di
Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era
pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque
costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma
sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già
egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di
quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto:
im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui
fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne
aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati
distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava
legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le
quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche
presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo
avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 *
Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non
è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di
partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per
sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque
asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il
primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di
favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto
increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e
che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di
possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non
essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e
tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver
essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go
verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se
medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti,
essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita
erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di
necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi
questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che
quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia
que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra,
principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo
cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far
mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta,
poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i
primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo
sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano *
Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo.
Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco
rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi.
3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni
persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a'
creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo
d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo
modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi
dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose
addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero
subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un
luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur
quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai
forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e
Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de
cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere
separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo:
alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia
mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne
Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj
specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea
rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa,
conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non
guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso
degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende
animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza
ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono
pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo,
Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è
Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi
d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò
può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte
Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il
presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più
gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno
sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne
sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua
discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto
rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce,
non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi
Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per
alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi:
finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di
Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un
certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur
morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo
ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua
chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto
Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un
combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far
quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia,
si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che
con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa,
come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare
intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le
primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e
per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità
i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto
il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia
contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo
veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli
augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete
discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà.
di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono
insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman
anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la
città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero
di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in
giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli
vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il
muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o
dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando
l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il
muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non
potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie
e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia
stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo
il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non
sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse
conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor
patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo
giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei
mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono
ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le
fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra
pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe
all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole.
Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice:
l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di
numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i
moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di
G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione
dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese,
e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono
essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno
terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i
Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo
anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a
quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era
eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e
de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si
dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le
risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della
speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona,
da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la
maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo
considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della
vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto
pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre
il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il
giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente
ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo,
circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il
nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè
stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il
suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine,
relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più
altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle
varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale
merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con
molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone,
che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius
Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano
riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la
città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di
tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi
bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il
restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri
cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato
chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un
collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj,
perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto,
secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa
non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o,
secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo
cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro
affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi
ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli
stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter
muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi,
essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti:
e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine
senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri
uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli
clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro
una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli
obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi
clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro
consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei
loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero
in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o
magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i
clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando
tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i
magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste
cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come
scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni
che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi
oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le
guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i
Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole,
siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi.
Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena
in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più,
essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra
va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria,
ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza
e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano
all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato
avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si
fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza,
essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così
dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle
contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior
dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre:
conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo
tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono
che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che
l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto,
fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di
combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta
gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga
purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era,
quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente
d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu
dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso
a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi
che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite,
dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che
furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual
cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere
stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per
mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far
ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le
genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria
corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’
Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche
prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per
ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo
alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma
Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori.
XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire
aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa
condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di
persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de'
maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la
conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e
dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste
acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad
accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di
cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi
nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo:
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e
che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali
è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora
confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa
non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come
i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè,
quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le
donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro,
che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi
novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che
accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo
Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro,
che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa,
passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma
ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per
forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la
consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere
state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose
abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno
decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente
Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e
numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle
quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi
colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si
grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che
facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le
fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer
amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e
legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava
pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel
consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di
valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite
imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per
quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più
tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra,
e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui.
Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si
sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli
eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di
appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e,
attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non
fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad
atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime
condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi
crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se
stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo
spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la
recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi
sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo
zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto
l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una
tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E
questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo
ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di
atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome
chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno
appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione.
L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan
dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il
capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il
primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio
Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé
Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei,
entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si
servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di
Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i
trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio,
fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il
rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco
s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie.
Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles
delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui
appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso,
quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale.
Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati
in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero
unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono
costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino
ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui
Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta
da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi.
Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio,
mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a
motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed
eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine
Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi
Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie,
di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel
luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano
alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una
porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi
vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser
tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il
tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando
ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la
smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo
tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi
da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser
creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di
Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò
quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi.
Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi
mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne
parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del
Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver
letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo
sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli
diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le
battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di
morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei,
finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono
trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura.
Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani,
essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione
il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne
si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri
colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini,
accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto
pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed,
en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di
cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che
ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione
sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il
pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è
probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale,
essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati
dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi
alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e,
ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma,
veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non
essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le
mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose
dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la
preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e
il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente
durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe
interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo,
e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio
di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono
da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e
fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e
a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta,
e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e
quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e
diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi
da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e
vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te,
passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano,
fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si
infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a
viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono;
e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e
da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con
saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose
» sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono,
e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi
già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma
» ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi
misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel
tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera
compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre
» ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed
avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa
questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e
rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve
ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di
guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur
anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In
que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a'
fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano
i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della
casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e
da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città
fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata
Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e
che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si
fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire
chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti
cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di
seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù,
altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da
Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per
cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono
poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre
appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche
presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci
compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne;
il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi.
Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono
anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di
turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun
cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. »
Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si
chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre
questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una
tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati
due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti,
nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il
non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti
capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la
bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura
simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito
unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima
separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava
Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono
que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal
Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo
sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall'
Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si
profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque
molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel
legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di
corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come
la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi
si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi
mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea
subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar
soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano
da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per
quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno
e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco.
I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che
tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli
scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser
giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. ·
Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè
Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima
scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non
avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra
nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali,
4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle
Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere
alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri
dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo,
la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi,
mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era
Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che
più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi
fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e
mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in
quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra,
che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti
del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel
giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa
lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità
molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo
quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale
appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå
comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto.
Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si
celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per
che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi
scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni
toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono
subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono,
convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie,
discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando
scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le
percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente;
ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo
Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate
da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio,
corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a'
bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i
nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade
in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello
insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora,
e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio
Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami
guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in
traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono
d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una
purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal
animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle
purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che
chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che
scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del
popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in
latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in
ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si
sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità
quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel
mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la
consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan
di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por
tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del
cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa
verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa
da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa
dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita
era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella
che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro
motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so
stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo
che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare,
ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero
ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse
questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età
parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità,
" S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le
Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che
questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3
Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo
sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni
attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com
messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi
alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano
a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi
resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria,
Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si
andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi
il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in
tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con
senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in
alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo
in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si
diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni.
Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino,
presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell'
uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita
gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo
che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di
sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel
regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero
punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano,
altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come
un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur
* Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi
ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di
Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a
purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli
antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui.
Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni,
repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle
porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri
dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in
molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo
loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non
volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati
avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX.
Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine
senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i
bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè
s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che
le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno,
che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto
sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra
città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si
videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con
que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta
Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire
i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come
impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse
tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila.
Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi
anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie
che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in
Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di
sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti
o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj.
ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio
maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che
vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini,
sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da
Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di
Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria.
Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla
di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti.
Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non
pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi
a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali
possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi
fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di
loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo;
perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo
ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano
poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque
aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in
due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se
n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila
Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila
dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da
tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo
ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo
gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per
altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te
incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della
metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della
Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi
anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad
Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti
Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re
stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma
quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza,
anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento,
rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette
magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre
datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria
avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri
prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in
quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si
convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando
sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta
per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il
banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i
Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu
l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a
molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e
straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però
di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già
si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto
contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia
dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne
d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei,
cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio
spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non
procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della
costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone,
s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la
Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione
standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli
poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano
ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora
da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da
essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi,
dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che
questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima
Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i
Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba
l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per
far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno
in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche
quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed
arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati.
Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte
alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi
in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano
tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non
aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i
primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor
importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte
di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que'
patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria
persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier
non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli
considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani,
l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con
tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo
alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista
degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed
allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e
d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente
si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento
di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto
essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde
poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni
dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso;
altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo
assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva
esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea
dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte.
Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di
lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i
senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato
n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser
via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli
sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in
un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero
subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni
incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida
e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ,
e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si
vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione
Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece
per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse:
Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con
tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta;
onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero
insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la
luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo,
dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero
che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che
esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli
Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo
adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo
adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj
principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi,
fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi
nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse
alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo,
che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo
addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una
tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o
per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e
malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che
quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io
per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di
gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, »
donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che
colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre
dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io »
sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani
degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che
fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto
divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi
alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si
diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha
della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo
Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto
sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per
dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano
da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella
strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e
gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e
furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di
fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse
nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli,
raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e,
avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu
possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che,
spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde
stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla
Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche
svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in
iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma
raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta
e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando
le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E
per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è
cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra
col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro,
si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo
ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché
questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di
Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s
' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli
uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime
per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di
uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre
espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale
e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità
e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi,
ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di
Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che
cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri
pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l '
asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora,
riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il
primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli
Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e
Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che
valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde
affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume
bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto
Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo,
e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed
indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo
l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la
guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo
stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una
serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di
non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto
l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide
medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone
li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed
allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno,
e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini.
Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro
ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse
da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal
festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si
portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo
giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come
allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel
conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra,
come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima
ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel
giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato
dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al
suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia
della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco,
la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia
romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola
logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio. Refs.: “Grice e Centofanti” – The
Swimming-Pool Library. Centofanti.
Grice
e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Grice
e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher
in Rome in the time of Nerone. Cerano.
Grice
e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) –
Filosofo italiano. Only the soul resurrects.
Grice e Cerebotani: l’implicatura
conversazionale della botanica linguistica – e il prontuario -- il toscano di Ceretti – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Lonato). Filosofo. Grice:
“Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname, since a linguistic
botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare classico’ charmed
everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit on Lago di Garda!
There’s a stadium in his name! He also played with Morse, which means he was a
Griceian, since he was into the most efficient way of ‘transmit’ information!
‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as Symbolo!” Presentato da
Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e l’estetica della lingua
italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro, il tele-spiralo-grafo,
ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo fac-simile, cioè apparecchio a
comunicare immediatamente e per via elettrica il movimento di una penna
scrivente o disegnante ad altre comunque distanti. Emise idee sulla tele-grafia
multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento della regia Legazione
italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che serve misurare la
distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza stadia'. Fa
costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a trasmettere La
Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della geodesia, inventa il
teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le distanze fra due punti
che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro, per misurare le
nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata nelle montagne
del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado di comunicare
le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali a
radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si
dovevano ricare ogni due o tre anni. Il teletopometro serve a misurare la
distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la
misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze
papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi
topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro
monostatico. Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato
con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che
rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni,
come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito
un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale,
esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a
trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo
che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente,
comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un
segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione
del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo
Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata
individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito;
il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o
telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da
scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una
ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario. In
trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo
invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come
nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al
segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere
ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in
trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica. Questo strumento
permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni
al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca),
e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse. Usato per le
comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani. Inventa
un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri
orologi collegati con la stessa fonte d'energia. Studia la luce fredda.
La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per
effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con
dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di
illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio
della luce fredda è anche alla base della tele-visione. Altre opere: Direttorio
e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN
SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano (“I () i.ABBOZZI
E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:(1 ) NI ) ()
(i I, I S(H: I l 'I ()1: I ANTICHI a) V 1, I ' () N A “. 'I' AI;. 'I'I l'. Vl. I;
l 'I l'IN EI. I, l E i FROENAIO ('n i grande mov/r, l'archi: o c', ''a /
) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' - /Xivisione -.
1//a f, ggio in cem, l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l ' - l ' 7 de
/fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non sono la lingua
- Voi: i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto la psiche della
lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del sopito genio
italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa dal
Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o cuzione
può essere cosa convenzionale e arbitraria. I mularne un mom/i le//a ne va dell’'intrinseco
valore e dell’importanza adunque e valore ancora didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo
ad ogni pemma e gradevolissimo il PRONTUARIO l/aniera di la S (17 ) a
62. Sono agli sgoccioli della povera vita mia, e sarebbe gran peccato se
mancando questo uomo mancasse anche quel po’ di bene che mi sono lavorato per
la patria mia adorata. sicura, un repertorio, l’archivio della sua bella
lingua. Se niun’opera dell'uomo può essere mai si conipletº e perfettº che non
sia anche suscettibile di modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò
affermare di un saggio che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e
più riposte di una lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui
indirizzo. o dirò meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e
con la scorta di acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre
dell’italico idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera
perfetta e completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di
semplice ABBOZZO E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe
dirlo alla scoperta: DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole,
ove lo spirito comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido
di nuove cose, ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito
di lavorarmi mano maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le
discipli te nelle quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali
era vago. E così col decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum,
sia delle Sacre Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora
delle cosidette scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e
finalmente di una maniera di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º
brava non solo diversa dalla comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi
andava all’animo che nulla più. Andò poi tanto nn, i 'anore, la delizia, la
vigoria che veniva il sito spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300
e 500 che mi misi alla dura di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni
ieg he, sapere dell’onde e perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio
divario, e presi subito a sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia
slie il più bel fior ne coglie i propone si come maestri di;ingua ed ai quali
dà nome di “classici”. II l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a
dismisura, di che man in no che si accumulava il materiale, anche l’aculeo
della me, e venivº ogrori più assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi
più e brenese di elaborarsi sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo
stile del saggio classico si fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s !
º º ci, sicuº, che giammai in n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi
piacciº insieme a ripensare le aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate
per anni ed ºnni, solo di vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto
encomiato ma non mai spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello
che il lorno i.ll l I l CAN/ A r ci lasciarono scritto un Varchi, un
Bembo, un Cinonio, un Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un
Bartoli, amplissime le ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g. gr
mi. Ai. le dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere
classico non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze
dell’essere, non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale.
L'essere. ia ma, ura dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e
cgili a loro h e rg, vi i ce.re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è
appunto questo non so che che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla
intuire, non che sentire, l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi:
Il ci N / A.E stimulato dall’ardore di
questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e faticoso quanto niun’altro:
mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti luoghi del 300 e 500 che più
mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti poi che mi vennero
per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº luindi nenie a tute le
più minuti circostanze del differire che fa IL LINGUAGGIO di riº: d l 'ic:
classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle voci, tutti quei momenti del
logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera di costrurre che è sol proprietà
di ogni scrittura antica e classica, di º cosa all’opposto niente cc:nsine º
una cenna volgare e moderna mi notai da prima di ogni penna classica, e di ogni
stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di un medesimo assetto e tornio
periodale, sia di certe singolarissime locuzioni: ci; mi sfuſi i denti
qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti -, ingr. l Ti s. I e investigandone
ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli intimi rispetti e le più
riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto veduti e costantemente
confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio senno di genera l’eleganza:
e sono appunto le parti della prima sezione di questo saggio. Cose di indole
organica e che più strettamente si rife riscotto al tessuto periodale:
inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche ecc. Parole e forni e
notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del DISCORSO e
all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui
retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria. E' in 'b e ci reggi e 1 in to ge s ort che: - 'n - 1 v
altri studi, altre sollecitudini me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato
alle stampe, malgrado l’indole del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era
naturale che, compenetrato come era di questo purismo, gli scritti che misi poi
fuori intorno alle mie elucubrazioni scientifiche v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A
vedere lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì,
basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca
ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche può e re. p
v. i, c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla
uscita vi si scorgea» (simile a: selle scura el la dii iita via era smarrita)
per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro
che.... ». E dove: i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne
» (simile a: non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº
lo vidi inve::: Inp. 1a così: non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi
accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss
(tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi
adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a
spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura,
di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece mi
freero dir el vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di noti so
che, che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per ecc.. !
! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati e
snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non
aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si
to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie
fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì.
Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e
smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad
enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è
che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa
copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun
critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che
cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è
altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi,
e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale
pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza
una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e
colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario,
allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E
più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato,
scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un
bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe
straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le
ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue
e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le
folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio
petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In
quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto
un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia
non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono
tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I
l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n
0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli
senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella
lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine
curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe
di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso
Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e
nota. Guai alla LINGUA ITALIANA, quando sarà perduta affatto a quei primi padri
la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno
farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un
mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un
portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi
tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di
vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di nobilissima
donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella, quanto amorevole,
ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta laida di fango, e
che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che straziata sì m’hanno,
come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere.
Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a me, sotto l’egida e fra le
trincee di questi valorosi, di dire brevemente quello che ne sento, ciò è
a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere l’opportunità ed il valore
non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo DIRETTORIO. Asserendo che
nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria, quel garbo, quel CANDORE,
quel non so che di soprasensibile che regli antichi, non è già mia intenzione
di censurarne le alte concezioni e menomarne comechessia il valore e la
spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle metafore e delle immagini,
sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia in questa o quella cosa,
che del resto, i cn è, vi, p v': c velli rs it:li no, ma che può essere comune
e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il valore di una lingua dimorasse
sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè ièci traslati, nelle metafore
e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne andrebbe del carattere non
ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto lingua le varie lingue tornerebbero
ad una, e renderebbero immagine di III la sola cantilena che sia suonata ora
con uno, ora così altro istrumento, differendo l’una dal l’altra solo quanto
può differire il suon di una tromba da quello di: 1): l ri: ti:.I e concezioni,
il modo di pensare, la disposizione e l’ordine del le idee sono di una persona
che ne ha la lingua, non altro che il suo stile, cioè un fatto suo individuale,
una maniera di DISCORRERE secondo intende e sente. Come non può essere che un
uomo si cessi la sua individualità e ne prenda un’altra, così sarebbe opera
disperata chi si affidasse di pigliarsi lo stile d’altri. Ma la cosa che negli
ameni dettati degli antichi si impone alla nostra ammirazione e vuol essere
oggetto di considerazione e di stu si o, è l'intrinsec. e sei le ferma
sostanziale, c S nip e la medesima, di qualsivoglia stile, dalla quale allo
spirito più che al senso quella soavità viene cottel diletto che mal si
cercherebbe nella materialità delle voci, è la grazia, quel vago ascoso e
nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi stile elegante: simile alla
luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e al senso della vista non è
solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta subitamente risveglia, e alle
molteplici individualità del visibile dà vita e vigoria di ghºzzo infinito, la
lingua è rispetto allo stile quello che la luce, la forma sostanziale delle
cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e l’essere di tutte le
infinite individualità della luce, le quali sono perchè sono i sensi, è un
solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori della ragion di
quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come al -
tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente
una, inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi
che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda,
specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue
individualità, così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente
UNA, un “non so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle
sue individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile
più o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione
intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non
nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua
essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il
senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli
accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E
poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima
considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi
non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza
(a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza
dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove
manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile
elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l:
ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi.. he cioè la natura, la forma
sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua
italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben
altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato,
non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della
mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore
architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere
costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti
organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita?
Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio
intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella,
l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º
di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si
tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di
sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene
da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e
altri volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e
bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi
delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un
Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle
poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di
chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli
imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la
decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili
sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e
confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico,
e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che
irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando
languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che
adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla
riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a
vita l’originale candore, il sopito e per poco spento GENIO ITALIANO è l’elaborato
mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al
linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o
l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si
afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico
del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato,
e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è
così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che
lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo
dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme
dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio
antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine,
che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile,
onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo
scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi,
l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra
è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e
dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e
non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma
non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente
soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta
e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio
che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita
intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente
ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano
coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un
Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino
di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si
pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più
conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi
sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio,
e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle
queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei
studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi
scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato
intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di
asserire che codesto mio DIRETTORIO è per essere appunto il saggio desiderato,
quella scorta sicura ed unica, quella palestra nella giale addestrerº: chi vi
si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, LE OCCULTE VIRTÙ DELL’ITALICO
IDIOMA. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa farvi di
buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il terreno è
stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito. nulla
giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima la
zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che non
sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre
maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi
guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non
sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di
chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire
nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº,
non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei
cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo
stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno
viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e
tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo
lº::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei.l.
It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl!
Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos
gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto
o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni
civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº,
lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu:I i poi il tt i tr.
ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti:: ti io lº
t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i
lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti
3llit 8 º A i el: tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si
s... 'ti i.i....lºli i; ss ',...... i - i ! i ti&ui o soli º in
l It:ISS º o loti u - Rutp li ºt toº, ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl
lli t..li) op. N..lo slp: 01S, clti, pu Sclip ci, i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s:
i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè, si va 1 otIº tifos. º ºlio p: 0.it tios oso.I
-05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti
in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o
º lill A i, 5 ti! Sii ! s ºu (olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci
º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi
pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit; o
tiri uſi:p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o
illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W o S.- “Si - Si – s S. S -
S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono
al tessuto periodale Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte
più che nel VALORE DEI VOCABOLI e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi
i tg ei p..iiil I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p
!.lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas sº Aoin:il nr. - i s
Istºnli a reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi
i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i.In 15i giri i rp:5ucu. li
odita, uno º Iovi ouault: sti: è o niti: ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI
aulluas Ip o piis lgido opuali ti OIAi().L.: St | (l Gisonb Ip guided uso
'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o, aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3
oood: oSod il mio zn glpo. I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e
insis AIA e W ologIpo o Soduco l oillouap bus Uieto n.. nip o Ies gipol.I
riolle pº oluopeA lap e Cisgiº Iap 5 i5sti p.s. p r, iº le p.It, i gol
q -uoo 'oullios opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri
i pure di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui
niun atto, niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la
Pace. Lungi da me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente
meccanico, ma è pur cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio
semplice di un corpo animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e
che gii è (are a ciò di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico,
che tanto sol che intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d. -,
uf,3 giui tura o cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo,
ma talora si spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto
della bella, delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco
e della vita non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di
certe articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata,
l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito
od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste
parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO
vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi
starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti
appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e
avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo
cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà
assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO,
e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col
DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la
mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la
parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il
PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da
effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di
un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed
ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla
penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione,
virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRONTUARIO ti da
tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua. ii
fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di dire
con brevi istruzioni ed esempi che ti ammoniscano come e quando
rettamente adoperarli. Ti dice quale verbo o predicato sia proprio o meglio
convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che
egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od
avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere
o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti,
cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i
componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti forne da ultimo o più veramente
vorrebbe fornirti, e lo fa completamente quando è opera compiuta i vocaboli
propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come altresì di
mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del muoversi ed agire
di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri modi di
ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gl’antichi, e dove questi ci
mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da maestri di
buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO cioè ritagli di alcuni vapitoli
delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole
organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e
l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e
delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una
singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma
compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di
raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci
forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e
separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di
alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1, i cº II, N cºrsi
o 1, i SEC.) NI): ) (; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI
("I Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io
voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne
hanno scritto ii (il lio, il l'1 l. ll (1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e
tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne
e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni
scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità,
nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne
acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio TOMMASEO), e molto meno di
porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo
saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia
di esempi il dicario che ella IL LINGUAGGIO così dello classico e quello di
oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo,
collo studio cioè degl’esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito
classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di
quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col
vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il
diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso
secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il
collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e
comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto
antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad
allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre
frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è
qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V
l'elolo a pezzi il dili al dolo. La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella
particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne,
la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (doardo,
la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per
niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e
non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le
motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere?
Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla
vita? Scull.: o una semplice inversione di parole umana cosa è aver
compassione degli allilli. Zali.. e me anche quel tanto a loro il vello il
fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e
inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche
alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le
abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa
dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a
dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in
un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera
mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio
divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia
di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a
guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella
gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile
particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per
disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato. 1. ignal, o poco
pi illico irl cosl li e o per dar rassic, valido V. gl’illel'11lare clic:
non llll'olio cagione di... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri
limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a
11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma
ecc. L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche
disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei
mi i licesse, il t.... Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il
grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun
articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e
IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un
argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero
rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico. Signor mio,
io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn
è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli
vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la
milo..... l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli
bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o
propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della
ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e'
mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri
nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo
saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli
renne reali lui....... I; i carri. rispose che ben si ricordava che andalo era
ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area
bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua
sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere:
lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il
1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo,
si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo,
quindi il relativo che e finalmente il verbo: sol per l'amore che io nutro per le,
non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi da
ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di: per quiet
n lo ch. Al, i ciò sara: i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [..
lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r. Cilf: pronome relativo di
quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si
attiene posponendolo al verbo e appar tenenza relativa al primo
inciso. a... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le
pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii, le ri sono che la mi
all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n...... I3oce. “. Quanti
leggiadri gorani, li quali, non l'alli, ma Gallieno, Ip poci di li' o li si
illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per
l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº, la sera i 1 nºn lo appresso nel
l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril,
e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti
letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna, l
rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai, rielen le che le rii li li la I
l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel
nulli. I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha
per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.(nche di esse e il conlessore
nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me
l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa. Con questa melajora e somma
bi erità diciamo: uno aver dipinto 1) Anche la lingua francese offre
esempi di costruzione non guari dIsstmlle; tel brllle au second rang qui
s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che
non polea star me glio. Davanzati. Quando.... tal cosa verrà ben falla che non
si pensa. Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o
l?occ (coslui che.... dee essere...(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di
stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi
ii) si | | il ll es.. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima
utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui.
Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc. E quello
essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo
tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e
o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul
no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ».
Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono
dai prigionieri con tanta guati liti sei riti. Rocc.a Indò per questa selra
gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi
in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè
saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo
e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do
in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il
giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è
ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel
suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al
mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo.
I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. (toslino futc, ct
da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. (n broſio: l'uno lullo fiori e
legge rezze. l'altro frutti e saldezza, Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla
nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul
ri le fu mi. I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni
altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº
il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il
tributo per lite » (esari. Due nomi, aggettivi od avverbi relativi ad un
sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il verbo. Anche il
complemento indiretto disgiungesi talora dal rispettivo diretto, pure
frapponendovi i verbo. c) Gli aggettivi si trovano talvolta framezzati
dal sostantivo. \ l 1 g.... l sl e silli, i - i scolla la, l I l: - Il
l i pez, a il II iscir: \l::: ' s." ; i viaggi chi
blo s.... il liri. I sing il il suº pensi li stili e li - si si i. II. Il
li sºlº lirli resi i vigli, sl 1 il II, Lici II l ' s l; in
ºsservazioni. Vs sa sono li al rialli, ss nel s', i rºssi,. maestri s, l.
I li alll I castigatori. I 3. l: ln i ritiri il ', con i tiri, l isp, N..
ll delle sue cose era nel suº i, lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss
i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l. i qui i rolli
per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in
quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando
si n: a 'sso si mossa la si l: Nali, lº si l ri'il miº l.l l ' i '', un
fiero i nº, l un forte. I 3, i. lº, i Trori i no, in luogo, le loro
i rom: mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni.I)i ſanta ma i tiri lui e di
cosi nuova in i pieni..... l3 o. E l appresso, questo non si lanci le la rozza
rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto
lire' i no mi tr Nl l o r, li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich
cosi noti in come li lei i t. snc: lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in
grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit.... I 3 c'e' I n uomo di
scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e.
lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco. l ore. A piè
di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò
». Bocc. Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche
di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente
ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più
puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di
più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo
come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero
queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile
loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13,:C.1ncora quegli rampolli che sono
occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine
delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.«....
oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.«
Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi
altra ra l il ll, un ali di uli I e. l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso
paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so
o del lupo si rangolare... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il
più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o.
I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li
molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si...., Stºgli.« Non prima dir
parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi
men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo
a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni
e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no... Silvi! i.a I
greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile
ma...... Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le
leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal
'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono,
lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci
pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e
che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE.... quando
in luogo di: Il0ml.... prima che e quando a valore di: C0mle prima....; come....
così.. II0Il Si toSto.... che....; appena.... che. il IIIala pcIld.... Che... ;Non
selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl., Inl \ 1 Il Sºl la colla
illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis, rag olio logica, la Virli, il
vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime
strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun
poco diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo
hanno scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril (Il re del 300 e 500
colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro
Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i
radisca. Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole
quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che..., ma che l' Illo e l'all si
ass: il live si. e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl: non..
primat. che.., e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili. Non lo volle prima al suo cospello che egli si
fosse pentito e avesse le testato il sile) fallo no. Non venne prima al
suo cospello che egli nel cuore con punse e sl, il sl 1, ſtillo Mentre il
vago del primo periodello consiste manifestamente nella separazione dei due
incisi della forma avverbiale demolante precedenza di tempo: prima che: lasciando cioè il che solo al posto suo e
antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto alla
rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel secondo
pe riodello la stessa forma: non... prima.. che.., indica invece simultaneità
di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e orna al 'il II
ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè prima..., con
'... così: ecc. Noli Irli esſendo il considerazioni che, più che le mie
parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo, la
spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto
negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN: Il0Il.... prima.... Che....
ed anche senza la negazione, I)I UN: prima... che …in luogo della forma volgare:
Il0m... prima che; oppure:.... prima che Delºrm inò di non prima mi torri
e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati
e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et
lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl, inola lo Iosse in
Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all
I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di
queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li, osse lui ll, il
ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla
che i lioli di rºsse con sei il I.lasciano slal e i pensieri....... e gli e li:
i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e
apparecchio lo le cose oppo lui ne (('un l'ºliº e li ill ci, la r il.Prima
prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di
falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s.
gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per
rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il
patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci
ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla
nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato
si fosse ogni accusa lo re... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti
at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle
di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo. Segni. I 1.« e rolera
parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare
che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese
grandissima edificazione ». (es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola
andarono, che sei canzonette cºn tale furono . Prima sofferirebbe d'esser e
squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in altri
consentisse, Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE, DIMOSTRANTI
CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE Il0II prima l Il0Il...... I10Il Si toSto.....
che... ilppella il IIIilla perla.EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI: C0mle
primiù....; C0mle.... prima....; come piuttosto poichè prima....; come -...
così... slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che, ci. I. Non
prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion, della noi
lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re. I 3.Il ct c'Ncat e 5 in bella, per ogni
sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il sºlo se
mio lo sta la a lola. Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi ppo, e
il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha. I lav …l doll, che sarà,
io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti liti e li
isl il l il c. l 1 l'. Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non elilu il n 1 l
o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e non elil, e li
rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse al l l. in on
lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l.Non prima al talli lo ri mi li a mo di
ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1. se non lo
sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut. Segl. Nè prima il rule o che pi
ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso (io li ho li
sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima, l lorº letto: \ un
renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente
soggiunse su bilo: \ un quid dia i: a lei le mili il l cle su lislam lidi resl
rat clona le mih l'. Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia
alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e
accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ».
Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il
Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule
ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie
stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro
luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la
solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a
premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio
ecc.. Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap
prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima
gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol
lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un
poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo
indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel
cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con
rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito
cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli. Segli Non prima l'innocente
colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere.
Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare,
un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un
lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro. « Non si
tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.
E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una
luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano
innanzi chiaramente come di bello di chi ti o. Cavill a. ()uiri appena ) il che
ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede
l o l u llo insieme in col mal e latin li li li. I 3: l'1. Appena egli posò il
piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i. quiri
l'inchiolarono..... Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii, o
rinò misert nºn le. l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta
ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a.... e'l
figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro
entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena
si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna
raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli
correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi.... Segn.« Appena era comparsa nel
campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito,
lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza
più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri
sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ».
ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa
». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella,
come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa
come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb. “e
promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº
in campagna. (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si.
che…). 3il 'l. « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl, è lui la
sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che......
l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en
li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro. I3 cc. con le prima, lº sl he.
Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li
tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi
ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ).... per le quali parole il mio
marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi
tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla
mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e
Aggi U1 1 m te all' articolo 8 12) Simile alla coes-ruzione
tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l'
itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r. I s-li alti - Ilpi, a 1 lie
della sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i
Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp
Io a dire: che udisse. 14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr. e le 11 e le
1 di... II, 'il:lo all'ait, si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1.
l)llº I – Il re 1 il ll li si, gol i. 15 Il Corticelli si l plico Ia, il
il 1, par. 1, se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso -
Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di
significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1,
si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li
citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e
valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini, che il grato
sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di
infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi, prima che,
tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire. 16 Qil -
o prima 1 e 1::l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo,
resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso
che, 1, Binda che i ll'en III al clie fa r, ti ra questa o qllelia for
Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In
lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr
IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II:
il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to
Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o
ratto che:..ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int (m.
18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli l'rim.1 di
passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il
testº: come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es.,
del sieguente passo: nè sia chi ne stupisca, perche come l'uomo è vissuto cosi
generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni
scrittori piu che il diretto: come... così..., a: a Va assil I
lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come
l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre
Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore
generali Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime
anche negli eseIl pi se gllenti:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all
III: estrº l e, a Irl III ollire...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1
l. - e ce, aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed
intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l
Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i
s.esse belle come il si.La li la dre, che le tl, l ire l: I 1:. ll ll l: I g il
va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il. dI S. l a no esco con lido che cosi
or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III, I | 1, come, Zi l', i Vrebbe potuto
risal lia l' iller IIl l: illo. ll, cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si
gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id), Il Irgli ». I3: l.«...... ll I II li
assi. Il ril. ll I 1:1 e-1 r il pil sapere di V (I, cosi II slla l la
legg.. I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1, come voi ora il I persl 1: i let ss. l
la s. l '. I 3: l. e … se li, V. - ti.. ll cosi !) il liti e In Il lidosi come
il l V el'elil e la V il si, 13a l.« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole
il Il le:is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I
geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re:
le cosi -: S I lllll liti de Vizi, come li virtll,. lPass: l V.lº, il vero, li,
cosi come lei, il... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li.. -. I 3, i.“. -
il ilse la V I rl I si sa delle liti.... per le cosi come, lisa V Vedula
trielite: so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr i li ll li
i' l I l: il ct, lì 11. - lo Il Vila: “i sa slla i livi gli in stra quella cosa
la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi come questo,
ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che cosi fosse
servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) (('.«..... rispose
che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E son certo
che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna come
avvisate ». I3 a.« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima come
era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre preziose,
come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli ani e li
liti in li Il testo esempi di un come.... e...., e sì per mostrare l'allal -
ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l Il s.o
come.... e.... alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che la
relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che..., precisamente al fora...,
e qlla ido, di quando..., tanto....; di che ti sia l all o p III, l i rili pari
le lilli e si ra., il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini leva
diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e., Iri
esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l. 1 litot e 2, 3oCome noi pro lia il e s II h,
a e ge')till III: I mie!'e V (Ing Il i: ll' ! ! li,, (si ri.Come pili i vecchia
la V. AV relIl mio tilt li in li iori -: l:di. l il bit. ll e pill ripostigli,
e più si cerebb il le s II -, e come piti adoperate e liti per ferite e ! ti ve
nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo rientate,
e pii - empiono,. (.ar.()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il lil re,
ti: nel I e torni bene, e punto illlia n soffra il senso. l'rima di
uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne degli alti
li, p la eliri per il III: il clii il 7 Zii e collettivita, di completare e
mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia del capit, i
gli ºli,,,, il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come, che, -: l li a
lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia che, subito che,
li quale il. col... quale, precedute dalle voci modo, via ecc., e quali (lo di
che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso, come presso?) e talora
lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e simili, sia de 'I I riport
come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I: Ido li in qualunque marie ra
che, e talora anche di uli semplice come (siccome. “e com'è Illisse di verilo
e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di que” bacherozzoli o F,
ronz. a Come villan che egli era il canili, di lilltalli, gli illò della
s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier liz. I concia -si: chè
egli era villa li, cosi ſi celido come si lol la r llli Villa lì
lì. ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l 3 ct'. un
giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi valle hella e
vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di seta e d'argelli avea
intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser, (iozzi a.... e
com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava all'arle º Bart. e
dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la donna udi ques.o
levatasi in pie, comincio a dire....» Doce. E dire il vero, com'e' l:
rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è lllli il n. St
gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III l'il' li lllllg,
si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del pesce, ilscira
fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni, Fiºrenz.“ -come
pervennero alla città di Gaza li l iuoli inlerinarolio si gra veli elite d'ulio
Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (il Val 1. Io voglio andare a trovar modo
come il s 1 di qlla elitro » lº - e segretamente deliberero io che si dovesse
trovare ogni via e ogni modo, come poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e
da quivi innanzi penso sempre modo e via come e glieli potesse ll l':ll'e
o li l el'. … che per certo se p ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V
esse » i 3. li Il l..... l Ebbe l: nuova come (ialobal era il is l il V.....
come ti se lui spesso ad Ira.. I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea
voi? Vlessere, dlle tl):17 /:ll di ma lo » 13. In Itlal I l 'lieri, i 11: il
prezzo).Come è il V, si ro Il le? e il V I l come li, il 'll? e lº quale, di
ſlal lo fila. e... e di li a 1 lo come li -: -st:: Il a I.:i giova:le,
plai lig il, l ' s -. ll avev. a - la li paglia nei a selva sli tirrita, i ri.
I come presso lo ss o il Vlag::l, i cui I l bilo: ll il si se...... l3 e.
I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l so io: l italizi presso di di ver il
berga l'? » I 3 i.Veduti e gli allegati i seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri
come il form la selm plice, passiamo ora agli esempi del collip - come che, in
quell'lls, e val(il chilo (li: i rizi: (*) Notale queste forme: come
avete mom e? com'è il vostro nome? Vostro padre corn e ha nome? Sono st m.lli
alle tedesche ed inglesi: Wie heissen Sie? Wi e ist der Name? What is the name?
ecc.Usane anche tu, e la sera il francesismo: come vi chiamate? ecc. e simili.
Si che l'ha anche il Boccaccio questo chiamarsi in significato di aver nome, ma
ne us a tm maniera ben diversa e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio.
« Domandò Giosefo un buon uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi
si chiamasse. Al quale il buon uom, rispose: M a sera qui si chiama il ponte
all'oca ». I) al qual esempio ognuno intende che quel si non è particella
pronominale riferita a quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the
people - e qui si chia:n a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti
chiamano, o cosa stmlle. Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi
abbonda ogni libro classico: “ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe
nome Teodosio, Il quale era Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli...
“ Cav., ed io non Glan noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec. - Nel tempo d'un
Imperatore pietoso e santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore
della città di Roma, il quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e
molto congiunto al detto Imperatore... Tolse questi mog te, una donna, la quale
ave a nome Eufrasia, donna religiosa, e molto temente l ddlo n.
CaV. 33 a) L'avverbio come che non ha quel senso di perciocche nel
quale tanto frequentemente è in bocca d'alcuno. Il suo natural
significato e d'avvegnache, ancora che, ben che (Bar toli). Notisi però che
anche in questo senso trovasi il piu SOVC Ilte, l) Ull al principio del
periodo, ma entro a questo acconciamente innestato. In testa al periodo
prelerilai: quantunque, quantunque volte, benche, avve gnaCChe ecc. «
AVVisando che dell'acqua, come che ella gli piacesse poco, trovereb º be in ogni
parte » Fierenz. “......e sempre che presso gli veniva quinlo poica (n
mano, come e che poca forza l'avesse, la lontanaval o 13o. "......
ed oltre a questo, come che io sia al titº, io sono inoltro, colite « gli
altri, e con le voi vedete, io: io, i s a I r; i vec li a Lioce. º......
il quale, come che II lotto - ingegnassi di pir, r, salito:ier, º al flat
ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III. Il tono liv st 1. alore di hi a
piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei le s III sse » l?occ. a Ella ll
(lilediCa Il li l' ', conne che li l s, il lit: i rito, se la ll I li « fallo
llli crede. 1 e esser III, I » I 3 t.« L'ira in fervelllissili lo Il rore
accenti si r.:; e come che e questo -C Vento 1: egli iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1:
là con ni:::::: danni s'è nelle donne Veillllº º Bocc. º...... si è
adoperato i 111a Iliera di ri..., come cime inolfi il Liegano, a ((Il dann, a
lido d'errore il dire.... » I3: l'I. «...... e come che gran moja nel
cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la pose al famigliare e
dissegli: te..... 13 cc. « I Inalla cosa è aver rimp.issione d gli: Il Il
ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a colori e mass III, III e 11
e 'I l ' st, ' quali.... » 13 r. b) Anche per comunque, in qualunque maniera,
e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I al I l l', - lizia Illi. Il
sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come non il come che) l'avverbio
risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque maniera, e ii che li e la
rispettiva. giunzione o pronome realivo, congiuntivº: nella quale ecc. o Nuovi
tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg, Ill. l'I1, come che io, « mli Inuova,
E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come che questo sia stato o no....
o lorº. a Come che in processi di tempo s'avvelisso. Docc. « Come che loro
venisse fatto » l?occ. « Ora come che la superbia si li renali, o per l'un
modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come ch'ella li governi e volga l?rili
lavora per me non tol la « mai » Petrarca. c) Notevole anche il come che
dei seguenti esempi, nei quali sia il valore di un complice come i
siccome, « E come che il povero corvo fosse persona antica e di gran
ripºrta « zione....., molti lo venivano a visitare, e come si usa, pil con le
parole « che con fatti, ognuno gli profferiva e aiuto e favore ».
l'iel'eliz. 3 - - - - - - m: disposi a non voler più la
dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè sua lettera, nè sula 1
Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se li lu fosse perseverato,.....
veggendolo io consu « Illare, colli e si fa la neve al sole, il limito
dll r, proponilla mt, si sarebbe a piegato » Boce. I3mila però che il
come che di questi ed allrl siiiiili esempi senza nu Intero, 11, li si vuol
leggere i dlli filo e pr. llllll iare con quell'accento che il comme che a
valore il quantunque, benchè, che sarebbe imbra il o troppo rincrescevole e noi
ne aver sti a lei in senso, ma profferirlo in guisa che il come risalti e recli
egli solo l'impronta di siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a
far nulla col come, nè sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione
o nesso di puro OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle
appllll., fece, tra l'altri, e assai si velli e il
lºlere:lzuola. Particelle e compagini a foggia ed uso classico;
avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go - I nera n lo è o li in iu 11
i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto i 1 n t rii msec », i1 in in
nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al costruutto, con i lcº il gran to
del tcsst 1to l crio la ale, il va ago. lo il coro lit collega - 1T nel
nto gli slo: nrtite i lec. Ad alculle di sili. Il l Irella l. I li gi i
tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce le colali particel.... ess,
proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11 11 11 -si l i i s ll la III,
il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo sl. 1' st 117 -s. l II l' - I
lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza, grazil. ori a 111 mil... se li n.
I ro. Il cerla maliva pr - prietà di linguaggio... C. rl Icelli. CIl mio ed
altri. Ma vorrei qui rilevare che codesti autori fanno appunto oggetto di
particolare osservazione le l ' Vlt i l (..l'.I l.E che non inati, o ti ifici o
altro cile di ornamento e di ripieno; men.re le l ' V l l I (I, I l l. e 4 t ),
il V º il N I, e le V () ('I IN (i I, NIEI è VI,E, di cui e parola in questo e
in altri capitoli del I)II E I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi
addietro al tutto igno rato e assai più rilevante che non sia cosa puramen le
ori:arm2miale, come quello che adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V
del perio dare classic. NON SI (tanto)... CiiE NON... Per squadernare che
io faccia un libro, il derio di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi
Irovi pure il periodo a lornia e sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi
allego. E dire ci clia è si bella, strella, evidente e di un garbo tutto
ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed usarolila di Irequente scrittori non
pur del [recento ma e ti i cinquecento ed anche dei piu recenti, – di età cioè,
non di sonno e di ullura, ch'ella è antica e non invecchia mai. ltisport
pressa poi al 11 sl 1 o: per quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e
tali vo: qui un lo... all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i
lilo a 1 il ri: il lique suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il
coinvºlte i Sy Pochi esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene
l'appetito: .... e le giustizial to a sioni in calesine in diverse lor pan
li debbono a re e al rei si nun li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi
bello e leggiadro, che ustio li', pur intenſe non luiuslidisca e generi sazietà.
Varchi. E dunqu su penso che l'osse un re libero di carila, che non è si poco
site noti avarizi, e, a lui pia, che li lle le cose ci colle, onde ella di mld
l'a, più te, e l'uni, e in. ch ella non la ceca se medesima. Cavalca. ....
m. a e la loro si alla lo alla mia che una paroluzza si che la non si può
dire, che fiori si senta o. liocc. ....pei e che mai uomo non mi vuol si
sce, e lo parla e che egli non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che...
i 13ove..... Mi ss, i disse la donna, il giovane con che alle il laccio non so,
ma egli non e un casa uscio si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a...
I c.percio, che egli non c alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò
cl, bisogna, ne si lui o o zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di
ciò che io cori di litrº.il in ii...... ancora che egli non loss mollo chiuti o
il dì, ed egli s ci sº in sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe
si, io ci o cali non posso prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co
che oltre a diecimila dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo
piale, non dil cosi, io non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i
sempre non mi i colºssi i sa, i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi
ricordassi dal ci, ci e, a qui, in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80
t. ve mai enti e così ci rendo cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si
s., lo sa, ne tanto magnifica, che ella non sia di molli, per molli
mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il re in guardi, che i cari sia le nulle
si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase a degli uomini quanto l'ºrº ristº:
niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la quale non stia oscura, e
sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il. - - E la chi potremo noi
lidire' più il vero, che da voi, il quale si" riputato sion tanto
spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si le massaie, tale che
non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli, a I, sperar mi ero cºſiº
I)i quella ſera la gaietta pelle.; del I n po, la dolce slogionº, Ma non si,
che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un lºrº º l)ante. - - - - - i
vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º orticº ". o alcun
primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l' iamme" « Non ci
sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del sºlire,.... che egli non vi
debba altresì essere utilissimo il al re... C - sari. (29).« e dilellami di
pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù e maggior ſortezza: e so
bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci avesse da pensare a Caval
a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo si gr. 1 nel, che I, lali,
non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo si accal.. per I l pºnilºnso
o per altro modo, se llio non gli ha misericordi, si e ci rius I., Cavalca. non
è si aspra e malatgerole che alcun pur non la les, le i Cav.« non è si magro
carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo.. S º..... con piacere inci
'dibile del mio stillin, che son d se la trº Sloi (), che per si la lo on i re
non si l is 'n lor e il tr..... );...a Io ne ho parecchi esempi ma per dir
crro, non son cos: i ſissini: che non possan ricevere latin lo accorcia in n 1
l in I pm la l... li « Qual luogo è si sui grossi nto, che i c. coli non ti tra
il ct 1 nel 1: insidie alla loro incut u lui one's là?, S gl, 30« un lento
morire di dodici anni, per una penosissimi a: i riti iii: nè tanto leggiera,
che quasi sempre non isl ess, in agonia. se tanto il re alle forze della sua
carità, che sempi e non in licasse i sei zio di Dio e delle anime n. 13a l'I.«
Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima fermi si ciºe l'uno e l'altro non
iscor esser tal rolla a seminatre e mielere il lle tll re isole di quel
contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro dolore che il len per non lº
distri li ed anco non lo annulli, perchè la prudenza e la costati ai rom l dr G
almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però tanto di rii li sterile che qualch.
n e si ri; i non producesse ». Dav. - « Sicchè bisogna guarda i ri da animo
delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non è si difficile impresa che non
riesca. Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa pati (e di nasconi, si tl riti
º gli renne fatto di conseguirlo si interamente che ti º di quello, che fuor
che agli occhi di Dio egli pensava essere occill I, r; l uſ gli atll ri. nºn si
palesasse ». Dart. – 38 – NOte all clrticolo 7. ?S) To
II: Ilive e per i 1:1 1: la..... Il Not so.... but that.... Es.: I noi so but
that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l. ll, Willls ver not so Il 1
l v d... A cºl bu:i tinat i -li si stile t: 2!) ();: non si u, le motº.....
! ! (r -,, e al I li e !::i ll l: llll rºl, l tall ll...... o si
pºte:to... o tre.... vi il lla -. v. l i non meno,,, cime VI, ina: qui li
a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V i l IV V:) 11 egua i rincari
e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l....., l i i 30 (). li è in ſo..!
i; iprimo incis, l' ri: Ni: in It:ogo è si s -:: cin e voi i pl: i non te
!, trici 1 e ti. 13 n0n Ciii... (anzi, ma...) l' vi l' non
rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti li e ſi ha -
- il l e per le fornire e c i cl: ssi i: I l. E li ul: ssaggio dei
model i i non cli: « E vi la lo il tg ci li:. spicca il I l. non v li e'
viali ecc. il III il s lis.. l si gli e il solo cile gialnili: li si
riliv li i ll ': 1' ll -: il lassiche, | Non sº, l l: li lilai i ".
I sici in l:il guisa, ma luitino, se lingua a que” gloriosi. l:s il
de vi: il re ciò e,i lire: si oln in he uscir de condo pari a me, pole a
riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso questo modo, non che
dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici vale a dunque quando
non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi altri sottili
investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che definì il non
che: Particella e crersalir. e di negazione, e corressero aggiungendo: alcune
role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola. Io non pretendo
crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene regola, al sia di
lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli, di altri li grande
autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in passato e
talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale sempre o
quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse ch'io inal,
apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei asseverarlo. Il ma
od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di lando. vi è
inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come si farebbe
direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la relazione di non
solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille miglia di assumere
il torto significato di siccome anche e ancora (C('.Senza inversione di frase
può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come fecero, Boccaccio.
Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi ravvisi il non che
moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago non pur della frase,
ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c, lo bistrattano, e pare
che i cciano a chi più lo strazia.(38). Non che io faccia questo.... ma
se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io piacere, mi sarebbe
diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole era più alto..... ra
si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han contristati gli
occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena. Nulla speranza li
conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a Quanti leggiadri
giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o Esculapio arrieno
giudicati sanissimi..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che alcuna donna,
quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne fù mai
chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in miglior
senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ». Bart.
40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi tano
si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per
isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di
rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la
perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. «... e non che il
desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ».
I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non
che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da'
grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di
Dante). « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra
aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò,
anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci.. l
occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i
temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi
a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che
la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a
nolo di Sai, i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n.
1 li s l alti i l. ll. I 3, l.Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l
li li, l.. o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r, i ma, ma anzi
con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i
tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro..... l?arl. - - « l'
rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le
con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli, illà a lui fattene
Nosl e ne rai. I 3 cc.«.... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi
mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li
domasse che anzi maggio in ente gli inasprì: itl che.... ». I3:art.« Ma non che
cessasse con ciò la l. 1, in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le
crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi
occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º,
IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra
o. l 31 t ('.a... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e
lorda rila dº coi lipi, poi, non che, gli ºli (il malco si juta la cris' il
mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell, giudeo si ritornerebbe
l'oce.illiri o il rili, e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui
il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava, (es.
41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che
gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (s.
Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli
nacquero. Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i
lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire
º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13',
si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i
le bicicl, o. Segn (1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let
maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che
io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse
l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna,
se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ».
BOCC. «.... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa
nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. «.1
dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua
salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò
mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma? ». Segn. (46). «... non
sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di
alcun più onorevole funerale ». Segn.«... al sentirsi rimbombare quellº ch m !
nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47). NOte e
Aggiunte all'Articolo 13. (38) Non sarai poi di si corta vista che
non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non
altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un
che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come,
disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna
disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi
stato « presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal
che, intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è
chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto. (39)
Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente
costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e
rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio
dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('.
cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma.... E chi dubitare a
dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e
l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e
breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e
potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il
non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im
perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il
non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel
costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come
sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del
Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca
il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti
leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello
costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la
costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli
altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia
ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43)
Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e
così negli esempi (le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non
ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non
ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore
I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una
sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma
perfino....(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che
a consultare il contes, e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non
solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire
violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li
avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po'
diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on
\bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino
del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che
sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca
di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine. SE
NON SE NON CHE SE NON FOSSE (che, giù) forli e li dire
costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli
sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori,
specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un
solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l'
ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore
e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se,
salvo che, altrimenti che. Il Bartoli ragionando di questa ed altre
sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa
italiana, soggiunge: (((“ () - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per
cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più
che le parole il suo e Sempio. L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto
contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la
gioielli, º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi
del calore, ella ne ſacerat mille pezzi. Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col
slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi,. I 'i rel/.()nde
non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l
l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione,
la quale....?... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre
boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro
luogo: se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei
mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone. Passav.« E se non fosse
che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici
così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio
mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era
giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ».
Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese
mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del
caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che
non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non
fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la
terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G.
Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito.
la città di Rologna era perduta per la Chiesa. G. Vill.« Se non fosse il
rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (; Vill. (5ſ).« E se non
fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori,....
Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.«... e niuno seppe mai il fallo suo, se
non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l
processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove
cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere
d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin,
dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a
presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe
incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.
º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di
cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con
il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart. Era
donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco
a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51). « E non sarebbe rimaso riro
capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni
rinti e sè schiari ». I3art. (.... e l'arrebbon linito, se non che un di
loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art. º - - - - - -. ri diò
in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò: e se non che tagliarono
tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara,
coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira »
lºart. « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli
alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio.
e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter
rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art. NOte
all'articolo 1 f. (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender
fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di
messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno
scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse
mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio
imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era
tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un
per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e
senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo
torlìa (Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune «
Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse
stato che i Bonzi la impoverirono a segno che.... oppure: a meno che ella
s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la
smunsero fino a.... NON Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come
che di buona, anzi ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di
questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la
forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che
contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon
orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ». Così avvisa il
Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non
m'acquelai e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a
punta di ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non
fu fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime
osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non
nega. Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me
ne passo. a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e
simili, e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza
che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque
metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi –
dalla particella non. b, che, commessura di comparazione risolvibile nel
suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo
inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso
contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei
Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).
c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed
anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il
quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta
elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì
che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro. Seguono gli esempi divisati,
conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi. « La casa mia non
è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi
a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC. « salvo se i
Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa
vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna
persona. Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo
cre - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto, l3 cc. º l
Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non
ri renisse nominato un po' il n till I...... 13,. « e sta bene accorto
che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc. º e lì la loro lo luna
in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano,.
13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º
tºndo più animo che a sci co non si appartenera, Bocc. º... Se non ci chi è di
rim alo e pli lori che non s no io o l?art. (.... che io ho l'oro lo donna da
molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces, 13(Compagni,
non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi
polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più
cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che
per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.«
Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più
cari che io non sono. l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che
queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una
persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io, (aro.« Ma troppo
altro gli incolse che non avere di risalo. Ces. « Perchè dunque sì rall risluti
ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però
inquiela, li deriderli, disturbarli? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la
grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le...... Segm.« Forse a
rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che
non portare nel suo slam pali irolamo. Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre
alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo
ch'ella non è o. Boce. « Dubitando non ella confessasse cosa, per la
quale.... ». lRocc. «.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via
». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi
vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ».
Davanz. "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ».
Bocc. “.... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce.
“ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto
amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. «... sospettando
non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a
bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di
Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza
le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le
donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ».
I3occ.(0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse
egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi
sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli
qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma
gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse
(tenendo non forse....) ». Cesari. «... presso in che di letizia non morì ».
Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. - NOte
all'articolo 18, (55). A prova di quanto atºserisco non basta si
alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche
mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel
primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un
saggio: «..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più
(più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non
ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf«.... nè avete voi più
desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2.
articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di: di
quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a
quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte,
cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non
sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che
all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che
non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si «
sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?»
(In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli
uomini...) Alcune altre voci il cui valore ed uso vario secol
ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a
talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che
alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore. Nel precedente
capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di
una forma e ragione tulla interna, coesiva dirò così e inerente alla
struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il
grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed
adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale
che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e
n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua
antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è
mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i
quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a
dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche
ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro
dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è
scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai
bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la
teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè
di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri
classici. ARTICOLO 4 MISSfil Delle novità che ci venite a
raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce
assai è altrettale che molto? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque
fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose
molissime, non è il valore 4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune
voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare.
Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne
scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli
esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s.
very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il
moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli
medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più
minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale
le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance!
Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71). E disse parole assai
a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che
nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo. l 3occº.senza le rostre
parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13
cc....Spero di tre e assai di buon lempo con le co. lioco. Entrati in
ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3
' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle
cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte
assai. I 3arl. «... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello
riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un
manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla
Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari
che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra
faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni
il l live) lo. (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che
forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da
prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci
udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele? ».
Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno
ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura
disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli
ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere,
assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. «..... nel quale erano perle mai
simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali
essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.«...
dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. «... che
assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces. NOte all'articolo
4 (71) Della frase: essere assai a checchessia (per basilare a,...) che
l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori,
parlerassi ad altro luogo. (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui
avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc.
La forma obbligua assai di, del.... suona talora Ineglio che la diretta.
Osservala negli esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto
di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso. NUIIIII, NIENTE
NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc. Negli esempi che senza più qui allego –
alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle
proposte voci – vuolsi singolarmente notare: a) come le particelle
negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai
confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano
governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e
sostantivo; b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non
nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e
il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io
non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non
sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il
Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la
negazione « o particella senza, hanno senso affermativo... Sì che alcuni esempi
ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non
negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia. Leggili questi
esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e
sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta
convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei
libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui nulla
ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a nulla
parte ». a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento
all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart. «... in
tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav. « Se
nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav. senza molti segni
che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa, l'iel'eliz. ....
di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si
potesse appigliare ». Cav. 1 llora disse la 13adessa: se tu hai a
disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua
fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º....... (.av. Quando la mia
opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna...... o.
Martelli. Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in
questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa
che ne manchi nessuna e. Varchi. non intendo però di quella lunghezza
asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone,
al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna
lerare si po le ru m. Varchi. Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia
le compassione alla mia miseria n. Fiorellº. tssaggiare qua e là un
nonnulla di... ». Bocc. a... alla quale (allezioncella) mi sento
attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai
domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha
niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il
cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua
trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a
cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli
essere ch' io a ressi nulla? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il
domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.(Come noi facciam nulla nulla, e non
hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º...
º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli
acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1,
peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa
brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non
perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede
o. I3ari.«... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che
punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio, Bart. «
Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima,
scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che
non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ».
Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio
». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla
gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la
voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ».
Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales
sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83).
« Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli
disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade?
». No Vellino antico.«.... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena
a doverla dare... ». Bocc.«... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del
fatto tito, o... ». Fier.«.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse
Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe
necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti
domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma...
». Bocc. (84). NOte all'articolo 9 S?, voleva ci lir qualche
cosa, alcun che di..... e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di
Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s..: 1: es n
i I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V,
niente, ed i ll Il..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile
all'avverbi, punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle,
in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ((''.E spaurita e sbig || 1o
per le pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri
nell'altra v.a, la rendogli i parenti e gli amici carezze e le sta, non
si ra! grava niente ». Pass. «....il quale l'est e. Irle lº rili la si vide i
pescatori adosso, salito e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando
l'esser in ort, tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a
riposare in sul « letto, niente, vevano voglia d'esser consola | I, quando
vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo
figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua».
Cav Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di
non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e
quando si unisce col non si pospone al verbo. (84). No.a anche qui la
maniera per niente in quel senso che nella nota precedente. ARTICOLO
21 IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che) Quan! inque il
significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a
governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza
l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo
singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia
la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il
vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo
ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne
di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non
altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo,
altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici
tanto in caso retto che obliquo. « Molto dee indurre a dolore o al
dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel
sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati
». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare
». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le
liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire.... ». I30cc. « Il che la
donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. «... in tanto che a senno di
minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.«.
(ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui
ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. «
Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n
che con rien che ancor ch'altri si chiuda, Dante.« La confessione per la quale
altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a... non solamente i peccati
veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ).
Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1.
si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si
restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri. Vill.« Non
hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a... che
per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ».
Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più
va ritenuto in condannare ». Bari.... nè teme punto ciò che altri di lei dirà.
Segn.... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della
bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso,
º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del.
Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci
sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor
che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire:
altruomo, qualunque alla prºsolia che..... ed altro che ad altra cosa
qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra
maniera... che, ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al
valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la
Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia: Io non so potersi
dire di... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non
conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed
accellarono. Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi
non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene
al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a
capo in parecchie centinaia di migliaia. Al lllllo simile a questi luoghi
del Bartoli è l'altro del Bocc.: « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa
altro che laudevole o: e altrove: (AV ea grandissima vergogna, quando uno dei
suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del
Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che
mantener libertà o « morire? ». ſar al Ira cosa). Bammento l'intercalare
non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi
ancora menzionare il modo: senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio:
senza... altro che: « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i
amici che...: « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che
brutali o ecc.. IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo:
niuno, nessuno, reruno... altro che....: « aspirando a niun fine all ro che
nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o
a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». «... I rallenendosi con niuna
femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a
forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad
uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme
anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro
che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di «
decreto ». Tom. c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è
l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui,
al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi
morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si
ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo
». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì
reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di
questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui
sopra: come cioè la voce altrimenti in molte guisa ad altre
collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo
leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai
inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col
Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in
nessun altro modo. a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne
sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.«... e pauroso della mercatanzia non
s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita
fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri,
oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna,
e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per
ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro
bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi
portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi,..... ». I3arbieri.«
E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze
immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da
una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che....
». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ».
Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al
niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball «...
non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. «... non arendo
altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè
parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ».
Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu
o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A
olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti
oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º trou olto.o un o o Iuliud lop
el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo
olios cui lu u uutti i litio o.ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll
lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “ Isopullios o
Iosso otiosso i “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip:lloti - lllllº º oil.
Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o.it: i sºli. Il 1 li
tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i
lotti e io lº otlos IA ". eodo]uttlollo outsioloou otus olos: li
titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I
I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il
ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os, ou o alle p
letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It,
looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli:
Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il
leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p.olio III lo o.olio o.I l: \ Il “Il
d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº
ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo.In lon.o utin o
55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos
essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio
lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it
il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N. Ierio. In oiloti in
love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse
litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | |. ll tº o
lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll
los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil
oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A
otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito.
el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o
Iellios II, lo (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I
-Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA
-I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po auloIllla
Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia,
iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e
m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei
più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani,
e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità
del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or
quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del
Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera
di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e
le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di
una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che
di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla
suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel
manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte
cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci
rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di
frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è
affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il
linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si
vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e
malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai
Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle
proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor
connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia
mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non
importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro
l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò
di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla
i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via
ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal
sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo,
tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a
conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi
il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a
singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo
studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena
balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da
ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare
il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia,
legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere,
trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più
elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a
dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo
idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo
scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho
memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto
tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo
tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di
fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di
vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di
recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà
mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia,
di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre
suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una
radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o
scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo
parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del
favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci
che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto
sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare
convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci
bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli
esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore,
schierati in due di sliIl le classi e solo: I. Voci e il dtsi che comporlot no,
e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.
("LASSE I. Voci e frasi che comportano reticenza l: previlegio
di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono,
di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e
lorse più che non si otterrebbe esprimendole. Molte di colali reticenze
sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste
non accade occupal selle. Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente
non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono
sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori. Te ne offro,
caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi
esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e
cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno
di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in
qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto
della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà
niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del
mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il
costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno,
mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in
numero tanti ! ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa
ecc.) L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste
particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e
come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101). «... e così
dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli
ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle). « Di ciò che... so io
grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che
bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc. « Diceva un chirie e un
sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC. (ad ora'
Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse
in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli
ci abbian luogo? ». Bocc. «... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te,
di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor
gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ».
Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della
mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della
chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa
che).«.... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con
lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc.
(talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui
che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e
maniera). “... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien
mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle
contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse
conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì
perfettamente.“... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc.
“ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che
pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la
scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto
che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere...
Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare
». Fier. 104.() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio,
che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita,
che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105)....
roi l'a re le colta che niente meglio... Ces. talmente, sì bene che...), \ on
gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora,
che... m. Fiel'eliz. (t... ... e conchiuso di appiallargli un bel
figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente
bello e caro, che non vedeva.... « Guarda come ciascun membro se la
rassomiglia, che egli non ne perde nulla. Fier. (in modo, il glisa, sì
perfettamente. « Per ciò bestemmia, che non par suo fallo. Malin. Se ne
scantona, che non par suo allo. Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o.
I 3el ll. lilli. « Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non
m'arrem mo bisogno, ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un
modo di vivere tale che..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio,
che non si po - Irebbe dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita
passata, che con - - grande empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che
piacesse a Dio o. º CaV. «... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo
di domane in prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui,
penso mi che immansi che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - «...
e andò la infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero. per
disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non
ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si
reslieno una cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill.
(Iale foggiata che...). NOte all'articolo 1, i101) Analizza un
po' la frase nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di
somiglianti, nelle quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella
de verbo essere che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose,
oggetto di ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in
itatori del Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei
loro Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e
cessa la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca: «
Piaceni a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ».
(caliz. 29). (104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro; non un, nè il, la cui
onis sione dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa
adoperata spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a
In 1o avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II
mezzo del cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che
la diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a
quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed
altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che
pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale
oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso
al tutto opposto; quello che è causa diventa effetto. ARTICOLO
2. flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata e quando a
SS0luta u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro
comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di
ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ».
Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso
secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e
tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur
del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il
cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel
modo e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè
nel quale si ha o si deve avere un padre. Si osservi di più che ornettesi
talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un
uomo del saper che il Padre Nugnez ». Bart. – cioè a dire che sia del sapere
onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito). b).
Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al
quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo
da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase
e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il
farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro
verbo (es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così,
il più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe
o non fu mai la mag giore). Gli esempi che li reco, disposti in
quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma
anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di
questa e mille altre somi glianti venustà. ... perchè egli chiama rimedii,
quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano
a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la
navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa
V. « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun
nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva la
maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più
sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se
la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107): a punzecchiò un poco la donna e
disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io). Io non so,
disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di
questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces. e però re
intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?. «
I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è
persona ». lSocc. - - «... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi
che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi: l)av. ierata del
parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ».
Bocc. «... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in
quella reverenza che santo ». Bart. si tiene un santo). º
indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed
essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ). (nel quale si
tiene un Padre..., nella quale “... fare a modo che la madre al lº ºillo
quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti. « Ma di sè non curò punto più
che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar. di
vivere). «... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi
Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli. Segni. ºi Iliello che
avrebbe curato se non braInasse “... trendosi a credere che Tºllo a lor
si convenga e non disdica Che alle altre. I3occ.... che si conviene e l 1 l I
disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e
gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli
costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così l'arrersi
di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro, che io Non
l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre; sì che l'ºrch º io
non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male, I3 cc'.“ -
ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima fortuna che lui,
nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol, della sua vita ».
Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e promotori del l'
idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi... I 3ar[.." l'Ili all'incontro
era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi, parendogli la r da
mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la greggia... o. I3art. Se
io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger. “ La ſan le piangeva forte
come colei che arera di che, Boce. “ Le quali ſcortesie, molti si sforzano di
fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le l'anno assai
più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano. I loce. (di che doversi
sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel che no, Ifoc,« Voi
l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che meglio non si poteva
cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così l'alcuna persona che ne
facesse o sentisse quello che Luigi per amore di Dio « Dice il Sere che
gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di gran mercè). « E
rispose a sè medesimo che mai no o l'assav. “... e se di niente ri
domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer Lambertuccio
disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna gl' impose
così fece p. Bocc. - « Tornali a Sacai, si ad una ono loro intorno tutti
i cristiani a udire voda Lorenzo che norelle recasse: ed egli a tutti,
che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e proprietà che
mai la maggiore ». Ces.... ri con cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso
che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la
maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora
di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti di numero....
Dav. 108).... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ».
Fier. li e li avveri sso di peggio.Vli repliche il lorse... V e di mente che
si, ma.... Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe
quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani, con quella
riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine di S.
Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni.
Bart. N Ote all' alrticolo 2. 10), I, I.issi, a lui lo
rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva
con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe
parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur
qualche cosa, con quanta grazia. I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a
questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven, che due
e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una
proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho (olillllle e
generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere fare, mettere,
ecc.), che !., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci di riol:
liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni prenderla
alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or vizi, e
metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione del
popolo ». « Ciò farebbono levando popolo in Funai come si era fatto in
Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a fuoco, e
quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi predando,
incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti dava
albergo, (a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo nostro
lombardo: contento, allegro, tristo, afflit, come mai, che fu già menzionato
alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non guari
dissimili, ARTICOLO 12. I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE
(mögen, können. diirien) comportano reticenza ove all'ombra di altra
idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più
grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero
presenti. Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non
leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è
in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a
mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei
dettati dei migliori scrittori. « E vede ra la bruttura dei peccati suoi,
e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella
non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse
rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse
O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. «...
ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che
li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano
persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi
giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo
stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire.«
Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella
disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila
acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove
andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro
». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo
nostro compare ci renne in quella... I 3 t.« I)i Giusea, do ho io già meco
preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi. I 3
('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad
intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo,
e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n.
Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa
in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque
e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln
lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con
cui: che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro
con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e
d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non
ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche... chi
saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '.
Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che
lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci
losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo
mai alcun altro (19.trasporta casi dove il vento.... Bari dove voleva il
vento). (110). (atlandrini... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser
malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò: Che fo? l)isse lº uno: A me
pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello. I clie dello io il re?... A
me pare l'ori i ba riare a...V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che
lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io
saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la
giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua
presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | |.Ella rimase
lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a
pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l '. (il V: il n.\ 'il'
atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro,
non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi
tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli
una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo
a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare.Ma se
alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat, ad 1 ml mio innanzi
che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto
all' all I o ”. Cav. avesse potuto..... E fallo questo, gli disse: quello che a
me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e
ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della
serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse
». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica
ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer,. I3, c. non saprei qual dei due
io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io
a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non
potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a
sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo....
cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc. « E
perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia?
». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere). NOte all'articolo
12. (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i
classici e con lume alla lingua tedesca e inglese. (110) Negli esempi fin
qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde,
ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con
il lique l'azione del III do elit Iro. i 111) Gustalo, anche negli esempi
che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill
de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al: mögen, dirfen delle solite forme
tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo
del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » (oè che
noi potessimo Irlai fare V. - sione del testo di S. Iº:nolo: « non ex operibus
ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il
rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi
l'altra (º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato,
per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche
il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone.
rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne
facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i
militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti',
espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi
potere, volere, dovere. Il'INDEfINITO DI UN VERB0 obbligato ad uno
dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un
sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo
precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro
verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro.
Quando e come agli esempi. “ Ti orºlli (o di notti in ono onor quanti
seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare Sºnº lºro non
può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire. l:
I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la
solenne guardia del geloso, non si poteva. I; ci ma di più non si po teva
fare).º... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete
cose Che io possa, but N lui il m con lo... (il l'. lo era un asinaccio
che non poteva la rila, Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri
unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli
di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le
mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non
potendo reggere.Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non
dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro.
che non doveva e onorare una persona, o fare con una....... Spatccia la mente
si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio
in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in
pole a fare, accadere meglio.....lºra bassello di persona, e pieno e grasso
quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo.E già tra per lo gridare, e
per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a
ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le
sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o
morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco
che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia
troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la
vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con
quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo.
I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che
sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non
potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente
preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura
della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro). «...
se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ».
Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono
questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto
italiano). « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove
non possano l'ºn li e solo o. I): I V. (... pendici boscose, per i venti
di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art.
Segn. «... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là
d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie
gne ». Bart. () [LASSE II. Voci e frasi cui si attiene il
pretermesso Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei
costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è
altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La
qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la
lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all
ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla
mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il
maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore
letterale ed esplicito. Le elissi della classe precedente erano quelle di
certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora
vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo
molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più
altre dicono più assai che non faccia il material suono. (). () A me
sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi
ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non
penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende
risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la
materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad
altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire
di altri usi più notevoli. ARTICoLo 1. lascio le discussioni
intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g'
sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il
luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice
pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe
rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con
l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se
gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con
i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li
ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi
di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro,
di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al
ra v. e. ()sserver: li: il come l'essere una al parlicella ora articolata
e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto,
ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion
d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di
mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero
non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre
coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc.
ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente
colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo
scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al
rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira
nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di
lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e
come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si
continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi.......:
guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto
ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice
preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a
complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e
commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di
semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì. Si
leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad
alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il
peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto
padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano
cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più
assai che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni,
che in materia di eleganza guastano talora, non che n'aiutino lo studio,
ciò è a dire il pratico profitto. (138) « Mi metterò la roba mia dello
scarlatto a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp.
e sarò vago di...a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a
vedere se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza
di preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a
dovervi in mezzo mare con armata mano assali, c. lioccº, º allo scopo di...
aſlinchè vi dovessi.....() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed
esot minuti e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren
litrº nascoso si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo
morello a vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore
nostre, V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della
Itaſſio nº si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.«... disse che egli
sarebbe a sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. «... or mi bacia ben mille
volte a vedere se lui di rºm o. I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e
bruto non a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho
mangiato e bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida
mi l'accosto. l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi
a lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo. Dante. (a fine
di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a
diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e
diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo. lºsop.
Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº
º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ».
Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto
sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139....
nondimeno a cautela si ordinò che....... Caro. « Io ro che l campo là do Sul
(teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a
titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa
damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser
vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon
cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo
andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia, per ottenere,
o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di
merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi
potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi
nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo
dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ».
I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141).
La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono.
Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la
rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria:
roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ».
Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a
moglie nella e il là ali Patriot, Vill. (i. i trad. destillandola a esser
moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo
gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati
». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo
gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare
a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò,
sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che
ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i.
142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ».
Sacch. cioè fatto per servire a due persone), Ed assai bene circonda la
di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare. I3 # 1 (3). a V
elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier. a
Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il
taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro
stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi? ».
Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe
onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella
povertà).“... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º
ammonimenti a mio proposito ». Pand.«... e molti altri che a narrar li saria
fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a
narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a
ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga. Segn. Sta ma
nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a
stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì
dicesi: Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore
del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser
('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina,
alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. «... e saranno solleciti a quello
che da maggio i sa, i loro coman dalo ». Pand. (a far quello). « I)i
seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir.
(con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle
grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a
campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal
malliera....« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a
simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza
d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a
sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. «
E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci
ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo
lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).«
Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il
meglio ». Sacch. (145).«... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre
o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo
cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a
Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a
pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di
G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ».
Med. Alb. Cr. (Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione
con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla
liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ».
Dante, vanno in modo simile a ruota,(0r chi se lui che ruoi sedere a scranna?
». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale.« La licina
prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra
lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a
lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la
campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai
fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto: voi,
vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom
scºrre mai se non a suo senno, I ): ille, Conv. 147. v I na
gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra,
spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll
not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo, l 3,.\ (ii resse l?omolo a senno
suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità,. I ): V.lo roglio del I
e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia
merita lo. Pass, come mi pare e piace).... fallo a ress' io a senno del mio
cane figliuolo e non egli del rec chio padre !. l)av.Dorma ri e da cantar
l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le.Ma non si arendo con
quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno
vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò
meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere,
perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di
colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella
era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui
piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t
ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe
rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i
149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta
vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare. ('a
mm e rut a tetto, (la zzi. I Ncio a strada. I3oe('. ... e se la
collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ).
I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa. l?art. I che sollia
e spinge innanzi investendo soavemente la poppa). « Portava a carne
cilicio aspro. Cav. ſrad. a strazio di viva carne “... faceva asprissima
penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o.
Cav. “... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con
fede e lealtà di semplice parola. liocc. (par che dica: col nolajo attaccato O
appeso alla cintola. ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a
petto e spada in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav. «
Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote,...
si mise a sedere in coro... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le
gole) a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ».
Vill. G. a petto, in confronto di....« Ma io credo a rei rene dello pure assai.
Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n.
Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse...... Bocc.
(per rispetto, relativamente a....« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a
quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle
che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che
non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.«
Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne? ». Dav. « Dall' età di
Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra
possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un
batter di ciglia ». I)av. (15 l.« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno?
tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2.«
Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole
all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le
conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono
cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così
allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè: tutto il
mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla
famiglia che siamo ». Cecch. « Domandò quanto egli dimorasse presso a
Parigi: a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc.
(153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle
sue terre a tre giornate ». Sacch. «... io vi era presso a men di dieci braccia
». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse
all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad. “ Lo l'isloit
rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe
chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch. “ Egli è la fantasina,
della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse
o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse
a otto dì alla sua promessa vicini. I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio
grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle
a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la
lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi
buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi
tempi « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti
che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a
costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a
trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi
al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di
morte cagionata da grave e crudel supplizio).c... in un suo orlo che egli la
cort ra a sue mani, l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle
scale ». Bart. (a forza di..«... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi
inaccessibili ». Bart.... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a
un corpo: recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico
che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu
noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a
coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non
se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica
no ». Fra Gior (cioè: « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini). «
I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da
mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l'
uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra
citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino
Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente,
e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non
per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.
Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I;occ. “ Vicere
all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui... (158). -º 1
ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè: la nave
commessa a la vela. 159.“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e
su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore, l art. 160,“... e mise il
mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti
a fortuna, senz'altro miglior governo che..., Bart. abbandonati alla fortuna,
in balia della....; 1 - « Non è sì magro cavallo che alla biada non
rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe
stravaganze tenerci di non le motteggiare. Caro. « E molte volle al fatto il
dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a
rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, Bocc.ſt Ma dimmi:
al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i
dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa.
« Conoscere all'abilo. alla furella, e simili. « La città si reggeva a
consoli o Vill. (i. (con governo di.... (161. « La della città si resse gran
tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai
ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a
popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore
solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con
l'autorità del suo con siglio o senato, lo dicono chiaramente gli
scrittori nostri » Bargh. Vin. Seguono altri esempi di un'a ad altro
valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche
noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo
alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º
"gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince
». Bocc. la quale sia da darsi a chi ": lº º l'"ºn lºrº in su
un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I
ra”. “... con le note rele a chi più mi esalli, I; art. tale [llo, ad
hoc: chi pil...). Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a
baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da
compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo...... Fier
eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all
blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa. I3 c. (bel
Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto »
Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi
freddi i... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna
rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso, l30cc. (sì che facesse
pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore
onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te. l oce.
(cioè: l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla
ti le o. (illerardilli.“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio. Vi
ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care
gioie... ». Doec. cioè: il lallo, per quello che spella, relativamente.....1
Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio
e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64.l'ol re, in li a prendere q. c. ad
istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V. I 3:ll'1. I tesla
finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice
particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i
maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col linguaggio
di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio. « lo estimo,
ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda altrui
o. IBocc. (165). c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ».
I3oce. lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con
sobrieldì m. 13art. Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra
essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e
disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a
perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare
chi non sa m. Fior. Virl. A. M. « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi
di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166. «...
ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli
belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc. « 1 cciò che
a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello
che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ...
ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari,
senza metter muore angherie, (iial b. Ma siccome noi reggiano l' appetito
degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168. «... e len
negli ſarella infino a vendemia. I3occ. (169. « L'ora ju a sospetto; la
cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV. « Da
lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare. Bari.
« Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ.
(con conſidenza) (170. «.....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra
millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo
lo risanatsse di... S. « Non pensando che li mandassero a processione
cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro. Era fornito l' altare a
bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... » IBarl. « Gli
parlava a capo scoperto ed occhi bassi (es. « Arregnacchè a sua colpa la
naricella sia fracassata e rolla º l'assav. « Il peccato nº ha quegli che
'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'. (iiol (l. « In due maniere
sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore; o s'egli le
fa, e non perdona a colui che natº lº ". (i l'. S. Gir. a
1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien voglia di darli un
sergozzone n. 13, c. e Slot che lo: io li lai di medico re al mastro
13anco che è molto mi o (1 mlico. Sacch. i 2;.Signor mio, io son presto a
contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io
gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri ) la llo, e quel che .
(173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e a uno ricchissimo padre e
lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º l'ucidide l e lui e ad
Erodoto le sue storie, s'accese cla (I 'nº' Noi ci il bi: i ne'. Salvi i
li. I 4. e l not figliol lat.... non essendo ci slui ma, e udendo a molti
cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is list not leale..... l oce.
i menduni o alibi due li fece pigliare a tre suoi servitori ». Bocc. ll fece
prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per le circostanti parli passa ra
rubar faceva a suoi soldati.. l) co.e appresso. Nè lece la rare e sl i picciare
alle schiave ». Bocc..... Può e deve per sè dei irare a tutti questi capi
infiniti ed efficci - cissimi i corili rli, (al. I 5.a guisa che la veggiamo a
questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far veggiamo a coloro che
per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa. 13o.Mollo a reali le donne
riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri ancora se slalo non
fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi a coloro che lollo
gli avevano il porco. Docc. I., ol, ndo la r e nè più nè meno che s'acesse
ceduto fare al maestrº - ct tal, le... l i r.l mal ripo' a gillossi alla mano
di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba) bat i prende e la
mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero..... A li apost. | | 6.Sbigottiti
per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos tº 7 ti, a peccatori
li l': il ril Vlli... l'assveggendosi guastati e a quelli che c'eran
d'intorno... ». Boce.... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho ceduto
straziare (il mai ») I 3, (-.. goira, di qui e beni che li reali gode) e a
questi padri ». Ces: a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ».
Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui. Caro.Lasciarsi colge
all'obbedienza del superiore, Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente,
l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli
tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. Ed io roglio che
lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli
impeti dell'ira trasportare ». 130cc. t « V assene pregalo da suoi a
Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e
diroiarla da due cani o Doce. (178). « ILa giovane sentendosi toccare a:
- nºani di c li l il, il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l
la erº nell'a mm, quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179). NO
te e Aggiti inte all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego,
divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte
forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che
mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se
Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi
iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime
ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di
n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip
idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es.
fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi
luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per
cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i,
e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza; II e la fa, zii, il ll - da sè
sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte
di questo I)irettorio. I)i più l' a articolata (III en, preti ess: a 1 in
li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle
quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente
disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do,
Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a
poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1,
ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale
disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei
quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino,
corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o
for me avverbiali in particolare, (139). Nota il modo andare a diporto, a
diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare
a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe
intendere anche il modo (divenuto) Volgaro: andare a spasso, cioè non nel
significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere
ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: (ull'allino,
col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle
soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo:
maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil, e lº iu vaga e lo I e la Irase
italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il
cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di
Irle:lto e perdono continua Iel 1, ne a 1 I test Illlarsi i pc.I? Nota la rase:
eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i, (il... SIII il
ricevere a servitore. l'elilella, che Griseida non I s se l'all 1', ai loro
presi, e per lui el'. ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore... l 3, l
'Il sl, avere a maestro, a padre, a si giore, l Ne l il roll, il Sesil I
allegri da poi che l'elobo lo a signore, l'av. S. Analoghi anche i modi: avere
ad o more ad orrore:..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n
avrà ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo,
a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es.
i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i
poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale
avere. » (ill 111. l.eli.: avere checchessia a misfatto: « A non « minor
misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo ». Bart. avere a niente. Anni 1
-1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il
dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp.
Cod. Fars.| 13, l. a. arti, lata Ilo, di questo e del seguenti esempi,
dipendente lei il l l e V g. In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1
l di sol: Igli, l,, sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd: l'ast di
Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra
l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si
li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e.I 6 Simile: Sopra
vestito a bianco come neve, Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la
vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a
brum le li:lle l'el -, l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la
limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno., l'i. e z! modo, secondo,
rili e il senno suo. No alo anche lº: li es. I | i le segli no, lui e sto
mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui.. che è bello e proprio
della Lingua italiana.1 - Si!! i:ll": lo misi a suo senno, a senno, a
talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo
ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a
posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a
governo di a.)l º Vl: si ro (i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse
ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di
comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo,
che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto
la nota frase di Dante:....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che
un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota
il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in
discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa
si vuole (Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si
riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di
li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi
dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e
simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi
arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to
alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. (155 )
Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a
ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. (inf. V b. Recare, Parte
III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a
di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.(159
) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota
la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in
balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore
Bart, levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai
a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile
anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati
del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a
suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta,
a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina
donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che
sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o
Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le
altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere: essere
a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare
a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella
semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare,
cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed
implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso,
dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ».
Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e
la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e. In A i a
piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.:. Venuta a dunque a con « fessarsi
la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc.: « Costoro
avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.:. Altre stallino « a giacere,
altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo:) Inc it:) veder l:i gli ri:
a Inostra ». Petr.; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a
giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte
il Illbrattate e gli isl, -: i bit, p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo
verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i...., (a: « I); pinse un re a (sedere
coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren,
am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia,
e appllini o l'a del c: la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a
V el'lno, loli a m - Vlt; tl, i dll re, la zu.165, l 'a di questi esempi st:
l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n
a preporre talvolta all'infini, o, a maniera di sostantivo e soggetto
comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e
dell'articolo, ecc. (166. Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi
avvenga il ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani;
a mano di alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere
d'alcuno.16S) Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento,
l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per
alcuna « Irli:l vicelli la o lº si... per Vai l'll lno illo, cle andava « a
città, l o in illera el tº:ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di
un viaggiº (ore. ll e la sºsta di ll'i: in altri, iº fa e non dicessi che va a
città; andare a santo;.. ll v. l t. ll li i possº andare a santo, e nè il niun
bila il luogo ». Boc.; andare, recare a marito –.... e questa Il l:nti ! nº ll
e lo o ire a marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio, Do..:.. lo - a: a
re dei di delle feste che io recai « a marito » l 30..: essere a riva di... e l
', a riva di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl
al de ll cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione,
ma tutti li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo
scambiare con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso
dicas del In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta
evidentemente in luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi
verbi: fare, lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono
un'azione in infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e
il Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire
collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni
latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il
soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione.
Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a
chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della
volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o,
come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al
cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi
e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti
asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte
locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di
cosa dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza
e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di
allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai
bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far
portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che
si porti e, altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il
n vuºl essere scambiato col da: costruisci ((il comandare, e il 1:1 l 'lie
chessia: chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di
reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è
comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando
venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se
avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata, l'horen 1 e O ll ricevere materiale
involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che
llo, con l at Inzi - nzi; Il lil I l e i leti, udendo a, volle precisamente
significare l'an. zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire (oli
attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11, l I questi
capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e
sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi
e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti:
i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai
li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle
non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II. (179)
Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta
alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la
voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase:
sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver
difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far
del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima
e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco? » cioè per rispetto in
fatto di...., in quanto a... Cilf (cong.) Prima di farmi
all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si
strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla
udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione
di frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi;
º coll'accento sta per poiché, perchè - l' “osi la pensano granai e
filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa prei º solº cui cadesse in animo
di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a
censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli, che in omaggio a al do
Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato
estè. Ma se li pur in mia i a V, e - - irº che questo che di frequentis
sillo liso. I pendente ci v. l - Si p. ssa:ili le intendere o sentire
tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi,
diro 'll 'i'i, lº sll sl tit, ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo
tiri I l ss,, - i gºl.... l III di strano ch'io abbio di concepire, io
non so e A cdr e sentire nella voce che, adope, sola o al I e di altra
voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una,
quando in altra forma. l' essi i S \ ºpi ilarli poi di questa ini
era l' intendere e sentire, ti Pºi lui appressº i monti e pon i no e
l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i - l\ ini: gli orsi, chi ben
la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli
cinque differenti manici e di un colal che cong. | i l. I l a sla al riti
il che vo non, sale. I3 cc. 2a Mio fratello è pil dello che pio. :3a...
che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona, Boc. ſa « Non era
ancora arriva lo che io e gi i partito.. ;)a lº si pensava che ingannando
i l i crilin fosse appresso al tutto signore n. Vill. (i. Questi
esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma
ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì,
e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice
cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom
ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al
suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei
modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio
intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis,
virtù di elissi, omesso. ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del
numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal
modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce
allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito
all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc. Più malagevole a
concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe
l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi
confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad
ollicio di pura e semplice congiunzione e punto capace di virtù
pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od
indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è.
Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e
lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità: « E si
pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo
intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da
ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un
congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro
verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a
nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza
che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un
colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo
che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la
scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se
io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono
transitorio nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia. I3 cc.
\ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il
giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali, I3oce. -– a Si ve dova
della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor « misda non
la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto
più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill.
– (Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse
rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio... Vill. – « Seco deliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso
che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – «.... la
precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso,
estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza
cagione inge «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc.
Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a
colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione, I
'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico –
a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico il
nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci
vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi
li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio:
« E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi? Disse lo Scalza: Che il
mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà
che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo,
questa cosa?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir
perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi
pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod,
que, dass (anticamente anche das si scriveva dass, lh tl ecc. ecc. Talchè io mi
figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo, a cagion
d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. –
ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº questa cosa
(dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce –
ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero non
altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239. Neh! lo ripeto, è
una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico
che il che cong.; ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri
mastri di nostra lingua assai solvente. - I di comparazione e recante
senso di: di quello che - l. il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza
che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili.. llpl calo a lil:inlera e valore
dell'avverbio di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla,
di quando in quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per
dacchè 210, poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242) è notissimo e
comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne. \ iuno dice a trovarsi, il
quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e,
che se i ri rut ella, l?occ lo non coglio che lui ne I l a rl pii la
coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '. \ orella non quali i meno di
pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc. ...
che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori
ol) e le dando che li sali non e' di no..... lSocc. \ on le doti più dolore che
la si abbia. l occ. (n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in
en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l
occ. \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè
d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo. Caro. « I
fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone. Pandolf.
che quello del..... a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che
si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà e poi lo queste cose a
Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere. I3 cc.
allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è..... (i uan da ra d'intorno dove
porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc. «... gli
menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai
nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse.
Cav. a... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni
che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243). ...
precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro. «... juggì via e
non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc. ((...
nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si
ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ».
Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che
ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. - “ Ma
fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere
lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce.
244;. º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che
non ti rechi spesa. I'and. ((... “ Von posso passare per la strada
che non mi regga additare o I;oce. “... e l 'nsò non potere alcuna di queste li
e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione
». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto
ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono
sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si
versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col
becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete
andare a vostro bell'agio ». Fierenz.«... non canterà stanotte il gallo due
volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei
o. (es. 2..« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni
altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art. « I)onolle
che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari,
quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce. « Questo regnò
anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V. « I'(Il
li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V. « Fu ascolto con giubilo
unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco
presente ). I3art. NOte all'articolo 11, 239) Alle
congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc.
rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo ()
was ed ora da 0 den – coll1 razioni (riduzioni di was e das, e sono: warum,
darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc., 240). Dalla prima
volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo.. Essendo
limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo
per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi
fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di
l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò alto Che Ilsi io per te della
V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della
quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e
cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe
cenato - e... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io
ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto
forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi;
e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc.
243 Vlla pari e I V rti. S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile
a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una
dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta
può essere soltintesa. Ma sia che quest, che si trovi ad ufficio di finchè, sia
che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a
questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che
vale: finchè, prima che; il second: senza che, Nota anche i tre seglie, nei
quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente
il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F.
e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be, che voi le
spezzeret (n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e
negllera 1 dl conosce l'Illi. CHI In questo e nel segui le n il
loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova
add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e,
per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il
tutor, Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il..., e la virtù che
viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a
certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio
che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l'.E sappi alunque che anche la
particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al
discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a
valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono
della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il
segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche
di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il
segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e
l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni,
mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia, ciò è a dire, soggiunge certo
lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla
anche così: se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra
sì fatta guisa? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su
questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa
spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di
potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel
modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche
del simpatico nostro Manzoni. o «... la casa mia non è troppo grande, e
perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo,
senso la r moll o zitto alcuno ». I30(C.« Molto da dolersene è e da
piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime
o. Passa V.«... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si
scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno
era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene
maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona
sua. Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV.. « Quinci si
van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi
vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come
pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.«
Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di
sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così
arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area
dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr.
(per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre
rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei
pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione
di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà
considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior.
- Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in
negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro
ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche
la vita un duello... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre
pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o,
Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario, che si sarebbe scatenato
peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der
nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca
s'acque la ra un poco e... ». Manz. ARTICOLO 20 Sf (C0mg.) Anche
la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual
desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli
ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non completamente
espressi. Il che avviene di un se. – a. recante senso:ì così, e in certa forma
di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso
e si linteso il verbo che lo precede: per ve: dei e, per sentire,
osservare e va dicendo. Non misteri della lingua al dunque, non licenze
degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare
e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione
intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien
pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro
sono, all'incontro, che vezzi e gioie. l;oce. Così l dio mi dea bene, con
l'egli è vero, ch'io mi veniva...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai
credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che
tu fossi | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un
pezzo. molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si
vorrebbe aver miseri cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona
ventura, diccelo come tu la guada gnasti ». Bocc. « Subilamente
corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.«... l'un
degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era
uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua
». Bocc.«... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo
» Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. «...
brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per
vedere, per sentire se..... Cav.« Corse per tutta la città se per centura la
polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli
avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere
buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate
bene... Toccale i polsi se han molo tasta º il cuore se palpita ». (per
sentire...). Segn. (247). NOte all'articolo 20 (246). Uno di
questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione
nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa
in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli
esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende
fiato e soggiunge: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le
lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo.
Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei
quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori
». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli
alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi
si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i,
sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una
forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a
sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori
scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni
nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio
e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!.... (247)
Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto
leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola
d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come
si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire
ecc.) ARTICOLO 24 VENIRE l)el Vario uso e valore così del
verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III."
Parle di questo Direttorio. Quello che ora piacermi merilovare è una
certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è
quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi
verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese
mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine,
dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al
soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà
del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t
duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla
mente che.... (286i. Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che
ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti
un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di
sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi
sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe;
e passiamo subito agli esempi. «... e venutogli guardato là dove questo
Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli
vide.... « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro
stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li
arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di
nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene
role lettera: ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo
all'incontro di avervi scrillo.«... spacciatamente si levò e, come il meglio
seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo
portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne
lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc. «... le quali i
bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa
l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti
più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.«
V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e
ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. «... così andando
si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a... facendovi qua e là
nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ((S.« Perchè io
entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi
venne ricordato Lelio. Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un
grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile
diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a
peccato re miale... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare.... Ces.«...
gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti
apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi
giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. «... venne
questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun
sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna
occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che
ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a
tuo malgrado ado perare..... (287). NOte all'articolo 24
(286). IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal
proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la
voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno
irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si,
checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il
secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione
al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et. IParte
II.). (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e
languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V (l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della
le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà.: Tra. Dizioni
e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto
C0Struttivo Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran
parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma
non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è
veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici,
recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di
periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi. E però, prima di
passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1
e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di
lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare
collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda
coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e
leggiadria. Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl,i, suscettibili
cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e
capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº
rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro. Intendo qui
di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in
azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che
prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano
13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel
che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o
assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al
vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo,
e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte quelle
inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno
tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime,
ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui
governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti,
dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e
comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà
alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio
delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È
VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA
LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE Sono alcuni verbi
che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano
assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il
trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o
particella. Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi
pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il
garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di
una tal malliera e striltli. ACCIECARE - « In prima si commette in
occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e
non si vergogna » Cavalca. Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria
Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ».
Cavalca. Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono
in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - - «....più volte si
videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero
a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che
spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e ghiacciò
l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve a tutti
di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui causativo
to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle chiese,
infillo che non alzò l'acqua.... ». Vill.L'altezza del corso del fiume, che per
lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua ».
Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to
sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc.
ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora
a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che
un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre faceva tant'acqua e le
pareva di continui annegare ». I3art. « Alla guisa che far veggiamo a
coloro che per affogare solº quan « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc.
APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu « triti i
sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più
appressando in ver la sponda Fuggelni er « ror ». I): lillte. «
Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante APRIRE – « La terra
aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il
tam.ARRATBBIARE – «..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però a
non ardirono più a valti che... » Bart. «...ed all'uscio della casa, la donna
che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »«...nel
soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa
riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha «
cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit, lui essere
assalito).ASSII)ER ARE – «...assiderarono tutta la notte, senza pallini la
ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE -
INGROSSARE - -. Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi
assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill.
Parla di certa serpe di fuoco apparsa in aria). ATTENERE – «.... lanciato
da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ». Bart. ATTENTARE – «...
desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho a non fanno, che non
attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina)
eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non
bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la
stessa frase. I « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole
cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ».
– E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava
con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.
CALMARE – «.... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave «
appunto per poppa ». Bal'. COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà
compunsi ». Dittain. (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi
vellendo costoro cosi a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e
sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e
caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el
vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui
adoperato, CONFONDERE – «.... onde se si messo nel pianto confondo,
maraviglia non « è ». Dittam. CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la
badessa e si contristare, disse « a lei: or che t'è addivenuto, figliu la mia
Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi? » (avalca.
CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.
DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua
persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi). I )EI,IZIARIE a.... e
se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e
alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari. IDILETTA IXE - Vergognisi
chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant. DIMAGRARE
- INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di
ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ».
Vill. I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se
non al di « del giudizio ». Vill. DOLERE –. E cortamente di lui tanto
dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del
perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per
rat, duole ». Jac. Tod. ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò
il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò. Vill.a IDC lla sopra detta
vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill. FENDERE - Vnche se ne
fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ».
Cresc.GLORIARE - –... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella
beata a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio
a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano
festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE
- – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso
passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è
capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma
attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di
ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad
essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l
figliuolo messovisi a « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti
sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi
fe a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE
– « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll «
possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta
». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine,
inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da
questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi
servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in
casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per
soverchio di noia infermò. Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a
Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La
povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – «
Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani
infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi
l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo
infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti
infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro
fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle
anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.
INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«....la
quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro
surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto
scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo
a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – «... prestamonto lo menai a lavare ».
Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov.
aInt. « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (c.
º llll'altra volta la ino MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando
doventare sinorte ». Dante. « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi
Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte: « adosso in aggiore »,
lºore. « I)ebb no alunque studiare i padri come ». Fia Ill.
multiplichi e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga
fortunata ſilli. -..... que rime 1tlti i cresce a io e moltip
Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando
l)allte. « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli
(li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca
l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi
Prontuario. I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (tale a lui a contro
il Sallesi ». V Ill. al s'affr, tti si s old fa di pentire ». la
calca gli multiplicava ognora a ſalniglia, ! ». lPall.lol
licheranno llaraviglio -:1 fo, l'a ll vita Ne pentire e
llSciIlllllo ». V,iere iil l'laln. la ll pero in sul
nero e - apore ». l):) V. (.. ll noso aleli f. Pianta -
a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto
riscalda. Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono
nell'i gue: ra IRIIP AI: AIRE L'inglese to repaire (on I. lo stesso
verbo, IParte Il I. « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi
seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e
sorrossi dentro ». I30 ('. «.... tutta la lla V e dis armi: i ta
dalle opere in m te, mal nu:i:a e dalla tempesta, e.. aver bisogno
di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi a sverl):n l'e ». 13:art. ROVINARE
- Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon
consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz. a Mentre che io rovinava e li
è col reva precipitosamente a fiacca collo) o in basso loco, Dinanzi agli
occhi mi si fu offerto Chi per lungo si a lenzio parea fioco ». Dallite.
a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino, il a
tanta furia percossa, le gran parte di quel M:I (Ini:n volli. e
Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ». a l'asst, l'
illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn. pilona lo
rovino ). l3,) i t. rovinare... non è gradi a lºietro aveva gia
preso la china giù rovinando... se non che... » Cesari. e Clio non
rovini, lli vi i l i lil: r.:i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º a
sopra saldisini p.I vini: i I, lov Ilie troverete?. Segn. SALI) AIRE -
It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in
ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red. SBANI)ARE --....
le (-a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li sbandarono, l...
SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o sbigottire, con voce assai piace
vele rie, ose.... » I3oce. SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la
annata di lui ad un e desinare, l: qual, v. d. ll -t: IIIedesima giovane
sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi: mandare o menare chicchessia ad annegare, a
uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col
ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere, I3a t. ccc., cliº li son
frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e
li segi:iti a bella cosa a vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a
vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! -
V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a riguardare ». I3... solº i maravigliose
e pau rose a riguardare ». Vili.... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt, il N' -
a stagio gravosa a comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri
di ll 1 le; - l. I3, Forl II (ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1,
scrivi il 13 arioli, IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1:
pia in di....i e, v. altri si av veng: i il: l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l'
ignII llo. I ' ' ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma, o
creda po tersi mai trovare un verbo:itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non
siasi talora uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che
i rutissimili (.ss e v. 11 ri. di lirl II i qual. In Forli' ciarl,.le.::i: dimi
ed altri la intendono e - i ga: o l Iversalme, sarei tº itato il rigil:i ril: i
re corri ti 'i: 1:1, li i leli iti:itti vi si getti: l II l de' verbi: fare,
lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare,
biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na
cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l. Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i
lil Il di al front i rili e Inl Itt e il:ì il tro: i:l ll 1: i: li si. I l it,Vli
sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i
porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati;
li, e li:: lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la
sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio: Va -- e l og: 1o di suoi
a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº. io va ti ucciderla
e divorarla a da due cani ». Si di: • i:) I cacciare, 'l'uccidere e divorare
che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V., (belle sta, il lil:) di scorretto: velt
e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa
essere ) u (Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e
sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al
loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di
significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe',
cavalliere accusativo agente, ed og gettº, una giovane. Ed oltra ciò si ponga
mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi
parenti ecc., Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da,
e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli
forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?
SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave
a sdrucire » I30 ('. SERIRARE rinchiudere ecc., Olm! che dolore ti venne
quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano
di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il
dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi,
che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la
quale vide visibilmiente gittare lnel poz u ( e zo, gridando
forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli, nel pozzº ). SM V
I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres. STANCARE a E avvenendomi
così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè
io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di
se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da
lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire....
» Fier. TIRARIRE i tirare) --. E come a messagger che porta uliv. Tragge la
gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () (corso
lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30
('C'.º..... il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del «
leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia....» Voi gar. di
Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per
la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera
di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per
tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e
poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si
riducevano come a « un porto. » Cavalca. e Un piovºnº i grillorando a
scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come
ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. »
Sacchi,«... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc. – Nota
la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del
mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1
t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad
altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils. Tirare da uno e cioè sol
Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a
finirlo in fretta, anche st; pazza idol; tirar giù di una persona (dirne male
se, za Ibla discrezione al III ndo,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi
evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc. « Ari ippò
l'insegna e trasse:: - la il I grida 'I l... » I)av. “...... e scorrendo per le
vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g (111 di (i e II,
1 lli, a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V «.... la vaghezza di ricolº
oscere i gran personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il
vederli., (es. l ri. TI IRB.ARE –. Il cielo e lill!) io:i turbare. » Nov All.
VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE.... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo,
temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt, svergrgnò ». I v.
Esoi). Conf. Disonorare, svergognare – Prontuario). V()I,(iERE - V () I,
I AI? E. ()r volge, sign(l' In 1, l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº,
al di-. go ». I'et: Noto e 'n ulso anche og gi(lì, ma chi pensa e
vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr. In
queste ruote., I)ante. « Il tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito
rallentò...» VERBI RIFILESSIVI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN
NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO, L' posto di quello le si è vedi o
lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o
smesso, render reciproci alcuni verli: he (li la III l'a ll l solo. I
'alliss, mi li, ci, si.: Il paglia verbo si rive il Ft il naciari, a come forse
meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl '::: l'azione nel si
ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli alici
dicono sul biellivo. Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di alcuni
verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E come
altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie: pensarsi,
sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi esprimere azione
che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per esempio, mi penso,
voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io penso: mi vede, chec
chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di cordoglio, di crepa cuore,
ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare, cominciare, morire. e, che
è lo stesso, faccio si che io vegg, entro ecc. E quanti più altri co. strutti e
modi, che misteri della lingua si appellano, ci verrebbero piani e ne
sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original candore, se l' genio
studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei verbi, l'ordine
dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.! Sturdiali i
seguenti esempi, e saprai come e con quanta grazia. V V EIASI
Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS ARSI –.....
la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che « era e..... » IBO (('.
e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, « Ma io vi
ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo lli
v'avvisate. » l Bo.CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi
adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av. (()NTINI
AI? SI e... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che
essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI -
« e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E
grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono
o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - «... e messosi la via
tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i.Sempiterne
si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):)
Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla
tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a
Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si
facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero
cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si
mori di vecchiaia». Fioretti. «... e così morendosi in poco d'ora, mostrò
quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì. NEGARSI – « E' il
vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come
io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a
voi cosa ecc., che voi vogliate che io faccia º BOCC. PARTIRSI (v.
Dividere – IProntuario, –... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI –
(Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich denken dei
tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil d'induzione,
d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o
supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon
talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io
dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un
farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro
in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di
quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti «...mi disse Parole per le
quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“
sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun
giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare,
escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º...... e si pensò
il buon uomo che ora era tempo d'andare.... ». Bocc. SPERARSI –- «... e
sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser
pace.... ». Bocc.USCIRSI – «....io vi voglio mostrar la via per la quale voi
possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove
usavano gli altri Inerendaliti ». TBocc. VERBI CAUSATIVI, cioè
INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E
FORZA TRANSITIVA. Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e
mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di
apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva
(imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre
intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su
cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il
natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di
frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº
svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i
stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº:. io h Fei io se stesso, e la sua
donna comini c'Io ct piange e. I 3 º li, o solº a se stesso...:....
cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel
regno: ( Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole
passeggiò º due o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano
il giorno cerli pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo
chi vi per cui rimando aliora le solita te libiche pianure '. Stroc chi;
e ci si dicesi: nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.:
rotſionati e discorre e un jail!; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. –...
la via che ad andare abbiamo. I ce. passati e il fiume: passare ll no con il
coltello dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla
dall'altra parte I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc., vuoi per rili
li erla p i licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per
- con i re un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr: riandare un
lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli
pareva che fosse riandare l'ulta da capo la sua vita. I; il I., n. ll per reva
azione di rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma
lo è di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai
verbi al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l '
il lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi
sul soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente
e inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor
nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della
rispelliva azi si rie, si gg i è riori: hi la fa, ma a chi la la lare.
Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la
campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io
suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione
del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge!
I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il
cli: i ar. vale: io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon
Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali:
e il di p. es. cessare chec chessia torna a questo: fare che una cosa
essi, linisca. (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana,
francese ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran
vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la
rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o
complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono
un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto
indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole
quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es: den
Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen; einen
Freund beschenken; don Feind bedrohen; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand
behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il
Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che
risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non
ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria,
avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare,
attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al
senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola, secondo
la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto che cessa,
v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è
sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il
cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover!, che si Iacria, ma vale far sì
che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde
spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato
a qua lunque altro che comechessia il comporti. NI3. – Si fa qui menzione
di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè
ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità
antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia
comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è
richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie
dell'avilo, italico idioma. (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra
tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti: to
fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o
gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to
sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire,
to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di
una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo:
Steigen (ascendere), steigern (far ascendere); folgen-folgern; nahen - nahern
(e anche nahen cucire); sinken - se nicen; trinken – tranken, dringen -
drāngen; schwanken - schwänken; erharten - erhärten; erkranken - krānken;
fallen - fallen, stiche In - stechen; schwimmen - schwemmen; springen -
sprengen; wiegen - wagen; einschlafen - einschläfern; liegen - legen; sitzen -
setzen; stehen - stellen; rauchen - rauchern; abprallen - ab prelien; fliessen
- flössen; schwallen - schwelten, lauten - làuten; (es laPomba so...., es wird
gelePomba) ecc. ecc. Io non so di niun grammatico o filologo il quale
parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie, rispetti e relazioni
etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e
Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto lor potere, e per
dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso
e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi
stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più
assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi: stellen di stehen, setzen di
sitzen, e legen di liegen. S'io lavorassi o dettassi comunque una
grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi: I.a – Attivi
transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a –. Attivi causativi. – lo
guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso ecc. – Mio l'atto
causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc. III.a – Meutri
relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il ragionato
testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire: vivere una
vita. tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non toglie al
vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo elegante che
torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e pºrò altro non
è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione o qualità del
soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito hai, bella
donna, un breve sonno., Petrarca.CESSARE – «...da troppo più erano in lorze, ma
il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.«...e cominciò a sperare - e nza sia
per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III olt. l 3o t.Così a
dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta, Chichibio cessò la
mala ventura e la il 1 ossi col sito -... ». Bove. E se pure i liti e li rig.
Vi volesse soprarſi lº cessatelo con pazienza e sopp rti / i 'le..... l'a
ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i s'1-s......it, livºr
cessare la neve e la notte e le sov l instil V a. l ore 11 i. Cristo
pregò il lº; i dr. lle cessasse il calice le! l -- i il di lui ». ( la
Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V
ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. (:) | Astenersi lº
l'a lt 1 l:ì i l. La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c. l. «
l'el cessare i pesi d llllo si, it: i cl l - e gli stessi, con la Illiato
». (es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari.
CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio non
del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con
venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima, dinanzi da sè, il Clti
i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll.a Chi conviene
altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di
1, i: i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat, (1:111 o vi
è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della
Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase:. Questa
piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ».
« E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l... V Ill.E questo pellsiero la
illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale
l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta
s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li
rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale
che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche
espositore, ma cau sativo retto da pensiero, il quale non solo la
innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai
qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che
segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì?
DERIVARE. - «.... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle
piante, così.... ». Segn.«....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in
queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi
infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore
questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor
che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori
avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano
seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria.
Fallire neutro, vale: li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li
''I raro, commellere fallo, andare a vuolo - si leiler n: - la debolezza
vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli
la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e
pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne..... (es. \ i rolli: il falli la
speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare
il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1
ratelli.... ». Bart. « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in
quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver, si duro soldo o l)av.« Finite
i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.«
III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le
alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. –
IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) -
a... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire
Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V.
b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato «
quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la
vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo
è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE
– (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in
chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill. MANCARE - « Questa asprezza
delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte
di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi
mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della
Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on
f. ll - i vari di questo verbo - Parte III. MONTAIRE a..... e così in
poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con
falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria
». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì
i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise
I'm to raise. MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli
che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in
mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo
plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella m'ha
morto o lº i. - - - - - e ln, il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti
nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... »
Cavalca., Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,. Mista l'o
di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana
natura ». (es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.
Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle.... » l)a V. Fra l III olti isl
lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro
esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili:
I l a tºrto e lº iallo el'a lln sentiero s gli Imbo. (.li e in liesse il
1 l la n o della lacca Là ove piu. he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS
ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte, Il
1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le
li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli,, per natural cort sia, o per
che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ».
Bart.I mi: rilla I e i soldat,, lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano
il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo,
frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando,
trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo,
scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben, cioe parsa lo in senso
causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si
trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W. Il vertreiben, non zul
rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al
mio pensiero. ') po.. er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in
ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa -:: -
il l '::: il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se:I l il 1:
Irri li vezza il I l ' - I ', gli i filigge, lì:almn Ino di, di illl:: 1:1 re a
da passare quelle ». l 'r erni..I )i, he lo n vedi che codesto passare e il
rimuovere sopra detto. I 'I l? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et
corpus perdere in gehell ma li ig: tris, Vlath.: ' '|... Il cui numero la loi,
scritto essendo completo, ed egli tolse di I lil: do e lo ebbe perduto
senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè
distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V. (!) È
ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire: perdere
uno, perderne l'avere, la riputazione ecc. Quì perdere denota azione
diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo modo è
cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al soggetto co
me clessia avviene. A gli esperti del Breviario romano ricordo la bella
discussione di S. Agostino intorno al doppio senso dell'espressione: perdet eam
del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o
l'altro: colui che ama veramente la sua anima, perchè sia beata l'IOVERE -
NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito
gentile ». Dante (Convito).a.... e però dico che la belta di quella piove
fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli
altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda
all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette il Giove, Il quale,
tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti esempi in strano chi la
o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I somali, si rigi il sili, elle
lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo si può ſulla via anche a
maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la cagi li che il lato priore
». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ».
Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci le possessioni. Segn.
Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona, l
anti, sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i
re di errore il dire come elletri e le till illegali: le stelle pio rono in
luenze: i nu voli pio con sassi, e c. SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla
di pipistrello era lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean
da ello ». Dante TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el
le;l p. 13ocr'. VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e
venuta al niente senza colpa dei nermi. I n. Vill. nell'eternità,
darà opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo:
oppure: colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto
all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro
un qualche esempio: «... Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc.
«... e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti
corsero per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che... » Bart.“ Guarda
come ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla, Fler. Nota
ancora gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi
d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III. Voci e rnaniere il
noleclinabili Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di
lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel
l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro
oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica
cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In..
Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di
studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la materia,
non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando e
con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo
e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti
verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere
lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato,
e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita
iuvant. SERI E I. MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM: IN C: EN FIRA I,
E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I (I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I,
GI: A l M (N ) (E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI
Asl. Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare:
bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le: onnina nºn lo nel modo mi. glio
e, possibile ecc. ecc. COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E.....; CI
IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si
levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13, c.« Senza liti, la
cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc. . - “..... riprese
animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc.. “...... a dorni il meglio
che sapevano m. Bart.“..... tutti pomposamente in armi dorate e in vestimenti i
più ricchi a e gai che per ciascun si possa ». Bart.AI, « Voi
l'avete colta che niente meglio». Cos. «.... con quella modestia che io potea
la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior modestia ch'io potea.
) - - POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI "ITO; IN TUTTO;
ECC. «.... purissinra l'aria ed asciutta e secca al possibile ». Bocc.« Vi
terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ». Cesari, º.....
pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº, « ed efficace
l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere, ma..... » Ces. «
E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete fosse al tutto
ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare l'assoluzione..... »
Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio «
() (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò al tutto di visitarlo
personalmente ». Fi, retti.a Malvagia femmina. io so ciò che tu gli dicesti, e
convien del tutto l'io sappia...... » Boce. “..... non ha bisogno delle
11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i
l IIll). PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più
che a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o. e Lo scolare più
che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa della donna.... »
Boc ('. “..... il che voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete
fare con a Vostro sºllino e col V (Stre ll (Vello ». I30 ('.a Vergine madre,
figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso
d'eterni i collisiglio.... » I)allte.«.... d'altezza d'allirno e di sottili
avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si
richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ».
IPandolf.a... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la
virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart. PER COS.A
I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME GI,IO
IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a.... e
quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo
nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso: per tutto l'oro
del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la
calca, là pervennero dove... » Bo(('.« Alla maggior fatica del mondo gliel
trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io
gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del
mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una
fatica al mondo ». Fiel'enz. A CHIEI)ERIE \ I, IN(il \: \I. I)I SC) I PR
A: (() MIE I)I() VEI, I)ICA:....E' I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A
VIISI IN A: ec....... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo
gli capeva che il valesse ». l30 cc. « Il popolazzi,.. asso, st L. e ti
emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li
accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. «.... colle l'a II lilli,
fierall 'i! te è una favola a dire. Flereinz. « La giovane, la quale senza
misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li:iltri.
sser. In rto, lungamente pialise ». Doce. AVVERBI I) I TEMl PO Ass
v I I REQUEN I I VI po I (I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE EI) AN('l I E S
(' ) N V ENI ENTF VI l.N l'F, A l)() l'ERATI. Solº, e ben si vel. io il
amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l sentire e del pensare
rivelano assa i volle, chi li Is I l s, che di gentil e di fino. Ad intendere a
che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da non dove si l rais li
tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci che venissero sul gale,
per quanto equivalenti c (lell'lls. I, A I PI? I VI \ (.()S \ \loid
'il: 1 o, e st. In tla prima cosa che faceva, clle dI va, che li l' I, le ill e
I e I blie i. (olf. Al llla si Sel ie. I - il I l I so: volte, i vi si va via,
la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z:lolo º lº i:li. (n'egli
era a levati, la prima cosa spendº via il rile, i ora zione mentale. »
l3: l 't. (o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima giunti (.lle
lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima acconsentono º,
l):n V (in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione... o V ill I ) \ Iº
lº I M.A... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a bello. » I ):
l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei primi istanti
dell'amor sul.)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca
in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in prima andare a
Roma ». Bocc. DI PRESENTE subitamente incontamente). Matteo Villani
elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non
mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel
primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non
inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di: al presente. L'ha il Caro,
il Lasca, il Segneri e noi, altri: « Ma forse che di presente non v'è
l'Ics Iso? Segn di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a... tutte le
Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1, l. detto monastero e
la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente
erano saniati d'ogni info, Irlita., Cav.... e poi le fece il segno della Santa
Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a gridare
e... » (a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta l'ambasciatº. »
Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia la teo. a \ppena
avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so ne riscosso ».
CesI)I TIRATTO – a...il domandò se..., ed egli di tratto rispo- di si. (-. I) \
INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti.. » I3o:. a
Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR INNANZI – «....o
tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte cavaliere. » Boicº
a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA INNANZI - «...da ora
innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... » Bart. « In fede
buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il re, e cioè in nulla ».
Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30....dì: Mi seguiterai da oggi a venti di
º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI –. E da quell'ora innanzi gli pºrtò
sempre « onore e river olza. » Fioret. I) I MOLTI MESI INNANZI....... con
le collli cl) o l or Ill ort, l':n ve: i rii a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA
QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e vergog vi e « confusione la
tua mala vita che ti hai fatta da quindi addietro, se a tu ci vivessi conto
migliaia d'anni. » Cav. DI POCO Inolfo) TEMPO VV VNTI... Di poco tempo
avanti a marito a vomiltºn lº..... » IBoc ('. DA POI IN QI A CIIE.... - -
« Da poi in qua ch'io servo a stia Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi.
» POI AD UN GRAN TEMPO per buona pozza di poi -, senza che a poi ad
un gran tempo non poteva mai andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON
MIOLTO): IP()SCIA \ I) l E, TRE... ANNI. –....benchè il « perfido, che
convertito non dalla verita, lira dall'interesse, si era illdotto non ti d
essere, lila a filigersi cristiano, poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A
lui al che si deve la conversione cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli:
sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v. Poi in significato di poichè, congiunzione,
Serio 5.) « tue giorni poi lo i lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le
mie scritture e dei miei passati allora e poi le tenni occulte, e e
l'inchillse, le quali non chi e la potesse leggere, nè anche vedere ».
IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea, la liber. dal au I e - Il giorno di
poi a che Curiazio Materno lo sse il suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo
primo ufficio a mano e di poi se ne fù borsa. » Cron. M () l'(ºll.
- S'arrende Cappiali, si lv ro a dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V
Ill. l) A IPOI CI IE...: POI CIIE.. posi ea quan Ne furono assai allegri,
« da poi che l'ebbe il signor Tav rit. a E molti enºni, quasi me
razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno, la molte alle lor, a se,
senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo satolli. I3 ). r. «
Quale i fioretti dal lot il no gelo, li lati e chiusi, poi che il sol r e
l'imbianca si drizzi in tu! ti: pe: ti il loro stel.. » l)a nte. - Poi
che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di color che saillmo se dor
tra la fil sofi a larniglia o l)ante. IN QUEI, TANTO in quel frattempo i
17 w is henº « Quando -: ti o a un colore e quando sotto un'altrº
allungava sempre la cosa, e secre e tamente in quel tanto attendeva a In
tte, si in I tinto., (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I
'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più volte il
portavano. Doce..... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo riguardo ».
Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per a rabbia ».
I3art. IN (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da poi o di
poi, scrive il Bartoli, sono avverbi | - « di tempo come il poste a dei
lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve « dopo sè la
particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa lingua
condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo valere
l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice: da poi
desinare, o dopo che avrò destinato; da poi « la colonna, da poi mille
anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la
colonna, dopo mille anni..... Due testi son prodotti da un osservatore in prova
di « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza
d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però
che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha
d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e
dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il
proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta
luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire
innanzi quel « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito
di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli
sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) (N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl
collo ad una le l gi che e l'azioliali. (iiillo.E fatto questo al padre - i ti
e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re
». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore
». l3a) (.FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza
solº l'appli -, ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille
cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». (a vill.....e lo slle
- rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora
piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP()
ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il '..... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi
quanto al ra i vos- li Illi.: I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro
rvi. l?oce.Io so grado alla ſor. I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a
cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa. Bocc.. – Quell'ad ora,
se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le
sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1
llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s. (r, l il all ora che - guardali do voi
egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci, Bocc. - - Allora che e il coin:
sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? «....
cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i
di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori
(le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \
clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l
'oblio allora che......., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R.... E allora
allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di
lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ».
Fiºr liz. «.... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la
quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn.
CIII E' CHIE E'. a... fatti ch'è ch'è solº l'1 t.. ri o. I ):) v.
CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re: ni) che re dei rom inni e che a
imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e
quando a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a
cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N
AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco
e ci:n nci i un altro..... noi siamo a.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC()
(id), l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì. I3art.« I più
furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di
poco ». Vill.a....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco
cominciato « a peccare ». Segn.a... forma generica di teli fare che sul l usa
l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a
1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. -. Va, figli la mira, e clla Ina queste mie
suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande
ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». (a V.Si parla dell'unguento
col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel. ionumento.
E adunque fuori di dubbio (le la frase a grande ora è altretta le cli a
buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io,
e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I
PRIMI A (III: A (i I? AN VI \ I I IN() -... ll e il colpagno prima che a a gran
mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le
avviole». I 3:art.A I, I NOi (), V IP () (.() A NI) \ I I: I ) () l ' () I, I N
(, () V Nl) \ IRI.. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il
litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza
d'animo seco pro pose.... ». I3 cc. e.... (ºd In questo con 1 il tar lì,
ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo
andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ».
Borc. Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la
verità verra pur sopra. Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a
lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl). I)ev'egli
telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per
stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ».
Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere,
soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº. Si dostò il silo mal illnore, e
che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e lesia, rabbia ».
Giuberti. Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo
a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire
nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo
tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il
quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare
ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso
avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata
del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad
andare di corrieri, sono sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro
ad andare più di due mesi ». Mold. Vit G. C. NON MOLTO STANTE; POCO
STANTE. perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“
E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso
a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci
conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “... dissº; e poco stante -
e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò
la fallace fortuna ». Vill..... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in
torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font, che in poco
d'ora ruppe un'or ribile tempesta. Barte così i lorendosi in poco d'ora,
irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi
nell'intimo di se stesso ». Segn. SEMPRE (il E., 2 ni, olta ch....: per
tutto il tempo che...; - so. It als...: so l' Ilge:ils.. sempre che p -so
gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I
30 ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai.
Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili,, lº e - Add II e le forme
avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e
costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la
livinnelli e il tempi, e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il
quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo
spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli
aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro,
ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II, la parola Tempo.
AVVERBI I I Morbo A: UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)
A I3U ()N.A FEI)E (red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a
ai 1 l' - Il I la lorº ita. ll I)1, ». (.a V. Di buona fede, con bucna
fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f. ſei eliti dall' Ilegato,
ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr,
ritente ritrovisi in buona fede » a 'I'utti gli il milli del boilo enti
lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl. A ſ;I ()NA EQI
ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: (o ri lilllari cari l ' s
ll lo » lºt),Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto nome
di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ».
Salv. (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA –... In zzando in un
tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno
di mal talento, stizzito,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne
compilerebbero i grossi volumi. (es. Simili le frasi scrivere in borra,
borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - (osa
fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te
dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc.A FI RORE: A FURIA -
Quando il rumore contro il re si levò nella terra, il popolo a furore
corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('.
lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente (a furore di
popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò
coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI ()... prende questo servo
e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine:
rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I
'SO I. \ NCI VI'().... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a
corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ((A (()
I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre,
IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del
a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il
fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo
VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A
RIBOCCO.... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a
ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº (l' ) ((º
A (IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a
gran pena vi capeva » Cav.A ((i RAN) E ATIC V.... (con le luci tanto confitte
dentro di quelli e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i
cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii
l'olio in co: Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo
scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a
gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella
povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli... »
Segm. duo minuta). ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate
del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul
letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi
io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir.
As. \ MAI O STENTO a mala pena) -.... e a malo stento si tonno ch'ella
nol a fe (o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a... tanto che a grande agio vi potea
metter la mano « e il braccio ». Bocc. A TORTO – « Messer, fa
IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto a lo figliuolo ».
I30cc. .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl
Isse a coin a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III. « E
certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei «
contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.–
Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico:
per niun verso, per niente, v. Serie seguente). A CREDENZA (senza
proposito, non serialmente e daddovero) –. E' a debbono essere da sei o
sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a
credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion (1 edo
far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera
la morte ai mormoratori ». Segn. A BALl).ANZA -- a...e questi a baldanza
del Signore si il batteo villana III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo
latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo: I) Inini
patrocini fretllesi. A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta
ecc.; impunemente) a....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva
). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea
di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ».
RO(('.« E perchè tante diligenze? non potea egli averlo a man salva ovun a que
volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino). A MIA POSTA; A
TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento vato sotto A,
Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino
posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come
tu forse vorresti». BOCC.«.... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che
tu tenevi a tua posta ).a... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato
In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a
sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua
posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse
pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà
d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse
Malerno, altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi
levare a mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le
sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.«... ma
lascia dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia;
Gracchi a sua posta, tu non le dar bere ». Malm. (r (l\
A \ \ A .A V - Oltre agli altri significati
della V o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e
però la frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e
di sapere se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce.
MIIC), A SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a
rili la bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della
stella, V it. SS. PP. "... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li
l'Israel a guida della colonna ». Vit. SS IPI. SECOND A - Venendº giù a
seconda di l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! !
util, a (-1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il
Ill I e il Il l a dito... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche
amico ». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i,
opei a re, lavorare a tentone; il nºda, procedere a rilento. SI PI? () lº() SI
'I'() - Fra - della era te a sproposito, gramma t (a 1 rbitraria..., Mla lizl3
Al RI)()SS(): \ BISI) ()SS() I.el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il
lent: fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“... titlito è Irleglio, il
dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta las Iva da Irie reti I
ce.. l): V...... tilt. I3rotier.... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli
una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in
l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a
viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V.Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il
secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a
bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap
punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....«... A randa a randa, cioè
risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si
poteva andar più là un minino che, a IBl1t. « Quivi fermammo i piedi a
randa a randa ». l)ante. «...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. «...e
poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior.
IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle
orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI,l ME (che ll ) m l'i(ove
il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a
contrallume. SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo,
lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a
sesta, com passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè
parlare cal colato, misurato, compassato. «...e menandogli un gran colpo
che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio »
Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. «
Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad.
Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n «
molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente,
– «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo. Bern. Orl. «...campi divisati
Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol,
chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'.
«... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto
un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per
l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare,
lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per
volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino;
parlare a miccino.«... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella
moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.«... Senza chè qui fra noi I)el buon
si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a
spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A
GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M
AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa
Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi,
da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. «...mangiare
un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è
ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu
per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s. che di lì (r))
amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi
adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a
macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona
misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e
pena a coloro che fanno la su « perbia». Passav. – Retribuet abundanter
facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A
guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a...
schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al
fanciullo quando lo fa bramaro la « poppa ». Fioretti. « F: l'(a
modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti. entrò in una siepe molto folta,
la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un covacciolo o
d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a
dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per
avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la
pareggi a gran pezza ». l 3 a... che Villce a pezza le forze il ii il II alla
natura ». Ces. «... che a pezza li in poterono i no, l'1:li a liostrº ». Giuli....al
qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET
- A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa
altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire col significato di: a lungo
andare, indi a gran tempo e.:: il l: l V a Illel lil - go della Nov..º in cui
il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo, l'e putato uccisº dal 1. l re:
ti sºlo i clie: l i vº: lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la
lr e 11, se i vi ebber iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l
-se che lor e lì i rio « chi fosse stato l'll (iso.Pezza per tratto di teli e
ti In e te l: il sito dai classici:...a e le quali, quando a lei i i nip.. -
rido e la buona pezza di mot a te...., l 3,. \ V, l: do ss 1 di buona
pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l.... ed i: questo con I
lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si ll il V.. desse º lº). Erano a
buona pezza pia. Il l... » lº. A I) II, l'NG ()...lila po. I sa – 1, piti il V
".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa
cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff. Io non fu mai. lle solo di
gloria Vago, lº vivi, a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli (i
rte a catafascio. \ I,I, I S.ANZA ()ltre i cliest.: se si lal::lo ba
nelletti regali... ll !) e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di co- e
dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. «.... se la faceva la maggi. parte le 'a
nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie oil...
» Bart. ALI, I SAT(); AI, SOI, IT().... lle resta V a dl di rilli
all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.«... e ne rinfocola V a l'iberio,
per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il
rov in se. l)av.“..... non ga e al solito, Irla cori tlc it to... e co; i visi,
benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V (ralli elite cagles lli.... l):ì
V. AI, CONTINU () Sonando al continuo, per la città tutte le campane... »
V ill. AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che Marta
s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono appa a
recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par « lare
Imi conforta ». (.a V. AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni ne
farebbero, gran rumore ». Iºart. AI.I.A SCOPERTA –..... potè poi mettersi
con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il
Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato
colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – «....nnellare d'attorno bastonate alla
disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – «.... appunto culme la nave... sulla quale
tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla spiegata
quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA –. Tagliare a
pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o spicciolati vale:
andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O(o dopo si Inossero gli altri
bravi e discesero « spicciolati, per non parere una compagnia. » Manz.ALLA
SPARTITA –. Le varie scienze brancate non hanno più alcun « Vincolo coinline
che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce « fali, vivono alla
spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA – Andare alla stagliata
per la via più corta i: «.... E vanno giorno e inotte alla stagliata. Non
creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – « Ben è vero che
quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi alla distesa per
tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. « Che lavorio non
si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per servizio dello
spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – « Ruzzando..... troppo alla
sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata e senza ordine niuno,
cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata; all'improvviso; alla
spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo quel vostro scrivere
a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a fanfara – “..... non
usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla
rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a chius'occhi –. Negligolza
dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc. ALL'
AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio... dispensavanº loro a oltrate
all'avvenante ». DaV. a.... e fece fare... le monete dell'argento all'avvenante
». G. V. ALLA MEN TRISTA (a farla bucina) –. Passato il quarto di,
Lorenzo, se a condo il consertato, non ritornò; talcli è già altri il farºvano
molti, « altri, alla men trista, prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè,
certamente credendo che il re, alla men « trista, il disgrazierebbe ».
I3art. ALLA CIIINA – «... i piaceri sono monti di ghiaccio, dove i
giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V. ALI,A BRUNA – « Uscire di casa,
ritornare, il sene alla bruna, i di notte « tempo ).PA RTE TERZA Verbi e
alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo
ne deriva e vigoria (APITOLO I. Verloi di particolare osserva, Aio1
ne non quanto all'ordine dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º
Cap. 2º, ma quanto alla varia maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un
senso e ora un'altro, e quando una frase più che altra concellosa eſlicare e
chiara, e quando Ina forma di dire piacevolis ima. In assello di espressioni
elegantissime, nulla comuni ad altre lingue e al tutto con forini all'indole,
all'original candore dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il
carattere di una lingua è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi
previleggiati, onde quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo
distingue da ogni altro, reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la
natura della nazione che lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i
sel. I pul, lo li arr, lo li hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al
bringen, Schlagen, selsºn, lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er. l i l
des hi: al lati e doti lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc.
d. I rili esi.Niuno per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese,
il tedesco, il francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali
verbi. Ma e dovrà poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par
liano, lo scriviamo, quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli
scrittori nostri del trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono
al tutto ignoti, o non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è
peggio, non pigliano al rina ſatiri di apprenderli?Mentre nel Prontuario
trovarsi in diversi luoghi. “ioè quando sºlº una parola e quando sotto
un'altra, l'uso e il significato altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in
questo Capitolo sono invece raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e,
iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo
poi il liv sarne in qualche non lo la I al ria, i, li i di li 'il ſole e
portata loro, due orditi (listi, ci:V ci li pi li, si incli di più ampia sv al
l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei
'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis(ºr sor. - S 1 º
Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata
vitalità, e sono: andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare,
portare. it jutlatre, sentire, stare, tornare, venire. Arm ci are
Noli II l via di etill irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si
ti sul come e ind, che a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte
a lin, ia, gialli rina approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling
r. a p. l si la fatica con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr
Iriesi e gli anni in istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di
quanto scrisserº grammatici e il logi rh, e li arreco subito alcuni sempi colti
li i migliori libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere
l'uso vario e vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur
leggendoli nel tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti
le rip. ste ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo,
d aitrella!. ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile,
dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti. Boce.
(410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le
poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi
delle città: rovinavansi esse cillà..... Dav. ll.(neste cose belle dicerano in
pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi
pigliare con assalti e di molte col medesim, a dire e più licenza di rubare:
aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria
rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“. Somiglianº si può dire
anche il genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri
di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri
se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav. “....
lullo il dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi,
cerbi crc. ). (es. “... e per non andare in troppe parole... Se in.
Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2... ºbbºlo per rili poi ci
li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno. I al I. I
tempi vanno u mi irli, N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne
andava a rumore I3. I 413,... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle
l'ira e il giorno... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba. (0 utndo questa
cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa..ln questi mutnici e si
li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0. I.Ma º non crei propri iani
e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain, i monaci qualche li ha o
di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a ruba T, il lil. º
mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non irresi ſtiamº mai
andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo si e va il capo
cantis sino.... \:. A chi con in el l e così i ti e mi isl 1 il ris
va la vita pºi giustizia i a... e giudicò che e' lusse al pi p si
andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer. Fi,
l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro pit (e
re... Ci s a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo...... (: l',
n. a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li Sacchi.
() ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada l'onor vostre,
orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso: ne vada pur, (lile. ne
ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro. Segli a Sim il cosa
diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital e andrebbe a male se la V
era si spirl issa'..... I ... ma in vano andaremo i pri, gli i?. «
Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi sci. che vada il colpo a
vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del
mondo andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' alto allora a sdruc.
ciolare ». Mar lili. V es. º I) il nulla º quando Ma io ride che li detti
lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli intendea... Sal Isl.
Ortando la cosa fosse andata per lo contrario....... Fier. (416). “ (r se
li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con
chi intoli..... I 3el ll. i na circºla dirà: quell'uomo mi gol in una
fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son molte le cose che la bano al
gusto e che non vanno (tl e il roll le re. l'orn Ill. () irando tlcuno o
non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole
dire: ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e
il re parole così lalle o. Varchi. ... l'ira e li cruccio, il 'nendo,
andava disposto di lui li rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che
la nl o di rivenisse di loro, che anzi non ne andarono pur leggermente
offesi... I3arl. « Quanto all i più sa della lingua ben app s. nelle sue
radici, lanto più va ritenuto in condannare ». Bart.... e da principio va
ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi alle pristino compagni. Si
gri i 19«.... se prorar lo potesse, andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce
d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia molta ir pieno, IE A1 at li fre'don
ne va poco contento IPull. Mi l'.« Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri
Tutti possanza, e a cui l' (cheo s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto
sdegnoso ». Monli. «... nè però fu tale La pena, ch'al delitto andasse eguale
». Ariosto, « Si potrebbe indovinare che noi andassimo facendo e forse farlo
essi all res) n. 130cc.« Concediamo che spendiale in Noren li con rili, in
allegrie e, quel che anco conceduto non andrebbe in men che onesti amori o
Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va fatto. Mtilln).a Le ragioni
contrarie, a roler che sieno bene e pienamente rifiutate. vanno con chiarezza e
con fedeltà esposte. Salv.e dunque non va segnato mai in principio d'alcuna
parola quesi 3 segno. Salv. a... acciocchè resti si potesse e forni di
cavalcatura cd andare orrevole. I 3 o. (20. ... o Nseri utili al loro i
I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ». Bari « Von area
cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire alla buona,
cienciosanielle. Fior. Ces.«... perocchè il rigore toglie la con lidenza: e
dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è quello di
che il demonio si varrà m. Bart. Con lor più lunga via con rien ch'io
vada. Petr. (421. «... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare
abbiamo, a carallo. Bocr'.a... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino.
Continuare, proseguire. Fier.«... e dove..... da niuna parte il loro cammino a
sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando
seco, pura º cheta se ne vanno la lor via. I 3: Illo.... Lu (lor lco se
n'andò al suo viaggio... l' 1 r.... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel
fatto tuo v. Fior. 122,.... ed ella colal salratichella, facendo rista di non
avvedersene, andava pur oltre in contegno ». Bocc. «... un vento
sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia
al giorno. Bart. a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni
che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23. - -« Tulli i cristiani di
quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non
frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti...
Ilari.a... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai
c'hiosarlo... T)il rile.«... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa
parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della
notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re. I30cc.«
Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells
[ach. « () uei area poco andare ad esser morto. Pelr. Si notino Jin (il
men le le ini (iniere: son..... anni e va per......: « Io la persi, son
quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n.
13occ. a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che
sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole?
». Ariosto. Vada questo per quello: «... e non credo errare ad
aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per
quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con...: 42.1..- - - - - ma i fatti
non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del
pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito. I3art. - Basti
Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si
conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... «....
perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di
quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto. Bart. I t 425.
Note al verbo Andare 41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N
lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno
bene, 4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire:
distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro
che.... i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio
pressa poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è
chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere
un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le
seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e
vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in
altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o
che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi
di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato
può riferirsi ad a una o poche (se tra moltissime ». Mi par di poter asserire
con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a
questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) –
L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di....;
essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc.
Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che
l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar
bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire,
battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire
altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il
Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei
modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e
l'altro: capacitare, appagare, sodisfare. 418 – Andare, coniugato con
certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore
del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e
continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato
di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e
tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere,
voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito;
quell'atto caritatevole va pre miato e Cc 419 – Nota la questa
frase andar ritenuto, guarda i si da.., proceder con riserbo ecc.120 – Anche
l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce agg. partic. o
avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di
contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente
costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto
andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante
miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo
viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a
Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre
al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or
an. Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere,
il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota
costruzione andare a..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa
forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un
altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di
passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: «
quando e dove potrem noi essere insieme?» Doce.424 – Questa maniera è simile
all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è
forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le
belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di..... a
perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare Il
suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare
- latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in
all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed
efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue,
inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'(il mul) el'.
Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch. mi
parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi
e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne
l'el talmente Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè
adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec.
Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato
i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di
un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e
dell'uso. Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le
pietre ra st it ltte- o lºo...37. "...... Sono posti i primi, quando
lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra
capo e collo, tra tronco e rami ». Segn. “...... e ancora raddoppia V. Il
dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.
a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi
nel petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in
corpo, (:) V.“..... e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia
forte.... ». Boce. « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume
l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i
crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani. “..... (con
questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e
l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l
figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro
ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di
quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri
ed orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc.
(438). a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io
come ei merita ». I):) V. « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del
mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn. e Poichè si
diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge
». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli
agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al
I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ».
Bart.«.... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come
e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore
del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che
a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo
che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le
lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza:
vi pal' però che vi torlli (olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10,
assentianro) t439.« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi
o li e la pure si convertirebbe. Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il
cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441.E vi dà il cuore di
lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non
mi dà di piacere a Dio ». I3ari. S IVARE IN NEI.: a Essere venuti
quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci
e prema.... I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra. colito, dava
in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva.a Ma su, fingiamo che abbiate
tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr
ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle
secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle
trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“..... i quali,
quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida
disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi
scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a
trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che...... ».
Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri
C..... ». Barf. (442). T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER.....: a... e, dato
dei remi in acqua, si rili se', al ritornare ». BO. a... comandò che de' remi
dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale
talmente) di questo ciotto nelle calcagna, che cgli si ricorderebbe forse
un mese di questa beffa, e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto
nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“..... e inginocchiavansegli
dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli
delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al
cervello ». Cav. «... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e
daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia,
cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V. “..... poscia a se ne
disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V. « Cielò ll
llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta
per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari. «.... Si chè,
(Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il
cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. «... vi
possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua dro, ». Segn.
A 13. |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot
ciertt. - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte
le l"il bill leriº ». Bari. «.... le altre filsto dessero per mezzo
delle nellll ll, il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (Selletta
». l 3ii l'1.“..... Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza
ragione ». I):av. • I) AIR V ()I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto,
che.... » lº i c dimen trsi. a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro
a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI
IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa
li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e
e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces. l.Alt E I E SPALLE collar
le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale
io sperº. armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando
le spalle a questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare »
Roce. I) \ IRE STIR A MAZZATE: e.... i quali cavalli in quel terren il
sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci.,
Dav. DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco -
reranlassen, « Vero e che queste osservazioni.... daranno presa al lettore
svagato e malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà
troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C.:
«.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i
eri. » Balt. DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà
molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. »
Caro. I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero
Fiorentino, in casa cui lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri
appresso per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli
raccontarono. » Boce. DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde
vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la
Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,
I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A (III (CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi
t...): e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce.. si
diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc. I ).AIRE
NEL MIC), NEI TU () In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t:a
Voi date proprio nel mio: l entrare in discussione intorno a questo [. lll tr.
» (es. - I 3:ì l'1. l3. I ) \RI (III: IRII) I 13 E (da e male riut dal
ridere: e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui
non di lessero le lnascelle. » Boi ('. I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE
ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc.
a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'. I ) \ IX I ) I CC) LIP(). I )
I CC)ZZ() (in... ('('('.: - - Si scagliano di anci, il verso lui e Vanillo a
dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “..... e V:
Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart. I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A: º
Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a
S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l
IRIETICC) ecc. l) Al l I)I IR E, l)| (()NT E e il lilolo) di “Se mi
avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore
sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio
di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per
le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre
parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in
astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi
di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da
V. I ) AIRE AI)l)| | | | | () (ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u
b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ».
Bart. I) AIA NE' IRI LI, l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e,
saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar
ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon.
l'ier DARE VDOSSO VI I NO, VI) (N V Cosv (investirlo con parole e con
jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ): con le fa un ser it, che,
vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie
abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì (Sllo bolt Ill (n.
l)il V. I ) \ IR E AI ) (SSC) \ I ) (N I \ V () IR ) significa: alle mele
ri con assiduità). I ) \ I RI SI |.I.A V () (l V | ) \ I,(il N (): Diasi
pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io
conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e,
sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato
sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio
caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l le ricorda a Lucia (lulei
ripiglio sgarbato della signora i 15) I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A (IRI,I
) Il RI: «....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che
andar voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una
donna che l'agnolo Gabriello è di lei Innamorato ». Bocc. Conf Far vista,
far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare
di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno
ecc.) – l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO: «... die di mano al coltello
e sì l'uccise ». Pass. “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita
ampolla, col marchio.... ce l'andammo.... ». Alleg. « Lo duca mio
allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le
gambe e il ciglio ». Dante. «... i più severi centurioni dànno di piglio
all'armi, montano a cavallo... » IDaV. « Draghignozzo anch'ei volle
dar di piglio ». I)ante. DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: «....
braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava, nelle
mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. «... e incominciò ad entrare
nel passo della morte e dare i tratti ». Cav. 446). Note al verbo Dare
437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat lere,
percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p.
es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie:
schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc. 438 – Dànno su per
una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di
moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di
urto. 439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu
geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per:
concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben
dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III).
442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver
tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei
rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato
qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia
beris...). 444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche
nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi... (il) el'ardini. – Simile al detto:
l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza che lontano
Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa
voce addosso: andare addosso a mimici - I bav: l are un processo addosso ad
alcuno (Bart. - DaV.) ecc. 445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare,
censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi,
ml Ila/CCe GCC. 446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che
significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare:... e la Madre e tutte
le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (sava
di questa vita o º av Fare Lascio le dissertazioni intorno a questo
verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri
Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali
tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma
colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu
diosamente analizzali e sviscerali. A maggior chiarezza di idee e ad
agevolarne alche meglio lo studio. distinguerello sei ordini liere di
lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº -
aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che
faceva, che vede a fare ecc.IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare
anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia
significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare,
ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di
piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af
facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e
quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile
dal medesimo. (449). --- -- I. «..... onde ella amava piu te e
l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo
co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia
il fut.co alle cose urtte. » l3o.- - - - - che io ho trovato dolllla (la III
lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. »
130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si
risolves se.... ». Bocc. «.... le dice che se ne guardi; eila noi fa e
avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i
cittad. ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando
piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11, in (ieri e
sl gli li dis se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando. – Il
lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a
te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti
manda, o Bocc. « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea
pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri
fa delle cose Sozze e della Dl'll tll ra. » (es. a.... e percio' che
amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº andare, con molto
maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della
precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia (i a Inor del Soldano
acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13.'I'll
ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle
fac ci tu. ) Bocc. a.... li quali per avventura voi non conoscete come fa
egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1, coiile tll escº l' -
le Vi, e non fa l' far beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo
io., B º a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent
la che qui e non faresti. » Bocc. a... e nol credevano ancor
fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza (indi i lì0m molto), se ll: l
caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse stato l' ll
cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf (ll II, il III trite ch'ella di V --
andare il lil 1 l 'a sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m (il
V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che
a fatto non avea il: altra parte. » Bocc. Ed ecco venire in camicia il
Fontarrigo, i quale per torre i panni come a fatto avea i dalmari,
veniva..... l3o a... non v'è oggina, chi ad un amicº, terreno non creda pil di
quello, che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto
di lui, che si facessero degli al a tri. » Balºt. Ces. « Ma
veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi
medesimi già confessato l'avete. l 3o. a Niuna cosa è al mondo che a lui
dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a.... ilſſuale non altrimenti gli lol
corpi cali di li nascondeva che fareb be una vermiglia rosa un softil
vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava.,
Fier. 1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto
face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll..... »
(.es. a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata
peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv. a Amatemi coln, io fo Vol.
(io/ zi. ) ! e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ».
lSocc. S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo
d'uomini, sarei blloli gioielliere. I,il Vlati II. Ed era si gri il de il
percuotere che facevano il Sielli e le lololar,, che slavi, la V il 110 Il loro
o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi
Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i
cori e se li 1, l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso
facesse le,i di 1 min. 13,.()n l'e (olls gli::. in l. ii dare che fanno per
mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che
fanno le linesse de gli il ll ' (ssell (lo 'll - I ll. (..:Per esaminar che
facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll
ratezza º le farebbe ! l... I l di pill roso e maie a milm:a “ to........
!! (sali 1,3; - Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva
il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a
disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt, il
battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl
a V a Ill quella dei santo.... Dari. a... al Illale il saporito bere che a
Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli
viddero fare il lla volta (ll... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir
me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia.. ll::lzi... »
13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo
fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso,
se non clie...... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli
eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp:
vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri
Il l: i ver, l.. I 3: l...... ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l
re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a
ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano
il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il
vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali.. io -il ebbe il
lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te
». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in
veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la
posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! !
- i lig lio la l et le ia V gg li: la torbida fà per chi gli vilol piglia ',
III: ng ſare. l)avanz. Noli può fare li Ill re: I l e - - al 1ori la lol (III
il tal11:1. Sºg Il ..-e egli dice, N 1 il por io può fare ch'ei rion si p
it, e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl!. » Da
V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling
o quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155 l Ia' tll a Irli
in olii o li or fan sedici anni, i l... (l Slla V a 56 IV. a Suo cimitero
di Illelia part la lino (1 Epi:ll'o ti 111 i su: i seglia - e ci, (le
l'anima col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io, giII
il 1 a 1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I)
avanz « L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal..., I): v.a La tua
loquela ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla
quale lo sa lui troppo mio' si o I): inte. i s'ipno, ti appalesa – verráth
dich.a I), Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo
faceva da Fausto Manicheo si primo mi:i stro: S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori
e leggerezze, l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà
». Fier. a Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V., o di siti - 'e gli dai
taccia) Colli i clie ha il ll ll gli fa l'i....... 11: li l 3, i ll l 1:1, Illeſ
le co; to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i
libri li. (s. i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1, ' - ri - i
l. 1,,, l a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll '
Ina - - a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che
ritrovarono a questa maledizione dello scrivere. » Caro ottenere, fare a
meno) « Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì
almaramente. » Fieren. rate che al nostro ritorno la cena sia in essere.
» Caro fate in modo, procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne
ineniamo una colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne
dici qual più ti piace. » Bocc. l'areva che non ti l'i sole, il la a
Sinigaglia avesse fatto la state. » lºo:. passaio, trascorso (ono fatto fù ii
(li chiaro verso la si dl lizzò., Bocc. | - Il sul far della lotte e presso
della torricella nascoso. » Bocc. 157) l'altra urla de l'en li colli
l?olna li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. »
I)avanz. Colne ogni altro frutto tra piantasi il noce: fa per tutto viene
adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o
Da V. 458) V.. Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel
viso un gran punzone. » Boc i 150. « Onde non è mai raviglia, che la
llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della
compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e
se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi (1 lt; lr
sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V. « Ma ancora aspettano di dirle
altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si
leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e
disse. » (a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso
farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi
si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra,
proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della
scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è
andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola,
fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi
». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli
capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava
dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi
alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese
entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart. « Così senz'altro dire,
la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva
fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo
sparviere. » Fi(l'enz. « E facendomi dal primo dico.... ». Ces.
460). a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1
rte I. Ca po III.) a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il
non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che
se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in
Vrebbe lorº limitato il cinguettare. Bocc.« facendosi a credere che quello a
lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti,
gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne
si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo
a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio |
risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi
pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare
vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto..... !!, (l'ulse:
i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc. VI. FARE COL
SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua
vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente
lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea,
coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui
misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. »
Cavalca. F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli
Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran
senno. Bocc. Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che
i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo
maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda
consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere,
e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai: e
Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona
lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces.
« Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti
rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti
convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si
lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra,
Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i
forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l
tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate
ragione che il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro,
illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E
pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino,
come si mo. -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa
quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l
sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai
ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se:
vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo
serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona,
o (v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante. \ V EI ) l I ()
- – I VIR SEM1 I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl.....,
ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e
in colite- io. Boa l l' allora fe vista di: andare a dire all'allergo che egli
non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e
splendida In nte li riti, va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila
al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto
costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li
in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler
visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o,
ivi in inet, orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. » l):n V:ll 17. a
E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu. te
t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel a l:n. » i 3 t. E
quando i s rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ).. Fatto
adunque sembiante d', li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di.. I8o.«
Quindi vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a
facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -....
e cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol'. » Pocº. 'diedero a vedere, a
conoscere) 467, FARE AI L'AI TALENA, ALI..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE,
AI.I E (I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi
faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla
pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli.
« IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si
gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva
mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.«
Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a
In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº
non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a
sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a
giudizi, e alle cause, alle vere battaglie. Dav.« E' facevano al tocco, per li
avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469) FARE A CIII PIU'....:
FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri
magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e
Vitelio, con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ».
I)a V.a che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a
te a chi più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito
gran guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e
dopo al parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre
complimentavan la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il
pricipe che..... Manz. ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI(U IRTA' con..... a
perdonatemi s'io fo così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà
colle riputazioni e per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... »
(iilib. FARE ALLE PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo
peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con
Agrip a pina. » Dav. « Egli tanto più il 1 furiava, e facea con tutti
alle peggiori, fin lì è il re il a Inandò cacciare come il Il ril):I l I
liori li pii l:ì gi. » I3:urt.FARE A MICCINO: consumare, od altro, con gran
risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a poco a poco. 170) FARE A
SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti,
io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua
Maesta. » Fier. FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON
COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen
ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e dell'astuto prese carico sopra di e
- d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il che udendo la testuggine e volendo far
del superbo anzi del pazzo, « senza rico: darsi dei e aminionizioni datele,
plena di vanagloria disse.. » Fier. Volelrd, far dell'uomo essendo lo stie,
Illalrdano llla e e rovinano « non stilainelli e.. » Fiel'.« Ho fatto tanto del
buon compagno che me – il lio acquistati tutti. » Caro. FARl, \, FARSEI,
A CON contentarsi.... stai con lento a....). e Domandò come Silv: la facesse,
quello che fosse della moglie e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino
all'usanza dell'Indie con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi, d'erbe
condite sol di ior mede « Sime. » I3art. FAIRE I,i,() V.. l) il liut ) Ni
lºrº in l. FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. »
l80 parlare lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle
parole, rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta,
l'ufficio.... e º no pur cose (la polmderarsi.. » Fier. FAI? FORZA AI ) A
I CI NO) – FAIR FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una
forza da al ll ma l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte:
Aiuto, aiuto, che conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc., il « La reina
faceva ai giudici forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che
incorrendo in contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la
cagion gliene comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.).
'FAR FALLO A abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero
fallo. » Bocc.F A R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be
mer ken – bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui,
trionfali dolo ill lor stessi, a e faccian conto che i pericoli passati
son minori di quelli che sopravver « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e
sian prevenuti che....., e ponderino bene che....) a Dunque dovrò
starmene tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun « ga fatica...?
Fa tuo conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa
tuo conto, diceva il padre, le sono appunto candele. » Gozzi. FAR
BISOGNO A. Q. C. a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e
apparecchiato. » Hocc. FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc.
I)av. I3art., I ARE CEFF ().472. a farebbe ceffo a questa fiorentilliera
che cosi le propri la nostre appe. con barbarisino goffo e sllo e cellsll
rel'ebbe così. I a V. l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove
farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite perche quella nave
qui una volta fè acqua. » l3al rt. 473; I AI? CARNIE: I n di
ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne veduto
quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e gia
giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i trat.....
» Fierenz. | FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “
lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca
che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere) Crusca (474)FAR
GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP().-
FAI? E TANT ()Farci il capo vale averci pensato tanto o pen-acchiato o
provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco le cose chiare
e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o
da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo,
dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda
ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“......
che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI
LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di
avanzare presto nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù
e colla fedeltà si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi
donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è
chi llell'ultimo altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi
ridendo, chi co mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A
FARE CO)N..... I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che
ho io a fare di tuo farsetto? » l8oce, Note al verbo Fare
449, – Non curo di molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi
notissimi e frequentissimi an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato
di ordinare di fare, e di cagionare di fare fare apparecchiare
checchessia anferlingen lassen – fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten
mitchen mich erròthen – Lessing. fo0 Anche il to do degli Inglesi
ha tra gli altri molli, un uso pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him
ho looked belle lham he does nou'. fol - Quel come lai lu sta per come
dispiace a te. Nola inversione illicola di costrullo e dell'ordine
l'azione. 4,2, (iozzi chiude parecchie volte le sire lettere così.
3 - Nola anche il secondo: che ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli
stà per un verbo del primo inciso sottinteso adoperando..., che
adopererebbe..... º, o per l'anzi detto esa m in tre: colla quale esaminerebbe
ecc. 4, Per dimolare lo slalo di essere del tempo, dell'aria, del mare
sillili, o loperano i buoni scrillori assai sovente il verbo ſul re': come
latino i francesi il loro laire. – Guarda come, i, - Mlodo a lille
l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci è pol el sºl le limitinº l'e -
esser star bene senza.... ». fºſi - I granimalici li apprestano indi la
regola: « Fare stà per lº minare, compire, rattandosi di Iempo, e ad
esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più semplice la formula che anche il
Tuesto caso il verbo far fa pel verbo essere,157) – Nota di questo gruppo le
maniere: lorº la state, l'autunno ecc. il farsi del dì, della notte ecc.
458) – Analoghi a questo fare sono i mºdi lar buona proºº, fa, gran prova,
provare. Conſ. Pianta. Pront. 459, – Metti a serbo i modi: idr si
incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi alla porta, alla fenestra: larsi
a credere e simili. 460) – Simile: « E iatlosi dalla in attina venne lo
raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche: farsi dappiº, per cominciare dal
primo prin cipio. it:I – Pon mente al senso del pronominale farsi degli
esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole intendere come il modo farsi a credere
non sia come melle qualche vocabolario, un credere a dirittura ma un accostarsi,
recarsi, darsi, inclinare a credere. Simile anche l'altro: larsi a fare
checchessia – cioè mettersi prendere a... 4(2 – E' ingegnarsi, studiarsi,
faticare ecc., adoperando il senno, l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua. Non gli
dar noia.... chè egli la colla cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente
adoperar del suo. 463) – Vale operare saviamente, metter giudizio
emendarsi. E' modo elittico, simile al precedente ma di significato assai più
ristretto e talora diverso. s 464) – Traſduci: mi penso, mi arriso. Si
adopera questo: far ragione che..., di..., a più altri usi e significa quando
supporre, repu tare, e quando stimar bene, opportuno ecc.; mentre far ra gione
con alcuno vale intendersela, fare i conti e simili. 465) – Far conto che,
dicono i...ombardi. Simile anche il seguente del Segneri. 466) – Far
vista, far le viste di ecc. è altrettale che fingere, dare a vedere (v. Dare);
sich stellem als ob....., Miene machem, sich den Anschein, das Aussehen ſi bem.
Pilò però significare anche semplicemente sembrare, parere: « non facendo
l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar
lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal
Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo): senso di lar rista, sich
slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. » Sacc. « I)avano rista di
non tener più conto di lui « che si facessero degli ºltri. » Ces. 468) –
Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale spendere senza riguardo.Si fa
alla palla di checchessia quando avendone a josa, non si bada a risparmio.
Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non guari dissimile e vale
traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare a sicurlà de fatti suoi
ecc. 467) – Questo modo far veduto pare che abbia un doppio senso, e si
usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja di vedere, quanto
dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di uccldorli » BOCC.Così pure
dicesi: « far vedulo di commettere, di perpetrare ecc. In questo senso usasi
anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un beverag 21, e lattogli
reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt:
otp lºp o puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp olioIA os IOI o II.) BAIA
ost.I I » – (3 li - ll T. -uui uu.o Idl I « mhop Imi lood ºzuos e.lolu
uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip (IIIII O]UIelo.) (UIII º
II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il o, o od o lou il timbrº
p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli manlaodm oil al pm b uod
mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln() eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli
uol.opu or) p. I: ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti lot ou. Il sopo I oddiº o
IliioosLI o IIo N. tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis
(olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II un illup llp, mo:) Iols
)llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I Isti.Il '.I]od (OloA [oſ
[0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o: OICI e ouuu è Iopulso.Id
el ouo ez.Io] el º.it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e
“o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo
o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb eplau ooo ufos « lama
luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA (o.llitt.top non lº pztof l
l lo Io: l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o.
pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA (mr lo? oso).to.) o un
ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo
o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po
“pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od p
osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o
olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A
oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily outloollll D o 1 pp out.),
lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – (), luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred
as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5 l Is o “eso.) eull UI!
Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6), (o topo.to
llbollmſ ollo ossols ol ooogl. lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq
ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili iFrenciere
(Pigliare) sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua
italiana – quello che si è mola, sin 'I I. (Il les (il n ad (SS (l' \ i re cosi
di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1,ºrticolarità di della I i licli, e
lassici, q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza, ali
di si ! "i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l'
hissimi, che ne usano i d, e, l in A, is simo e i I i di classici del medesimi
sono da Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo
intende, a cargoli d'ese p. Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso: bo
i l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i........
consolazione: prendere p, i ti; i mal. ): i i 'ti li' li ti, prendler guardia.
Sospello; lo: l ' s. losi, i di qualcuno
e.: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass. p pºi lº i dire: il fare
clic li ssi, i pi nel I e il I i gio EpptI re li. Il sol li: V g: li e lode. I
re. E ci l si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i
pir. - di il Italo. “.... pil per istrazia, lo li, pr diletto
pigliare i: l si e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione...... il
II l r chi alla toll:I n. I),li (1. (... a Ella d'altra parte o il I e -
e clerlo; o secondo l' ill Iorli; i vi, i i miglior tempo del lo II e il
- mondi è mrendendo il li tl (. Il li l, l si o di non avvedersi di qll
st. a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l Inattilla va
tlitto solo, prendendo di porto i. (illata Hilaldo e I liv. ri.I l ril, 1, E
molta ammiarzio i seco prendea, a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ -
jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ',,,
- -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde
(gli diceva: Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e
cos l III li il l: l li, i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril,
li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie a - I prenderà g
-dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al
bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:
r ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl. Bocc. «... e
nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel.. ll or
loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo:
prenderete le! Seilt il'.... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il
vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si
prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla
disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo
osaliment. col) folt:ì e sostit ss i v. « Menagli questo cammielo e
digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme
quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl
avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l
util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei
Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende
anc..... » (. I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc.
« A \ onla I sta i presi -. 3 i ari. o Il re, o la - sciarlo a B) c. 5?
I V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il
l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «....subitamente il prese una
vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II, il l l Il l3,Gran duolo mi
prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella
ne togliesse a fare un altro: rispose « che nò; che non le era preso si ben di
lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva
- la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto
innamorare di sè). Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di
me... » l)a V, 'comince rete,23).Il quale facendo rumore, che molte strade
d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza
dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a
condurre quella, per altro troppo mai - e gevole impresa ». I3art.
e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. -.... stabilito
com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto « liri
che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere
dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn. « Anzi cred'io, che il
rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro,
lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm. E così in piedi, prima
di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice
ia.... o Seg. Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi
nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.
PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º
ENI) I.I è IP()IAT ().In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la
lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli, prese
mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso
terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº
a li l e, si ill via l'olio al il 1 l l'olta rsi St...., l il l'1.
1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo,
slan zare, I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa
casa nella via... non vi li gitali di litorato le... » Bocc. a colsero in
gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di lui per tutto il
paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i
passi dell'uscita succise Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un
tratto presero i passi ». Fiorenz. 1 l? l.N1) EIRE l'N SAI,T (). « e
posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte
Docc. I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo,
grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...
l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet. « Ma io mi accapiglio
teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca
dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al
peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A
GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in
al a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l'uni “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o
Babbo ». Dante. I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un
ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto
prendeano un poco di sonno ). Cavalca. I 'RESA – Pretesto, molico,
Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità,
ap picco, buon gitto o l)Al? PRESA A...... r. l)ai e. a Sesto Pompejo con
questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame,
vergogna di casa sua....». I)aV. FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V
la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a
V. Note al verbo Prendere 520 – E' il to take degli inglesi
nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a
turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up,
ecc. ecc. 521 – Conf. voce Partito, Parte l Il. 522 – Notalo bene
l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso,
pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che
al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior
m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se quor). 523 – li
alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc.
Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una
sedia, di un posto ven duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in
cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr Le vere Ha molti
vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti: I,EV AIRSI
IN CONTI? ()..... . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra
volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste
cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc. Coll dollnes a placevolezza
levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('. “ La quale
veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte.
» BO C'('. LEV. A IRE I)I V. ANZI « E non pareva potesse avere niti
il 1 Imedi, pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi,
ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.
LEV AIRIE I)'INN ANZI V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel
pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio.
» I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi
loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire,
sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600). I.I
V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN (() \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. (es.
! (50 l. I,EV VIXSI IN AI, I'() . ()h Imadre carissimi, noi ti
levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi
quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà.
Cavalca. 60?. I,I V VIRSI A VI () IR E I,I \ AIR IR l VI ()| è l I (50.3.
LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604) « E ben
liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe
a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o
Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a
ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t., V ill. (i.“ Alqualiti discepoli
s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia
lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta
Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (I
V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V
le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto (ies Il Nazza l'en lo... (:)
V:. Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r. Ciò
li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel
tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1, V e
allo li l al t. LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI () N E ſe i protra riq lui
e l'iello il palese illello, le. - -s. I lilt lil e i parvoli; e nel se
greto rise! V: lui l', lo l ss, levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI )
l'ill. S. (il'. I l V V | | | | (()N | | (50), ll el l e levare i
conti. lle: vev: i l)i V (llll le ll ' o sospiro...., Dari LEV
VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle .... pastore, e li e
o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l
'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed
egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei
mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » (vale a I,lº
V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I? \l ll l... l) \ I.l.(i (il l RE,
l) \ SCIRI V l.IR l.. e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir
si levasse, soffiando inco Inilli i.... a l?o. LEV Alt SI \ COIAS \
rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua.lº dicendo
queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» (il
Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a
dell'ilso: LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I. e e la madre guata va se
fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per a chè ella non era
molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez « zo degli
armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di
o,.... » C: Va a. I,EV Al? E l) \ I, SA (IA ! ) l'() N | E l e il re e la
l I e Nilm o U.EV \ I? E \ I, S.V (IR() I ()NTI: II. N () \ | | | | I....
13 (I l (rli I.EV AI? SI I)EI, VIENT(); I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un
edificio, di un terreno – I.E V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I
E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc. Note al Verbo Levare 600 -
Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I
bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli
occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso.. (olle (l'eslerà
di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si
inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono
gli l'iorentini per bli. Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e
per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi
l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ. (01 - Simile: salire in baldanza. «
I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse
durare innanzi alle loro armi » Barl. (2 - - ()sserva la correlazione (li
le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà. 603 -- Simile
la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da
discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte
strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av. 604
Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 –
Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i
rt,N/lettere (Porre) fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº
º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I. Al ii l ' - I -
volgarissimi 629, nè la li si l sl i l pi. Ma sono alcuni
altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo l | laii (i l I
t. ! ! - l - l - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il
vago della frase il sisl ei s ci, il ss; li il sia, è ad ufficio e valol
e º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i -: i i no del verbo
con altre pa i. \ I soli linelle, che anzi li li ii considerazioni
e all is | | | i l ! l sl glº: i \ | | | | | | | | | N A S.,
VI A V, l SU ). (All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V (il
l V l l ' Simili. mise cinque mila fiorini d'oro contro a mitic ',
i l. -, metter su una cena a lovella da re i.... l 3 -): l l.. i. - i i lo s; i
ti sul metter de' pegni pegnº tra loro messo loro, I, nºtito pegno i - i;.
- i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i: lessano che la Verità l); i
V. : l l., (-. il \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t'
('. I mette ld, e più forte illli, Va'. (I t si - 11: -, -1; I l -
e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi...... (i In li vere - i
rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I ()
- VI I I I I I E \ N I \ I () \ | | | | | | | |, A \ | | | | |.. AIETTERE A
VIVIII RAZI() N. \ | | | | | | | | | | N SI El ' () e Nilli lli. Cadde e
voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio le i
soldati si li filº roi o li I ): t: Ig it li, eſ. Quel giovane.... fu il primo
a mettere in lino agli altri. I3e: 1. (ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando
Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli
con le spade ». Da V 63 Ali (III, i se mettevi l'amore tuo. F (a Per la qual
cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. «
Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie. it - lo il I l s. :::
I l lit: i mettono inella moltitudine am. a me, miser pensiero,.lon gli
voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I
)d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?
\IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N(\ | | TT | | | | V.. STIt II)
A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili. l?el ſ to loos o il fiel (il
V al mette ale, l ' ll I, II ig. Vlorg. (figura, a III, corre col gra il
V el. it: “...... nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei
legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi.. sº i e ai lo schilli e
strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit, che
chiunque l'udiiva spa. ve: lta Va ». Cavalca. Allora qllella
stridento, e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.... » (a
Val n. º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel
bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e
pregare. Cesari. \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | (i | | ()
\ | | | | | | | (() NT (). “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene
al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava.
Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer.
saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e
delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti, ('esari.11on perhè alla
l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v. nè i
figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV.
\ | | | | | | | | | N N | () M ET l'EItE IN ASSETTI, IN Alt NESE – MIET I ERE
IN ESSERE di far q. e. MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par
ècril – lo sel clou n. e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a
mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di
lar bella grande e lieta est: l. 13,.l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo
del colle e del quando,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l '
bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il.... e – l llla la si metteva in
essere di baſ taglia. l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta (o
poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t. V | | |
| | | | | VV () |, V \ | | | | | | | | V I \ V (V. lolla li l'al' e sl
per ol li tºlti mettevan tavola il s si.ora che l'usato si meteSser le
tavole.. \ | | | | | | | V S |; N V (\I | | | | | | | V l, A l' (C ),
Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V, l le 'il l Illia di Illesle lol o
l'agielli soglio li, i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il, (es. i vi
G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t, sto lioli i l V lo
i prigl n. o l8al l. 635 l lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la
vita in avventura, e lui e il venil -, al site Ina ri. l'8art. esporsi al
pe: i per i volo li lo del l - l at si \ | | | | | | | | V |, N | |
N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S(() |
| | )| |, I N SI | | | (\ | | | V | | V,, Nim ili. Se.... I certo I
(lelli rebl.......... ll tiro e, e ogni forza use; per metterla al niente. I 3.
l.(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i
letto i ri; 1, l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ
o ll -i (V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li..... ll e il V e
il messo (es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA,
CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av.
Bari. Ces. METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO,
UN AI3IT (I )NE ecc. - e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i
atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le
qu'il 1 l III I Voll. 13, a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere
un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i
pensieri triatli o Bo MI ETTEI RE IN N ()N CALE \ | | | | | | | E IN I 3
ASS() - MIE I TI lº l: l N S() )() - MIE IT EIRE IN I () IRSl - \ | | | | | | |
I: IN IP AI ' ()|.I. Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non
cale ogli i l el-i (. l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº
rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza
il basso messo. 1)ante.«... mi par necessario definire prima e mettere in sodo
il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare
i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse
la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30.e in altro non volle prender
e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo delle sue galli; la', e....
» I3o MIETTERE IN V.JA con.... \li raftivella, cattivella, elia non
sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;
º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r, voler l' il cºlle agli
scolari, misura le sue forze cogli - METTER MI VNO A o per q. c. “....
e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran
colpo...., gli spicca inno il braccio., Fiereni. e Messo mano ad un coltello,
quellº apri nelle reni, Bo 3;I All. N l VI (III (S \ () \ Q. C. - ....
pose mente alla sl i 1: 1. I s e, ponete mente le carni mostre e lui è
stallino. » I3 n. 1:. Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e
divili la li l: i les li Se i 1. Ponete mente effetto i li e le e il via
il cºsi della lor debolezza. E \ | | | | | | | | | | | |,((| | | SSI \ A
SI N N () | ) l...... (3,, e gli misi a suo senno, e iroli -
\ | | | | | | | S | A N \:3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | |
SI SI | | NZ | () \ | | | | | | RSI IN | A | è (Il I (C.llESSIA – MIET | | | RS
| S (| | | V () | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V. dal si misero al
ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4, N
-- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3:: 1........ i si metie
siienzio. l 3 l: i. () il l i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l.le
sia l i lliesto. Meini. S'era messo in prestare Scpra castella, l in tre loro
entrate. » netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl
l l: i veri il si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o. \I E I I I
I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all. \ |
| | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V. I l. SOS I \ NZE ecc. Udas le
ben (''.. ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno,
mettiamoci la vita.. (i ll.(i e il (! ! !, il III le pose la sua vita per la
nostra redenzione.» (: v. l ':l.«.... e lui beato che fu il primo che ci mise
la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo, le no, ci
mettiate della sanità. » Cal O. MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI, l' N I ().
« è istigare alcuno e stimul i r, a dov e dli o la r il il na Inglilia o V
Il a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. (del liti o lill la, o lil a.
i litº, - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro,....
r Inti o al Ilici che sia imo. Val li Nola gli appellativi: commellinale,
un teco meco: « d'uli con melli a male, il quale sotto spezie d'amicizia
vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero.
Varchi. METTERSI AL TIEIRZ() I (C. I )].I, (il V | ) \ (iN (). e Andavano
dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: - dagno, a
cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i a o l'edità colltro alla
legge, i l): I V. Note al Verbo Mettere -. 628 – Eccone un saggio:
to set al monuſ li I linellere il niente: lo.. set ad usork (porre in opera: to
sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside
mettere da parte, - - " lo set one s self (imettersi a....: so se lo m in
l. ere giù - lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt,
nettere a terra: lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in
alti, ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc. 269 –
Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso,
mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi,
porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc. i30 –
lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è
pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi,
essendo il succhio... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo:
mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira. 631 – Si dice anche,
con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1.
c. vale proporsi di farla ». (5:32 (5.3.3 (3 (53,
(5.3(5 (5:3, io m'ho più volte messo in animo.... di volere con
questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo. Neh!
questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero.
- Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la
tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la
tavola. Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare
ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o. Noli
ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al
sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far
tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a
sacco la lingua e lo stile delle mie opere. Giub. Melte mano in
checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col
I Muno (al). 2. (Se il m o l?a l'1 e I. Al clersi al ritorno re, e
simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa
del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il
cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche
mettersi coll'anima e col col lo t... (Si mºlle con l'anima e col corpo al dice
al la r l ich '5 st. lºl'. (ii il d.Re care Sil primo significato è il l
di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di
votarne il recai ed holl 1 e... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il
al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc. Mia poli III lil al
li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il
no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es. sia, recarsi a....... liele
Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e
quando i riliire. I l...., il V (l e va dicendo). .. li Ille-t Il l: l ' 1
tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a
condizione di privato. a (a s. .... sol che esso si recasse a prender 11
glie. I3. Vedi modo e sappi -, oli di l: parole il pil i recare al piacer mio.
13o. II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000.. ll e io la sll, di reche a rei
a miei piaceri. I3o.il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e
recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel. l i
r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit ' (1
- i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a
poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - - l'eputaldo, considerando
sullo la r pri... e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad
ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia
rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill).. niun altro l'olila 11, di sua grandezza
il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori
il la a gloria. Da V.«... lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla
persona che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi
e il sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza
sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare,
bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia
di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta
vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su
i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato
a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a
piacere, a premio, a riposo, e.... S -:).e generalmente o il lancio, il ril ci
rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli
non ci dà noia?» Segn. ll – e le: l le, Fi, al di l orlìa 1 di sl, ll la l'ott
1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ', no; i clle Vilì c'ere
i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e oltre
- io ho veralmente era, i sse i ll, si era il V V ei lilli, il vi: ill, 'i. I l
i pic lo es reit, del re doll i – l. e/ se \, Va. l. ; le I) i l
rist l li, a. l sei za niun risparmio, N si | | | (V.I RSI | N S.
il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò, e con sembiante
1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li. | R |,(V | è SI IN VIA N ()
| V | | Si VI \ N () I RI (AI SI IN (() l.I.t ) (| | | ((II ESSIA \ oi vi
recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo
V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete dice: do; lo ſo lot, il l)i lle o
il cog el'o... l ' ve. I 33llfli liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle
1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino,
e:... o I 31...(olli e il li elobe Il., 1, li lega i recatasi per mano la
stanga dell'uscio, lioni e sto prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le
raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli
ehloe vinto il ſolito.... 13: l'I. l: I VIRSI CO) I I ESE teme le
mani al petto, per riverenza, di rosione, piu'll. i let: Illesi, e latto,
recandosi cortese disse.... » Sacch. | V | | | IN |,l (I Iſetti, il
gran tempo, sia i mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo
ingen). Giamb.r- a - li ECARSI UBBIA DI....... « Per dilungarsi dal
morto, e Iliggi l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch. IRECARSI
A MIENTE (Itidui si a memoria, sorreni e. a Và, e non volere oggi mai piu
pecca e. Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere
la vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello
che dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che
il rollo di risori, cioe Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i
(It.all.... » l?assa V. IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in
cui molo, la re un fascio ecc. ). « Voi siete ricchissili, i giovani, li
lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in
uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun
fallo mi da il cuor di la, e, le.... Bocc. l? EC.Alº:SELA (o anche
recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie,
pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o
coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro
rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che
il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13, la consideria oli le
c, fatta vi da un ubbriaco). -in da 11 a V I Nota al Verbo
Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi
nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 –
Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la
conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a
Ilºil, º lº rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una
grande ingiuria a stili, mi di si p o giudizio che ll il mi debba
ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal'.F corta
re Al l lano i rili Is, elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº
lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li
sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del
pari tre latliano, cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere,
richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati
dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa,
l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati
pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena: portar opinione. I rl (es.
porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido () i noli e
gli ºri Ilde - i tizi ile, lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le
imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli
ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » (all'o.Nelle
passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl
l.. ll la V, º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo
portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il
lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli
d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo. lle il 1 l... loli portava. o
lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo,
11 le lilt:: via l il 1 l Ces. I:i natura del l s i porta così e io, il -
e lº può altro. » (-. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto
un numero « o d'i!) finite V i..... » (' -. Conservate il vostro, lion
spendete piu che portino le vostre facoltà, fuggite i vizi, seguitate la
virtù. » Pandolfini..... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno
portasse che... Ces. a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non
sapendo che falsi, propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc.
So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva
di farvi grande. Caro. l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che
le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane
portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li
fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. »
Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e
malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o.« Ma Iddio, giusto
riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina - conoscendo,
e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. »
Bocc. - « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a
costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa,
(livelli loin l..... I 3,. le all o!' « E da quell'ora il li illzi
gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I. E 11 lì è da falsene il
raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona
sia o C i va. a. « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti
lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti,
spesse volte si biasi mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli
riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.«....porterà
espresso pericolo di riceve e vergog:i e dal lillo., (iia lill). a
Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett: s tl dl Ill st luoghi. » Segn.
a... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III
e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o Ma sai che e'
portatelo in pace. » I 3. « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri
si porti di te, e Fioretti.Ajutare L'aiutare dei pochi esempi che qui
arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen, ma si
rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo
help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce
altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno,
aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia
ecc. “.... e che l'Inilia cantasse il na. il Zone dal Lillto di l)ione
aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata.e Ritornò si notand piu da patira, le
da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini
ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti.Ma
quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature,
spacciata Iriente si inti e di l::i i: si iroli e forte aiutato di lavo a recci
e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile!:l
ajutaio, lº rese nulov, con siglio. I 3 r..... llQlle - le parti si posso lo
aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare
il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla
opportunita, intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole
col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva
Virtti alle parole.Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di
medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e
farà buono il lito. » Cl es.. ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a
promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai,
dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi
va, adopera. Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci
commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in
questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel
de fettuoso prele, o Passav. A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE
DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso
saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da....
()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l
naso ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.«
Anche::lolto è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti
i 11 st.li idoli gittò il: tel l'a, e iº li ill la cosa gli poterono luocere,
nè da lui aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi. a Pero ('ll è: i Frances lli
non atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII e liardi e dei Toscani; ne
il Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572.
e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa
al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l...., Boc.Io vò infino a città per a
illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o,
c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il
giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho
partito per n mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà
dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di
loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130. e Alberſ o d'Arezzo
era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra
ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V;1.
SS. Tad. A.I l I'.Al ' SI A...... a.... Ti o, ipo -olio rimasto dei
lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V, di
rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi,
quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si
aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni
prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella, Segn. s'ingegnano, pro iº
lo trachten, tàchent). Nota al Verbo Aiutare 571 – Parla del seno
delle donne che per parer più pieno si può..... 572 – Così l'ediz. fior.; – La
Cro Sca e La stampa delle Soc. tip. Class. ital. leggono un po'
diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e
ritire \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i
''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li
guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo......; Nºn
li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo, la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli
e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e
simili. lo soli i ll ella sento di me., Rocc. \ V e i tit Illa ira solº
ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta
ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi
ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto
mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii
senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. (... ll I. S. Bernardo
di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di º ll I ligi
la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. (olli lel quale - la i
vizio della super leia, e non si sente, cade nel V Iz lo lella lissili la
del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè la co. fusione e
la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima er: il
sensibile, l ' s sv. \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che
della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1::: van ls li a
grande, e quello che più lor gr. l V il V a el.. ll e-- oteva no sapere, il l
ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: (li, il l Illa 'e liti e le
atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire,
fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (... l 3o. le: le [lli li
elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o
lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa
alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » (asil.si
mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per
effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col
venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se
rigli' rdat, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella,
oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº
mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se
le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III
- III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi: ' viº, per
la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il
facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. »
I3o.\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, (Irlino al palo con un stio a
Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che
quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto, La
fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo
(iia corilino l:ori vi. ilava e gli dissi » Bocc. Venuſ o il dl si
alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per
invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ()11 (:il l)ll a l'ebbero
fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion
fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio
13o. « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente
d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve:
la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse., I3o.a Io il quale sento
dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io
disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite
\ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,. Ttl st -:) Vissililo,
e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3?). Vll'ill ontro chi, colli
e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se goli si
ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel decorso
dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto avanti
nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo. a S. Greg. S. Agost.,
S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta Chiesa,
sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno
i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor de
genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo (l'isti a
'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril.
ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. «
Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le
sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della
vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno
sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo)
diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da
lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino,
quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r. e
Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a
vivere, e operare. » Caval. Conferisca gli tutto quelio le ella sente,
come farebbe a me proprio. » Casa. Nota al Verbo Sentire 2!) Il V
el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul
sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo che la non i via Venga
il suo l'ecclli ecc. lo 0 lo che li on s. Il ll grazie del 13 o accio ed
altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: «
La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe
dello gl. ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva,
dice: nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il
selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib.
I. 53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l'
aver diſello di.....; e sentir dello scemo è aver poco senno, aver la
qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è
predica o di checchessia. Analogo a questo sentire è il sostantivo
sentiva della nota fra se sentita di guerra. 32 .... mia egli con
miglior sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una
montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I
3art.Stare Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di
qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto,
e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e
forme particolari dell'uso di questo verbo -, e mi starò contento ad ilculli
esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o
quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e
pensa moderna li crite. Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno,
per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare:
stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per
astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non
aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare:
stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i
versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles', ei lo slalo, condizioni e
cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli
e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc. I qui li II lotti per i
clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit. Il ti
line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg, si disdire. I3o.e E
sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli
lle...., I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l.Sillito la vo' veller', s', la dovessi
la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici.
V el l l ll: l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3,. Bene non istà a lei
il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti (Il'io Sollo,
'1: iStà bene l'attelldere il d all1, l'. » l 3 m. Frate, bene sta, io li e me
li di roteste cos Ill:..., l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li
avesse ricolta dal fallgo. » Do. S78. e Io non son ancilllla alla quale questi
ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene., Bocc. -i al ddi allo).2ssendo
egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30
('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a
stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la
ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1..
l 3o.« At colleerò i fatti Vostri (i miei il III: lliera e le Starà bene. »
l'80. a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a
la cosa stava male. » l'8o c. a.... di che noi in ogni guisa stiam male
se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se
avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i
Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl, li lev
si stava.. l)av. N si s si s i s; i liss.. - Si stesse, e l'80. lº l' 1: v. I l
il sitº Il le stessero. V...:lle cessassero, si fer Il luss (l ', --
ero (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non
gli r! Inovesse sin – li pirole l 3. Per me non iStara -: i sia. » I 3,
cº. l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado,
gliele si li, ſi iss, l 3,. S!),. Senza troppo stare t a il lino e
il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1, sich lange besinnen).l ve: i IIIa
pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi. 3,Siette al quanti
l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1., l lel. Stando pochi giorni....
l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si. la Iltale della Illin
molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e
la potenzia il I I ) I V - -, l sºl l e.. l 3 SS0'. l I e Ilio - li - Il
d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si... li o 1 i vasi. lº, e lo
statti pianamente fino all'i nia tol nata.. liocc. (.l, polendo stare,
via, - ius o è he mal suo grado a terra: i l ier'.Compa il lato l'opera sta
altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l
Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt,E relet, porrete irrente le carni
nostre come stanno.» Bocc. Staremo a vedere, olle V i governel e le,
Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire
non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn.. « Non mi state a descriver
di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze - º stomacose. »
Segn. 881;. - lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte
moli e dell' Is Ilo ſereno: STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la
serie - ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a
dazi ordi a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli
uomini a niun termine star e contento. » Bo(C. « A me li li pare buono
collli, il quale lo ista contento al suo pro prio. » Palld. STAIRE
SOPRA SE In ne halten SS2, a Alquanto sopra sè stette e cominciò a
pensare quello che la dovesse o Bo), Li Volse dire, senza pit | ns. vi
clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis, nel volto, per V del
e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...:
stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.
ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI |, (il V V | | | | | | | | | ((I (). (sillli
| | | 3 (- ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI() N E. SI I, IPI N I () | | | | | A (VV
VI.I.E I? I A, I) EL (()N V EN I V () I.I. - SI' A | ' I SU I. (VNI) E
c'e'. a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore.
» Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo
paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa
prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che
persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart. : gli 1 il
ri., l3 l: i. STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone, «
si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).
STAI? I, IN FIEI)E a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. »
l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es
serne lui lo premi tra SI \ It I A Ll.((il crisi liti, elorca, la II
nella liti... reggersi secondo... ) l Il e no, le tuito, stava a legge ma
umettana, gli si ribellò... » Bart. S I \ I Rl l?I l l N () / e mi e' e
la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN (i \\llº E forſe da la
persona SI \ RE IN CEIRV El.I () (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \
A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE
I).AI - I 'OCCIII () (A | | | V (). \la V to io, che gli stava
dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | |
| SI' A | R| | N | | N | | N N l. (o la base del 1 al pil e quasi ai li o
sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e
il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (liz Si ponga nelle da
li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i
c', lino e lo micilio e c. (il voll:i li in lato veri pla, endogli la
stanza, là g: i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come
le g. a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse
agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31.I ra gli alti
Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e
in petrò al padr e la stanza stabile nel. Mlea o, e per i o is reti ministri se
ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e
continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il
consolato,... » l)a V.Note al Verbo. Stare S7S – Questo bene sla è
maniera in personale e orna all'altra: () - ſimamente, sono con voi, siamo
intesi, basta così ecc.; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. –
Simile il modo del l'uso: ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e
simili. S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od -
una cosa dipendere da.... SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il
lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco
slante se ne - vide il buon esito. I3a rI., se li il climpo del pari orire ess
torì un bel figliuolo maschi. I3 cc. SSI – Simile lo slare dei modi:
stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di
compassione il conforlò e gli disse che a buona speranza stesse,
perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o.
13ore. ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- -
CC (”. SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in
so spetto. -- I tiri la nel libblos, sostene e, sopraslaT corri a re Si
lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il
90S, pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al
lile. l iuscii, l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla
cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t.;)(!
). l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e
lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua. lº a V v l It il il I
e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3...l'alto i a | 11
he tutt, torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si
rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma
predicatori di Cristo. » IBart.. La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o
Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe
tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere.....()
il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E
il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g
Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la, la Valle, le carni i listinte...
Egli era tornato ossa e pelle nuda. » (es: l l'.La caduta di lºietro torno in
fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in
grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A
dunque le parole di Crist, tornavano a questa sentenza... » Cesari, a
tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed
alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime
ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli
occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in
ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo,
fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque
a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e
incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima
era fuggito per paura mondana....» ( l'avalca. I, lu go studio della
volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel
l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella
prima Sanità. Io e. e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò
in cenere quel poco a che l'era rimasto, o (es. le e divenir,.Ma il Si Verio
tormolle all'abito e al ritirarmento..... I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“
Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite
l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare,.... e Sp 111a gli 1
11:1, V., inza, i - II i cd 1, tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. »
l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in
buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in
tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato,
tutto.. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea
tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill
dolli l'a Vea - Il bil II la.... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria
tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello., 13,
riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi..... I 30. lIn
giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. (i lill allo, a
nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V (st Vo Nll II lo, Ca Valca. a
lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti
Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in
quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca. Simile
al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.()NT () T()IANA cioè non c'è
errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto,
riviene 912. TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere...... « Coloro i
quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando e
quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava
bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna., Bocc. l'()lº
N VIRE IN A (() N (I () \...... stal utile lºlºsa che se a Dio fosse
piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio del
Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo., Bart. l'() I N VI
RE IN NI EN I E lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento convertite
tornarono in niente.. I; ) -. l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ((I | | |
)| la Illal e sa tornandogli alle orecchie., Fier. Il testo la r o' e
tornate agli orecchi di.... » l?art. l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e
c. si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm! Note al
Verbo Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to turn
degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul
lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. – l'his young mall
first intended to study Ihe lav, but after W:ards lle l urned Soldiel ecc.
ecc. 909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va
dicendo. 9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor
mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in.... !) | | Nola,
la maniera: tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene
alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare
col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al
tutto singolare che vuolsi qui ancora notare. 912 – Tornar con lo simile
a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con
lo recare all'anima tua un minimo pregiudizio º Segn.Vernire Olire
alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i
seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN....: e il ct rich o V | N | | | |
CI I IE(CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c'
Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le. gli il
II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle (e-il rl.,
(iia lill)..... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il danari,
preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz. e assile la
Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei, con tutti gli altri st Illi e
disagil.clic..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo olfendeva e
dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 -: dosi illeri,
il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il
nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in
povertà, il ire gli il li ri.:) V:llieri, c. I I I I I I I 1, divenne a tania
triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l. » l' 1-- I v. desiderosi
vennero il 1 I l l: V.. le; e...., I 3, «... sino a tanto, he venuta discordia
civile tra l ti: io e l'altro paese...., (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor
piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V.
Zza. » Bo ('. VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V
| N | | | | IN S(I R].ZI () (.() N.. V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N
| | | | V..... per renire, di l riraro. venutasene in somno furore...., l
3, ('. calo il 1 alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe
razione. » Fit, l'.Veilezia turbata li. Il testa per lita sarebbe venuta in
qualche disor dine. » (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i
telli e li fa Vella....» Boc. « Non ostante che tutti venuti fossero in
famiglia, uniti che mai strabo - -, le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi
sta pagatore l'Io venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te
olltraria alla donna, a quello a che di ve nire intendeva. I 3,. VENIRE
AI) Al Ct N ) che che sia, conseguire, meritare. – VENIR | N (()N (I ) \ ENIRE
I 3 EN E ad ai tirio per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | |
| V ((N SEI RT () V l'Nllº I; l'()N PUNTO). Nori gli potea venir molto
polti tre li dottrina, ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse
acquistal n. » C aro.(Il le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll
facevano con lor sen e 11. » I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si
levar l'assedio e tutto venne bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo:
empo per le foreste e discorrere a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d.
ordo li la sto la soro, il to he ognuno possa fare della parte sua quello che
ben gli viene. Fiorenz.ma per le ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in
porto che s'incontrò il l.... o IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon
punto, al re lo mostrasse. » lºart V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo, e,
v. occorrere, apparire, mo strarsi, affacciarsi. - Aguzzato lo ingegno
gli venne prestamente avanti quello che dir do a vessº. » I Bot (. « A
rispondere assa glon vengono prontissime. » Bocc. VIENIRE A l) ALCUN ()
ll. F AIR CIIECCHIESSIA (loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene
ora il dover dire. o Boct'. VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) –
VENIRE DEl. CAPRINO e simili - ed anche solo venire per venir fuori
uscirne odore, esala l'e ecc. E quando ella andava per via, sì
forte le veniva del concio che altro che torcere il muso non faceva, quasi
puzzo le venisse, di chiunque ve « desse o scontrasse. » Bot ('. 920). E
se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il
pianto loro. » Bove, Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che
ancora ne viene. » Lipp, \ ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere,
« Quella che mezzaliani ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc. VENIRE
ALLA MIA, ALLA | UA..... a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill
e da hin bringen \ EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i
lobi o delle promessº e simili) \ niti il partito il 1 e il l via
lo venir meno al debito delle loro promesse. I)a V. Risl -, si il ve: a
'I 111 ssa: l' 1 si lill la le giova il 18 di:lli, al quale non intendeva
venir meno. B si ti: 11 e 1 li della s la propria ssi, V EN II I \ (ENI )
(). I ) I (I,N | ) (),....... e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete
sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia ridato la d... [ 1 - Vi - e se l a......
il venne con siderando., I3. Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero
lapidando., (ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... (- I
ri. L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel
venirli stirpando.» Cers. la lo) l'o a salitificazioli (poll istal Ile!
llo!) il Vel difetti, l'Il Note al Verbo Venire ecc. è, in
Irli Is. Il li sll l'e 'oli 920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella
spiace storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza
o nausca che al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la.
scillili, il lills il 1.: -) () s 2". Altri verbi di particoiare
osservazione, del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende
talora maggior grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare,
apporre, appostare, appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare,
conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare,
mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare,
pensare, perdonare, procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire,
rompere, sapere scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare,
itscire, vedere, volere. Accaci e re Il suo significato con Ilie, e
proprio, e lello di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire
ecc. Il lorno a questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso
anche più che non bisogni. Mla gli all i classici: l i al dissi i vagano il l
sless, verbo accadere, in un senso assai pil ial, o elill Icannelli e vario.
Gli esempi li diranno come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso,
ed altre con cºn il '. venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo,
loccare, di parlenere, e si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri,
bisognare ecc., ed ora preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl
brauchem ecc. (cc. Conſ. Pall. I. Cap. III. E in ende ai ancora come un sifalto
acca dere si avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra
voce o quello che egli pressapoco º similica. IPerche io ho compero
un podero e voglio o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a
Fiera Inz. come si l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, (c'e'..
lolina illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè
colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo', e....
e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno). Io potrei,
per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di
tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della
risoluzio. e. (i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e,
dicevole, opportuali, i c.. Etl alla donna, a cui il ll, lº i io li
pi i lito, li: ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto
conviene, fa d'uopo. Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle
Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si
vede, essendo ti-, olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta
e o l?orgh. lon 1. (t, il gli si app:i: tiene a.... e a III e il rio cadesse il
ri; e il vi 11e di ei, avendo rigi a: il che '...., Bo.. t.. ss, - appar
lesse, , i so, li i i ll io V Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r
cadde lº do il le?, (es. o o se, a V. Vell veli:.-. ll ii l'.... accada: il la
di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le
di l: I: (e, p Cirle...., (: l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri..Qll:) !ldo il
rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni.. (ri, Zzi. lion,
li li la d'ltopt di..... E lic, chi i: istiani - li Iile ! I po a si'l citudine
di sal º:: -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl
ltsinglliaIlio. è lI::l 'life-ti- iII:, S.....Ali, il non accade, i 1- I lii: i
g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.....N li accadrà, -. -i, li d'oro
il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in. i ! e col Salinis a.... l)
ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil (....Non accade per ta: to i lie i t
II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi, i, l1 Il cli..... ll 1: i ', -,
Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln...
il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o,
avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie. l.Il
qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che
ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade
II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in
fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. »
Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo.A
cc orm ciare la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di
eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e
il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11. Sgrill I l
pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon
ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le
gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr. (. ll 1 l. ll.....
di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce: lesto verbo,
costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e
figurato. Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s.... e, a da l
idel e.. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con
qualita il ll Iel: l i - -, l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol'
il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere,
ne lar, in olte, sa le a.. si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i
la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo
di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava, i le, (.es.E' e all'il: ci
lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l': i, il l: -- l tra l
' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si
acconci i lil,......... i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I
I se li ve: ero a F l'elize. I 3 r. ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido. lle a
vela l': i slis- gl tl, e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù,
la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo.VI esse l'...... preso, e per
acconciar uccelli viene in notizia al -.Acconcia il tuo i i possº esser
tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... »
Morell. (1. (1, il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola
acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i
messi a posto”. Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del
verbo Vccon cia e conciare.ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in
significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi
ecc.. Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:. Egli verrà la 1 Voi
il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi salà e Voi
allora Vi Salil Salso. e colli e slls, vi siete acconcio, così a Irl) do e che
se steste e ries. Vi rc II e IIiani a tito, se:iza piu o ai la bestia. »
I 30 ('. \ ((()N (I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li
c'Nslal ciclot I lati si, russº gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i
cech lato..... Io lo:l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3,.
\ (livelli le li I): 111... a pl i ro a... - l'e. sospil i.... non pote;
gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò
a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3,.e Io non posso acconciarmi a
perdere il fi l'io a file si cal. Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I
11 che Asp), gli lotli. » I): I V. Io sono acconcio a voler vincere Il -:
i cºnti. » I 3. E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i. Non è
ia carli e acconcia di sostenere. r i ve l Fr. (ii in l. Quanto più se
puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in
tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali. i la V l',1: vi
m a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto,
appa l' chi lt).... i A((()N (I \ RSI ctconciati e atlcino (() N (I
| I ((I l ESSI A conciliarsi, (te cordarsi pacificatrsi. \lla
fine... s'acconciò col Fiore: il il li:lti i (illelli (li l si allit, to:
Il ssi iI Vleli agli 1. o V ill. (i. Lo e pri: la II:ito il ole, per
racconciarlo con Messer:) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata
in parole, con lui s'acconciò per servitore facen a dosi elli: II; il r
l: Fiºmille. » I 3 (. Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno
pºi se ritore. \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede
e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e !:i 'li, l'Isalli, e ci
sia - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno, l l3 - li V.
I distinzione e \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.
la melitoria e le |! l -, vi E acconciare nel mio animo, e non ini parea
lecita - l - e-- l - lº s; - li S liatori. » I 3: u.
Lat. \ (C )N (I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere l
Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc. Vi es. (acconciasse
i fatti dell'anima t: glla le, e l a li: il 1 e il .. l l: l. sl a i
(lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS. I Pil
(ll'. v((() N (I \ | RS | | | | | | A N | VI \ il n. i da i falli
dell'anima. ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima Il
n al! Si li: i pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,
V ((() N (I \ N () \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'. F.1: e volesse
stare a ctl i l'u. - I l a bottega. E Vi, l Acconcio con Maestro,
la rasse i.... l acconciateli I tl. lillo, a io lì è inil \
l. (N (I \ I tl. VI (Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l. l i nºn lati lo
ecc. su l ich len. \ ii farò acconciare i l Illia lii º l
i si tr..... lle tll ci vive: ai. » l 3o. ... Aloi li. m'acconciò
questi ll e g le I); o V el li o, o (a ri. Sll: il l lilli 1, l is s'. ll
I Il 1 littl. I);l V. lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò
l'eli io lº \ IR E. I ESSI A IN A (C ) N (I ) li.... in vantaggio...,
facen do cioè se r, e checchè sia a suoi lini ecc. l?erg: lilino i lor:i,
senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in
acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo
ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec.. Qui cade in acconcio, I, i:
i S. l l si i lºrº di ioso voli in..., se iTorna in acconcio l i -. I l S.,,, i
Nºi voi i 11 - i º se stiti - il re: il 1. º, a tra i -, z º di e, dal e
più acconcio ci veniva, i l ingrºssare il vo. Il V Ad operare
Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi, di
loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad
ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I: alopei a e bene, ma le o anche
solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre,
operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr
lati sì, procacciatºre ci: e inali, il ciclopici ai ci... per conferi e, esser
utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire. l eggi a Iuo prò e
al dile o al resi. V i lido col e si e-s, li iii, ol, i quaie avea l
adoperato per le a slie III: li I., I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque
adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1: ve il nr ad operaio
i i il 1 il lil... 13:1 rl. Ne ſilesi, gia ch'egli vi adici rosse.
l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s..., vis il l i |,, v – i V, 'l 1 l
il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali
s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l
a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv |
- li si diporta, Si ccntiene lº: 1 –- verfahri, vvandoli, iti).e.... li oli mi
ero la gr. z,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (ri: la no tv e ! 1,
governo di vita, ecc.)e il V, e le si illi, o il la il lili, la liene,
virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo
appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi.. niente ad opera
malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº.
lo II el'o, il rio, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e...... l:
-, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V
ssc, adoperò colla famiglia. » (i s. si \'.v)lli: li: Il la l o i ri: le tv l
In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1, il l / s la i3
(fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia
di m 1, operò con l'apa Gregorio -, hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e,
operò talmente con Cesare, s. ll e li perdonato il 1 l id.E tº it, adoperarc no
gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo,
ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I (- i........ e farebbe opera li.
it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id. Io vorrei che i 1, ne faceste opera
di villa N.N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua
gracilità Es ) vi il dl -: ma, in egli era il s ii ei cui i valta - at,
di si' nza, di compagno, di luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il
riori, ch... » Cesari. che dunque a soste itali: rito dell'onore
adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io:. il
fluisce, conferisce, giova, « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per
rientrarle lnell'allini: li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, -
Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare,
procacciare). State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il
valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse
ben t infinita. » (iiamb pro accia.. ol' 'Isre). Si moli da ultimo
la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....) lonio (i lissimo e
di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon
garbo, di de enza e di dottrina Vill e va l'aspettativa, mi sentii i
liar, al c il rilore. (i illh.App orre Olll' ai valori e ieller. Il
proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso
e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne........ l () ll il
l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo., p e iº le: li ra i sl: i lig il
'... di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati
gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia
| I l il 1ale: cippo i si Imparano Is, c live, l ' gi! I lag
esempi. I rito 1 a l er... agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi
li - e.. Bo,.E- ii e il V o cl II, l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1
at )::: V, le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti:
B..E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e
iiii?, 13, (r, i 'lo: i --: ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare
| e e lil iio la c. 1, l Illa.. (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo
si, e s'appose, (l'eli t loss (sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia !
11. l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non
ti apporre sti a cento.. l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le
co; 1 o Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l.go per certo
che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o Nota al Verbo
Apporre 5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o
forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare
(Dar posta, star a posta) ''sl - di chicchessia o si illeso, cioè
(lulalido si: s -, l.\ - è issa e il luogo e le tipo s'. Il V: - s ci si
s s' il ct ch ein dei tedeschi, l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i
rt (I sua posta, con I. Parte II (I l. ll i, i', º i apposio c;uando i
lollio. si - i disse l'ogii quella :I - le glali lint re è e.... l'.
I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo., (i azi. Appostato il piu ienebroso
tempo i l tacite,, lei, ioè nel quale il so: i s - l.: -, i lil a:. ll sell on
clie:almente. ll.:is: i............... (si ll e lo appostasse sull'ingresso del
Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I:: dove
aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i
retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo,
i. Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o (il
l.\ v... l l ego lº appostar gli Austriaci, a..... ti tasse il la a sul pi
e-iudizio. » Botta te:I n lo lo i in loli - li alidati i ti. le r data
posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a Quel mal. Ieri in
una siette due anni a posta d'un sold it. » lo c.App urntare 'A | | | | |
| | | | Il lo si ' i loli - li ai i. riprei il l 'o r. tippli il latre il
ct cosa al di la uno. l'l'ov l'. (ppm ti litri e li e.... ii.... l'i: il 1 III
e appuntiti e un colp, e | illlo presi di illil: l. I gi i - t ' ' ) - !.....
l; i si. -: i l fu appuntai o V tº!:lli lo sono, i Padri - -, i::: ' I in
pirole., I):ì v. I l.... I t'i.- I: - - I., fi, i I l - I li.. I ):
I V , le liti, il li il.... -; l -... l is -si l i - i l. S: 1'
iot: vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la II, il 1,
Ser Appuntini., (S. S l it 1: AppuntoSSi che s- i t...,
I ) l V. Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò l: 1:1 Vl:. S.
11, l appuntò un ci: Ip o l: film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº
i. Avvisare (Avvisarsi - a v vi sco) Allego si ripi non del
verbo il livo a rristi e I tir e risapev. le. I vv. 1 i re, I
menſe, il quale in viso a chi og: g:iela i Il lº 1.. i.
s', i lice: i:l I l il altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3
l: ali in lil (: I )i, ci si lti liasin i d il il; ºlio rilli
- ,, l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº. i di l: colpire
il l' -. ! ! !:ì 1 -, i ri'app lº ri: sv ) I s II, V a 1, gl,
\ si appuntar noi l - I l ' ' il il i il appuntare: eppur un apice,
'i - e tutto appuntano, a l - i; - !:) li... la isso il
pari pt Ito, e noi la r il riso, il vell, I tivvisi, e. l' Ili..
issili i i -s (l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri.. loli l'illoleri. Ira del
leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e
avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a: ci lei e co.,
il cili i so, se ben in avviso, I l si ggi ci si po spelli in opera di
lingua ed è a ' s i cli l'oli gli esser:ili le liti e il prelibar l
I l: !. I si li: al avigliosa gran !...... v avviº arcno: lei, i -
in esser velenosa dive I il avvisava li ss e passa r. » Bocc. sup I
l.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se;
desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II: -i, si l e o lº.i l
s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò; s.l, avvisando - ti - r.
-I:It i..., Bo,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o.avvisando
i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº.l I | tesi. ll e l: e avvisò il
vocabo l'. I ells l'e li it, S'avvisò a coluso ss e trova: e
di... l... l ' ', | 2,. I atto e deliberò I l e' s si s i vi e - ssi di
vole sapere -: ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3,... l, S (avvisati
- - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I.V -: i -. S'avviso il l li llll:n ſ
l /a d'alt lº lì:a: i |....E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. -
ll ': i.Il pil), io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra
assai Il l: si Se; ll. Se gli al riso al ris di un sinificato
ill: i go sl, lº sllo di crisi i '.: i l'avviso, le ''I I I Ilia della sua
bellezza il V i 1 l in tºs, l \l::lli il II lili il. V e e l o il
sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in
era avviso, li fosse tempo da clan, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il'
gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. »
Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I
a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi,
spedI.. 13 i fattl i s Il ri. al li,.I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso
del I a lisca il lº i rt s si s orgea a Apple la avvisato da lui questo
peso il il p. In 11 e-cºit se ne riscosso a Ces: l'i. Note al
Verbo Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i
siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci -
ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei,
notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne
riscosso (esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il
- | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o
che altro cli si limigliari i c. E a stare Polli menſo doppio sensº
di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me, cioè in è sul
lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per.....
le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è
comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera
eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della
lingulil. Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta
l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è
al purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi
esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i
la ro: ra. al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e
cresciuti, i il bastiamo a stir : l. bastere;li e.. 13 or sar hl) e ta......
n...... risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a ta,
nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1. Note al Verbo Bastare
) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si
delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è
assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama mio per i celi è all'all
ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i Cercare E il
cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l
is e, il laga l', col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se
ci I citi una perso il ct -. l)i si il cc i col 1 e una città, una terra
sigilli passa ossei validi.. ei clo, la co. li oli al lilli e soli i
pi: ()li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande
cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1, e, i li, li i e i buloi. »
Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li.\ clotto) etti
si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s: il
1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V.I 'e'.rso li corcarne
la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior, n iºgge.a Cli ben cerca
tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo
il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola ([llesi
a breve (r; i t. e S. Iºietro, a (.. º rivolse ogli diligenza - l' e di
Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar:
utti i mezzi. Inet r. - mi premi per ria - V el'.a Sillitti,.a Augusto cercò di
successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il
Vere.... e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a
falda della Velità. » Fiel'eliz “ El a Ve lº io cerche molte provincie
cristiane, - per Lolibardia, a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en
le le ali da 1 lo di Melano a l'avia, ed essendo gia Vespl o, si s litri
l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc. Mla poi li è tutto il ponente, i
senza gia i ſalti:i, ebbe cercato, i 11 t l'ito il IIIa l'e s ile 1:: 1(),
i V ess: il n 13,.. «.... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li
troverei uno che..., Boc. a A Vell dol' cercata iutta 'a. li col e ssell gia
stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle::lz.Tutta la vita si fa a sposa
l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3
art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la, ed
ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... »
(iiil Illb. C confortare (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere.
Pront.) (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel
sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e. S ºf I larinel è l' p oslo.
N i li per i recari e alcuni esempi. Ed issa i beni a impa -, I li
la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V
litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei
dotina li lasse B I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el:
otto lil (st 1, assa preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro
che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o.e primi i che di quivi si pr
isson, a cio confortandogli il Podestà, i mi odificarono il grillel
statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli
spiacevoli, come ll e A 1, e ti º 1 ): Ve lei lo i si. l o.I testo ma i ti o
confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G.
Vill.V e il nero, il V a 11, l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri. o I): I
V.Gcnforto tutti a lasciar. si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin::lli li,
Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i
silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ('esa
ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/
si e io ho dato la carne lli: i.... (il V.\la verido, sto o portata l'. I bias
ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i
lisse i olte l'ag: ille, e coll a Inaro pi: il Quai a voi li s oi.. he a
cosi i lte cose m'inducete.... » C o noscere (FR i cc n cos
cere) (o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I
cl., significa in l'ulci se il '. 'onosce il no,,, l 'ce lessic clu
allro, è di s'ill il 1 I l, is. ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col
e la.... è lov e la, il I l il lirla a... i liti rare di averla da..... -
omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo
li..... l?iu', il N.......... l ', l ' l?iconoscersi di una colpa, di un
è liſossal l. s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo
d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto
che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º
non si conoscono il l fſe 1 l punto d'architettura.... » (es.
\, il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora lui
da un altro. n l3, l. V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù
Cristo. » (si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le
nere dalle bianche. » Boc.a.... perchè levati quelli, la plebe irrilla
oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av. « Dal
tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It.
l):al 11 e. “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal
senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r. -t val del
pari. l)av. º.... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. »
l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e
donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad. Correre (Disc correre)
I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e
Iri III li le seguelli esel pi. e I | rall cesi a ºltrati delit corserc
la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585)..... coli in id):i correre il
regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti
d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I (Ini di Ibi: o il r.) vi
Il viate corsa questa preminenza. » (a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co
ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6. Me felice s potessi correre questo
arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le
lesiIII, del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che
lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla
Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e
meraviglia (l'ogli tl 110. » (1 l'o. a.... queste ragioni mi conforta ono
a correre anch'io la mia lancia in questo al gºl nonto. » Cesari. a
Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che siete
giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo
correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte. ontado., Bo.si li live
sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli
11 corre un intezione di febbri di... - I pessima ragione, ll... (i vzi. Nello
st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ), l'eta di Demoste le: il testa ci
corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \: corresse spazio di un ora. l3.Corre
quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart. Pe o
mezzo a l.it, l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti,
e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il I agii occhi gli corse a
--. I3o elle gli SS E al cor mi corse (ia i colli e persona ſr. I l...
l): i. ln - correva per l'animo e.... » IBart. (( I il pericolo
slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S) (N ()
l) l. | 3 | | | ill). (() | | | | | | | | | N V | | (). I | Sl.lº \ l/l () l)
l.... In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone.
» Caro i. se son pi ve lo disco, cre, usato a significatº: cºn
lº ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal. Mii la- i
ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da
questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo -
i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il
fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l
e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data a lillire la
cos:lº.Note al Verbo Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma
con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al
letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e
similmente le altre che seguono: correr una lancia, con i ri il campo
ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del
tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo
all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad
uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per
l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re
lingue alie (i clah r lui ieri, ecc. Divisare Senlio questo di
risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o
dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i
licli, pensati si arrivare (cc. li loro l'illi i i parlare i 'loli i c.
v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o,
deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i
alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che..... a
tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di
visata. » Fiel eliz.a.... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il
silo reggimento due rasse gli divisò » a useiirald, setzte. 13o e dagli
scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il
libro, Ill e li cºl bel ': dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a
l'olen zione del II loli (lo. » I3:ll'1. «.... ed e-sendo: -s: i
feriali lente dalla donna ri vili, le disse che cosi la resse l'il la r la
corre Melissa, divisasse., l?o r. a.... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e
(iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi
Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato,
ti ovaron fatlo., lo.Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare
compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati. Ces.di ſilelle
sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e
II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli
el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B...
Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»
lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al
volgo. (sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa
vi 1..\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl
ill::ld. Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri
di alzar occhio, non li orli: l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un
per il: Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart.
do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge
in si evole: ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì
nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori,
con i filisslilli - il milli ntl... Bart. Ermtrare Notevoli di
questo verbo le manie e bellissime a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN
CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.
lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non
m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io
possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto
entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. »
Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.
poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi, per
avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc. | EN l'It Ali E \ All.SS \,
ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA c'Ca'. La confessione
generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ()I?
E, IN ESI | ) EIRI (), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I (), e c (t (lice
nulo. entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a
g, ilt i, \ l). go l'e l... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1:
era r. ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo:
desse li ll, l ' t”. tº ll tº si ri' o 1.... 3 I l Iin una settii malizia
entrato, i vo i es - a l It I lilt il 1 e il - d ENTIR ARl,
ad alcuno Al Al I EV VI (E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l
e se è le. llla III It. Fi..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - -.: Ilss
II: Il V tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ |, l N ();
| N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N (i
| | () SI \ e c. I ) | VI (l N (): EN V IRE NEI. (VIP ) \ I ) \ I (il Nº in cig
in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t (red º l ', Ils. ll lo)
I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei
III omistero.. (la Valcº. I, qui ii a o o in a. I riti animi entrò smania
nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1. (li paz/ 1. l): i V. per la qual
cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº, e quasi tutto
stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra. a
Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li
non poteva andare in pisso, l e ella non ri - --, l al! -- º
) l'ole e col cºl ll i lili (:: 1, il... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò
nel capo li li dove li te: --... lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella
lor povertà. e 13,. I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita.
m i quali (t. mi ra.Fuggire l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I
l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci
essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li
alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili. N Ss, le Ieggi il 1
l I fuggire.» I 3. « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o
Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o. (l III a - l: le fuggia in chiesa e in
luoghi di re I: gl -, il l V, il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a
quel li s Il \lo, lisl (r,, lº; i l 1. Si il paiolo, e vale
l'ergiversare, cer ir si l gi, scappa! Io, gelli e. v le lis lo
stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne
fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.
Guarciare Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di
dirizzar la vista verso il ciggello. Significa quando preservare, difen le re
li ulem, bel dilem, 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con
siderati e poi non le, gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre
garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc. Dal qual errore desidera il no
di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13...I lolio, il --, ti
guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel, che gli si con lic Io ad
imputridire., Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l'. Dagli
amici mi guardi Iddi, he da nemici mi guard'io.», noto proverbio). Ill IIIesso
l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato.. º Te, rarissili lo I rate,
Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i
la guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l
'i: e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll: e
bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:.
- sia II, il si n. 13, S: l | | | | º io i ſoli posso credere, le
lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera,
poi i lr 1 lite. io lion ſarei a lili si alti guarda i ti piti di sl
latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i Non accade esemplificare il
rito al moli li ll Is: (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello
oli e presº i il lo (il V ) \ I RI, V IN IP() (| | | () (V | | | | | N |
I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl - - nºn lo si ecc'. (il VI
I ) \ I V S() I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l. (i l ' A IRI) \ I? I.
\ (. \ VII.I? \, e Nilm ili. Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II
lil e o si ri.................. che guarda un all ra: que!! piagge, le
quali gt ai lava, l, l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire Il suo
primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal. d'uno slalo, d'un
beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a
concessioni di dollli li \la di essi il li: li ti in resli e il luindi 1
o, (i l i rili –: l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i
v. a enti e, d. l, poi, i - l – cioè adoperarlo in compere o si
assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i
- gli sll'alidell, allf cilie Sand i.: \ (il suo in un anello investito,
il c Valli era: 11.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I
ri, Iii: gli tv va, dato e s, li ve:lli i l. it: l investire e il.
I li, e la i si l aº, li è per molto l, li e li si - ll s: i gli i
il tisse, si lº ric:a li ai tanto i parti e le ore li li: l. Io
investisse nelle tempia. » Caro, «.... liles is a so di il l I e spiaggi
(ii Zeila: d, a dove investi e l II, e l3:ll Lasciare Lascio
gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle
adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì. | \ S(I \ V
| R V | { l N (l \S(I \ | | | | | | | VI (U N () tra lo i veri a lasciate
far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº.l) Iss le, l io vi sºs l,
lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò, os a bai ei, tanto bella e
Vo: li I \ S(I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire,
l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.() a di: se... [llo da
pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate ria. Lasciamo andare,
l'air (Illesto e le ini, che,.. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le
quai, lascio andare.. Fr. (, i..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne,;
- al: i re si s. ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st -
e il top (', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i
li: i I l g il 1 li:i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1,
lasciamo stare.... / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1, i -: i in ' t:lti li'
les. I titºs « Lasciamo stare, l..... ll II, i::. - l l: Iss, l', ' di lt 11t.
Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia: l. l s s i M. ss: -, lazio: i re: re.
I 3. Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il
! io. e.. l........... () 1: - -. Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l
zi, 11 - di e 1, il il: il: il, par i (s; I l i (50!). - 1, V S(I \ I I \ N | )
\ | | | | N (:() N S \ SS (). (VI (li si di lui i lo - e (),. ll lo un man rc
vescio antia r gli gi i.ascia l s -.. I) li ve li. I !, i i t -. e
lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'.
Vli lascio andare un si fatto tempi orie, (li Il I p. e I3: il FI, r,10.
I, VS (I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V con lisce nel 'I e
a.... Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l...
V ºsci.. ire in dotaria il 1: l ' il solº Irla li hit: l.. Il V l (il
l. Il tir,..... -: i li' si lascian andare alle vogl e le liti i:
Segni, Arist IR Nota al Verbo Lasciare (it), Q Ielo per es., a
ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io: liti Iddio
non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di
iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio. l ' (il d. ed alle
la li lasciar scritto nel testamento..... clie..... e la I Cina lasciò che vi
e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\
di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I
o al no si perarlo: lasciar di fare, ecc. (il l. (''NN (I l ' () mi e't le I e
Iºl ll. soli, col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l. (I
) S I l esso la I l: non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella
poli's e..... ll l il..... In generale questo lasciatmo sloti e che,
lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i
non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a
lasciar andare. (I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri
lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N, ivi, di ques'a
ll'ast: la scia i trialo colpi, calci ecc. l.i v s ital, e fa gr. Il colp.
N/1 arm care I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma
transaliva (man tr. I i l etillo, il soccorsº, Valli e all' ui la promessa
ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric. Il mancare dei seguenti
esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar
di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro
che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze
e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai. e anc, di questo lo endeva
la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia, a pill
tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello,
che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere,
e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo
mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o.. 621).a Io
non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa
vostra. » Fiel (liz venir Illello.a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo
pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit, nella [llisto il I (i:I
lillili le, non le potè mancare.. I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per
lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si
evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a
me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel!, li Note
al Verbo Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell
il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ()sservo i li. di Illes, c del ese, il
pi. l' Iso di ill siſal o mancati e ai sbloiben). I l personale.
N/i a nte nere Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V: l che è il ', e ci li
ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº', si l' eſiſ, i c'; cli) e il
clero e slm Ili. (i: la rla i 'i ll ll 1'. - manu e nitori di un
altra g Cstra l': I l (.:I:. Mante:rere a pianta d'armi, i lil. a.... \, - ri ),
l e l'i; e cli), a mantenersi, I te, I? I l. ragioni colle quali essi
mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo.....
i, li: l 't a r. e semplice (r se I e ! -.... a.... e per chi l'inge o iv h e
le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.
N/1 e ri a re Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche,
frequietilissime 622, tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga
l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST (N VTE – MI ENAIA
COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani
le.... » (ii:lln), (. I meitai:: in Ceip 3, l ità ell.... Fi, Uilz. (l' -
er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per
rac i '::: l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò
un fendente e lo tig iato un recellio.. l i menandogli un gran
colpo... \ | | N, \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N
VI A [...... \ l.N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I
vant 2 figli di eli. - !. !. I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci
pesciatelli di questi paesi ed l.. ssa Iar danno. 2, Fierenz. I: i i li l è
l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii !..l. I l v..... I menava tant'acqua:I pm
i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini.. (a val n. ll
e illlia dell ', o di fuori gliela "; l., i menando marcia e
vermini, e un puzzo intol l si, il til - i lº': i \ | | N V |
| Vlt ) (i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per.............. l e, g i |
tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l'. ll di 1 l le (lulello lì
ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».
º... » lº, \ | | N V 2, i v 11, 1, 1: i menarlo il Saverio) con c ss; 13
i: del pari. I 3': Mlſ, N.VI è SMI-AN | E lie il Viglil I |.... l - ne
menava smanie, In il a il l: il b :ljat per poterla va le 13
c. t 11: me itava smanie. All.N.Al ' () IR(i () (i LI () (li..
I) esi, it , l.: 1:: il l nenare orgoglio., I'l' se Fi \ I f.N
AIR E S | | | V (i V | N A -, l lorº ! ! ! !, i. nmenava ovu: ii
qua si ragiº e rovina,, (1:: Illi. \ | | N A | (i il li. (º
'N. | 3 | () N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui
'cr. l al 1 l. A | | N VI, IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ (il ..
!. i: l '::l IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc. I nne
maio il re i re giorni in parole i I 3 l. El! l i 11 il
pi meno per lunga ſino I l. i rmerava d'oggi in dimani. B:
i (i:º: (52 \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. (-
i. i lo si si, l'. I I Ili Note al Verbo Menare S i li
cias si i. i issili li e v. " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si, i lr 1
tl, mi e' mai rsu Il le, lilli il la la niglia e fa gli menar su. Si h.
Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil
I lili. L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al
l una sl 1 e qui. N. Il cice gi li all' al i sii isl l'allerile cli li il.
I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut, (iiill). N/lutare Tra r
utare, perrr utare) S li li ma alle li e oggidì, sulla: i la il alla
liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi
luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una
cosa al li li lu. I - ll 1, i \ I) Iss l Suff: Inarco: () 1);
13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o i
mutarci di qui e andarne e. 13o. il l e l'en veder lui mºnti iava mai gli
occhi da lui. m (S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e.i, 1 'la, le col
piedli nè con i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº(- e il
telº dove ci permutiamo? » S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si
per N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad
l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l. ll
li l la ll al re dal monastero. t i vi l I C c correre e di
bisognare, far i sli, i i i s I, -, il ll pal i lide si con i poli e ob, a
Valli, incontro, e il 1 l ' ', ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e
incontro a... –- vorkom men, 'n l I 'I ml, li mi cºn silli Ill.« Egli
occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire «
cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei
la parola... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.«
Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so:
la fida |a, scrivere.... » al V Vell:ldo. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I
servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit
si le lis- c. ll -- sl ful (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote
Iria Il 1: e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz. lli
ll V e' ('il logli il lil, il to,. C c cup a re E | 11 n.... i
violsi: esse e occupato da un aſ ſello, dalla rirti di
cliccchessia. «... I l l da grandissimo sito pi qll st: giovalle,
occupato. I 3o. «.... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e
so. «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori,
(iia Irl). Io lili Ss, il l)i, e l Il gla i ll I ssa Il II li altra volta
vi dissi, o il gi:: le pi e in molti i vi: occupato; ch'io I lli sul pe:
lo....» l': -- I v. C rci in are con leggi: iri. I l gli allori
clas prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li (il lill li
I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill. cliecchessia ecc.
colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll. sporre, s'abilire, di risati
e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi
l'Irla: orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l' ('i.
(º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l:
st i ta.... lo..... se crdinatc Cine dovessero fare e dire..... I 3,. E st e,
con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli, sOrdinò con lui, il V: i
villi llles (la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e
siccome egl o avevano ordinato, i. Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi
peccati....» (v. l. E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il
lo; i il 1/ Ca Val:i. E li si s. p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle
- e il l. crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s. I l Ilioto
grigia: - tlil. » I) i v. Fassare Nella Sez Io l' 1 l ' 2 (p. 2 Sel
e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct. I
soglielli in sl ratio al 1 li: l ' si e li alie e di questo verbo, note
volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici. lli: passa i
tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i
lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di
sotp e, passa la bene, passar notissimi, sola e simili. I l soli i pll'ic
le solo alcli e oggi (lell' Is. I: l: vi l le passò tra loro.» I ti
it) Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i li... o lº
i. E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it l (',! l /. te
lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli
divis: ta.. o l'iter l/. Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.«
Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.. » l'ier Iz. Deside. I va
in il caso passa. 13,. e - l III:: l - l si l sia sempre mal i
Irlato, il che passi,, ni III o li si s -., Sog Il. ()g! li cos: passo al
contrario. l. I V. 6, lº,':ls, ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1. si
III dialie i cvelle ci passiamo., s - I 3 i “.. i: -1: l I l. I jel, lo ero il
tie-t: -: i Ill 1: II i l:: se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll, st
1, s. ll 1 (- Iº, io -, si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3, ti i? I l bene
passare. » (: l V l. 1:i.: l 'N. ll si It... sll (! - I i s l e Ileli |, se ne
passava.:I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l'.lo a V ! ! ! ! ! It,
passarmi al tutto di muover parola.... (iiill. - Ma per che io ci, l... - Za li
Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li: l la lierli lie) - Ss ('ll
lo 'll C (i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente
passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se,
io, Ill. Il lo ! ! ! ! I V (le, l si passava assai leggermente. -. l3 i.
Il II III: 1. ll bh, l' - rili i li li I e il... Ma me ne voglio passare di
leggieri. pe. ll 11: - illili allilnali.... po;: quelli li ti Nolti i
ricorsi i lorº li: I ASS \ | | | | | | N () IN VI, I E l va il l per passare
ol: ti III lili.... B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - -
- p, e vedendo...... - ll I |, il de / Il l l io, s'ils - lli, del a - o e
passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v.
Iº V SS \ I? I, I ) I V l 'I V S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade
s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re
-si l e. (a V al:i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1, lo le tu di questa
vita passasti, stil a iº l ', ill: l 3 a Dopo non guai i spaz, passo
delia presente vita. » I3. Note al verbo Passare () () Il
passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni
e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l. (i Nola
la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il
rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('. (i
12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è
di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la
no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li
lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen
ecc.) (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le
fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig, l ' loli e il
rall e il till ', loll dal Selle fastidio bliga (('c). (i i l'. Il
ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da lIl 1 ll I go..
ll ti i lo ) q c'h ('ll. Ferm sare Cerlamelle che a definirlo sia,
come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll:
cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio
a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle
coscienza, non pensare, – non è Ian, facile e il rarvici e intendere il colme
dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità,
e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto
e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei
modi: a pensarla –- sinonimo di lenlellarla -, sovraslare inne hallen,
ille si elen, rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za
conchillolere, risolvere o Vellire ad allo; lo pensare una cosa, cioè
indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla pensando:c) pensarsi,
immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche: d)
pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie,
Parte 2 Cap. 2. Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare
sopra i na cosa, di una cosa, che è l'uso ordinario del V b
pelsare. ... era li a lui la pensava, l... l), V. lº da il di illi i 21
pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o
id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli,. p; estini i
ebbe pensato quello che eri da la ! e, e il Salil il llo il disse. l
8, a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ
n loro il c i i liv - I loss,. i: 1- li il Sel può pensare.» 13,. E si pensò il
bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3. Mi disse
parole, le qll al 1' mi pensai (li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l
' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto
li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si
a Va - lo s... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl),, lov e l'll
el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi,
irrina - ni ndosi. Fiereliz. Nota del verbo Pensare 533 --
trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl, (li lico come si è del [.
e sta per ci pensiamo. Perci con a re (C coro ci cori a re)
Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè
lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè
accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi.
rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a
denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc.
l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12. ll I po V e le dosi di
III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V, l ' i'
/ II; di Es po. N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I
I I I I I e l Si l Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le
i:ì li all'ute, e il l i -, i isl al lilia? e. Ed a 'e la in condonisi di
recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che:lol V - si ill o il
litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che
avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa, i ta, li l... » Segìn. -col
e gli... oi, illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non
perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el -
1, V., – lla slal'e il nido. » I );l v. se polesle.., 1 l l i gia che
perdonereste a denaro.. Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed
avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render
beata?» Fºro cacciare llo is o V al I e il I e il I l re di pi
curarsi, o procu 1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels, VII l
essere illeso anche il I 1 (lo: di malati e il p o ti º lo gi la di più
l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del p,
r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in
molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii. (il è per or |, se |
-s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '.frastaglia trieli: e
vi dico, i lle i procaccerò s. viza la, che voi di nostra e brigata si ete. »
I3.Volla procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o. « Il llla e
Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de
lalnigli, che si li/a. Il dilg 1, procacciasse di su montarvi, e e L, i
lati. Itasse ciò che Vi 1 - - o lº. r a )ra si procaccia Viati.i:i di
avell are agli al s oli, (! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e
co., lilolte lag rili. (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia., lº.. )
- I tos, l l Ilsl rios,. a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo
si pollici se il dl Il: l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria, i
i' si della reli gione, si, ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. (i: i
i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che -
procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11 e disse loro, a dire i lic
va ri-s..... - il i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I
sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. (il via l. e º pe; soli i clie
il vºltº il rii (- si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li
li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia
ben guardato, e Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e
11est: i stanza li li l: - tra, (. I v Sſare.Procacciando d'aver libri i -1: l
silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi
coi laici, e c. l e perso le di l -si l III: ( Ragionare Notevole
l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc.
2, a val I e di disco, ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di
checchessia ecc. e t -, la e 1 l, i -; tiri. I ll zza. ll (iesti ila -s,
e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº., Cavalca, a IP Srla
e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i
ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato
m'avete, a che Iriella: il rili al V Ita el l Ila. » I 3.« Come il di Ill
venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. »
Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò
non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di
diverse novelle, o Bocc. -.... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di
diverse pietre.» Bocc. E' stato ragionato quello che il maginato, avea di
ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del
mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla
per te.» Sacch. Nola da ultimo i nodi: entra e in ragionamento v.
Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel
ragionare, i sul l tgionali e ecc. e.... e di questi ragionamenti in
aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i
lori i l a l)io. » B cc. Rinn a ro e re Restare) (ill: il da
colli i lill li si l Ill li Ilsill', li, elillica nelle, il Voll)o rima nei '.
I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me
si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie
selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g. I li, che
nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art
firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st
il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In
li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n
i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per
venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13, i.a Madonna, per
questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc.a
IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li
portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io
non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i
nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn.. ()
il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - -
ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure
per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» (es. r ....
e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e
voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me
sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast: li o!' « contro a
Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at, e li pil
re: che se a ne potesse rimanere. » (es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l:
I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di
più opporre imp, dillio Io...., (es. “.... ei percossº. Il lin fascio di legno,
e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. »
Fie A. 537 Note al Verbo l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il
II lil in qualche luogo, è rill Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi
dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la
ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll: 1.537 – - Aggi Iligi la frase: l in an
rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d. « e cosi gli raccollò IIa lo si era
rimasto col giudice.. lierellz. | | - Riparare giarvisi, ricoverarvisi,
prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia,
prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc. e lº co-l
facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li (Illivi ad Isllr:
prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino
che (ºgli il [..'Irld). o I3,,« Nella quale, Fiesole, gran parte riparavano le
sito soldati. Aln. « Nella corte del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il
figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. » I3o. «.... e
avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili
con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei grandi spezza
Irnelli i che vi la line, le cellule.... I a r. FRispondere Si lis: per l
en le e, l ali che si appr. pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si
st l'1, ed ali e loro entrate,, le quali di gran vantaggio bene gli
rispondevano. l'8 c.E,si i si l:n linzi li o gli rispon deva.... » I I.il
rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle, o Ces. \ la ti
tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s (si d. io, e - ta la
io el l altra parle dell'andit, I Gime r spondeva nei cortile..... Vl in
1/. (::llo iella (.li es, e a tinto dal lato che rispendeva verso la casa
parrocchiale, a in la I bitulo, il 1 bugi a: il ii Il \ l: il la.
Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g., di una fi I
solº i di qualche logo. il ri si il V lente a che il fatto riuscisse, l V
e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll. e qui riusci la fede di Il sºlte. lti...
» l al [.. 5.3S l..... il che riusciva º;; l'orto della sua casa. I leveliz. !...
ll le gabbia e gli altri o il certo I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra
una bella pescaia di dettº Villa. » l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad
cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed il (s. Note al Verbo
Riuscire 5:'S -- Nota anche il modo: riuscire nel contº aio (l?art. Fier.
Ces: C' ('C'. IRorn pere assolti alle il c. e di 1, il I e pºi e' ipi di
isl, scoppiati e, a Isbrerli li, re nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il
1 ot, la nulli), il ſuo Srl, il l i tic li e si il ()sserva Colle. spia º
la r la e i d g romper nelle I):ì v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna, si
i º la ve.... » Bart. Ma:ì colm pass ºli d'ºl - lo d lo c. lI l a zato a
rompere in questo lamento. » (il.... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la
più Sfornata tempesta... » I3: it..... ll si l il Iss....... si ricco d'a ll
sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al
romper de' primi alberi 13: e () li liseri e vili e le colle vele, il re i
riposare, per lo irill (o di veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi,
l)a 1! (Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7:
che rcrmpono in mare. 5 (), IPass. A 11aloghi al I o mi per e silciello,
solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi I l -, di risi) di cui i ne sfr
millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira
hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l
(t poi i lil si al I olla e. A vizio di lussuria fui si rotta, (ll iil I
I: i (il bi' -ilm o ill che e' il ci li lo | 1:1,.. ); I l ' e li o di po; con
roito parlare disse a I io -, i di loro chi sono pi posti a go. erno dei
legni. li enz. !, si parti:: rotta ». a MIozy Iºirellz. In t....ti,
i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS. Note al
verbo Rompere , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol
sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al
'.Sapere Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a
inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere
di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper trovare,...... lill
il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº,
se per male, saper meglio, peggio e o il il I - sapeva ed il luogo
della donna, e la t o!: liss. 13,. V sapete bene il legnaiuolo, Il
tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ... si il gialli avi,
le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano bene
la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle (i val.i (o si º
li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio (a V alcºl.I ll (lº vi o li sapendo
la mala volontà di Alberto, (ii:alml). l'er certi ti metti da campi che a gli
sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli li Ino; i
do ». Cosa ri. b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore ». I o.Sappi
s'ella:): voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se e- l si, val lsi
ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it: l. Il tº
sappiate come stà ». I3.V e li li io e sappi se con dolci parole il piloi
recare al piacer mio a. l 31 \ lorni il meglio che sapevamo l?o
l?art. a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che
piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli, l'iol'. a
Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che
una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ».
Manzoni.Note al verbo Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di: super gi atolo.... e
noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica... Fierenz. --,saper di q. c. –.....
In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il
prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed
all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per.....
rale rgli checcles sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli
nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo. gli Scusava altresi
tavolino da scrivere, (es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i li
(. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita. ll Ior- e la vi a a la
fortezza degli altri due, gli val-e, gli compe: so. I3: rt.:I III l st 1:1 -
lli -, e o l il l: N velli re º il l il lii lutti, vo: ebbro
piuttosto scusarsi. I), l:iz..... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso
I, pe... li: l ' li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli... (-.
Sp e dire (Spacciare) Dicesi | III o spedire che spacciati e
negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od
eseguirne lo ecc. I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati
in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed
incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve:
id I e, esilare presto, agevolmente non E spedirsi, all'incolillo, il
senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e
lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire -
Il s s', si e' li i I ispedire erti legozi. lle gli erano assai l | 3: i
t () s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l (- l a \ si
essendo espediti, e partir dovendosi, Messer (I espedita; e le so, i1 il
- ! i, i l 3, lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va
per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i:
Il mat. Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi
spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI.....
In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o ll
Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro,
libero, franco di \ si lss 1 e 2 ti el: - S, (Spacciato se ge il tº l l )
rls, l il s ol'l'eva.. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello
spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est.l. I li: il li li di
analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi
lit l. la sci: lil el l Spetcciarsi lºt'....... si li util Napoli, il
rils......... Stu ci ia re Stu ci I co N sl 1 la sl, slultati
e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so,
il lendervi con solle Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo
fa rig. I titti i panni i ' iosso gli stracciò: e sì a que sto fatto si
studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo,
dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore. No:i
lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ».
Pass. Forto studiare il l re. ll - ll -si l... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li
studi in ben parere, 1 A v. lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se
la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni: vi ss
v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - (il v; l'. No ! I V il r!
- a te, ma studiate il passo, I): Il fe Analogo a questo studiati e e il
- si liv sl ulio le s - le I sei pi Sta per cultura, affezione,
indistria, premi di li solleci il ne. I bassi, si per 'o litig, e, oli!
studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II, e odori | ero III !E
fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. (il V: Il l.lº ! ) ll è
lo studio il "l: V (", 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line
avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -
l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl', el'. lºrosſo si fa tl o studio di
vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa «:i va ilzi 11(lo..... r. C
-a l'I.Questi pie: i l dicazione.... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n.
Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e
s ii: i re, i quali i:ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll
fortd) ». (es: l'i.(ollsidera, a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e
in larni il | il il 'Si a..... i. i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed
il 1 st ): -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i: - il:
zi, d ' 'ta, l o: la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si
sfu diava ». (a val. 1 bello slurli. in re o si riali, per ni.
Slare di sl italio è ſl se elilli, il V,le. - I li - ci del liti.......Term e
re (Attero ere) Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che
allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul
lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali
ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi
lilzi ille. N gli ese, il clie sogliolo: lº I. I so di lenere per
legge e, ritenere, in porta e portare, occupare,: lire, ci si r, si ri:ll.I
terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s....., l 3 l:\ e V: l
l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V.I le llll:lollo solo ne teneva
mille di l.... Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di.....)I i s tengcno, le:
l li vuol divenir beato mo Bo, ritengono, insegnano). -, s.............
-: teneva i li, i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli
». l)av. (portava, il l, l. S S.,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se
-: i e letto a filo il lo ». l ', SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si.
'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l'... I tl
V. º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E
nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse. N
potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. » Il
lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in
Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li: l.S - e li l silio, e si tiene e
per il cosi è adulatore di sè ss., V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il...
attaccato, legato, olbligato il per l'e,.. al c. aver fode, esser a
L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente, Ambra. « I'('la, cals! e
1, V s'a tiene il..., l 3a lr. Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla
Attenendosene S il li, gellolt Ztl....). Si vl it -:: l si. « E
pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante
sarte, ll l'Int irli E' pi 1, la volta gl si caricano sopra bufere di vi
1!...., l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere: i l: NEIt (SCI(), IP ()I? I \
I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'. i
ſicali e le per rielar l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l. (.. Il
lilli lo il 1 ll 1 i gli:iltri i l ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire,
a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll. Lo Ialo a Illore delle
cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti. Simile:
TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco MI, l' 13e! oli e
veri e I l Is rezIo coi Sere.. (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1.
» I3 r. l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per N
S. I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi
essa. E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S: MI i beni vi prego le vi
ricordi il l: III e l attenermi la promessa. I. l'ENEI E I) \ N VI
CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N.
per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In
sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V. a 'I'll.t: 'ls V -,
cini | Cnea C 9 l l'uno, V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l
(''le. » I 3:. ch, coll'altro, l 3. III, i ql el l.... I | Il t.
Il I | NIEIR (IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat cosa, poi oss. (la
e il secreto di ser lui i c. 1 li tr\la V e V,i In 1 in la di tenerlomi
credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un
pensiero che l lo II v.... 3. Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? »
Boce. l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - -
Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo
ben far nemico, o I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso
atto e piano de Laudesi.» 3 m. I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che
tiene insieme del ri tirato e del venerando, (il ri. | | N EI ) \
VI, l N () | N \ (() SA, lu' i lat, i guardarla ('() )llº dolla, procu i
ctta la ecc. Tengo da te lite o lei lo 'I EN EIR (i It VN I \ \l I
(il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ()| I \ S() | | | V. e
sillili. il il l'ono a spendere, tenendo gran il l'I) leggiando....
» - z: il l ll dissima famiglia...... ontinua in lite corle, di mando ed
I 3 ). Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl, l 'e ivi teneva
signoria sopra di loro....» | | (ºl (': l/. I EN EIt All NI E q c. S.Si
Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,
l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I () per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o
d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè I lill I l: e le terrebbe a
nnartello, o lº s. Silll I | \ / solisti, cli, li i rilio a ppa: eliza di
vero, e poi lo reggono al martello. I renzo Vledici, I | N | | | |
V Iº Alì ()],l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora
te nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li.... per
mancati e poco, a un polo che..... l il pcco mi tengo e il 11 si l V: l...
l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull
lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l.Qll
('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo
le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g.. lIl l: ss e
ll l: 1. ll lentº. » I3a l.\ III:il t 'ito si tenne, li ll i no! I lºo. po o II
lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce.
S89) Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re, e nel parlamento;
lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N..
ed all 'i lllolli le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le
Isilli, Note al verbo Tenere S85 - Si inile ſi ſti, slo, le
nei c. ss it ella di Illi, Irla il clii: lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | |
|.. l..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio
sollelizia I cle sia l al dlel', Il si ſti e mi ero lei libri di il. SS5º
- Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica:
prendi prende le simile il lencz dei francesi. SS6 Vlialogo è il modo:
esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat)
) le nu lo. I3 cc. SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai
miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I
Na'im. (sil I lili. SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella
lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il... I per il lig, dal pascoli
loil, lo parole (t' '. ('. S80 – I radici: lo si si il... o da qual
cosa i, sia | ralleli. Il. obblig: il, che il... E' il tenersi cl Ilia
cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº
partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui, l ' i', con il l
ecc. (i II l la collo e il lido: Nella lira e bri It i 'i: occo rit... »
Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano.,
all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill
lento di coloro, a cui toccano.... l. I 3 ),Qi lel il li illli le l mondo si
spenga di fall le, si lle l. ll i non ne tocchi una.. l o. - TI (ccchera il va!
ii, li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1.
Giul, che non riguarda lo) ()iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello
alate.» Bocc. Nill riso si v l.., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo.
rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i
soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve....... l):ì V. \ i le li
si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc. Nola al re niti ie e ci si
parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li: l occo, locco line (C
VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)
Si occo l: ve li e la sto male. » l'a!. l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal
canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti,, V al
cell.I l toccarne il 1, lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m
I.: si Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ()((V
| | | | |, I ()| S(). i tcccatogli il polso, i' 1, V o li s. Il: le... »
l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo
trovandogli, tutti per costante ell ss (lilor | o » l 30''. I N A 13ESTI
\ perchè cammini, \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello., V S. (, l.l'ARE
AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ, « E' facevano al tocco Per chi avea
a morir prima di loro. » Buonerotti. DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO
dare un cenno e passa oltre). I N A TOCCATINA I)I..Rizzasi in più con
gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi. l'() ((C) I
)I.I.I.A (..AN II º VN V. Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. »
Vill l: I I'()((AIRE I N I VV ()|? (). « Ne i pittori le sºno
ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini. Note al
verbo Toccare 892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e
sigilili: mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc. 893 – Simile il modo
volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop pio significato della
maniera: tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a
lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che
veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in
Africa..... » Salvini, che essergli forza il farlo. Se così ſia toccheran ni a
star e le Mlach..306. « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a
navigare sul quo e sſo Irla l'e. Magal. Va l'. () per il. 894 – Si
costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare
tal alcu no basl 1 i le ec. li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e
va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e
alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra: l occati sconſille crc. - -: e
dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono
citati anche dal (il era l'elilli. 895 -- Si ſa gillando uno o più dita,
e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere
(Torre) Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar
via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole
l'uso il liche il lal senso. Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare
significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia, e li on è altro,
a mio il vviso, ci Il loglie i re Isiliv, cioè la re che al rilolga
ecc. Ollil tit, il... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse
non li lall, ll: il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel
poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da...., (amb.No
orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. «... che pole! (ll
gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi
tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al
letto... I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo
miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io
hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle
slo sllo e Irl, l e ss. r. ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava,
13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al
Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ).e
tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a
liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino
di mill' arci li lill, (and l: le altrove. B 90?) Itender enn, Ianto che app,
ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e
toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante. si toglievano gli uni agli
altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00....
o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o:i sperandovi con rili pro averi, o
togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i
molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che
alcun “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl
bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per
certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3... io ti
dia, Ili venga a Ito di darſi). 905) Nola alla ora le bolle illalli, l ':
TOGLIERE () TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi
di....., e Tiberio tolse a comparire in le; so I, a ! !', e o, e di
ndere.... » I) i V. « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per
la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt. a MI:ì io sono illttavia il
di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » (es. ll i.
si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r, slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo,
d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov... » (a r. a Togliendo anzi
per la sempre tra i - llai, e li rili: r per quali mille. » I30, c.
TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere. « l Il
cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi
le era preso si inen, l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo...., Sacch. a E
debbono esser da ci o e i lini, l III lo igani e di quei film ha tolto a
liiigar II le. (recl, liz I e V, l: il lil V III in: l di alle 11 e o (a ro. a
ciascuno tolse a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. »
(iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a
collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci, o
dello Sf i villa ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch.
'I'()| RSI | )'I N A (()S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I
morsi. Nn c / le re 90(5, Si tolse del tilt to di comparire i. a
Cosi i miei avversari si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla
speranza di vincere. » (le-ari.T()| | |? I | )I VITA -- 'I'() IR I)| | | | | |
| V | | | | | | | | | | | | VI () NI)() ll ('ciulo l'o, a ()li re a cento
inili, creatur il mare si redo per cerlo. sser stati di a vita tolti, o lo.
a Acciocchè una medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e
figliuolo. » I30. Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.»
Label. « vera niente io Illi fa i in V a Il, se i di terra mol tolgo. I 3.
T()RSI I) AVANTI. a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal
to n ebbe con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V
F VME – I V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907. lei li l o, le i vi ve l e li
la volta con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene
una satolla. » I3occ. Note al verbo (T cogliere, S!)!) - Nola
la lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il
lui.... 4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi
levarsi. 901 - VI li ra e il lic.. bella tanto, la quale torna al dire:
non gli a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse....,
od all' di s ti riglialle. !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren
loro modo e rut, ci si lal si ch. 903 - ci è ricco gel sole, i VV e li '.
90, cioè si prestavano. !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla
la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re. !)()(i lº pro isalire
le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo: p. I giù smettere Pon gli i
ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc. 007 - Si riii: una
corpaccia la la ne, prenderne una buona si ll: l. l 'iel el Z. U
sare l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'. Rollo
nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra lingua.
e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè ne dica
il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua parlata ecc.
ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser solito a l ora i
si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il, and pilºgan e.
Notevole anche il modo: esse usato, esse uso di fare, cioè aver l'a bil udine,
esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e simili. (), a avvenne,
che usando questa donna alla chiesa maggiore.... » l'80ct'. a S'uscì di casa
costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti. » Bocc.« Le taverne e gli
altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. » Bocc.« ma pure
accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto nella casa usava, non
potendola ad altro in li!: la 1; i ''i corruppe.... » Bocc. «.... io cercherei
qui sta po- - ssi i li !... ciov e ne filmi, nè ruine di piove me li potassolio
tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi ſul - -. l'::::) ): l ': -
- « In quel tempo usavano relia coi ti atia li., Fioretti. « non colli e
g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni., l 3' r. (ſ « Si (lio
(le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i e !,; - i dile tt - «
Vallo. » PO (('.«.... il quale il più del ' t com........ i usava. » Bocc. «
Quanto più uso con voi. lii i l'.« Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e
pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri li.... Ave id si «
adunque quesi a pl (III essi il litº, e l'insieme conti: uamente usando. » Bart.
« senza che, con le era usata di fare, li l --: lì la lite. » Bo. a º
miglii, l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0.. « In quella cav, i 1,
dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati
di far ria cr:::º, i s; » I30. « Della quº: l' orizi in e non era usato i
(- a e que.li o n t e li ti o 1: i e i piu « di tali servigi non usati. »
l': i Uscire (915) (illal'da b l'1!si, e i ti: i usci) e di che che
sia: ed aliche uscii e s e 7 il l '. Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ
to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S « Con la doſe
- ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c. « Se io uscirò di
mia natura. l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di
veder costei olla gli usci dell'animo ». Bocc. - E benchè quelle bastona:
in avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti
la illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All
III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di
lui.» (par issi, an dl -- elle.. cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci
Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l'
rola v... esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia...., t, i
fillo. Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ': l S(| | | | | N (VN V (i
N V (ii: l: l. l S(I | Rl, V | 3 V | | V (V e si irrill a Il [il 1 nº.. !
!::: sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ):, e filiali nell'
l'all ss:: I SCII? E al alcuno (N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, (()N
I \I IPI si, il i. a Ella m'usci con tºn;, rºm r Gb: i to adesso ).
BOCC. Note al verbo Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine
Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº Silllll ((. t ('. N/ e
clere E' elegante l'uso del vello redere per gliardale, in luire,
esaminare, scaldaglia e, investigal e, (s.srl.... llle: « Pre il lo non dove
ero li ' t.. corsi stili alimente credere, senza « vederne altro. 13, l l
lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra parte, che per avventura aveva più
ragion che danaro, « fieramente sdegnata, volle vedarla a punta d'armi, e farsi
da se giustizia « con le sue mani ». I3art. « Vedere il vero e il falso l
' pt: 11 i ti: i3a t. « Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II.. itti «
e.... ». Bari.«.... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e
le - - - « in altra religione pil di gºla o li. I |. « e vedi
con lui insieme i fatti nostri ). I. « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le, pli
i a º il pi Inio». BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le
" I to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr: per gl a Il cas.:: i I), i.
« S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917. Fra i
molti altri usi di questo verlo. I l I e voi li ricorderò: AVER VIST.A
con ulla rislut (t l'ºut, li lli il 1 l 3 ). FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [.
\ EI ) (I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr,
Fare Note al verbo Vedere 917 – Notale queste maniere, realer
modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il
re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co. Volere Si usa a)
per convenire, dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente,
sì al singolare che il plurale -: b per essere per segui re una cosa, mancar
poco che....: (per opinati '. a rl'isti e' Noterai da ultimo il modo
voler bene. Il quale si adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta
lenº, o cosa simile. 922. « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi
ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 (. l « E' opera si grande e malagevole
che di io si vuole chiedere consiglio, º Fior,« Andiam noi con esso lui a
Roma ad impetrare dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri
ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe
aver misericordia». Rocc. (923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel
fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle
fatiche, a qual conforto più onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si
vuol dire». Bccc. nº n convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si
vogliono più sostenere » Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il
beneficio si vuol fare con faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a....
e che insegnando egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e
profittarne e si vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta
o o infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro
e fuoco si vuole attutare ». Segn. « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti
d'Arezzo volle ossel tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no.
Vill, cioè fu per essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via
impedita, per la quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte
morir di dolore ». Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la
vita). « Gli volle dire che..... –- In:a.... ». Fiel'. « Pitagora ed
altri vollero che esse tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista
l'olio, ills e gla l'o; 1 ). « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che
ben gli volesse ». Doce. « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto
Siele ». Bocc. « V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o. « Tra
lol' 11oli Ill lin: i lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben «
matto ». Malma lì i. « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli
lasciò in capº un ca a pollo e le ben gli volesse » l Note al verbo
Volere 922 –-. \nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali,
oltre a molti altri che il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è
quello di far l'ufficio di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni
altro i b – I rill come, oppure I shall come – secondo cli l' –.923 –
Come il verbo volere sia per lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia
alcune volle senso di colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln
(loressero dale « il ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro
galido la Madre sita che le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve
egli era o. Ca valca.Trovo inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi,
ado perali in questa follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli
inglesi, i quali veri si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio
radurli rolere o dove e.CAPITOLO II. Uso va a rio di alcune altre
voci Olli i Verli di illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo,
argomen lo, talalosso, lui nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto,
mano, netto, pello, pºi i lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente
e vario è par li i lili di elogi rii si rili il. Si lornali o con esse di molte
e belle ma nici e e le viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito,
quella pu I A /a (li - il cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e
classico. \len Ire le palli elle e le voci in generale della Parte I. di
questo Di i 'llo io, li li sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro
all'assetto tegli in mi collosi e non li alla si irl Il ct del lisco so, i
vocaboli di que sla l'arte, ed il l cie: la p. l rile, sºlo per sè, e
precipuamente, for me cloculi e, con l'icienti di lingua. Da quelle le
compagini e la curva, da [lles e il salgle e la polpa. Arm irro co
(illarla come e in tranſ e guisa ne usano i buoni scrittori. Suona press'a poco
quando disposizione d'animo, condizione, slalo di essere mo rale, e quando
intenzione 926, voglia, mi a. lalento, inclinazione e simili. Son, poi nolev li
i modi: a re e, anda) l'animo a...; patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo,
la stati l'inimo: nelle e animo, acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl
cc: dole ne all'animo; dire l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino;
ecc. già d'e è di 16 a li, i veri l piu animo che a servo non
s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in lizio il... » l 3o.... e se tu non
li li cuell'animo che e tue parole dimostrano non mi pas er di vana
speranza ». l o. se dicessimo per correzione e non per animo di
disonorarlo ». Mae Struzzo. « Son testimonio dell'amore ch'egli vi
portava e dell'animo che teneva « di farvi grande.» Caro.« Con animo di ienersi
le liti e li ſale: l it il venisse miglior « fortuna ». Gialnl). « Il
valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe Con animo di ' on oss. l: r. cosa:.
« secondº, che lle.i'animo gli caºgai. º...... parlit - i li fellone
aniins r i pieno di mal i alCºllt ();. « Così slibiti i la forza di «
fargli Inllta: animo ». I. « IParii-si a dillolti e i S::i,...
gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1,; s, di fare a Il « (ora non
Ini: - se. I3 ). « Ed avendo l'animo al di v gli 1 il gione, ed « Ogni
giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO.«
Non gli va l'animo ad 1 [. a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe
l'animo a at o...ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo., l: (: V., lº:
V.« Tu badi ad l? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai
ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » (es.
« Se pure questo vi è all'animo, i d a li.. r?S. Cesari. « Ed a Ile
liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.
« Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le
femmine contro all'animo gli erano.?, lº. « Se vi basta l'animo di ſei
rail. l 'in...... Il 1 li li. ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi l'animo di
1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta l'animo di
A ti..... l ie. liz. « Vi basta l'animo di I l Il « atterrirvi?» Sog n.« E mi
basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. » Fiel'('ll Z. « A noi non dice
l'animo di pa..... i da!. di ti liti libri e si lolloni.» Cesari.a se avrete
farne del'a paroli di Vill: il lidi: ) di potere, in que a sta Quaresima, ancor
piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si
lill, i. e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento e sì tetro, quale si è
l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a distinto a tal
confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion gli pati mai
l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s. Part. Qì la
- i i, ' ' nette 1 - 3::inno:: i ri. » I3(11v. Cell Qll'il. ll - oscia chè
così e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o..... 9.30 « Qlla lido,
lili si rivolge per 3 a: rap ità... » Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i: i
uli. o l'ierenz Note alla voce Animo 92C, Simile al n. inl degl ii
i: la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le
g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc: i
andar all'animo è sil lillio i: sè i ct g ci li chè a grado l'era, di lui
facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio per
disp. ll si o apacissimi di calun liare i lolloni º il lor casi di reisi,
Giub., andare («Se l [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno
». I3uonerotti (('('. 929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici: u n t then:
cs dal in brigen: se latire l'orl.... Vlt i ti li I l eguali sono le maniere:
(la re', di e l'utilimio, il cui oi, i n i cldi il cuore di Venire a il meno
con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l
IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti
si co. e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter
condurre » (tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S
affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza. (iilll)..N
'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di
significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di
volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in
pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi
sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l. Iuantunque suppo sla,
dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a: non mi sento punto inclinato,
sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri:
'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di
simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro
ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di
delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il
cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi
non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que
impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e
lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett.
rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol:i,
l in lui zzati l'anima, ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e
addirittura, Argorn e nto « Argomento è voce che ha molte
significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo,
d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931, « Qllivi: i foli era
chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r. a l'ile f. Ze l iv (): --. »
I3....« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a
dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B e fa la l la fra il
l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y
olesse... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«....
a zi, o che il natur:) del III:I e no! p. Iss e, o le la ig it anza de'
Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito
« argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc.
o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il...?
l): V. « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio!
piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli
argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra
liti sl lo: alli. » I)alit. « E d'onde debbono prendere cagi no e
argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav. «.... il
quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso « stato,
il quale il March se subit Ilmente prese..... » l. ll Il Illotivo, llli
appicco.)Note alla voce Argomento 931 – « Le malattie delle femmine,
prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo
che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le
loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il serviziale il
più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e
di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il
serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè
d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati». Aci
osso (A ci cossa re) Guarda come si unisca a molte idee e ne renda
più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili
all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi. « Escono i cani adosso
al poverello ». I)ante, « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. »
Boce. « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice
le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933) « fa che tll gli metti gli ul gli
ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante. « Oll - io veggo porre mano
adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore -
col piera.... » (a Valca. « Non pensando che, se fosse chi adosso o
indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di
loro.» Doce. 1934) « por gli occhi a dosso ». 13 i c. « Stammi
adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935) « Recarsi
sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa. a 'I'll rarogli gli
occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca. « No.l,
altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui,i della contrada « abbajano
adosso.» B, c. « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri
mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso
– Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè
dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo
adosso. (Bocc.) « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso
adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z. Note alla voce
Adosso 933 – Così dicesi: avere il diavolo adosso Passav), andare,
correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca
Valca. 934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine. 935 – Stare
adosso, in generale significa insistere, importunare. E a ri ci co
(E a n ci i re) Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso
legittimo di questa voce. « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando
di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo
ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ».
l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar «
bara (l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o
la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata
repubblica a....» DaV. (940 i liò i S 1: a li i vºli lº s...... II. l. 1 la lo
bandire per coià ir, lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i: e-
si io ev, e l.llis i in itine del fra tello la bardi, e l l i. E 'lo, li
- a, noi lo handiamo a ti: l ':17 Bandire la croca adesso ad uno v
addS80. Note alla voce Bando () () I )al band, gli che che
sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a
morte se vi ritorna. Testa (capo) I sei i modi anche oggi con il
missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll, lsali (lal V. lgo Far capo ad
uno:) I lil I e i i ti to o: io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in
visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le: 1) Inn l a t: o ti li(illi
lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I
fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº). dºtti, e fecer capo agli anziani
del popolo., (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue
cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien,
ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella
città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu'
a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch. vi
facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno
grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che
per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti
molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui
bit si, e sospesi.» B(Imbo. « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l)
I lili i: l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill. Fare
di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do. - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo
il 1 l il V, Iz« NCE, sapendo far d suo capo. In Illini i sa del mio, il lo.,
A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e,
i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth.«
Affel'Int) non di mio capo, III.) di s.it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le
Teologi, li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. »
Riel'el)Z. Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua
« di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: "
I)av. l la ci sonº e lenti a Tirare a capo – Venire a capo
ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o
lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi « Iniglia.»
I3o e'. « Volendo e pil fla III It, i no - e e, o ve le, sa o di troppº
fatica, « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li. « Iº gli 11 Il si
verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l). Ccrrer per lo capo a
llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli,
la rsi a credere,. E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo
capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, !, V: seve, lie - -; il V t's - o - I lie
a famente vivere nella lod povertà o I3o. Farci il capo - fare tanto di
capo V. Verli, Fare (ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e,
illt (ve: i re.“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva
s pitt, a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo., Cav: a. «
Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn
lo a quello che ell: V. I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto,
a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc. Si usa tanto letteralmente
che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o
la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa
fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare
una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero,
o briga di cosa, alcuna). Note alla voce Testa 941 – Di sua testa
non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza
altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ».
M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio (ne ».
Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o
Fierenz. A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi
di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una
tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne
scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si
voglia cosa, con le: l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e
simili: (Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per
intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa.
M. Vill. di buon capo farebbe ridere). Dicesi finalmente: senza testa non
senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo:
fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere,
difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia,
Prontuario). Cornto Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od
acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a
conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che
sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale),
domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso,
notizia, e anche render ragione dell'operato, arere in buon conto (in buon
concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di
checchessia, per averne cui i: « Non gli restarono altri ninnici che i suoi
figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria,
in Letraclit zieh en, il V e il considerazione: « senza tenere altrimenti conto
della sua obbliga la fede. (iiallo. ecc. ecc. Di molti altri usi di
questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti:
Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione. « davagli in commende i
conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un
personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia
di un ministro.» Giul). Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal
ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in
altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati
son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo
alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si
armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo
conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi, i
lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele.,
(iozzi. Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen).
« A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica
mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo
l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V. Levare i conti.
º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.»
Bart.Fortuna liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare
ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll....
lº.. col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a
beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I,
buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc.
e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui
asco di noti e, mare l'ortunoso e simili. Si crt ti ma i ve: lt, A sì
forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st, s, il 1 l e gran fortuna di
pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos. Il l tempestosa
fortuna esser na º |:) » l. e Ond ei pi, e ne rive in fortuna, l): nte. I.:
fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi
colpi la batte (na V ('..... I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill, sl -, mi ata la
nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o
miglior governo che....» Bart. N: \ e li coi reva a fortuna il t:: il e o
IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e
'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G.
Vil. I bella, li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per «
alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'. Note alla voce Fortuna
!),() N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he
la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali
birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente,
essere tra civili empeste.Faccia (Fronte) Adduco esempi di faccia o
fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli
chiarissimili ed il e lell'uso. « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li
S.,... ll, l el taccia. « Con qual faccia, s a ci: il I II, - l. Il lidi
e « la fede?» (il lido (iiudl ('. « Adunque con (.. I faccia « add
Llcile? ». (iil I l. a Ol' e il 1 - le fronte il il 1: ' ', i -........
« Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente
a ogni In. » (IV al a 95 « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle
', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis? S, - il. .... l «
Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11, Il). 9, è « In prima si coniII e II in
o Ill o. I l tanto che i « manifeslainen e li faccia, e li ri.. « Quel
che tu in, l): a l ha fa coia, (i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i. « UOII10
Senza faccia - Il v.i.Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale., Fl'. (1 o
l'il. « Don Roi Igo 11, l avrà faccia l: Note alla voce Faccia
Fronte 951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol
[i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I (n
le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi: a prima onl,
ecc. 952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli
lat. 953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce
di olio in Toscana per la ri. ligure, e poi, i a dover dire o far cose. Il li
li llo ci livelli rili il l ' il. 954 – ci è chi noli la senso di ver:
liti e di 1 ss ('. 955 – non si ardirà a far....... 16Fatica
(Faticare) Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo,
alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una
cosa, a la lira il V V el l con ſali, i pºli, a gre, ai) alicarsi una cosa
(cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men
nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il
sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la licati
e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e voll e,
i l ligar. E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n, e in riini della
persona, per la fatica il Irla l pa
evano le sue fattezze bel e is si lite, l ',,,,, - (il'er le. In le, i ai altro
pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per
dil 1 lite si l V a oli, il 1 l quali, essendo cia si -, i faticarono la nave,
dove la donna era, e' marinariLa loro si el e, e faticatº o ezia radio gli ali
inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii, e ora il mare, ora la terra, cra il
cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat.» S. Agost. C. l). PRT
atto Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si fallo (di tal
fatta di tal maniera: li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in fatti: fatto
sta che.....: in sul fallo in orielli-: iallo l'arme: uomo Vallo, cavallo
jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l. e piacenti porre alcuni esempi
di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie osservato
oggidi. (ilar la II Il nle iel, l a che va a mente, si adoperi que sta voce
alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora torerno
della p rs not n 1 micr, ii, ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire ſare, esse e
checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc): andatr pei
falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar che si
faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a me....:
disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc. Masopratutto
porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran fatto che....;
parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un gran fatto
ecc. « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani. »
Borr. « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de'
fatti di Calandrino il III - « E se non era il g... l in 1:1 lit, il 1 l
i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni. « Mossi a col il pass oli del
fatto suo.... l « Come se egli - lo so, o de' fatti ric stri - I ' ': l.
i l - li i ll it, l.E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro,
B « Egli sarebbe necessario che ti l. Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che
se nessuno ſi domanda ss e di cosa, l..., o la r. - del fatto iuo..., a
che tu per niente non rispoli il -si -
l: i si v; st: (ii « non li vede l'e (11, Il li Ildil e. ll tº 1 -
in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no], e, a pe fati
i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11, l s. «
Perseguitava una val Int. a quia li i - « giungerli, on.le la line - li
illa non ve li: l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l..
Flei ei 12. « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i
lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la. « Se ne sta ritorna,
che non par suo fatto. Vi rili. « Dice le cose, che non par suo fatto. I3
i « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun
altro.» Manzolli. « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin
egli il a fatto suo., Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o,
linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part
se ne andò i (iesi (ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo
fatto, - i: il l... » I3.. « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell':«....
e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti
darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi
a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una
volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne
una satolla o, Bocc. « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone,
col qual io discopra il suo pens. ro.» Flei e la.- - - - - e 11: -: la gran
fatto. ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo,
non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn..... pe. indos I di
-s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li
noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie, l: i
Cielo a voi debba costare qualche leggie di s. l ' It, i lil II l S.
In cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che
piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta!
to: Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto: ' ', p s a h si rai slm
litato dal pic a col le li,, l ': l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò
ad una a certa ri; l:1. o lº. I fior enti i: il: i a fiorini d'oro,
senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.(gras, a to - I l
ini l e.» I3o. E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i
1.1. I vig, l.()il -, vi i: 1 -... sse, e cado: le gran tolli, i loro i
no, mºltº gra.: 1a!! 3. (A, i tl ad. grandi e sanliº. Note alla voce
Fatto !)(,() si,s, li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente,
in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l. l'Iron,
pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu I no il pic i fi.
Mi Vili. - (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è
s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno. Dalle. «
I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co E'
Voce Ilsalissimi, si, i 11. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s -
che ad al lI'e lillgue 961, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua
del p '. (il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i... a no, la tale
solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che
iene la mano, a quello che li, al per: per a signi cioè che Ilon V elig l
srli. I -, - i.. l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là
di o l'uori lilli, soc corso, aiulo, banda, lutto ecc. « Acciocche a mano
di si', il ri non vertisse. I3o ('. « Venendo a mano il it - - il II, le
V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l. « Molti dei quali lug - I l a
mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero. «I terno forte di II
lilli i r... i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'. « La republic tilt
i, in mano. Dav. « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ('.
« E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della
sim mila (li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV. « Fare i voti in mano di....,
l 3:1 i t. Cºs « Manda il la lizi una marmo l.. « I entulli, Vlt
telli, l.li ra: no ci º randi. I: l.. « far guardare a mano di soldati.
I « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub. «
Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata. « nè
Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1, a S. Iplone.... a lºoce.
(Lett.) « Sopra i detti fili si da lol: ill. it e s'ilm « ponga
grossa i lile l'a lt 1:: e io i Irella mano « di terra, che s'è la [a di
sotto. 13 Inv. (e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de
la ri; in Iglia l'incon « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso
subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini.... l) o lo veggia, e porgami
la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad. I is: i o, che tenevano
mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li-, e tenienc mano molti
baroni del Regno.» G. Vill. !. (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i
serrano ine li piu se e, più per ſette che mai avesse I t. l. ti l a,
fere cenno ch'esse (le pie i ! !, l i º S rimise mano e disse que le parole che
- il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese). VI:
messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº I l ott...
m Se ntano in altre novelle., Bocc. 966). i:ili º di.oli perdere lo stato suo,
mise mano, l s... Il miº l 'ils li a l e E da', e, Vit. S. Giov. Batta. I
ss; Il li i lill I, il I.. ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I.(olis
derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il
pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l (-: i ri.() la d [.li mi
viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta
gli fosse. I 3, > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla
l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces. rss e il dover lol dire,
con lo costoſi alle mani Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove
novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i
qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ (i, e li gli ha fra mano ».
l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i
la S. » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. (:
e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat. S. ll p il
sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e,
i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar
come coi polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile,
i li, o a casfig rli, a lusingarli; « altrimenti, se ci piglian la
rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl. (( ((
(( (t « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi
dovesse ceder la mano. » (es. « Boezio pruova, che l'll in pole, il
II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » (il V: il l.« Se tll II letti ll !
!: i lil:) il il l il bassa mano l. I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi
p. i, t: a Ilio., (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle
persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? (d alta, Ina -
Ierio di vi... i mezza rilano. l' « Ull chiassº lillo assai fuor di mano.
l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. »
Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c. « E quello con lui
fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,
impuneInel1te). (( (t (I « Senza che al lillo, Iri: i i, ga e
1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò
via.» l?oce. « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man
salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no. « Vedendo
il caso Ill ! I limiti e li -. V - il era vinta della mano Nerone era spacciat.
» I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. »
Cesari. « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così
bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che
gli erano più presso. » (.. V: il 1. 9ti!) « Va', gli disse dalla mano
dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re « Così
tornava per 'o cerchio t. 4 r. Da ogni mano, all'apposito punto.» Dante
Inf. 7, 32 970) « Così duo spirti, l'uno all'allro chili, «
Ragionava ll di Intº ivi a man dritta « Poi fer li visi, per dirmi,
supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi
ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l -
Il -IV » - 'lue AoN « ossip o:ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp
outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel «
OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5 -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n
t al I ti Ip (in on ott oss, il o »: IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu
Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on
li tod o p oumul lo), ti: opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o
Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils.... N (pupoIV) optio.
Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il
lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod: II o II:
il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I lollflot ſpum il:
uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1, l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30
l) il pul) lt.)() () 'l l: il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s ..o):
I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool,
pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul. l I, pp.I: ) « oupul pl oood un
lap. tifi oil o sotto ll op. pddos uoi o! Io e,op is, l lo -ſim:(usu ) «
oum il plm lui o il ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S
Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl. ): l o il lo ſi un lp: i -lad
pl app:(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps: s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N:ol
n. ll o in lui lo pu Inl si.lol::: - -souloootlo otIIIss.Io.A.Iod o letti i l
o, on i lou, il miti il: msoo mun oumu to. I p.), o), mi: ps spel up it I pi:
oss. I lupu ol o toam:o)pſi.o) ll put, l.. ):p) spel il lunni, l -IIu.IoqII o
Insn pſ up) o umi p), p: s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I
-od) oumtl ul.lo, m: In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq
UIoN ) Tn1) o un mit ti, i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v. Id e il
pil un omone: i -oq IIosnI.I n el IIIquº plssolo.,ol.) un omi piu pitono i p i
ns o ai -nole uzUIos) olon lupul p: olio: rºns e o os “Il p. I ºIIe aolo)
oum.olm,p ou put il o al piu. l) o is i a i ) I ll,, 1 ) N N, i:
ls, - TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu,,, losso: ss s IlTOUI e ouput ul oumu
lp o Ioi o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip
II o un p on pu p. “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou
put np “oumtl p on pnti p: Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o
Issoptions o I, Ill.) o 5 - -1)ll,9lll:(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss «
ouml5 ml o unl ſi u mu.l IV fi, l ' li' in :(IoI, I « IoIIIn IIfop oi 15 º
oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ): opcIt II e a 1. o un triplº:
It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | | | Oue
IAI eooA e le emoN !): ſi - (i I:)(i967 – Questo venire
a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi, non renire in
potere come negli esempi del primo gruppo. 968 – Lerare la mano ad alcuno
significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità, comandare in sua
vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più
il fl'eno, ed anche guadagna la mano. 969 – Nola singolare costruzione, l
970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap l'ºssº e
con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra. N
etto E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed
anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza
nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so!
» I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord.; di
mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a
modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le
forme seguenti: Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono
netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che
non piangesse qualcuno.» Dav. Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do
toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la
vesſa, e aveva la se... » Fiel'enz. Coglierla netta. « Io non vo' che la
colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed
anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto,
portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie,
interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto
col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come
un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si
possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm. Il netto di
una cosa il chiaro, il fatto preciso). Note alla voce Netto 980 –
Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche
larla pulita, farle pulite. 981 – Meglio il modo lo scano: mettere al
pulito. Fetto L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì
noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E'
dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del
cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua
persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere. «
Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del
veduto Alessandro ». I3o.« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo
petto ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per
isfogare l petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì
fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle
donne, che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. «....benchè tu non se'
savio nè fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il
maligno spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il
vostro petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano
colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria
vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per
comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl. (985) « Se le prime
novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo
le fece le tarili o ridere.... che » Boce, « Le miserie degli infelici
anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli
occhi e 'i petto ». Bocc. « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i
uscii fuor dell'aura morta Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto
». I)ante (986). ma i loro petti empire di far là da poter disputare del
bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? »
Bart. «... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la
dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli
dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. «
Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll, Il avete petto (la la
re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori
inevoli? » Segn. º...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel
petto.... ». Ces. « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia
tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ».
I)ante. Si notino da ultimo lo seguenti li laniere, Stare a petto. «
Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. «
facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ».
Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ».
GiaInb. Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con
prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com
parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill.
« Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a
costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. «
Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.«
Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere
». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce
Petto 985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra
voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve
in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di
I)anle e I3occaccio: Contristare gli occhi e 'l petto. Fartito
(sost) Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla
boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi
di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver
samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e
piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a
ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per
avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha
senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo,
stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal
altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc. e biasimarongii forte ciò, che
egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun
partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per
amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce. a Parendogli in ogni altra cosa
si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito
credeva. Doce. « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da
quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito
passar volea.» Bocc. “.. ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne
io ». Bart. (990) « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi
veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991; a Noi abbiamo da
fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc. a....chè in verità vi dico
che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di
Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca
(cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio
si legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva
innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in
purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca. « E
così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. «
Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e
alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.«
Laonde egli si delllier, il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche «
partito; ed ebbe: p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz.
« Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò
di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando
seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per
partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc.
99?« E sentivasi si forte il lo!..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa
peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a. a Adunque a cosi
fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº
llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -. (( « Ora approssima in dosi Impo
cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F
vedeva l'1-1: mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli..... (il 1
l. ſt a.... dell'anno li. ll irl I e I e - il li fili l'a ll III
lo.. lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993 º..... ed
essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a
avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a
tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc. «
Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po
a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo. Si irolillo da
Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol
liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero
liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ».
Cavalca. Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a
partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai
consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo
discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han
messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito 990 – A
miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale
in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem
Preis. 991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal
termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa
e non è punto disposta a cessare i peccati. º2 - Nolale queste maniere:
prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif.
Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso
il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e
vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per
cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill. 993
- Era inferna. 994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere,
mandare a partito, cioè porre in deliberazione, Fºarte Voglionsi
notare di questa voce i nodi seguenti: Salutare, dire, fare da parte
di..., per parte di.... (995) « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro
disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... »
Bocc. « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le
faccia a reverenza da parte mia ». C sn. « V. S. gli dica da parte mia,
che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett. Dalla parte
di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono
frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.). a Egli era dalla sua
parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla
parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett. Lasciar da
parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per
serbare, per discernere, Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale.
« Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 «
Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte. Borgh. Tosr. A
questo do.. I nn l r noi, posti da parte tu! l i t. In di 1, st i. Va:
lli. Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp:te
– Tener, fare a parte, Star da parte vale non confondersi con
altri. Tirar a parte è alline a lirar in disparte. Si dirà: tener
conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti. a Tratto Pirro
da parte, quinto seppe il mie li, l'. IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna
». Bo, « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o. « Quello
che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi. a Tris -
stando i in dispart..... o I Piety'. a Cl teneva il flz, li i parte, I3
r. ll ! Il. Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e
lui lo:li e 1: lt i tºv - '' i, ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in
buon grado, dl-so un inti, li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro
colla a sinistra prendeva gli o. Salv. Note alla voce Parte
995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio.»
Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra: lasciar sta i c. V. Verloo
Lasciare « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda.
Tolim.Storna c co E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e
tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e
simili. Ricordo alcuni modi e l'asterà: Dare di stomaco il cibo
recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con
grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi
con istomaco o. Call. Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. «
I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. «
Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria
e l'odio dell'aver i là (p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La
sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ».
Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).«
Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra «
stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl.a Tengan per me e do i miuse,
conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul
e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va
ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora
che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». (il NA erso
Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso
degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne
davano agli orecchi testimonianza, l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi.»
Pelr.: ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la preposizione
verso, verso di..... l' 'No ! )..... che del sostant. verso per banda o
palle. « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori d'agricoltura concedono
che per un verso le piante si pongono più presso che per altro.» Vatt, Colt). E
così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso
per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le
V, slle cose valli lelle. Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella
delle forme qui appres so, si adopera alcol a a sigllil: l'e: manici di modo,
ria modus, ratio). Per Cgni verso –- Per mium verso - andare per un
medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i ri. 11,1 per cgn, mai verso.
Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I
mali. Varell. El'col.Andando la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g:
va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g... FI el'eliz. - e (II), si vi: il 1
l' II it: i 1, se vanno verso. (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i.. v verso i
cui il non vi fu mai ». I 3 l': 1. () rl. Trovar verso, () ribe, II; s -.
1 (orv... - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:). mi ri. ll It - ir: - si rl:. Mutar
verso. « I l in un li versa i Z. Andare a verei andargli al versc.
Q). l io.... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l..... ll:: V.i
i-silli i tii: il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo « S: si orz: v.
li:: Isili andarle ai versa, e !: I)1s, il l. - ir.Di alcune parole ad uso e
valore di voci e parti del periodo collegative e talora anche
integrative. E e n e – NA1 a 1 e al 13 EN E. lasci º si va il
riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le, con la mente, l'ulo non le,
sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il no per bene di garbo,
la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a bene a lilot line ecc...,
e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e la cosa piu o meno
riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o, e tiene alcuni poco del
tedesco li li l. (5(i Ma egli Iul bene, qui intlin [ue s
elevatissili, proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st. l l
): l 11/.Nel l bene i l.. a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti I
t'l spes-, a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene,
che io lo tiroll o spesso la II l3, r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili
i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº. Ma se vi pi e, io o le
insegnero bene tutta n. Boc. Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al
quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te
ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra. Il mito lei e la la l la.Si le, e visti
di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel, che....
l o.Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è
vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla
distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel... he il l e le::i riti - nte
d'Illi: lo za sull e iol e, e la a !:ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi
e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo., (art.e e appresso gli dimorava
una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano
grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V
e V el - i:n corso a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». (es.b.
M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il
bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il, inisſallo, danno di sgrazia,
lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi: a rer a male,
a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo
l'all ecc. ecc. Via li li so. I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a
la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che
nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l
non so clie di vago e per gl II, che è il lilà di così d'arti l'isl ic. (li el
II zi, le elegi Ssic li. a... st V: l III mal conceito fuoco. I 3. «....:).
Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e. l. «.... il rinai.. Se; (iappa letto i
lic - i pm rai 1, si, l ma le agiato el' 1 (-a del II lo; lidº, o. I 3 ).maie
agiato l' –, li la a gil: i il.. 11, l Inl, o male agiato esse, e male,
pe. lli, a - io, e -::: a male i:n bocca si, vitili era, o e, l 3:1. I 1
A. « c' 11 se l' ', male: l e \ Il..li, lili i lo nia?.... (, l. Il n.
volt': li la III, i mal piglio, l.ll è lie: \ e le colli e iº sº io -, il V
rºtale lili, i.. » I el'eºlz.Il ragi la I (l ai: le maie a lo)ia si convenesse.
l...chi v e iilipov rito: chi vi: ini: i il a, l.. i: ti: ti l i male arrivati
)). I.a do III', nd Indo pier lorº i val, l l', l ' I mal degno n. 1 ss, loſ
nig ill: I li.Voi sie (o grilli vecchio (pole le male durar fatica, l ', di
liri a III nte, l'8 ('. e I, il III lo zi le: i riz liz li mai -; l I
e a:I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “..... rip, ta io a lor
lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d. Il l ri, li -: li
i l ':.. l 3. l l'I..... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! «
parole molto lis o eo. 13ar [.. e.... tutto pe o, se male a me non ne pare.. l
3 l. e Onde pa, che male si a latino al vstro lº so, si fa i lma iº e d'ill «
si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº --, e non lo
's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». (i 22. Vi esort era il 10
al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si.
n. 8s. (S: - I:ile i siti: il ma! - be il s.. i: e i nº, lo re I ma
le:nctiuisi o V i S:s lº i l: i Note alle voci Bene - Male
(iſ, 1, di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel
i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc (li
l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V !
ss. 13 o.Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo
lingua (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi,
e di tali li: ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c. Il riso le li
ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e
inalier e del glorioso tre i º (S Sla i bene, male in gambe è I l
is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali
ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li
trial lo scadille, snoss, alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li
s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle. N/I a i l
'avverini, ma, el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il
S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i: il
13 irl li, esempi, e non |. lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la
non si sia rolla o. lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già
gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels, l'in alcun len o, e
d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ', cliave e indizio non solo I! I lil
si le lilla legil'i; il cos! i le Alti i basta ad ill riderlo il si mai e
cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso l. il
li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |
–– 281 – stri di lingili ilaiii. Il II ci del e di averne senza più
conseguito il 1 ello scultri, i si p.. si, Direttorio, al quale più che
le definizio i l sl 1: i il [.. assioli, lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi
alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti
li l.. i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel
lo i c' rss, i indi, sia cli e Villga in al cºn l 'mi pi.... ll il 'Nsui
le nip. S roll e li ll (). o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se
il l i. intellsivo della s. ssi ma mi tiro i si, a Pe! l III list,
1 l g io, i tic, l l. si mai nascesse.. I 3, i. C. ll pill IIIa li e p.
mai drappi ! -- dialli, IB,. m Coln in 1 il i i il mai !:
esse MI, sl l'a ll il Ver mai. I 3,.. “..... i isl - se mai i
piaccia, ti con i le itto i pal.11 st: Il lit -.... più che mai i - a che
VoIIIeri le spalle, a II. 13o..E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... »
I30. e I)isse Fer Ildo: () li mai. ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio
V il. () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It, il l in I l.. 13,....
l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº. E venivasi li rila lirlo !
! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai:, a connesse, e piang nel loi i riti,
sop.......... e sop a che n 1 - i poli ebbe dire. Cavill. a... ma per
certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai».. a Questo e i pili allo
Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l. le quali fili o no e primi clie -, e le sei
mai: l ill). Fl: assalti i al IIIa la..., l mai, i [.ra ti:lel cliore ». (iiil
III l. e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V, il lill a fa rii mai
santi!. Sºgli. a Ed è possibil. che mai gli 11-:. «.. quali lo In'a ci r.,
ma andr: il 1:: i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti, i lil il gºl ! I mai e
Cmpre. « Se i II a i º I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i
vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll -,
a che ella mai:i cosi fatti novello: l il. a Corne, disse Terondo, dunque
so io, io in l? Diss il 1 Mai31. I 3 pt i'. derili ti far sempre
mai il i. I lil -Note alla voce IM ai 70 - Vive nei diale l'i: Come mai?;
è afflillo come mai, ecc. (li si voglia di si ill di gr. ss, ognun sel
sa, ma gli esempi più che le parole i cli, tris li rello so e vero
significato della voce lia, a |iliale og i è sl Irola o la le adolierala,
che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non
disdirebbe. \li i e,: i fia l' -. / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni
e.. I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il
presente º il tilli: i I !: )st l': l 'li l'tl S... - 1:11 -
I ll v;t, fin l v.. l 3o.. le fia, 13. Qui i fia ir: le l Sel lembre.
Caro. l fia..... I v.I! ! -, l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \
i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i., (iianl). ll (: | | | l fia l e l'1 a 1
a: perchè - º la piovana -.. n Il re deila t rra ». l)av. !, lil: il -......
p le i, illi, e alle fia di loro, se l' - I no ll v i l il 1 li i:''i. I
l ' l : i .... le St i t, i s. i mi vo'il a sito dispe to
lanni di chi fia la colpa? » Se ll. V et cine e gli oli Illi i: l i
tº vi N ſia mai vero, il l. Si i pil I: I: 1' i rp - a io i
vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li l' osti i
Ira d rupi scoscesi, che fia iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei
precipizii, a tracciare sì belle prede. Segni. non oltri, he pli il...
ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e
Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e
assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia,
di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce
nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy,
111 i clide e ci III, Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la
lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la
III er i cie..: grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al
lli e nºi ci o, e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri
classici. Eccone alcuni esempi. 4. a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e
quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“..... II e io ll li ll 'oi, i
vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('..... di e il Si r. le gran
mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le (esil, e Lazzaro, gli andò
incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida
i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli(ti - e' leg lì: i di V (I
lil alla casa dei servi Illo I., (a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il '
Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i
vostra mercè., Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel',
i vi....: la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di
Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a.... io lli soli,
condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei
sussidii, ecc. e, Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero
fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi
aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi
Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro
prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il
divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui -:llitti,
Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio
non abbia fa ſto. » Bo. Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso
liberatore. Ces.Note alla voce Mercè sserverai bella elissi, quand della
preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non
esclusiva della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'.
grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra: e tru vo, grazia d'Id
duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito
l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai
lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto
di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si
lascia adescar da doni. Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di
ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non
le I)i, dipendente da mercè (tut I simile al francese I)i i merci. La qual
omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè:
Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono.
I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito
mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ».
l?occ. Fºurnto E sl il. e lui le avverlio viene la voce punto assai
volte º: ri: i vi il ci ills e. I e - n 11 lissili, lira gli eserº i pi
li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi
grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli: essere in
punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in
punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia,
l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal
punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso: di lui lo punto ecc.
ecc. I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li
r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del
point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo;
un nonnulla ecc. ecc.... Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci
sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e
a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.
« In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini. “ Dunque, ripiglio
I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni, « Cosi già in
punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il
dl IIIessa.» Bal'.. « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp.
e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. ....
coli 11el (i imporre si sl: e- si va in te sul punto da i
convenevole. ... e stalli, il ciò tintº sul punto della Cavaileria che....,
9, i 3 art..... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse.
o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1,,, li: soli iti e litta a ce ngiura
« era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro, i ti o al
lav.o, e, Inque « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i
IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il....
in punto.» I)ava inz. le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr. -
era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s.
i «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI).
Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I
i I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1, lizi.»
l?art. a e lei si riglia e li rvirill d. I 1111, si lire, i 1. I tigli:
il re - se le punto « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi,
l 'empio., 13 art. a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova
in l.1 o ſu il lie la lite « in boc. a. » Cal') « Moltº è la
plance..... ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete
punto di bene, il 1 e il v; 1..... B... Sc Il legna illolo e punto abile. I...
Il D... - il l.« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio
che ino:o -aio i lil i: li, sa p.ti, i 3 malteschi, le « pronti il d
urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co.. e.,
li;..... si l.l.i.« loli sara forse gl.lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili
punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e
del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à (il dere. » Stg,
()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le
pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi..
li. a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le
volle a l livi rie, ch'ezi, i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril
ma ne per os - l II l i lilla.» (1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la
Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in
punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà
d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo
fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce Punto i – Punlo, nullat,
un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo,
IIS, e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I
rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo: stare sul pil n lo
le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto
punto, li ill.; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si
il 1, il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le
s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i
julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per
l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica. E
i lichi il sito quale intensivo di non: « I giovani e maggiori e le I compagni
di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la
plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che
li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello..
V | lale l'ill, rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li:
ogni le, alzi vi dimenale ben si, che...... l occ. e Vale le ali le illla nica,
un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti
l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal
Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani.
(schlagfertig, Tutto l'referisco qui le lole Iorme avverbiali:
lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu
ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il
variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un
lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel'.
Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici,
che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne
venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi,
come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del
nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei
modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e
par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in...,
non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc.
(85) « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir
po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge
le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii
di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It
llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò
la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º. « Senza - I tal l' -, e
sollecitata da suo, cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e.. I3).I)imo a lido
il giov: in tutto solº nella. orle del suo palagio, una ſe II lillell'i.. i l
lo lill sill: l., IB ). Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do
disse.... » l 3. o i lut. In te la II: sua la Ilte ne ſei a spiare. (trovo che
Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo., 86 Bocc. il qua
e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari.....i-1 l'1 lis, (llella e la
i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill le liri, tutto e
il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo
fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi)., Se. ll.Io dovrei di file stamane
esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC:: 1.\l di Iliori
tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o
l'abb 1::. » Sºgli.a MI, oli qua e. l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli
di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte
le più ſiel e ! Il re.» Sºgli. Note alla voce Tutto S, I ),
ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i
spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera
di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci
si darà ragione di parlarne più a V: Illi.Anche del modo elettico: tutto
quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o: lutti e due, lu lli e l re
avremo occasione di ragio irare ad altro proposito. 86 -- Agiungi a
questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte
dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i, in Il lavoro: vino da bersi a lui lo
pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n
tratto – Urna volta Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi
smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in
quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi
prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel
che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss
si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi una
colla, un l al lo le, i cser I i l n al di l l sch si: si h mail al n. Non mi
'mal her, guck 'mal hin, n un link in all '. (r.I e II si li primi o li allo;
anzi !: allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare
un irrillo ecc. ecc. Si, non spettan quì, -, li o lo così in di grosso
l'ein Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('. N la
non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li. ri che tu n'a Vesti. » l80cc.: i
i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi..... I
3, c.I un iratº o. Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse
un tratto l'l V v tl le l V, e, le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a
il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto
letargo, il chav si g la lolla, i vv i, illuminato gli o chi? lla loro
mente....» Barbieri. a cede per or. Fa1, del late che si sveg Note
alla voce Un tratto - Una volta S; - - e pensò un suo nuovo l rallo
da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell
alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte Forte è sos la
livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for
Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si
essi, il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in
Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl, ecc.. Il l io le lel
(li 'al si e del lill loversi dei soldati ». (esilli, ecc. Foi (e, e chi liol -,
è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l //,
illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma
non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla
penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente,
profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e
clillo alle alicola ve. inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il
che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse
mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i
moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id, lilei e il III al II a Telli, ci se,
ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I
lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non
vedev., 88 Bocr'. e Avell (lo V (lll v. " (il V (, l: i re, is l'all: lui
(º littº « piacendogli, forte desiderava di aver, ma pur non s'att | I vi
li do e Irl:ì ll l: l ' (). » I3 ). a e saputosi il fat o forte fu biasimato.»
Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o
altro dormisse forte, ci illli cli. l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo
l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli.
Bo. e....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. »
I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a
chia a mare. » I3C).commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i,
(Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o
I30. a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss....» Bocc.
E avendo la barba grande, o, ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e
piacevole ch'egli s': 1. Vis:I.... » I30.e.... e quando ella a ridiva per via
si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl,
Va.... » I3..a.... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº
ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a
clie di ve a lil e intende va. » Pocº. a.... e perchè mio marito non ci
sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('. a.... per le
quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi
la pietà compunsi.» Dittani.a.... ma poichè si vide ferito invili si forte.»
Bart. «... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte
dell'agro....» Bart, Note alla voce Forte NN Il Cavalca idoi era
anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione.
« E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste
due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così
buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava». Troppo () lesta
voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e
l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro
leso: Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li
adurre, sentenziava egli. (º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la
ad un massimo grado slip I lal V, che la llli gli i alla lia li li ha. A li io,
che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio
sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials, falsissimo
replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra
lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano
dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V (e un
così fatto superlativo. ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al
classici non significa soltanto il lellera' e minimis Ilia il minis all
resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi
meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai
suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la
quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione,
dirò così. superlativa. Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga a
\-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più
cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che
queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non
t'avvisi.» Bocc. « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli
e polie-se, ull a: illo ne porterebbe troppo più che alculla di lei., 90,
Bo e. « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata
pre Sente.» E0cc. « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene
citi l aprillo, iroppo sarebbe più piacevole il pianto loro. Bocc.
e Vi tl o V () la II, e tali ltto, le V a - troppo più cle tll la la
spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E
Annibale l il troppo più accei io a l.Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il
n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama
stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. «.... a
Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la
cesso ogni per i lio. » I 3. l'i. «.... ed era la piu bella lei mi a, le
si rov a -- I l II onl, silvo la Vergine Maria, la quale era troppo più
bella di lei senza niuna compara zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al
1. e.... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III (-s Si l' 11 le alle
sºle Iila li; e lo II, li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila
anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era
troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91, e Ma to li
1:1 tii, Signori, I il III, che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o
Segli. III' troppo altro gi ill ols e le:lo I, a.... livi- i lo., (- a
li. a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da
repliare alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » (s. a N
in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in
Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo... (e il li. Note alla
voce Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale
anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. (orlicelli.90
– Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho
preso questo esempio un po' più da lontano che non biso gliasso al fallo
nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà
tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a
quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel
non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là
ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e
colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile
all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li
Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a
quel luogo ecc. l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di
partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza
non è li potrai li li essere. l Irisi: più là che bello: più la v. g. che
l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore
classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà.
Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra: pii là che
ecc. e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp,
di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13,. (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di
Inangiare pervenne là dove l il bio: e el in. a i là onde r, il o se al
povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l...... - 11/a
lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il
sieri e niti 11 o il 1: vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove
l'ietl o aveva certi anni, dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli
rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e
pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa
l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e
a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi
cosi colà dove si pllo: e (io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1
i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis.
ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13, Di lei sil, la norò sì
Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li
h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e
Cai: noi il 1: I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si - lo, ine,
rispose M -, si e avei ('. » lº. « avea preso -i alto grado di perfezion, he
non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose, i
veri:a il vedute che...» (.esi...... ll 1 più là li oli lo i possibile a
ridare. » (...Quello Il Boccaccio, il Passavi, il. il Pil dl Iſi, il (il
Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e
discepoli della scuola tallica, Ilsa l'olio assai, e i le stra, il guidi
e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto
a glisi di 11 Il ro, ci si d. it -igi, i lic la lino Illul lI d l
Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e d
in quello, in quella, pari alle lorni e avverl: i: in quel menti o, nel menti
e, in quel momento ecc. e si dis: quello li n. - - id. v..... vi i e
quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1, v.... I3.-: Itt - il 1 se. l
' a 1 il 1. l it; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.: l o.lutti; - i
fri lis. quello li da N i e:: si iro l'1 -, -1.. » 3 ).l'In/ li lis- I - - I,
quel ch'io? » I3. I -, quello le 1, III -- il l sa io vi li essi. o lº '. i 1:1
! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il. » I 30
t. ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc (l ' e 'li.» I3. 92.
o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l. (III l 'o più a ll'Iva n,
piu lui iro il lit. 2' l'1 e va e le, i di 1 e ven re a quello, al quale
dopo lo I - ra l III antila li -si, er., FIl colo. Itispos, il III ), gua a
lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I..A questo
II e les, il II, II - Il to si It, l e il q"1ello che è det o a lI - l...
l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che: ' ' Vt a la l.... »
Fioretti. E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno
» 'i e il v. I:: v. i: quello che i lr che, è.... » (,s In
quella cli..., l. E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3.. QII,
il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le Cllº gir 1 m
-:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri. f: l'.. it: l'.. l):
"ll. « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a
b) allo a ll'ano e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante.
93) e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i
piedi « In quello clie e gli pas.. a.. Ces. Note alla voce Quello
!)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa,
o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I
e rolli (' Ill. V el'b, le nuºre. 93 – lº è) ssere che colesto in quel
vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale
per istracco s'ap cli i non le segli le relil (Inl verbo le nei cº.
U Corn Co (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far
lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là. Eppure alche uomo
è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al
grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo
in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a
verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione. lº.....
ll III li ucnnc lo i ri: i V li l: e cl’egli non voglia “..... pl
il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo. l
3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7(t, lo uamo il l
im. it - l'alcuna persona clie ne fa cesse e sei a -- quello le Luigi per
il mio e di I)io. Cesa l'i. « E nel vero l' 1, a: per lo I e uom dice he
io lº blo essere a Imo:tº giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13.“
Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom «
dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel
piacere e le « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli. 94;
Cesari. Note alla voce Uomo 94 – Che cosa è l'ou dei fr: il
cesi - e li li Il collll al ci di home? (il man dei [ d sch è altra cosa li ler
Alain n il trio? (ili inglesi poi dicon, they, I he people say ([. he loria al
nostro: la gelle dice ecc. Fers o n a L' Iso odier 1 esſi voce è il
rilalissili, e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il
genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l
rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s
la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo,
e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I
" Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i, n. ss II, il li
do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'. )sservill e gli sla i li
a presto. I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di
corpora Ira: fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in
persona di lulli gli allri, Isti: prolcl:: 1)i, isli in corde lilo e Passav.:
far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi
si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I
r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96: mettere in persona di
alcuno qualche cosa v. g. una r lidi:i, costi i lirl li di essi, 97 e.. ci sarà
poi la cril sio: e li i la rli id al l silo. Iº, i cºl logli -s e
II l bel fante della persona. l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane:
11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13,.... te, i bil 1 E
le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e.... essere tutto
della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della
persona, e le, la inelite lion molto sallo.» (11:llillo,\bbiati i cavalli i ve
li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li.il se - ll
o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti
mi onsiderand d'o culto alliore t. vt', ll tell it | º li li: ss e.. l 31,,la
li e ti e i, till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo -, i
periti, o oss - so, li i n e -se. I 3,..ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri
che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta,
la qll ', a pl p - o li -: i B, l stat 'i: si val.etta....) S
-- ti:. ss e i stesse persona, il 1 - si l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai.
i cºllo persona se n'av v (lº - e lº t. Io li n..... I, l l la ventura
lestè, che non è pcrscina. 13 \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.
Io e li (s'o, che tu non facci liliale le a lui ne a persona.» e al ll un
altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è, - - al lil. I - - -
che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri spondes;
a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.» l3.
I | p. g v, se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io
etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r,
Ili.li i per ſuo - o il 1: ini: 1. ll il a persona del In illo., Bocc. « E ' il
l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o. I; rulli, a non salirà
persona se: it 11 Note alla voce Persona ), simili ma in tal
caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi
egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra
grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra
le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano
il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.
96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl,
col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S.
Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona
addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l '. (a l..il Diil
(iherardini. Voci e maniere. - 9' - l'orili, il francese sui la le te e
il gosl o volgare in testa d'al clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei
le in persona d'un al ll o, Calo. S e lºro orie di terza persona
d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce | |
sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o
Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà. Come
piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in In lo
assolti, o e coll'i: definii, l gicli e Illasi si ºss, V edilo, di con Io
e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi. a Per un cali o
ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30.“
'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce.
s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier
a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo.Aiess. Il dr ) gli 'e il
dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll, collandin - In li o di -se esser
presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van,, strillse a
confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli.
» I3o. “.... - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a
Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri, il 1, che | i leta
potesse es e Stºre la crea llra. o loce. Questi e Quegli Si
che lo scrittore il derll, lo usa, e l'uno e l'all ', posto assoluta nell le in
senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a
mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I
ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os
mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io
v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s: l'impolli o lo I II Is v.ll st..ol. Il
“odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº
up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los. I volo “ol I pm Ilio.
I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los
il I _ e ne» \:sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ): IR il
p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o.: ), ond is oli otti. I l III II
e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l
'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss
o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI,i. S ): IIoII. 113enb Ip o Io, lui il di lui
se li ti os o II. o Il s o II is º III o II, 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113
onb I 'll A ). l is tº lo 118omb e p. Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o)
toni tu III o l on tº il 118anº il - IV l. 1: I 'l: i sanò “I I V
r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l 'ItI A o « Us
II. t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n. I I I..I ) \
I? i.) I vi: - st, l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI
sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i. I | III F
III l st ) ) somb o-s II s l. I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò
uºi In I tºl In A III o Noll - sanò o il III: -nIossº o ollo.I costi. Il
cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o
allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il i li osso il s II II l s
ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i.I o III II. I | anbuntuoo ºpttodsI.I
15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in ouaq els ſolluſosutti -
o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli
talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e
mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago
ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il
senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè dirò
della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o
fuºri's e il di il colllllllissimi i: non ha guarì, a significare non º gran
tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello che di ogni
altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu'
sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli
di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai. e cosi
conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non
decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì. a.... nè stette guari
che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie-
dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl,
' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz..... non
istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e...., il quale non istette guari che i
rap issò mori; o lo e.... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari
che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30.ti e
credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè a
stette guari, che il lì gl al S. ll:lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.»
I30' ('. a... ll è il ro i ti elideva, che da llli (ssere richiesta: il che non
guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all
'a.» I30 ('. «.... di paese non guari al suo lo litri:). » I3:1
l'I. a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed
al tempo « I rarº ori. » Bocc. « Il quale non durò guari che, lavorando
la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3,
c. e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i
clie....» Bart. e.... novella non guari meno di pericoli in se.. ll I e
nel II e che la narrata e di I.allretti. » I30. « Dopo non guari di
spazio,.... » Fier. «.... nè guari tempo passò.... » I3. a Fermila lire
e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che : oli
dallalo. o 6, Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la
nave sdrucire. » lo c.Note alla voce Guari (- Nola II sto In lo
leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie....
per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc. iti
- l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll () ll t
) Il t '. N/1 c r ) ci ci li del non lo al mondo aggiunto ad altra
voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p. I livi, è a nella
livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile,
qual che si voglia minimo,; il t N.Nll) l ('C'. \li gli esempi soli si
chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici
a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a
come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità
assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che
non farebbe un illi a V cc, la II lillici a: con persona.... del mondo, e come
quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi
lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere
di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una
la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali
alla lelleria dal Villellissillo (esal I. Senl e al lillo del l rall cese
non le, in: le moins du monde, e simili. Ala non sarelli, sì vigliacchi di
gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle
toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani?
a.... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del
mondo l'all ('., l 3o t.a.... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò
a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3, c.E quantunque in
contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol
Vole: i creilere. » l3.benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a
palagio.» I3'll [.« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue
novelle.» 3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona
del mondo il « Sa.» I30 (('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del
mondo.» Dart. a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là
pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli
e.» Fior«.... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del
mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le
l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una
discrezione al limondo, o Fier, » I30 ('. a gente che vuol
conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg
Il. « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato
e lnal con o com'era. » Fier. « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente
in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior
fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo.,
Cesari. ſr L'Opinione giornale, con la stessa serenita olimpica con
cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del
teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i
no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875.
!)!) Note alla voce Mondo 99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per
amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di
molli al ri. | Bene è vero che così lo studio di cer ti detti e sentenze
come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche dovizie, degli
scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto
singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli autori classici, più mi
ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono
ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano anche particolarità
italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua italiana, non mi
pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che,
se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi. l t. N. 1 l il
miº cl. ii e il ct mi al buio. l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li
l'. I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del
semi I lice. l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la
misura. Slc re e il m li se li diglllllare, Vlcºl l'1 si in capo
l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare. l'atl e il III milita in all
'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li. l. I cºllo l'e' in sul
quat mi qua mi - col ridicola gl avità. Spacciati e il quinque mi voler
farsi lenere il gran fallo, \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si
allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc. li mpri e
la scopa l si a Vila disonesla. lo son litigliato a questa misura Ambra -
esser fatto così, di que s Iella la luna. lisse'r la Ilio lo bene o
male, l'irla pºi punta di lo) chella con grande affelazione,
l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri di I e
il Vallo. Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali
- a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo –
l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire
del valo da una stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la
illissili le celle. Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II
elli. Esser al coniile mini – il punto d. Il 1 l le. l scire il jislolo da
dosso tl i no 13 i. logiici si da il lalso sci spetto, cessare di ang.
Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo
basso. (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to
fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile. \ on Nat per
cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si. Esser nell'ol o di
gola –- riccone, ricco di rili. Esser innanzi con uno -- essergli il gri
7, i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel
(i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e'
il molto in mani si coll’ili per il I e. (a V. Torsi giù dal pensiero di
fare... (o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e
alla sua provvi le 12:1..... Civ. ('ori e re boll len clo e II lilo cli,
le legi, i l. ri ci, i Nº but I lemulo. I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo,
il lersela. Esser in pie' e plando (alba era in piè lenne la col ſole.
l)av. 1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa
col Cli/i 'le il cili si riac | Ie. l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci
lidi ri. il II e il I l: cos: 1. (iel I al I e il m (t mica, clic'I l o
lut No il re i v. l il li Is I l iss. aggi. Il gel (lalli al clarin.
Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco.
13arl. Pagare di moneta senza comio spacciar Iole. I, Ils, I)alle e
il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo si
illl'allino che spesso ne fa les r, il III: Iggio elica li col l mali e il del
sl1, clile. Tener a piuolo (inf. tenere. l otre all rili il lettino
ſalgli il lates l' 1 all ss. Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si
può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno. 1 mln usdtrº uno
indovinarlo, conoscerlo per quel che è. Fotr uno scilo m (l parlare a
lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e. Scoprir paese. Ma il 1/.
veli al chiaro di talche cosa. ('a calcare la capra in rerso il climo. I3
cc. Irovarsi in pericolo di i l'l': l ', l ' ('. I malati sºnº col
cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog -- 'l): - ol,l DS. l.los
1)llop ).Im. I “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan,
'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip: l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up
Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n
t pel lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo
Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore -II All.) Iloio; il 2.It I.) II.Il lod
o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1,:los.lop 5 º ) - ol. I ti ll)
1)(l. p) ll. 1) / S (p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool
o l. Il ll o l.oo, o o l o I: 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll
l l ll olios o I Il d lºs o I o II ): ossopu o il n. 1: s ).Ill).Iod o
O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol. l p ou puo ul l tool pd l olltilt
il.lol - D) ll plcl. ) ol I.... ll N o Illy) li ll lo) lo IV lUI.).llº A (OIis
Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli
Iloit...... Ip (o.lios III. Il l.Il vi:.). I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb
Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS
o]llottle Illllio II o III o III: VI.Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll
plli) ledttii: s.l Il pl.. p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I l'Iss) I
|.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº)
ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I
opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le
i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II).I e o Ioli: mlpo il pil 1)
l.I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten. lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5
o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V: o il II o I pil V ol
I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss..... ) I pu to.I o | Ioli -o
AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei
leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li.tel li olo il 1 l.... ll
o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo). )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi
s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli.I l o Io te stili npd
a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l
occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp
loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p. ll lº un il dl pliol - - u,
li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op)
o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV
pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo
IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I
oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº
! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos
ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L uo uo) p.t lo 0 olp
csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos
dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso –
onbop onp m. i tm)S vo) lo I l Iolu.lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) –
o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o
oli; io -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd
o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl
regolº (Ideos e un “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll
sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in
ſqu;Il pells optIo:o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed
Iod o. Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill):
1.I.ood I.If I “esInI?lo Id utin lp e.I srl III o II: I –.ooo I o in l
uld lp olio lpold l I m/) p.1:).ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu:
un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV ro5.Ioi
ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop
e Iru.lo Iui ol. -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt. Ieri lo
tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo.
luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº
oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp
ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl
oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII, sotto lo v o 5 e
I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II.Ipaduti.Iopulo. In “of.In
loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) (p lo) um. m / mons ml opuo.oos
ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s
III3o Iod. I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o
un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il
Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i
trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.)
o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui !:..Ip
Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i
s.I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit.Iod » – i loro lºſ
oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il.Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o
lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I III o Ip Iso.
Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop. () il 0.1 O) ſpi o N. I.IRSI Ind
e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o.
p. lug oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a
IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII “Iuotze.IouI.Iotti
IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I –
RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I Izzotti In
olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ
ul tolla IV IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip
-– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è
maniglia, nel figurato appicco, pretesto. Arei mantello a ogni
acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta.
Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello -
predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro
nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di
dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc. - ascoltare gli
all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana
spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la
cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i
dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con
gioia li ali ziosa di cosa che ad all ', oli sia pia ere nè oliole e che
palesa la tollell (le l'el)))e. l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi
d' A Iglisla. l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi
lavella piano perchè: il l 'i ll ll sell la. l)a V. ('olo il c un disegno
ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo.
(ilan, b.: effel! lla e ſulello che si era progettato. (''rcati e ai
ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare,
investigail e, indagare. (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni
diligenza sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al. l'utre
un laccio ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso, slagliare il ci
lil, al tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la
inintità a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni.lasciar alcuno sul
latº metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do.... ma se li la
cavi di dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto
povero gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll. Prendere, pigliare,
cercar lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella
cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero
». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del
buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla
testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere
sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem
Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale
incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è
affine a scaponire, nella frase sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza
un suo capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire
del guercio, sentir di scomo –- V. Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI
(los!p [u optioutod) w' los to Ossip o 'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q.
o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s
O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o
IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/.).t.) 1.to.)S
'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.).) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds
'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001
un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op -
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V so ) (put.to, ll p.ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o. I
Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui, o tu As o le volp lº lll.lo.llol).ll.)N
) quel!)..I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti
otitº.All. Iuºl, vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col
eztloloIA:l 55o o II. I ll pp l Il pm.os. I tolti “ouolzuºu e un ostello e
Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo,
ill. Il II si ulltiltos o il tri.I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN
o Ido. Ito. Ip oi lotti:p o.I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (I It:p los Iop
751.I. ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III
Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l:
p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo, pp.to,
ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I., l:.........“olons
n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls
(ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m, lo s. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip
(I. 1.I luo. Iº o II la V A: l I. A 1:(l.) lp Qss pd o ICI: onb.me l o lo us.
Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ). l. (l -oud ul o e lied
n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:(:s-oo e o.Iluo.o
tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e
o III o VII. il 1) il fi. ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il -
vi III i -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il. Is.I tºp IO.), lº ol n.),
uo, pl) lim) I l / es.) Il fo: III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in
I o.lui iuta il tºp.Io vu: toll o l..).l. o loo.l.) I l I o II
lotti o I e II li. mld II l.lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il
vl'Ifo II: ool.IntIo5 outot a o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo,
o, pil ll.. l oliºfolli: lo ol o elusi o II (1 ptt pil “eIollo.II on.A
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IV (uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.)
ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo u VI top / SI. IN DCI - -und ll
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e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ), - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo
olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o
non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o .IoI I II.).I l? \.I - «I –
pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p
impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo
o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso
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sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl
Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo ) Izzo!) o tool -ms ll o oli uos
lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp l loll (I lo
Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo
pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons,oo Ilſi o llllllls,o. lllullS
lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s
opuolod l 1 ) Iollfill, l.lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl
pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un
lato i po.t o, ul, olpm Is u. I (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1
I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi
ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to, Atº
(l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli)
0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to
il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons
ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti
o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I
u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D
I SI onl:) Nm p... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss o o d Il 5 o
II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I..)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd
un ufi () epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es. otI.), tºnfi le id o
Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m
ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.)
ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl
pil in o I. ll I “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln
out e tio.Ipel otrosso Joid lp o.I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i
lutti lop e tituli lod o.Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle
ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl
uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.)
O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i
ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion
lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o!
A nſiti nunoIl lod p) Il p o V ».).oogI pl/lo. m l), m)pum OUI.) oll) Ollion |
In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb.
Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal
latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il
tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a
clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi
mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca –, W e
nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso.
Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben
chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se
non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen.()
gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al
tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i
quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich
nich I heiss. Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente
che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti
l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l'.Dopo il bere ognun lice
il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila)
e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen
nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () /
mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui
prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo
il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace, accoglie
vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si
sliluirvi la ledesca, malerialissima: Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old.l
grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol
mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il
trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt
nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare
e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non
spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch. Giuoco che li oppo dura, di
ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl
schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste
(piel li atl oil einem VV trim.La donna è come una castagna ch'è bella di fuori
e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le
fave nel nolaccio, il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può
fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser
losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc.
strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa
all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster
bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere.
Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe
la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè
qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati,
misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual
proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem
rergellºn. Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende
s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, «che, dice il Meini,
giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chil' igne ha più lunghe». A
confortator non duole il capo–e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza
edistanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo).
Bocc. La determinazione suprema
della voce, «la
favella, cioè la
pronuncia articolata della
dialettica psichica» ('),
è il vero
fondamento dello scibile
(*), perchè concreta
sensibilmente lo sdoppiarsi
del pensiero: è
«la formula e insieme lo
strumento più eminente della manifestazione spirituale» (*).
Sebbenené la favela, né la facoltà di acquistarla siano necessariamente
richieste per determinarela posizione dell'uomo nella natura (•) il sorgere del
linguaggio, è, come il pudore, sintomo della spiritualità che nasce e si
afferma. Lo studio della linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un
terreno libero da qualsivoglia passione( [Introduzione alla coltura generale,
pag. 141. ][Op. cit., pag. 144. ]Prolegomeni I, pag. 367. (*) Introduzione alla
Coltura generale, pag. 121. (*) Massime e Dialoghi^ Fasc. 86, pag. 8. (•)
Prolegomeni I, pag. 368. 390 1^0 Spirito
oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere
teologiche, o in balla del liberalismo naturalistico o finalmente asseconda le
simpatie e avversioni etniche. «Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di
essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di
possedere la più perfetta di tutte le lingue» (') opinione che naturalmente
osta ad un bilanciodel contributo che ogni idioma portò all'educazione dello
spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come fu posto per
tanto tempo, è assurdo, giacché
«presuppone prenato alla
lingua il pensiero, il quale
mediante essa debba
riferirne l’origine. L'unica
ricerca genetica che, fuori del dominio speculativo, possa condurre a
utile risultato, è la
determinazione di un
periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale si siano
sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l'idea e
le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente
definibile, perchè è meramente naturale: è una ragione psichica immediata come
quella per la quale il riso è foneticamente altro dal lamento e significa
diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle
forme materiali e radicali: giacché agevolmente si capisce come una radice
viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato,patisca in questa
determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione; anzi,
la (*) Considerazioni ecc., pag. 12. Lo
spirito oggettivo 391 radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e
l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento. Si
può dire che
il pensiero di
un popolo tanto
più li- beramente si svolge nella storia quanto meno
sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che
reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come
l'attività le corrompe e spegne (').
Molta importanza ha lo studio delle lingue per la istruzione e l'educazione del
pensiero: l'uomo è tante volte uomo quante lingue conosce, giacché tale studio concerne vari modi
che rispondono ai
vari gradi del pensiero (*). Infatti
l'idioma accennò progressivamente a) a dare le forme sensibili,
3) le intellettive, e) le concettuali(*). Quanto più il pensiero si avvia
all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze tutte
formali della lingua. «Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è occasionato il pensiero;
più tardi capii
che la lingua è
mezzo necessario alla
sua formulazione; finalmente concepii
che la vera
forma intrinseca del pensiero non
può essere manifestata
da questo mezzo
estrinseco, che è
la lingua» (*).
Il che significa
che essa, giunta che
sia di fronte
alla speculazione pura, o per dir
meglio, al sistema contemplative si esautora da sé medesima, riconoscendosi
insufficiente a esprimerlo concretamente: anzi, «la lingua (*) Idee radicali delle discipline
matematiche ed empirico-induttive. Fasc. I e 2.
(^) Introduzione alla coltura generale, pag. 121. (*) Prolegomeni, pag.
368. (*) Massime e Dialoghi^ Fase. 18, pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo
volgare, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai
differentemente che la letteraria e la filosofica, perocché lo scopo delle
varie forme linguistiche non è menomamente identico» C)«Anche la semplice
nozione storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma
speciale. Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de' suoi tanti romanzi,
il Ceretti dice: «Il mio protagonista studia vasi sopratutto di
famigliarizzarsi coi singoli idiomche erano svariatissimi e giudicava che
la nozione à\ un certo paese supponesse quella del minuto popolo, epperciò una
pratica dell'idioma locale» (*). E vedemmo che così si comportò nei suoi viaggi
egli stesso. Quanto alla questione
circa la preminenzadel toscano sugli altri dialetti
nella nostra lingua letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non
perchè ci paiano originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale
sicurezza di sguardo avesse il Ceretti in ogni questione, che si affacciasse al
suo intelletto: «La lingua italiana possiede,
come tutte le altre, il suo
proprio genio caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna
delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si
distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno
potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana: questo
avviene eperchè fra tante differenze essi posseggono un caratter comune(')
Memorie postunte, Fasc.13, pag. 6. (') Itinerario di un inqualificabile, Fasc.,
i, pag. 14. Lo Spirito oggettivo 393 grammaticale e lessicale; e l'unità dello
spirito italiano, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo
generalissimo tipo comune dei dialetti.
Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo
classico della lingua italiana, ovvero se il genio della nostra lingua, essendo sparso in vari dialetti, si debba
ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il
toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il
più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è
senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano; ma non si deve
dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto-sivoglia buona, è pur
sempre un dialetto, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente:
nessun popolo scrive come parla; le lingue parlate nascono e crescono nel
popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica
sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze
progressive delle lettere e delle scienze. Ora questo materiale della lingua
parlata sarà tanto più sufficiente quanto più ampiamente sarà desunto da tutti
i dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie
all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste
precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente
approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo
il buon esempio del grande Alighieri,che, quantunque toscano, esordì
a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua
veramente italiana. 394 ^ Spirito oggettivo.Molte forme grammaticali e lessiche
sono riducibili allo spirito generale della lingua italiana, talune non lo
sono: il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se
l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e
omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti
nella lingua italiana.
Coll'idioma esclusivamente
toscano s'immiserisce non
solo la lingua,
ma con- seguentemente anche l'idea,
la quale trascende
le limitazionilocali e popolari» (*). Luigi Cerebotani. Keywords: implicature,
la lingua e lo spirito d’Italia, Hegel, il Tedesco e lo spirito della Germania.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ceremonte: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Teacher of Nerone. Member of the Porch. He took a
materialist view of the world, claiming that the gods should be IDENTIFIED with
the planets, and that everything in the world can be explained in physical
terms.
Grice e Ceretti: l’implicatura
conversazionale del PASŒLOGICES SPECIMEN -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Intra).
Filosofo italiano. Grice: “I love Ceretti; and I wish Strawson would, too!
Ceretti distinguishes three stages in the development of a communication
system. The first is very primitive, obviously, and avoids the reference to
‘io’ and ‘tu’ as metaphysical – ‘hic’ and ‘nunc’ will do. The second stage he
says may be all that some societies need – ‘green’ for this plant – The third
stage involves the general concept of ‘plant’ and this is where a soul-endowed
entity (animal) can refer to a plant or to an animal like himself or his
companion – at this last stage, Ceretti speaks of ‘soul’ (anima), and the
affectations of the mind being what is communicated – if that’s not Griceian, I
do not know what is!” -- I suoi genitori, Pietro e da Caterina Rabbaglietti, di
condizioni agiate, lo affidarono all'insegnamento privato di ecclesiastici e
successivamente ai docenti del seminario di Arona dove si distinse per il suo
carattere refrattario ai vecchi metodi didattici e ribelle alle rigide regole
di disciplina. Quasi al termine degli studi si appassiona all'approfondimento
della lingua latina e alla composizione di poesie che lo fecero conoscere come
poeta a braccio. Frequenta come alunno esterno un collegio di gesuiti a Novara
dove risulta primo in retorica tanto che il suo maestro lo spinse a comporre la
tragedia “Il duca di Guisa” sulla base della Storia delle guerre civili di Francia
di Davila. Soggiorna successivamente a Firenze dove ebbe modo di frequentare i
membri del gabinetto Vieusseux.
Dedicatosi agli studi scientifici e storico-filologici e soprattutto a
quelli filosofici, scrisse il poemetto incompiuto Eleonora da Toledo dove dà
prova di penetrazione psicologica dei personaggi e di abile descrizione
ambientale. Nello stesso periodo compose poesia a contenuto filosofico, il
romanzo “Ultime lettere di un profugo” sul modello foscoliano, e infine le
riflessioni “Pellegrinaggio in Italia”, nate a seguito di numerosi viaggi
avventurosi per l'Europa in compagnia di zingari e vagabondi, che gli permisero
di apprendere diverse lingue. Opere queste che mostrano la singolarità del suo
mondo spirituale profondamente diverso e in contrasto con quello degli
altri. Soggiorna nella villetta "La
Chaumière", presso Chambéry, dove lavora alla “Pellegrinaggio in Italia” dato
alla stampe a Intra con lo pseudonimo d’Goreni. Trasferitosi alle Cascine a
Firenze, pubblica “La idea circa la genesi e la natura della Forza”. Adere
all'hegelismo, di cui tenta una revisione in senso soggettivistico in una
grande opera in latino, “Pasaelogices Specimen”, che non riscosse alcun
successo di pubblico. Decide quindi non pubblicare più nulla. Tuttavia continua
a comporre una grande varietà di saggi filosofici. Si dedica esclusivamente
alle meditazioni filosofiche espresse in numerose opere tra le quali i “Sogni e
favole” (Torino), le Grullerie poetiche (Torino) e le Massime e dialoghi
(Torino). La sua opera è stata pressoché
sconosciuta. Solo Gentile gli ha assegnato un ruolo di rilievo in “Le origini
della filosofia contemporanea in Italia” (‘C. e la corruzione dell'hegelismo’).
A lui oggi viene riconosciuta una certa influenza sul pensiero filosofico della
scuola torinese. e sulla formazione della filosofia di Martinetti. A lui è
dedicata la Biblioteca di Verbania. Dizionario Biografico degli Italianim Martinetti
C. “La natura logica di tutte le cose” e pubblicata presso la POMBA di Torino. Gentile.
Cfr. G. Colombo, La filosofia come soteriologia, Milano, Vigorelli. Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia D'Ercole, Torino, Vittore
Alemanni, C.. L'uomo, il poeta, il filosofo, Hoepli, Pasquale D'Ercole, La
filosofia della natura di C., POMBA, Giuseppe Colombo, La filosofia come
soteriologia, Vita e Pensiero, Fiorenzo Ferrari, Il filosofo di Intra.
L'idealismo di Ceretti, in Verbanus, Vigorelli, Martinetti. La metafisica
civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori. L'uomo vuol essere considerato come l’ultimo frutto, ossia
il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone
necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via
discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più
recente dell'albero zoologico. E qui nasce oggidi rispetto all’uomo una
contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da’ più prossimi
animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla speculazione,
e neppure dalle discipline naturali empirico-induttive; ma la si agita sopra un
terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità
empirico-induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni, partigiana di
religiosità, di moralità, e così via. È assurdo supporre che una specie si
tramuti in una nuova specie come tale; perocchè le specie sono mere distinzioni
teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non
facit saltum; e conseguentemente la distinzione caratteristica che costituisce
le specie “Homo sapiens” non risulta se non in quanto si prendono in
considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini
intermedii. Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero
zoologico, nei quali le differenze ci sono più sensibilmente manifeste,
troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii
rapporti, e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette
varietà si suddividono in varii individui pur differenti fra loro. Inoltre,
troveremo che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste
quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la
specie che si prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò
non si deve investigare nelle specie come tali, ma piuttosto nei minimi termini
della specie, ossia nella variazione individuale del specimen. Questa
variazione, tuttochè lentissima, modifica col volgere dei secoli le specie,
così come la conchiglia microscopica, variando la propria natura, varia il
terreno che ne risulta. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva variazione
sono di tre ordini, vale a dire: planetarii, psichici, e spirituali. Questi
agenti sono progressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella
efficacia spirituale. L’agenti del primo ordine planetario modifica
semplicemente il corpo e l’organismo, e indirettamente, ma assai lentamente, la
facoltà istintuale. E un agente puramente planetarii, p. es., la natura del
suolo e dell'aria, ossia generalmente il clima, la condizione geografica e
topografica, e cosi via. L’agente planetario si possono chiamare elementare,
perocchè opera su tutta l'animalità senza distinzione veruna, e sono
presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi generale che gli
animali inferiori non subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie
degli animali inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire
le modificazioni necessitate dalle progressive variazioni dell'aria e del suolo.
L’istinto delle specie animali inferiori e rigido e difficilmente modificabile,
appunto perchè e un istinti poco variato, che non puo neutralizzarsi fra se in
una ricca varietà di modificazione. L’agente del secondo ordine e psichico (e
no ‘psicologico’ ma veramente psichico), epperciò più intimo nell’organismo,
ossia più essenziale. Un agente psichico modifica l'animale nella sua intima facoltà,
ossia una attitudine, assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti
naturali succennali. Questo secondo agente e nella sua essenzialità un maggiore
sviluppo del primo agente naturale plantario, epperciò si manifesta nella
generazione susseguente come una profonda modificazione dell’organismo e
dell’sstintualità. Questa modificazione non e più mera variazione giusta una
astratta affinità, per le quale, p. es., una facoltà diventa minore di altra
facoltà, vale a dire, si manifesta come una pura variazione quantitativa
dell’istintualità. E una modificazione profonda che diventa la proprietà
caratteristica dell'animale (un tigre che tigrizza) e qualche volta e affatto
estranea e contra-dittoria o opposta, o contraria, alla facoltà della
generazione pre-esistente. Allora si dice che una nuove specie (Homo sapiens) e
venuta all'esistenza, e la vecchia si e spenta. La facoltà psichica si modifica
sulla base di un istinto più svariato, il quale si neutralizza appunto fra loro
tanto più facilmente quanto più svariati. L’istinto dell’animali inferiore e
tanto più fermo e rigido quanto meno
molteplice e svariato. Questa modificazione causata da un fattore psichico
modifica il sistema anatomico e fisiologico, perocchè non e possibile una
modificazione psichica sulla base d'una invariabilità anatomico-fisiologica. E
una modificazione profonde, la quale, se qualche volta poco modifica l'ordine
anatomico-fisiologico sensibilmente manifesto, e però effettuata piuttosto
nell’elementi anatomico, nel così detto ordine istologico. La modificazione
psichica non spetta, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma
sono più profonde modificazioni dell’organismo e della corrispettiva
istintualità. Essa rifletta piuttosto la mera individualità animale, epperciò e
variabile indefinitamente. La condizione causale di questa modificazione e data
dalla ciscostanza nella quale versa un certo individuo animale. Cosi non è solo
la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vive, ma anche
i varii vegetabili e animali con che vive; perocchè dette varia condizione e
sufficiente a modificare l'anima (la psiche) dell'animale. Le delle varia
circostanza costringe un certo individuo a esercitare preferibilmente una certa
facoltà psichica, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca
molteplicità e varietà della facoltà istintuale proprie della specie di “Homo
sapiens”, questa facoltà variamente si combina e si neutralizza. L’istinto cosi
neutralizzato, ossia radicalmente variato, si trasmette alla generazione
veniente; e cosi le condizioni succennate, variando l’atttudini dell’anima
individuale, preparano il terreno alla più ricca e più profonda azione del fattore
veramente spirituale. Il fattore spirituale modifica quell’attitudine che
appartene non alla specie, ma all'individuo animale, ed e un fattore che non
più modifica l'anima senziente, ma lo spirito (animus, psiche, sofflo) ideante
dell’animale. Tuttochè questo fattore, nel su concreto sviluppo, appartene allo
spirito umano, pure gli animali superiori (p. es., una scimia antropomorfa)
possegge un certo quale esercizio equivoco e parziale del suddetto fattore.
Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’individui più
vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani. È questa la ragione per
la quale l’animale non solamente si aggrega ma si organizza gerarchicamente
giusta un certi statuto di un sentimento comune. È importante che un individuo
animale possa profittare della proprie osservazione; perocchè dello profitto
provoca una maggiore perizia pratica, la quale dal più vecchio è partecipata al
più giovane e trasmessa alla generazione vegnente come una dialettica della
categoria istintuale che più tardi si sviluppe in una vera mentalità. La
categoria spirituale (spiritus, animus) funziona qui come sviluppata categoria
psichica (psiche), epperciò la lingua, il linguaggio e la communicazione, nel
suo amplo uso, vera sintesi e genesi manifesta della categoria spirituale,
arriva all’esistenza come linguaggio no planetario o naturale, ma puramente
psichico; o come linguaggio equivoco o misto, ossia psichico-spirituale; o come
linguaggio assolutamente o puramente spirituale o oggettivato (communicazione
proposizionale – la logica di tutte e cose). Qui non occorre accennare al terzo
ed ultimo stadio, ossia al linguaggio puramente o assolutamente spirituale,
proprietà *esclusiva* (alla Grice) dell'uomo o Homo sapiens sapiens, ma
solamente al primo stadio (psichico) e al secondo stadio (misto) del linguaggio
che nasce e si sviluppa nell’animalità sub-umana, pre-razionale. Il fattore
caratteristico di questa crisi, ossia lo sviluppo dell’anima senziente inter-soggetiva
nella spiritualità pensante proposizionale, è manifesto piuttosto dal
linguaggio ‘muto’ o il gesto di una emozione del corpo e principalmente di
quell’emozione della fisio-nomia. Quest’emozione formula un sistema
comunicativo, in quantochè manifesta una definita emozione intima con una certa
categoria, che, non essendo destinate alla mera soprevivenza o conservazione
dello specimen o della specie, non si puo chiamare semplicemente psichica,
ovverosia istintuale. L’animale sub-umano, p. es., lussureggia per una mera
sensualità erotica – omo-erotica, come Socrate ed Alcibiade --, la quale non
può essere destinata in verun modo alla propagazione della specie dei Grecci!
Così pure due specimen giovani di animale giocano (la lotta greco-romana) colla
vivacità propria dell’età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente,
all’educazione e destrezza corporale dell’individualità. Così il padre non solo
alimenta il suo figlio, ma l’educa e disciplina ad una pratica operazione
requisita dalla propria specie, locchè dimostra che l’ingenita istintualità non
puo bastare, ed abbisogna dell’ammaestramento dell’osservazione data a lui che
ha già vissuto praticamente nella vita. Il linguaggio misto, o equivoco, ossia
psichico-spirituale, è quel tale sistema di comunicazione che non consta semplicemente
di questo o quello gesto, il quale segna non solo una definita emozione
dell’animo, ma una certa anfi-bologica determinazione della ‘mente’ (mentatio,
mentare, mentire). Così, per es., il cane, alla presentazione d'una cosa che
altre volte fu nocivo, puo involuntariamente fuggire guaiolando. Il gesto segna
naturalmente la paura. Qui certo v’ha una psichica emozione provocata da una
simile cosa, ma quest’emozione del cane dev'essere legata alla *memoria* della *sensazione*
originaria, la quale memoria appunto costituisce una determinazione *equivoca*,
mista, psichica o mentale-spirituale. L’animale superiore possesse una facoltà che
incluse un svariatissimo repertorio di questo o quello segno o gesto, mediante
una modulazione combinatorial di questa equivoca determinazione. Quando l’animale
arriva definitivamente alla soggettivazione della propria coscienza, ossia al
suo “lo” distinto categoricamente dal “non-lo” (cfr. Grice, “Privazione e
negazione), entra categoricamente nella coscienza spirituale – del spirito
oggetivo. Questo passaggio costituisce la creazione o mutazione o trasmutazione
o trassustanzazione (metaeousia) dell’uomo, Homo sapiens sapiens, e solamente
questo passaggio colla propria manifestazione può segnare un soggetto umano che
puo attuare in inter-soggetivita con un altro soggeto umano. Qui l’”umanismo” si
manifesta categoricamente nel proprio caratteristico (la definita soggettivazione
del ‘ego’ come ‘ego’ e del ‘tu’ come ‘tu’), e si manifesta colla parola (parabola)
non certo col documento anatomico-fisiologico, che non puo bastare se non a
certa ampla generalità della distinzione o del genus animale. Prima di entrare
a caratterizzare questa crisi importantissima, ossia lo sviluppo dell’anima
nello spirito, dobbiamo assumere la speculazione retro-spettiva della coscienza
da un ordine uranico nel ordine planetario e nel ordine vegeto-animale. In un
ordine uranico, la coscienza procede verso un’individuazione dalla nebulosa al
cometa, al sole ed al pianeta. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo,
assai più caratteristico di quell’antichissima vaga definizione dell'uomo ragionevole,
animale rationale homo est, è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione
di questa soggettivazione è fatta con l’inezzo spiritualmente formolato. Conformemente
a ciò, più innanzi, l’uomo (Homo sapiens sapiens) è designato anzi definito
come coscienza inter-soggettivata. Quest’individuazione, qualunque la si voglia
supporre, non può essere una soggettivazione; perocchè l'individuo (Erberto) non
si distingue dalla specie (Homo sapiens sapiens), e le varie specie dei corpi
celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure,
speculando in un ordine generalissimo, una specie animale e una età
dell’animalità. Nella specie animale piu infima, l'individuo si distingue dalla
specie (una rosa piu bella dall’altra). Nella specie animale superiore, non solo lo specimen si distingue dalla
specie, ma anche il soggetto dallo specimen ė progressivamente distinto. Cosi,
p. es., il corpo di un animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate
ed organizzate fra loro, le quali, svolgendosi dall’una in altra fase,
costituiscono l’organo (dell’organismo), l’apparecchio, e la funzione vitale
dell’animale. Ma la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è
nell’organismo dell’animale concreto, e non negli animalcoli gregarii che lo
costituiscono. L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo
svolgimento del senso del pensiero. Qui dobbiamo definire la distinzione del
senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla coscienza;
perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente (il senso non sente,
l’animale sente), ma può supporsi astratto dalla *co-scienza* del senso;
perocchè la co-scienza e il senso funzionano indistintamente. Finchè la co-scienza
non si distingue categoricamente dal proprio oggetto. E una co-scienza identica
alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la co-scienza
si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: “Io sono e
l'oggetto è” – “Io sono quello che sono, e l’oggetto quello che è, cioè l’ “lo”
e il “non-lo” (p. es., il tu) *siamo* due termini distinti in relazione
d’intersoggetivita. Quest’idea fondamentale che si percepisce un “lo”
(pirothood) è la soggettività; ossia, la nascita dello spirito. Nascita dello
spirito e nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente
in questo. A conferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei
vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel
susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il
principio sensitivo non come pura e semplice *sensazione*, ma come *sentimento*.
Sulla predetta distinzione, del resto, ritorno nei paragrafi susseguenti. Lo
spirito consta di tre fasi: il sentimento (aisthetikon), l’intelletto (noetikon)
ed il concetto – il A e B – concetto soggetto, concetto predicato). Lo spirito
nel sentimento è uno spirito immediato che poco si distingue dall’anima
senziente. Ma quest’anima senziente appartiene allo spirito, perocchè si *percepisce*
soggetto (un ‘lo’). Il sentimento consta di tre termini: l’attenzione (la
risposta ad un stimolo), la memoria (il riflesso condizionato), e l’imaginazione
(la risposta ipotetica o condizionale). La funzione più o meno complessa di
questi tre termini crea la *soggettività*, che lentamente si svolge dal
sensibile nel cogitabile (co-gitatum, cogito; ergo sum). L’attenzione deve funzionare
nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve *sentire* *che* il senso della
natura – ossia, l’istinto -- più non gli basta. Questo sentimento dell’insufficienza
del proprio istinto l’avverte *che* necessita osservare ed imparare la pratica
della vita. E la prima funzione della mentalità. Epperciò la lingua ariana
conserva più la traccia della parentela del concetto di “manere” e “mens” -- quasichè
pensare e fermarsi, ossia il soggeto ferma l’attenzione sopra un oggetto – che
puo essere un altro soggetto --, siano due operazioni molto affini. Veramente,
tuttochè sommamente dissomiglino queste operazioni, nella loro sensibile inanifestazione
esteriore s’identificano in un fatto comune, quello dell’arrestarsi – la
risposta ad un stimolo. La co-scienza che fissa l’attenzione sopra un oggetto
(che puo essere un altro soggetto), cerca nell’oggetto qualcosa *oltre* il sensibile
immediato, quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente,
ma la funzione di una sensazione trascendente. Una seconda funzione del
sentimento è la memoria. Mediante la memoria, una sensazione o attenzione
presente si può risuscitare quando non sia più presente. La co-scienza
attentiva all'oggetto studia un oggetto esteriore ed abbisogna della presenza
di esso oggetto per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa
l’oggetto osservato (che puo essere il ‘lo’ – l’identita personale come
memoria), epperciò si costituisce in-dipendente dalla presenza del medesimo
oggetto. Una terza funzione del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione
non solo conserva l’oggetto osservato, ma *crea* l'oggetto possibile che non ha
osservato. Questa funzione emancipa o libera la co-scienza, non solo, come la memoria,
dalla presenza dell’oggetto (s’ricorda o imagina un oggetto assente), ma anche
dalla sensibile esteriore realtà del medesimo oggetto, epperciò l’imaginazione
può liberamente crearsi una propria oggettività, alla Meinong. Questa facoltà
crea non solo l’oggetto composto (compesso combinato) di due oggetti (obble 1 e
obble 2) osservati, ossia non crea solo la mera composizione, addizione o
combinazione, ma puo creare un oggetto che non consta di questo o quello
elemento osservato, ma un oggetto radicalmente imaginario (un circolo quadrato,
un numero imaginario), tuttochè le semplici categorie dello spirito e della
natura debbano necessariamente fornire all’imaginazione se stesse per possibilitare
questa creazione imaginativa o predittiva. Il passaggio dalla coscienza
senziente alla cogitante, ossia dalla bestia all’uomo, è pure una progressiva
distinzione della co-scienza in soggettiva ed intersoggetiva. Qui la distinzione
de soggetivita e intersoggetivita è una mera distinzione generale dell'”io” dal
“non-io” (il ‘tu’). L’ “io” si suppone vivente e pensante *altro* dal non-io
(il tu, in combinazione, il noi), in sè stesso parimenti vivente e pensante. La
natura si rivela come un *popolo*, popolazione, aggreggato, organismo sociale,
di piroti viventi e di pensanti, non si suppone ancora l'altro dal vivente-pensante,
ossia il non-vivente e il non-pensante. Si suppone semplicemente l’altro dal
moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre,
stochiologica e minerale, la vegetabile o l’animale si suppone distinta dal mio
io, non però distinta dall’io generalmente parlando, ossia si suppone possedere
un loro io analogo a quello della mia co-scienza. Esaminate la radice, ossia
gli antichissimi elementi della comunicazione e troverete ogni dove segnata
l'universa natura (physis) come vivente e pensante analogicamente alla mia co-scienza.
Non vi troverete mai la natura morta colla sua forza cieca, governata da
necessità parimenti cieca, vale a dire, la natura della riflessione. Il
sentimento esplicito dalla mia co-scienza soggettiva può essere comunicato
dall'uno all'altro individuo. È questa comunicazione (o conversazione, nel
senso biblico) la prima proprietà per cui una idea cogitabile è distinta da una
mera sensazione per definizione non-condivisibile. Nessun sistema di
comunicazione puo fornire una sensazione, se questa non sia stata data dal
senso (il ‘dato del senso) come tale – nihil est in communicatione quo prius
non fuerit in sensu). Potrò, p. es., parlare in qualsivoglia modo di un oggetti
visibile. Ma un cieco nato non puo mai ne sentire ne comprendere che sia la
visibilità. Se un soggetto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva puo,
parlando di un oggetto veduto, richiamarli alla memoria quasi visibilmente
presente, ma non puo mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile
realtà colla semplice imaginazione. La prima conseguenza della co-scienza
senziente che si sviluppa nella cogitante è che, siccome l’idea o concetto come
tale, ossia nella forma della co-scienza cogitante, può essere *trasmessa* (il
trasmesso) dal l'uno soggeto all'altro soggetto, non può essere trasmesso il
senso come tale, ossia nella forma della co-scienza senziente. Cosi un soggetto
è abilitato a sapere quello che non egli, ma l’altro soggetto ha percepito col
senso (“Una serpe!”), oppure quello che egli in altro tempo ha percepito col
senso, oppure indurre un’idea da quello che presentemente percepisce col senso.
Cosi, p. es., la pecora condotta al macello *vede* macellare la sua simile e fortunatamente
non solo *non* induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce
che questa presente operazione segna un'uccisione; perocchè non possiede l'idea
o il concetto della morte. Cosi il soggetto pensante o intellettivo può sapere
quello che il senziente non può sapere, e questo sapere nasce dalla facoltà
cogitativa o concettuale, per la quale da una sensazione si astrae un’idea
generale o un concetto. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato
colla memoria, e nell'avvenire (possibile o reale) coll'imaginazione; il
soggetto senziente, o bestia, vive astrattamente nella sua sensazione presente.
In virtù della sensazione che non può essere indotta in un’idea, egli non
possiede, come il pensante, la distinzione di una natura predominante ed
insubordinabile al soggetto e di una natura subordinabile e passibile del
soggetto. Quest’idea prototipa della forza è un’idea cardinale dello spirito, è
stata il primo germe del sacro. Osservate il sacro e lo troverete Dio, non
perchè sommamente ragionevole, ma perchè onnipotente. Nella religione
spiritualmente più adulta rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto
che quella della ragionevolezza, l’attributo eminentissimo del sacro. Mediante
questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato, di
essere stato lattante, di essere stato partorito, e cosi pure può sapere che
OGNI soggetto, nessuno eccettuato, non vissi oltre una certa mnassima età, ma
morirono in quella o prima di quella. Conseguentemente egli sa *che* il soggetto
non solo nasce (si genera) e muore (corruption), ma può nascere in varie
condizioni e morire in qualsivoglia momento della sua vita. La nozione della
nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della co-scienza realizzato la
prima volta che la co-scienza senzienle si svolge nella pensante; perciò
sapientemente nella “Genesi” è detto che l’uomo (Adamo) prima di peccare, ossia
di gustare il frutto del bene e del male, non moriva, ed avendolo gustato dovrà
morire. Veramente la co-scienza senziente non può sapere di nascere e di
morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione *trasmessa* (il
trasmesso) da un soggeto ad altro soggetto, ovvero un'idea indotta dal fatto
costante della morte. Questa crisi della co-scienza, ci manifesta che la co-scienza,
dalla sensazione svolgendosi nella mentalità, procede in un sistema di
distinzioni ideali o possibile o concettuali e astratte che non sono possibili
nella mera sensazione. La mentalità, che nasce dalla sensazione, è prototipicamente
*imitatrice* o inconica della sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la *forma
logica* della sensazione stessa, che progressivamente si trasforma in quella
del pensiero. La mentalità è prototipicamente sentiment e funziona in tre caratteristiche
funzioni -- attenzione, memoria, ed imaginazione. Da queste tre prototipiche
funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La
mentalità non più vive nell’immediata sensazione ma crea il conflato
temporaneo, e vive nella retrospettiva del passato, e nella prospettiva
dell'avvenire. Questo conflato temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre
l’immediato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità inducibile
dall'osservazione. Da quest’osservazione nasce una seconda idea elementare
della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza
subordinabile alla nostra. Di qui la mentalità si esercita per subordinare le
forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un
fatto costante che l’uomo nasce e muore, e finalmente che *io*, come uomo, ma
no come persona, sono nato e devo morire. L'idea della morte come necessità,
tuttochè sembri un’idea comunissima, è lungi dall'essere tale. La co-scienza
primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi viventi, percepisce la morte
come un fatto costante. Ma, come la riſlessione, non arguisce punto che questo
fatto, tuttochè costante, sia necessario. Suppongono questi selvaggi che la
natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso l’uomo. Ma suppongono parimenti
che quest'uccisione non sia una necessità, ma una sfortunata accidentalità. La
co-scienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un
sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto possiede la sua propria
determinazione individuale. Ma proprie determinazioni non affettano un sistema generale
della co-scienza umana, che perciò ſu chiamato senso comune. Mentre questo
sistema generale della co-scienza è pienamente uniforme al senso comune, il
soggetto è un soggetto comune e spiritualmente normale. Ma quando questo sistema
si aliena dal senso comune in on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende
con un giudizio prestigioso i giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che
questo soggetto è inspirato, ossia profetico, taumaturgico, e così via.
Generalmente parlando, questa co-scienza trascendente subordina la comune, come
provano i varii sacerdoti della primitiva religiosità romana ed etrusca. Quando il soggetto si
aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed
esercita una pratica contradittoria o contraria o opposta a sè stessa, ovvero
incompatibile colle esigenze generali della pratica oggettività, allora si dice
che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente. L'alienazione
vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal mero senso
comune (in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi furono
alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze pratiche
dell'oggettività naturale e spirituale (in questo senso gli alienati sono
coloro che comunemente si chiamano pazzi). La co-scienza trascendentale, ossia
la co-scienza dominata dall'idealismo, co-scienza essenzialmente poetica, è il
polo opposto della co-scienza dominata dalla sensazione, co-scienza essenzialmente
prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità, a
questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura
primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di
quest'opposizione archetipica della sua storia. La funzione più essenziale e
più generale della mentalità è la comunicazione (il trasmesso). Il primo stadio
del trasmesso è l'uso di una radice designativa – de-segna – segna. Qui io non
segno che una presentazione o un modo di una presentazione, e sempre si riduce
alle semplici categorie dello spazio e del tempo. Il pronome personali non fu
primitivamente io e tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a
questo primo stadio della lingua, ma, “qui”, “là” (Bradley, this, that, and
th’other, thatness, thisness), ecc., categorie dello spazio. Un sistema di
comunicazione che consta di radici semplicemente per la che io de-segno non può
soddisfare alle esigenze più generali della mentalità, epperciò da questo primo
stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio.
Il secondo stadio consta della combinazione di una radice con la che de-segno
con una radice pre-dicativa, ma tuttavia legate a una sensibile determinazione;
cosi, p. es., per designare un oggetto, si sceglie l'attributo sensibile più
esplicito in quel l'oggetto, p.es., il verde per designar la pianta, il bianco
per designer la neve. Quest’attributo sensibile, sendo necessariamente variabile
o contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo
stadio si trovano molte lingue dei selvaggi o barbari, i quali scelgono un
attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono
arrivare a formolare le specie o il genus o l’universale, ma semplicemente
oggetti in certe sensibili condizioni. Il terzo stadio usa la categoria propria
della mentalità esplicita, la categoria metafisica, per designare l'oggelto;
come, p. es., define la pianta non l'individuo verde, ma l’individuo polare, i
cui poli cospirano alla luce ed all'acqua. Questa proprietà generica comprende
ogni pianta; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale della
pianta. Il gesto è posseduto da ogni animale come inezzo psichico di movimenti
o di formalità; ma il gesto che caratterizza la soggettività è appunto il
trasmesso psichico che si svolse nella spirituale. La prima radice segna una
mera affezioni dell'anima e più tardi si svolse in un segnato meta-forico, per
rispondere all'esigenze della progressiva mentalità. Il rapporto fra il canale
fisico *espresso* dall'anima e l'anima esprimente (segnante) è quello stesso
rapporto, ma più complesso, per il quale un animale segna con un certo definite
gesto certa definite affezione della sua anima. L'uomo, sviluppando in sè
stesso la propria mentalità e l’inezzo per segnarla, si conobbe come specie
comune. Il primo sistema di comunicazione quasi naturale deve essere stato
pressochè identico in ogni umano, come ogni pecora bela, ogni cani abbaia ed
urla. Dovette essere un inezzo nato con lui e trasmesso senza il minimo bisogno
di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La
communicazione è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente
trattati dal filosofo, il quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme
antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato,
infatti, in molte sue opere. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande
opera, cioè Saggio circa la ragione
logica di tutte le cose “Prolegomeni,, Torino, pag. 43 e ss. (confr. anche ibid.,
pag. 291 e susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già
pubblicale in Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.;
nella Introduzione alla cultura generale (facente parte del predetto vol.),
pag. 120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite.
L'uomo che possedette questo sistema di communicazione visse nelle foreste in una
aggregazione o società piuttosto fortuita, poco dissimili da quelle dei
quadrumani, ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo
facea più fragile degli altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa
nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria
scaltrezza. Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello
dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore
o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere solitario.
Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità
dello stato proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente
manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla
conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale
s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i
loro nemici, amici, consanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè
ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da
mangiare. Quest’enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l’affezione alla
progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella
mentalità. Sono certo che la quasi totalità de’ filosofi non sarà d'accordo su
questo puntoe riterrà l’associazione umana come una necessità e non già come
un'accidentalità. Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da
lui fatta, è stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo
particolare carattere. E una mentalita che si manifesta come un'orribile
perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo
d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima
perversione, può nobilitare l’uomo antropofago sopra la bestia istintualmente
tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio
o barbaro in procinto di essere cattivato dai suoi nemici, può suicidarsi, la
bestia non mai (penguino?). L'istinto della propria conservazione individuale è
un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della
conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della
natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano
fra gli animali pensanti come il penguino. Tuttochè qui dobbiamo parlare del
soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata
dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della
comunicazione, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggett, senza
convenzione, indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla
nessuna organizzazione. La comunicazione appartiene cosi al soggetto solitario
(il Deutero-Esperanto di Grice ch’inventa al bagno) come al soggetto socievole,
e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni
dell’amore. L’uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla
femmina come un mero rapporto erotico occasionale. Abbandona la femmina alle
conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati,
nudriti ed educati dalla madre. Ma la comunicazione, che persuase la copula
dell'amore, è la medesima colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la
comunicazione può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume
dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si
può dire in tesi generale che la comunicazione genera la storia nella sua più
semplice elementarità; e dallo svolgimento della lingua si conosce lo svolgimento
dell'umana mentalità e conseguentemente, delle gesta che ne sono conseguite. Mi
furono mandati a casa, in Torino, dal benemerito libraio Loescher tre
grossissimi volumi intitolati Paselogices Specimen Theoo editum. Intri, etc. Un
filosofo di nome Teofilo Eleutero è a tutti ignoto; e non fu poca la mia mera
viglia nel vedere come un'opera filosofica così voluminosa, scritta e stampata
in latino, avesse potuto sfuggirmi; giacchè, come adesso ancora nella mia tarda
età, specialmente allora ho sempre seguito con vivo interesse il movimento
filosofico. La curiosità quindi di sapere chi egli fosse, e qual valore avesse,
mi fe' tosto gittare gli occhi sul primo volume che portava la designazione di
Prolegomena, e che, come subito vidi, era una Introduzione, o Propedeutica che
voglia dirsi, a tutta l'opera. La mia meraviglia crebbe dopo la lettura delle
prime pagine del volume, tanto più che ad essa si congiunse il sentimento del
l'ammirazione: sentimento che col proseguimento della lettura di venne un vero
entusiasmo. Io mi trovava dinanzi ad un hegeliano, e, per giunta, un hegeliano
di alto ingegno e di larghi propo siti: i quali propositi erano nientemeno che
quelli di una Riforma dell'hegelianismo mediante principii dell'hegelianismo
stesso. Comunicai la mia impressione e il mio entusiasmo al signor Loescher, il
quale m'informò che l'autore dell'opera era un intrese, di nome C., dalla cui
figlia aveva ricevuto l'esemplare dell'opera che mandò a me per prenderne
conoscenza. L'impres sione e l'entusiamo potettero ancora, per mezzo della
figlia, essere comunicati al filosofo, che era già assai infermo e che poco di
poi morì della malattia che da parecchi anni lo travagliava, la paralisi
progressiva. Io continuai, naturalmente, a leggere e stu diare la preziosa
opera, ed è di essa che accennerò maggiormente in questo ricordo del filosofo,
essendo essa indubbiamente il maggior titolo del valore e della posizione
filosofica del medesimo. Senonchè, a render meno incompiuto il ricordo, mi si
conceda che rilevi alcuni altri particolari della sua complessa personalità.
Per cio che concerne biografia e bibliografia mi limiterò alle poche notizie
seguenti. Assolti bene o male, anzi piuttosto male che bene, i primi elementi
della sua istruzione, comincia a trarre qualche profitto in un collegio di gesuiti
a Novara. È una singolare circostanza questa, che un uomo che ebbe sempre uno
spirito non solo diverso, ma anche opposto a quello de' gesuiti, avesse proprio
da questi avuto il primo impulso e il primo profitto agli studi Ma un profitto
maggiore e un vero inizio di studi serii sono da lui fatti a Firenze, ove si
reca subito dopo, mettendosi in relazione cogli uomini del famoso Gabinetto
Viessieux e consacrandosi tutto agli studî' di lingue, lettere e scienze.
Quanto a lingue, tra il tempo che e a Firenze e gli anni che immediatamente
seguirono, ne apprese parecchie tra antiche e moderne, allo scopo non solo di
legger la filosofia negli idiomi originali, ma anche di viaggiare, per prender
diretta notizia di uomini e cose. Infatti, comincia subito a viaggiare
percorrendo in lungo e in largo non solo l'Italia, ma anche la Svizzera, la
Francia, la Germania, l'Olanda e l'Inghilterra. Gli studî che fa nella prima
giovinezza si allargano e diveneno più intensi, quando dopo i viaggi si ritira
nella nativa Intra, nella quale accanto agli studi comincia anche a scrivere
opere di vario genere, segnatamente filosofiche. Nella sua carriera di filosofo
passa per varie fasi, che io (nella mia opera intitolata Notizia degli scritti
e del pensiero filosofico di Ceretti) designo e describo come fase poetica,
fase filosofica in genere ed hegeliana in ispecie, fase di transizione, fase
utopistica e riformativa della società civile, e fase ultima del pensiero
cerettiano, la quale è quella del cosìdetto sistema contemplativo. Ad ognuna di
queste fasi corrispondono opere, e non poche, che si muovono nell’orbita del
pensiero cerettiano gradatamente svolgentesi ed esprimentesi in essa. Le quali
opere, se si considera il complesso di esse tutte, costituiscono una massa
addirittura ingente, che versa su tutte le parti dello scibile. E, infatti, un filosofo
universale. Tanto per dare una idea della predetta massa di saggi, ricordo innanzi
tutto quelli che si riferiscono alla fase poetica, la quale gli scalda tanto la
mente ed il cuore, che gli fe ' dire: Cari poeti, voi dell'alma mia foste il
primo verissimo Messia. Ad essa appartengono le opere poetiche di genere romantico:
Eleonora di Toledo; il Prometeo; il Pellegrinaggio in Italia; le Poesie liriche:
inoltre, queste altre di genere giocoso, satirico e filosofico e scritte anche
in tempo posteriore alla giovinezza: le Avventure di Cecchino, e le Grullerie
poetiche. A queste opere scritte in versi se ne potrebbe aggiungere un'altra
scritta in prosa e pur facente parte di questa prima fase, cioè quella
intitolata Ultime Lettere d'un profugo e costituente un romanzo sul genere del
Werther di Goethe e del Jacopo Ortis di Foscolo. Questa prima fase nella quale la
sua mente è ancora incomposta ed in via di formazione – è caratterizzata
dall'aspirazione di lui ad incarnare in sè stesso i pensieri e i sentimenti de'
grandi uomini del suo tempo e di quello che immediatamente lo precede
(Cenobium). Il che egli stesso riepiloga ed esprime dicendo. In giovinezza io
fui innamorato e delirante alla Werther, patriota furibondo alla Ortis,
stravagante alla Byron, dolorante alla Leopardi, misantropico alla Rousseau,
satanico alla Voltaire, ateo materialista alla La Mettrie, e finalmente
miserabile alla mia propria maniera. Alla seconda fase, che contiene la sua
filosofia più eminente e più compiuta, appartiene -- oltre ad un primo abbozzo
di opera intitolata Idea circa la genesi e la natura della forza — la grande
opera latina predetta “Pasælogices Specimen”. La filosofia di questa fase ha il
fondo hegeliano, ma però da lui riformato. Le ultime fasi costituiscono poi una
ulteriore deviazione tanto dal pensiero hegeliano in genere, quanto
dall'istesso pensiero hegeliano da lui riformato ed esposto in que st'ultima.
Come prima deviazione e ad un tempo come transizione alle fasi susseguenti si
possono considerare la “Sinossi del l'Enciclopedia speculative”, le “Considerazioni
sul sistema della natura e dello spirito; l'Insegnamento filosofico: le quali saggi
hanno ancora spiccatamente il carattere di filosofia teoretica ed
enciclopedica. La nota principale della suddetta deviazione è che al logo
assoluto, il quale nella grande opera latina diviene il principio cerettiano
riformativo dell'Idea hegeliana, viene più de terminatamente e accentuatamente
sostituito il principio della coscienza assoluta, Coscienza, che, a dir vero, e
già apparsa nella stessa opera latina. Quale ulteriore deviazione, ma
specificamente appartenenti alla fase utopistica riformativa della società
civile, si ricordano le opere intitolate “Sogni e favole” e “Proposta di una
riforma civile”. Oltre ad esse, vanno ricordate anche queste altre, le quali
però sono scritte in forma di romanzi, cioè, i Viaggi utopistici;
l'Inconcludente; Don Simplicio; Don Gregorio; il Protagonista, e qualche altra.
La deviazione massima è in quegli altri saggi, che rappresentano più
spiccatamente l'ultima fase, nella quale perviene ad una specie di
subbiettivismo nullistico, da lui designato, come è detto, col nome di sistema
contemplativo. I pensieri di quest'ultima fase appaiono in parecchi altri
scritti dell'ultimo tempo di sua vita, come per esempio, per nominarne alcuni,
nella Vita di Caramella e nelle Memorie postume. Ma gli scritti mentovati delle
diverse fasi, benchè già numerosi, non costituiscono neppur gli scritti tutti
del filosofo d'Intra, essendovene una quantità ancora notevole, che possono
esser nominati scritti varii ed ai quali appartengono: Biografie, Autobiografie
(tra queste, notevolissima, La mia Celebrità), Commedie, Novelle morali, ecc. e
persino un Trattato d'Astronomia e un Trattato di Medicina. Come vede il
lettore, quella che io chiamava una ingente massa di scritti, e versante sulla
universalità dello scibile, non è una denominazione esagerata, ma interamente
reale. E ciò basti a dare una idea sommaria degli scritti del filosofo intrese.
Per cio che concerne il filosofo propriamente detto, va considerato rispetto al
corso della filosofia in genere ed al periodo filosofico idealistico tedesco in
ispecie, nel qual periodo si riattacca alla maggiore manifestazione speculativa
del medesimo, che è la hegeliana. Si apparecchiò a pigliare il suo posto in
quest'ultima, con uno studio e conoscenza non comune, primamente delle varie
discipline dello scibile, sopratutto di quelle concernenti la Storia universale
e le Scienze positive e naturali d'ogni specie; secondamente, di quelle
attinenti alla filosofia propriamente detta. Rispetto a quest'ultima, è
veramente ammirabile l'opera del nostro filosofo, che – dopo i suoi profondi
studi sui filosofi delle diverse età (non esclusa quella stessa della filosofia
indiana ) e in genere ne' testi originali de' medesimi ne ha dato un saggio
notevolissimo egli stesso nel primo volume della sua opera latina, cioè ne'
mentovati Prolegomeni. Ma nella Storia della filosofia uno de' periodi che più studia
e conosciuto è il predetto periodo filosofico tedesco sì ne' filosofi massimi
di essa, come Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, si ne' secondarii e pur
importanti del medesimo, come Herbart, Schopenhauer ed altri. In questo periodo
e naturale che quello che massimamente attraesse e legasse il suo spirito fosse
Hegel, siccome quello che compendia in sè, primamente la Storia filosofica
generale e, in secondo luogo, lo stesso speciale periodo tedesco. Hegel, in
fatti, è da lui considerato come quello che ha raggiunta la più alta forma di
speculazione nella scienza filosofica, sopratutto nella disciplina logica.
Considerando il filosofo tedesco in tal modo, è naturale che nel complesso ne
accogliesse le idee e si riattaccasse a lui. Senonchè, pur accogliendole, non
le riteneva scevre di vizii o errori che voglian dirsi. In conseguenza di ciò
si propose da una parte, di additare questi vizii, dall'altra, di correggerli.
E la correzione, che costituiva per lui una riformazione dell'hegelianismo, non
è poi altro che la filosofia cerettiana stessa, quale è concepita ed esposta
nella predetta grande opera latina. Ciò posto, seguiamo ora tal pensiero
filosofico cerettiano ne suoi tratti fondamentali. Primamente, accogliendo
l'hegelianismo come la predetta suprema manifestazione della coscienza
filosofica, ei l'accoglie nel general fondo e pensiero del medesimo, fondo e
pensiere, che vengono da lui riassunti ne' seguenti principii generali. Primo, L'assoluto
è l'Idea. Secondo, l'Idea concreta è lo spirito. Terzo, l'essenza concreta ed
assoluta dello Spirito è l'Idea logica. Inoltre, l'evoluzione dialettica del
l'Idea, nella quale evoluzione consiste il processo metodico di quest'ultima,
avviene e deve avvenire secondo la Nozione, ossia secondo il Concetto, come
dice Hegel (dem Begriffe nach). Rispetto a tali principii designati come
hegeliani non che come veri e inoppugnabili, e quindi da lui stesso accolti, va
però osservato, che di essi non può essere ritenuto come schiettamente e
veramente hegeliano il terzo; giacchè, secondo Hegel, l'essenza concreta ed
assoluta dello Spirito non è l'Idea logica. Questa è per Hegel l’Idea pura e
semplice soltanto, e però immediata ed astratta, non ancora dialetticamente
esplicata e, mediante l'esplicazione, fatta concreta. L'essenza assoluta e
concreta dello Spirito è per lui invece l’Idea che da puramente e semplicemente
logica (da Idea logica ) si è estrinsecata nella Natura (cioè si è fatta Idea
naturale o Natura), e, attraverso di questa, è giunta a coscienza di sè, ossia
è divenuta spirituale, o, che vale lo stesso, è divenuta Spirito. In altri
termini, l'essenza concreta assoluta dello spirito è la coscienza dell'idea,
ovvero è l'idea conscia di sé, mentre l'idea logica hegeliana è ancora
inconscia. Per cio che concerne i mancamenti e vizii della dottrina hegeliana,
essi, secondo C. concernono l'evoluzione dialettica dell’idea, o, che vale lo
stesso, concernono l'idea nel suo processo (esplicazione) dialettico. Un primo
vizio generale in tale evoluzione è per lui quello che nella logica hegeliana
concerne il prius e il risultato dell'idea. Notoriamente per Hegel, benchè l'idea
sia, da una parte, il principio universale assoluto, e, dall'altra il principio
iniziale dell'evoluzione dialettica assoluta, principio iniziale che farebbe
come il prius ideale dialettico, pur non di meno pel filosofo tedesco il vero prius
dell'idea non è questo iniziale, ma quello finale a cui l'idea perviene come risultato
del processo dialettico, risultato finale che è propriamente lo spirito, ossia
l'idea pervenuta a coscienza di sè. È per questo che Hegel sostiene che il vero
prius non è l'idea logica, ossia l'idea pura ed estratta, ma lo spirito, che è
l'idea che col processo dialettico si è fatta veramente reale e concreta. Or
questo prius che Hegel pensa e pone come vero è invece dal Ceretti ritenuto
falso, perchè pensato ed ottenuto secondo un procedimento dialettico
prestigioso e sconforme al vero ordine logico, che deve avere e seguire il logo
(logo che, come tosto si vedrà, è il principio specifico assoluto cerettiano
sostituito all’idea hegeliana). Accanto a questo vizio generale, trova e addita
vizii particolari affettanti l'idea come logica naturale e spirituale. I vizii
spettanti all'idea logica e al corrispondente processo dialettico sono tre. Il
primo vizio è che nell'esplicazione dialettica dell'idea logica la genesi di
questa sia una genesi della nozione dalla non-nozione. Il secondo vizio è che
l'esplicazione dialettica dell'idea logica è piuttosto un'astratta esplicazione
delle categorie, anzichè un concreto un rimmanente processo di esplicazione ed IMPLICAZIONE.
Il terzo vizio è che il processo dialettico dell'idea logica hegeliana è
piuttosto un logo astratto astrattamente esplicantesi e riassumentesi insultato,
anzichè la sanzione (o affermazione) di sè stesso nella concreta immanente ed
assoluta verificazione della propria posizione, dialettica e riassunzione. Il
primo de' tre vizii indicati, riproducendo il mentovato general vizio del prius,
ei lo determina meglio designandolo come processo inconscio dell'idea logica,
processo che Hegel pensa appunto come inconscio ed C. pensa e vuole invece come
conscio. E può dirsi che su tal coscienza dell'idea logica poggia il punto
cardinale della differenza dell'idea hegeliana dal logo cerettiano. Quanto al
vizio concernente l'idea naturale, esso è in grosso quello stesso
dell'astrattezza, testè rilevato, o, che vale lo stesso, della non raggiunta
realtà dell'idea nel farsi naturale. Infatti, l'idea logica, estrinsecandosi e
divenendo natura, rimane in quello stato astratto e puramente e semplicemente
ideale che ha come idea logica, e non giunge a veramente naturarsi, com'ei dice,
cioè a farsi vera realtà naturale. E finalmente, quanto allo spirito, od idea
hegeliana spirituale, il filosofo intrese vi trova il vizio di quella stessa
prestigiosità speculativa (speculativa prestigiositas), che ha trovata e
rilevata per la logica. Ed osserva, per giunta, che il general vizio innanzi
mentovato dell'idea hegeliana, che cioè essa sia un risultato, diviene più
specifico nello spirito, in quanto questo, concepito da Hegel come l'idea che
dal suo esser-altro (cioè dalla sua esistenza naturale ) ritorna a sè stessa,
ha appunto il carattere speciale di essere un risultato e non una realtà, a dir
cosi, originaria. Accanto ai predetti vizii fondamentali concernenti l'idea
nelle sue varie forme, logica, naturale e spirituale, ne rileva alcuni altri
secondarii; ma noi, limitandoci alla indicazione de ' fondamentali, passiamo ad
indicare le corrispondenti emendazioni di essi. Preposto che all’idea hegeliana
egli in genere sostituisce il logo, principio universale ed assoluto anch'esso,
la prima generale emendazione, concernente il prius ed il risultato dell'idea
innanzi esposti, è fatta da C. nel senso che il logo è oiginariamente conscio e
non già tale per risultato. Rispetto ai tre vizii dell'idea logica propone come
emendazione (Mi piace di riferire colle stesse parole latine del Ceretti il
predetto triplice vizio. Hegelianæ logicæ tractationis defectuositas, in exitu
prolegome norum designata, est primo, quatenus notionis a non-notione
progenesis; secundo, quatenus categoriarum abstracta explicativ, potiusquam
concreta explicationis et IMPLICATIONIS immanens contraprocessu osilas; tertio,
quatenus abstractus er plicativce dialectica LOGUS in abstracta resumptione,
potiusquam in concreta positionis, dialectica et remsumptionis immanente
absoluta verificatione suun ipsum sanciens. Pasael. Spec., CENOBIUM) e però
riformazione, che il primo venga emendato mediante il principio della generale
coscienza logica della nozione od idea hegeliana: il che importa che il logo
sia una nozione (idea) che si genera dalla nozione stessa e non già dalla non-nozione
(nozione inconscia). La emendazione di questo primo vizio coincide in grosso
anche colla generale emendazione predetta del prius e del risultato. La
emendazione del secondo vizio è dal nostro filosofo ottenuta col propugnare ed
effettuare che la genesi delle categorie logiche non avvenga secondo un
processo astratto di sola esplicazione, ma secondo un processo concreto di
esplicazione ED IMPLICAZIONE insieme: nel qual processo concreto i momenti
astratti di esplicazione si negano come astrattamente tali ed affermano perciò
la loro unità. Il terzo finalmente viene emendato, pensando e determinando il logo
assoluto in guisa che esso non rimanga un momento astratto di riassunzione (risultato),
ma che divenga assoluta ed immanente affermazione (sanzione) di tutto il corso
esplicativo, costituendo così un processo e contro-processo, in cui ogni
momento è unità dell'astratto e del concreto. Quanto ai vizi relativi all'idea
naturale hegeliana, la emendazione (stata già implicitamente accennata nella
critica fatta di essi ) consiste in quella che C. appella la NATURAZIONE del logo.
E cioè, mentre Hegel concepisce la natura siccome l'idea ritornante a sè stessa
dal suo esser-altro (dalla sua esternazione ed alterazione), il Ceretti invece
pensa che la natura non è sol tanto ciò, ma è e dev'essere reale naturazione
del logo, ossia reale incarnazione ed obbiettivazione del medesimo. E da
ultimo, quanto all'emendazione del vizio dell'idea spirituale, essa nel
complesso è quella già rilevata nella critica fatta del vizio, e consiste nel
concepir la medesima, ossia lo spirito, siccome logo originariamente conscio e
non divenente tale per risultato d'un processo. Le predette generali e
fondamentali emendazioni, accanto ad altre subordinate e secondarie, son quelle
che nella esposizione ed esecuzione delle idee filosofiche costituiscono la
filosofia cerettiana riformativa della hegeliana, e filosofia riformativa che
forma il contenuto della più volte mentovata grande opera di C., intitolata “Saggio
di Panlogica.” Questo Saggio è un'opera veramente colossale ed è l'enciclopedia
filosofica cerettiana, modellata sulla nota corrispondente Enciclopedia
hegeliana (Encyclopädie der philosophischen duissen schaften) in tre volumi. Concepì
la propria enciclopedia vasto disegno da assolversi in otto volume. Il primo (i
prolegomeni) come propedeutica a tutta l'opera, propedeutica che ad un tempo
contenesse in germe il pensiere della stessa Enciclopedia. Il secondo
contenente (col nome di “ESO-LOGIA”) l'esposizione della logica e metafisica.
Il terzo, il quarto, ed il una con un quinto (col nome di ‘ESSO-LOGIA’)
costituenti la trattazione ed esposizione della filosofia della natura nelle
sue tre parti della Meccanica, della Fisica e della Biologia (od Organica). Il sesto,
il settimo e l'ottavo (col nome di “SINAUTOLOGIA”) designati a trattare la filosofia
dello spirito, distinta anch'essa in tre parti denomi nate Antropologia,
Antropo-pedeutica ed Antropo-sofia. Di questa vasta concezione ed esecuzione il
principio fondamentale ed assoluto è il Logo, che il lettore vede essere in
fondo alla Esologia, Essologia e Sinautologia: Logo che, come si è detto, in
Ceretti piglia il posto e la generale significazione del l'idea di Hegel. Il logo
Cerettiano, come quest'ultima, è l'universa ed assoluta realtà, e realtà con
preminente carattere ideale, comprendente in sè la realtà logica, la naturale e
la spirituale. Per tal carattere anche la filosofia cerettiana è idealismo;
tanto più veramente assoluto, in quanto, non meno e forse ancor più
dell'hegeliano, abbraccia in sè in complessiva unità tutte le forme di
Idealismo apparse nel corso storico della filosofia, si in generale le
antecedenti all'Idealismo tedesco, si in modo più speciale quelle di
quest'ultimo, cioè gli Idealismi subbiettivi Kantiano e Fichtiano, l'Idealismo
obbiettivo Schellinghiano, non che lo stesso Idealismo assoluto Hegeliano.
Questo carattere di universalità ed assolutezza dell'Idealismo cerettiano è una
delle cose più spiccanti, più notevoli ed anche più rilevate dell'Enciclopedia
filosofica del filosofo intrese. Quanto al principio assoluto del Logo, va
parimenti rilevato, che, per la natura conscia del medesimo innanzi additata,
esso vien da C. designato anche come puramente e semplicemente coscienza: per
modo che coscienza e logo ricorrono quasi pro miscuamente nell’enciclopedia
cerettiana ed anche in altre opere posteriori) come espressive e determinative
del principio assoluto. È bene, inoltre, rilevare che tal principio assoluto e
dal nostro filosofo anche puramente e semplicemente detto l'assoluto, il quale
corrisponde in tutto e per tutto al logo e alla coscienza consi derati come
assoluti. Ciò fa intendere come per C. l'elemento conscio costituisce il
carattere essenziale del suo principio assoluto, ossia del suo Logo in tutto il
suo ambito, mentre per Hegel l'elemento conscio è caratteristico e specifico
dello spirito propriamente detto, ossia dell'idea giunta a coscienza di sé. Ciò
farà, d'altra parte, pari menti intendere come il filosofo intrese ponga come
riformativa dell'hegelianismo la proposizione: L'assoluto è la coscienza. Per
cio che concerne la designazione del principio assoluto, rilevo ancora che, ad
esprimere il predetto principio assoluto, egli adopera tante altre volte anche
le parole idea, nozione, persin Pensiere, come Hegel. Ma, se le espressioni son
varie, il senso e valore fondamentale del suo principio è quello del logo
pensato come Logo conscio o coscienza assoluta. Conformemente a ciò (e in
grosso conformemente all'hegelianismo) il Logo vien pensato nella sua IN-TRINSECA
natura e nel suo processo dialettico. Nella sua natura il Logo vien considerato
in tre diverse forme di esistenza, cioè: quale è IN sè, quale è PER sè, e quale
è IN sè E PER sè. La considerazione del Logo IN sè stesso costituisce la
predetta “ESO-LOGIA”, da sis, és, dentro e logos, ossia la dottrina
logico-metafisica del logo. Quella del Logo FUORI DI sè costituisce la “ESSO-LOGIA” (da few, fuori,
in latino, “Exologia”), ossia la dottrina filosofica della Natura. Quella del
Logo IN sè E PER sė, o come il Ceretti la dice, del Logo IN sè e SON sè,
costituisce la “SIN-AUTO-LOGIA”, da “syn” e “autos”, con stesso ), ossia la
dottrina dello spirito. Degno di rilievo è inoltre che il logo IN sè è il logo
nella sua subbiettività. Il logo FUORI DI sè è il logo nella sua obbiettività.
Il logo IN sè e sè e il logo nella unità della sua subbiettività e della sua obbiettività,
ossia è il logo subbiettivo-obiettivo, che è poi il logo assoluto. È bene
parimenti rilevare che come il logo è per eccellenza il logo conscio, il quale
è poi lo spirito o la coscienza, così si designano egualmente lo spirito e la coscienza
nella loro subbiettività, nella loro obbiettività, e nell'unità della subbiettività
e dell'obbiettività. Il predetto triplice modo di essere della natura del logo
soggiace ad un processo esplicativo, che costituisce il processo dialettico,
appellato anche metodo dialettico. Questo processo metodico ha, tanto per Hegel
quanto per Ceretti, tre momenti anch'esso. Questi momenti, che il filosofo
tedesco appella comunemente dell'IN sè, del PER sè e dell'IN sè e del PER sè,
dando loro il valore e significato di momento immediato o intellettivo (della
speculazione dell'idea ), di momento mediato o razionale negativo, e di momento
immediato e mediato insieme, o razionale positivo, vengono invece dal Ceretti
appellati (nel complesso però con valore e significato simili a quelli di
Hegel) momenti della posizione (thesis, positio), ri-flessione e con-cezione.
La posizione, come la parola stessa indica, ha il valore e significato di
quella che comunemente (in Fichte, Schelling ed Hegel), ricorre come “tesi”, mentre
la ri-flessione ha significato e valore di contraddizione (opposizione, ob-positio,
contra-posizione, antitesi ) e la concezione significato e valore di
conciliazione (com-posizione, sintesi) degli opposti, sintesi della tesi e
dall'antitesi. La triplicità delle forme di esistenza del logo (quelle di Eso-Logo,
posizione; Esso-Logo; contra-posizione; e Sinauto-Logo, com-posizione, con le
corrispondenti dottrine di Esologia, Essologia e Sinantologia, costituisce per
C. i tre Cicli di quest'ultimo. Cicli che, mentre son tre, pur ne costitui solo
sotto triplice forma: costituiscono cioè il logo assoluto uni-trino. Un altro
punto pur degno di rilievo e caratteristico è il modo come determina la
considerazione filosofica o speculativa de tre cicli. La considerazione del
primo, ossia dell'Esologia (posizione) per lui il pensiero del Pensiero (“cogitatio
cogitationis”, l’implicazione o impiegazione dell’impiegazione) quella del
scono un ma secondo o dell'Essologia è il Pensiero del Pensato (“cogitatio cogitatis”
– implicazione dell’implicato, o impiegazione dell’impiegato, e quella del
terzo, o della Sinautologia, è il Pensiero del Pensante (“cogitatio cogitantis,”
implicazione dell’implicante, impiegazione dell’impiegante). Anche
nell'hegelianismo il Pensiero assoluto è identificato col l'idea assoluta, in
quella guisa che il Ceretti identifica parimenti il Pensiero assoluto col Logo
assoluto. Però nella espressione e determinazione cerettiana la cosa ha un
significato più specifico, e propriamente questo, che cioè l'Esologia (posizione)
è la considerazione del Pensiero in sè stesso, del pensiero puro hegeliano e
potrei anche soggiungere, della ragion pura kantiana. L’Essologia (contra-posizione,
impiegato) è la considerazione del Pensiero del Pensato, cioè del Pensiero non
più in sè, puro ed astratto, del Pensiero estrinsecato (fatto per sè),
obbiettivato. La Sinautologia (com-posizione) la considerazione del Pensiero
del Pensante (impiegante: implicazione come relazione tra il implicante e
l’implicato) cioè del pensiero come esistente ed esercitantesi nel subbietto
pensante. Potrei dire che la predetta triplice considerazione è quella del
Pensiero puro e semplice, quella del Pensiero come obbietto di sè medesimo (estrinsecatosi
fuori di sè nella natura), e quella del pensiero astratto ed operante come
proprio subbietto (nella coscienza del pensiero stesso o nello Spirito ). Dopo
le antecedenti generalità, passiamo a considerare parte per parte il logo nelle
sue tre forme di esistenza nella logico metafisica (Esogia, posizione), nella
naturale (Essologia, contra-posizione) e nella spirituale (Sinautologia,
composizione). La dottrina logico-metafisica, conformemente alla hegeliana, è
pur distinta in tre parti che anche per lui, come per Hegel, son quelle
dell'Essere, dell’Essenza e del Concetto: solo che queste nel filosofo tedesco
si susseguono nel modo indicato e nel filosofo intrese mutan posto, diventando
primo il Concetto, secondo l'Essere e terzo l’Essenza. Questo mutamento diposto
nella serie porta poi naturalmente con sè un corrispondente mutamento nel
processo dialettico. Le dottrine di queste tre parti così spostate hanno in
Ceretti i nomi speciali di “PRO-LOGIA” (concetto); “DIA-LOGIA” (essere); e “AUTO-LOGIA”
(essenza). La PRO-LOGIA con sidera il Logo esologico (ESO-LOGO) o
logico-metafisico, nella astratta identità del Pensiero (impiegazione). La
DIA-LOGIA (CONTRA-POSIZIONE) considera il logo nella differenza (IMPIEGATO) di
esso. La AUTO-LOGIA (COM-POSIZIONE) considera il logo nella unità sintetica (IMPIEGANTE)
dell'identità E della differenza del Pensiero stesso. Non credo che il nostro
filosofo abbia avuto giusta ragione d'invertire l'ordine de' tre principii
fondamentali predetti. Ma, checchè sia di ciò, è bene di allegare la ragione
dell'invertimento da lui ritenuto razionale e necessario. La quale, a suo
credere, è che per il logo conscio, o che vale lo stesso, per la Coscienza il
primo (prius) PRO-LOGICO (cioè il primo con cui deve cominciar la logica) non
dev'essere nè indeterminato, come sono l'essere di Hegel e di Rosmini-Serbati,
nè determinato (impiegato), come sono l'Io di Fichte e la predetta Ragione di
Schelling, ma dev'essere lo stesso prius, nel quale sieno implicitamente
contenute tanto la indeterminazione quanto la determinazione. E un sì fatto prius
è la PRO-POSIZIONE, che è il primo ed iniziale momento della sua Pro-logia, il
quale è più primitivo e più semplice del giudizio (A e B) che ne costituisce il
secondo, al quale poi segue il terzo unitivo de' due primi, che è il Sillogismo
(CONIUNCTIO, CO-RAZIONALE). Quanto alla natura de suddetti momenti della Pro-logia,
la Pro-posizione è la immediata ed indistinta coscienza logica, la quale,
appunto per la sua indistinzione, non è nè subbiettiva nè obbiettiva. Il
Giudizio (la proposizione pensata) invece è la coscienza logica, che dalla
indistinzione od indifferenza si esplica e passa nella subbiettività ed
obbiettività di sè medesima. E da ultimo il Sillogismo (coniuctio,
co-razionale) è la subbiettività della coscienza logica, la cui attività
consiste nell'esplicare se stessa, esplicazione di sè stessa, che in fondo è
poi una obbiettivazione della subbiettività. Dato tal concetto generale de'
momenti della pro-logia, il nostro autore passa a considerare e determinar
ciascuno in se medesimo, ed inoltre secondo il predetto processo metodico
tricotomico della Posizione (Proposizione, impiegazione), della Riflessione (contra-posizione,
impiegato) e della Concezione (com-posizione, impiegante). Conformemente a ciò,
distingue la Pro-posizione in “posta”, ri-flessa e concepita; e in posto,
riflesso e concepito, distingue e determina parimenti sì il giudizio (proposizione
pensato) che il Sillogismo (impiegante, composizione). La trattazione ed
esposizione di ciò è amplissima, specialmente quella del Sillogismo; ed è non
solo amplissima, ma anche note volissima per le molteplici determinazioni
logiche ed ontologiche non che illustrazioni ed applicazioni d'ogni genere alle
diverse parti dello scibile e della stessa realtà. La trattazione è di tanto
interesse che è degnissima di esser presa da ognuno in considerazione anche
oggi alla distanza di una sessantina d'anni, dacchè fu pensata ed esposta. Non
potendo entrare nelle particolarità a far intendere il pensiero cerettiano sì
nella concezione de' momenti della predetta pro-logia sì nel passaggio da
questa alla Dia-logia, allegherò un luogo nel quale l'autore lo ri-epiloga, e
che è questo. Il pensiero pro-logico, uscito e passato dalla sua generalità
formale (cioè, dalla pro-posizione) colla particolarità formale della sua
generalità (cioè, col giudizio, impiegato) nell'unità formale della sua
generalità e della sua particolarità (cioè, nel sillogismo, la com-posizione,
impiegante), si concepisce come sistema metodico della RAZIONALITà, ossia come
forma assoluta delle forme. La forma sillogistica delle forme pensabili insegna
che il pensiero è essenzialmente il sistema di sè, e non v'è sistema all'in
fuori del sistema del pensiero, poichè l'altro del pensiero non può essere
fatto (posto) da altro che dal pensiero. Inoltre, insegna che il sistema
assoluto del pensiero è il sillogismo giudicativo della proposizione, perciò l'assoluto
non può esser concepito altrimenti. Cosi a pag. 125 della Ragione Logica di
tutte le cose, vol. II. Esologia, nella versione dal latino (Torino, Baldini)) che
nella forma sillogistica. Questa concezione porta con sè la necessità logica di
sè, poichè è la nozione della nozione. Il sillogismo assoluto, come pro-logico,
non è più che la formalità (la forma assoluta del logo, la quale invoca
l'essenzialità assoluta di sè da esplicare in sè da sè stesso. Quindi il
sillogismo passa dalla sua subbiettività assoluta ad esplicare la sua
obbiettività IMPLICITA assoluta. Questa obbiettività è la verità della
subbiettività sillogistica assoluta. Ciò posto, quella che ora effettua il
passaggio e progresso dalla forma e dalla subbiettività del Pensiero alla
essenzialità ed obbiettività del medesimo è la Dia-logia, che per eccellenza è
la dottrina delle categorie logiche del Pensiero. Corrispondendo la dottrina
dialogica cerettiana alle dottrine logiche hegeliane dell'Essere e dell'Essenza
prese insieme, ne segue che le categorie, onde qui è parola, sono in grosso
quelle che ricorrono nelle predette due dottrine hegeliane. Quanto al concetto
della categoria e alla funzione logica della categorizzazione, sono importanti
queste parole del filosofo intrese. La categoria (predicamento) è propriamente
la predicazione del Pensiere fondata dallo stesso pensiere come necessaria; e
la categorizzazione del Pensiere è l'atto più nobile della speculazione
filosofica e la più alta concezione dal Pensiere umano. Nè meno importanti in
proposito sono gli additamenti che fa intorno alla evoluzione storica delle
categorie presso i diversi filosofi e corrispondenti scuole che spiccano
intorno ad esse. Percio che concerne le categorie trattate e sviluppate nella
Dialogia, le fondamentali son quelle dell'Essere, dell’Essenza, e del
l'Esistenza, come costituenti la triplicità dialogica per eccellenza; e da
queste fondamentali se ne sviluppano altre costituenti momenti subordinati, ma
non meno importanti. L'Essere, infatti, è da prima il Logo generale ed
indeterminato (est logus conscentiæ generalis), ma esso si particolarizza e de
termina in sè medesimo in ulteriori principii categorici. Per esempio, si
distingue e particolarizza come QUALITATIVO, QUANTITATIVO, E MODALE, sorgendo
così LE TRE CATEGORIE DELLA QUALITà, della QUANTITà e della MODALITà (misura).
Ed inoltre l'Essere nella sua stessa generità (innanzi alla predetta
particolarizzazione dunque) è essere (pro-posizione), non-essere (opposizione o
contraposizione) e divenire (composizione): (esse, non-esse, latino FIERI,
perduto nel volgare). Come, d'altra parte, le TRE CATEGORIE della QUALITà, QUANTITà
e MODALITà alla lor volta si distinguono e particolarizzano in altre. Chi
conosce la logica di Hegel vede subito nelle predette categorie cerettiane la
simiglianza con le corrispondenti hegeliane. Ed è forse questa la parte, nella
quale si tiene più da vicino a quello, mentre in altre parti vi sono non poche
dissimiglianze. Nel predetto citato volume della Esologia, pag. 132. 4ecc.
Dall'essere il processo dia-logico conduce alla seconda categoria fondamentale
predetta, cioè alla Essenza la quale non è altro che la particolarizzazione
dello stesso Essere (Esse suam absolutam particolaritatem adeptum est
Essentia). Ciò che si è detto avvenire per la categoria fondamentale del l'essere
avviene anche per l’essenza, che cioè anche questa, alla sua volta
distinguendosi e particolarizzandosi in sè medesima, ne produce di ulteriori,
come quelle del fondamento, della sostanza, della materia, ecc. E quanto alla
terza categoria fondamentale, cioè l'esistenza, essa è l'unità dell'essere e
dell'essenza (INSISTENZA, ESISTENZA, CONSISTENZA). Ognuno nella “Ex-istentia” riconosce
l'Esse come particolarizzato. Ma d'altra parte, nella particolarizzazione
dell'Essere si specifica e manifesta anche l'elemento dell'Essenza, per forma
che l'esistenza risulta siccome una manifestazione dell'essenza (“EX-SISTENTIA
est essentia manifesta ). E da ultimo l'Esistenza (E-SISTENZA, EX-SISTENZA) dà
anch'essa origine ad altre categorie subordinate, come realtà, necessità, La
terza parte della Logica (o della Eso-logia ) cerettiana, cioè l'Auto-logia, si
fonda, sviluppa e sistematizza in tre categorie fondamentali, che son quelle di
Sapere, Volere, Agire (Scire, Velle, Agere ), le quali sono in corrispondenza
di quelle che ricorrono nella terza parte della Logica hegeliana, e che sono l'idea
del conoscere (die idee des erkennens ), l'idea del bene (die idee des guten) e
l'idea assoluta (die absolute idee). Va però osservato che il volere e l'agire
che in Hegel si congiungono nell’idea del bene, e costituiscono l’idea pratica,
in C. appariscono, al contrario, come momenti e categorie distinte. Questa
terza parte della Logica del Ceretti è una delle più belle e ad un tempo una di
quelle in cui il Ceretti è come più originale e più indipendente da Hegel. Il
modo come vede la distinzione, la relazione e la unificazione del sapere, del
Volere e dell'Agire è qualche cosa di profondo, di stupendo e di vero, e lo si
vede più chiaramente e più determinatamente di quel che possa vedersi nel, pure
grandissimo, filosofo tedesco. Ciò viene dal perchè i tre momenti, che in Hegel
sono come ancora implicati e inviluppati, in C. ricorrono come più sviluppati e
ad un tempo più sistemati. Il pensiero cerettiano dell'auto-logia è (secondo
che lo espressi nella mia Notizia degli scritti del pensiere filosofico del
Ceretti) che l'assoluto è la coscienza logica che si sistematizza in se stessa,
per quindi sistemarsi fuori di sè allo scopo finale di sistemarsi in sè e per
sè come assoluta unità di sè stessa. L'Auto-logia costituisce un sillogismo
assoluto (cioè una connessa triplicità assoluta), i cui termini sono i predetti
di Sapere, Volere, Agire. Nella Coscienza assoluta il Sapere è l'essere del
Volere. Nel Volere c'è, infatti, esterîorazione del Saputo. Il volere è
l'essenza del Sapere. L’agire è l'esistenza del Volere. Tutti e tre insieme
costituiscono l'unitrinità della Coscienza. Anche le tre predette categorie si
distinguono e particolarizzano in altre. Il Sapere si svolge ne ' momenti
subordinati (i quali son tre sotto-categorie anch'essi) la prima sottocategoria
di sapere immediato, la seconda sottocategoria di sapere mediato, e la terza
sottocategoria di sapere assoluto. Il Volere si distingue e particolarizza alla
sua volta nelle tre forme sottocategoriche. Prima sottocategoria del Volere
subbiettivo. Seconda categoria del volere obbiettivo. Terza categoria del
volere assoluto. La categoria auto-logica dell’Agire si particolarizza nelle
sue corrispondenti tre sottocategorie. Prima sottocategoria di “agire attuoso”,
aagire come atto puro e semplice. Una seconda sottocategoria come Agire
volonteroso. Terza sottocategoria come Agire concettuale.Queste tre azioni o
funzioni categoriche dell’Agire le designa come Agere actum, Agere voluntatem e
Agere notionem. Questo è in breve il concetto e disegno della prima parte della
grande opera enciclopedica del nostro filosofo. La seconda parte, quella del
Logo FUORI sè (EXO-LOGO, esso-logo) o del Logo nella sua obbiettivazione, cioè
la Filosofia della Natura, ha avuta una estesissima trattazione; e trattazione
in cui il nostro filosofo si mostra non poco originale ed indipendente rispetto
alla corrispondente parte della Enciclopedia hegeliana. Essa è PER NOI ITALIANI
TANTO più importante, in quanto non vi è in Italia, neppure presso i nostri
filosofi maggiori moderni, una sola opera che, prima di questa di C., meriti il
nome di filosofia della Natura nel senso ampio, vero e moderno della parola. Io
ho scritto su questa parte della grande opera cerettiana tre lunghissime
Introduzioni ai tre volumi che vi si riferiscono, le quali, riunite insieme e
pubblicate sotto il titolo di “Filosofia della Natura” formano un'opera di ben
487 pagine; e in questa ho ampiamente chiarita e dimostrata la verità di tutto
ciò. Quanto al cenno che posso farne qui, specialmente a cagione della vastità
di trattazione che ha in C., esso non può consistere in altro se non nella pura
e semplice indicazione del disegno, della materia e dell'andamento della
trattazione stessa. Premessa la determinazione della posizione e del concetto
della filosofia della Natura nel Sistema pan-logico, passa alla considerazione
di un punto importantissimo, quello cioè della evoluzione storica della
concezione filosofica della natura, evoluzione che, secondo lui, passa per tre
gradi e corrispondenti forme della coscienza filosofica, la forma estetico-teologica
(o sentimentale) la forma empirico -matematica (o intellettiva e riflessiva ) e
la forma speculativa propriamente detta (o concetturale). E fa in propo sito
una stupenda rassegna storica di queste forme, giungendo all'ultima, ossia alla
hegeliana, alla quale egli si riattacca, ulteriormente sviluppandola e
riformandola in ciò che ha di difettivo. Procede quindi alla partizione della
Filosofia della Natura, dividendola come abbiam detto in Meccanica, Fisica e
Biologia, conformemente alla Natura distinta in sè stessa in meccanica, fisica,
e biotica (vivente). Carattere costitutivo della Natura meccanica è la QUANTITà,
della fisica la qualità, e della vivente l'UNITà (composizione) della quantità
e della qualità, la quale unità è poi la MODALITà o la misura della medesima.
Quanto all'unità inscindibile delle tre parti distinte e de' corrispondenti
tre' caratteri della natura, sono notevoli e riassuntive queste parole del
filosofo intrese. Cioè: Il meccanismo é ove è la fisica (la natura fisica), e
la fisica é ove è il meccanismo; e se vi sono il meccanismo e la fisica, vi è
anche la natura vivente. Ad intendere meglio il rapporto ed il corrispondente
concetto filosofico delle predette tre parti e de' tre predetti corrispondenti
caratteri, arreca un esempio illustrativo, che è bene di riprodurre anche qui.
Il meccanismo suppone necessariamente l'esteriorità reciproca dei suoi termini.
Quando questa esteriorità, passata nella sua interiorità, nella sua unità
inseparabile, trascenda sé a sè esteriore, non versa più in un piano o campo meccanico,
il quale ammetta per sè alcuna intrinsecazione qualitativa della esteriorità
meccanica, ma versa propriamente nella natura fisica del meccanismo (in
mechanismi physi), la quale è la à passatQUANTITa nella sua QUALITà che deve
esplicarsi. Così, ad esempio, in qualunque modo supponiamo il ferro, diviso,
figurato, posto in movimento, ecc., esso non cessa di essere ferro. E quando
per azioni esterne, come ad esempio, per l'ossidazione, cessi di essere ferro,
non consideriamo tali azioni come meccaniche, perchè due modi della materia
(l'ossigeno e il ferro) sono divenuti un solo modo (neutrale), il quale non
ammette più alcuna co-alteriorità esterna di fattori (essenzialissima al
meccanismo, ma è in sè l'unità qualificata de' quanti, la natura fisica del
meccanismo. La quale unità è poi LA VITA, ossia, quel principio grazie al quale
l'alteriorità meccanica si neutralizza fisicamente, e la neutralità fisica si
alteriora (si fa altra ) meccanicamente: il che, in quanto è nella
circoscrizione essologica (naturale), è la vita. Ciò posto, concependo la
natura meccanica o il meccanismo come il sistema della quantità, passa alla
reale considerazione e corrispondente sistemazione filosofica di tutti i
principii (detti anche categorie naturali) della medesima come spazio, tempo,
moto, ecc. Conformemente a ciò, concependo la natura fisica parimenti come il
sistema della qualità, svolge i principii o categorie naturali di essa, come
etere (o materia eterea), luce calore, magnetismo, elettricità ecc. E s'intende
che ciò che è detto della natura meccanica e della fisica, va detto anche della
NATURA VIVENTE, della quale, come unità concreta delle due antecedenti, si
vvolgono, determinano e sistematizzano i corrispondenti principii e momenti.
Questi principii, coi relativi sistemi vitali, sono nella loro generalità e
progressività evolutiva la vita cosmica od URANICA, la vita geologica e la vita
fito-zoologica. Per questa intende la predetta reciproca esteriorità de'
termini. La vastità di conoscenza delle discipline naturali non che la forza
speculativa ch'ei mostra nell'intenderne e collocarne i principii nel suo vasto
disegno del sistema panto-logico sono tali da fare de C. una delle menti
filosofiche più vaste e più profonde del nostro paese. Col terzo volume della
Filosofia della Natura, che è il quinto della grande opera pan-logica, questa
rimase interrotta; però se rimase interrotta, la iattura non è stata nè intera
nè irreparabile. Giacchè i cenni e relativi concetti riformativi anche della
terza parte del sistema pan-logico già delineati primamente ne' Prolegomeni,
poscia qua e là considerati negli stessi quattro susseguenti volumi, son tali e
tanti da potersi fare un concetto chiaro e de terminato anche di esso. Ma, per
giunta ed ulteriore integrazione di questa, lascia due saggi che concernono
proprio questa terza parte, cioè le due già mentovate intitolate, l'una,
Considerazioni sopra il sistema generale dello spirito ecc. (Torino), l'altra,
Sinossi del l'enciclopedia speculativa (Torino). Un brevissimo cenno anche di
questa terza parte è il seguente. Quanto al concetto, obbietto e partizione di
essa, rappresen tando la prima parte la subbiettività del logo o della coscienza
assoluta, e la seconda la obbiettività, questa terza rappresenta l'assoluta
unità delle medesime: assoluta unità, che vien cosi ad essere la Coscienza
subbiettiva obbiettivata e ad un tempo la Coscienza obbiettiva subbiettivata.
Or questa Coscienza risultata tale è ciò che C. (conformemente ad Hegel)
appella comune mente anche spirito, il quale è appunto l'obbietto di questa
parte da lui denominata sin-auto-logia. Intanto, siccome lo Spirito, benchè già
sorgente nella stessa animalità, pur non giunge alla sua reale manifestazione,
esistenza e verità se non nella umanità, così divien questa lo speciale
obbietto della sin-auto-logia. La quale perciò è dal nostro filosofo, designata
come speculante l'Uomo, primamente nella Subbiettività secondamente nella
Obbiettività, e in terzo luogo nella Assolutezza del medesimo: Assolutezza, che
è l'unità della Subbiettività e dell'Obbiettività. Di questa triplice
considerazione, o meglio speculazione, la prima costituisce ciò che egli chiama
l'Antropo-logia, la seconda l'Antropo-pedeutica, la terza, l'Antropo-sofia. I
lettori che conoscono la dottrina hegeliana vedranno tosto la simiglianza della
dottrina cerettiana colla dottrina hegeliana dello Spirito, distinta in quella
di Spirito subbiettivo, spirito obbiettivo e Spirito assoluto. Senonché, se c'è
simiglianza nella generale concezione, c'è anche una notevole differenza nella portico.
L'uomo è la concreta verità dello Spirito (Homo est spiritus concreta veritas).
lare trattazione della medesima. Per dire ancora qualche cosa della concezione
e partizione cerettiana della predetta Sin-auto-logia rilevo che l'Antropo-logia
considera l'Uomo come Subbietto generale. E come tal Subbietto consiste
dell'elemento fisico o corporeo e dell'elemento meta-fisico ossia animico, così
essa è primamente Psico-fisio-logia. Indi considera nel generale subbietto
umano l'elemento, dirò così specificamente umano, ossia la mente, ed è Noo-logia;
in terzo luogo, la mente, o l'attività teoretica, si realizza come attività
pratica e allora l’Antropo-logia nel suo terzo momento è Prasseo-logia o
dottrina del l'azione spirituale. La Psico-fisio-logia, la Noo-logia e la
Prasseo-logia hanno alla lor volta principii, ossia momenti subordinati, e
vengono anche questi considerati, accolti e sistemati nella Antropo-logia
L'Antropo-pedeutica, all'opposto della Antro-pologia che consi sidera l'Uomo
subbiettivo, considera l'Uomo obbiettivo, ossia l'uomo nella obbiettivazione
della propria subbiettività: la quale obbiettivazione costituisce, primamente,
la dialettica mondiale umana e produce ciocchè si appella la storia; è in
secondo luogo il logo sistematico della dialettica obbiettiva, che in senso
lato è ciocchè si appella la didattica; e in terzo luogo è la stessa
obbiettività sistemata nel Subbietto, che è quella che si designa col nome di DIRITTO.
Che anche queste tre parti dell'Antropo-pedeutica (Storia, Didattica, Diritto),
si sviluppino, particolarizzino e sistematizzino in ulteriori sfere, attività,
principii, ecc., lo s'intende da sè. E cosi viene assolta anche questa parte
della Sinautologia. E finalmente vien considerata e trattata l'ultima sfera di
questa, cioè l'Antropo-sofia, la quale ha che fare coll'uomo considerato nella
sua assolutezza, ovvero nella sua Coscienza assoluta, e com prende la sua
attività artistica, religiosa e filosofica. L'Arte è la contemplazione e produzione
del bello, del buono e del vero mediante l'ispirazione estetica: la Religione e
l'apprensione, rivelazione e culto del divino, e tramezza la manifestazione
estetica e la concezione filosofica; la FILO-SOFIA sviluppa la immediata
apprensione religiosa nella mediata concezione del pensiero assoluto. La
triplice ed assoluta attività dello spirito, artistica, religiosa e filosofica
costituisce l'ultimo e supremo sillogismo del Logo assoluto o della Coscienza
assoluta, e con esso si chiude il Sistema pan-logico. Tale è in nuce il vasto
pensiere filosofico cerettiano e la vasta esecuzione del medesimo. Per ciò che
è riferito in queste poche pagine rimando il lettore ai miei molteplici lavori
intorno al Ceretti, specialmente alla Notizia degli scritti e del pensiere
filosofico non che alla Filosofia della Natura » del medesimo. E soggiungo e
annunzio qui volentieri che intorno a quest'uomo, che ha occupato due decenni
di studi della mia vita, son presso a finire l'ultima mia opera: opera che
consiste in una estesa e particolareggiata esposizione di tutto intero il suo sistema
panlogico, compresa la sinautologia. Ho forse speso intorno a lui più tempo di
quel che conveniva per i miei propri studî e lavori. Ma non me nepento, non
solo perchè è stato di giovamento a questi stessi, ma specialmente perchè ho
contribuito a far conoscere un uomo, che fa onore grandissimo alla filosofia in
genere e alla filosofia italiana in ispecie. Grazie! Diamo a giustificazione un
elenco, che pur non si può dire ancora com- pleto, delle opere postume di
C.: Traduzioni varie dal latino,
francese, tedesco, inglese. (VIRGILIO, ORAZIO, Lamartine, Kozbue, Schiller,
Shakespeare, Byron e Thompson). Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre
canti, versi sciolti con liriche intercalate, varie liriche. Ulttime
lettere di un Profugo. Romanzo in prosa, t volume. Pellegrinaggio in
Italia. Canti. Poesie Uriche. Prometeo.
Poema. Storia del diritto Canonico. Avventure di Cecchino. Poema. Miscellanee
filosofiche. Scienze naturali e considerazioni storiche. Scritti. Salùi. Sogni e Favole (umorismo
trascendente), Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con versione latina
(imitazione del greco e latino della Chiesa primitiva). Opuscolo. Grullerie
Poetiche (umorismo parodiaco) Massime e Dialoghi. I Conferenti. Commedia
nebulosa. Ormuzd. Dramma mistico. Synùp s i dell' Enciclopédia Siwr.idatirn -TSimplizio.
Romanzo. Idee radicali delle discipline finite e delle matematiche
empirico-induttive. Cavalier Sriovannino. Romanzo. Manuale di medicina pratica. L'Inconcludente. Romanzo. Lo Zio
Giuseppe. Commedia. Considerazioni sopra il anatema generale dello spirito
entro i limiti ' della riflessione. Considerazion i circa il
sustema della natura entro i limiti della riflessione. Viaggi utopistici. Il
Protagonista. Proposta di una riforma sociale. Considerazioni generali circa la
caratteristica spiritualità dell'Italia. Insegnamento filosofico.Gregorio.
Romanzo. Novellette morali Itinerario d'un Inqualificabile. Trattato di
Astronomia. Introduzione alla coltura generale. I volume. _ Id. La
Divina Commedia. Vita di Giustino Caramella scritta da se stesso. 1
volume. Id. Vita di due Comici. 1 volume, ld. Vita di Virginia
Bonaventura. Sonnambulo. La mia celebrità. Inventario delle mie vicissitudini
mondane. Memorie Posthume. Stramberie philosophiche. La pubblicazione, che si
inizia con questo primo volume, è un monumento che una figlia pia innalza
alla memoria di un amatissimo padre, non per adempiere ad una espressa o
tacita di lui volontà, ma piuttosto in contrasto a questa, e perchè
gli studiosi conoscano, almeno dopo la di lui morte, la profondità
del sapere che egli aveva potuto condensare nella propria mente, e le
diuturne e dotte speculazioni da lui compiute nella sua non lunga
vita. E affinchè niuna meraviglia possa solére .dalla pubblicazione
stessa, e dalle opere che ne sono l'oggetto, in quanto che e l'una, e le
altre, si differenziano alquanto dal comune, parve opportuno e
conveniente di premettere una breve notizia, che dica al lettore chi sia
stalo, e come abbia vissuto fautore, e con quali intendi- menti, e con
quali criteri si diano alla luce i suoi scritti, che egli non ha creduto
di diffondere. C. ha i suoi natali in Intra, la città più popolosa tra
quelle che si adagiano sulle amenissime rive del Lago Maggiore, e meritamente
celebrata per le sue potenti industrie, dal cav. Pietro. Il padre suo,
uomo di chiaro ingegno, tutto compreso della necessità dell'istruzione e
della educazione, prerogativa abbastanza mia in quei tempi, e fervei ile pi
opugualure di ugni istituzione, che ha per iscopo di promuovere quelle due
fonti di civile e materiale benessere, provvide tosto a coltivare
la mente del figliuolo. Seguendo però l'inveterala consuetudine
avita, dapprima l'affida alle cure di questo e quell'abate, che non riuscirono
ad illuminare gran che il di lui intelletto irrequieto, come egli stesso
ha poi umoristicamente narrato in interessantissime pagine. Di poi lo
alloga nel seminario di Arona e nel Collegio di Novara. Ma il
giovanetto, vivace di animo, e la mente precocemente inlesa ad altri
ideali, poco o nulla approdilo di quei primi studi; e liberatosi alfine
dalle pastoie degli insegnanti e del vivere collegiale, tolse a maestro se
medesimo, sorretto solo dalla terrea tenacità del suo volere, e
dall'imperioso ed irresistibile bisogno di sapere. In breve, il diremo
con frase che nel caso nostro non è punlo rellorica, da fondo
all'universo scibile; apprese a parlare ben selle delle moderne lingue, e
delle morte, al latino insegnatogli dai precettori, aggiunse profonde
cognizioni del greco, dell'ebraico e del sanscrito. Si reca a
Firenze, dove soggiorna qualche anno, stringendo amicizia coi primari
ingegni di quel tempo, specie con Capponi, Niccolini, e con quella
chiara pleiade di filosofi che frequentarono il gabinetto del
Vieusseux. Più tardi, desioso di vedere paesi e persone, e fidente nel
suo temperamento robusto e nella florida salute, si da a lunghi e
singolari viaggi. Percorse in vero, più volle, e quasi sempre a piedi,
l'Italia peninsulare, la Sicilia, la Germania, la Francia, e l'Inghilterra,
in cui fece lunga dimora. Ed è tanto in lui il desi- ci) 1 suoi
concittadini venerano ancora in lui il fondatore di un Asilo infantile, die è
Ira i pili antichi, eil b modello a Inlla Italia, e lo zelante Sovra
Jtiteiifh'iitf, per più di 'ìi) unni, delle scuole elementari
riviene. derio di penetrare nei più ascosi recessi e della natura, e
dell'animo umano, che attraversa i più malagevoli passaggi dei Pirenei,
accompagnandosi colle frotte di zingari e malviventi, clie abbondavano in
quei paraggi. Nulla lascia in quelle sue peregrinazioni di intentato, o
inesplorato, che può servirgli nello studio dei suoi simili, e dell’abitudini e
costumi dei diversi ordini sociali; e dalle più alle società, dai primari
alberghi, scese alle più umili taverne, mescolandosi colle infime classi, per
indagarne i sentimenti e le tendenze. Dopo siffatto giro per l'Europa
ritornò in patria, ove si compone nella pace famigliare, e si da tutto a viaggi
di altro genere, vogliamo dire a spedizioni lunghe e laboriose nel
campo immenso del sapere, leggendo, e più meditando, le opere dei
massimi filosofi e pensatori d'Italia, ed arricchendo la mente di un
incommensurabile tesoro di cognizioni, di osservazioni e di pensieri
È notabile questo periodo della sua vita, in cui il nostro autore
condensa, per cosi dire, tutta l'umana sapienza nel suo intelletto; chè
dopo d'allora, e in ispecie negli ultimi anni del viver suo, nei quali fu
pur massima la fecondità dello scrivere, ben poco legge, ed anzi si può
asserire che più non consulta nel
dettare libro alcuno, ma lutto quanto gli occorresse, evocasse dalla sua
tenacissima memoria, dallo sterminalo accumulamento di cognizioni, che ha
in mente. Leniti e progressiva paralisi lo ha quasi immobilizzato ; egli dove
ricorrere quindi all'alimi aiuto per ugni «no movimento, e i suoi
Lunigliari asseriscono che da anni ed anni non ha mai ad ordinare di
recargli libro alcuno da consultale, mentre detta continuamente per molte
ore del giorno. Era d'altronde ima delle massime da lui predicate, che
l'ingegno vero approfitta poco del materiale altrui, bensì moltissimo
dell'abitudine del coiu-etttrantento e della riflessione; e solpva dirr
fhp gran parte delle sue cognizioni non le (Tivca acqui- state eolla
lettura, ma colla meditazione e quasi per una catena di messori'
derivazioni. Infatti la maggior quantità dui suoi scritti data dall'epoca che
cessa di leggere. Manda ai torcili un primo saggio del buu
ingegno, un'opera letteraria, intitolata: II Pellegrinaggio in Italia di
Alessandro Goreni, poema in ottava rima, ove con poesia profondamente inlima,
sostanzialmente nuova ed originale, da sfogo ai molti pensieri ed
affetti, di cui aveva ripieno l'animo. E poco dopo pubblica, coll'allro
pseudonimo di Tkeophilo Eleutero, un secondo e ben diverso saggio della
profondità del suo sapere, e dell'acume del suo intelletto, mandando alla
luce Ire grossi volumi di un'opera filosofica, che intitola “Pasaelogices
Specimen”, e fa stampare in latino – saggio che per modestia volle fosse
edito in pochi esemplari, ma che in Germania da argomento a serie
critiche nella Rivista filosofica Zcitschrift (Halle) ed in altri
periodici scientifici. Ma qui pur troppo s'arrestano i lavori edili del nostro
Autore; chè all'infuori di qualche scritto di minore importanza, apparso
su giornali locali, nulla ei più permise che si da alle stampe di quanto
anda scrivendo fino alle sue ultime ore. Racchiudendosi modestamente, e
un poco anche egoisticamente, nelle soddisfazioni intime delle sue
elucubrazioni, più non volle che alle sue gioie mentali, alle sue
indagini filosofiche, ai suoi profondi ed originali pensieri
partecipassero i lettori; e studia e scrive per sè solo, per esercizio e
ginnastica della sua [Pasaelogices specimen, Tiikophilo Eleutero
editimi. Voltimeli pr imitili. Prolegomena. Volumen secundum. Esologia.
Volumen tertium. Natura Medianica — Intra Torino e Firenze, lilucria di Loeschef.
— Ve ne sonu altri due volumi inedili. Ecco come ne parla, fra gl’altri,
il Foglio Centrale Letterario di Lipsia in un lungo articolo sull'opera stessa,
di cui noi riportiamo solo un brano. E sorto un anonimo italiano. Egli parla
nella lingua ecumenica del passato il suo è un lavoro che ò il risultato di
un'escogitazione indefessa di tanti anni, forse di tutta la sua
vita con un'estensione di due mila pagine, e che tratta di tutte le cose
del cielo e della terra, e per di più della logica dello spirito assoluto;
è una continuazione della speculazione di Hegel, dalla quale perù vuole
assolutamente distinguere la propria dottrina] inenLe elevatissima, del
poderoso suo intelletto, per appagare la sua smania del vero. Medita
e scrive, al pari di Gioberti, dodici
e più ore al giorno. I suoi concittadini il ritrovavano spesso
solitario per le campagne e i dolci declivi delle amene montagne
che stanno a cavaliere d'Intra, sotto al vitale raggio del sole, o
seduto alle ombre amiclie dei l'aggi e dei castani, colle lasche zeppe
di libri, sempre speculando ed annotando colla matita sopra la
carta i suoi pensieri.Al pari dei peripatetici si diletta di
filosofare camminando nell'aer puro, nella serena festività della
natura, alla luce gaia del sole, o nella tepida ed affascinante quiete
dei boschi. Dal ponderoso lavorio mentale del filosofare egli trova
sollievo nelle arti belle e nelle belle lettere; ed allora detta quelle
innumerevoli poesie, che stanno raccolte sotto il caratteristico titolo
di Grullerie Poetiche, e nelle quali con vena originalissima, non leziosa
o ricercatrice di supposti e romantici ideali, e con spirito satirico il
più fine, spesse volte non facilmente apprezzabile, egli fìssa l'impressione
del momento, o deride le costumanze strane delle mode, o celebra i fasti
cittadini, che giungono col rumore dell'eco all'orecchio suo, lontano
ornai dal consorzio umano, e non abituato che alle voci dei suoi inlimi;
ed allora traeva dal prediletto flauto dolci suoni, o sull'arpa antica
traduce la soave ispirazione dell'animo suo, o sul pianoforte combina le
armonie musicali, consuonanti colle armonie delle idee sue, della natura,
e della verità, che a lui si disvelavano nelle profonde sue speculazioni. Cosi
vive C., tanto grande per intelletto, quanto semplice di modi e di
costumi. L'altezza della sua mente pareggiava la nobiltà affettuosa del suo
cuore. Austero per indole, tollerante delle fatiche, intrepido nei
pericoli, alieno dagl’agi, benché a lui permessi dai beni della fortuna,
schivo del mondano frastuono (non desiderò die una cosa: vivere
sconosciuto), chiuse in petto un'anima temprala a rettitudine, a purezza
quasi primitiva, che lo rese incapace di odio e di avversioni contro chicchessia,
e di qualunque simulazione o maldicenza. Naturale, aborrente da
leziosaggini, si riprodusse, quasi in specchio fedele, nel suo stile
semplice e rigido, tendente ad essere chiaro più che seducente. Affabile,
unitissimo, nel conversare parve un fanciullo; lo si sarebbe detto, anche
per la modestia del vestire e del vivere, un uomo taglialo alia grossa, e
di rozzi sensi ; ed invece di quanto allo sentire, di quanta soavità
d'animo era egli dotato! Un cullo affettuoso ei professa per la consorte,
troppo presto rapitagli; un'inarrivabile tenerezza per l'unica sua
figlia, che ne consola la precoce inferma vecchiaia. Colpito invero
a cinquantanni da lento, ma inesorabile morbo, che gli impedi l'uso delle
gambe, per quasi due lustri non si mosse dalle sue stanze, che volle in
uno spazioso lenimento, sull'alto della città, affine di poter distendere lo
sguardo vivo e sereno sul più ampio tratto possibile di quella natura, in
cui egli ha tanto liberamente voluto vivere fino allora. Il suo temperamento,
pur tanto desioso di moto e di novità, si compone con ammiranda
rassegnazione alla quiete, a spaziare in pochi metri quadrali di
superficie. Con una forza d'animo, che solo può venire o da angelico spirito, o
dal conforto della filosofia, sopporta i dolori fisici e morali della
lunga infermità; e mai un lamento, mai un lagno uscì dalla bocca sua,
neppur quando venne da ultimo costretto al letto, e vi rimane fermo per
gli ultimi diciotlo mesi di vita. Che anzi consola e ravviva lo spirito
afflitto della figliuola; e l'anda preparando con filosofici pensieri
alla sua dipartila da questo mondo, che con spirito antiveggente e
quasi profetico, calcola prossima di mesi e di giorni. Era solito di dire: morire non è, ni un bene,
uè un mule, mn soltanto naturai rosa come il nascere. Siate perciò calmi come
sono io. patimenti fisici non gli tolsero, estrema consolazione
della travagliosa vita, la lucidità e la fecondità del pensiero; e
continua le sue meditazioni e i suoi sludi lavoriti, dettando incessantemente
alla diligente sua lettrice. Fin negli estremi momenti, allorché l'ansia
affannosa del respiro rese inintelligibili i suoi accenti, tenta più
volte di esporre l'ultimo suo pensiero sull'opera che aveva in
corso. Tale in breve la vita del nostro autore, nella quale tu non
trovi da celebrare avventure o fatti straordinari, poiché fu tutta
dedicata, e modestamente dedicala, ad una faticosa, ma tranquilla e
serena lotta mentale, ad umbratili sludi, ad inlime soddisfazioni, originate
dalla scoperta di nuovi veri, al cullo delle arti belle e delle scienze;
ma per compenso in essa ti si rivela un inimitabile esempio di indefesso
amore del sapere, di privale eminentissime virtù, di sublime rassegnazione
ai mali fisici. É in memoria adunque di quell'affettuoso padre, di
quell'alta e modestissima intelligenza, di quello squisito animo, che la
figlia sua, signora Argia Franzosim C., intraprende la pubblicazione
delle numerose opere filosofiche, scientifiche e letterarie, che egli lascia
manoscritte ed inedite. L'abbiamo già detto, e convien ripeterlo, con
questo nè interpreta un desiderio del padre, nè fa un pietoso sfregio alla
volontà di lui. Imperocché, come egli non ha pensato a proibirlo,
cosi non ha imposto nè esplicitamente, né implicitamente, per una
postuma vanità, che le sue opere vedessero la luce. Egli non brama mai in
vila sua di curarne la stampa. Lo sperimento fallo del Pellegrinaggio in
Italia e dello Specimen Pasaelogices gli prova quante noie e quanti fastidi arreca il
sorvegliare l'edizione di poderosi manoscritti; e, ciò che a lui
maggiormente dispiacque, gli ruba soverchiamente di quel tempo, che egli ha
sempre prezioso. Anda d'altronde convinto che i suoi concetti si
discostassero tanto dal modo volgare di pensare, da sembrare meri
paradossi; e più volle invero nelle opere sue ripete essere a lui
consentila la maggior libertà di pensare e di scrivere, appunto perchè non teme
di disgustare i suoi non-lettori. Questo però non è il parere di chi
attende alla presente pubblicazione; è vero che negli scrini, che vedranno la
luce, vi è una originalità di pensiero, la quale può parer strana ai
poco colti, ed impressionare anche i doni; ma è vero altresì che,
anzi che provocare censure, vi è piuttosto a credere che gli stessi desteranno
l'ammirazione per la novità, la potenza, l'altezza dei concetti che vi si
affermano dal nostro filosofo; è piuttosto a sperare che i lettori
andranno lieti di poter rinvenire, in tanta serie di scrittori o plagiari
o volgari, una intelligenza, che esprime idee tutte proprie, e forti, e
vere, meritevoli insomma della più grande considerazione. La quale
originalità, che è riproduzione fedele del carattere dell'Autore, è con
suprema e scrupolosa cura conservata intatta. Più che ad adornargli la
veste in modo, che gli accaparrasse a primo acchito la simpatia, più che
a fornirlo di allettatici attrattive, si è mirato a presentarlo al pubblico
nella fedele e polente impronta del suo genio. Sicché, ad onla che
sarebbe tornato facile di rimediare ad alcune mende del suo stile, piuttosto
tendente a chiarezza che ad eleganza, e di ammodernare la sua
specialissima ortografia, nulla si volle sostanzialmente immutare, e gli
scritti si pubblicano quali si trovarono dettali, ad eccezione di qualche
correzione di forma, necessaria e solila di farsi anche dagli autori
stessi, allorché i loro manoscritti stanno per essere consegnali al
tipografo. Un'altra dichiarazione occorre porre avanli ; ed è che la pubblicazione
viene cominciata colle due opere conlciiute nel presente [Egli stesso,
parlando rìrlle sue open 1, così si esprime. Miei scritti potrebbero
aen&rare a molti ti» ainmaxsn ili rontrailiziotii, o anche l'eccesso
della trivialità.] volume, pel solo motivo che esse sono quelle che, fra
le poche potute finora disaminare, parvero a preferenza scritte in
modo piano, ordinato e quasi melodico, e perciò facile ad essere compreso
dall'universalità dei lettori ; e quelle altresì, che, trattando di una
materia generale, si prestano a fare in modo riassuntivo rilevare quale
fosse la mente dell'autore e quali le sue dottrine, quali le sue idee su
gran parte delle cose umane. Nell'una invero si discorre dello spirito umano, e
si descrivono e criticano i vari sistemi, che si vennero formando dalla
sua nozione ; nell'altra si tratta di tutti i principi cardinali, dei
quali è la natura costrutta, e si analizzano coi criteri forniti
dall'intelligenza riflessa. Ben si sarebbe potuto seguire o un
ordine cronologico, man- dando alle stampe le opere nella stessa
successione nella quale l'Autore le scrisse, oppure un ordine razionale,
prefiggendosi un punto di partenza, come dal generale al particolare, o
dalle opere letterarie alle filosofiche, e cosi via. Ma da un
lato l'ordine cronologico non ha alcuna base in ragione, dipendendo da
pura casualità materiale che un'opera sia stata scritta prima dell'altra;
dall'altro il razionale, che certo sarebbe stato più logico e
preferibile, richiedeva per essere at- tuato una previa disamina, anche
solo sommaria, delle opere tutte, che si hanno manoscritte; il che
avrebbe cagionato un in- gente lavorio da compiersi, per l'unicità dei
criteri, da una sola persona, e di conseguenza avrebbe ritardato chissà
di quanto tempo l'inizio di questa pubblicazione, che considerazioni
morali di non minor peso delle razionali consigliavano di
intraprendere tosto. Diamo a
giustificazione un elenco, che pur non si può dire ancora completo, delle opere
postum e di C. Traduzioni varie dal latino, francese, tedesco, inglese (VIRGILIO,
ORAZIO, Lamartine, Kozbue, Schiller, Shakespeare, Byron e
Thompson). Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre canti, versi sciolti
con liriche intercalate, varie liriche. Tale in
succinto lo scopo cui mira, il modo in cui vien falla, e la ragione per
cui si inlraprende in una guisa piullosto che nell'altra, l'edizione
delle Opere postume di Pietro Ceretti. Le quali ben si prevede non
abbiano a riscuotere popolari ap- plausi, altrettanto fragorosi quanto
facili e poco duraturi ; ma si spera in compenso che abbiano a fermare
l'attenzione dei lettori colti, studiosi, meditativi. Noi
neppure ci allentiamo di darne un riassunto analitico, o di sintetizzare
il sistema filosofico dello scrittore, o di esporre quali furono i suoi ideali,
e con quali mezzi assorse alle cognizioni del buono, del bello, del
giusto; poiché, oltrecchè, non essendoci bastato il tempo a leggere i
molti manoscritli da lui lasciati, da- remmo giudizio incompleto ed
immaturo, preferiamo che su di essi si esprima liberamente la pubblica
critica. Per Colei poi, che promuove questa pubblicazione, sarà
in Ultime lettere di un Profugo. Romanzo in prosa, Pellegrinaggio in Italia. Canti, Poesie
Uriche. 1 volume (edito) con alcune liriche. Prometeo. Poema. Storia del
diritto Canonico. Avventure di Cecchino. Poema. Miscellanee filosofiche.
Scienze naturali e considerazioni storiche. Salùi (inedili). # Sogni e
Favole (umorismo trascendente), Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con
versione latina (imitazione del greco e latino della Chiesa primitiva).
Opuscolo. Grullerie Poetiche (umorismo parodiaco) Massime e Dialoghi. I
Conferenti. Commedia nebulosa. Ormuzd. Dramma mistico. Synùp s i dell'
Enciclopédia Siwr.idatirn - Sffnpltcìo. homaiizo. Idee radicali delle
discipline finite e delle matematiche empirico-indut- tive. Cavalier
(riovannino. Romanzo. Manuale di medicina pratica. L'Inconcludente. Romanzo. Lo
Zio Giuseppe. Commedia. ogni caso di
sufficiente conforto l'aver dimostrato con essa come il padre suo, nella
sua apparente inoperosità, abbia invece com- piuto un lavoro immenso,
quasi incredibile potersi compiere da una mente umana in sessantanni di
vita; come, tuttoché da oltre ventanni se ne stesse segregato dal mondo,
tanto che lo si ri- tenne sdegnoso dell'umano consorzio, egli abbia
seguilo e ritenuto con diligenza, memoria, affetto ed acume sorprendenti
tutto il corso dei moderni avvenimenti, e si sia interessato alle
vicende anche più minute della vita umana, la quale egli, trattosene
fuori, contemplò e giudicò dall'alto e spassionatamente; ed infine
con quanta forza d'animo e vigoria di mente abbia, anche ammala to,
continualo l'aspra, diuturna e faticosa ricerca della verità e della luce
spirituale. Che se poi le opere sue potranno servire ad accrescere
le cognizioni odierne, e disvelare nuovi orizzonti, a precisare sistemi. Considerazioni
sopra il anatema generale dello spirito entro i limiti ' della
riflessione. Considerazion i circa il sustema della natura entro i limiti
della riflessione. Viaggi utopistici. Il
Protagonista. Proposta di una riforma sociale.Considerazioni generali circa la
caratteristica spiritualità dell'Italia. Insegnamento filosofico.
Gregorio. Romanzo. Novellette morali. Itinerario d'un Inqualificabile. Trattato
di Astronomia. Introduzione alla coltura generale. La Divina Commedia. Vita di
Giustino Caramella scritta da se stesso.Vita di due Comici. Vita di Virginia
Bonaventura. Sonnambulo. La mia celebrità.
Inventario delle mie vicissitudini mondane. Memorie Posthume.
IStramberie philosophiche. filosofici e speculativi oggidì ancora incerti ed
indefiniti, essa avrà nei contempo raggiunto un altro intento, quello
cioè di far contribuire all'aumento del patrimonio intellettuale scritti
che erano dal loro Autore destinati a rimanere sepolti. E ciò la conforterà
maggiormente nell'adempimento dell'intrapreso assunto, che è per lei il
più sacro e il più caro dei doveri. L'arte della parola è per noi assai più
spirituale che non le arti del disegno e della musica. La medesima
contiene idee definite come nell'arte del disegno, e medesimamente una
succes- sione temporanea come nella musica-, ma queste idee definite
non sono più astrattamente naturali come nell'arte del disegno
(appari- zione), nèuna successione temporanea di spirituali emozioni,
corno nella musica, ma piuttosto idee concrete (physiche e
metaphysiche) colle loro successicni definite di idee pensale non
astrattamente sentite. Si crede comunemente che l'arte della
parola sia la vera resumzione del disegno e della musica; certamente essa può
espri- mere idee proprie, quali non potrebbero essere espresse da
vermi disegno e da veruna musica, ma questa proprietà non
costituisce una vera preminenza nel significato che a lei comunemente
si attribuisce. L'arte poetica riassume in se stessa ed esprime a
proprio modo certe idee, quali non potrebbero essere espresse da quelle
altre due arti, ma non potrebbe in verun modo essere sostituita alle prefate
singole arti. La stessa può esprimere una suc- cessione di pensieri, ma
non una successione temporanea di emozioni spirituali col prestigio proprio
della musica; così pure può esprimere definite rappresentazioni come le
arti del disegno, ma non può presentarle immediatamente e sensibilmente,
al pari di quella, la quale ripete il suo prestigio appunto da questa
immediala sensibile rappresentazione. Cosi generalmente parlando
l'arie poetica da una parte può essere considerala come resumliva unità
delle idee divorziale nella musica e nel disegno, dall'altra però può
essere considerala come il germe inesplicito delle suddette arti, che
esplicandosi nelle loro astrazioni generano il disegno e la musica.
Infatti se l'arte poetica da una parte accompagna il massimo
svolgimento della civiltà, dall'altra parte è stata un'arte assai
primitiva e forse cosi primitiva come il disegno ed assai più che la
musica; le idee l'arte della parola contenute in queste
possono considerarsi come generate da una astrazione ideale, che
costituisce le suddette arti. L'arte della parola si divide in tre periodi
capitali: l'arte poetica come esiste nella letteratura propriamente
delta; l'arte prosaica, come esiste nelle discipline finite empi-
rico-matematiche; l’'arte speculativa, come esiste in tulle le cosi delle
p/iilosophie, non arrivale alla necessità logica del pensiero, cp- pcrciò
a quelle philosophie che devono persuadere o dimostrare in qualche modo
la propria verità. Questi tre periodi costituiscono la concreta
arie della parola, ossia quella che si svolge come manifestazione della
Coscienza pensante. Noi tratteremo brevemente, ma categoricamente
questi tre periodi della parola, che realmente sono anche i periodi
dello spirilo parlante, prima del quale è l'esistenza meramente
psychica e istintiva delle bestie, e oltre il quale il pensiero va in un
altro systema che non è più quello che possa interessare lo spirilo
slesso. Intendiamo arte della parola quell'arte che si svolge nel
pen- siero concreto, epperciò si manifesta sotto le forme concrete
del medesimo, non in qualche sua astrazione, come quelle del
disegno e della musica, le quali si manifestano nell'astratta forma del
senso intimo o del senso esteriore. Denominiamo arte della parola
quella che si svolge mediante una lingua letteraria, non quell'idioma popolare
che nasce e si sviluppa islinlivamenle nel popolo, ed appar- tiene alla
natura piuttosto che allo spirilo pensante. Quest'arte fu
considerala astrattamente come lingua eslhelica, ovvero poesia; ma essa
prosegue il suo svolgimento anche nella lingua prosaica (come nelle
discipline finite), e nella lingua spe- culativa, ossia in quella che si
chiama comunemente phìlosophia. Questo svolgimento appartiene all'arie
della parola, e comprende lo spirilo assoluto (lo spirilo, non la
Coscienza assoluta). ZNello spirilo giova osservare che le categorie
devono essere gerarchicamente coordinate, e non si potrebbe concepire
un'esistenza spi- rituale che non possedesse vizi e virtù, buono e male,
e cosi via. Perciò abbiamo dello che quella pura speculazione (dai
theolo- ganli meritamente chiamata abuso della speculazione) non
appar- tiene allo spirito come tale, ma piuttosto è l'atto
caratteristico, col quale lo spirito si svolge dal pensiero in altro
systema. Questa speculazione pura è manifesta dalla parola, ma è il suo
esilo finale, epperciò nella parola che va via dallo spirilo. Così pure
quel pen- siero che nasce e si svolge istintivamente nel popolo non
appar- tiene all'arte in discorso, ma piuttosto alla natura
creatrice. L'arte della parola suppone uno spirito positivamente
formu- lalo e muore colla morie dello slesso, epperciò la medesima
appartiene essenzialmente allo spirilo, non generalmente alla Coscienza.
Lo spirilo nasce dal non spirilo e muore nel non spirito, ossia è un momento
storico nello svolgimento della Coscienza ; epperciò consideriamo come un
prodotto della natura (ossia di un systema non ancora positivamente
spirituale) quella lingua e quel pensiero che nasce e si svolge istintivamente
nel popolo. È una lingua psychica, che progressivamente e lentamente si
svolge in una spirituale; perciò troviamo nelle lingue esordienti
la parola determinala col semplice elemento delle intonazioni, ed
inoltre che le nostre idee metaphysiche ebbero tutte nelle lingue
primitive un significalo di phenomeno sensibile, e anche oggidì si
trovano negli uomini naturali lingue che possono significare individui,
non generi e specie, caratteristico di quelle spirituali. Nell'infimo
popolo le idee metaphysiche sono ancora mollo equi- voche; cosi per es.
suppongono lo spirito non solo in un tempo ed in un luogo (vale a dire
nella natura), ma anche con un pos- sesso caratteristico del pensiero
humano ; questo non può risul- tare che da uno spirilo in una forma
necessariamente humana. Così quest'arie della parola comprende la
totalità dello spi- rito (Coscienza pensante), ma esclude ogni altro
systema della Coscienza, che non sia quello dello spirilo. È questa la
ragione per la quale coll'arle medesima una verità si deve persuadere
o dimostrare; e quelle verità logicamente necessarie, che riescono
indifferenti a qualunque negazione o affermazione o dubitazione, vale a
dire si confermano con qualunque determinazione del pensiero, non
appartengono allo spirito, ma sono l'alto caratle- [ i/arte poetica] - rìstico
per il quale la Coscienza si svolge dallo spirilo in un altro syslema.
Perciò nell'arie della parola non comprendiamo la spe- culazione pura
nelle sue verità logicamente necessarie. Lo spirito è contenuto
entro i limili della Coscienza pensante; olire questi limiti non è
spirito veruno, ma semplicemente un qualche altro syslema della Coscienza
slessa. Perciò l'arie della parola è quella che si svolge: colle
categorie del sentimento, verbigrazia colla persuasione, colla fede, coli'
ispirazione, e cosi via; colle categorie dell' intelletto, verbigrazia
colla dimo- strazione assiomatica o empirica; colle categorie di una
facoltà concettiva infantile, ver- bigrazia con quelle forme equivoche
della pìdlosophia comune. Una speculazione pura, che introduca le verità
logicamente necessarie (le quali differiscono essenzialmente dalle verità
sue- cennate), è il risultalo d'una facoltà concettiva adulta, la
quale conduce la Coscienza fuori dallo spirilo in un systema più
horno- geneo, perocché quello non potrebbe vivere con siffatte
verità. L'arte poetica è l'esordio dell'arte della parola, e lo
spirilo poetò assai prima di parlare prosaicamente, perchè la
poesia appartiene al sentimento ed all'imaginazione, e la prosa all'intellettualità
riflessa. Si dice che gli uomini primitivi sono essenzialmente
poeti, ed il loro linguaggio non esprime mai un' idea esalta, ma
una forma piuttosto oscillante nel sentimento e nell'imaginazione.
È vero che gli stessi parlavano un linguaggio non menomamente
formulato dalla riflessione, ma semplicemente dal sentimento c
dall'imaginazione, che sono però ben altro da quell'intimità melaphysica
che noi possediamo, ed è piuttosto il risultalo dell'opposizione d'una mente
prosaica con una mente poetica. La loro l'orma poetica è tuttavia
profondamente immersa in un elemento immediatamente sensibile, che noi
potremmo difficilmente imaginare. È questa la somma difficoltà che noi
proviamo nel concepire chiaramente le antichissime forme della
poesia, come per es. quella dei Vedi ed anche della nostra Bibbia.
Originariamente si scrisse ogni cosa in una lingua poetica, se
qualche volta non rigorosamente metrica, almeno tale da suo- nare
all'orecchio con una qualche misura. Troviamo per es. i salmi della
nostra Bibbia scritti in una forma non esattamente metrica, ma nullameno
misurala. E ciò accadde perocché il pen- siero era allora essenzialmente
poetico; Hegel notò mollo assen- natamente che il primo prosatore nel
lernpo fu Aristotele, si scris- sero bensì prima di lui molli pensieri in
una lingua perfettamente non metrica, ma essi, nonostante quest'apparenza
prosaica, etano tuttavia poetici; per es. gli scritti di Platone sono più
poetici che prosaici. Gli argomenti, che oggidì consideriamo come
necessa- riamente prosaici, erano trattali in poesia. Così presso gì'
indiani troviamo arylhmetiche, astronomie, vocabolari etc. distesi in
una lingua metrica, e si può dire generalmente che i primi popoli
civili non sapevano pensare e parlare se non poeticamente. Alcuni popoli, come
gli as ia tici, ve rsano tuttavia in ques t'elemento poetico che loro
impossibilitò una sto ria. La poesia, come esordio dell'arte della
parola, si distingue in tre momenti. È poesia epica, ossia immersa in un
elemento ogget- tivo, in un'unità religiosa o elhnica ; Poesia lirica,
ossia la soggellività che nasce e si svolge da questa generalità; La
drammatica, ossia la poesia che oppone i vari sen- timenti e le varie
convinzioni, giusta le varie soggellività e le varie oggettività
cosliluile. La poesia didattica veramente non è poesia, ma piuttosto
una riflessione legala nelle forme poetiche e misurale; è piuttosto
una vera dissonanza della riflessione colla sua forma, vale a dire,
con una forma che non è quella propria di lei, essenzialmente
prosaica. Generalmente parlando è poesia la forma del pensiero
poetico, il quale perciò reclama tale forma; e sluona lanlo una
forma l'arte POE l ICA metrica con un pensiero prosaico, quanto un
pensiero poetico con una prosa libera, vale a dire, colla forma della
riflessione; il lin- guaggi o ed il pe nsiero devono con sonare in una
sola forma, non in d ue diverse e contra rie. Chiamo poesia
epica quell'essenzialità ideale generalmente immersa in qualche
astrazione objettiva di costituzione religiosa o di nazionalità, non
quell'astratto formalismo di un'epopea o di p una lyrica. Cosi per es.
gli inni di Pyndaro e quelli di Tirteo J* "*^* appartengono
all'epica, pero cché i lo ro soggetti non sono con - y^'^ wfs» ' centrati
nella loro propria soggettività^ ma piuttosto immersi i n y* un'obiettiva
astrazione religiosa e nazionale. Possiamo dire clic
all'epopea appartengono tutte le co mposizioni in ossequio d'una
qualche costituzione religiosa, o d'una qualche nazionalità.. Cosi per
es. il Malia- bahrata è una splendida epopea, tuttoché non contenga
veruna idealità nazionale, il Shah-Nameh dei persiani lo è pure, tuttoché
differisca essenzialmente dal Maha-bahrata. La Theogonia di llesiodo è
pure un'epopea religiosa, e così la Divina Commedia dell'Alighieri, ed il
Paradiso perduto di Milton. Le epopee prettamente nazionali sono Vlliade
d'IIomero, YHeneide di Virgilio, i Lusiadi di Camoens, e altre simili
composizioni. Generalmente nell'epopea si realizza una somma
grandiosità poetica , ma l'uomo sj^om nare, per cosi dire, ne l l'unità
religiosa o nazional e, a celebrare le quali è destinato. All'epopea
appartengono pure certe formule satyriche, come per es. il Don Quijolte
di Cervantes, e la Verdine d'Orleans s critta da Voltaire, le quali
veramente non sono destinale a celebrare il sentimento religioso e
l'heroismo nazionale, ma il loro argomento, tuttoché salyrico, è pur
sempre religioso e nazionale. Si deve avvertire che l'epopea appartiene
sempre ad u n'astrazione objet- liva di costituzione religiosa o
nazionale, ma differisce sommamente per i vari gradi della civiltà, nella quale
è nata. Il secondo momento della poesia è la lyrica
propriamente detta. Chiamiamo lyrica quella poesia del soggetto raccolto
in se stesso, o per lo meno, nella sua vita privata. Gli asiatici
generalmente sono troppo immersi nell'objellivilà costituita religiosa o
politica per conoscere una vera lyrica; si — uebetti, Canaidcr. sul list,
rftiier. JeUu spirilo. I:MI oim:iu5 postumi-: ni
hktro ceretti può diro che essa nacque la prima volla in
Grecia ed in Roma quando il soggetto principiava a sentire
l'insufficienza di una costituzione oggettiva ed i bisogni della sua
propria soggettività. Cosi non quelle forme che si chiamano comunemente
lyriche, come le Odi di Pyndaro, gl'inni religiosi eie, appartengono a
una vera lyrica, ma piuttosto quelle dedicate alla soggettività ; per
es. appartiene alla vera lyrica l'antica poesia di Museo litolata
Eri e Leandr o, le erotiche di Anacreonle, alcune di Horazio, come
anche quelle di Catullo nei suoi rapporti colla Jjilage scherzosa.
Oggidi la poesia lyrica è tuttavia persìstente, ma l'epica è
perfettamente abolita/yA questo genere, come nell' epopea, può
appartenere una poesia piuttosto umoristica, ironica e parodiaca,
perocché la lyrica non è menomamente vincolata alla serietà, ma
semplicemente alla soggettivazione. Il soggetto può poetare delle varie
cose seriamente o ironicamente, purché in essa varia o saly- rica
composizione lasci trapelare una qualche propria convinzione. La
transizione da questo genere alla drammatica è caratte- rizzala da una
poesia alquanto equivoca, nella quale il soggetto tratta le varie cose
ironicamente, parodiacamente eie, ma non lascia trapelare veruna propria
convinzione, così che le delle poesie non contengono un'idea
conclusionale; sono astrattamente negative e non affermano cosa veruna.
Queste poesie si realizzano in un lempo mollo civile, e sostanzialmente
vogliono dire che il poeta rimane semplicemente spettatore , non attore
delle cose ironicamente ricordate. Comunemente si chiamano queste
mani- feslazioni quelle di un genio spossato e di una certa
decadenza della civiltà; la storia, come abbiamo detto, per proseguire
la sua vita ha bisogno di principii serii; la forma dei principii
può variarsi quanto si vuole, ma è necessario che la si fissi, vale
a dire, che si fìssi un qualche systema nel quale si svolga la
storia stessa. Ecco la ragione per la quale una rilassatezza di
principii è sempre giudicata un syntomo di .slorica decadenza; non
si avverte però che la rilassatezza di principii conosciuti è sem
pre la nascila vigoros a di principii nuovi e sconosciuti. Il
terzo momento della poesia abbiamo detto è la dramma tica. Qui sono
anlagoni o più soggetti di principii contrari, che si con- [l'arte poetica]
tendono Ira loro, e appurilo in questa conlesa le antagonc convinzioni si
neutralizzano, vale a dire, risulta la loro reciproca insufficienza. L'
un soggetto contende centra l' altro soggetto avversario, e cosi amendue difendono la propria
convinzione, Ques ta difesa si effettua mediante le ragioni che tornano favorevoli
a esse convinzioni, m a, siccome esse sono due o giù con- tr arie,
ciascheduna difendendo se stessa combatte la propria avversaria. Non è
certo una parte che preferisce un negativo un positivo ( la quale
preferenza sarebbe assurda) , ma amendue ^che preferiscono un po sitivo a
un negativo, cosi che in ultima analysi amendue vogliono la
stessa idea, ossia che il positivo pre- ( domini sul neg ativo. C o
ntestano semplicemente se questo sia il (positivo e quello il negativo, o
viceversa, epperciò disputan o, circa una cosa phenomenale, non circa un
oggetto o un' idea concreta. Tulli i soggetti reclamano il positivo ed
avversano il negativo (sono due termini dell'opposizione), ma tale
soggetto vuole a come un positivo, ed avversa b come un negativo ; tal
alito soggetto vuole ed avversa inversamente. Giova osservare che l
chiamandosi a positivo e b negativo, quando siano invertiti si de- vono
chiamare inversamente: a, che phenomenalmentc hora funziona come positivo
ed hora come negativo, è un mero giuoco di parole; perocché sono appunto
quei rapporti essenziali che sono stali mutali i quali cosliluiscono
l'oggetto. Cosi la contesa della drammatica, esaminala con un logico
criticismo perderebbe ogni drammatico interesse, perocché non è contesa
seria, ma semplicemente logomachia. Nella drammatica però
queste idee si contendono profonda- mente involute nella for ma de jjsent
imenlo e_d eH'imaginazione , e appunto da questa profonda involuzione
risulla ogni drammatico prestigio. A vero dire in essa non si contendono
mai le idee puramente riflesse, ma piullosto quelle che possono grandeggiare
nel conflato del sentimento e dell'imaginazione. Infatti un
interesse drammatico non si potrebbe conseguire colla fredda e prosaica f
v< -7— ^ t.'R'i dimostrazione di un theorema matematico; questo vuol
dire, m * m .% mm *40~—X*l L che l e verità della riflessione non sono le
verità^ del sentimento, K> H — cr- u l'una è impolentissima a
surrogare il posto dell'altra. Cosi pure na bella verità poetica, come
sarebbe il conflato di un'azione lieroica, non potrebbe interessare
menomamente un Iheorema malliemiitico e non potrebbe sostituirsi come
dimostrazione. La drammatica non insegna solamente che ogni ordine
dello spirilo ha le proprie verità, e la verità di un ordine non
può JCT*»**^**» essere q ue |] a di un altro, ma insegna altresì che
certe convin-4 »>u^»*w^l« tìom sono così profondamente radicate
nel soggetto, che non f si lasciano sradicare da veruna eloquenza.
Non consideriamo in * quest'ordine i soggetti che persistono nelle proprie
convinzioni ^semplicemente perchè non le capiscono, nè possono capire
altre Sconvinzioni contrarie; que sj/opposizione non è spirit uale, e
può \ compararsi a quella della forza bruta la qual e dice; parlate
come volet e, via i o faccio co sì. I varii soggetti nella drammatica
pos- seggono le proprie convinzioni e le oppongono alle contrarie;
da quest'opposizione risulla una reciproca soppressione di verità,
ossia la prova drammatica (nel sentimento e nell'imaginazione) che tali
non sono verità, ma gravi errori. Da questa reciproca soppressione di
verità astratte risulla una verità neutralizzala ed assai più concreta,
che se non persuade i contendenti della scena persuade l'uditorio.
Ma un'arle_(ìnissim a di far prevalere nella dispula una prò- i
pria idea preconcetta è quella che, nonostante la manifestazione di tulle
le ragioni favorevoli a una certa idea, lascia fortemente trasparire il
lato debole della medesima. L'avversario traila questo lato debole con
molla generosità, ma appunto con quesla generosità vince una causa che si 6
mostrata troppo impotente. I personaggi delle scene molto incivilite non
si trattano con colle- riche invettive, ma piuttosto colla massima
cortesia; è il diplo- matico che accarezzando il proprio avversario
gentilmente lo strozza. L'arte soprafma non è quella di combattere
viltoriosa- mente le ragio ni dell'avversario , ma piuttosto di cond urre
passo passo l'avversario al proprio traviamento , cos icché sembri
cadere per_un suo proprio fallo, vale a dire, comballa contro se sless
o. Era questa l'arie finissima d'un antico philosopho, il quale non
contrariava mai le ragioni dell'avversario, ma lo raggirava cosi che in
ultima analysi questi contrariava se slesso. [l'arte prosaica] Questa
drammatica nasce da una profonda riflessio ne, ma può vestire forme del
sentimento e dell'imaginazione, e risulia assai più polente di quella
nata da una mera imaginazione e da un mero sentimento. Credete voi che
Dante, Shakespeare e Goethe fossero semplicemente poeti inspirali,
piuttosto che rob usti pensatori? Se fossero slati semplicemente poeti non
avrebbero potuto imaginare le composizioni così pregne di pensieri
profondi, lo non dico_clie i profondi pensatori, se si dedicano all'arte
poetica , debbano riuscire necessariamente drammaturgi, ma dico semplicemente
che questa forma si presta maggiorm en te ad un larg o svolgimento
dell'idea . Goethe fu certamente un profondo pen- satore e nullameno
trattò non solo la drammatica , ma anche Pepopea, la lyrica e d il romanzo.
Questo vuol dire, che il pen- siero, il quale abbia subito un largo
svolgimento, a qualunque forma si dedichi, partorisce
capolavori. Varie prosaica è un secondo periodo nell'arie della
parola, il quale differisce essenzialmente dal primo periodo, ossia
dal- l'arte poetica, perocché quella si volge al sentimento ed all'imaginazione,
ma quesla si volge più particolarmente alla ri/h'ssint>i'. Quest'arte
si distingue pure essenzialmente da qualsivoglia philosophica eloquenza,
perocché quella è dimostrativa o persua- siva secondo l'opportunità e
comprende la totalità dello spirilo; quesla è astrattamente prosaica e
dimostrativa, epperció non può mai riuscire come philosophia, nè
acquistare un drammatico interesse. Essa è destinala a creare piuttosto quelle
tali verità che si chiamano scientifiche, non a creare veruna concreta
verilà dello spirito. L'arte prosaica esordisce come un mero
opinalismo c nasce dire ttamente dalla religiosità; i primi medici per
es., i primi astronomi, ed i primi chimici furono semplicemente
sacerdoti, e possedevano non una nozione di siffatte cose, ma semplicemente un'inlima
convinzione od un fallo esteriore Le discipline Lulle, che bora versano
nella riilessione, originariamente versavano in una mera convinzione
religiosa di un fallo intimo o esteriore. Perciò noi vediamo che esse
originariamente erano semplici pro- fessioni, o più propriamente,
semplici operazioni sacerdotali, le quali riposavano sopra una fede
dogmatica, non sopra veruna empirica od assiomatica dimostrazione. Tulli
sanno che la prima medicina fu nei tempii, e che la malattia
originariamente si considerava come uno spirito maligno che invadesse
l'ammalalo, vale a dire, gli ammalali erano considerali come ossessi;
tulli sanno che originariamente si curava con semplici pratiche
religiose, il cui risultalo era dovuto alla fede. La reclamazione
dell'intelligenza riflessa non era nata, epperciò una simile medicina non
conte- neva veruna nozione analomica e physiologica, ma riposava semplicemente
sulla pubblica credenza e sulla pubblica ignoranza. Nella civile
babilonia gli ammalali si sponevano pubicamente affinchè ciascheduno
dicesse il proprio parere circa la loro ma- lattia ed i medicamenti
requisiti. Il sacerdote, come religioso, doveva sempre curare con
medicamenti prestabiliti e s'egli for- viasse dalla cura prestabilita era
castigalo colla morie, precisa- mente come un herelico il quale non
riconoscesse cerle verità della fede. Allora non si conosceva cosa veruna
e non era naia veruna facoltà di dubilare, perocché tale facoltà
appartiene al criticismo della riflessione. Tutto era fede e religiosa
con- vinzione, la quale conseguentemente escludeva ogni possibile
incertezza; si trattavano le cose mediche press' a poco come noi
trattiamo le verità logicamente necessarie le quali non si pos- sono in
verun modo dubitare, ossia non si possono dubitare cogitabilmenle.
Non dico che quelle verità primitive somigliassero a quelle
essenzialmente indubitabili delle mathematiche pure, perocché queste
reclamano una dimoslrazione e non sono indubitabili che in questa loro
mathematica dimostrazione. La riflessione neona- ]&nét ìfent* scenle
, che conduce progressivamente il secondo momenlo del- l'arie prosaica,
fu una semplice dimostrazione non intellettuale , come noi la
consideriamo, ma una dimostrazione graphica per la quale ceni phenomeni
complessi si riducevano a presentazioni più semplici, dalla cui unità
risultavano i delti phenomeni complessi. Così fu originalmente la
dimostrazione mathematica, e noi sappiamo che una geometria graphica precedette
per molli secoli mia geometria analylica, e le stesse potenze uno, due
eie, che hora si considerano nella loro algebrica generalità,
originaria- mente si consideravano come linee, super fìci, e così via.
Le dimostrazioni mathematiche, come un risultalo della semplice
riflessione, non sono anche oggidì concepite dai molli nella loro vera
essenzialità. Cosi per es. gli uomini comuni considerano una
dimostrazione graphica come equivalente ad una puramente in- tellettuale;
giova osservare che la dimostrazione graphica è un fatto sensibile, e si
riferisce ad un dato problema presentabile sensibilmente, ma la
dimostrazione intellettuale si riferisce a un fallo cogitabile, la quale
riesce sempre irrefragabile anche per quelle cose che non si possono
presentare sensibilmente, purché siano ridutlibili ad una tale
equazione. L'arte prosaica consiste nel trovare questa dimostrazione,
e nel fare che una verità non sia più semplicemente soggettiva. Le
verità apodittiche si distinguono dalle verità del primo momento appunto
perchè queste sono varie nei varii soggetti (varii soggetti posseggono
varie convinzioni), ma quelle sono identiche in tulli i soggetti. Un
soggetto può possedere una fede ed un altro sog- getto può possederne una
contraria, ma nessuno potrà pensare che un theorema geometrico di
Pithagora per es., non sia necessariamente vero, perocché nessun soggetto può
dubitare che a = a, identità alla quale, come alla propria radice, si
riducono lulle le verità mathematiche. Vi è una terza forma
dell'arte prosaica, che è pure una forma apodilhica, ma differisce
essenzialmente dalla dimostrazione mathematica, perocché quella è semplicemente
un mezzo a conoscere qualche verità naturale o spirituale, questa non è
sempli- cemente un mezzo, ma è immanente al proprio scopo. Qui non
si tratta più di conseguire uno scopo con un mezzo adeguato, ma si traila
di conoscere una verità che ha in se stessa il proprio principio, mezzo e
scopo. L'osservazione esplora ciò clic sia il soggetlo in se stesso, e suppone
che la verità di esso sia in lui recon- dita e mediante l'osservazione si
possa conoscere quello che e. Le mathematiche pure contengono verità
puramente intellettuali, epperciò verità irrefragabili e necessarie; ma
come tali non possono contenere verun scopo naturale o spirituale; debbono assumere
un elemento empirico, epperciò un'essenzialità contingente. Le verità
empiriche differiscono essenzialmente dalle mathematiche, perocché quelle sono
irrefragabili e necessarie, ma queste essenzialmente controvertibili ;
perciò nelle cose mathematiche non si può avere una propria opinione, e
si tratta solamente di sapere se questa sia o non sia una verità mathematica,
ossia una verità mathematicamente dimostrata; nelle cose empiriche
tutto è conlroverlibile, epperciò i varii soggetti possono possedere
varie opinioni e varie convinzioni, ma queste verità controvertibili possono
contenere una natuca concreta o uno spirilo concreto.
L'osservazione insegna esattamente quello che sia ogni ordine
finito, epperciò insegna che ogni ordine empirico versa in una necessaria
contingenza. Presumere di conoscere qualcosa defini- tamente
coll'osservazione è una presunzione puerile, perocché tanto l'oggetto
dell'osservazione, quanto l'osservazione stessa ver- sano in una
necessaria contingenza. Ogni ordine finito appartiene alle discipline
empirico-induttive o alle discipline mathematiche empirico-induttive;
perciò i cultori di queste discipline finite dicono, non vi è verità
assoluta, ma ogni verità è necessaria- mente relativa. Questo è vero,
perocché nelle discipline finite non si può trattare se non la verità
relativa, e quella verità assoluta che possibilità la relazione non
appartiene a delle discipline. Però nelle medesime tutte le verità
relative non sono identiche, ed esse si coordinano gerarchicamente
secondo il grado di relazione. Cosi per es. nelle cose spirituali si
distinguono verità puramente soggettive dalle nazionali, e le nazionali
dalle verità humanilarie, e le humanilarie dalle mondiali. Una
verità positiva nell'ordine finito si chiama quella che possiede rapporti
più generali, cosi che possa essere poco affiena dall'opinalilà
soggettiva. Così per es. che i gravi cadano colle leggi di Galileo è una
verità empirica, ma essa è cosi generale e l'arte speculativa
cosi costante sul nostro globo, che non può essere affetta da
veruna opinalilà soggettiva. La medesima è una verità puramente empirica,
perocché se una pietra non cadesse nello spazio libero sulla terra non si
troverebbe una ragione contraria assolutamente necessitala da opporre al
suddetto phenomeno; la pietra deve cadere nello spazio perocché è sempre
caduta; è un documento costante dell'osservazione; ecco lutto; e questo
lutto non si può trascendere in verun modo dall'intelligenza riflessa
senza cadere in gratuite supposizioni. La riflessione non può opporre per
es. che siccome il centro e la peripheria si suppongono necessaria-
mente, cosi il corpo deve necessariamente procedere dal centro alla
peripheria, e viceversa per conseguire un'esistenza esteriore. Questa
cosa si capisce chiaramente dicendo, che una materia centrale è
necessariamente una materia caduta, ed una peripheria è necessariamente
una materia spostata dal suo centro; cosi una materia è pure
un'oscillazione necessaria fra il centro e la peri- pheria, perocché la
non si può supporre occupare due luoghi nello spazio. Qui non si traila
empiricamente di provare che generalmente la materia debba essere
attratta e respinta dal centro alla peripheria e viceversa, ma
semplicemente di provare che questa tale materia hora e qui sia attratta
o respinta, piut- tosto che altrimenti. Perciò l'osservazione
non tratta le verità generali, ma sem- plicemente quelle nel tempo e
nello spazio; ed i cultori delle discipline finite dicono saggiamente,
che tutte le verità sono rela- tive; s'intende che tulle le verità finite
sono lali. [L'arte speculativa] L'arie prosaica è necessariamente un'arte che
tratta il finito, ed è prosaica perchè appartiene alla riflessione.
L'arte specula- tiva non è più tale, perocché si propone di conoscere non
le verità relative e finite, ma le verità generali, madri dì ogni
ordine finito. Quest' arie differisce essenzialmente lanlo dalla poetica
quanto dalla prosaica, perocché aspira alla nozione, e ad una nozione
indipendente da ogni empirica autorità; sendo tale, la non si può chiamare
un' arte aslrallamente prosaica nè astrattamente poetica, perocché
contiene il suo argomento con- creto, di cui la prosa e la poesia sono
astratte manifestazioni. Cosi lo spirito generalmente parlando non è
poetico astrattamente, perchè anche prosaico, e non è prosaico
aslrallamente perchè anche poetico. Nell'eloquenza philosophica qualche
volta si vuole persuadere (cioè parlare all'imaginazione e al sentimento,
come la poesia); qualche volta però si vuole dimostrare (cioè
parlare alla riflessione, come la didattica finita); in concreto però lo
spirito vuol insinuare la verità, non imporla se sotlo una forma poetica
o prosaica; vuole insinuare una verità concreta di cui la forma poetica e
la prosaica sono forme astraile; lo spirilo vuol trasfondere lo spirilo,
il quale è semplicemente l'attitudine a costituirsi poetico o prosaico. Quest'arte
speculativa per conseguire il proprio scopo si svolse caratteristicamente
per tre momenti, che sono quelli della philo- sophia comunemente della.
Cosi prima è una s peculazione immersa in un elemento poetico o religioso (come
per es. l' ispirazione e la fede). Poscia è una speculazione immersa in
una dimostrazione mathematica o empirica , cioè una verità generale
diesi vuol conseguire col melhodo delle verità finite. Finalmente è una
speculazione scettica che si rillettc in se stessa, e conchiude che
l'inlellellualilà riflessa è incompetente a conoscere l'assoluto.
La FILOSOFIA più o meno popolarizzata nei vari paesi civili
dell'Europa, appartiene sempre al primo momento, vale a dire, è un
sentimento od un'imaginazione più o meno philosophalc; non si aspira
categoricamente alla nozione, ma semplicemente a persuadere una certa
verità generale. Questa persuasione non può riposarsi se non in una fede
nella cosa o nel dichiarante la cosa. Perciò si fa sempre appello o a un
senso comune (come la scuola scozzese), o a una verità rivelata (come
generalmente tutte le Iheo- sophie, comprese anche quelle che si dicono
speculative), o finalmente a una ragione esplicita colla forza dell'eloquenza,
vale a dire, a una ragione diretta al sentimento. La FILOSOFIA coi/arie
speculativa mune della gente non può essere se non una philosophia più
o meno poetica, religiosa o irreligiosa; checché ne sia, le sue ra-gioni
non sono mai dirette a costituire la nozione, ma semplicemente a commuovere il
sentimento , o provocare l'imaginazione: perciò quest'eloquenza
philosophica non si può chiamare poetica nè prosaica, ma semplicemente
un'arte speculativa che persuade o commuove secondo le varie circostanze.
É la sola possibile FILOSOFIA che si possa popolarizzare, perocché il
sentimento e l' imaginazione nella gente comune possono essere
mediocremente espliciti, ma la riflessione è sempre notevolmente
debole. In questo primo momento si dice, per es., che la philosophia
dev'essere nazionale, ovvero deve servire la Chiesa , ovvero lo Stato,
ovvero la civiltà, e così via; si vuol fare della philosophia una
disciplina finita con uno scopo finito. E veramente questa manifestazione
equivoca della mente humana non potrebbe tra- scendere a una pura
speculazione, e d'altronde non potrebbe costituirsi una technica chiaramente
professionale. Perciò quando? udiamo che una persona ci risponde che il
suo studio sono le mathematiche, la chimica, eie, sappiamo positivamente quelli
ch'essa dice, ma se udiamo che la della persona si dedica alla)
philosophia, rimaniamo piuttosto perplessi. Si é talmente generalizzato questo
nome, che horamai non si sa più cosa si vogli a dire ,, quando lo si
pronuncia. Tra una philosophia dell'ordine succcnnalo, ed una philosophia
come speculazione pura corre una differenza molto maggiore che non fra la
botanica e la giurisprudenza. Un secondo momento dell'arte
speculativa è quello che, abbandonando il campo della fede, si dedica alla
dimostrazione mathematica o empirica, vale a dire, a una philosophia che
vuol conseguire la propria verità col methodo d'una disciplina
finita. Cosi, per es., Spinoza tratta la sua etilica con un methodo rigorosamente
geometrico (proposizione, dimostrazione, corollario). Nel secolo passato
questa manìa d' imitare i malhemalici fu mollo generale nei philosophi ;
non avvertivano che le mathematiche sono rigorosamente esatte, perocché
versano in un'aslratla iden- tità, vale a dire, si riducono alla loro
assiomatica identità a = a, locchè non potrebbe realizzarsi circa
veruno scibile concreto, perocché esso scibile concreto deve contenere le
categorie radicali di qualsivoglia realtà, cioè la qualità e la quantità.
Le mathematiche sono appunto esalte perchè contengono una sola categoria
(la quantità), e le loro verità non sono mai il rapporto di una all'altra
categoria (il quale rapporto costituisce l'essenza di qualsivoglia verità);
questa sola categoria è appunto incontroverlihile, perocché si riferisce
semplicemente a se stessa; perciò si è dello che i theoremi malhemalici
sono giusti, ma non sono veri, appunto perchè non contengono la totale essenza
di quella che noi chiamiamo verità, o, per lo meno, le verità
mathematiche hanno un significalo altro da quello delle altre discipline.
Cosi trattando mathemalicamenle le materie philosophichesi sono dovute
ridurre a un'astratta identità affinchè riuscissero incontrovertibili
come le mathematiche. Spinoza, per es., poneva la massima cardinale
che due cose diverse non possono avere un rapporto fra loro, perocché
nella comunanza di esso rapporto elleno sarebbero iden- tiche; di qui
conchiuse una sostanza universale identica a se slessa, la quale si
manifesta nelle sue varie attribuzioni come la spaziosità, la
temporaneità, eie.; considerava la Coscienza come una mera attribuzione
di essa sostan za. Non avvertiva 1° che nulla può essere reale se non sia
Coscienza e p perc iò la Coscienza non è un attributo ma la sostanza
stess a di ogni cosa: che ja mede sim a non è u j^ realtà, ma piuttosto i
nfinita attitudine a realizzarsi epperciò non si può chiamare nè
universale, nè particolare, nè identica, nè differente; ri on si può
predicarla in verun modo finito. Vi ha pure un'altra forma
della dimostrazione, che assai dif- ferisce dalla mathematica. E la prova
empirica, della quale ab- biamo più sopra riferito il caratteristico
essenziale. Nulla di più ovvio che ascoltare cosi sconsideratamenle dai
philosophanli che la philosophia dev'essere utilitaria, e riposare sopra
i documenti positivi dell'osservazione. Questa proposizione presuppone
una perfettissima ignoranza delle verità puramente philosophiche.
Basta osservare che la philosophia, sendo il termine più generale della
scibilità, non può essere subordinala a uno scopo altro dall'arte
speculativa se stessa; esso scopo suppone necessariamente che vi sia
qual- cosa più concreto della philosophia. Solamente con questa
sup- posizione si possono giudicare positive certe verità, alle
quali deve servire. Il terzo momento dell'eloquenza philosophica è,
propriamente rnm«viAo parlando, un'eloquenza scettic a. Si è scoperto che
ogni idea consta di due termini contrari, ma siccome la riflessione deve
necessa- Se eìticìj riamente affermare o negare, così s i conchiude che
nè la ne iiiL zione nè l'afferma zione contengono le verit à. È questo lo
scelticismo finale, al quale arrivò la speculazione greca. Negli ultimi V
tempi della philosophia greca apparvero tre syslemi, i quali, benché non
fossero prettamente sceltici, riuscirono perù pratica- mente allo
scetticismo. Così, per es., lo stoicismo (il quale non era menomamente
scettico, ed affermava che l'universo è il corpo d'Iddio), conchiudeva
che nel mondo non era cosa veruna pre- azjì^W- .v- V feribile a un'
allra, e così la vera beatitudine dell'uomo saggio, ^ ( non consiste nel
conseguire certe cose ch'egli crede ottime, e f* 1 "* * f /"cansare
certe altre eh egli crede grame; m a piuttosto nella piena indifferenza ad ogni
cosa monda na. Cosi pure i neoplatonici, i quali non erano menomamente
scettici, lant'è che proclamavano che l'assoluto è uno, epperciò non
intelligibile, perocché l'intel- ligenza suppone l'intelligente e
l'oggetto dell'intelligenza, altro F.f te & \ dalla stessa), riuscivano
praticamente all'estasi colla quale si ] z *iit' ,\t;c astraevano
da ogni senso esteriore. Gli scettici propriamente delti e poi avendo
conosciuto che ogni termine ha il suo contrario, aspi ravano ad un
giusto equilibrio (melriopatfna) dei termini contrari, epperciò conchiudevano
doversi speculare continuamente, senza pronunciare giudizio veruno. L’apathia
o ataraxia degli stoici, l’estasi dei neoplatonici, la mctriopathia degli
sceltici, enunciano un solo fatto concreto, ossia rijr.fimp fflp
ny.il riffll' i pio Hifr»"™ h iimang n p.nrirqflire
l'assoluto. Gli stoici trovavano quest'incompetenza nell'assoluta
unità dell'universo, cosicché affermavano che l’intelligenza non
polendo essere se non dualistica, necessariamente non poteva
concepire l'assoluto, il quale è un'unità. I neoplatonici trovavano
quest'incompetenza nell'intelligenza, che presuppone un oggetto essenzialmcnle
altro dall'intelligente. Gli scettici finalmente trovavano
quest'incompetenza nell'assoluta contrarietà delle idee, dalla quale
arguivano l'assoluta incompatibilità di due idee contrarie. Sommariamente si
può conchiudere che il sentimento l’e
imaginazio ne sono^cjjmpe tenti a concepire Tassoluto^ perocché I
ìvA*'tZ~ var j ano ne j varj soggetti; la riflessi one è pure incompetente
a t:|(*M,»*^. concepirlo, perocché deve supporre il suo oggetto
essenzialmente altro da se stessa, e trovando che ogni termine
dell' idea ha il suo contrario, conchiude necessariamente che una tale
idea debba essere un affermativo o un negativo, ma dappoiché non è
astrattamente nè l'uno né l'altro, ossia non è un astratto positivo
perché anche un negativo, e non è un astratto negativo perchè anche un
positivo, arguisce che l’intelletto è incompetente a giudicare. Questo
avviene perchè non si conosce quella facoltà, wr^ÈTche noi chiamiamo
facoltà concettiva , la quale differisce essenzialmente tanto dal sentimento
come dalla riflessione. Il senlimento affermo giustamente la propria
incompetenza a costituirsi t&wtfc-ccìv^vp-un assoluto, l’intelligenza
a ffermò pure la detta incompelcnza, perocché capì che l'assolulo deve
contenere anche la riflessione, epperciò la riflessione non può giudicare
quello che non può essere un suo oggetto altro da se stessa Cosi l'arte
della parola, svolgendosi nel sentimento artistico e nella riflessione
scientifica, arrivò a uno scetticismo filosofico, e si giudica generalmente
incompetente a costituirsi un assoluto. Lo scetticismo è la necessaria
conclusione d'ogni intellettualilà, che abbia trasceso il sentimento, e non
sappia trascendere alla pura speculazione. Il nostro filosofo si propone anche
la celebre questione del progresso, ossia del cammino della civiltà; e trova
che essa fu evolutivamente risolta coir una o coll'altra delle
seguenti tre risposte: Il genere umano invecchia e invecchiando/dgiara
(sentenza prediletta dagli antichi, da parecchi ottimi poeti moderni e
specialmente dai teologi; con essa lo spirito, scorgendo le migliori cose
desiderabili, le illumina col prestigio della distanza nello spazio e del
tempo. Il genere umano scuote le tenebre della sua ignoranza,
ricerca la scienza, con cui recar rimedio alle sue infermità, e accrescere i
beni, insomma migliora; (con essa lo spirito sforzatosi di prendere il governo
del mondo, raggiunge la sua dignità, dalla quale la mistica antichità lo
dichiarò decaduto: ed è prediletta dai novatori in genere). L'uomo né peggiora
né migliora, ma svolge in modo la sua spiritualità, che la prospettiva del suo
processo rimanga duplice, a migliorare per una parte, a peggiorare per l'altra:
lo spirito è una perpetua compensazione attiva del bene e del male, in modo che
l'uno generi l'altro per necessità logica e questa é la soluzione preferita dal
filosofo: soluzione, come si [Prolegomeni] Lo Spirito oggettivo vede,
trascendentale, ma punto strana perchè l'esigenza del trascendentalismo è
propria dell'uomo. Esso è necessario alla spiritualità, cosi come la
respirazione al corpo umano, sebbene, sommando le opposizioni che si sono mosse
alla speculazione, si vede che tutto lo scibile finito iu l'avversario d'ogni
trascendentalismo speculative. La determinazione suprema della
voce, LA FAVELLA, cioè LA PRONUNCIA ARTICOLATA DELLA DIALETTICA PSICHICA è
il vero fondamento dello scibile, perchè concreta sensibilmente lo sdoppiarsi
del pensiero. Èla formula e insieme lo strumento più eminente della
manifestazione spirituale. Sebbene né LA FAVELLA, né la facoltà di
acquistarla siano necessariamente richieste per determinare la posizione
dell'uomo nella natura il sorgere del LINGUAGGIO, È, COME IL PUDORE, SINTOMO della
spiritualità che nasce e si afferma. Lo studio della linguistica che
sembrerebbe poter procedere sopra un terreno libero da qualsivoglia
pas-[Introduzione alla coltura generale, Prolegomeni Massime e Dialoghi, Fase.
Spirito oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere
teologiche, o in balla del liberalismo naturalistico o finalmente asseconda le
simpatie e avversioni etniche. Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di
essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di
possedere la più perfetta di tutte le lingue -- opinione che naturalmente osta
ad un bilancio del contributo che ogni idioma porta all'educazione dello
spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come è posto per
tanto tempo, è assurdo, giacché presuppone pre-nato alla lingua il pensiero, il
quale mediante essa debba riferirne l’origine. L'unica ricerca genetica che,
fuori del dominio speculativo, può condurre a utile risultato, è la
determinazione di un periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale
si sono sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l’idea
e le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è
idealmente definibile, perchè è meramente naturale. É una ragione psichica
immediata come quella per la quale il RISO è foneticamente altro dal LAMENTO e SIGNIFICA
diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle
forme materiali e radicali. Giacché agevolmente si capisce come una radice
viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato, patisca in questa
determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione. Anzi,
la [Considerazioni ecc., Lo spirito oggettivo] radice e l'idea si legano
reciprocamente, e così l'una e l'altra sono arrestate nel loro metamorfico
svolgimento. Si può dire che il pensiero di un popolo tanto più liberamente si
svolge nella storia quanto meno sia spiritualmente legato dalle radici vive della
propria lingua, e che reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici
vive come l'attività le corrompe e spegne. Molta importanza ha lo studio delle
lingue per la istruzione e l’educazione del pensiero. L’uomo è tante volte uomo
quante lingue conosce, giacché tale studio concerne vari modi che rispondono ai
vari gradi del pensiero. Infatti, l'idioma accenna progressivamente a dare le
forme sensibili, le intellettive, e le concettuali. Quanto più il pensiero si
avvia all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze
tutte formali della lingua. Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è
occasionato il pensiero. Più tardi capii che la lingua è mezzo necessario
alla sua formulazione. Finalmente concepii che la vera forma intrinseca del
pensiero non può essere manifestata da questo mezzo estrinseco, che è la
lingua. Il che significa che essa, giunta che sia di fronte alla speculazione
pura, o per dir meglio, al sistema contemplativo si esautora da sé medesima,
riconoscendosi insufficiente a esprimerlo concretamente. Anzi, la lingua [Idee
radicali delle discipline matematiche ed empirico-induttive. Introduzione alla
coltura generale. Prolegomeni. Massime e Dialoghi. Fase. Lo spirito oggettivo]
VOLGARE, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai
differentemente che la letteraria e la FILOSOFICA, perocché lo scopo delle
varie forme linguistiche non è menomamente identico. Anche la semplice nozione
storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma speciale.
Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de’suoi tanti romanzi, C. dice. Il
mio protagonista studia sopratutto di famigliarizzarsi coi singoli idiomi che sono
svariatissimi e giudica che la nozione à un certo paese suppone quella del
minuto popolo, epperciò una pratica dell'idioma locale. E vedemmo che così si
comporta nei suoi viaggi egli stesso. Quanto alla questione circa la preminenza
del toscano sugl’altri dialetti nella nostra lingua letteraria, ecco le
osservazioni, che noi riferiamo qui non perchè ci paiano originali, ma per
dimostrare, una volta di più, quale sicurezza di sguardo ha C, in ogni
questione, che si affaccia al suo intelletto. LA LINGUA ITALIANA possiede, come
tutte l’altre, il suo proprio genio caratteristico, per il quale non può essere
confusa con veruna delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e
svariatissimi, si distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico
carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che
l'italiana. Questo avviene perchè, fra tante differenze, essi posseggono un
carattere comune. Memorie postunte, Fase. Itinerario di un
inqualificabile. Fase. Lo spirito oggettivo] grammaticale e lessicale; e L’UNITÀ
DELLO SPIRITO ITALIANO, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in
questo generalissimo tipo comune dei dialetti. Oggidì da letterati si disputa
seriamente se il solo toscano sia il tipo classico della lingua italiana,
ovvero se IL GENIO DELLA NOSTRA LINGUA, essendo sparso in vari dialetti, si
debba ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione.
Il toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il
più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è
senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano. Ma non si deve
dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto sivoglia buona, è pur
sempre UN DIALETTO, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente.
Nessun popolo scrive come parla. Le lingue parlate nascono e crescono nel
popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica
sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze
progressive delle lettere e delle scienze. Ora, questo materiale della lingua
parlata è tanto più sufficiente quanto più ampiamente è desunto da tutti i
dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie
all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste
precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve
liberamente approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo
il buon esempio del grande ALIGHIERIi, che, quantunque toscano, esordì a
scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua veramente
italiana. Spirito oggettivo. Molte forme grammaticali e lessiche sono
riducibili allo SPIRITO GENERALE DELLA LINGUA ITALIANA, talune non lo sono. Il
buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se l'idea esige
neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e omogeneamente
ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti nella lingua
italiana. Coll'idioma esclusivamente toscano s'immiserisce non solo la lingua,
ma conseguentemente anche l'idea, la quale trascende le limitazioni
locali e popolari. Dai Sogni e Favole: Dal Sogno fiiogoologico.
Perfezione ed imperfezione degli enti. Dalla Favola antropologica. Dialogo tra
Fantasia, Lucifero ed il filosofo. Dalla Favola antropopedeutica. Dialogo tra
Favola ed Filosofo. La filosofia e la solitudine. Dalla Favola angelica. La
vita del filosofo. Dal Sogno utopistico. Dialogo fra il filosofo ed un ere
mita della futura società riformata.Dal Sogno utopistico. L’educazione
in un ordinamento utopistico della società. Dalla Favola utopistica. Una gita
in aeroplano nella società riformata. Dalla Favola utopistica. Un «
casus belli » Dalla Favola utopistica. Le condizioni economich
della società riformata dell’anno 2000. Dalla Favola utopistica. Un
disegno di ordinament cittadino nella società riformata dell’anno 2000 .
Dal Sogno assurdo. La società nel secolo xix e nell’e poca
successiva della riforma. Dalla Favola assurda. L’igiene. Dal
Sogno del diluvio riformatore. Un cataclisma. Dalla Favola di F.rato. Poesia,
scienza, speculazione Dalla Favola ili Erato. La danza, la mimica,
la mu¬ sica, la poesia. Dalla Favola di Erato. I grandi poeti sono
spiriti concettivi. Dalla Favola tecnica. Prolusione agli studi tecnici in una
società futura. Dalla Favola filosofica. Manuale pratico di vita civile Dalle
Massime e Dialoghi: Reminiscenza.» Espressione della verità. Recondita
opera della filosofia nella storia dell’ umanità. Gli attori della nostra
storia europea. Gli spiriti forti e la moralità. I filosofi nella società degli
uomini comuni. Debolezza delle facoltà mentali. Celebrità e saggezza. I giudizi
del mondo. Apprendere da sò stesso o dal maestro .II giornaletto umoristico. La
tirannia della debolezza. L’apprezzamento della filosofia del mondo. Stazioni
nell’itinerario degli studi. Dialogo di Patologo e Apatologo.» L’uomo
piacevole. Machiavellismo delle sette. Differenze spirituali. Un quinto
giudizio del mondo.Erutti di una coatta abnegazione. La celebrità ed il sapere.
Dialogo della Luna e della 'ltrra. Lagnanze e contentezze inopportune. »
L’intrinseco del mondo. L’ineccepibile probità. Conosci te stesso. Il
vero sentimento e la costumanza. La predica delle tre sorelle . Metodo per
essere colto e sapiente. Scopo di un filosofo . Catechismo de! medico
praticante. ”Documenti esteriori della soggettività. L’inettitudine dei
filosofi e dei poeti . Annunzio librario. Dialogo di un filosofo con un amico.
Orientazione dello spirito speculativo. L’infelicità degli uomini grandi . consigli
delle persone. La setta. La personificazione delle maggioranze. I giudizi del
mondo. Verità speculativa e verità della riflessione. Sentenziucce. Le ragioni
delle sette. Predilezione del sentimento e della riflessione Le abitudini della
vita pratica e teorica . Insegnamento delle massime pratiche mondane.
L’hegeliana filosofia del diritto . Trascendentalismo. La divina
provvidenza1 diritti della gente. Astrazioni viste sotto un solo aspetto.
Ragioni della verbosità . La solitudine e la città. Le lodi e i biasimi del
nostro tempo. La morte spirituale. L’inavvertenza. Politica. Circa la musica
contemporanea. I desideri del filosofo .L’essenzialità del sistema
contemplativo .Uno stravagante . li soldato. Un rimprovero sconsiderato1.
'esigenza dello spirito. Il lavoro del cervello. L’educazione positive. La
composizione. I ire periodi della storia umana Intensità dell’esistenza
ed annullamento Insegnamento della lingua. I fondamenti dello scibile
finito. La religiosità dell’Asia. La religiosità in ROMA. II Cristianesimo.L’igiene.
L’ozio delle Trascendentalismo. La verità poetica. La responsabilità.
Paradossi. La professione. Il regime. L’educazione del getter. L’essenza
e il formalismo dello scibile umano. Il bello poetico. Il deputato. Crepuscolo
di Milano. Pellegrinaggio. Unione di Torino. Silorata. Revue
franco-italienne di Parigi. Philosophische Monatshefte, Rabus. Pasaelogices
Specimen. Zeitschrift fur Philosophie und philosophische Kritik,
Perseveranza. Antonietti. Considerazioni sopra il sistema dello Spirito e della
Natura. Lorenzi alle Considerazioni. Gazzetta Letteraria Ercole.
Filosofia delle Scuole Italiane, Ercole. Pasaelogices Specimen. Annuario
biografico universale, Articolo d'indole generale. Lorenzi. Notizia
degli scritti e del pensiero filoso-
ficodi Pietro Ceretti accompagnata da un
cenno autobiografico pel medesimo (la mia celebrità).
Ercole. Torino, Unione Tip. Editrice. Prefazione de IP Autore
In Atti deirAccademia Reale delle
scienze di Torino (Classe di scienze morali, storiche e
filosofiche). Adunanza. Nuova Antologia.Valdarnini. Zeitschrift
filr Philosophie und philosophi-sche Kritiky Halle, Notizia
bibliografica.In Rivista Italiana di Filosofia
dNotizia bibliografica del Prof. Felice
Tocco.Introduzione dei traduttori ai Prolegomeni,
Nuova Antologia. Letteratura.Tarozzi. Ercole. Rivista Italiana di
Filosofia, Ercole. Machiavelli, T. C. In Lettere ed Arti.Lenzoni. Ateneo
Veneto.Ift Revue philosophique de la France et de L’Etranger. Perez. Ercole.
Sinossi. Rassegna Nazionale. Un poeta filosofo.Notizia. Rivista Italiana
di Filosofia. Notizia Valdarnini. Risveglio educativo, La pedagogia di Ceretti.
Studio del Val-darnini. Prefazione dell’autore In
La Coltura, La fama postuma di un
Filosofo poeta, del Prof. G. Zannoni. In Voce del
Lago Maggiore, C. poeta, di Alemanni. La Filosofia della
Natura di P. Ceretti per Pasquale
D'Ercole. Torino, Unione tip. Editrice. The Mind,
Benn. Zeitschrift fììr Philosophie nnd philosophische Kritik, Leipzig,
Notizia sulle opere, Hermann. Rinnovamento Scolastico, Roma,
Ceretti nella storia della Pedagogia, di Fantuzzi. Deutsche Litteraturzeitung,
Notizia sul volume dell'Essologia, del Giovanni Cesca. Rivista Italiana
di Filosofia, Un nuovo Trattato di Filosofia della Natura del Valdarnini.
Nella Storia della Pedagogia Italiana del
Prof. Angelo Valdarnini, Paravia e C.Idem
nel Dizionario illustrato di pedagogia del
Martinazzoli e Credaro. - Rumori mondani
di GaetanoNegri, Milano Discorso. Ercole. Inaugurazione del
monumento a Ceretti,Intra,Vedetta.Alemanni,Saggi di Filosofia Teoretica.
Valdarnini. Firenze Prefazione dell’Autore. Introduzione.
Ercole. Essologia, Stampa Notizia sul voi. deirEssologia. Alemanni.Rassegna
Nazionale NotiziaAlemanni. Rivista Italiana di
Filosofia, stX.i,-La Coscienza Fisica, studio
Alemanni. Nella Storia Compendiata della Filosofia di
Cantoni (Milano Hoepli) Rivista Pedagogica Italiafia, La
filosofia naturale del Ceretti. Valdarnini.
Coltura, Notizia del Pro- fessore I. Petrone. In
Rivista Italiana di Filosofia, Le dottrine estetiche di Ceretti.
Studio. Alemanni (Literarisches Centralblatt, Essologia. La Fisica. Nella
Enciclopedia universale illustrata, Milano,
Vallardi Editore. Cenno sul Ceretti.
Grundriss der Gcschichte der.Philosophie,Viertel Theil di Ueberweg-Heinze.
Notizia sul Ceretti (Credaro). In Rivista
Filosofica. La filosofia di P. Ceretti.
Alemanni. Ceretti (n. intra), filosofo. implicatio — empiegazzione — ES
implicatum — empiegato — EX implicans — empiegante — SYN. L'uomo nella serie zoologica.L'uomo vuol essere
consideralo come l'ultimo frutto , ossia il massimo sviluppo psichico
dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone necessariamente i prossimi
animali dello sviluppo minore, e cosi via discorrendo. L'uomo vuol essere,
inoltre, considerato come il frutto più recente dell'albero 200 logico. E qui
nasce oggidi rispetto all'uomo una contestazione circa la sua produzione
immediata o derivata da ' più prossimi animali inferiori. Questa contestazione
non può ammettersi dalla specu lazione, e neppure dalle discipline naturali
empirico - induttive; ma la si agita sopra un terreno affatto estraneo a quello
della speculazione, e della scibilità empirico - induttiva, fomentata da ogni
sorta di passioni , partigiana di religiosità, di moralità, e così via . È
assurdo supporre che una specie si tramuti in una nuova specie come tale ;
perocchè le specie sono mere distin zioni teoriche del nostro intelletto . La
natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum ; e conseguentemente
le distinzioni caratteristiche, che costituiscono le specie, non risul tano se
non in quanto si prendono in considerazione termini sufficientemente lontani e
si trascurano i termini intermedii . Infatti, se noi consideriamo gli animali
superiori dell'albero zoologico , nei quali le differenze ci sono più
sensibilmente mani feste, troveremo che le specie si suddividono in razze
differenti fra loro sotto varii rapporti , e che le razze si suddividono in
varietà differenti, e che dette varietà si suddividono in varii indi vidui pur
differenti fra loro . Inoltre, troveremo che queste differenze sono a noi tanto
più evidentemente manifeste quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed
a noi più vicina sia la specie che si prende a considerare. La vera
trasformazione della specie perciò non si deve inve stigare nelle specie come
tali , ma piuttosto nei minimi termini della specie , ossia nelle variazioni
individuali. Quesle variazioni , tuttochè lentissime, modificano col volgere
dei secoli le specie , così come le conchiglie microscopiche, variando la
propria na tura, variano il terreno che ne risulta. § 109. Gli agenti che
effettuano la suddetta progressiva va riazione sono di tre ordini , vale a dire
: agenti planetarii, agenti psichici, agenti spirituali. Questi agenti sono pro
gressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella efficacia
spirituale. Gli agenti del primo ordine modificano semplicemente l'orga nismo,
e indirettamente, ma assai lentamente, le facoltà istintuali. Sono gli agenti
puramente planetarii, p . es . , la natura del suolo e dell'aria, ossia
generalmente il clima, le condizioni geografiche e topografiche, e cosi via.Questi
agenti si possono chiamare elementari; perocchè operano su tulla l'animalità
senza distin zione veruna , e sono presupposti dagli altri agenti succennati.
Si può dire in tesi generale , che gli animali inferiori non subiscono
modificazione se non lentissima, e molte specie degli animali inferiori si sono
spente, appunto perchè non hanno potuto subire le modificazioni necessitate
dalle progressive va riazioni dell'aria e del suolo . Gl’istinti delle specie
animali infe riori sono rigidi e difficilmente modificabili , appunto perchè
sono istinti poco variati , che non possono neutralizzarsi fra loro in una
ricca varietà di modificazione. Gli agenti del secondo ordine sono psichici,
epperciò più intimi nell'organismo, ossia più essenziali . Questi agenti psichici
modificano l'animale nelle sue intime facoltà , ossia attitudini , assai più
facilmente e più profondamente che non gli agenti naturali succennali. Questi
secondi agenti sono nella loro essenzialità un maggiore sviluppo dei primi,
epperciò si manifestano nelle generazioni susseguenti come profonde
modificazioni dell'organismo e dell'istinlualità . Queste modificazioni non
sono più mere variazioni giusta una astratta affinità , per le quali, p. es .,
una facoltà diventa minore di altra facoltà, vale a dire, si manifestano come
pure variazioni quantitative dell'istintualità . Sono modificazioni profonde
che diventano la proprietà caratteristica dell'animale e qualche volta sono
affatto estranee e contradittorie alle facoltà delle genera zioni preesistenti.
Allora si dice , che nuove specie sono venute all'esistenza, e le vecchie si
sono spente . Le facoltà psichiche si modificano sulla base di istinti più
svariati , i quali si neutralizzano appunto fra loro tanto più facilmente
quanto più svariati . Gl'istinti degli animali inferiori sono tanto più fermi e
rigidi , quanto meno molteplici e sva riati. Queste modificazioni causate da
fattori psichici modificano realmente il sistema anatomico e fisiologico (
perocchè non sa rebbe possibile una modificazione psichica sulla base d'una
inva riabilità anatomico - fisiologica ), ma sono modificazioni profonde , le
quali , se qualche volta poco modificano l'ordine anatomico fisiologico
sensibilmente manifesto, sono però effettuate piuttosto negli elementi
anatomici, nel così detto ordine istologico. Le dette modificazioni psichiche
non spettano, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma sono più
profonde modificazioni dell'organismo e della corrispettiva istintualità; esse
riflettono piuttosto le mere individualità animali, epperciò sono variabili
indefinitamente . Le condizioni causali di queste modificazioni sono date dalle
varie ciscostanze , nelle quali ver sarono certi individui animali. Cosi non è
solo la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che
vivono, ma anche i varii vegetabili e animali con che vivono ; perocchè dette
varie condizioni sono sufficienti a modificare l'anima dell'animale . Le delle
varie circostanze costringono certi individui a eser citare preferibilmente
certe facoltà psichiche, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data
la ricca molteplicità e varietà delle facoltà istintuali proprie della specie,
queste facoltà varia mente si combineranno fra loro e si neutralizzeranno.
Gl’istinti cosi neutralizzati, ossia radicalmente variati , si trasmettono alla
generazione veniente; e cosi le condizioni succennate , variando le altitudini
dell ' anima individuale, preparano il terreno alle più ricche e più profonde
azioni dei fattori veramente spirituali . I fattori spirituali modificano
quelle attitudini che appartengono non alla specie, ma all'individuo animale, e
sono fattori che non più modificano l'anima senziente , ma lo spirito ideante
dell'animale. Tuttochè questi fattori, nel loro concreto sviluppo, appartengano
meramente allo spirito umano, pure gli animali superiori ( p . es . , le scimie
antropomorfe) posseggono un certo quale esercizio equivoco e parziale dei
suddetti fattori. Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò
gl’indi vidui più vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani . È
questa la ragione per la quale i suddetli animali non sola mente si aggregano
fra loro, ma si organizzano gerarchicamente giusta certi statuti del loro
sentimento comune. È importante che un individuo animale possa profittare delle
proprie osser vazioni ; perocchè dello profitto provoca una maggiore perizia
pratica, la quale dai più vecchi è partecipata ai più giovani e trasmessa alle
generazioni vegnenti come una dialettica delle categorie istintuali , che più
tardi si svilupperanno in una vera mentalità. Le categorie spirituali
funzionano qui come sviluppate cate gorie psichiche, epperciò il linguaggio ,
nel suo amplo significato, vera sintesi e genesi manifesta delle categorie
spirituali, arriva all'esistenza : come linguaggio puramente psichico; come
linguaggio equivoco, ossia psichico -spirituale; come linguaggio assolutamente
spirituale. Qui non occorre accennare al terzo stadio, ossia al linguaggio
spirituale proprietà esclusiva dell'uomo, ma solamente al primo e secondo
stadio del linguaggio che nasce e si sviluppa nell'animalità subumana. Il
fattore caratteristico di questa crisi, ossia lo svi luppo dell'anima senziente
nella spiritualità pensante, è manifesto piuttosto dal linguaggio muto delle
emozioni del corpo e princi palmente di quelle della fisionomia. Quest'emozioni
possono for mulare un vero linguaggio, in quantochè manifestano definite
emozioni intime con certe categorie, che, non essendo destinate alla mera
conservazione dell'individuo e della specie, non si pos sono chiamare
semplicemente psichiche, ovverosia istintuali. L'animale, p . es., lussureggia
per una mera sensualità erotica, la quale non può essere destinata in verun
modo alla pro pagazione della specie. Così pure gli animali giovani giocano
colla vivacità propria dell'età loro, la qualcosa può giovare, ma
indirettamente, all'educazione e destrezza corporale dell'indivi dualità . Così
i genitori non solo alimentano la loro prole, ma la educano e disciplinano alle
pratiche operazioni requisite dalla propria specie, locchè significa che
l'ingenita istintualità non potrebbe bastare, ed abbisogna di ammaestramenti
delle osser vazioni date a coloro che hanno già vissuto praticamente nella vita
. Il linguaggio che abbiamo chiamato equivoco, ossia psichico-spirituale , è
quel tale linguaggio fonetico, che veramente non consta di vocaboli , ma
semplicemente di VOCIFERAZIONI, le quali significano non solo definite emozioni
dell'animo, ma certe anfibologiche determinazioni della mente. Così , per es .
, i cani , alla presentazione d'un oggetto che altre volte fu loro nocivo,
possono fuggire guaiolando.Qui certo v'ha una psichica emozione provocata da un
simile oggetto, ma quest'emozione dev'essere legata alla memoria di una
sensazione, la quale memoria appunto costituisce una deter minazione equivoca,
psichica o mentale. Gli animali superiori posseggono una svariatissima facoltà SIGNIFICATIVA,
mediante una modulazione fonetica, di queste equivoche determinazioni. Quando
l'animale arriva definitivamente alla soggettivazione della propria Coscienza,
ossia al suolo distinto categoricamente dal non- lo, entra categoricamente
nella coscienza spirituale. Questo passaggio costituisce la creazione dell'uomo,
e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può significare un
soggetto umano. Qui l'umanismo si manifesta categoricamente nel proprio
caratteristico ( la definita soggettivazione), e si manifesta colla parola non
certo coi documenti anatomico-fisiologici, che non possono bastare se non a
certe ample generalità della distinzione animale.1 Sguardo retrospettivo sullo
sviluppo della Coscienza naturale. Prima di entrare a caratterizzare questa
crisi impor tantissima, ossia lo sviluppo dell'anima nello spirito, dobbiamo
rapidissimamente riassumere la speculazione retrospettiva della Coscienza
dall'ordine uranico nel planetario e vegeto animale. Nell'ordine uranico la
coscienza procede verso un'individuazione dalla nebulosa alle comete, al sole
ed ai pianeti. Quest'individua [Questo punto è espresso molto determinatamente
e chiaramente nel l'altra opera di C. Considerazioni sopra il sistema generale
dello Spirito,, oveè detto. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo (assai
più caratteristico di quell'antichissima vaga definizione dell'uomo ragio
nevole) è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione di questa sogget
tivazione è fatta con parole, con gesti o altri inezzi spiritualmente formolati
, Conformemente a ciò, più innanzi, l'uomo è designato anzi definito come
coscienza soggettivatazione, qualunque la si voglia supporre , non può essere
una sog gettivazione ; perocchè l'individuo non si distingue dalla specie , e
le varie specie dei corpi celesti si confondono colle varie età di un solo
individuo. Cosi pure, speculando in un ordine generalis siino, le varie specie
vegetabili ed animali sono varie età della vegetazione e dell'animalità. Ma
nelle specie vegetabili l'individuo principia a distinguersi dalla specie .
Nell'ordine animale non solo l'individuo si distingue dalla specie, ma anche il
soggetto dall'individuo ė progressivamente distinto. Cosi, p . es . , il corpo
animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate ed organizzate
fra loro, le quali , svolgendosi dall'una in altra fase, costituiscono i varii
organi ed apparecchi e funzioni vitali dell'a nimale. Ma la coscienza resuntiva
di questo individuo vivente è nell'animale concreto non negli animalcoli
gregarii che lo costi tuiscono . L'animale resuntivo della propria soggettività
costituisce lo svolgimento del senso del pensiero. Lo Spirito o la Coscienza
spirituale . Senso e pensiero e la loro distinzione. Qui dobbiamo
caratterizzare definitivamente la distin zione del senso e del pensiero. Il
senso non può supporsi astratto dalla Coscienza ; perocchè in questo caso
sarebbe un senso che non sente, ma può supporsi astratto dalla Coscienza del
senso; perocchè la Coscienza e il senso possono funzionare indistinta inente .
Finchè la Coscienza non si distingue categoricamente dal proprio oggetto , è
una coscienza identica alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile
esistenza. Quando però la Coscienza si distingue categoricamente dal proprio
oggetto, allora dice: Io sono e l'oggetto è. Io sono quello che sono, e
l'oggetto quello che è, cioè l’lo e il non - lo siamo due termini distinti .
Quest'idea fondamentale che si percepisce un lo è la soggettività ossia la
nascita dello spirito. Quando C. dice qui nascita dello spirito, intende dire
nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in
questo. A con ferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei
vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel
susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il
principio sensitivo non come pura e semplice sensazione, ma come sentimento.
Sulla predetta distinzione, del resto , ritorna nei paragrafi susseguenti. Le
fasi dello spirito. Lo spirito consta di tre fasi, il sentimento, l'intel letto
ed il concetto. Lo spirito nel sentimento è uno spirito immediato, che poco si
distingue dall'anima senziente , ma quest'anima senziente appartiene allo
spirito, perocchè si percepisce soggetto. Il sentimento. Qui dobbiamo
brevemente storiare lo spirito nella sua prima fase, ossia nel sentimento. Il
sentimento consta di tre termini: l'attenzione, la memoria, l'imaginazione. La
funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la soggettività , che
lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile. L'attenzione deve funzionare
nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve sentire che il senso della
natura, ossia l'istinto, più non gli basta. Questo sentimento
dell'insufficienza del proprio istinto l'avverte, che necessita osservare ed
imparare le pratiche della vita ; è la prima funzione della mentalità .
Epperciò tutte le lingue ariane conservano più o meno esplicite le traccie
della parentela lessica di maneo e mens, quasichè pensare e fermarsi, ossia
fermare l'attenzione sopra un oggetto, siano due opera zioni molto affini.
Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste ope razioni, nella loro
sensibile inanifestazione esteriore s'identificano in un fatto comune, quello
dell'arrestarsi. La Coscienza che fissa l'attenzione sopra un oggetto, cerca
nell'oggetto qualcosa oltre il sensibile immediato, quando esso oggetto non sia
la funzione di una mera sensazione immanente. La seconda funzione
caratteristica del sentimento è la memoria . Mediante la memoria una sensazione
presente si può risu scitare quando non sia più presente. La coscienza
attentiva all'oggello studia un oggetto esteriore ed abbisogna della pre senza
di esso oggello per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa
l'oggetto osservalo, epperciò si costituisce indipendente dalla presenza del
medesimo.La terza funzione caratteristica del sentimento è la imaginazione.
L'imaginazione non solo conserva l'oggetto osservato, ma crea l'oggetto che non
ha osservato. Questa funzione emancipa la Coscienza, non solo, come la memoria,
dalla presenza dell'oggettto, ma anche dalla sensibile esteriore realtà del
medesimo, epperciò l'imaginazione può liberamente crearsi una propria
oggettività . Questa facoltà crea non solo l'oggetto composto di oggetti
osservati, ossia non crea solo la mera composizione, ma crea gli oggetti che
non constano di elementi osservati , ma oggetti radi calmente imaginari ,
tuttochè le semplici categorie dello spirito e della natura debbano
necessariamente fornire all'imaginazione se stesse per possibilitare la
creazione. Il passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante , ossia dalla
bestia all'uomo, è pure una progressiva distinzione della Coscienza in
soggettiva ed oggettiva . Qui la detta distinzione è una mera distinzione
generale dell'lo dal non-Io . L'lo si sup pone vivente e pensante altro dal
non- lo, in sè stesso parimenti vivente e pensante. La natura si rivela come un
popolo di viventi e di pensanti , non si suppone ancora l'altro dal vivente
-pensante , ossia il non vivente e il non -pensante ; si suppone semplicemente
l'altro dal moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre,
stochiologica e ininerale, la vegetabile e l'animale si suppongono distinte dal
mio lo, non però distinte dall’lo generalmente par lando, ossia si suppongono
possedere un loro lo analogo a quello della Coscienza umana . Esaminale le
radici, ossia gli antichissimi suoni elementari del linguaggio e troverete ogni
dove significata l'universa natura come vivenle e pensante analogicamente alla
Coscienza umana ; non vi troverete mai la natura morta colle sue forze cieche,
go vernale da necessità parimenti cieca , vale a dire, la natura della
riflessione. Il sentimento esplicito dalla Coscienza soggettiva può essere
comunicato dall'uno all'altro individuo. È questa comuni cazione la prima
proprietà per cui l'idea cogitabile è distinta dalla mera sensazione. Nessun
linguaggio potrà fornire una sensazione, se questa non sia stala data dal senso
come tale lo potrò, p. es. , parlare in qualsivoglia modo degli oggetti
visibili , ma il cieco nato non potrà mai comprendere che sia la visibilità. Se
un soy getto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva , potrà, parlando degli
oggetti veduti , richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non
potrà mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla
semplice imaginazione.La prima conseguenza della Coscienza senziente che si
sviluppa nella cogitante è che, siccome l'idea come tale , ossia nella forma
della Coscienza cogitante, può essere trasmessa dal l'uno all'altro soggetto,
non può essere trasmesso il senso come tale , ossia nella forma della Coscienza
senziente . Cosi il soggello è abilitato a sapere quello che non egli , ma gli
altri hanno percepito col senso, oppure quello che egli in altro tempo ha per
cepito col senso , oppure indurre un'idea da quello che presen lemente
percepisce col senso C.. Sinossi, ecc. Cosi
, p . es. , la pecora condotta al macello vede macellare la sua simile e non
solo non induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che
questa presente operazione signi fichi un'uccisione ; perocchè non possiede
l'idea della morte. Cosi il soggetto pensante può sapere quello che il
senziente non può sapere, e questo sapere nasce da una facoltà, per la quale da
una sensazione si astrae un'idea. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel
passato colla memoria, e nell'avvenire coll'ima ginazione; il soggetto
senziente vive astrattamente nella sua sen sazione presente. In virtù della
sensazione, che non può essere indotta in un'idea, egli non possiede, come il
pensante , la distin zione di una natura predominante ed insubordinabile al
soggetlo , e di una natura subordinabile e passibile del soggetto . Quest'idea
prototipa della forza è un'idea cardinale dello spi rito, è stata il primo
germe della religiosità. Osservate il Dio di tutti i popoli, e lo troverete Dio
, non perchè sommamente ragio nevole, ma perchè onnipotente. Nelle religioni
spiritualmente più adulte rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto
che quella della ragionevolezza, l'attributo eminentissimo della divinità. Mediante
questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato , di
essere stato lattante, di essere stalo partorito , e cosi pure può sapere che
tutti i soggetti , nessuno eccettuato, non vissero oltre una certa inassima
età, ma morirono in quella o prima di quella . Conseguentemente egli sa che il
sog getto non solo nasce e nuore, ma può nascere in varie condizioni , e morire
in qualsivoglia momento della sua vita . $ 126. La nozione della nascita e
della morte del soggetto è un fenomeno della Coscienza realizzato la prima
volta che la Coscienza senzienle si svolge nella pensante; perciò sapiente
inente nella genesi è detto che l'uomo prima di peccare, ossia di gustare il
frutto del bene e del male, non inoriva, ed avendolo gustato dovrà morire
.Veramente la Coscienza senziente non può sapere di nascere e di morire;
perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione trasmessa dall'uno
all'altro soggetto , ovvero un'idea in dotta dal fatto costante della morte. Ricapitolando,
questa crisi della Coscienza, ci mani festa che la Coscienza , dalla sensazione
svolgendosi nella men talità , procede in un sistema di distinzioni ideali ,
che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità , che nasce dalla
sensazione , è prolotipicamente imitatrice della sensazione, e porta seco nel
suo sviluppo la forma della sensazione stessa , che pro gressivamente si
trasforma in quella del pensiero . La mentalità è prototipicamente sentimento,
e funziona in tre caratteristiche fun zioni cioè : come attenzione ; come
memoria; come imaginazione . Da queste tre prototipiche funzioni del sentimento
nascono tre forme rudimentali della mentalità. La mentalità non più vive
nell'immediata sensazione, ma crea il conflato temporaneo e vive nella
retrospettiva del passato e prospettiva dell'avvenire. Questo conflalo
temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre l'imme diato sensibile
presente, e conseguentemente un'idealità induci bile dall'osservazione. Da
quest'osservazione nasce una seconda idea elementare della mentalità, cioè
d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza subordinabile alla
nostra . Di qui la mentalità si esercita per subordinare le forze predominanti,
e da questa generale osservazione si percepisce come un fatto costante che
l'uomo nasce e muore, e finalmente che io come uomo sono nato e devo morire .
L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un'idea comunissima, è lungi
dall'essere tale . La Coscienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi
viventi , percepisce la morte come un fatto costante ; ma, come la riſlessione
, non arguisce punto che questo fatto , tuttochè costante , sia necessario .
Suppongono questi selvaggi che la natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso
l'uomo; ma suppongono pari menti che quest'uccisione non sia una necessità, ma
una sforlu nata accidentalità. La coscienza che dalla sensazione si svolge
nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità.
Il soggetto possiede la sua propria determinazione indi viduale ; ma proprie
determinazioni non affettano un sistema generale della Coscienza umana, che
perciò ſu chiamato senso comune. Mentre questo sistema generale della Coscienza
è piena mente uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e
spiritualmente normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comuue in
on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i
giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato,
ossia pro fetico , laumaturgico, e così via . Generalmente parlando, questa
Coscienza trascendente subor dina la comune, come provano i varii sacerdoti
della primitiva religiosità . Quando il soggetto si aliena dal senso comune
senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica con
tradittoria a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze gene rali della
pratica oggettività, allora si dice , che il soggetto è spiritualmente
ammalato, ovverosia demente. L'alienazione vuol essere accuratamente distinta,
se cioè sia alienazione dal mero senso comune ( in questo senso si può dire,
che tutti gli uomini grandi furono alienati), ovvero se sia una alienazione
dalle generali esigenze pratiche dell'oggettività natu rale e spirituale ( in
questo senso gli alienati sono coloro che comunemente si chiamano pazzi ). La
Coscienza trascendentale, ossia la Coscienza domi nata dall'idealismo,
Coscienza essenzialmente poetica , è il polo opposto della Coscienza dominata
dalla sensazione, Coscienza essenzialmente prosaica. A quella si devono tutte
le organizza zioni primitive dell'umanità , a questa si deve preferibilmente la
tecnica industrialità e la mercatura primitiva. Vedremo più oltre, che la
Coscienza umana progredisce sulla base di quest'opposizione archetipica della
sua storia.Il linguaggio e i suoi stadii. L'organo più essenziale e più
generale della mentalità è LA LINGUA. Il primo stadio della lingua è l'uso della
RADICE DESIGNATIVA. Qui la lingua non designa che la presentazione o il modo
della presentazione, e sempre si riduce alle semplici categorie del tempo e
dello spazio. I pronomi personali non sono primitivamente Io, Tu, e così via,
categorie troppo metafisiche, per servire a questo primo stadio della lingua,
ma: “qui,” “là”, ecc. -- categorie dello spazio. Una lingua che consta di
radici semplicemente designative non può soddisfare alle esigenze più generali
della mentalità, epperciò da questo primo stadio si sviluppa, per l'implicita
esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il secondo stadio consta di una
RADICE *PREDICATIVA*, ma tuttavia legata a una sensibile determinazione. Cosi,
p. es., per DE-SIGNARE un oggetto, si sceglie l'attributo sensibile più
esplicito in quel l'oggetto (“shaggy”) p. es., il verde per DE-SIGNARE la
pianta. Quest'attributo sensibile, sendo necessariamente variabile o
contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo
stadio si trovano molte lingue dei selvaggi, i quali scelgono un attributo
sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono arrivare
a formolare le specie, ma smplicemente oggetti in certe sensibili condizioni.
Il terzo stadio usa la categoria propria della mentalità esplicita, la
categoria metafisica, per designare l'oggetto; come, p. es., definie la pianta
non l'individuo verde, ma l'individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed
all'acqua. Questa proprietà generica comprende tutte le piante ; perocchè la
detta polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. La lingua è
posseduta da tutti gli animali come lingua psichica di movimenti o di formalità.
Ma la lingua che caratterizza la soggettività è appunto la lingua psichica che
si svolse nella spirituale. Altrove abbiamo trattato esplicitamente quest'argomento
e crediamo superflua una ripetizione. Qui giova solamente accennare, che le
prime radici della lingua significarono mere affezioni dell'anima e più tardi
si svolsero in significati metaforici, per rispondere all'esigenze della
progressiva mentalità. Il rapporto fra il suono espresso dall'anima e l'anima
esprimente è quello stesso rapporto, ma più complesso, per il quale DETERMINATI
ANIMALI SIGNIFICANO (alla Grice) con certi definiti suoni cerle definite
affezioni dell'anima loro .L'uomo, sviluppando in sè stesso la propria
mentalità e l'organo per significarla, si conobbe come specie comune. La prima
lingua quasi naturale deve essere stata pressochè identica in tutti i soggetti
umani, come TUTTE LE PECORE BELANO, tutti i cani abbaiano ed urlano. Dovette
essere una lingua nata con loro e trasmessa alle generazioni senza il minimo
bisogno di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La
lingua è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente
trattati da C., il quale la conosce, ed a fondo, in molte forme antiche ed in
un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti , in
molte sue saggi. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè
Saggio circa la ragione logica di tutte le cose “ Prolegomeni, Torino. Ne ha
accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in Torino, e cioè nella
Proposta di riforma sociale; nella Introduzione alla cultura generale. Ne parla
poi in parecchie altre opere ancora inedite . Stato primitivo dell'uomo.L'uomo
che possedetle questa lingua visse nelle foreste in aggregazioni o società
piuttosto fortuite, poco dissimili da quelle dei quadrumani, ma si armò per
esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degl’altri
animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle armi
artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza. Questo primo stato
dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività
abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore o vivente dei prodotti
naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o
società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato proprio.
In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente
manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla
conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale
s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i
loro nemici, amici, con sanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè
ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da
mangiare. Quest'enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l'affezione alla
progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella
mentalità. È una mentalità che si ma [Sono certo che la quasi totalità de'
lettori non sarà d'accordo su questo punto col Ce., e riterrà l'associazione
umana come una necessità e non già come un'accidentalità. Ma l'autore, per la
vita solitaria e un po' misantropica da lui fatta, è stato come
involontariamente tirato a generalizzare questo suo particolare carattere.] nifesta
come un'orribile perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un
mero modo d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la
massima perversione, può nobilitare l'uomo antropofago sopra la bestia
istintualmente tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto
individuo, l'uomo selvaggio in procinto di essere cattivalo dai suoi nemici,
può suicidarsi, la bestia non mai. L'istinto della propria conservazione
individuale è un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure
quello della conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel
regno della natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della
vita si trovano fra gl’animali pensanti. Tuttochè qui dobbiamo parlare del
soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata
dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della
lingua, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggetto,
indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla nessuna
organizzazione. La lingua appartiene cosi al soggetto solitario come al soggetto
socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle
occasioni dell'amore. L'uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto
colla femmina come un mero rapporto erotico, occasionale. Abbandona la femmina
alle conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono
allattati, nudriti ed educati dalla madre . Ma la lingua, che persuase la
copula dell'amore, è la medesima lingua, colla quale la madre educa i suoi
figliuoli. Cosi la lingua può dirsi radicalmente una creazione della specie ed
assume dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della
spiritualità. Si può dire in tesi generale, che la lingua genera la storia
nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento SINOSSI
DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA della lingua si conosce lo svolgimento dell'umana
mentalità , e, conseguentemente , delle gesta che ne sono conseguite.
Proseguiamo a speculare circa i fenomeni più radicali della
soggettivitàesologica" Il sillogismo che passa dall'astrazione esologica
nella essologica è il sistema dell'Essere-Essenza-Coscienza, che passa nel
sistema del Meccanismo-Chimismo-Vita. L'Essere esologico è Quantità - Qualità -
Modalità, dall'unità corriflessa delle quali categorie avviene (sorge)
l’Essenza. L'Essere essologico determina la Qualità nell'Alteriorità, la
Quantità nella Esteriorità, la Modalità nell'Apparizione. Quindi l'Alteriorità diventa Temporalità , l'Esteriorità
diventa Spazialità , l’Apparizione diventa Luce... Esologica Alessandro
Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords: communication, convention, homo sapiens,
pirothood, inter-subjective, animality, animalness, soul, psichico, psychic,
psychical versus psychological, progression, pirotological progression,
cenobium, neologismo, panlogica, pantologico, logo, esologo, essologo,
sinautologo, prologo, dialogo, autologo, tre categorie: tesi QUANTITA
(meccanica), anti-tesi, QUALITA (fisica), sin-tesi MODALITA (vita) –
arte/religione/filosofia; storia/didattica/diritto, antropologia,
antropopedeutica, antroposofia, prasseologia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ceretti” – The Swimming-Pool Library. Ceretti.
Grice e Ceronetti:
l’implicatura conversazionale della lanterna – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceronetti; he is a
typicall Italaian philosopher; that is, a typically anti-Oxonian one; he
thinks, like Croce and de Santis did, that philosophy is an infectious disease
that some literary types catch! My favourite of his tracts is “Diognene’s
torch”! Genial!” Per essere io morto all'Assoluto vivo come un innato parricida
tra gente già di padre nata priva; pPer aver detto all'Inaccessibile addio da
un cortiletto senza luce vergogna vorrei gridarmi ma resto muto. Tutto è
dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo
ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta erudizione e di sensibilità umanistica,
collabora con vari giornali. Tra le sue opere più significative vanno ricordate
le prose di Un viaggio in Italia e Albergo Italia, due moderne descrizioni,
moderne e direi dantesche, da cui vien fuori tutto l'orrore del disastro
italiano, e le raccolte di aforismi e riflessioni Il silenzio del corpo e
Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività di saggista (Marziale, Catullo,
Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei Sensibili, allestendo in casa
spettacoli di marionette. Le sue marionette esordivano su un piccolo
palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano Laziale. Si consumavano
tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele cotte." Nel corso degli anni
vi assisterono personalità quali Montale,Piovene, e Fellini. Con la
rappresentazione de La iena di San Giorgio, I Sensibili divenne pubblico e
itinerante. Œ In Difesa della Luna, e altri argomenti di miseria
terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma spaziale da prospettive originali
e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti -- "il fondo senza fondo" -- raccoglie
infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite e inedite, manoscritti,
quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su svariate discipline,
soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano, inoltre, numerosi
disegni di artisti (anche per I Sensibili), opere grafiche, collage e
cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra intitolata Dalla buca del
tempo: la cartolina racconta. Prese posizione a favore dell'eutanasia, con
la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario della legge Bacchelli, in
quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante in condizioni di
necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti al Premio
letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso critico e
politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito
l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso
sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale,
quasi da moderno anacoreta. Solo un vero vegetariano è capace di vedere
le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un
mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è
un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la
sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla
retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che
gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di
carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un
carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale
e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il
Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni
da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In
precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver
descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel per Radio Radicale Come articolista,
principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di
letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul
caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo
odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi
di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento
giornalistico a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in
carcere e con cui ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la
strage delle Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore,
colpevole della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del
saggio di Bloy La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle
Ardeatine, vittima di una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo
sempre la sua simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e
la sua parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a
Hess, al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione
anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto
filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché
convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il
terrorismo palestinese). Nel fu
insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile
al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche
diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a
parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani, fino al, quando intervenne al congresso dei Radicali
Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio
Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un
"conservatore" e patriota del Risorgimento (descrisse
l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il
verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito
come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il
Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro...
l'ombra di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo
concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non
finiscono di manifestarsi.» (Ti saluto mio secolo crudele) Nel propose in un articolo su la Repubblica,
ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione
di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che
dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una
vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet
Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo
così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido C.) e Geremia
Cassandri. Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve ricovero a
causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo tre giorni e
una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra Torino e il
Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno (Torino), il
paese di origine dei genitori. Disposizione da prendere. Non voglio donne
in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur
insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate
sempre, nella vita.» Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di
miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi,
Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La
carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti,
Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina,
Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi,
Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa,
Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi,
Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D.
Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara
incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole
di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare.
Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia
di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi
Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese,
Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera
italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, La lanterna del filosofo, Adelphi,
Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice,
Lavis); Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo
in lingua italiana, Adelphi, Milano,, Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e
sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini,
Einaudi, Torino,, L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano,, Tragico
tascabile, Adelphi, Milano,, Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,, Per
non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano,, Regie immaginarie, Einaudi, Torino,
Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini Mariotti,
Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Poesie,
frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, Premio Viareggio; Opera Prima;
Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e per non vivere, Einaudi,
Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri versi, illustrazioni di
Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni e disperazioni.
Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo Cattaneo), San
Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited, Alberto
Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La distanza.
Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera
degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo,
Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il
gineceo, Tallone, Alpignano; Adelphi, Milano, In memoriam di Emanuela Muratori,
Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone, Alpignano, Adelphi, Milano,,
[nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate dalle carte di Lugano, Alberto
Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il Teatro dei Sensibili, Alberto
Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di un aereo che sta precipitando,
Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al Tulliano Notte; , Alberto
Tallone, Alpignano, Con l'armata dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone,
Alpignano; Invocazione al Dottor Buddha perché venga e ci salvi, Alberto
Tallone, Alpignano; Le ballate dell'angelo ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi
del Gineceo, Adelphi, Milano,, [riedizione de Il gineceo con inediti e nuova prefazione] Sono fragile
sparo poesia, Einaudi, Torino,, Drammaturgia Furori e poesia della Rivoluzione
francese. Carte Segrete, Roma, Alcuni esperimenti di circo e varietà.
Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic
Luna Park. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, Mystic Luna Park. Spettacolo per marionette ideofore, ricordi
figurativi di Giosetta Fioroni, Becco Giallo, Oderzo; Viaggia viaggia, Rimbaud!,
Il melangolo, Genova, La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto
Tallone, Einaudi, Torino); Il volto (Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone
Editore, Alpignano, Le marionette del Teatro dei Sensibili, Aragno, Torino
[contiene: I Misteri di Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a
Torino negli anni Trenta, Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto
Tallone, Alpignano, Rosa Vercesi, illustrazioni di Maggioni, Edizioni Corraini,
Mantova; Traduzioni e curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi,
Einaudi, Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio
di G. Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G.
Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, I Salmi, Einaudi, Torino; nuova ed.
riveduta, Einaudi, Torino; col titolo Il Libro dei Salmi, Adelphi, Milano; Catullo,
Le poesie, Einaudi, Torino, Adelphi, Milano, Blanchot, Il libro a venire (Le
Livre à venir), trad. G. Ceronetti e Guido Neri, Einaudi, Torino; Il Saggiatore,
Milano,. Qohelet o l'Ecclesiaste, Einaudi, Torino, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, nuova traduzione; Qohelet. Colui che prende la parola, Adelphi,
Milano, Decimo Giunio Giovenale, Le
Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro di Giobbe,
Adelphi, Milano, Premio Monselice di traduzione, nuova ed. riveduta, Adelphi,
Milano, Cantico dei cantici, Adelphi, Milano, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, nuova versione riveduta,. Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi,
Milano; nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano, Come un talismano.
Libro di traduzioni, Adelphi, Milano; Konstantinos Kavafis, Nel mese di Athir,
Edizioni dell'elefante, Roma. Konstantinos Kavafis, Tombe, Edizioni
dell'Elefante, Roma, Giovenale, Le donne. Satira sesta, Alberto Tallone
Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione
che durerà; profezie estratte dalle Centurie di Michel de Nostredame, Alpignano,
Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni & Corubolo,
Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi, Pisa, Teatro
dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per ricordare. Una
scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo La rivoluzione
sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di locandine teatrali a fogli sciolti
dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi, Alberto Tallone,
Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto Tallone,
Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone, Alpignano,
senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante, Roma (con Chaumont)
Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal Corano, calligrafia di Mauro
Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater noster. Matteo 6, calligrafia
di Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza,
con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di Ottavio Fatica e Eva Czerkl,
Piccola Biblioteca; Adelphi, Milano, Giorni di Kavafis. Poesie di Constantinos
Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia, Alberto Tallone Editore, Alpignano;
Adelphi, Milano,.nella seconda parte del libro, Siamo fragili, Spariamo poesia.
i poeti delle letture pubbliche del Teatro dei Sensibili, Qiqajon, Magnano,
2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti. De Rerum Natura. Alberto Tallone,
Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra fuggitiva di piacere, Adelphi,
Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia tradotta, Einaudi, Torino, François
Villon, I rimpianti della bella Elmiera, Alberto Tallone Editore, Alpignano,.
Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido Ceronetti, Adelphi, Milano,. Epistolari
Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni, Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori
una vigna. Lettere ad Arturo Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il
Notes Magico, Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare
l'abisso. Lettere, Milano, Adelphi,. Spettacoli del Teatro dei Sensibili La
Iena di San Giorgio. Tragedia per marionette (allestito in appartamento),
prodotto dal Teatro Stabile di Torino, con Ariella
Beddini, Simonetta Benozzo, Paola Roman e Manuela Tamietti, regia di
Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di Carlo Cattaneo Macbeth (spettacolo
per marionette allestito in appartamento) Lo Smemorato di Collegno (anni '70,
spettacolo per marionette allestito in appartamento) Diaboliche imprese,
trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo per marionette allestito in
appartamento); Fu interpretato al Festival di Spoleto da Piera degli Esposti,
Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la regia, scene e costumi di Enrico Job
I misteri di Londra (allestito in appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di
Torino, regia di Manuela Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca
Mauceri (Baruk), Valeria Sacco (Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le
marionette del Teatro dei Sensibili. Furori e poesia della rivoluzione francese.
Tragedia per marionette (allestito in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma
con i burattini di Maria Signorelli Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro
Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto dal Teatro Stabile di Torino),
spettacolo per marionette ideofore con Armida (Nicoletta Bertorelli), Demetrio
(C.), Irina (Bottacci), Norma (Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione
sconosciuta, mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani
Viaggia viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione
del centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido
Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian
Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno
di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di Torino)
con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo
per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna
Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione
dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione
pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con
Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e
pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa
Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta
Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (prodotto dal
Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e
Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici,
ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di
Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di
repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni
sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio
Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini
fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue
d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario
della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini,
Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino)
Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni
dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco,
Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di
Guido Ceronetti (a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita
dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini
Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali,
Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento
dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I
collages di cartoline d'epoca del Fondo C.i, cura di Rüesch e Franciolli,
Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte Lugano, Poesia
marionette e viaggi di C. nelle visioni di Cattaneo, Tesi eVivarelli, Comune di
Pistoia, Dare gioia è un mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei
Sensibili di C., Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge,
Marcovaldo, Nella gola dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX
secolo. Tutti i collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da C.i, Il
melangolo, Genova, "Per le strade" di C., Omaggio allo scrittore, Rüesch
e Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale, Archivio Prezzolini-Fondo
Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su C. I Misteri di Londra. Tragedia per
marionette e attori, regia di Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino
(riprese videografiche dello spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole
musiche storie, di Luca Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido
Ceronetti. Il Filosofo Ignoto, film documentario di Fogliotti ePertichini
(Italia'), prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido
Ceronetti e dei Cinecircoli giovanili socioculturali. C. nei mass-media Cura
cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui
"intervistò" Attila (Bene), Auguste e Louis Lumière (Bianchini e Scaccia),
George Stephenson (Scaccia), Jack Lo Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino
Artusi (Scaccia). Il cantautore Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal
vivo Nel niente sotto il soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda
traccia (Non trattare)una registrazione di C. che declama i primi versetti del
Qoelet. Note Ha usato per molti anni un
sigillo con scritto "In esilio": Capossela intervista C. Morto lo
scrittore, in Corriere fiorentino, C., Tra pensieri, Adelphi, Milano, Stefano,
In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Mondadori,
Milano, C. morto, ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un
patriota orfano di patria. Italia, regno della menzogna” Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di
marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/ repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html Samantha, lo spazio e il signor Freud "C. L'inferno del corpo", in Cioran,
Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano,
"Oggi una quantità delle mie carte è partita per Lugano dove tutto
entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca Cantonale." Per le
strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate urlate urlate. / Non
voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita a forza in
corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette di coma che
m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del Presidente
della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti attribuito un
assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto della legge
Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione, "Il nostro
meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro, qualsiasi
abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la Famiglia non
gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare
disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera
patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a
ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano
(comedonchisciotte. Org forum/ index .php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il-
pericolo-senza-nome lessiconaturale/ migranti-e-prediche/) (ilfoglio /preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo) (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo) (ilfoglio/ preservativi/ news/ deutschland-pressappoco-uber-alle,
Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista C. dice, come altri non oserebbero, che
“hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di
guerra sociale e religiosa", C., nel dolore si nasconde una luce) Mario Andrea Rigoni, Ma non bisogna
confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido Almansi,
Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke L'invasione
Africana; “Il male omosessuale” (C. dixit). Albergo Italia (Einaudi, Torino),
capitolo "Elementi per una anti-agiografia", Uno, cento, mille C., C., Priebke. Alcune
domande intorno a un ergastolo, la Stampa
Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di C. per Priebke, il Foglio, Sono
sempre stato anticomunista, sempre, Forse, subito dopo la guerra ho avuto una
certa simpatia, però non mi sono iscritto al partito il giorno dopo aver visto
La corazzata Potëmkin, come innumerevoli giovani. Antifascista non è neanche da
dire, da quando ci si è risvegliati. Di quel periodo non ho voglia di parlarne,
ero tra i soliti ragazzini stupidoni che andavano alle adunate, ma non c'è
storia di anima o di pensiero o di famiglia che riguardi il fascismo. I miei
non erano fascisti né antifascisti, erano bravi cittadini come tanti. (Corriere
della sera). Si dice il responso delle urne. Come se un popolo di cretini
potesse fornire oracoli (Per le strade della Vergine) la mia America: “Un baluardo contro l’ideologia
comunista” XIII Congresso Radicali
Italiani ilfoglio/preservativi/ prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella-
impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/ cultura/c.-in-un-amore-felice Chi era, fustigatore dei vizi degli
italiani Riviste/ Su “Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno C.: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA
VECCHIAIA SENZA SESSO: PER DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I
VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO
VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a
Torino, per mettere in scena col Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio.
Sulla porta metto quest'altro mio nome: Geremia Cassandri. La pazienza
dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano, Adelphi, Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, su premioletterario viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO
“MONSELICE” PER LA TRADUZIONE, su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia,
Guido Ceronetti. Critica e poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di
ammirazione (Adelphi, Milano, Guido Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta
Fioroni, Marionettista. C. e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa
(Corraini, Mantova) Giovanni Marinangeli, C., Il veggente di Cetona (Fondazione
Alce Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei Sensibili
(Corraini, Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di C. (Junior,
Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce nella carne. La poesia
(La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M. Vercesi, Pareti di
carta. Scritti su C. (Tre Lune, Mantova), Ortese, Le piccole persone (Adelphi,
Milano). Lattuada, Frammenti di una luce incontaminata in C.i, La Finestra
Editrice, Lavis, Cioran Gnosticismo moderno.
Ma io diffido dell'amore universale Guido Ceronetti, la Repubblica,
Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il dolore per la bellezza
perduta. Morto il più irregolare degli scrittori italiani. Ernesto Ferrero, La
Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana V
D M Vincitori del Premio "Città di Monselice" per la traduzione
letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano per la narrative. "StgvvU
nni GIURISPRUDENZA ROMANA. ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO. PARMA, BATTEI. Le
mie parola sull’istituzioni di diritto romano consentite che sia,
quale il sentimento vivo e sincero dell'anima la richiede. Sia d' omaggio a'
miei maestri, ai quali ritomo qui con ossequio immutato; sia di saluto
fraterno agli studenti, a cui mi presento, e da cui mi bramo accolto,
quale compagno di studi, fiducioso di trar lena, pel compimento del
mio assunto, più che dall' ingegno troppo scarso ed inesperto, dal loro
consentimento amichevole, dallo scambio fra noi , vivo e continuo, d'
affetto fraterno. Da questo scambio io trarrò buon augurio alla carriera
d'insegnante, verso la quale muovo oggi con trepidanza il primo
passo, e alla quale volsi e volgo ogni mio studio, guardando alla
meta con assiduità ferma di volere: del quale io non certo dovrò dolermi,
se, per debole ingegno o per avversa fortuna, quella dovesse per
avventura sfuggirmi. E però consentite che, muovendo il primo passo per
questa via, io qui ricordi l'assidua e amorosa intelligenza di cure del
Maestro illu- stre che ad essa mi guidava, e di cui ognuno ricorda
e r alta vigoria del pensiero, nutrito da corredo mirabile di studi
vari e profondi, e la bontà pura, ideale dell' anima, onde qui, come
ovunque, conquise d'affetto reverente maestri e discepoli. Consentite che
a Brini io mandi un saluto, coU'affetto il più riconoscente e devoto di
discepolo e di fratello. Invoco ora, o Signori, la vostra attenzione
indulgente sopra un tema, che, per sé, non parmi inopportuno a
trat- tarsi al principio d'un corso d'istituzioni di diritto
romano: se e quanto abbiano avuto d'influenza sulla GIURISPRUDENZA IN
ROMA le scuole filosofiche. Perchè, come in tal corso deve studiarsi per
rapidi tratti tutto 1' organamento del diritto privato e i singoli
istituti di esso. Così è conveniente ed opportuno esaminare e valutare quali
elementi sul delinearsi e conformarsi di quelli ebbero efficacia, e
quanto debba attribuirsene a ciascuno. La ricerca può talvolta, è vero,
rasentare e quasi toccare il campo della storia del diritto romano, che
si volle dalle istituzioni disgiunta; ma tali contatti non fa duopo osservare
come in punti non pochi e non lievi siano inevitabili, per quanto
si voglia lasciare al corso d' istituzioni il carattere più prettamente
dommatico. Che invero troppo spesso non può trascurarsi, per lo studio
preciso e compiuto degl’istituti all'ultimo momento giustinianeo, uno
sguardo alla loro origine e alla vita secolare che precede quel momento:
origine € vita di cui alla cattedra di storia vuoisi riserbata la ricerca
più diretta e diffusa. n tema eh' io prescelgo è arduo. Di più esso
entra buon tratto in un campo che non è il mio, nel quale io m'
avanzo peritoso, con un corredo scarso di studi e invocando l'indulgenza
di chi coltivi di proposito la storia della filosofia, e qui segnatamente del
pensatore illustre, che è onore di questa nostra facoltà giuridica alla
quale presiede. All'arduezza del tema se ne aggiunge la vastità. Talché
il tempo riserbato a discorrerne congiurerà colle deboli forze del
disserente a renderne imperfetta per più lati la trattazione; la quale
afifaticò in lavori appositi e in trattati generali d' antichità e di diritto
romano, uno stuolo numeroso di filosofi, fra cui non pochi valenti, dal
Cujacio in poi, e che fu pur di recente ripresa anche in Italia. Fra
altri, da un uomo, il cui nome segna una gloria e un lutto eterno perle
scienze romanistiche: Padelletti. Vanni. Io non certo presumo esaurirla, ma
solo mi propongo riassumerla per larghi tratti, valendomi e delle altrui
ricerche e di quelle ch'io venni compiendo direttamente sulle fonti,
procedendo dunque con modestia d'intenti. D’una cosa però sopra ogni
altra curandomi: di quella serena imparzialità di giudizio, che in temi di
questo genere, che toccano da vicino le varie credenze filosofiche individuali,
è facile troppo lo smarrire. Che invero non ci mancheranno, nel
procedere in questo tema, esempi di aberrazioni stranissime, a cui, privi di
quella, uomini, pur valorosi, riu- scirono. E innanzi tutto vuoisi qui
delineare per cenni la storia delle varie scuole filosofiche che tennero
in Roma il campo: storia per verità ben nota ad ognuno; ma pure non
inutile forse a richiamarsi qui, in brevi tratti , perchè tosto se
ne colgano quegli elementi, che sono essenziali nella trattazione
del nostro tema. Solo però dall' epoca di CICERONE tali cenni debbon
prender le mosse. Che, se può accogliersi che coi nomi di Socrate, e in
ispecie dell’ACCADEMIA e del LIZIO, giungesse già prima in Roma una
qualche eco delle loro dottrine, questa dovè riuscir ben fievole e inefficace,
mentre tanto saldo e fiero durava tuttavia in Roma quello spirito
anti-filosofico, per cui va Famoso CATONE, e da cui fu destata
l'implacabile ironia d’ENNIO. Le dottrine filosofiche dell’ACCADEMIA e del
LIZIO penetrano, benché solo
frammentariamente e indirettamente, coli' insegnamento di Panezio; al
quale V aver abbracciato IL PORTICO non tolse di seguirle e
propugnarle in taluni punti. Ma l’efficacia del PORTICO è però come
maestro di dottrine, nelle quali ebbe discepoli autorevoli e numerosi, e fra
essi giureconsulti di grido. Corrispondendo quelle, pel largo svolgimento che IL
PORTICO da alla morale, con pratici e austeri intenti, alla natura
del genio romano. Nel quale per contrario mal poteva svilupparsi il germe
dell' elevato idealismo dell’ACCADEMIA. Così come non poteva averne
favore la poca praticità diretta delle dottrine del LIZIO, già entrate in
Roma coi libri di Aristotele arrecativi da Siila, colla diffusione
curatane da Andronico da Rodi e da Tirannione. Ne molto di
più potevano avervi efficacia le dottrine della NUOVA accademia,
propugnate da Filone di Larisse e da Antioco. CICERONE, pur abbracciando
sostanzialmente IL PORTICO, coglie e assimila, secondo quella che fu pure
la tendenza di Panezio, e rimase tendenza della filosofia romana in
generale, quasi da ogni altra scuola taluni de' principii che
meglio vi corrispondessero al genio romano. Solo combatte invece la
FILOSOFIA DELL’ORTO, forte allora, e ancor più poco appresso: il quale
dura buon tratto allato alla scuola del PORTICO, fino a che perde teneno.
E, come CICERONE assimila principii estranei allo al PORTICO, altrettanto
ne rigetta ciò eh' era in questo di troppo rigido, e però praticamente
inefficace. Ptr CICERONE, ad esempio, contrariamente al PORTICO, non è
immeritevole di pregio il moderato godimento -- De sen. 14. Se il bene
morale sta al disopra d'ogni altro, esso non è tuttavia il solo bene
possibile e apprezzabile. Se è vero che il dolore dev' essere virilmente
tollerato, non è per questo men vero ch'esso sia un male (Tusc, II, 18;
II, 13). Per tal modo, con quest' opera e di assimilazione e
insieme di selezione. CICERONE procaccia il germe delle dottrine filosofiche
elaborate più tardi. La distinzione dell'corpo e dell’anima, il legame di
origine e finalità comune che unisce tutti gl’uomini e che impone a tutti
l'obbligo di fratellevole aiuto, che trovano trattazione più diffusa negli
scritti di Seneca, e poi di Antonino, son già delineati, chiaramente in
Cicerone (cfr. De rep., VI, 17; Ttisc, I, SI; De off., Ili, 6; De leg,,
I, 23) (1). Dopo Cicerone, frammezzo alle lotte combattute dai FILOSOFI
DELL’ORTO, fra i quali risplende il genio sovrano di Lucrezio, e mentre
pure dalle file dei filosofi del CINARGO partono le satire aspre ed argute di
Varrone, Q. Sestio prosegue, benché intinto della setta di CROTONE, le
tradizioni del PORTICO. Sestio raccolte poi da Fabiano e piti tardi da Attalo,
a cui die' gloria l'esser maestro di Seneca. La tendenza eclettica,
che si ha ognora in tutto questo sviluppo, ci si presenta più che mai
viva e spiccata in Seneca, già inclinevolo alla setta dei Crotonesi,
ammiratore dell’Accademia, né sdegnoso di citare Demetrio del Cinargo ed
Epicuro dell’Orto. E in punti sostanziali egli dissente dal Portico.
Significantissimo é un esempio, che già da altri fu notato e illustrato. Per il
PORTICO non può aversi diversità di natura fra ciò che chiamasi corpo e anima.
Seneca separa i due elementi e finisce per creare una specie di antagonismo,
che spiega la vita. Il corpo é la prigione dell' anima, un peso che la
rattiene verso la terra. Finché è unita al corpo, sta come avvinta in
ceppi (Ep., 65, 22). L’anima, per conservare la sua forza e la sua libertà,
lotta di continuo contro la carne (ibid.). Questa distinzione, così
precisa, del corpo e dell' anima é estranea al vero sistema del Portico e
Seneca è indotto da questa a conseguenze che anche più si allontanano
dalle dottrine de' suoi maestri. Secondo il Portico, l'anima muore, dopo
che il mondo sarà distrutto per mezzo del fuoco. Seneca, esitante su questo
punto, dopo aver detto a Marcia che tutto annienta e strugge la
morte (Com, ad Marc, 19, 5 ), le descrive l’anima del figlio, salente al
cielo, a lato di Catone e dei Scipioni. E scrive altrove senz'altro esser l’anima
eterna e immortale (Ep,, 57, 9). Distacco certo notevole, ma nel
quale troppo volle vedersi oltre il vero, col dar vita air omai
sfatata leggenda che Seneca si ascrivesse alle sette cri- stiane
(6). Seneca riprende con nuova energia V indirizzo morale di
cui già erano i germi in Cicerone: a questo solo rivol- gendo ogni suo
sforzo. Egli non si cura delle discussioni teoriche sul massimo bene, non
formula dogmi; ma segna le norme morali, fin pei rapporti più minuti
della vita. Dopo Seneca, il movimento filosofico prosegue. E dopo la
nube che parve oscurare, sotto i regni di Vespasiano e di Domiziano, la
fortuna dei filosofi, questa rifulge poco appresso più che mai splendida.
Plutarco vien cogliendo nella morale, anche con più ampia libertà
eclettica le regole sostanziali del PORTICO, togliendo a questo però la
rigidità ch'era in Seneca: e benché inclinando verso l’Accademia, col far
presiedere alla vi' a un divino primo, sotto il quale stanno divini di
secondo grado, a cui rimangon dietro, a lor volta, i genii mediatori,
giusta il concetto dell’Accademia, fra l’umano e il divino. E
a quello che potè chiamarsi l'impero dei filosofi, sotto Antonino, si
gittano le basi nel principato d'Adriano. È a questo tempo che la lotta
secolare dell' ellenismo contro il ROMANESIMO finisce colla vittoria completa
di quello. Sì che a Roma accorrono da ogni parte del mondo filosofi,
desiderati ed onorati. Demonace può paragonare Apollonio, che muove co' suoi
discepoli da Atene a Roma, ad un argonauta, che vola al rapimento del
vello d'oro (Luciano, Bem.y 31). È à quel tempo che la filosofia compie
in Roma un passo gigantesco con Epitteto. Questi prosegue la dottrina del
PORTICO, benché con certa tendenza verso il CINARGO. Fissandovi
essenzialmente il pensiero subbiettivo come principio e criterio della verità,
e però riducendo a formale il mondo esteriore. Non dunque dolori, ma fantasie
di dolori; onde la inalterabile fortezza e il disprezzo severo d' ogni
bene umano. E la filosofia d' Epitteto, continuata e propugnata
strenuamente da Flavio Arriano, germoglia più tardi nel sereno ingegno di Antonino,
che, elevando come ad eccelso ideale, il concetto della vita secondo
natura, deducendone, come conseguenze necessarie, la legge più pura della
carità umana, chiude gloriosamente il ciclo del PORTICO in Roma.
Appressa solo qualche bagliore raro e scarso traluce fra le tenebre che
si vengono da ogni lato addensando. IL PORTICO non fa più un passo. Non vale la
filosofia dei così detti accademici eruditi, già prima coltivata, allato
al Portico, da Favorino, da Massimo di Tiro e da Alcinoo, a gittare alcun germe
fruttifero. E le dottrine troppo idealistiche dei accademici, formulate
con nuovo vigore da Plotino, rimangono il culto inefficace di qualche
anima solitaria. Già da questi cenni, benché così rapidi e
incompleti, traluce una singolare coincidenza. I momenti essenziali
per la storia della filosofia in Roma coincidono coi momenti essenziali
per la storia della giurisprudenza. Il genio eclettico di CICERONE
negl’anni della REPUBBLICA, dà in ROMA inizio efficace agli studi della
filosofia, air incirca nel tempo, in cui -- scorse tre generazioni da
quando lo specchio di Gneo Flavio sottrae l'arte del diritto all'arcano
monopolio pontificale e l'insegnamento tentato dal pontefice plebeo
Coruncanio offre i germi, raccolti e rudemente elaborati da Sesto Elio. Q.
Mucio SCEVOLA gitta pure co' suoi XVIII libri iuris civilis i fondamenti
sistematici del diritto. E, al principio del principato d’Ottavinao, la
filosofia, segnatamente del Portico, fiorisce per r insegnamento di
Sestio, al tempo stesso in cui 1'eredità gimidica, tramandata dall' era
repubblicana è raccolta dall' intelletto sovrano di LABEONE, che inizia per
la giurisprudenza l’età delle sue glorie più fulgide e insuperate. Età
che si continua, con isplendore ognor più vivo, fino a Salvie Giuliano,
che colla fissazione deir editto perpetuo, compendia il tesoro elaborato con
continuità meravigliosa d’Ottaviano ad Adriano; nel quale appunto si vien
preparando quello che si disse a buon dritto rimpero dei
filosofi. Questa coincidenza di tempo non deve indurre in noi nessun
preconcetto che valga a sviarci dal sereno esame del nostro tema:
l’analisi dei concetti giurdici. Ma noi
dobbiamo tuttavia notarla, perchè molto soccorso potrà veoin^ene per
spiegazioni .e raffronti nel seguito delle nostre ricerche. Ed
entrando omai neir esame del tema, ricerchiamo se nel principio che
regola gl’istituti e rapporti v'ha alcuno degli elementi filosofici
siamo venuti seguendo. Ne vi spiaccia clie sopra tutto e' intratteniamo in
quest' ufficio modesto e paziente di semplice constatazione e che
riserbiamo a più tardi alcune considerazioni d' ordine generale, che da questa
potranno emergere. Consideriamo tosto i requisiti essenziali al
soggetto del diritto. L’ esistenza fisica e i tre status -- essenzialmente
lo status di libertà. Fra le regole spettanti all'esistenza fìsica
l’influenza del PORTICO ci si presenta spiccata nel concetto teorico
di cui è cenno specialmente in un testo d'Ulpiano, per cui si
considera il feto tuttora entro le viscere materne come parte di queste –
“mulieris portio vel viscerum” -- : Ulp., fr. 1 § 1 D. 25, 4 e prima
Papiniano, fr. 9 §. 1 D. 35, 2 — “homo non recte faisse dicitur”. E però
tosto da osservarsi come questa considerazione astratta, tolta manifestamente
dal PORTICO (Plut., Plac. pML, V, 14, 2: \iripoq eivai Ttig x(X7Tpòq)
rimanne in pratica lettera morta. Perchè, logicamente, dal considerarsi il
feto parte delle viscere materne, verrebbe che, fino al momento del suo
staccarsene e del suo passaggio ad esistenza di per sé stante, esso non dove
dar luogo ad alcun apposito rapporto giuridico. Mentre, contrariamente, stan di
fronte a tal concetto la legge di Numa che proibisce di seppellire la
donna morta incinta, prima di averne estratto il feto (fr. 2 D. 12,
8), le pene contro il procurato aborto, il divieto di Adriano di eseguire
la sentenza di morte contro la con- dannata incinta ( fr. 18 D. 1, 5), la
tutela al ventre pregnante, risalente fino a prima delle XII tavole, e
la “honorum possessio”, che a nome di quello potè chiedersi; istituti e
rapporti intesi tutti alla protezione di un soggetto di diritti sperato, e
dentro altro soggetto. Onde pure la risposta affermativa alla questione,
che tuttavia parve necessario propoiTe. Se il figlio, nato dalla madre
exsecto venire, abbia diritto di succedere ad essa (Ulp., fr. 1 §. 5 D.
38, 17 ) e il considerarsi come un essere già esistente il feto entro lo
viscere materne, benché non ancora a sé stante. Ciò secondo la verità
eterna e precisa delle cose. ( Cfr. Giul., 37 dig,^ fr. 18 D. 36, 2:
Is cui ita legafum est, qìmndoque liberos habuerit, si praegnatc uxore
relieta decesserit, intelligitur expleta conditione dccessisse et legatum
valere, si tamcn posthuììius natus fuerit; Ter. Clem., lib, 11 ad leg.
lui. et Pap., fr. 153 D. 50, 16: IntellegendiiS est mortis tempore fuisse
qui in utero relictus est\ Celso, 16 dig.y fr. 187 D. 50, 17; Ulp.
19 ad Sab., fr. 20 D. 36,1). Espressamente si fa risalire ad Ippocrate la
regola che assegna il tempo di *VII* mesi, come termine minimo
della gestazione (Ulp., fr. 3 §. 12 D. 38,16; Paolo, fr. 1*2 D. 1,
5). Ma, per sé, la necessità di segnare un termine minimo, sufficiente di
regola alla gestazione, si afferma per motivi esclusivamente sociali e
giuridici, e ne porse occasione la Legge Giulia. E la fissazione di
quello ai 7 mesi, giusta la teoria d' Ippocrate, ha un'importanza del
tutto formale. Più importante è per noi l'accoglimento della teoria
di Eraclito e del Portico, che fissa a *XIV* anni la pubertà (Plut.,
Flac, pML, V, 24,1; Macrobio, Somn. Scijp., G; Saturn., VII, 7). Accoglimento
che ha una grande importanza pel suo significato giuridico. Esso invero segna
un passo verso quella precisione sicura di linee, onde il diritto,
progredendo, abbisogna, e, anche più, include un riconoscimento fine e delicato
del diritto al pudore. Che ciò io avverta qui, anziché più tardi, non
maravigli; giacche non posso veramente propormi un ordine rigoroso, e mi è
forza lasciare che il discorso trascorra a' vari punti, a cui le
fonti che man mano si offrono, gli porgono il destro. Ne che tale
felicissima alata della scuola dei Proculeiani, nella quale si volle ravvisare
più precisa e più profonda rinfluenza del Portico, sia dovuta veramente a
tale influenza, anziché alla considerazione obiettiva, spregiudicata delle
necessità avanzantesi del diritto, parmi possa sostenersi con alcun serio
argomento. Se influenza vi si ebbe, essa fu tutta nella fissazione formale
del termine al quattordicesimo anno, anziché al dodicesimo o al
quindicesimo, come altrimenti avrebbe potuto aversi. Ma romanamente giuridico e
il senso che fé* avvertire la necessità di quella regola netta e certa e
fé' accoglierla trionfalmente. Proseguendo in tali traccie formali,
l'influenza della filosofia parmi possa avvertirsi anche nella considerazione
del parto trigemino, in caso di gravidanza della madre (Plut.,
Pìcce. pML^ V, 10,4), che ha gravi effetti per l'aspettativa
dei diritti spettanti ai possibili nascituri, fino all'avvenimento
del parto, e che nelle fonti ci si presenta risalente a Sabino e a Cassio
(Giul., fr. 8 §. 1() 1). 40, 7; Gaio, fr. 7 pr. D. 34,5; Paolo, fr. 28
§.4 D. 5,1; Id., fr. 3 D. 5,4). Ma ben altra influenza, sostanziale e
diretta, della filosofia, si sostenne per un tema, che qui dovrà trattenerci
alquanto: lo schiavo. È da tale influenza che si volle determinato l'
affermarsi con moto continuo, dallo scorcio della repubblica al secolo
degli Antonini, di un' intima contraddizione nel concetto di Schiavo. E s'
adduce la dichiarazione tradizionale dei giuristi di questo periodo essere lo
Schiavo contro natura, la protezione che è accordiata man mano alla vita e
air integrità personale dello schiavo contro le eccessive sevizie del
padrone (Gellio, Noci. Att, V, 14; Eliano, Be an,, VII, 48; Gaio, fr.
1 §. 2 D. 1,6; Ulp., fr. 2 D. eod, Modestino, fr. 11 §. 2 D. 48,8)
al cui arbitrio lo schiavo è sottratto, per esser sottoposto, in caso
ch'egli delinqua, ad appositi magistiati, e a procedimento, non
sostanzialmente difforme da quello che vale pel LIBERO (Pomp., fr. 15 D.
12,4; Ulp., fr. 12 D. 2,1; fr. 3 §. 1 D. 29,5; Venul., fr. 12 §. 3 D.
48,2), e indipendente attività patrimoniale che si riconosce allo schiavo
col peculio ( quasi patrimonium Uberi hominis: Paolo, fr. 47 §. 6 D.
15,1). S' adduce il favor libertatis che inspira in molteplici casi le
larghezze con cui si risolvono le dubbie questioni di stato e s'effettuano i
giudizi liberali -- Lege Iimia Petronia si dissonantes pares iudicum
existant sententiae pro libertate prommciari iussuni: Ermog., fr. 24 D.
40,1; e. d' Ant. Pio, presso Paolo, fr. 38 §. 1 D. 42,1; Ulp., fr. 3 §. 1
D. 2,12), s'eseguiscono le manomissioni, ordinate per atto d'ultima volontà
(Giul., fr. 9 §. 1 D. 33,5; fr. 4 pr. D. 40,2; fr. 16 D. 40,4; fr.
17 §. 3 D. eod.; presso Paolo, fr. 20 §. 3 D. 40,7; Valente, fr.
87, D. 35,1; Giavoleno, fr. 37 D. 31; Gaio, fr. 88 D. 35,1; S. C. sotto
Adriano, in Scevola, fr. 83 (84)§. 1 D. 28,5; rescr. di M. Aurelio, in
Marciano, fr. 51 pr. D. 28,5, e in Mod., fr. 45 D. 40,4, cost. dello
stesso in Ulp., fr. 2 D. 40,5; Meciano, fr. 32 §. 5 I). 35,2; fr. 35
I). 40,5; Pomp., fr. 4 §. 2 D. 40,4; fr. 5 D. eod.; fr. 20 I).
50,17 ; Marcello, fr. 3 i. f. D. 28,4 ; fr. 34 D. 35,2; Scevola, fr. 48
§. 1 D. 28,6; fr. 29 D. 40,4; presso Mar- ciano, fr. 50 D. 40,5; Papin.,
fr. 23 pr. D. 40,5; Paolo, fr. 28 D. 5,2; fr. 40 §. 1 D. 29,1; fr. 14 pr.
D. 31; fr. 96 §. 1 I). 35,1 ; fr. 33 D. 35,2; fr. 36 pr. D. eod. ;
fr. 10 §. 1 D. 40,4; fr. 179 D. 50,17; Ulp., fr. 711). 29,2;
9 fr. 29 D. 29,4 ; fr.
1 D. 40,4 ; fr. 24 §. 10 D. 40,5) e in ispecie per fedecommesso, alla cui
esecuzione provveggono già sotto Traiano, e poi sotto Adriano e Commodo,
appositi Senatoconsulti {SS. GC. Bubriano, Dasumiano, Artici, Ulano,
Vitrasiano, Iunciano -- s' adduce l’ingenuità che si vuole accordata al NATO
DA UNA SCHIAVA, che gode della libertà fra il momento del concepimento e
quello del parto (Marciano, fr. 5 §. 3 D. 1,5), o che, ordinatane la
libertà per fedecommesso, non e manomessa indebitamente, per mora
deirerede (rescr. di Marco Aurelio e Vero e di Ca- RACALLA in Ulp., fr. 1
§. 1 D. 38,16; Ulp. fr. 1 §. 3 D. 38,17; fr. 2 §. 3 D. eod.; fr. 26 §. 1
D. 40,5; MARcaNO, fr. 53 pr. D. eod.), fosse pure casuale (rescr. di Ant.
Pio e di Severo e Carac. in Ulp., fr. 26 §§. 1,2, 3D. 40,5; MoDEST.,
fr. 13 D. 40,5); il concetto che afferma la libertà inalienabile
(Costantino, c. 6 C. 4,8) e la regola che nega comprendersi nell'usufrutto
il parto della schiava (Cic, De fin., I, 4; Gaio, fr. 28 §. 1 D. 22,1:
Ulp., fr. 68 pr. D. 7,1). Fermiamoci su quest'ultimo punto. È famosa la
disputa, a cui quella regola die luogo ai tempi di CICERONE, fra SCEVOLA,
Manilio e Bruto, ed è pur notissimo come la propugnasse vittoriosamente
quest'ultimo, adducendo essere assurdo il computare fra i frutti
l'uomo, mentre ogni frutto che rechi la natura è destinato
all'uomo. La qual ragione è riferita da Gaio e da Ulpiano ( Gaio,
fr. 28 §. 1 D. 22,1; Ulp., fr. 68 pr. §. 1 D. 7,1), ed è tratta
genuinamente dalla teoria del Portico, secondo la quale l'uomo si
considera come signore dell'universo (Cic, De off., I, 7; De nat. Deor.,
II, 62; De fin., Ili, 20). Ma altrove, (fr. 27 pr. D. 5,3) Ulpiano stesso
adduce a fondamento di questa regola un motivo tutto economico. Non
valutarsi come frutto il parto della schiava, perchè lo scopo economico,
pel quale si tenne schiave, non è quello di procacciarsene i parti « non temere
ancillae eim rei causa comparantur ut pariant » , ossia perchè i parti della
schiava non costituiscono il frutto economicamente normale di essa. E due
fatti inducono a ritenere che sia appunto questa la ragion vera che
determina quella regola: la mancanza, cioè, di un'industria di allevamento
di schiavi e la parificazione del parto della schiava ad ogni altro frutto,
per qualsivoglia rapporto, all' infuori delF usufrutto. Che la regola,
determinata da questa ragione economica, si volesse poi anche
giustificare con un concetto preso al Portico, non può recar maraviglia,
quando si pensi come in altri punti non pochi la vernice d'una forma
filosofica copra un rapporto determinato essenzialmente da principii
tutt' altro che filosofici. E questa nostra osservazione si
riconnette a un altro lato importante del tema: al freno imposto alle
sevizie del padrone: nel quale volle ravvisarsi pur tanto di stoica influenza.
È essenziale la giustificazione datane da un noto testo di Gaio. Doversi
inibire al padrone di far malo uso delle cose sue, allo stesso modo che
ciò si vieta al prodigo (Inst^ I, 53). Regola dunque che ci si presenta
pure determinata non da altro, che dalla considerazione tutta econo- mica
del regolare uso della proprietà. Ed è parimente una necessità di
natura economica, di raflforzare, cioè, Y attività dello schiavo colla
molla del suo proprio interesse individuale, quella che determina
il riconoscimento del peculio, quale patrimonio di fatto del servo,
distinto dal patrimonio del padrone; la cui funzione ha per ogni lato
dell'evoluzione della schiavitù importanza essenziale. Però codesto
elemento economico, che fu magistralmente seguito dal Pernice nel suo
classico libro su Labeone, e che, pei lati che accennammo, resulta da
attestazioni precise delle fonti, non basterebbe a spiegare per sé il
riconoscimento graduale nello schiavo di altri molteplici diritti e
rapporti attinentisi alla personalità, e l' affermarsi di un vero e
proprio sistema giuridico che per esso si crea, del tutto analogamente al
sistema che regola istituti e rapporti fra liberi. Un altro elemento
sostanziale concorre a dar vita e riconoscimento positivo a quel sistema
pei rapporti più svariati. Questo elemento altro non è che la forza
della natura. Forza, che neirantica convivenza a famiglia regolava
nel fatto, quasi inconsciamente, i rapporti della schiavitù ; ma che, più
tardi, «comparsa la prisca semplice costituzione della familia, ordinate
quasi ad esercito, gerarchicamente, le migliaia di schiavi tratti a Roma
dai popoli vinti, fé' assurgere e fissò a rapporto di diritto quello eh'
era dapprima mero e tacito fatto: affermando nello schiavo la contrapposizione
del concetto di “uomo”, di fronte a quello di “res”. Gli
attributi nello schiavo di ente intelligente e consciente s' impongono air
organismo del diritto, pel quale lo schiavo dove parificarsi a una “res”,
ad una “merx.” Ulpiano, trattando della prestazione dei legati imposti
all'erede, e dei casi in cui l'erede può essere ammesso a prestare, invece
della res legata, Vaestimatio di essa, distingue il legato di una “res”
da quello di uno schiavo, valuta i motivi in cui più probabile in questo
può riuscire la prestazione dell' aestùnatio, ed esce coli' affermazione alia
est condicio ìiominum alia ceterarum rerum (Ulp., fr. 71 §. 4 D.
30). Quest'affermazione coglie e sintetizza l'urto intimo e graduale, di
cui la storia della schiavitù in Roma porge traccio continue ed eloquenti,
e per cui pur riesce infine ad imporsi nella coscienza giuridica e
sociale il riconoscimento nello schiavo degli attributi essenziali della
personalità umana. Tali, l'efficacia del patto adietto alla vendita di
una schiava di non prostituirla. Efficacia che include il riconoscimento
del diritto all'onore (decr. di Vespas., presso Mod., fr. 7 pr. D. 37,14;
Pomp., fr. 34 pr. D. 21,2; Papin., fr. 6 pr. D. 18,7 ; Paolo, fr. 7 D.
40,8 ; Aless. Sey., c. 1 C. 4,56); r azione d' ingiurie per offese allo
schiavo, commisurata secondo il grado d' onorabilità di questo (Ulp., fr.
15 §. 44 D. 47,10). L’ ammissibilità di un giiidizio di calunnia a cagione
dello schiavo, che subì per fatto altrui ingiusto giudizio (Papin., fr. 9
D. 3,6). La valutazione della misericordia usata verso di esso, per
misurare la responsabilità di chi ebbe a procacciarne la fuga (Ulp., fr. 7 §.
7 D. 4,3). Il riconoscimento della famiglia servile, nella quale con
sforzo di finzioni giuridiche si riesce a dar certa configurazione a rapporti
patrimoniali, a somiglianza di quelli che intercedono nella famiglia dei
liberi (Ulp., fr. 39 \D. 23,3 ; Paolo., fr. 27 D. 16,3). E persino il
riconoscimento nello schiavo di rapporti d'indole religiosa (Labeone,
presso Ulp., fr. 13 §. 22 D. 19,1; Ulp., fr. 2 pr. D. 11,7). Che
pure sulle conquiste compiute dagli schiavi contribuiscano considerazioni d'
ordine pubblico e di sicurezza pubblica, son ben lungi dal negare. Non
par dubbio, ad esempio, che sia determinata sopratutto da esse la
legge Petronia. !Aia questa pure (appena occorre avvertirlo) non è
che una conseguenza, benché coatta, dell 'affermantesi peronalità dello schiavo.
Ne tuttavia che le stesse dottrine stoiche, col loro elevato concetto della
personalità umana, abbian per qualche lato favorita o affrettata
quell'evoluzione, non <\serei negare: (nò può invero trascurarsi il
fatto che il momento più intenso di essa cade appunto sotto gli Antonini. Ciò
che parrai invece dover negare si è che quelle dottrine vi abbiano avuta
una influenza immediata , essenziale. Talché senza di esse si avesse
ognora a disconoscere nello schiavo ogni attributo della
personalità. Su altri istituti e rapporti attinenti alle persone non
ci abbisogna lungo discorso. Non occorre, per verità, confutare lo strano concetto
che influenza del Portico sia nell'attenuamento della patria potestà, e nella
liberazione delle donne dalla tutela agnatizia. Fatti determinati
entrambi dal trasmutarsi della funzione e natura politica della familia;
trasmutarsi, che pure ci spiega l’avanzantesi prevalenza del vincolo di sangue
sul rapporto civile d'agnazione; che ha poi eifetti importanti, in
ispecie neir ordine delle successioni. E pur ci spiega l’evoluzione
dell'essenza prisca dell'eredità familiare (comprendente, cioè, il
complesso di diritti politici e religiosi inerenti alla domus
familiaqtte) verso l’eredità patrimoniale. Concetto, che , accennato
in istudi recenti ed egregi (16), forse non si presenta tuttavia
immeritevole di trattazione nuova ed apposita e d' investigazione minuta nelle
fonti. Ne mi fermo su di un punto, sul quale non si peritò d' insistere
qualche sostenitore deir influenza sdel Portico sulla giurisprudenza
romana: il puro ed elevato concetto del matrimonio, tramandatoci dai
giureconsulti, e in ispecie esplicantesi nella tarda definizione di
Modestino. Basta osservare che quel concetto è in Roma tradizionale, fin dalla
sua più antica e genuina costituzione e che vi si esplica allora dalle
stesse forme, con che il ma- trimonio si compie, e che, inerente dapprima
solo al ma- trimonio curri manu, nel quale è veramente la divini et
Immani iuris cornunicatio, esso s'atteggiò poi, per forza di tradizione
sul matrimonio libero, prevalso su quello, e tra- luce idealmente nei
tempi stessi, in cui il matrimonio era di fatto quale ce lo tratteggiano
con foschi colori Giovenale e Marziale. Occorre qui invece, fra i
diritti attinentisi alle persone, accennare ad alcuni altri, nei quali si
ravvisò l’influenza filosofica, e segnatamente del Portico.
Che, per quanto tocca il diritto alla vita, e l'affermazione negativa di
questo, i romani non abbiano riguardato con deciso is favore il suicidio,
come mezzo estremo di salvaguardia a mali maggiori; e ciò molto innanzi al
tempo in cui la filosofia divenne nota in Roma, resulta dalla
natura del carattere romano e dell' ideale ch' esso prefiggeva alla vita,
dalla stessa aureola di gloria onde fu recinta la memoria di Lucrezia, di
Catone e di Bruto. Né dunque può pensarsi ad alcuna influenza del Portico,
se vediamo i giuristi non considerar come dannata la memoria del suicida.
Ma singolarissima è poi la specialità contemplata nel testo che per consueto si
adduce. In esso si riferiscono rescritti di Adriano e d'Antonino Pio, i quali,
considerando il caso, in cui persona accusata di delitto capitale, prima
d' esser sottoposta al giudizio, ponga fine a' suoi giorni taedio vitae
vel doìoris impatientia, dichiarano non incorsi con ciò nella confisca i
beni di quella. Si ha poi nel caso proposto ad Adriano che il suicida era
accusato d' aver ucciso il figlio. Adriano, con sentimento delicatamente
umano, dichiara doversi presumere che non per timor della pena , ma per dolore
del figlio perduto, V accusato sia volontariamente uscito di vita ( Marciano,
fr. 3 §§. 4-5 D. 48,21); non potendosi ad ogni modo ritenere per se
il suicidio deir accusato equivalente a confessione di reità a condanna.
Come poi Papiniano con lucidissima veduta dichiarò e sostenne ( Ibid,,
pr. ; cfr. fr. 29 pr. D. 29,1 ; Paolo, fr. 45 §. 2 D. 49,14 ). Mentre poi
è chiaro che, all' inversa, il suicidio che 1' accusato volle affrontare
non per altro che per timor della pena e ob conscientiam cnminis, non salva
dalla confisca il patrimonio di lui, che si considera quale dannato o
confesso (Ulp., fr. 6 §. 7 D. 28,3; fr. 11 §. 3 D. 3, 2). Il che
davvero s'intende come logico sviluppo, senza che nulla v'appaia
di influenza o reminiscenza filosofica, se pure essa non voglia vedersi
nel ricordo ai filosofi, come a coloro che si uccidono taedio vitae,,.
vel iactationis (fr. 6 §. 7 D. 28,3). E qui pure, a proposito del diritto
naturale alla vita, si avverte il riconoscimento di tal diritto nello
schiavo, là dove è detto da Ulpiano esser lecito etiam scrms fiaturaliter
in sunm corpus saevire (Ulp., fr. 9 §. 7 D. 15,1). Di fronte al qual diritto
affermato perle schiavo, sta l'obbligo in lui di rifondere col suo peculio al
padrone le spese che ha sostenute per curarlo dalle ferite infertesi
tentando d' uccidersi; talché quel diritto si riduce praticamente
ad una curiosa ed amara irrisione. E tocco di un altro fra i diritti
personali. Quello alla religiosità, al quale s'attiene lo sfavore con cui
si riguardò dai giuristi, conformemente agli stoici, il giuramento
(PapiN., fr. 25 §. 1 D. 13,5; Ulp., fr. 7 §. 16 D. 2,14), e in ispecie la
condicio iurisitirmidi, apposta a una liberalità per atto mortis causa (
Labeone, in Giav., fr. 62 pr. D. 29,2 ; Giuliano, fr. 26 D. 28,7;
Marcello, fr. 20 D. 35,1 ; Ulp., fr. 8 §. 5 D. 28,7). Il generale
divieto della condicio iurisiurandi è anteriore a Labeone e posteriore a
Cicerone, e coincide per tempo col fiorire della filosofia del Portico. E
F opinione ch'esso sia determinato da influenze di questa parrebbe tanto più
attendibile, in quanto siamo qui in tema di religiosità, dove
l'istituzione filosofica ebbe veramente, in sullo scorcio della
repubblica e a' primi tempi del principato, efficacia non lieve e assai
diffusa. Senonchè non so astenermi dal proporre una mia modesta
osservazione. Lo sfavore pel giuramento non è già soltanto nel Portico,
ma risale fino tra le scuole presocratiche, a quella di Velia, e al
fondatore stesso di essa, a Senocrate, che nel giuramento ravvisava un
riprovevole privilegio per l'empietà (Arisi., Bhet, I, 15) (19). Forse
quello sfavore, che nello spirito filosofico si manifesta cosi da antico,
era pure in origine nello spirito romano, e durava nel patrimonio
d'idee e di tradizioni, che, specialmente in materia di religione, i due popoli
ritrassero dal ceppo comune? Il che solo accenno, pur non volendovi
troppo insistere, perchè non paia amor di sistema. E, lasciando omai
d' altri rapporti di minore impor- tanza, pure del tutto formali, come,
per ciò che attiensi alla salute, la definizione del morbo, di habitus
cor- poris contra naturam (Sab., fr. 1 §. 9 D. 21,1 e in Gellio,
Noci. Att^lY, 2. cfr. fehris: Giul., fr. 60 D. 42,1) evi- dentemente
tolta dallo stoicismo; il concetto del furiosus, che, come privo di mente,
stoicamente è detto suus fion est (Ulp., fr. 7 §. 9 D. 42,4), passiamo
senz'altro alle cose e ai diritti su di esse. La triplico
partizione delle cose, che ci riferisce Pomponio nel lib. 30 ad Sah. (fr. 30 D.
41,3): F una comprendente quod contìnetur uno spirita, graece yivwjxsvov;
l'altra che abbraccia qiiod ex contingentihus hoc est j)ÌU' rihus interse
coherentibus constat, quod atiVTQjAjjievov, e una terza dei corpora pUira
non solata^ ma uni nomini suhiecta, resultanti ex disfantibiis, b T
applicazione precisa e genuina della distinzione del Portico. Al
frammento di Pomponio fauno riscontro testi di Plutarco, Fraec. coniug.,
34 ; di Sesto Empirico, Adi\ Math,, VII, 102; IX, 7S; di Seneca
J^at. qiiaest., II, 2 ; Epist., 102,6 ; e di Achille Tazio, Isag, in
plten. Arati, 14. Che dunque per essa i giuristi abbiano formalmente
attinto dai filosofi non v' ha dubbio. Il ricordo formale dei filosofi si
ha persino nella esemplificazione consueta nei giuristi delle cose
appartenenti a ciascuna di quelle tre categorie. Ma se ci facciamo a
ricercarne le pratiche applicazioni, tosto ci avvediamo come altri
principi, del tutto indipendenti da essa, inteivengano. E, invero, il diverso
modo con cui si ammette il possesso e l'usucapione, segnatamente
per le res comiexae e le universitates ex distantibus. La regola
che il possesso di una res connexa implica il possesso delle cose singole
da cui risulta composta, come parti, non come cose a se stanti, e
distinte individualmente, si spiega col concetto tutto romano del
requisito A^' animus nel possesso. Il quale, dovendosi rivolgere alla res
connexa nella sua essenza, non si concepiva che contemporaneamente si
rivolgesse alle parti singole di quella; onde appunto la inammissibilità di un
contemporaneo possesso dell' intiero e delle parti, e la impossibilità di
acquistare un diritto sulle parti, in forza del possesso della res
conmxa resultante dalla loro unione. Il che ha segnatamente ef-
fetti importanti per la teoria deirusucapione. Mentre poi, per quanto tocca
in ispecie le regole del possesso e deirusucapione dei tigna onde resulta
composto un edifizio, concorre anche il riguardo tutto civile che
inspirava la lex (le Ugno iuncto (Venuleio, fr. 8 D. 43,24; GiAVOLENO,
fr. 23 pr. D. 41,3; Gaio, fr. 7 §. 11 D. 41,1; Paolo, fr. 23 §. 7 D. 6,1;
Ulp., fr. 7 §. 1 D. 10,4) (21). Meno ancora può trarsi dalla
distinzione fatta dai giuristi delle cose corporali e incorporali. Se per
questa, fra il concetto dei giuristi e quello dei filosofi, può esservi
somiglianza, essa è del tutto apparente. Le cose incorporali dei
filosofi, come essenzialmente il tempo e il vacuo, non hanno nulla di
comune colle cose che son chiamate incorporali dai giuristi per la loro
funzione sociale e giuridica, e che hanno sempre in sé per contenuto cose
corporali, e ciò secondo un concetto che ci si presenta tradizionale
e risalente: in modo sopra tutto preciso e spiccato nella hereditas
(Pomponio, fr. 37 D. 29,2; fr. 119 D. 50,16; Gaio, Inst, II, 14; fr. 1 §.
1 D. 1,8; Apric, fr. 208 D. 50,16; Papin., fr. 50 pr. D. 5,3; Ulp., fr.
178 §. 1 D. 50,16; fr. 3 §. 1 D. 37,1; Paolo, fr. 4 D. 5,3): e
segnatamente, con mirabile evidenza, nel concetto e nelle regole
delF^^t*- capio prò herede (Gaio, II, 54). E di questo concetto
àeìVheredifas, res corporaUs, che ha per contenuto normale appunto cose
corporali, è assai notevole come un filosofo del Portico parli come di
inutile sotigliezza, deridendo i giuristi che raccolsero (Seneca, De
h&n. VI, 5): e offrendoci con ciò, come fu avvertito, ricordo
certo e perenne della differenza sostanziale che correva, a proposito di
quella partizione, fra il pensiero dei filosofi e quello dei
giuristi. Certo, fra i cor para, la distinzione di quelli che ratione vel
anima carente da quelli che careni ratione non anima o di entrambe, è
rivestita di forma del Portico. Ma è necessario ch'io soggiunga che sotto
di essa sta un concetto tanto primitivo, che davvero non occorreva
rivestirlo del lusso d' una veste filosofica ? Un tema, sul quale
insistettero con particolare predilezione tutti i sostenitori dell'influenza del
Portico, è quello che riguarda, tra i modi d' acquisto della proprietà,
la specificazione. L'opera diretta che qui esercitò, pel riconoscimento
del lavoro umano di fronte alla materia, la scuola dei ProculeiaDÌ, porse pure
argomento per ravvisare una particolare inclinazione di quella verso lo
stoicismo: in contrapposto anche qui alla scuola de' Sabioiani. Quasiché,
a spiegare il riconoscimento del lavoro umano non dovesse bastare una
considerazione positiva di natura tutta economica: la normale preminenza di
valore della nuova specie sopra la materia prima, preminenza che doveva
imporsi al concetto proculeiano, ognora così acuto e vivo e libero,
di fronte all'ossequio tradizionale della proprietà, che pur continua un
preminente riguardo al proprietario della materia. Le fonti, a cui ci si
richiama, pel rapporto inverso alla specificazione, appunto la riduzione
della species alla materia, confortano questo concetto. Si riferiscono invero
per consueto due testi d'Ulpiano, nei quali questi asserisce sembrar
scomparsa la cosa, di cui sia mutata la forma, benché ne duri la materia
(fr. 13 §. 1 D. 50,16), e mutata forma prope interemit suhsiantia rei (fr. 10
§. 9 D. 10,4). Espressamente ciò giustificandosi da Ulpiano stesso,
proprio col criterio economico qmniam plerumque plus est in manu prctio
qtuim in re. E Paolo soggiunge, adducendo l’opinione e di Labeone e di
Sabino, che abest la tabula picta quando ne sia rasa la pittura, o il vestito
quando è scucito, perché appunto earuni rerum pretium non in substantia
sed in arte sit positum (Paolo, fr. 14 pr. D. 50,16). E, partendo da tal
concetto, ben s'intende come, all'inversa, si considerasse economicamente
del tutto nuova la cosa formata per mezzo del lavoro sopra materia già
esistente, e come Proculo e Nerva potesser dire, secondo quello che
Gaio ricorda, che dopo subita l'opera dello specificatore, essa non
potesse più considerarsi come appartenente al proprietario della materia (Gaio,
fr. 7 §. 7 D. 41,1; cfr. Paolo, fr. 3 §. 21 D. 41,2 (24). Né in tema
di materia o sabstantia e species, per r efrore che intervenga su questa
o su quella nel con- tratto di compra vendita, parmi che molto si possa
trarre dalle fonti, per un'essenziale influenza del Portico. Nel
noto passo d' Ulpiano ( fr. 9 §. 2 D. 18,1 ) si riferisce come Marcello
ritenesse sussistente la compra vendita, anche quando, per errore, si
fosse dato aceto, invece del vino dedotto in contratto e rame per oro e
piombo per argento. Ciò giustificandosi da Marcello stesso colla ragione che
sul corpus intervenne il consenso, ed errore vi fu solo nella
materia. Ulpiano consente per l’aceto, perchè qui la sostanza, r oùjta (appunto
secondo il linguaggio del Portico) è quella dedotta in contratto. Mentre
vi ha scambio sostanziale di tale oùjt'a nel caso del rame dato per oro e
del piombo per argento. Talché la preoccupazione erronea che nel
concetto di Marcello sembra ingenerare la reminiscenza del Portico,
scompare in Ulpiano, che ne prescinde recisamente, applicando nel modo
più concetto le regole sull' eiTore nell’oggetto del contratto, non importa poi
ch'esso errore verta in corpore o invece in stibstantia. Lo stesso
testo vivissimo d' Alfeno ( fr. 76 D. 5,1) che riproduce, secondo la
fisica e dell’Orto (Lucrezio, Nat. rer. V) e del Portico (Seneca, Ep. 58
; Plut. Comm. nat. 39; Antonino, II, 17; V, 33), la mutazione
continua della materia, ricordando come il corpo formato da questa sia
sempre lo stesso, per quanto si vengano ognora mutando via via le particelle
che lo compongono, e applica questo principio air organismo di un
jiidicium, che rimane il medesimo col mutarsi de' suoi membri, ritrae in
sostanza un concetto eh' e genetico in Roma, essenzialmente per la
persona giuridica del “populus.” E la fisica del Portico si riduce dunque solo
ad illustrare con veste scientifica ciò che ben prima s'era nella pratica
ravvisato. Influenza del Portico si sostenne in un preteso sfavore
alle usure, che si volle dedune da parole di Papiniano che usura non
natura pervenif ( fr. 62 pr. D. 6,1 ). Quasiché non fosse risalente e
tradizionale il concetto che distiogue dai frutti naturali i frutti
civili, e in materia d'usura non si avesse in Roma, fin da antico,
un'assidua, quanto sterile attività legislativa. Ma basti
ornai anche sul tema delle cose, intorno al quale però non voglio
astenermi dall' offrirvi esempio di taluna di quelle aberrazioni, alle
quali accennai essere pervenuti scrittori egregi, per passione ch'essi posero
nell'esame di questo tema. Scelgo la teoria del Laferrière, secondo
la quale la regola che richiede i due requisiti dell' animus e del
corpus per l'acquisto del possesso e della proprietà per occupazione,
riuscirebbe determinata dal concetto fondamentale del Portico, che distingue
nell' uomo 1' elemento spirituale dall' elemento corporeo. Come analogapaente
sarebbe determinata da questo la necessità della tradizione pel
trasferimento della proprietà. E d'altre taccio, già essendo queste esempio
eloquente, come presentantesi sotto un nome scientificamente
onorato e sotto l'insegna gloriosa dell'Istituto di Francia. Dovrei
ora, accennarvi a tutto il sistema romano delle obbligazioni, al
mutamento eh' esso più specialmente subisce dal rigoroso formalesimo, verso 1'
applicazione più agile e diretta della volontà. Mentre pur tutto il
diritto vien ravvivato da raffronti e adattamenti vitali di elementi
nuovi ed estranei coi prischi ed indigeni, e ricordare come questo sia una
conseguenza immediata de' nuovi orizzonti' che omai ha la vita e il
commercio di Roma e delle influenze straniere così continue e
multiformi? E come, a sua volta, il moto potente e continuo di Roma
verso l'universalità, e 1'alito vivificatore che ne deriva sul diritto,
consegua direttamente dalle nuove condizioni politiche ed economiche? Che
questo moto grandioso e continuo corrispondesse alle dottrine stoiche,
per le quali tutto il mondo è una grande città, non può negarsi. Che per
quello riuscisse ad esse più agevole l'aver diffusione è pur certo. Ne
che per tal modo esse abbiano anche cooperato con quello, talora
forse per via inconscia, allo svolgimento di taluni istituti e l'apporti
, come ad esempio dello schiavo , di rapporti relativi alla religiosità e
simili, non vorrei disdire. Ma chi penserebbe sul serio, solo per
un istante, che il moto di Roma verso l’universalità derivi dal Portico,
da alcun'altra delle scuole filosofiche? E che però da filosofie consegua
mediatamente tutta la trasformazione del diritto? Non però se parmi
di dover negare ogni influenza essenziale della filosofia, e in ispecie il
Portico, sullo sviluppo della giurisprudenza romana, air infuori di quelle influenze
concomitanti con altri elementi che teste toccammo, sopra singoli
rapporti, e delle influenze formali che si vennero annoverando sin qui , voglio
io disdire 1' efficacia che la conoscenza della filosofia ebbe dal secolo
di CICERONE in poi, sempre formalmente, ma pur in campo più generale e
importante, nel dar struttura di ars al itis civile («quae rem dissolutam
divulsamque conglutinaret et ratione quadam constringeret »: Cic, de orat I,
42) (26). Imprimendo con ciò nuova forza e nuovo sviluppo a facoltà e a
tendenze ch'erano in Roma native. che non tolse tuttavia che, ricevuto tale
avviamento nella costruzione logica, la giurisprudenza procedesse poi
da sé, indipendente dalla filosofia, elaborando essenzialmente i
rapporti pratici della vita, aborrente da ideali astrazioni. E dove la
reminiscenza filosofica, cessando d'essere formale intacca la sostanza
giuridica, si ha un fluttuar vago d'idee incerte e confuse, un'
indeterminatezza di linee, che fa eloquente contrasto colla precisione
perfetta, sicura, ond'è in Roma esempio mirabile tutto l'organismo del
diritto. Voi intendete ch'io accénno al im naturale. Fra il concetto
d'Ulpiano che lo designa emanazione della ragione diffusa neir universo, e
quello di Paolo che vi ravvisa un' ideale tendenza verso l’ “aequwn bonum”, o
quello di Gaio che lo riaccosta al “ius gentium”, quale dettato
dalla universa ratio; fra i più diversi significati ed applicazioni
di naturalis ratio, di naturalis, di ìiaturaìiter, che occorrono nelle
fonti, o connessi ad uno di quei tre concetti, od oscillanti fra l’uno e l’altro,
o indipendenti da ognuno, lo studioso procede incertamente. Né certo sta
a me, ne io presumo di portar giudizio sulle varie costruzioni che
modernamente si tentarono del “ifàs naturale”, concepito, o conforme alle
dottrine elaborate in Boma dalla filosofia accademica e del Portico, come
coscienza insita nella umana natura di un diritto universale, e però del tutto
distinto dal ius geniium. O, invece, obiettivamente, come ordine naturale
contrapposto air ordine civile, come dettato dalla ratio. O, di nuovo
subbiettivamente, quale concezione dovuta all' idea del diritto dettato dalla
ragione naturale a tutto il genere umano, atteggiatasi in Roma sul “ius
gentium” e fusasi poi con esso, per esplicarsi poi praticamente
n^Waequita^, che è la forza che s'avanza via via nell'editto pretorio e
gradatamente vi prevale. O invece senz' altro come derivazione e sviluppo dello
stesso ius gentium. A me basta notare sol questo. Quanto d'indeterminato
e d'incerto rimanga tuttavia in ciascuna di quelle costruzioni, e come, s' io
non erro, non sia riuscito ad alcuno, benché ingegni forti e coltissimi
vi si accingessero, di dimostrare che il concetto vago ed astratto del
ius naturOfle scese ad applicazioni pratiche e concrete. Né certo
maggior pregio di linee precise e spiccate o d' importanza diretta e
sostanziale per 1'organico sviluppo del diritto ci presentano nel titolo
de “iustitia” et iure le definizioni astratte, tolte a prestito dal
Portico, di giustizia e di giurisprudenza, e i tre famosi precetti del diritto. L'
artificiosa inutilità di tali concetti, tratti più o meno fedelmente dalla
filosofìa, spicca in guisa vivissima nelle definizioni del concetto di “legge”;
nelle quali, attraverso a vaghe reminiscenze di Demostene e di Crisippo,
ricompare il concetto, romanamente vero, di coìnmwiìs rei ptiblicae sponsio. La
gloria del diritto e dunque riserbata a Roma; la quale, per opera
secolare ed esclusiva del suo genio, affida ai venturi, con eccellenza
insuperata, le leggi eterne dell'umana vita giuridica. Se v'
ha ricordo che debba infiammare e scuotere i diretti continuatori del
sangue e del pensiero latino, è il ricordo di quella gloria. In questa
Università che ha tradizioni nobili e antiche, proseguite degnamente
dal maestro provetto, cui circonda qui da olti-e cinque lustri
reverenza aifettuosa di discepoli, e dall'altro insegnante che coi lavori
acuti e geniali, come coir insegnamento ef- ficace, onora in Italia le
discipline romanistiche, quella gloria infiammi e riscuota noi pure, o
compagni. E com'essa ravviva e ravvivei-à ognora in me le deboli forze,
altrettanto sia come fuoco sacro ai vostri giovani e ardimentosi
intelletti. Cattanei. P erozzi. Un elenco molto accurato dei
lavori appositi scritti sul nostro tema trovasi nella classica opera
deli' Hildenbband, “Gesch. u. System der Rechts und Siaatsphilos.”,
Leipzig. Lo riporto qui, con alcune
aggiunte e avvertenze bibliografiche, che contrassegno collocandole fra
parentesi. Indico con asterisco i lavori che non potei procacciarmi:
Malquytius, De vera non simnìnL<i iurisc, phiL, Paris., 1626
[ristampalo nella Triga ìibelL rariss., Halae Magdeburg]; Paìjaninus
Gaudextius, .2>^ j>/i27o«. ap. Bom. in. et progr. Pisis, 1643, e.
42-3^ pagg. 104-6; | Buaxdes 7->e, vera non simulata iurisc. phih,
Francof. 1626; opuscolo che noto benché certamente privo di valore, solo
per amor di completezza, e seguendo in ciò V e- sempio dello stesso
Hildenbrand, che giustamente tien conto nel suo elenco anche di lavori
senza pregio, come p. e. quelli compresi nella raccolta dello Slevogt] ;
Scuilier, Manud. pliilos. moraliii ad ver, nec simnl. pini., len.,
1696;BonMER, Dephilos, iurisc, stoica^ Halle, 1701 [ristampato nel volume
J)e sectis et philos. iurisc. opusc.^ coli, recogn. et praef. et elog.
Ictor. rem. ac progr. de disp. fori aiixit Slevootius, lenae, 1724];
Buddeus, De errar, stoic, negli Anal. Imt. phiL, Hai., 170G; Voss, De
falsis Ictor. ratiocin. ex parte occas. philos. stoicae enntis, Harderov.,
1709; Ev. Otto, De stoica vet. Ictor. philos.: Id , De vera non simulata
philosoph. Ictor. j nel voi. cit. dello Slevogt; Herjng, De stoica velt.
Roman, philos., ibidem; [Kunholt, Semicenturid comparai, verae et
simul. iurisc. phil., Lipsiae, 1718, che trovo citato dall' Eckardt,
Herm. duriSj *Lips., 1750, cap. 4]; Slevogt, De sectis et philosophia
Icforunif len., 1724; *£ggerde8. De stole, Ictor. roman. eìusqiie
historia et ratioìie, Kostoch, 1727: Hofscaxn, De diàUctica vett, Ictor.,
Francof., 1735, ne' suoi Melemata ad pandectas; Schaumburg, De
iurisprud. ceti. Ictor. stoica tractatiis, hoc est succincta demotutr.
iuriscon- sultos roman. non vita solum sed etiam doc trina stoicam
philoso- phiam esse profes>ios, lenae, 1745; *Pauli, De utilitatibus
quas attulit philos. ad iurisprud. ronianani, Lips., 1753; Meister,
De plùìos. Ictor. Roman, stoica in doctrina de corpor. eorumque
par- tibus, Gott., 1756 [e neW Opusc. Syll., I, n, 10]; VanHoogwerf,
De car. tur. Boni, partibus stoam redolentibus, Traj ad Bhen.,
1760, e nell'OsLRiCH, Thes. noe. voi. Ili, tom. 2, pagg. 63 e segg. ;
Boers^ De antropoì. Ictor. Roman, quatenus stoica est, Lugd. Bat. ,
1766 [*Terpstra, De philos., cet. iurtsc, Francof., 1767, che trovo
citato dall*HoLT, Hist. tur. rom. lineam., Leod., 1830] *Ortloff,
Ueber den Eiufluss der stoischen Philosophie auf das
rom.Recht.,^ìàng., 1797; *Vax Vollenhoven, De exigua vi quam philosophia
graeca habuìt in effórmanda iurisprudentia romana, Amstelod.; Ea-
TJEN, Hat die stoische Philos. bedeutenden Einfluss auf die rom.
juristischen Schriften gehabt? Kiel, 1839, ristampato nei lahrb. di Sell,
in, pagg. 66 e segg.; [Trevisani, Lo stoicismo coìisìderato in relazione
colla gìurisprud.'» roìnana, nella Gazzetta dei tribunali, VI, 1851,
pagg. 821 e segg.; VII, 1852, pagg. 7 e segg. ]; Voigt, lus natur. bon.
ti. Aequum, Leipzig, 1856-75, I '^§. 49-51 pagg. 250-66; [Xaferrière,
Memoire concernant V influence du stoicisme sur la doctrine des iurisc.
romains, nelle Mevi. de V Acad. des scienc. mor. et politiques, X, 1860,
pagg. 579-685. Fra noi usciva nel 1876 il lavoro dottissimo del MoRIA^'I,
La filosofia del diritto nel pensiero dei giureconsulti romani, Firenze,
1876. Sono ancora a no- tarsi, benché tocchino solo punti speciali del
tema: Eherton, sulla terminologia stoica nel dir. romano, nella Quaterly
RevieWj III, n. 9, 1887, di cui dà un sunto G. Pacciiìoxj, néìV Ardi,
ginr., XXXVTII, fase. 1-2; Lecrivain, Le terme stoicien verecundia dans
la langue des Dig., nella Nouvelle revue hist. de droit frane, et drang.,
XIV, 1890, pagg. 487-9]. Trattano pure del nostro argomento,
benché non di proposito, i seguenti: [Hopperus, lur. civil. lib. sex,
Lovan., 1555, pagg. 554 e segg.] CuiAcio, Observ.y 56,40; Merillio,
Obsero.,\, 8; Turnebo, Advers., Aurei., 1604, Vili, 20, pag. 151;
Lipsius, Manud. ad stoic. philos..^ nelle Opera.^ Antverpiae, 1737, IV,
473; Io., Physiol. stoic., nelle Opera, IV, 542; Kamos, Tribonianus,
Lugd. Bat., 1728, pag. 249 e segg. [Bodeus, Observat. et elem. phil.
instrumentalis, Halae Sax., 1732, cap. II §. 27, pag. 308, cap. IV g. 14,
pag. 470]; Ma- 'Jìp: SCOTIO, De sectis Sahinian et
Proculeian, in iure civili, [ Lipsiae^ 1728], Alld., 1740; Eokhardt,
Ilerm. luris, Lips., 1750, e. 4; Walch, Opp.^ I, p. 237 [Gravina, De ortu
et progr, iur. civ., Napoli, 1757, I, 35-6; Brucker, Hist. crii, philos.,
Lipsiae, 1766, II, pagg. 15 e segg.; G. B. Bon, praef. al Leibnitz,
Opusc. ad iur. peri., nel Leib- NiTZ, Oper«, Genevae, 1768, IV, p. d,
pag. 5, n. 1; Eineccio, Antiq. rom., Venet., 1792, lib. 2 e 3, pagg. 17,
30-1, 191 e segg.] ; Vico, Scienza nova, cap. 4; *Welcker, Die letzten
Grilnde von Recht Staat u. Stafe, Giessen, 1813, pag. 492, 500, 522, 578;
*Id., Uni- versa! u. Jurist. poh Encyclopadie, Stuttgart, 1829, pagg. 70
e segg., 556 e segg.; Veder, Hist, phil. jur. ap. veti,, 319; Zimmern,
Gesch. des rum. Privatr. I^ pagg. 23 e segg.; Pcchta, Cursus der Instit,
2 Aufl., pagg. 472 e segg.; Ahrens, Iur. Encyclop., pag. 303, n. 2; 360,
n. 1; [Girard, Hist, du droit rom., Paris Aix, 1841, pagg. 180 e
segg.; OzANAM, Il paganesimo e il cristianesimo nel quinto secolo, trad.
Car- raresi, Firenze, 1857, 1, pagg. 163 e segg.; Voigt, Aeìius und
Sabinus- sijst , pagg.' 19 e segg.; Ianet, Hist. de la science polit., 2
ed., Paris, 1872, I, pag. 281 ; Sumner Maine, Ancien droit, .trad. frane
, Paris, 1874, cap. 3 pagg. 51-5, 64, cap. 4, pagg. 70 e sogg. ; Conti,
Storia della fdosofia^ Firenze, 1876, I, pagg. 401 e segg. ; Renan,
Marc Aurèle, 2 ed., Paris, 1882, pagg. 22-3 ; Gregorovius, Der
Kaiser Hadrian, 2 Aufl., Stuttgart, 1884, pagg. 296 e segg.; Hofmann,
Der Verfall der rom. Rechtswiss., nei Krit. stud. im róm. Bechte,
Wien, 1885, pag. 9; Ferrini, Storia delle fonti del dir. rom., Milano,
1885, pagg. 30-1, 100-1 ; Id., note al Gluck, trad. italiana, voi. I,
pagg. 64-5. ; Krììgeii, Gesch. der Quell. u. Litteratur des rom.
Rechts, Leipzig, 1888, pagg. 45 e segg., 127 e segg.; Carle, La vita del
di- ritto, 2 ed., Torino, 1890, pagg. 153 e segg.]. (2)
Padelletti^ Roma nella storta del diritto, neir Arch. gim\, XII, nota 2
pagg. 210 e segg. (3) Per la storia della filosofia in Roma, e per
ciò che riguarda in ispecie le sue attinenze al diritto, cfr.
principalmente: Hildenbrand, op. cit. I, pagg. 523 e segg.
(4) Cfr. sulla filosofia di Cicerone: Ritter, Hist. de la philos,
trad. frane. Tissot, IV, pagg. 121 e segg.; Hildenbrand, op. cit., I,
pagg. 537 e segg., Branbis, Gesch. der Entiv. der griech. Philos, Berlin,
1862-4, II, pagg. 249 e segg ; Boissusr, La relig. romaine d* Auguste aux
Antonins, Paris, 1878, I, pagg. 4 e segg. (5) BoissiER, op. cit.,
I, pagg. 14 e segg. (6) Leggenda, alla quale porsero principale
argomento i punti di contatto che le dottrine di Seneca presentano con
quelle cristiane, in, ispecie Ruir immortalità dell' anima, sulla
provvidenza, e sui doveri di 3^) NOTE carità
(punti toccati con molta diligenza da Fleury, S. Paul et Se- nèque,
Paris, 1853). Altro argomento estrinseco è la simpatia che mo- strano per
Seneca i Padri della chiesa: Seiuca noster: Tertull., De ,an,, 20;
Hieron., De vir. ili, 12; Io., Adv. lovin., 1,49; Lxct. , Inst. div.y IV,
24. E S. Agostino nota che Seneca non nominò forse i cri- stiani per non
lodarli « cantra suae patriae veterem consuetudine tn », né riprenderli «
cantra propriam forsan volunlatem »: Auc, De civ. dei, VI, 11. Il tèrzo
argomento dell' amicizia di Seneca con S. Paolo si fondava sopra una
grossolana falsificazione delle Kpistolae Senecae ad Paullum.
Ricca è la letteratura riguardante questo argomento, che ha
un'importanza assai notevole pel tema che tocca direttamente dei rap-
porti della morale stoica colla cristiana. Cfr. principalmente, oltre
Topera or accennata del Fleury: Boissier, op. cit., II, pagg. 46 e segg.,
e nella Revue des deux mondes, XCII (1871) pagg. 40-71; Aubkrtjn,
Senèque et Si. Paul^ Paris, 1869; Bau», Seneca ti, Paulus: das VerMltn.
des Stoiciwius zum Ghriat. n. den Schrift. Senecas, neWHe't- delherg.
Zeitschr. f. iviss. Theol, I, 1858 p. 161-246; 441-70; e Abh. zur
(reseli, d. alt. PhiL, heratisg. v. Zeller, Leipzig, 1876, pagg. 377-480;
'Westerburg, Der Ursprung der Saga das Seneca^ christì. gewes. sei,
Berlin 1881. Tutto il contrario si sostenne dall'EcKHARD in un curioso
opuscolo, di cui basta riportare il titolo perchè se ne com- prenda lo
scopo: Obserc. sistens L. A, Senecam in relig. Christian, iniuriosum,
mella Misceli. Lipsiens., Lipsiae, 1706-22, IX, p. 90-107. (7)
GuEGOROvius, op. cit j pagg. 315-7; Renan, op. cit., pag. 35. (8) I
rapporti che verrò enumerando furono notati, quali dall'uno quali
dall'altro degli scrittori che s'occuparono del nostro tema: quali in uno
quali in altro senso. Io non ho creduto di dover per ciascuno di essi
avvertire da chi fu notato, da chi omesso. Saiebbe inutile pel lettore,
al quale ciò che preme sopratutto si è di aver qui, come in un quadro, il
risultato complessivo delle questioni: quadro eh' io mi studiai di
delineare colla maggior cura e fedeltà che mi fu possibile. (9)
Otto a Boekelen, op. cit., pagg. 24 e segg. Contrariamente Eckhard, op.
cit.,; Merillio, obs. I, 27 pag. 260. (10) Brini, Delle due sette
dei giureconsulti romani^ Bologna, 1890, pag. 19. (11)
Malquytius, op. cit.y pagg. 54-5; Gibbon, Hist. de la dee. de Temp. rom.,
I, pagg. 128-31; Eckhard, op, cit., pag. 245; Laperrière, op. cit, pagg.
606-7; Renan, op. cit., pag. 605; Wjllelms, Droit pubi, rom., 5 ed.,
Paris, 1884, pag. 136. (12) Pernice, M. A. Labeo, Halle, 1873-8, I,
pagg. 113 e segg. Cfr. anche Padelletti noWArch. giur., XIF, pag.
213. (13) PucHTA, Inst. l
212, II, pag. 83. (14) Lafehiuère, op. cit.t pagg. 613 e
segg. (15) Cfr. SciALOJA, nel Bull. deìVist. di dir. rom., 1890,
III, pagg. 176-7; BoNFANTE, L'origine deìVìiereditas e dei legati nel
dir. sìACcess. romano, Del cit. Bullettino, IV, 1891, pagg. 97-144.
(16) Lafeuuièue, op. city pagg. 621-8. (17) Il Trevisani, op.
cit., nella Gazz. dei 2'rib., VI, 821 e segg. sostiene che i romani
ebbero ognora in gran sfavore il soicidio. Ri- corda che costituiva vizio
redibitorio per lo schiavo il suo tentativo di suicidio, anteriore alla
vendita; ma davvero non occorre osservare come ciò sia spiegato
chiaramente dalla considerazione economica verso il padrone (fr. 1 l 1,
fr. 23 l 3 D. 21,1). E il. tentativo di suicidio punito per rescr. di
Adriano nel soldato, non è spiegato ab- bastanza da considerazioni di
ordine pubblico e dalle necessità della disciplina militare? Cfr. in
questo senso: Ferii ini, Dir. pen. rom., nel 'Tratt. teor. prat. del
Cogliolo, I, 18f^8, pagg. 28-9. (18) Ferrini, Teoria dei leg. e
fedecomm,, Milano, 1889, p. 346-9. T:oiT(xioLi yi] T:XaYYjvat
TrpoxaXijaiTO. Cfr. Keller, Die philos. der Griechen in ihr.
geschichll. En- tivicklung, 4 Aufl., Leipzig, 1876-9, I, pag. 503.
(20) Ravaisson, Mem. sur le stoicisme, nelle Meni, des inst. imper.
de France ; Acad. des inscr. et beli, lettr.^ XXI, 1857, pag. 29 ;
GorpERT, Ueber einheitl. zusammeìvgesetz. u. gesammt. Sachen, Halle,
1871, pagg. 7-13. (21) Fu oggetto di dispute gravi il fr. 30 §. 1
D. 41,3: Pomp., 30 ad Sab.: Labeo lìbris epistularuui ait si is, cui ad
tegularum vel columnarum usucapionem decem dies superessent, in
aedifìcium eas coniecisset, nihilo minus cum usucapturum, si aedifìcium
possedisset. quid ergo in bis quae non quidem implicantur rebus soli, sed
mobilia permanent, ut in anulo gemma? in quo veruni est et aurum et
gem- mam possideri et usucapì, cum utrumque maneat integrum.
In esso alcuni scrittori ravvisarono un' eccezione utilitatis causa
alla regola generale formulata nei testi succitati, per la quale ecce-
zione si ammetterebbe il proseguimento deirusucapione delle tegole e
delle colonne, anche pel tempo in cui perdono la loro individua na- tura,
coir entrare a far parte della res connexa^ edifizio. Così Wind- scheid,
Pand , 6 Aufl., Pampaloni, La legge delle XII Tav. de tigno iunclo,
Bologna, 1883, estr. dair^rc^. giur., Altri, invece, si sforzò di
ricercarvi lo stesso senso dei testi citati^ col dare al nihilominus il sifirnifìcato
di non. Così Kjeiiulf, Civilr., pagg. 276 e segg ; Uxterholzxkii.
Verjà'hrungfilehre hearh. v, Schirmer, I, 153 »ì segg.; SINTE^'Is, uell'
Arcìi, f. civiì, Prax., XX, pagg. 75 e segg., e System, I, pagg.
449-52. Altri ancora cercò in vario modo di togliere al testo
valore sre- nerale, limitandone la i)ortata alla specialità in esso
contemplata. E però, intese che vi si trattasse di tegole e di colonne
non incorporato ' solidamente alFedifìzio: (Savigny, Besitz, pag. 269;
Randa, Besitz, pag. 429); che la regola formulata nel testo valesse
soltanto pel caso in cui l'incorporazione delle tegole e delle colonne
nell'edifizio avvenisse quando questo già era compiuto, quando cioè, per
tal modo, Teventual^ distacco di esse non urta contro la ratio della
legge de tigno iuncta « ne urbe ruinis deformetur » (Scheurl, Ziir Lelire
vom rum. B'e^ sitZf §. 23); oppure valesse solo trattandosi di mobili
incorporati al- Tedifizio, ma non parti essenziali di questo ( Ruggieri,
Il possesso). Sempre in questa tendenza di limitare il valore del testo,
negando ad esso portata generale, altri scrittori intesero restrittiva-
mente il termine dei decem dies, in esso formulato, in applicazione della
massima romana di non tener conto dei minima ( Thibaut nel- YArch, f.
civ. Prax., VII, pagg. 79 e segg.; Puchta, KÌ, civ. Schrift.Pape, Zeitschr. f.
CiviJr. ii, Proc. N. F. XIV, p. 211); spiegarono la sentenza del testo
colla impossibilità dell' ir- surpatio dei materiali nei 10 giorni
mancanti, per la ragione chf , oc- correndo un termine di almeno 10
giorni dalla editio actionis per giungere alla litis contestatio^ se si
agiva qando mancavano 10 soli giorni ad usucapire, la ì'ei vindicatio non
serviva a rendere innocua r usucapione ( Savigny, Besitz, Eisele, lahrh.
/I Bogrn., N. F. o finalmente
intesero che nel testo fosse contemplato il solo caso di unione delle
tegole e delle co- lonne ad un edificio incompiuto e che la legge de
tigno iuncto non impedisse di staccamele, per essere 1' unione recente di
10 giorni (Meischeider, Besitz u. Besilzschntz,Codeste varie
interpretazioni e spiegazioni sono riassunte dal WiNDSCHEiD, c, più
complctamento, dal Pe rozzi, Sui possesso di parti di cosa^ negli Studi
giur. e stor.per VVIII cenfen. delV Università di Bologna, Roma., il
qualo confuta ciascuna di esse, per giungere alla conclusione che le
tegole e le colonne incorporate all'edifizio sì posseggono e
s'usucapiscono non perse, a parte, ma solo in conseguenza del possesso e
dell'usucapione dell'intero, a differenza della gemma e dell' anello che
si posseggono e s'usucapiscono per se. Hering; Eckhaud, La-
rERiuÈRE; Moriani; Cfr. Trevisani, nella Gazz. dei trib., Laperrière; DiRKSEN, Ueheì' CICERONE s unlergegangene
Schri/t: De iure civili in arte redigendo, nelle philol. u. Philos.
Ahhandl. der k. Aka- demie der Wissensch. zu Berlin, Hjljen- BRAND,
Voigt, Aelivs und Sa- hinussìjst.., Si connette a questa influenza
formale d' ordine generale la ri- cerca delle etimologie, comune ai
giuristi, segnatamente dopo Labeone. Qui Timitazione degli stoici fu
riconosciuta quasi da tutti che ebbero ad occuparsi del nostro tema. Cfr.
da ultimo Lersch, Die Sprach- philosoph, der Alien. Senonchè, nonostante
gli sforzi di un accurato lavoro (CECI, Le etimologie dei' giureconsulti
romani, Torino ) persisto nel credere che sull’indole e sul valore
delle ricerche etimologiche dei giuristi rimanga saldo tuttavia il
giudizio severo ch’ha a formularne Pernice, M. A. Laheo, Si veggano i
testi raccolti ed elaborati, non occorre dire con quale diligenza- e
acutezza, dal Voigt, Ius. natur, MoRiANi; Ratio derivazione dall'indiano rita e
ratum, ordinamento dell'universo e della natura terrestre, comprese le
cose umane. Così Leist, Civ. Stad., Katuralis ratio und Natur der Saclie;
Civ. Stud, Gracco ital. Rechtsgesch., Iena, SuMNER Maine, Ancien droit, Etudes
sur Vane, droit; HiLDENBRAND, Cfr. da ultimo l'acuta ricostruzione del Brini,
Ius naturale, Bologna. La condizione patrimoniale del coniage
superstite nel diritto romano classico, Bologna, Fava e Garagnani; Il
diritto privato romano nelle comedie di Plauto, Torino, Fratelli Bocca; Le
azioni exercitoria e institoria nel diritto romano, Parma, Battei. Guido
Ceronetti. Keywords: la lanterna, la lantern di Diogene, poesia latina, Catullo,
Marziale, Orazio, Giovenale, il filosofo ignoto, la pazienza del … --. Aforismi.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceronetti” – The Swimming-Pool Library. Ceronetti.
Grice e Cerroni: l’implicatura
conversazionale hegeliana -- Gaus e il sistema di diritto romano -- i hegeliani
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Lodi).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other
philosopher – surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of
Italian identity? But his more general philosophical explorations may interest
the Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic
and Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a
‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is
about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like
Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia
del diritto. Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e
l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine
politiche all'Lecce. Divenne professore di ruolo di Filosofia della
politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà
di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre
all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore
emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze
politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura
dell'U.R.S.S.” (Milano: Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il
sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento
giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma: Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione
giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti
studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei
movimenti contadini in Russia” (Milano: Movimento Operaio); Studi sovietici di
diritto Internazionale: A cura della sezione giuridica della associazione
Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma: Tip. Martore e Rotolo); La
dottrina sovietica e il nuovo codice penale dell'URSS, C., .S.l. (Bologna:
STEB); Poeti sovietici d'oggi, Roma: Tip. Studio Tipografico, Per lo sviluppo
degli studi storici sulla Russia, Bologna: STEB); Diritto ed economia:
rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una teoria positiva del diritto,
C. Milano: Giuffrè); Idealismo e statalismo nella moderna filosofia tedesca,
Milano: Giuffrè; Individuo e persona nella democrazia, C. Milano: Giuffrè); “Il
problema politico nello Stato moderno, C., .Milano: Giuffrè; Diritto e
sociologia, C., Kelsen e Marx, C. Milano:
Giuffrè); L'etica dei solitari; C., Milano: Giuffrè); Lenin e il problema della
democrazia moderna: saggi e studi (Roma: NAVA) Parlamento e società; C. Edizioni
giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo, Marx, Engels, Lenin Roma:
Editori Riuniti); Ritorno di Jhering: Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di
Castello: Unione arti grafiche) Sulla storicità della distinzione tra diritto
privato e diritto pubblico Milano: Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia
hegeliana del diritto pubblico; C., .Milano: Giuffrè); La filosofia politica di
Gentile; C. (Novara: Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale sovietica
/ Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione normativa e
concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l.: Edizioni
giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto Cerroni.Milano:
Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica, C. .Milano: Giuffrè);
Marx e il diritto moderno, C., Roma: Editori Riuniti); Teorie sovietiche del
diritto / Stucka...(et al.); C. .Milano: Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant;
introduzione di C., Roma: Samonà e Savelli); Il diritto e la storia, C.. Le
origini del socialismo in Russia / C..Roma: Editori Riuniti); Il pensiero
politico dalle origini ai nostri giorni / C..Roma: Editori Riuniti, Un ouvrage recent sur Marx et le droit:
Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris]:
Sirey); Che cos'è la proprietà?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo:
prima memoria, Pierre-Proudhon; prefazione, cronologia, C., Bari: Laterza); Considerazioni
sullo stato delle scienze sociali: relazioni sugli aspetti generali, C., .[Milano:
Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, (Milano: Tipografia Ferrari) La funzione
rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino: Einaudi); Il pensiero
politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori Riuniti); La
rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; C., Roma: Editori Riuniti); Discorso
sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau” (Bari: Laterza); La libertà
dei moderni” (Bari: De Donato); Metodologia e scienza sociale” (Lecce:
Milella); Problemi della legalità socialista nelle recenti discussioni
sovietiche, C. .Milano: A. Giuffrè); “Sulla natura della politica: utopia e
compromesso” (Milano: Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze
sociali”; Il metodo dell'analisi sociale di Lenin” (Bari: Adriatica); Il
pensiero giuridico sovietico” (Roma: Editori Riuniti); La questione ebraica” (Roma: Editori Riuniti);
La società industriale e la condizione dell'uomo” (Lecce: ITES); “Sul metodo
delle scienze sociali: una risposta” (Milano: Giuffrè); Principi di politica, Constant;
Roma: Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma: Newton Compton); Tecnica
e libertà: conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova: Grafiche Erredici)
Tecnica e libertà / C., Bari: De Donato); Lavoro salariato e capitale / Appunti
sul salario e appendice di F. Engels; Introduzione, cura e note filologiche di C.,
Roma: Newton Compton italiana, La societa industriale e le trasformazioni della
famiglia, C., Milano: Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Marx; introduzione
di C., Roma: Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin;
introduzione di C. Roma: Newton Compton italiana); Teoria della crisi sociale
in Marx: Una reinterpretazione, C., Bari: De Donato); Strade per la libertà / Russell;
introduzione di C., Roma: Newton compton italiana); Discorso sull'economia
politica e frammenti politici / Rousseau; traduzione di Celestino E. Spada;
prefazione di C., Bari: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico /
V. I. Lenin; prefazione di C., Roma: Editori Riuniti); Kant e la fondazione
della categoria giuridica / C., .Milano: Giuffrè); La libertà dei moderni, C., Bari:
De Donato); Marx e il diritto moderno / C., .Roma: Editori Riuniti); Il
pensiero di Marx / Antologia C., con la collaborazione di Oreste Massari e Anna
Maria Nassisi.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai
nostri giorni / C. Roma: Editori Riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il
Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di C., Roma: Editori
Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin; introduzione di C..Roma:
Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti, Labriola; Manifesto
del partito comunista / Marx-Engels; introduzione di C., Roma: Newton Compton);
La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.2. ed.Bari: De Donato); Teoria politica
e socialismo; Roma); Il pensiero di Marx / antologia C., ; con la
collaborazione di Oreste e Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma: Editori Riuniti); Teoria
della crisi sociale in Marx: una reinterpretazione (Bari: De Donato); Teoria politica
e socialismo” (Roma: Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Marx; con
appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note
filologiche di C., Roma: Newton Compton); Marx e il diritto moderno / C., .Roma:
Editori Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / C., Politica ed
economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari: De Donato); Salario,
prezzo e profitto” (Marx” (Roma: Newton Compton italiana); Il lavoro di un anno:
almanacco, C., .Bari: De Donato); Il pensiero di Marx / Marx; Roma: Editori
Riuniti); Il pensiero politico: dalle origini ai nostri giorni” (Roma: Editori
Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese, ed.Roma: Ed. Riuniti);
Scienza e potere / scritti di C... <et al.>.Milano: Feltrinelli); Stato e
rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma: Newton Compton); Lo sviluppo del capitalismo
in Russia” (Roma: Editori Riuniti); La teoria generale del diritto e il
marxismo / Pasukanis; con un saggio introduttivo di C., Bari: De Donato); Introduzione
alla scienza sociale, Roma: Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Marx;
con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note
filologiche di C. .Roma: Newton Compton, Materialismo storico e scienza C. Lecce:
Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta borghese, C., Roma: Editori
Riuniti, Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione di C., Roma:
Newton Compton); Sulla storicità dell'eros: note metodologiche / Umberto
Cerroni, Annarita Buttafuoco); Crisi ideale e transizione al socialismo /
Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Scritti economici, Lenin; C., .Roma: Editori Riuniti); Stato e
rivoluzione, Lenin; introduzione di C., Roma: Newton Compton); Carte della
crisi: taccuino politico-filosofico, C., Roma: Editori Riuniti, Crisi del
marxismo? C., intervista di Roberto Romani.Roma: Editori Riuniti); Critica al
programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al socialismo, Marx; C.
.Roma: Editori Riuniti, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione
democratica / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, In memoria
del manifesto / Antonio Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma:
Newton Compton Editori); Che cos'è la proprietà?: o ricerche sul principio del
diritto e del governo: prima memoria, Proudhon; prefazione, cronologia,
biografia Umberto Cerroni. 3. ed.Roma; Bari: Laterza, Lavoro salariato e
capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels;
introduzione... di C. Roma: Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, Marx, Engels, Lenin; C., Roma:
Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti giovanili / Marx;
introduzione di C., Roma: Editori riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il
terzo stato? Sieyes; introduzione di C.,: traduzione di Roberto Giannotti.Roma:
Editori Riuniti, Strade per la liberta, Bertrand Russell; introduzione di C. traduzione
di Pietro Stampa.Roma: Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma: Editori
Riuniti, I giovani e il socialismo, Marx, Engels, Lenin, GRAMSCI; C., Roma:
Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma; Storia del marxismo
/ Predrag Vranicki; introduzione di C., Roma: Editori Riuniti, Quasi una
vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti; prefazione di C.” (Milano;
Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi? Milano); “Logica e società: pensare
dopo Marx” (Milano: Bompiani, La democrazia come problema della società di
massa; Principi di politica” (Roma: Editori Riuniti); “Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico” (Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx:
antologia, con la collaborazione di Massari e Nassisi, Roma: Editori Riuniti, Scritti
economici” (Roma: Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma:
Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma: Editori riuniti, Politica:
metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie, C., Roma: NIS); La
politica post-classica: studi sulle teorie contemporanee” (Taviano: Lit.
Graphosette) Urss e Cina: le riforme economiche” Centro studi paesi socialisti
della Fondazione Gramsci. Milano: F. Angeli, stampa, Che cosa è il terzo stato
con il Saggio sui privilege” (Roma: Editori Riuniti, Democrazia e riforma della
politica: Lo Statuto del nuovo PCI, C., Roma: Partito Comunista Italiano, Regole
e valori nella democrazia: stato di diritto, stato sociale, stato di cultura” Roma:
Ed. Riuniti, La cultura della democrazia, C., Chieti: Metis, Che cosa e il
Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; C., Roma: Editori Riuniti, La
rivoluzione giacobina / Robespierre; C.; traduzione di Fabrizio Fabbrini;
apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone: Studio Tesi, Manifesto
del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di
Antonio Labriola; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio
Labriola; introduzione di C., Roma: TEN, Nazione/regione: i contributi regionali alla
costruzione dell'identità nazionale / Battistini, C.,Prospero.Cesena: Il ponte
vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e cultura umanistica: seminario
svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni; A. Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma:
Anpa, [Novecento: almanacco del ventesimo secolo, Cesena: Il ponte vecchio, Il
pensiero politico italiano, C. .Roma: Newton Compton, Il pensiero politico del
Novecento, C., Roma: Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo
sociologico” (Roma: Editori Riuniti,Regole e valori nella democrazia: Stato di
diritto, Stato sociale, Stato di cultura / C. Roma: Editori Riuniti, L'identità
civile degli italiani, C., .Lecce: Manni, L'ulivo al governo: come cambia
l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos, stampa Politica
/ C. .Roma: Seam, Confronto italiano: atti degli incontri di Cetona, Bechelloni,
C., Firenze: Ed. Regione Toscana, stampa (Firenze: Centro Stampa Giunta
regionale); “L'identità civile degli italiani” (Lecce: Manni, Lo Stato
democratico di diritto: modernità e politica, C. Roma: Philos, stampa, Habeas
mentem: Scuola e vita civile, C., Rionero in Vulture (Pz): Calice, Conoscenza e
societa complessa: per una teoria generale del sensibile” (Roma: Philos, Ricordo
di Marisa De Luca Cerroni / scritti di C. et al.Lecce, stampa Confronto
italiano: atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze: Ed.
Regione Toscana, stampa (Centro Stampa
Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico C. .Roma: Philos, Precocità e
ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità
italiana, Roma: Meltemi, Taccuino politico-filosofico, C. Lecce: Manni, Le
radici culturali dell'Europa, C., Lecce:Manni,
Radici della civiltà europea, Lecce: Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce:
Manni, Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico C., San
Cesario di Lecce: Manni, L'eretico della sinistra: Bruno Rizzi elitista
democratico” (Milano: F. Angeli, Taccuino
politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di C./
Perrotta; con la collaborazione di Greco” (San Cesario di Lecce: Manni, Manifesto
del partito comunista, Marx, Engels;
nella traduzione di LABRIOLA; seguito da In memoria del Manifesto dei comunisti
di Labriola” (Roma: Newton & Compton, Dialettica dei sentimenti: dialoghi
di psicosociologia, C., , ARinaldi.San Cesario di Lecce: Manni, [Taccuino
politico-filosofico, C. [San Cesario di Lecce]: Manni, Ricordi e riflessioni:
un dialogo con Vagaggini, C., Montepulciano: Le Balze. Le fonti del dritto romao. r
'SeUieae il dritto ocHisiderato astrattamente abbia uoa brigioe ed nn
priocipio onìoo ed assolato, pure quando sf attna come dritto d’un’epoca
e d'un popolo, perchè dipende da tante le condizioni storiche dell'uno e dell'altra,
emana per organii diversi, e prende forme e manifestazioni varie e
conformi allo spirito di esse. Per questo intimo rapporto fra la vita
intima d'un popolo ed il dritto POSITIVO di esso, fra questo e gl’organi esterni
onde si manifesta, i più ingegnosi ed intelligrati che si fecero a trattare del
DRITTO ROMANO, crederono essenziale investigarne avanti tutto le
fonti e gl’organi, per ì quali ebbe vita e realtà. Una tale investigazione
non riesce difficile quantunque volte vi abbia unità di poteri, o sieno
questi armonicamente distinti, sicché la storia di essi succedendosi
pacatamente ed uniformemente è facile intraviNlere l’origine ed il
principio di ciascuna legge. Ma nella storia romana in cui la moltiplicità e la
lotta dei partiti, il tumulto, che non si scompagna da una VITA AGITATA E
GUERRIERA, ed i cambiamenti rapidi e violenti, onde si avvicenda la
storia di Roma, rendono oltromodo difficilè e malagevole lo studio della genesi
e el processo d’ogni fatto storico in generale e di quelli del dritto in
particolare. Per questo saggio però non vi ha difetto di materiali né di
testimonianze storiche. Quando al tumulto dell’esistenza pubblica tenne dietro
il silenzio e la quiete della vita privata, quella stessa forza che fa il
sublime degl’eroi romani, e rese invincibili le schiere dello repubblica,
detta le sentenze dei più grandi giureconsulti che ricordi la
storia. E questi non lasciano nulla a desiderare di testimonianze e prnove
storiche nella ricerca delle fonti del dritto romano. È ormai indubitato
, in che A\i- §. 0. r. l r. ì. 7.
fi. dt jmt. H}ì0^V. i.) CICERONE Té. M CAJO ferissero il JVS GENTIVM
dal JVS CIVILE quale impcnrtanza ed es0i:essìone avesse il DRITTO PRETORIO nella storia del dritto romano, quale processo
tenevasi nelle determinazioni popolari, da qual momento ha FORZA
LEGISLATIVA. Ciascuno di questi fatti è si intimamente incarnato nella
storia di Roma, che ne forma im eie-, mento, ed accenna ad uno dei
periodi di essa. Non havvi però la medesima certezza sull’importante questione
dà qual tempo i senatoconsulti ebbero forza legislativa e le opinioni dei
moderni sono diverse, come pure discordanti sono a tal proposito le
testimonianze degl’antichi scrittori; giacché alcuni ritengono per
indubitato che i senato-consulti non hanno forza legislativa prima del tempo di
TIBERIO, abbisognandovi avanti tutto che sono confermati nei comizii
perchè valeno come altrettante leggi; mentre altri sostengono l'opinione
contraria, ed avvisano che I SENATO-CONSULTI SONO UNA FONTE DI DRITTO
ANCHE AL TEMPO DELLA REPUBBLICA, giacché molto prima di Tiberio occorrono senato-consulti
sulle materie di dritto privato, e particolarmente il [Sileniarmm. È necessario
avanti tutto far considerazione , che in una tale questione importa moltissimo
il distinguere quello che intendesi investigare, se i Senatoconsulti cioè
sie no stati semplice fonte del dritto al tempo della repubblica o abbiano
avuto anche FORZA DI LEGGE. Di quanta importanza sia una tale distinzione
basta a provarlo il diritto pretorio. A tutti è noto qual parte
essenziale questo rappresenti nella storia del dritto Romano co- pica y cap. 5. -^ TheopkUtis , ad U
e. L />• de m^. juris Hugo , SU^ia id driUo , Bach. , Histar.
jurù Dion. D'JUcamis. Polibio , lib. Vf. p. &62. — Tacili,
Ajffr^ i. 15. um primum e campo comi- Ita ad paires tramlata sunt ».
Dian. Canio, CICERONE, TOPICA, e. 5« « VI SI QVIS IVS CIVILE DICAT ID ESSE Vi quod in kgibìés , senatuicmiultis rebtis
judìcaiis , jurisperitorwn auctoritate , ediclis magistralum eie.
consistat. — Theophilus, ad I. Pomponius^ l % § 9. de origin. jum.Oratiu$
, Ep, ì. i6. WLIA SCOYBftTA sprima relemmU) umanitario
in opposiziose dell’elemento civile romano, sia l' anellp, per il quale
il dritto romano si connette con quello dell’umanità, di'esso in fine
pone le basi del dritto posteriore Romano; e pure non ebbe per se stesso ed
immediatamente FORZA DI LEGGE. Sicché quando si dimanda se i senato-consulti
sono una fonte del dritto al tempo della repubblica non si può affermare il
contrario. La loro ezistenza istessa e l’importanza del Senato ne fa
nuova. Ma da qual tempo ha forza legislativa? Non vi ha alcuna legge che
riconosca loro un tale carattere , mentre per contrario ne’ plebisciti è detto:
ET ITA FACTVM EST, ut inter PLEBISCITA ET LEGEM species constituendi
interessent, potestas autem eadem e^/ i ; e certamente non sarebbesi
mancato di affermare il medesimo dei senato-consulti, quando ciò fosse
stato. Un tal cambiamento dove avvenire nei tempi posteriori alla republica, quando
più difficili e rari addivennero i comizii che confermavano le
determinazioni del Senato a quia difficile PLEBS CONVENIRE coepitj POPVLVS
certo multo diffìcilius in tanta turba homimm necessitas ipsa curam reipublica
ad Senatum dedimit. Questa opinione è conferorota dalle seguenti parole
di GAIO Comm. Senatusconsultum est quod Senatus jubet atque consisterit
idque LEGIS VICEM obtinet quamvis fuit quaesitum. E perchè le ultime
parole “quamvis fuit quaesitum” non accennano alla lotta dei partiti ma alle
diverse opinioni delle due scuole dei Sabiniani e dei Proculejani, ne
segue, che anche al tempo di queste LA CONSUETUDINE per la quale IN DIFETTO DI
LEGGE espressa i senatoconsulti prendevano FORZA LEGISLATIVA, non è
ancora addivenuta un fatto certo ed indubitato. Sul/t/^ hanorarium e
particolarmente l’antica questione, se Y Edictum perpetunm costituisse sotto ADRIANO
un CODICE, che è coi precedenti Editti Preterii nel medesimo rapporto che le
Pandette cogli scritti dei giuristi, o pure fosse un semplice lavoro
privato M CkJO^ i 5 BB&wiiìb dall' Imperadore senza ehe
arrestasse il movimento della legislazione Pretoria, sembra decisa a favore di
quest’ultima opinione colle parole. Jus mttem edicendi habent magistratus popvM
Mo^ mani '^-^ Qu(wst<^res non mittuntur: id Edicium m pt'omnciis
non proponitur. Le nostre conoscenze per contrario non si avvantaggiano in
menomo modo ooUa scoverta delle Istituzioni di Gaio sulle quistioni, che
riguardano i responsi prui dentum , la distinzione del jus scriptum e non
scriptum che ritenevasi communemente di origine greca senza che un tal difetto
fosse un gran aniio giacché le notizie e le conoscenze che ci vennero a
tal proposito per altri scrittori, sodisfano abbastanza ai bisogni della
scienza. Umberto Cerroni. Keywords: Hegel and Roman law -- i hegeliani, categoria
giuridica, Trasimacco, Kelsen, Eduardo Gaus, Hegel, sistema di diritto romano. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library. Cerroni.
Grice e Certani: l’implicatura
conversazionale del sacrificio – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna).
Filosofo italiano. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew
at school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice:
“Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a
Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia,
Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele”
(Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè
Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche
dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e
nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi
del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota
Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso;
cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il
Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche,
e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare
Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo
Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe”
(Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese
Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani
Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli
eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel
suo museo Cospiano ae la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia Regnante parte
III lib. II, ove parla di Questo soggetto. Oltre i sopraccennati ne parla
ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec. Marco
Curzio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai
cercando il dipinto attribuito al Bacchiacca, vedi Marco Curzio (dipinto).
Marco Curzio è un personaggio leggendario della Roma antica, appartenente alla
gens Curtia. Benjamin Haydon, Marco Curzio si getta nella voragine,
National Gallery of Victoria. La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro
Romano si aprì una voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti
interpretarono il fatto come un segno di sventura, predicendo che la voragine
si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato
in quel baratro quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedeva.
Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell'esercito
romano, convinto che il bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio,
si lanciò nella fenditura armato e a cavallo, facendo così cessare l'estendersi
della voragine. Questo autosacrificio agli dei inferi (Mani) era detto
devotio. Il luogo dove si formò la voragine rimase nella leggenda con il
nome di Lacus Curtius. La leggenda è narrata da Tito Livio nei suoi Annali. Una statua equestre della tarda latinità - in
grandezza ridotta rispetto al naturale - rappresentante Marco Curzio si trova a
Carrara, inserita nelle mura Albericiane in corrispondenza della Porta
cittadina. Il grande attore Antonio de Curtis, in arte Totò, sosteneva
che la sua famiglia discendesse da questo personaggio leggendario. Cùrzio,
Marco, su sapere.it, De Agostini. Marco Curzio, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Mitologia Ultima modifica 2 anni fa Gens Curtia
famiglie romane che condividevano il nomen Curtius Lacus Curtius Punto
d'interesse nel Foro romano Marco Curzio (dipinto) dipinto attribuito al
Bacchiacca Wikipedia IlGiacomo Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo
Certani. Keywords: il sacrificio, Marco Curzio, devozione -- Il cavaliere penitente; ossia, la chiave del
paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity, Percival, The Holy Grail,
the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Certani”
– The Swimming-Pool Library. Certani.
Grice e Ceruti: l’implicatura
conversazionale di Niso -- ovvero, dell’altruismo – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Grice: “Ceruti is a good one – he
has philosophised on solidarity – and previously on altruism – these are VERY
different concepts, as he notes – but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for
what I’m into! – “A Griceian at heart!” --
Grice: “Only one T!”. Tra i filosofi protagonisti dell'elaborazione del
pensiero complesso, è uno dei pionieri della ricerca contemporanea inter- e
trans-disciplinare sui sistemi complessi. La sua filosofia si produce
all'intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia
(filosofia e storia della scienza, storia delle idee, noologia…), scienze della
natura (fisica, biologia, cosmologia…), scienze dell'uomo (antropologia,
sociologia, psicologia, storia…), scienze dell'organizzazione e del
management. Si laurea in filosofia della scienza con Geymonat con “L'epistemologia
genetica di Piaget” nella quale, attraverso l'analisi dell'epistemologia viene
posto il problema del ruolo della biologia e delle scienze del vivente, nelle
varie articolazioni disciplinari, come decisiva interfaccia fra le scienze
fisico-chimiche e le scienze umane, in grado di favorire processi di
circolazione concettuale e di traduzione reciproca fra vari e multiformi campi
del sapere. Nei suoi studi ha affrontato le questioni del significato
filosofico ed epistemologico delle maggiori rivoluzioni scientifiche del
ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività, teoria dei sistemi, biologia
molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi del cambiamento stilistico e
delle relazioni fra stile e contenuto nella storia delle idee, nonché dello
statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi alle rivoluzioni
scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera Disordine e
costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto da Ginevra,
presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata da Piaget, in
qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro coordinato da Munari.
In questo periodo approfondisce le relazioni che connettono l'opera di Piaget a
vari modelli e approcci del contesto scientifico a lui contemporaneo: alla
termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle ricerche sul concetto e sui
processi di auto-organizzazione e autopoiesi, all'embriologia di Waddington, ai
nascenti dibattiti sul significato delle ricerche della biologia molecolare. Il
tema chiave di queste convergenze disciplinari è la possibile delineazione di
modelli generali del cambiamento, nonché del ruolo della discontinuità in
questi modelli. L'approfondimento dei singoli filoni disciplinari gli consente
di interrogarsi più estensivamente sul significato profondo e complessivo dei
cambiamenti paradigmatici delle scienze alla fine del ventesimo secolo: dalla
convergenza di varie discipline emerge la prospettiva di una scienza nuova,
caratterizzata da precise assunzioni relativamente alla natura del cambiamento,
alla relazione fra soggetto e mondo, al ruolo del tempo, della storia e della
narrazione negli approcci scientifici. La nozione di complessità costituisce
un'utile maniera sintetica di rapportarsi con tali assunzioni. Per ricostruire
queste novità del contesto scientifico, imposta un programma di ricerca attorno
al tema della epistemologia della complessità, parte integrante del quale è
stata a partire l'organizzazione di convegni internazionali e di seminari, e la
pubblicazione del volume La sfida della complessità. Ricercatore associato
presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie,
Politique diretto da Morin, centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des
Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di
ricerca di filosofia della scienza. In quegli anni approfondisce le
problematiche dell'epistemologia genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo
e la possibilità e La danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato
dalle scienze evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana
nel più generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche
del contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e
filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e
discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge,
ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche,
alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni
fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva
una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema
del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e
della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un
ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il tema
del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e
della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno
di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva, cosmologia,
fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli interrogativi sul modo
in cui dallo studio del radicamento naturale delle società umane possano
scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni sociali e culturali
della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le ricerche condotte
in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte all'individuazione di leggi
generali della complessità e di modelli generali sul comportamento dei sistemi
complessi. Una nuova linea di ricerca di filosofia della scienza, che
approfondisce a partire dalla metà degli anni novanta, è lo studio dei modelli
di cambiamento dell'evoluzione umana, in relazione alla teoria degli equilibri
punteggiati, alla visione discontinuista della storia naturale, alle dinamiche
ecologiche e ambientali. Una seconda linea di ricerca epistemologica,
strettamente interrelata alla prima, è lo studio dell'importanza delle analisi
genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione e della storia umane, sia dei
tempi lunghi della storia delle varie specie ominidi sia dei tempi medi della
storia della nostra specie Homo sapiens. A partire da Solidarietà o barbarie.
L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica, imposta una serie di
seminari e di ricerche di filosofia delle scienze biologiche, evoluzionistiche
e storiche sul tema dei confini e sulle identità nazionali e culturali. Nel far
ciò approfondisce una concezione evolutiva di tali identità, consonante con la
prospettiva epistemologica costruttivistica, e convergente con i presupposti
epistemologici, costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione
evoluzionistica darwiniana. In queste ricerche, viene affrontata anche la
questione del significato della rivoluzione darwiniana nell'intera storia della
tradizione scientifica occidentale. Un ulteriore studio dedicato a tali
problematiche è il volume Educazione e globalizzazione, che traccia un bilancio
epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia, geografia, antropologia,
scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo della diversità culturale
nella storia della specie umana e le radici profonde degli attuali processi di
globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo e a Milano,
dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore del Dipartimento di
Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia delle
Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università
degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione
dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia
della Complessità che comprendeva la Scuola di dottorato in Antropologia ed
Epistemologia della Complessità a Bergamo. Principali tematiche presenti
negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica costruttivismo (filosofia);
Epistemologia; Epistemologia della complessità; Epistemologia genetica;
Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive; Scienze della formazione; Teoria
dei sistemi. Membro della Commissione Nazionale di Bioetica della Presidenza
del Consiglio dei ministri. Nominato, dal Ministro della Pubblica Istruzione
Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione incaricata di scrivere le nuove
Indicazione per il Curricolo per la Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo
di Istruzione. Partecipa alla fase di fondazione del Partito Democratico,
venendo eletto all'Assemblea costituente del partito e assumendo l'incarico di
relatore della Commissione incaricata di redigerne il Manifesto dei
Valori. Alle elezioni politiche italiane della XVI Legislatura eletto al
Senato della Repubblica nelle liste del Partito Democratico. È stato membro
della Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali), della
Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi
radiotelevisivi e della Commissione parlamentare per l'infanzia e
l'adolescenza. Non si è ripresentato alle elezioni della XVII
legislatura. Altre opere: “Il tempo della complessità” (Cortina, Milano);
“La fine dell'onniscienza” (Studium, Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Organizzare l'altruismo” (Laterza, Roma); “Una e molteplice:
ripensare l'Europa” (Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità”
(Feltrinelli, Milano); “Origini di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida
della complessità” (Feltrinelli, Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte
di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Educazione
e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Formare alla
complessità, Carocci, Roma); “Le origini della scrittura. Genealogie di
un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le radici prime dell'Europa:
gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno Mondadori Editore, Milano);
“Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Pensare la
diversità. Per un'educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma); Evoluzione
senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari); “Solidarietà o barbarie: l’Europa delle
diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano,
Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari); Evoluzione
e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa nell'era planetaria” (Sperling &
Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un nuovo inizio per la civiltà planetaria”
(Moretti & Vitali, Bergamo); “Che cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La
danza che crea. Evoluzione e cognizione nell'epistemologia genetica,
Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela, Lazlo E., Physis: abitare
la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per
l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare postdarwiniani: saggio
sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro Piaget. Strategie delle
genesi, Emme Edizioni, Milano Bocchi C. M. Disordine e costruzione.
Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget, Feltrinelli,
Milano. Direttore delle riviste scientifiche: La Casa di Dedalo (Casa
Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo);
Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del Senato, su senato.
Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni Nazionali per il Curricolo,
su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato Nazionale
di Bioetica, su governo. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex
and love. The pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles
of erastes and eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans
has, of course, various thematic functions and will have resonated in various
ways for a roman readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative,
namely the eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha
this text might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See
Makowski for an overview of ancient and modern views of the pair, along with
arguments for describing them as erastes and eromenos on the Greek model
(Makowski finds particular parallels with Plato’s Symposium). For literary
discussions of Nisus and Euryalus that take as their starting point the erotic
nature of their relationship see Gordon Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp.
228-9, 235-6, and Hardie, 23-34). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia
Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their
friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E
NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA
PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON
SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o
CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale
ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus
and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative
of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic functions
and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on
only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation
Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et
Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio
pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus
outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love
for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit
of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of
sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in
order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen
Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of
his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s
sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself
uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics 3 227.
Indeed, Servius, ad Aen. 5 334, writing in a different cultural climate, was
worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA
DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI
TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his
earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY
SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as
PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear
in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an
effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a
number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus
first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself
upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair.
Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem
miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes
Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora
puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella
ruebant. Vir. Aen. 9 176-82. Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a
most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by
Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion
Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons,
was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face
unshaven. These two shared one love, and rushed into the fightin side by side.
Virgil’s wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and
particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the
comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is
repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in
Book 9 – is noteworth For Euryalus’s
youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in
death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho
– Lyne, pp. 229. For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5
(VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE
FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the
assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6: Likewise the question that Nisus asks Euryalus
when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC
ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9
184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO,
compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s
desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who
put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire
(dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a
desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire
could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s
depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the
enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s
intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat
Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me,
me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil
iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum
infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his
mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great
pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me,
Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he
could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the
only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short,
good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is
described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been
UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers
in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their
eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme …
figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too
Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave
sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA
RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were
Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels
with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of
Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat.
761B. Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl.
Smp. 178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his
companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into
a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus,
placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli
immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9).
Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend,
and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has
any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as
he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as
the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in
death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their
‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET,
UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt
NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those
who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for
we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his
wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a
joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA
RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC
IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece
quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced
on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT
NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although
Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed with a
full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be,
in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older
lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the pair,
and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is
of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the
cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the
influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated
status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the
DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the
character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong
in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s
erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details
about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily
killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret
references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical
model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later
Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck –
from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, crediting
Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly
suggesting a passionate and deeply intense bond between the two, does not
represent them in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke,
Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and
Halperin.Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of
Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel
for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT
AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are
strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly,
together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric at
9.128-58 based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians,
and the weighty dialogue between Jupiter and June at 12.808-40, where it is
agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found
pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal
gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which
same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But
is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans,
Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of
a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of
Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE
relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own
day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe
o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the
would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that
corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is
complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance
Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s
experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the
commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her
involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the
moral framework poposed by the text in a way that the relationship between
Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the
relative degrees of problematization of the two types of relationships in the
cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any
power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the
house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as
the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of
an adulterous couple ina Roman epic!” Mauro Ceruti. Keywords: Niso ed Eurialo;
ovvero, dell’altruismo, dal semplice al complesso, complesso proposizionale,
discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex,
solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema
semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta:
il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore
proprio, amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love,
benevolence, organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e
diverso, unico e multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cerutti: l’implicatura
conversazionale del leviatano – organicismo politico – il corpo politico nella
costituzione italiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not
surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and
represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti
umani dovrebbe avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il
Genere Umano alla sopravvivenza» Insegna
a Firenze. La sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la
"teoria critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra
l'altro proviene. Lavora sulla filosofia politica delle relazioni
internazionali ed affari globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria
delle sfide globali (armi nucleari e riscaldamento globale), e la questione
dell'identità “politica” (non sociale o culturale) degli europei in relazione
con la legittimazione dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio
del quale Cerutti stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza
di classe” (Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo
e politica. Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni
internazionali in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide
globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del
riscaldamento globale” (Milano, Vita e pensiero). Che
cosa significa "Corpi politici"? Organismi che possono essere
bersaglio di una condotta oltraggiosa ex art. 342 in ragione della funzione
politica dagli stessi svolti e dal cui novero risultano esclusi il Governo, il
Senato, la Camera dei Deputati e le Assemblee regionali, rispetto ai quali la
tutela penale viene offerta dall'art. 290. Articoli correlati a "Corpi politici"
Art., Codice Penale - Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo
o giudiziario o ai suoi singoli componenti Art. 342 Codice Penale -
Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziarioFurio Cerutti.
Keywords: il leviatano, il corpo politico, l’organismo politico, lotta di
classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale,
identita politica, corpi politici, I corpi politici, brunetto latini, aquino,
Egidio romano, Dante Banquet, Marsiglio di Padua, Pegula. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cervi
Grice e Cesa
Grice e Cesare – Roma – filosofia
antica. Gaio Giulio Cesare. Cesare had many friends who
followed the philosophy of the Garden, and it is clear that he had ome leanings
towards that philosophy himself. Exactly how far these went is unclear and
whether he ever actually became a member of the sect is a matter of dispute.
Grice e Cesarini – filosofia
italiana– Luigi Speranza (Genzano di Roma). Filosofo italiano. Grice:
“Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also fought in the
North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a philosophical
story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of his ducal
ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the name Sforza
Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto sostenitore del
nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti nel suo palazzo.
Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che vennero loro
restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma, reso possibile
dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in veste di
consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every Englishman
loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the Pope!” – Grice:
“Sforza Cesarini should never be confused with the philosopher Cesarini Sforza:
Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher,
is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco
Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father,
kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism,
nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cherchi – implicatura sarda
– filosofia sarda – filosofia italiana – Luigi Speranza (Oschiri).
Filosofo italiano. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a
philosopher is from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he!
Cherchi is from ‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is
very fun! My favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it
relates to Vinci’s ‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a
Cagliari. Placido Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado
Maltese, interessandosi contemporaneamente di studi e problemi
etno-antropologici e storico artistici. Come autore di importanti lavori sul
pensiero di Ernesto De Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda,
fu un membro attivo della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla
presenza all'Cagliari di maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario
Cirese, come pure di loro allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo
stesso Cherchi. Morì nel all'età di 74 anni a causa di un'emorragia
cerebrale. Altre opere: “Paul Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi
materici, Stef, Cagliari); “Pittura e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu
S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); C. Martino:
dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore
del limite: tre variazioni critiche su Martino, Liguori, Napoli); “Il peso
dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema
dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento
e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto
della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei
circoli, organizzazione non-partitica dei sardi, coautori Francesco Masala ed
Eliseo Spiga, Zonza, Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia
all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune
pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse.
Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche
risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera,
Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel
mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe: Giulio Angioni, Una scuola sarda di
antropologia?, in (Luciano Marrocu,
Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi,
processi culturali, Roma, Donzelli,, 649-663
Addio a C., il ricordo di Angioni: "Fu ideologo del neo
sardismo" Archiviato in. Notizie. tiscali
È morto Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia
Fondazione sardinia.eu Scuola
antropologica di Cagliari Ernesto de Martino
Angioni, In morte di C., sito "il manifesto sardo". Carta, Che
cosa è C.? Due o tre cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a C. Enrico
Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di C. La colonizzazione e la penetrazione romana nell'isola
furono oltremodo intense e furono facilitate da affinità di razza, per
cui si può dire che lo spirito latino g-iunse nell'intimo
dell'anima del popolo sardo. Pinza, IMonuineiiti prUìiHivi della
Sardegna in Monumenti Antichi, pubblicati per cura della Reale Accademia
dei Lincei. Taramelli, nel recente lavoro sulla questione nu- ragica
(Arch. Stor. Sardo), ritiene che il carattere prevalentemente guerresco
della schiatta sarda, l'accanimento delle lotte interne dapprima, poi con lo
straniero invasore, abbiano nuociuto allo sviluppo artistico, che in
germe aveva la stessa disposizione che presso altre genti del
Mediterraneo. Quando le legioni romane, in seguito alle fiere lotte
sostenute contro i montanari Olaesi o Iliesi ebbero assoluta padronanza
dell'intera isola, l'arte sarda scomparì con questa che può
definirsi l'ultima ribellione dell'antica civiltà nuragica, e di essa non
rimasero che vaghe reminiscenze presso gli artefici più umili, le quali
perdurarono attraverso il medio evo fino ai nostri giorni.
Nel periodo glorioso dell'impero romano la fusione fra l'elemento
latino ed indigeno fu così intima da potersi asserire che le nostre
sono manifestazioni della civiltà derivante da Roma; le grandi
opere pubbliche mostrano una regione che assurse ad alto grado di
fiorimento civile ed economico; non v'è paese, né plaga nell'isola
che non abbiano traccia dell'opera meravigliosa svolta dai Romani. Nelle
regioni più inaccessibili, in quella stessa Barbagia che raccolse gli
ultimi difensori della civiltà indigena, e che mostrossi. Statuetta
preistorica 1 Museo di Casa;! i a sempre indomita e ribelle
ad ogni forma di potere, sono strade, ponti, ed altri segni
palesanti ima florida colonizzazione romana, tanto intensa da
perdiu-are in molte manifestazioni e iiello stesso linguaggio ,
attraverso secoli di bar- barie e di dominazione. Oreficeria punica
nel Museo di Cagliari. gran parte Nello sfasciarsi della romana
potenza lo spirito conservatore delle genti sarde custodì gelosamente la
bella tradizione latina. Mentre nel tempo che segnò il passaggio dall'evo
antico all'evo medio, d'Italia, come scrive Solmi, soggiacque a una
lunga, trasformativa dominazione germanica, la Sardegna fu invece fra le
scarse regioni italiane che ne restarono quasi pienamente immuni,
dando così un nuovo, singolare atteggiamento alla sua storia, che
fu lenta e spontanea elaborazione degli elementi indigeni e latini. La
furia distruggitrice della conquista vanda- lica, assai breve e poco
estesa, non lasciò traccia alcuna d'arte e di vita e paralizzò
quell'ascensione alle più nobili conquiste, che la Sardegna avea
iniziato con la signoria di Roma. Una completa oscurità avvolge in questo
fu- nesto periodo ogni azione isolana, che non siano le fasi di
quelle guerre che dilaniarono l'isola. Tur- bini di barbarie la dovettero
ridurre in un vasto campo funebre e quando cessarono le irruenze
degli invasori, l'opera degli architetti e degli ar- tisti si svolse come
se nel naufragio delle romanità questi avessero perduto la memoria d'ogni
bella forma. La conquista di Belisario ed il riordinamento
amministrativo di GIUSTINIANO, assicurando la Sardegna al dominio degli
imperatori d'Oriente, consentirono lo spontaneo sviluppo degli elementi
latini. Artehci che trassero la loro arte da Bisanzio
svolsero nell'isola quell'architettura, che derivò da armonica fusione di
forme orientali e di bellezze classiche, sparse quest'ultime con
profusione nella terra che vide erigere l'Acropoli e scolpire la X'enere
di Milo. Furono greci gli artisti che scol- Statuetta ienicia nel
Museo di Cagliari. fase. Arrigo Solmi, La Sardegna e gli studi
storici wnW Arcìiivio Storico Sarda, Cagliari, Dessi. pirone bassorilievi,
iscrizioni ed altre forme ornamentali, che recenti indagini hanno messo
in evidenza e che sistematiche ricerche renderanno indubbiamente tanto
copiose da darci modo di determinare entro limiti detiniti l'influenza
artistica che Bisanzio svolse nell'isola dandole carattere e forme
stilisticamente rilevanti. ampacla cristiana rinv Chic a di
S. Giovanili tli Siiiis in territorio di Cabras nell'antica Tarros. L'arte
romana per opera di greci artefici divenne arte bizantina, la (jLiale
rappresenta non un nuovo stile, ma ima trasformazione dello spirito
latino a contatto delle forme orientali. F.d in Ravenna, in Grado, in
Sicilia, nelle Puglie sorsero quelli edifici, rudi e disadorni
all'esterno, che inter- namente brillano di ricchi mosaici, in cui l'oro
e le gemme preziose sfaccettano in mille raggi la tenue luce
diffondentesi dalle arcuate finestre. Anche nella nostra isola dovettero
svolgersi queste forme architet- toniche giacché dal primo trentennio del
secolo VI e per non breve corso di tempo la Sardegna fu una provincia
dell'impero di Bisanzio. Xè questa signoria fu solo nominale, ma
tanto si compenetrò nella vita e nelle istituzioni che l'infiuenza greca
nel linguaggio, nella diplomatica, nel dritto apparisce evidente anche nel
secolo XI, quando la Sardegna erasi già sottratta di nome e di fatto al
dominio degli impe- ratori di Oriente e ne reggevano le sorti da più che
un secolo i regoli o giudici nazionali. La nostra cattedrale conserva
in una sua cappella una Madonna, splendente d'oro e di bellezza. Intorno
ad essa fiorisce una fine e pia leggenda, comune del resto a molti altri
antichi simulacri d'Italia. Vuoisi che la vaga madonnina sia stata scolpita da
S. Luca e da Costantinopoli trasportata a cura del Cagliaritano Eusebio,
vescovo di Vercelli, alla città di Cagliari, con nave guidata da una
corte di angeli e di cherubini. Il simulacro è indubbiamente opera del
XIV secolo, ma la tenue leggenda può interpretarsi come un poetico
simbolo del tra- [Stele puniclie nel Museo di Cagliari.] piantarsi
dell'ellenismo nell'isola, perpetuato dal nostro popolo attraverso gli
oggetti suoi pili cari. Ed infatti molti frammenti decorativi ed
epigrafici nonché parecchi edifici attestano dell'inlluenza dei
costruttori bizantini neh' architettura dell'alto medio evo in
Sardegna. Tale è la Chiesa di S. Giovanni di Sinis, nell'agro di Cabras
in vicinanza ad Oristano e presso le rovine dell'antica e fiorente città
di artp: preromanica Tarros. Le origini e le vicende di questa
chiesa ci sono ignote; si volle veder in essa la cattedrale di Tarros
cristiana, ma ciò non è che una congettura, giacché nessun
documento veramente ineccepi- bile ci dice quando la città venne
abbandonata e se essa perdurò fino al- l'epoca che gli elementi
costruttivi e stilistici permettono d'assegnare all'antico tempio. L'aver
i presuli d'Oristano assunto il titolo di abate di S. Giovanni di
Sinis fa presumere che a questa chiesa originariamente fosse
annesso un monastero. Essa presentemente è a tre navate Testa
di irrito rin\enuta in Cagliari Punica. coperta da volta a botte e comunicante
per mezzo di arcate poggianti su massicci pilastri. Anche i due
muri |jerimetrali e laterali hanno la struttura a pilastri ed archi,
chiusi questi ultimi posteriormente. Il prospetto, sormontato da
im frontone che segue l'andamento della volta a botte, non ha
ornamentazione alcuna e la porta che in esso è aperta è
rettangolare, semplicemente con- tornata da una fascia di marmo. La
navata centrale è terminata da un'abside circolare e sopra le ul-
JNIaschera rinvenuta in Tarros Punica. D. SCANO — storia dell' Ai le in
Sardegna. time quattro pilastrate si svolge il tamburo, sostenente la
piccola volta a bacino, costituente la cupola. La forma di
questa chiesa è basilicale e non differenzia da quelle di tante altre
chiese medioevali sarde, del XI o XII secolo, se non che alcune forme
costruttive come la cupola e la volta a botte inducono a ritenere che
originariamente dovea avere tutt' altra struttura. Mancando ogni
qualsiasi elemento decorativo, giacché la chiesa ha le pareti nude senza
frammenti di pittura, di scultura o di semplice ornamentazione, che di solito
guidano lo studioso nei riscontri stilistici, pro- cedetti per
identificare le forme primitive ad un esame tecnico delle parti
architettoniche. I risultati confermarono la prima impressione,
giacché potei ri- scontrare: La volta che copre la navata
centrale è relativamente moderna; I muri della navata cen-
trale e delle navatelle furono eretti posteriormente al nucleo
centrale, su cui poggia il cupolino. Della struttura
originaria della Chiesa non resta che detto nucleo centrale e le
braccia trasversali. Ridotte in tal modo le parti originarie
ed eliminate le aggiunte posteriori è facile completare l'iconografia
primitiva, partita in quattro braccia a modo di croce, che s'in-
tersecano secondo quattro piloni sostenenti il tamburo su cui poggia la
cupola per mezzo di quattro pennacchi. Di più i piloni hanno gli angoli
rientranti in modo da permettere il collocamento in dette pilastrate di
quattro colonne, che ora più non esistono. Questa particolarità co-
struttiva è degna di nota, giacche la ritroveremo in altra chiesa, colla
quale S. Giovanni di Sinis presenta molte affinità. Nei muri
terminali delle braccia trasversali della croce sono aperte i nnvc-mita
111 Cai^l influenza greca). iri l'ui due finestre bifore,
in cui la colonnina è sostituita da un semplice pila- strino in pietra da
taglio senza capitello e senza base. Abbiamo la forma iniziale di quelle
bifore, che posteriormente vennero rese più eleganti e più svelte dalle
colonnine col pulvino, permettente agli archi un'imposta corrispondente
allo spessore della muraglia. Questa forma arcaica con- ferma l'origine
preromanica di S. Giovanni di Sinis. Alle forme costruttive di
questa chiesa dovettero infiuire le catacombe di S. Salvatore, le
quali ne distano circa quattro chilo- metri. Queste catacombe
poste presso ad alcune rovine romane, malgrado non siano state ancora ne
stu- diate, né menzionate, sono interessantissime e costitui-
scono il più pregevole ed interessante monumento isolano dei primi
tempi del cristianesimo. La chiesetta soprasuolo è relativamente moderna
e non presenta niente d' interessante . Ai sotter- ranei s'accede
mediante una gradinata svolgentesi in uno stretto passaggio
coperto da un voltino a botte. In quell'andito sono aperte due
porte, una di fronte all'altra, per le quali si perviene a due camere
rettangolari di m. 4,30 X 3,26 ciascuna, coperte ancor esse con volte a
botte. Lo stretto passaggio fa capo ad un vano circolare, coperto da
volta a bacino ed illuminato dall'alto, che costituisce il nucleo
centrale delle catacombe, comunicando esso con altre due camere laterali
terminate da absidi e con altra circolare, che è l'ultima [Busto
di a rinveiiutu in Tarros Punica influenza jj;reca). dell'edificio
sotterraneo. Si ha una disposizione planimetrica, che ricorda i più
antichi edifici cristiani: la struttura è prettamente romana con mu-
ratura di laterizi opportunamente collegata con altra di pietrame
informe. Ceramica punica nel Museo di Caigliari. Le pareti
delle diverse camere sono intonacate a stucco lucido, const'ivante tutt'ora
traccia di antiche pitture. Più che pitture sono schi/zi, Sarcofago romano
nel Museo di Cagliari.figure eseguite a caso, alcune abilmente, altre con
tecnica ed arte infan- tili. In ima parete di una camera absidale sono
traccie di un gruppo interessantissimo rappresentante una lotta fra un
leone ed un uomo dalle forme erculee. Nelle altre i)areti e; nell'abside
della stessa camera sono schizzate alcune nax'i, due leoni, un Eros e
diverse figure di donne delineate con maestria dal tipo classicamente pagano.
Esse vennero eseguite al di là di (iualun<[ue preoccu[)azione mistica
e sono di gentile arte, piene di grazia voluttuosa e di vita. L'na di
esse dalle linee formose, che rievoca la Venus (ìcnitri.w solleva con ima
mano i veli che le coprono i turgidi seni e le belle forme. l'"ra
([uesti schizzi e queste figure di donne ricorre sjx'sso il mouogramiua RI e
sono intercalate frasi scritte in greco corsivo, la di cui esatta
interpretazione potrà portare non lieve luce sulle origini di (|ueste
forme pittoriche. Non un simbolo cristiano, non il monogramma di Cristo
che attestino la fede di chi rese nelle pareti, con [Sarcofajj:o romano
nel Museo di Ca.sjliari. decise linee, figure voluttuose di belle donne.
D'altra parte l'iconografia dei sotterranei segue la disposizione delle
prime chiesette cristiane specialmente nelle forme absidali delle due cappelle
laterali e della camera termi- nale. E vero che nelle costruzioni
cimiteriali più antiche le tetre muraglie coprivansi di scene tratte
dalla vita reale e molto spesso dalla mitologia pagana tanto che nelle
catacombe di Pri.scilla e di Domitilla, nelle quali meglio che altrove si
possono studiare le origini della pittura primitiva cristiana, cjuesta è
stranamente impregnata di paganesimo; ma se la tradizione è pagana, nell'antica
forma l'arte si penetra di spirito cristiano. Qui no, forma e spirito
sono schiettamente inspirate al paganesimo più libero e più
licenzioso. Statua di Bacco rinvenuta In Cagliari. Queste contradizioni
non permettono ora di poter dare un sicuro o^iudizio su questo
interessantissimo monumento: forse l'ipotesi che più concilia ((ueste
forme cozzanti tra loro è quella dell'orij^i'ine pagana dei sotterranei,
costrutti ed usati come carceri e poscia serviti come rifugio nei primi
tempi del cristianesimo. Con ciò si spiegherebbero la disposi- zione a
celle, poste sotto il livello del suolo e gli schizzi delineati da
(jualche artista, che nel tedio della prigionia volle rievocare senza una
direttiva pittorica immagini impure e dar forma d'arte a sogni libertini.
Oualun([ue sia l'origine di queste, che vengono chiamate
catacombe. è certo che esse furono nei primi secoli, forse nel IV^ secolo,
adibite al culto cristiano. Non ritengo la costruzione cimiteriale,
mancando qualsiasi indizio di loculo o di pittura funeraria. Nel
nucleo centrale è un pozzo, poco profondo, in cui è perenne una fresca
lama d'acqua. Questo può spiegare la destinazione che dai primi cristiani
venne data a questi sotterranei, qualunque sia la loro origine. A mio
parere essi dovettero servire di battistero in tempi di per- secuzione.
Infatti non è spiegabile con l'ordinario uso degli edifici di culto la
presenza del pozzo nella parte centrale della chiesa sotterranea. Inoltre
la poca profondità del fondo, la presenza ininterrotta di una fresca lama
d'acqua e le traccie di alcuni fori, per cui mediante tavole potevano i
convertiti scender s^nù nell'acqua, rendono attendibile
questa destinazione, la quale ha molti riscontri e molte analogie colle
prime forme battisteriali. Ai primi tempi del cristianesimo
non aveasi altri battisteri che le rive dei fiumi e le fontane. Ancor
oggi nella prigione Mamertina a Roma ARTE PREROMANICA esiste il
[)ozzo miracoloso, in cui, secondo un'antica tradizione, S. Pietro e S.
I^iolo battezzarono i loro (guardiani. In alcuni battisteri ])riniiti\'i
rac(iua era fornita da pozzi come nelle catacomlje di S. balena o da sorbenti
naturali come in ([uelle di Priscilla e di Callista. I*\i solo colla
cessa/ione delle persecuzioni al tempo di COSTANTINO che si commcia a costrurre
battisteri snò dio, editici s[)eciali, che non differivano dalle chiese
propriamente dette se non per la loro destinazione. La cripta di S.
.Sahatore forse in oriu-ine ebbe altra inxocazione, oiacchè era
fre([uente dedicare i battisteri al precursore di Cristo. Ad Avanzi di
\ille romane in Cagliari. ot^ni modo ciò che non |)U() essere messo
in dul)bio si è che i sotter- ranei di S. Salvatore, per le forme
costruttive, i)er le pitture e per le iscrizioni costituiscono un
monumento d'arte cristiana di rrancle interesse e merita uno studio ampio
e speciale più di (pianto io abbia fatto in questi cenni brevi e
riassuntivi. L'oratorio di S. Giovanni d'Assemini fu ancor esso
elevato con forme costruttive bizantine, come può desumersi da
un'attenta disamina. La più antica memoria riflettente questa
chiesetta si conserva in un diploma dell'archivio Capitolare della Chiesa
di S. Lorenzo di Genova, con cui Trogotorio di Gunale, giudice di
Cagliari, e suo figlio Costan- tino concedono nel 1108 alla Cattedrale di
Genova la Chiesa di S. Gio- vanni e rinnovano la promessa annua di una
libra d'oro: Ego Indice Trogotori de Giinali cinti, filio meo doninu
Costantini fazo dista carta prò S. Ioaiinc de Arseiuin, qui dabo ad
sancto Lanreìizio de lamia prò Deus et prò anima mca ecc. ecc. La
facciata non ha niente di notevole ed è posteriore alla fonda- zione
della Chiesa. Nell'interno due navate larghe m. 2,00 disimpegnano Idinha
di Atilia Pnmptilla in Cagliari. per mezzo d'arcate quattro cappelle.
All'incrocio delle due strette navate formanti una croce greca a braccia
eguali s'imposta sopra un tamburo a sezione quadrata una piccola volta a
bacino. Anche in questa chiesa dobbiamo distinguere il nucleo originario
dalle posteriori costruzioni; queste sono costituite dalle quattro
cappelle, che, coperte da un rozzo tetto a vista, sono appiccicature
evidenti e per la diversa struttura muraria e per non essere collegate
organicamente ai muri antichi. ToLA, Cod. Dipi.] Eliminando
queste aggiunte risultano in modestissime proporzioni le stesse forme
bizantine della chiesa di S. Giovanni di Sinis e di S. Sa- turnino in
Cagliari. Nell'altare è murata un'iscrizione in caratteri greci, che porta
imo sprazzo di luce sulla chiesetta. E contornata da una doppia fascia
di perline in rilievo, che attesta come facesse parte di qualche
monumento, probabilmente sepolcrale, dedicato alle persone in essa
ricordate. Trascrivo l'interpretazione fattane dal Prof. Taramelli:
Anlìteatro romano in Ca.uliari. O Signore, abbi pietà del tuo servo
Torcotorio, arconte di Sardegna e della serva Gè ti '.''Lo Spano ed il
Martini ritennero — erroneamente come vedremo in appresso — trattarsi del
Torcotorio, che governò il giudicato di Ca- gliari dal 1108 al II 29 e
che donò la chiesa di S. Giovanni d'Assemini al Duomo di Genova. A
pochi metri dell'oratorio di S. Giovanni sorge la Chiesa Parroc- chiale
di S. Pietro, che contiene fra le sue mura alcuni frammenti deco- rativi
bizantini e sulla soglia ha incisa la seguente inscrizione in carat- [Taramelli,
Iscrizioni Bizantine della Chiesa di S. Giovanni e della Chiesa Par-
rocchiale d' Assemini in Notizie degli Scavi, fase. 3. teri greci, la
quale ricorda probabilmente l'erezione e la dedicazione di detta
chiesa, che è ancora oggi sotto l'invocazione di S. Pietro: In
nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo, io Nispella Ochote (co-
strusse il tempio) in onore dei Santi corifei gli apostoli Pietro e Paolo
e S. Giovanni Battista e della l^ergine martire Barbara, affinchè
per le loro preghiere dia a me il Signore la, liberazione dei
peccati. Anche quest' iscrizione venne dallo Spano attribuita
al Torcotorio del XI se- [Erma bacchica di fronte. In un mio
studio sulla chiesa di S. Saturnino di Cagliari '* trattando ac-
cidentalmente di queste epigrafi, le ri- tenni anteriori al mille.
Infatti le lettere, elegantemente incise, ed i pochi motivi
ornamentali sono sufficienti a determinare forme stilistiche molto più
antiche delle romaniche del mille e dei secoli susse- guenti.
Inoltre la carica di protospathariìis, che si riscontra in un'altra
iscrizione coeva di Villasor, indica ancora una sog- gezione alla
corte di Bisanzio non concepibile nel Torcotorio della seconda metà del
XI secolo, che nei suoi atti ed in ispecial modo nella donazione fatta
ai Testa di Sileno.(i| 1). SCANO, Im Cliicsa di S. Satuvìiiuo in
Ihillrltiìio /ìiò/ioorajìco Sardo, \-o\. Ili, Cagliari, Unione
Sarda. monaci di Monte Cassino esercita la sua podestà come CJiudice e
Re libero da ogni ingerenza anche nominale dell'impero. Un'altra
consi- derazione distrugge l'attribuzione dello Spano e cioè il
Torcotorio men- zionato nell'iscrizione d'Assemini avea per moglie
Nispella, mentre quello del mille avea per consorte Vera, la pia donna,
che indusse prima il marito e poscia il figlio suo Costantino a larghe e
ricche concessioni verso gli ordini monastici ed in isj)ecial modo verso
i monaci di S. Vit- tore di Marsiglia: Eoo iìidigi Trocodori de Ugnnali
C(im imiliei'i mia Doìnia \ 'era et cnui filin uieiL noìiìiii
Costaiitìjm '.Queste conclusioni vennero confermate di recente dagli
studi dei Professori Solmi e Tarameli i, che pervennero a risultati
interessantissimi per la storia medioevale della Sardegna.
Negli scavi eseguiti venti anni or sono dal Vivanet presso
l'antica chiesa di S. Nicolò di Donori insieme ad interessanti
resti di materiale epigrafico d'età romana, vennero fuori frammenti
decorativi ed iscrizioni greche, che furono oggetto di un recente
ed interessante studio del Taramelli, che at- tribuì queste ultime ad
iscrizioni funerarie assai eleganti, di persone elevate,
probabilmente del IX o X secolo. In una casa privata di Mara sono
due bassorilievi marmorei, recanti croci greche incluse in cerchi, di
fattura l)izantina, e nel fianco della chiesa parrocchiale è murata una
piccola scultura marmorea molto corrosa, rappresentante una figura d'uomo
vestite; di lunga tunica manicata, figura che per quanto rovinata accenna
ad epoche ed a forme bizantine. Le iscrizioni della distrutta
Chiesa di S. Sofia fra Decimoputzu e [Erma di Bacco \i.sta di
fianco. [ToLA, Cud. Dipi. Sardo. Villasor presentano grande analogia coi
frammenti di S. Giovanni di Assemini e per la forma delle lettere e per
la decorazione a perline. Faccio mie senz'altro le considerazioni
esposte dal Taramelli nello studio sovradetto: « Due delle iscrizioni
sono sopra una coppia di mensole « decorate da un ramoscello di fiori a
voluta, alla loro estremità; l'altra « più lunga è incisa sopra due
robusti listelli di marmo, decorati da una « doppia fascia di perline e
nodetti, i quali come quello della iscrizione di S. Giovanni d'Assemini
potevano far parte o della decorazione della porta o di un ambone o
d'altro monumento eretto in quella chiesa « dalle persone
ricordate « dall'iscrizione e per il « motivo decorativo come per
lo stile ricordano il fregio dell'am- « bone del Duomo di Torcello,
riferito al secolo X circa, alla quale età può convenire la '<
grafia dell'epigrafe, elegante ma alquanto incerta. Trascrivo,
tradotte, queste iscrizioni: O Signore, abbi pietà dei
servi di Dio, Torco- torio, reale protospatario, e di Satusio,
uobilissi)}ii arconti nostri, così sia. Ricordati anche o Signore del tuo
servo Ozzoccorre. Signore abbi pietà del tico servo Unnspete e
della consorte di Ini Soreca. È d'aggiungersi infine a questo bel nucleo
di documenti epigrafici e decorativi di carattere bizantino la seguente
iscrizione, conservantesi nell'altare della chiesa parrocchiale di S.
Antioco: O Signore abbi pietà del tuo servo Torcotorio, protospatario e
di Salusio arconte e della moglie [Ni spella. Sarcufago romano nel Museo
di Cajj;liari. [Taramelli, Iscrizioni Bizantine ecc. ecc. In una parete
esterna della chiesa è murato un bassorilievo, che reca una porzione di
figura umana, vista di fronte, con lunsj^a tunica a maniche, con colletto
ornato e con larga fascia al petto (i). Da (|uest() non indifferente
materiale epigrafico rinvenuto in una ristretta porzione dell'isola il
Prof. Solmi pervenne col suo fine discerni- mento di storico e di critico
a congetture, che sono sprazzi di luce nel buio che avvolge
l'ori- gine dei giudicati '^l, Fiondandosi
nell'avvicenda- mento del nome di Torcotorio a quello di Salusio.
il Solmi distingue il nome personale del giudice dal lìome pubblico
o di governo. Mentre ([uesto è sempre identico, Torcotorio o Sa-
lusio, invece, il nome personale, che talora si identifica col nome
di governo, può essere qualche volta da cjuesto essenzialmente
diverso. E questo avvicendamento dei due nomi , (qualunque
sia quello privato che abbia il giudice, permette insieme al contenuto
delle iscrizioni bizantine d'integrare la serie dei giudici,
iniziandola col Torcotorio, im- periale protospatario e arconte di
Sardegna, ricordato nell'iscrizione di S. Giovanni d'Assemini. A questi,
che ebbe per moglie Geti e che regnò probabilmente intorno alla metà del
X secolo succedette il figlio Salusio, già aggregato, come risulta dalle
iscrizioni di S. Sofia al trono del padre, ed [Testa di Bacco. |i)
A. Taramelli, Iscrizioni nizantìne ecc. ecc.Solmi, Le carte volgari dell'
Arcliivio Arcivescovile di Canliari, I-'irenze, Tip. Ga lileiana, pag.
69. erede poi dei suoi titoli e del suo potere. Sulla fine del X secolo e
nei primi decenni del seguente governò il giudicato di Cagliari il
Torcotorio della lapide di S. Antioco, marito a Sinispella e
contemporaneo di S. Giorgio di Snelli, Con Mariano Salusio, menzionato in
una carta greca di S. Vittore di Marsiglia, s'inizia la serie
dei giudici precedentemente ac- certati dagli storici sardi. Questi
risultati confermano il lento ed amichevole distacco dalla Sardegna
dalla dominazione di Oriente. L'ultimo ricordo di un'effettiva dipendenza
da Bisanzio appartiene all'anno 687 e mostra l'esarca residente in
Ceuta, ancora a capo di un « Africauìis excr- citìts » e di im
exercitiis de Sardinia, costituito come corpo distinto entro l'esarcato
africano. Caduta Cartagine e Ceuta, scrive Solmi, agli ultimi del VII
secolo e mancati così gli ultimi
centri dell'antico esarcato d'Africa, l'impero Greco « lasciò in pieno
abbandono anche l'isola, che n'era parte, separata ormai « da un ampio
mare, che divenne il « campo pericoloso delle imprese saracene; ne più la
flotta greca varcò oltre « le coste della Sicilia, dove si accentrò
« l'estrema punta occidentale del dominio bizantino. Il duca di Cagliari
« restò a capo deWe.rerciins Sardiniae « sotto la signoria nominale
dell'impero f. greco; si vestì forse dei pomposi titoli « delle
alte magistrature bizantine, ma in realtà divenuta la soggezione vuota
apparenza, resa ereditaria la carica, ogni rapporto coll'impero «
bizantino venne ad essere illanguidito e sui primi anni del secolo VIII la
Sardegna sembra restare esclusa dall'organizzazione tematica Orien- «
tale e interamente libera da o^ni dominazione di Bisanzio ». Madonna detta
di nel Duomo di C; Onesto per i ris^r.ardi storici; dal punto di
vista dell'arte i numerosi tVainnieiui l)i/antini. ai ([uali fino ad ora
non si dette importanza alcuna, le Chiese di S. Ciio\anni di Sinis, di S.
Giovanni d'Assemini. di S. Sofia Chiesa di S. Ciiovaimi di Sinis
(tìanci)!. di \'iilas()r, di S. Stefano di Maracala^-onis, di S.
Antioco di Sulcis, di S. Saturnino di Cagliari, sfui^i^ite alle
indai:rini de-^ii studiosi, attestano un Chiesa di S. (Giovanni di Sinis i
abside). periodo architettonico bizantino, che <^ià si presenta
intenso e che lo sarà ma}j^_t(iormente, quando con indai^ini sistematiche
si procederà allo studio di tante strutture ora nascoste sotto
gl'intonaci e gli stucchi seicentisti I Altri franinienti bizantini rinvenni
nel paramento della chiesa inedioevale di .S. Gemi- nano in
Saniassi. D. ScANo — storia dell'Arte in Sardegna. Né poteva esser
altrimenti e le conclusioni storiche che traggonsi dalle iscrizioni
bizantine e le congetture che su di esse e su altre prove poterono
formarsi, rendono attendibile quest'influsso e questo fiorimento d'arte
bizantina nell'isola, che non poteva sottrarsi alle manifestazioni di
vita dell'impero che la congiungeva al mondo latino. Queste forme
greche perdurarono anche (juando venne a mancare la effettiva, se non
nominale, dipendenza agli imperatori d'Oriente. Discendenti dagli
arconti o patrizi della corte di Bisanzio, i giudici conservarono negli
atti ufficiali colle cariche bizantine le forme diploma- tiche e la
lingua greca; e come queste forme si mantennero fino al XI secolo, così
anche gli allievi ed i discendenti degli artefici greci conservarono le norme
costruttive bizantine, fino a quando si dischiuse per la Sardegna una
nuova fase col rinnovamento, che prorompe nel XI secolo al contatto delle
fresche energie delle civiltà di Pisa e di Genova. Placido Cherchi.
Keywords: implicature sarda, filosofia sarda, etnos, etnicicita italiana,
sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerchi” – The
Swimming-Pool Library
Grice
e Cheremone: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza.
Filosofio italiano. Cheremone di Alessandria.
Cheremone di Alessandria è un filosofo Italiano. Cheremone, figlio di Leonida,
e sovrintendente della porzione della biblioteca di Alessandria che si trova
nel Serapeo e, in quanto custode e commentatore dei libri sacri, appartene ai
più alti ranghi del sacerdozio. E convocato a Roma, con Alessandro di Aegae,
per diventare tutore di Nerone. Può essere identificato con il Cheremone
che accompagna Elio Gallo, prefetto d'Egitto, in un viaggio nell'entroterra. E autore
di una Storia dell'Egitto, di opere sulle comete, sull'astrologia egizia e sui
geroglifici, oltre ad un trattato grammaticale. Tuttavia, di queste opere, non
restano che frammenti. Notevoli, dall'opera sui geroglifici, 14 frammenti,
riportati soprattutto da Porfirio, che se ne serve ampiamente nel De
abstinentia e nella sua Lettera ad Anebo. Cheremone descrive la religione
come una mera ALLEGORIA del culto della natura. In tale direzione, il suo
principale obbiettivo e quello di descrivere i segreti simbolici e religiosi.
Si veda la lettera dell'imperatore Claudio, in Corpus Papyrorum Iudaicarum, ICambridge,
Suda, s.v. "Alessandro Egeo". ^ Strabone, XVII, 806C. ^ Flavio
Giuseppe, Contro Apione, Tradotti e commentati in I. Ramelli, Allegoristi
dell'età classica. Opere e frammenti, Milano, Bompiani, Horst, Chaeremon,
Egyptian Priest and Stoic Philosopher. The fragments collected and translated,
Leiden, Brill, Ramelli, Giulio Lucchetta, Allegoria. L'età classica, Milano,
Vita e Pensiero, Ramelli, Allegoristi dell'età classica. Opere e frammenti,
Milano, Bompiani, Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; Cheremone, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, V · D · M Grammatici greci antichi Portale Antico
Egitto Portale Biografie Portale Ellenismo Categorie:
Filosofi egiz iStorici iFilosofi Storici Capo-bibliotecari della biblioteca di
Alessandria Grammatici egiziani Grammatici greci antichiStoici. Ceremone.
Grice e Chiappelli: l’implicatura
conversazionale dell’academici – Cicerone e il segno di Marte – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “One
of my most recent reflections is on the distinction and striking parallelisms I
draw between the Athenian dialectic – best represented in Raffaello’s “La
scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but represented in those
reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or better, my Saturday
mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us with a most
brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting – Strawson
tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the rest of
the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo
Francesco C., zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia
all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli,
dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato
dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre
insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della
Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di
Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a
Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e
biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della
commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle
opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze:
Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia
moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica
letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma,
Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta
Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le
Monnier); “Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Alighieri); “Leggendo e
meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e scienza sociale, Roma,
Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul cristianesimo antico, Firenze:
succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina, Firenze, Lumachi); “Dalla
critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine di critica letteraria,
Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, Ancona, Puccini). Dizionario
biografico degli italiani. Crusca. Cicerone affronta
e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua
produzione teorica: le opere di argomento retorico; le opere che parlano dei se
gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi to,
possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in
tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il
Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a
carattere so cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto,
il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica
e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò che costituisce l'apparato
tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni
e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per
scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane
implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che
ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo.
Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i
Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di
prendere in considerazio ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni
che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que ste
opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento
classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De
inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il
"De inventione" Il De inventione di Cicerone condensa l'ampia
tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale
che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del
segno che in quell'ambito si è sedimentata. In particolare è presente la
concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente che permette di
scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni
involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come
indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi
secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi noso (anteriorità,
contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione.
Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cicerone è
in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap pare infatti all'interno
della teoria della argumentatio (ar gomentazione), cioè del procedimento
attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi:
"L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco gita da qualche
genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter
ostendens), o la dimostra in un modo necessario (necessarie demonstrans)"
(De inv.). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in
gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti,
qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier
deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione
(già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter
ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon strans). Rinvio
necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato
diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha
partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo",
"Se è giorno, c'è luce" (De inv.). Come Cicerone spiega in un altro
passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da
una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere
videtur, De inv.). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini
to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato
sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità,
sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione
Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii)
quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente
all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele
avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio",
"Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.). In essi
compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per Aristotele
definisce il verosimile (Arist., Rhet.). C'è però un terzo esempio, "Se
c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De
inv.), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion
aristotelico. La categoria di signum, poi, compare come una sottopartizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabile). Se le ultime tre nozioni appaiono
distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni
successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastanza
particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e
indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che
può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito,
e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ).
Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione. Le Partitiones oratoriae sono un'opera di
Cicerone nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune
differenze e peculiarità rispetto al De Inventione. Innanzitutto la
terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene
completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati
RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (quod fero solet fiori élut
quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio -- signum
erodibile indicBtLm comparabile. Infine viene accettata la distinzione
aristotelica tra "luo ghi estrinseci" (corrispondenti alle
"prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci''
(corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva
criticata nel De inventione e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso
notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle
testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli
auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti
onirici) (Part. or.). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda
lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è anche un
indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio all'interno dei
fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente
laicizzati. CICERONE Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per
quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di
Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile
con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare
dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81;
Lanza Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece
trattati tra gl’argomenti intrinseci, in particolare tra quelli che riguardano
lo stato di causa congetturale. Infatti, la congettura può essere tratta da
due tipi di segni: i verisimilia e le notae propriae rerum. Il verisimile, come
dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or.), come a
esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare".
Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il
carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita
come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa
certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or.). Si tratta, evi
dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e
dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di fdion semeion
(segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la caratteristica
specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero
grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Per le scuole postaristoteliche
il segno proprio aveva carat tere di necessità e si definiva come quel segno
che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De signis).
Ci sono, poi, i vestigia facti, dei quali vengono dati questi esempi:
"un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del
colorito, discor so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della
premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze
visive, uditive, rivelate" (Pari. or.). Cicerone non definisce QUf)tO tipo
di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i
sensi", caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione, in
cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer.).
I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con le
“notae propriae rerum” o con il “verisimile” (Crapis). In realtà questa sembra
una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno
le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate
goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmoria quanto dagli eik6ta.
Da un altro passo delle Partitiones oratoria, dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i semefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza,
Cicerone è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran
numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la
classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae. Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (sensu
percipi potest) es .sangue - uccisione· es.: adolescenza inclinazione alla
libidine coniecturs verisimilie (quod
plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt certumque declarat)
es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica
tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche corrisponde la
distinzione tra di vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla
con gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole micamente
rileva (De div), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in
maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di
verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine
giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di
vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali della sua
epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a fondamento razionalistico,
e contempora neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato stessso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta
questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te
dell'informazione e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria,
dei quali gli uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi
di divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che
"può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà
mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l,
127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo
do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le
cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa
tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare
memoria dalle con nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato
sul la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente
divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività La
divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello
definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale,
ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare
attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le
forme di preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le
vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è
legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche
(Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II, 100),
secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta
che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la
legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: RETORICA
LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano
9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le
obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div.); (iv) in certi
casi l'interpretazione è motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è
priva di oggettività (De div.). Cicero composed this treatise immediately after
that on the Nature of the Gods; the two subjects being indeed very
closely connected. In the first book all kinds of divination are represented as
maintained by his brother Quintus, on the principles of the Porch. It is an old
opinion, derived as far back asfrom the heroic times, and confirmed by the
unanimous agreement of the rather superstitious Roman people, and indeed of
other nations, too, that there is a species of divination in existence
among men, which the Greeks call “xarrt/c^,” that is to say, a
presentiment, and foreknowledge of future events. A truly splendid and
serviceable gift, if it only exists in reality; and one by which our mortal
nature makes its nearest approach to the power of the gods. Therefore, as
we have done many other things better than the Greeks, so, most
especially have we excelled them in giving a name to this most admirable
endowment, since our nation derives the name which it gives to it, “divination,”
from the gods (“divis”), while the Greeks derive the
title which they give it, namely,
“juavn/cr/,” from madness (juai'ia). For
that is Plato's interpretatin of the
word. Now, as far as I know,
there is no nation whatever, how ever
polished and learned, or however barbarous and
un civilized, which does not believe
it possible that future events may be
indicated, and understood, and predicted by
certain persons. In the first place
the Assyrians, that I may trace back
the authority for this belief to the
most remote ages and countries, as a
natural consequence of the champaign
country in which they lived, and of
the vast extent of their territories,
which led them to observe the heavens
which lay open to their view in
every direction, began to take notice
also of the paths and motions of
the stars; and having taken these observations
for some time, they handed down to
their posterity informa tion as to
what was indicated by their various
positions and revolutions. And among
the Assyrians, the Chaldaeans, a tribe who
had this name not from any art
which they professe, but from the
district which they inhabited, by a
very long course of observation of
the stars are considered to have
established a complete science, so that
it became possible to predict what
would happen to each individual, and
with what destiny each separate person
was born. The Egyptians also are
believed tohave acquired the knowledge of
the same art by a continued practice
of it extending through countless ages.
But the nature of the Cilicians and
Pisidians, and the Pamphylians, who border
on them, nations which we ourselves
have had under our government,1 think
that future events are pointed out by
the flight and voices of birds as
the surest of all indications. And
when was there ever an instance of
Greece sending any colony into yEolia,
Ionia, Asia, Sicily or Italy, without
consulting the Pythian or Dodonrean oracle,
or that of Jupiter Hammon? or when
did that nation ever undertake a war
without first asking counsel of the Gods
1 Nor is there only one kind of
divination celebrated both in public and
private. For, (to say nothing of the
practice of other nations.) how many
different kinds have been adopted by
our own people. In the first place,
the founder of this city, Romulus, is
said not only to have founded the
city in obedience to the auspices; but also
to have been himself an augur of the highest reputation. After him the other
kings also had recourse to soothsayers; and after the
kings were driven out, no public
business was ever transacted, either at
home or in war, without reference to
the auspices. And as there appeared
to be great power and usefulness in
the system of the soothsayers
(haruspices),2 in reference to the people's
succeeding in their objects, and consulting
the Gods, and arriving at an
understanding of the meaning of prodigies
and averting evil omens, they introduced
the whole of their science from Etruria, to
prevent the appearance [Cicero had been proconsul of
Cilicia, and had gained a very high
reputation by the integrity andenergy which he displayed in
that government. Aruspex is derived from
the Greek word Ifptiv, and specio, to
behold, because the Aruspex prophesied from
the omens which he drew from an
inspection of the entrails of the victims. Augur,
from avis, and garrio, to chatter; because the omens
were drawn from the noise made by
the birds in their flight of allowing
any kind of divination to be
neglected. And as men's minds were
often seen to be excited in two
manners, without any rules of reason
or science, by their own mere
uncontrolled and free motion, being sometimes
under the influence of frenzy, and at
others under that of dreams, our ancestors,
thinking that the divination which proceeded
from frenzy was contained chiefly in
verses of the Sibyl, ordained that
there should be ten citizens chosen
as interpreters of these compositions. And in the
same spirit they have also, at times,
thought the frantic predictions of
conjurors and prophets worth, attending to; as they did in the
Octavianl war in the case of Cornelius
Culleolus. Nor indeed have men of the
greatest wisdom thought it beneath them
to attend to the warnings of
important dreams, if at any time any
such appeared to have reference to
the interests of the republic. Moreover,
even in our own time, Lucius Junius,
who was consul, as colleague of
Publius Rutilius, was ordered by a
vote of the senate to erect a
temple to Juno Sospita, in compliance
with a dream seen by Csecilia, the
daughter of Balearicus.2 III. And, as
I apprehend, our ancestors were induced
to establish this custom more because
they had been warned, by the events
which they saw, to do so, than
from any previous conclusion of reason.
But some exquisite arguments of philo
sophers have been collected to prove why
divination may well be a true
science. Now of these philosophers, to
go back to the most ancient ones,
Xenophanes the Colophonian appears to have
been the only one who admitted the
existence of Gods, and yet utterly
denied the efficacy of divination. But
every other philosopher except Epicurus,
who talks so childishly about the
nature of the Gods, has sanctioned a
belief in divination; though they have
not all spoken in the same manner.
For, though Socrates, and all his
followers, and Zeno, and all those of
his school, adhered to the opinion of
the ancient philosophers, and the Old
Academy and the 1 This was the
civil war in the consulship of Cinna
and Octavius, which ended in Octavius being
put to death by the orders of
Cinna and Mariu?. 2 This was Quintus
Caecilius Metellua (the eldest son of
Metellus Macedonians), who was consul with
T. Quinctius Flamininus: in which
consulship he cleared the Balearic Isles
of pirates, and founded several cities
in the islands. Peripatetics agreed with
them; and though Pythagoras, who lived
some time before these men; had added
a great weight of authority to this
belief — and indeed he himself wished to
acquire the skill of an augur, — and
though that most im portant authority,
Democritus, had in very many passages
of his writings sanctioned a belief in
the foreknowledge of future events; yet
Dicsearchus the Peripatetic, on the other
hand, denied all other kinds of
divination, and left none except those
which proceed from frenzy or from
dreams. And my own friend Cratippus,
whom I consider equal to the most
ancient among the Peripatetics, confined
his belief to the same matters, and
denied the correctness of any other
kind of divination. But as the
Stoics defended nearly every kind, because
Zeno in his Commentaries had scattered
some seeds of such a belief, and
Cleanthes had amplified and extended his
predecessor's observations; Chrysippus succeeded
them, a man of the most acute
and vivid genius; who discussed the
whole belief in, and question about
divination in two books on that
subject, and a third on oracles, and
a fourth on dreams. And he was
followed by Diogenes the Babylonian, a
pupil of his OATH, who published one
treatise on the same subject; by
Antipater, who wrote two books, and
our friend Posidonius, who wrote five. But
Pantetius, the tutor of Posidonius and
pupil of Antipater, has degenerated in
some degree from the Stoics, or at
least from the most eminent men of
that school; and yet he did not
dare absolutelyto deny that there was
a power of divina tion, but said
that he had doubts on the subject.
Now if he, aStoic, was allowed to
express a doubt on a matter very
much against the inclination of the
rest of that school, shall we not
obtain leave from the Stoics to
behave in a similar manner with respect
to other subjects'? especially when that
very question which is a matter of
doubt to Paneetius, is generally considered
a thing as clear as day to the
other philosophers of that sect. However,
this praise of the Academy has been
confirmed by the testimony and deliberate
judgment of a most admirable philosopher.
IV. Indeed, since we are ourselves
inquiring what we are to think of
divination, because Carneades maintained a
very long argument against the Stoics
with great acuteness and variety of
resource, and as we wish to be
on our guard against admitting rashly
any assertion which is incorrect, or
the truth of which is riot
sufficiently ascertained, it appears neces
sary for us to compare over and
over again the arguments on one side
with those on the other, as we
have done in the three books which
we have written on the Nature of
the Gods. For, as in every
discussion, rashness in assenting to
propositions of others, and error in
asserting such ourselves, is very
discreditable, so above all is it in
a discussion where the question for
our decision is how much weight we
are to attribute to auspices, and to
divine ceremonies, and to religion. For
there is danger lest, if we neglect
these things, we may become involved
in the guilt of blasphemous impiety,
or if we embrace them, we may become
liable to the reproach of old women's
superstition. V. Now these topics I
have often discussed, and I did so
lately with more than usual minuteness,
when I was with my brother Quintus,
in my villa at Tusculum. For when,
for the purpose of taking walking
exercise, we had come into the
Lyceum, (for that is the name of
the upper Gymnasium) — I read, said he,
a little while ago your third book
on the Nature of the Gods; in which,
although the arguments of Cotta have
not wholly changed my previous opinions,
they have undoubtedly a good deal
shaken them. You are very right to
say so, I replied; for, indeed, Cotta
himself ai'gues rather with a view to
confute the arguments of the Stoics,
than to eradicate religion from men's
minds. Then, said Quintus, that is
what Cotta himself says, and indeed he
repeats it very often; I imagine,
because he does not wish to seem
to depart from the ordinary opinions;
but still the zeal with which he
argues against the Stoics seems to
cany him on to the extent of
wholly denying the existence of the
Gods. I do not indeed think it
necessary to reply to all he says,
for religion has been sufficiently defended
in your second book by Lucilius;
whose arguments, as you say at the
end of the third book, appear to
you yourself to be much nearer to
the truth. But with reference to the
point which has been passed over in
those books, because, I presume, you
con sidered that the inquiry into it
could be carried on, and an argument
held upon it with more convenience if
it were taken separately, I mean
Divination — which is a foreknowledge and A
foretelling of those events which arc
usually considered fortuitous, — I should like
very much at this moment, if you
please, to examine what power that
science really has, and what its
character is. For my own opinion is
this; that if those kinds of
divination which we have been in the
habit of hearing of and respecting,
are real, then there are Gods; and
on the other hand that, if there
really are Gods, then there certainly
are men who are possessed of the
art of divination. You are defending, I
reply, the very citadel of the
Stoics, O Quintus, by asserting the reciprocal
dependence of these two conditions on
one another; so that if there be
such an art as divination, then there
are Gods, and if there be such
beings as Gods, then there is such
an art as divination. But neither of
these points is admitted as easily as
you imagine. For future events may
possibly be indicated by nature without
the intervention of any God; and, even
although there may be such beings as
Gods, still it is pos sible that
no such art as divination may be
given by them to the human race.
He replied, — But to me it is quite
proof enough, both that there are
Gods and that they have a regard
for the welfare of mankind, that I
perceive that there are manifest and
undeni able kinds of divination. With
respect to which, I will, if you
please, recount to you my own sentiments,
provided at least that you have
leisure and inclination to hear me,
and have nothing which you would like
in preference to this discussion. But
I, said I, my dear Quintus, have
always leisure for philosophical discussion;
but at this moment, when I have
actually nothing whatever which I wish
to do, I shall be all the more
glad to hear your sentiments on
divination. You will hear, said he,
nothing new from me, nor do I
entertain any ideas on the subject
different from the rest of the world.
For the opinion which I follow is
not only the most ancient, but that
which has been sanctioned by the
unanimous consent of all nations and
countries. For there are two methods
of divining; one dependent on art,
the other on nature. Be.!; what
nation is there, or what state, which
is not influenced by the omens
derived from the entrails of victims,
or by the predictions of those who
interpret pro digies, or strange lights,
or of augurs, or astrologers, or by
those who expound lots (for these are
about what come under the head of
art); or, again, by the prophecies
derived from dreams, or soothsayers (for
these two are considered natural kinds
of divination) ? And I think it
more desirable to examine into the
results of these things than into the
causes. For there is a certain power
and nature, which, by means of
indications which have been observed a
long time, and also by some instinct
and divine inspiration, pronounces a judg
ment on future events. So that Carneades
may well give up pressing what
Pansetius used also to insist upon,
when he asked whether it was Jupiter
who had ordained the crow to croak
on the right- hand, or the raven
on the left. For these occurrences
have been observed for an immense
series of time, and have been
remarked and noted from the signification
given to them by subsequent events.
But there is nothing which a great
length of time may not effect and
establish by the use of memory retaining
the different events, and handing them
down in durable monuments. We may
wonder at the way in which the
different kinds of herbs and roots
have been observed by physicians as
good for the bites of beasts, for
complaints of the eyes, and for
wounds, the power and nature of which
reason has never explained, but yet
both the art and inventor of these
medicines have gained iiniversal approval
from their utility. Let us also look at
those things which, though of another
kind, still have a resemblance to
divination. And often, too, the agitated
sea Gives certain tokens of impending
storms, When through the deep with
sudden rage it swells, And the
fierce rocks, white with the briny
foam, Vie with hoarse Neptune in
their sullen roar, While the sad
whistlins o'er the mountain's brow Adds
horror to the crash of the iron
coast. And all your prognostics are full
of presentiments derived from occurrences
of this sort. Who, then, can
trace back the causes of these
presentiments 1 Though, indeed, I
am aware that Boethus the Stoic has
endeavoured to do so. And indeed he
has done some good to this extent,
that he has explained the principle
of those occurrences which take place
iu the sea, or in the heaven.
But still, who has ever explained,
with any appearance of probability, why
they take place at all 1 And
the white gull, uprising from the
waves, With horrid scream foretells th'
impending storm, Straining its trembling
throat in ceaseless cry. Oft, too,
the woodlark from his chest pours
forth Notes of unusual sadness, wnking
up The morn with grievous fear and
endless plaint. When first Aurora routs
the nightly dew, Sometimes the dusky
crow runs o'er the shore, Dipping its
head beneath the rising surf.1 IX.
And we see that these signs of
the weather scarcely ever deceive us,
though we certainly do not understand
why they are so correct. You too
perceive the signs of future times,
Children of sweetest waters; and prepare
To utter warnings loud and salutary,
Rousing the springs and marshes with your
cries. Yet who could ever have
suspected frogs of having such per
ception 1 However, there is in
rivulets, and in frogs too, a certain
nature indicating something which is clear
enough by itself, but more obscure to
the knowledge of men. And cloven-footed
oxen gazing up To heaven's expense, have
often inhaled the air Laden with
moisture I do not inquire why
all this takes place, since I
am acquainted with the fact that
it does take place — The mastic, ever
green and ever laden With its rich
fruit, which thrice in every year
Doth swell to ripeness, by its triple
crop Points out three times when men
should till the earth. Here too,
again, I do not ask why this
one tree should bloom three times a
year, or why it should adapt the
proper season for ploughing the land
to the token given by its bloom.
I am content with this, that, even
if I do not know how everything
is done, I nevertheless do know what
is done. And so in respect of
every kind of divination I will answer
as I have done in the cases
which I have already mentioned. X.
Now I know what effect the root
of the scamniony has as a purgative,
and what the efficacy of the
aristolochia is in the case of bites
of serpents, (and this herb has
derived its name from its discoverer,
who discovered it in consequence o a
dream.) and that knowledge is quite
emnigh. I do not know why
these herbs are so efficacious; and
in the same way I do not know
on what principle the omens which we
draw from the signs furnished to us
by the winds and storms proceed; but
I do know, and arn certain of,
and thankful for their power, and the
results which flow from it. Again,
in 1 All these predictions are
translated by Cicero from Aratus. the
same way I know what is indicated
by a fissure in the entrails of
a victim, or by the appearance of
the fibres; but what the cause is
that these appearances have this meaning
I know not. And life is full of
such things ; for nearly every one
has recourse to the entrails of
animals. Need I say more 1 Is
it possible for any one to doubt
about the power of thunder-storms ?
Is not this too one of the most
marvel lous of marvellous things ? When
Summanus,1 which was a figure made of
clay, standing on the top of the
temple of the all-powerful and all-good
Jupiter, was struck by lightning, and
the head of the statue could not
be found anywhere, the soothsayers said
that it had been thrown down into
the Tiber, and it was found in
that very place which had been
pointed out by the soothsayer.But who is
there to whom I may more fitly
appeal as an authority and as a
witness than you yourself? For I have
learnt the verses, and that with
great pleasure, which the muse Urania
pronounces in the second book of your
" Con sulship " — See how
almighty Jnve, inflamed and bright, With
heavenly fire fills the spacious world,
And lights up heaven and earth with
wondrous rays Of his divine intelligence
and mind ; Which pierces all the inmost
sense of men, And vivifies their
souls, hold fast within The boundless
caverns of eternal air. And would
you know the high sublimest paths
And ever revolving orbits of the stars,
And in what constellations they abide, —
Stars which the Greeks erratic falsely
call, For certain order and fixed
laws direct Their onward course ;
then shall you learn that all Is
by divinest wisdom fitly ruled. For
when you ruled the state, a consul
wise, You noted, and with victims
due approach'd, Propitiating the rapid
stars, and strange Concurrence of the
fiery constellations. Then, when you
purified the Alban mount, And celebrated
the great Latin feast, Bringing pure
milk, meet offering for the gods,
You saw fierce comets bright and quivering
With light unheard of. In the
sky you saw 1 This is usually
understood to have been a statue of
Pluto. The new consuls used to
celebrate the Ferioe Latinaj on
the Albanus Mons. Fierce wars and
dread nocturnal massacre That Latin feast
on mournful days did fall, When the
pale moon with di m and muffled
light Conceal'd her head, and fled,
and in the midst Of starry night
became invisible. Why should I say
how Phoebus' fiery beam, Sure herald
of sad war, in mid-day set, Hastening
at undue season to its rest, Or
how a citizen struck with th' awful
bolt, Hurl'd by high Jove from out
a cloudless sky, Left the glad light
of life; or how the earth Quaked
with affright and shook in every part
? Then dreadful forms, strange visions
stalk d abroad, Scarce shrouded by
the darkness of the night,And wam'd
the nations and the land of war.
Then many an oracle and augury,
Pregnant with evil fate, the soothsayers
Pour'd from their agitated breasts.
And e'en The Father of the Gods
fill'd heaven and earth With signs,
and tokens, and presages sure Of all
the things which have befallen us
since. XII. So now the year when
you are at the helm, Collects upon
itself each omen dire, Which when
Torquatus, with his colleague Gotta, Sat
in the curule chairs, the Lydian seer
Of Tuscan blood breathed to affrighted
Borne. For the great Father of the
Gods, whose home Is on Olympus'
height, with glowing hand Himself attack'd
his sacred shrines and temples, And
hurl'd his darts against the Capitol.
Then fell the brazen statue, honour'd
long, Of noble Natta ; then fell down
the laws Graved on the sacred tablets
; while the bolts Spared not the
images of the immortal gods. Here was
that noble nurse o' the Roman name,
The Wolf of Mars, who from her
kindly breast Fed the immortal children
of her god With the life-giving dew
of sweetest milk. E'en her the
lightning spared not; down she fell.
Bearing the royal babes in her
descent, Leaving her footmarks on the
pedestal.1 1 Great interest is attached
to this passage by antiquaries, from
the fact of there being a bronze
statue still at Home of a wolf
suckling two children, with manifest marks
of lightning on it, which is believed
to be the very statue here mentioned
by Cicero, and also in his third
Oration asrainst Catiline, c. viii. ; it
is described by Virgil too : —
Fecerat et viridi foetam Mavorf is in
antro Procubuisse lupam; geminos huic ubcra
circum [Ludere And who, unfolding records
of old time, Has found no words
of sad prediction In the dark pages
of Etruscan books ] — All men, all
writings, all events combined, To warn
the citizens of freeborn race Ludere
pendentes pueros, et lambere matrem
Impavidos; ilhun tereti cervice reflexam Mulcere
alternos et corpora fingere linguiL — jEn. The
cave of Mars was dress'd with mossy
greens ; There by the wolf were
laid the martial twins; Intrepid, on her
swelling dugs they hung, The foster-dam
loll'd out her fawning tongue ; They
suck'd secure, while bending back her
head, She lick'd their tender limbs,
and form'd them as they fed. Dryden,
^En. The statue in its present state
is beautifully described by Byron :And
thou the thunder-stricken nurse of Rome,
She-wolf ! whose brazen imaged dugs
impart The milk of conquest yet
within the dome, Where, as a monument
of antique art, Thou standest, mother
of the mighty heart, Which the great
founder suck'd from thy wild teat,
Scorch'd by the Roman Jove's ethereal
dart, And thy limbs black with
lightning, — dost thou yet Guard thy
immortal cubs, nor thy fond charge
forget] Thou dost— but all thy foster-babes
are dead, The men of iron ; and
the world hath rear'd Cities from out
their sepulchres. —Childe Harold, book iv.
It may not be out of place
here, to set before the reader the
beautiful description, in the first
Georgic, of the prodigies which happened
at Rome on the death of Cresar : —
Denique quid vesper serus vehat. unde
serenas Ventus agat nubes, quid cogitet
humidus Auster, Sol tibi signa dabit :
Solem quis dicere falsum Audeat? ille
etiam csecos instare tumultus Saspe monet,
fraudemque, et aperta tumescere bella ;
Ille etiam extincto miseratus Caesare Romam
Cum caput obscurS, nitidum ferrugine texit
Impiaque rcternam timuerunt sajcula noctem,
Tempore quanquam illo tellus quoque et
aequora ponti, Obsccenique canes, importunaeque
volucres Signa dabant : quoties Cyclopum
effervere in auras Vidimus undantem rnptis
fornacibus Etnam, Flammarumque globos liquef'actaque
volvere saxa. Armorum sonitus toto
Germania coe'.o Audiit; insolitis tremuerunt
motibus Alpes. [Vox To dread
impending wars of civil strife, And
wicked bloodshed ; when the laws
should fall In one dark rain,
trampled and o'erthrown: Then men were
warn'd to save their holy shrines,
The statues of the irods, their city
and lands, Vox quoque per lucos
vulgo exaudita recentes Ingens, ei
simulacra rnodis pallentia miris Visa sub
obscurum noctis ; pecudesque locutae, Infandum
! sistunt amnes terrseque dehiscunt Et
moestum illacryinat templis ebur, oeraque
sudant: Proluit insano contorquens vertice
sylvas Pluviorum Rex Eridanus ; camposque
per omnes Cum stabulis armenta trahit ;
nee tempore eodcm Tristibus aut extis
fibrae apparere minaces Aut puteis manare
cruor cessavit, et alte Per noctcm
resonare lupis ululautibus urbe? ; Non
alias coilo cecidcruut plura sereno
Fulgura, nee diri toties arsere cometae ;
Ergo, etc. — Virgil, Georg. i. 488.
Which is translated by Dryden : —The Sun
reveals the secrets of the sky, And
who dares give the source of light
the lie? The change of empires he
oft declares, Fierce tumults, hidden
treasons, open wars; He first the
fate of Caesar did foretell, And pitied
Rome when Rome in Caesar fell : In
iron clouds conceal'd the public light,
And impious mortals fear'd eternal night.
Nor was the fact foretold by him
alone, Nature her-elf stood forth and seconded
the Sun. Earth, air, and seas with
prodigies were sign'd, And birds obscene
and howlin g dogs divin'd. What rocks
did ^Etna's bellowing mouth expire From
her torn entrails, and what floods of
fire ! What clanks were heard in
German skies afar, Of arms and armies
rushing to the war ! Dire earthquakes
rent the solid Alps below, And from
their summits shook th' eternal snow;
Pale spectres in the close of night
were seen, And voices heard of more
than mortal men. In silent groves
dumb sheep and oxen spoke ; And
streams ran backward, and their beds
forsook ; The yawning earth disclosed
th' abyss of hell, The weeping
statues did the wars foretell, And
holy sweat from brazen idols fell.
Then rising in his might the king
of floods Uush'd through the forests,
tore the lofty woods; And rolling
onward with a sweepy sway, Bore
houses, herds, and labouring hinds away.
Blood From slaughter and destruction,
and preserve Their ancient customs
unimpair'd and free. And this kind
hint of safety was subjoin'd, That
when a splendid statue of great
Jove,1 In godlike beauty, on its base
was raised, With eyes directed to
Sol's eastern gate ; Then both the
senate and the people's bands, Duly
forewarn'd, should see the secret plots
Of wicked men, and disappoint their
spite. This statue, slowly form'd and
long delay 'd, At length by you, when
consul, has been placed Upon its holy
pedestal ; — 'tis now That the great
sceptred Jupiter has graced His column,
on a well-appointed hour : And at
the self-same moment faction's crimes
Blood sprang from wells; wolves howl'd
in towns by night; And boding victims
did the priests affright. Such peals
of thunder never pour'd from high, Nor
forky lightnings flash'd from such a
sullen sky : Red meteors ran across
the ethereal space ; Stars disappear'd,
and comets took their place. Which
Shakspeare has imitated with reference to
the same event : Cal. Caesar, I never
stood on ceremonies, Yet now they
fright me: there is one within,
Besides the things that we have heard
and seen, Recounts most horrid sights
seen by the watch: A lioness hath
whelped in the streets, And graves
have yawn'd and yielded up their
dead. Fierce, fiery warriors fight upon
the clouds, In ranks and squadrons
and right form of war, Which
drizzled blood upon the Capitol: The noise
of battle hurtled in the air; Horses
did neigh, and dying men did groan;
And ghosts did shriek and squeak t
the streets. O Caesar, these things
are beyond all use, And I do
fear them When beggars die there are
no comets seen ; The heavens
themselves blaze forth the death of
princes. Cats. What say the augurers?
Serv. They would not have you to
stir forth to-day. Plucking the entrails
of an offering forth, They could not
find a heart within the beast. 1
This refers to the column meant to
serve as a pedestal for the statue
of Jupiter, mentioned in the second
book of this treatise, and also in
the second oration against Catiline, as
having been ordered in the consulship
of Torquatus and Cotta, but not
completed till the year of Cicero's
consulship. Were by the loyal Gauls
reveal'd and shown To the astonish'd
multitude and senate. XIII. Well
then did ancient men, whose monuments
You keep among you,—they who will
maintain Virtue and moderation ; by these
arts Ruling the lands an<l people
subject to them: Well, too, your holy
sires, whose spotless faith, And piety,
and deep sagacity Have far surpass'd
the men of other lands, Worshipp'd in
every age the mighty Gods. They with
sagacious care these things foresaw,
Spending in virtuous studies all their
leisure, And in the shady Academic
groves, And fair Lyceum : where they
well pour'd forth The treasures of
their pure and learned hearts. And,
like them, you have been by virtue
placed, To save your country, in the
imminent, breach ; Still with philosophy
you soothe your cares, With prudent
care dividing all your hours Between
the Muses and your country's claims.
Will you then be able to persuade
your mind to speak against the
arguments which I adduce on the
subject of divination, you being a
man who have performed such exploits
as you have done, and who have
so admirably com posed those verses
which I have just recited 1 What — do
you ask me, Carneades, why these
things take place in this manner, or
by what art it is possible for
them to be brought about ? I
confess that I do not know ; but
that they do happen, I assert that
you yourself are a witness. Yes, they
happen by chance, you say. Is it
so 1 Can anything be done by
chance which has in itself all the
features of reality ? Four dice when
thrown may by chance come up sixes.
Do you think that if you were
to throw four hundred dice it would
be possible for them all to come
up sixes by any chance in the
world 1 Paints scattered at random on
a canvass may by chance represent the
features of a human face ; but do
you think that you could by any
chance scat tering of colours represent
the beauty of the Coan Venus'?1
Suppose a pig by burrowing in the
ground with his snout were to make
the letter A, would you on that
account think it possible that the
animal should by chance write out the
Andromache of Ennius 1 Carneades used
to tell a story that 1 This
refers to the celebrated picture of
Venus Anadyomene, painted by Apelles, who
was a native of Cos. in
cutting stones in the stone- quarries at
Chios, there was once discovered a
natural head of a Pan. I dare
say there may have been a figure
not wholly unlike such a head, but
still certainly it was not such that
you could fancy it wrought by
Scopns.1 For this is the nature of
things, that chance can never imitate
reality to perfection. But, you will
say, things which have been predicted
sometimes fail to happen. What act is
not liable to this observation 1 I
mean of those acts which proceed on
con jecture, and are founded on
opinion. Is not medicine to be
considered a real art ? And yet
how often is it deceived ! Need
I say more 1 Are not pilots of
ships often deceived? Did not the
army of the Greeks, and the captains
of all that numerous fleet, depart
from Troy, as Pacuvius says — So
glad at their departure, that they
gazed In idle mirth upon the wanton
fish, And never ceased from laughing
at their gambols ; Meanwhile at
sunset the vast sea grows rough, The
darkness lowers, black night and clouds
surround them. Did, however, the shipwreck
of so many illustrious generals and
sovereigns prove that there was no
such art as naviga tion ? Or
is the science of generals good for
nothing because a most illustrious general
was lately put to flight, after the
total loss of his army 1 Or are
we to say that there is no room
for the display of sound principles
of politics, or wis dom in the
administration of affairs of state, because
Cnseus Ponipeius was often .deceived, and
even Cato and you your self have
been deceived in more instances than
one? The same rule applies to
the answers of soothsayers, and to
all divination which rests on opinion
: for it depends wholly on
conjecture, and has no means of
advancing further. And that perhaps
sometimes deceives us, but still it
more fre quently directs us to the
truth. For it is traced back
to all eternity. And as in the
infinite duration of time, things have
happened in an almost countless number
of ways with the self-same indications
preceding each occurrence, an art has
1 Scopas was a Parian, nourishing. He
was one of the greatest architects
and sculptors of antiquity, and is
mentioned as such by Horace, who
says: — Divite me scilicet artium Quas
aut Parrhasius protulit aut Scopas, Hie
saxo, liquidis ille colorilius Solera nunc
hominem nonere mmr. TV « been concocted and
reduced to rules from a frequent
obser vation and notice of the same
circumstances. But your auspices, how clear — how
sure they are ! which at this time
are known nothing of by the Roman
augurs, (excuse me for saying this so
plainly,) though they are main tained
by the Cilicians, Pamphylians, Pisidians,
and Lycians. For why should I mention
that man connected with us in ties of
hospitality, that most illustrious and
excellent ^man, king Deiotarus 1 He
never does anything whatever without taking
the auspices. And it happened once
that he had started on a journey
which he had arranged and determined
some time before; but, being warned
by the flight of an eagle, he
returned back again, and the very
next night the house in which he
would have been lodging if he had
per sisted in his journey, fell to
the ground. And he was so moved
by this occurrence, that, as he
himself used to tell me, he often
turned back in the same way in
a journey, even when he had advanced
many days on it. And what is
most remarkable in his conduct is,
that after he had been deprived by
Csesar of his tetrarchy, his kingdom,
and his property, he still asserted
that he did not repent of obeying
those auspices which had promised success
to him when he was setting out
to join Pompey: for he considered
that the authority of the senate, and
the liberty of the Roman people, and
the dignity of the empire had been
upheld by his arms; and that those
birds had taken good care of his
honour and real interests, inasmuch as
they had been his counsellors in
adhering to the claims of good faith
and duty ; for that character was a
thing dearer to him than his
possessions. . And in saying this he
seems to me to form a very just
estimate. For our magis trates at
times use compulsion. For it is quite
impossible, if a cake is thrown down
before a chicken, but what some
crumbs must fall out of his mouth
when he feeds. And as you have
it set down in your books that
a tripudium takes place if any of
the food falls on the ground, so
you also call this compulsory augury
which I have spoken of tripudium solistimum.1
And so, as that wise Cato complains,
owing to i "Tripudium, from
terripavium (Cic Div.), a stamping on
the ground In divination, tripudium, or
tripudium solistimum, when- the birds
(pulli) ate so greedily that the food
fell from their mouths, and so
rebounded on the ground, which was
regarded as a good omen." — Riddle
and Arnold, Lat. Diet. the negligence
of the college, many auguries and
many auspices have been wholly lost
and abandoned. Formerly there was, I
may almost say, no ariair of
importance, not even if it only
related to private business, which was
transacted \vithout taking the auspices.
And this is proved even now by
the Auspices Nuptiarum, who, though the
custom has fallen into disuse, still
preserve the name. For just as we
now consult the entrails of victims,
though even that very practice is
observed less now than it used to
be, so in ancient times, before all
transactions of importance, men used to
consult birds; and, therefore, from want
of paying proper regard to ill omens,
we often run into alarming and
destructive dangers : — as Publius Claudius,
the son of Appius Csecus, and his
colleague Lucius Junius, lost a fine
fleet, because they had put to sea
in defiance of the omens. And,
indeed, something of the same kind
befel Agamemnon; for he, when the
Grecians had begun To murmur loudly,
and with open scorn T' asperse the
skill of th' holy soothsayers, Bade
the crew bend the sails and put to
sea, Choosing the people's voice before
the omens. But why need we look
for old examples of this 1 We
have ourselves seen what happened to
Marcus Crassus, because he neglected the
notice which was given to him that
the omens were unfavourable. On which
occasion, Appius, your col league, a
good augur, as I have often heard
you say, branded, when he was censor,
an excellent man and a most
illustrious citizen, Caius Ateius, without
sufficient consideration, because he had
cooperated in falsifying the auspices.
However, let that pass. It may have
been the duty of the censor to
do so, if he thought that the
auspices were falsified. But it certainly
was not the duty of an augur to
set down in the books that this
was the cause of a fearful calamity
befalling the Roman people. For even
if that was the cause of the
calamity, still the fault was not in
the man who announced the state of
the auspices, but in him who
disregarded the announcement. For that the
announcement wTas a correct one, as
the same augur and censor bears
witness, was proved by the event; for
if the announcement had been false,
it could not possibly have caused any
calamity at all. In truth, prognostics of calamity,
like other auspices, and omens, and
tokens, do not produce causes why
anything should happen, but merely give
notice of what will happen unless you
pro vide against it. It was not,
therefore, the announcement of unfavourable
omens, made by Ateius, which was the
cause of calamity; all that he did
was, by declaring to him what signs
had been seen, to warn him what
would happen if he did not take
precautions against it. Accordingly, either
that announcement had no effect at
all, or else if, as Appius thinks,
it had an effect, the effect was
this, that guilt was attached, not to
the man who gave the warning, but
to him who did not attend to
it. What shall I say more 1 From
whence have you received that staff
(lituus) of yours, which is the most
cele brated ensign of your augurship
? That is the staff with which
Komulus parted out the several districts,
when he founded the city. And that
staff of Romulus, (that is to say,
a stick curved and slightly bent forward
at the top, which has derived its
name from its resemblance to the trumpet
(lituus) used in sounding signals,) having
been laid up in the meeting-house of
the Salii, which was in the Pala
tine-hill, when that house was burnt
to the ground, was found unhurt. What
more need I say 1 Who of the
ancient authors is there who does not
relate what an arrangement of the
districts of the city was made, many
years after the time of Romulus, in
the reign of Tarqninius Priscus, by
Attius Xavius, who employed his staff
in this manner ? And it is said
that he, when a boy, was forced
through poverty to act as a
swineherd; and one day, having lost
one of his pigs, he made a vow
that if he recovered it, he would
give the god the finest grape which
there was in the whole vineyard.
Accordingly, when he had found the
pig, he placed himself in the middle
of the vineyard, with his eyes
directed towards the south; and after
he had divided the vineyard into four
divisions, and had been directed by
the birds to disregard three of the
portions, in the fourth division, which
remained, he found a grape of most
wonderful size, as we find recorded
in our books. And when this fact
became known, all the neighbours used
to consult him on all their affairs,
until he. gained a great name and
reputation ; in consequence of which
kin<r Priscus sent for him. And
when he had come to the king,
he, wishing to make proof of his
skill in augury, told him that he
was thinking of something, and asked
him whether it could possibly be
done. He, having taken an auguiy,
answered that it could. But Tarquin
said that he had been thinking that
it was possible that a whetstone
might be cut through by a razor.
On this Attius bade him try ; and
accordingly a whetstone was brought into
the assembly, and, in the sight of
king and people, cut through with a
razor. And in consequence of this, it
happened that Tarquinius always consulted
Attius Navius as an augur, and that
the people also were used to refer
their private affairs to him. And we
are told that that whetstone and that
razor were buried in the comitium,
and that the puteal was built over
it. Let us deny everything; let us
burn our annals; let us say that
all these statements are false ; let
us, in short, confess everything rather
than that the Gods regard the affairs
of mankind. What 1 do not even
your writings about Tiberius Gracchus
sanction the theories df augurs ami
haruspices 1 For when he had
unintentionally erected a tent to take
the auspices informally, because he had
crossed the pomcerium without taking the
auspices, he held there the comitia
for the election of the consuls. (The
matter is one of notoriety, and
committed to writing by you yourself.)
However, Tiberius Gracchus, who was himself
an augur, ratified the authority of
the auspices by a confession of his
error, and added great authority to
the sj'steui of the harus pices ;
who, having at the recent comitia
been introduced into the senate, asserted
that the person who proposed the
candi dates to the comitia had no
right to do so. I therefore agree
with those authors who have asserted
that there are two kinds of
divination; one par taking of art,
and the other wholly devoid of it.
For art is visible in those persons
who pursue anything new by conjec
ture, and have learnt to judge of
what is old by observation. But those
men, on the other hand, are devoid
of art, who give way to presentiments
of future events, not proceeding by reason
or conjecture, nor on the observation
and considera tion of particular signs,
but yielding to some excitement of
mind, or to some unknown influence
subject to no precise rules or
restraint, (as is often the case with
men who dream, and sometimes with
those who deliver predictions in n
frenzied manner,) as Bacis' of Boeotia,
Epimenides2 the Cretan, and the Erythrean
Sib}'!. And under this head we ought
also to rank oracles; not those which
are drawn by lot, but those which
are uttered under the influence of
some divine instinct and inspiration.
Although even lots are not to be
despised where they are sanctioned by
the authority of antiquity, like those
which we are told used to rise
out of the earth ; which, however,
are drawn in such a manner as
to be apposite to the subject under
consideration, which, indeed, is a thing
that I conceive to be very possible
by divine management. The interpreters of
all of which appear to me to
come very near to the divining power
of those whose interpreters they are
(just as those grammarians do who are
the interpreters of poets). What proof
of sagacity is it, then, to wish
to disparage things sanctioned by
antiquity, by vile calumnies ? I
admit that I cannot discover the
cause. Perhaps it lies hid, involved
in the obscurity of nature. For God
has not int nded me to understand
these matters, but only to use them.
I will use them, then ; nor will
I be persuaded to think, either that
all Etruria is mad on the subject
of the entrails of victims, or that
the same nation is all wrong about
lightnings, or that it interprets prodigies
fallaciously, when it has often happened
that sub terranean noises and crashes,
often that earthquakes, have predicted,
with terrible truth, many of the
evils which have befallen our own
republic and other states. Why should
I say more ? The fact of a
mule having brought forth is much
ridiculed by some people; but because
this parturition did take place in
the case of an animal of natural
barrenness, was there not an incredible
crop of evils predicted by the
soothsayers 1 Need I go further 1
Did not Tiberius Gracchus, the. son of
Publius Gracchus, who had been twice
consul and censor, and who was also
an augur of the 1 Bacis was
believed to have lived and prophesied
at Heleon, in Bceotia, being inspired
by the nymphs of the Corycian cave.
Some of hjs prophecies are given
us by Herodotus (See also
Aristophanes, Eq.; Pax) Epimenides was a
poet and prophet of Crete. He was
sent for by the Athenians to purify
Athens when it was visited by a
plague, in consequence of the sacrilege
of Cylon. He is said to have
lived to a great age.highest skill
and reputation, and a wise man, and
a most virtuous citizen, — did not he
(as Caius Gracchus, his son, has left
recorded in his writings), when two snakes
were caught in his house, convoke the
soothsayers ? And the answer which
they gave him was, that if he
let the male escape, his wife would
die in a short time ; but if he
let the female escape, he would die
himself: on which he thought it more
becoming to encounter an early death
himself, than to expose the youthful
daughter of Publius Africanus to it.
Accordingly, he released the female snake,
and died himself a few days afterwards.
Let us, after this, laugh at the
soothsayers; let us call them useless
and triflers, and despise those men
whose principles the wisest men, and
subsequent events and occur rences, have
often proved. Let us despise also the
Baby lonians, and those who on mount
Caucasus observe the stars of heaven,
and follow all their revolutions in
regular number and motion. Let us,
say I, condemn all those people for
folly, or vanity, or impudence, who,
as they themselves assert, have exact
records for four hundred and seventy
thousand years carefully noted down, and let
us decide that they are telling lies,
and have no regard as to what
the judgment of future ages concerning
them will be. Come, then, you vain
and deceitful barbarians, has the history
of the Greeks likewise spoken falsely?
Who is ignorant of the answer (that
I may speak at present of natural
divination) which the Pythian Apollo gave
to Croesus, to the Athenians, the
Lacedaemonians, the Tegeans, the Argives,
and the Corinthians? Chrysippus has
collected a countless list of oracles — not
one without a witness and authority
of sufficient weight; but as they are
known to you, I will pass them
over. This one I will mention and
defend. Would that oracle at Delphi
have ever been so celebrated and
illustrious, and so loaded with such
splendid gifts from all nations and
kings, if all ages had not had
experience of the truth of its predic
tions 1 At present, you will say,
it has no such reputation. Granted,
then, that it has a lower reputation
now, because the truth of oracles is
less notorious; still I affirm that
it would not have had such a
reputation then, if it had not been
distinguished for extraordinary accuracy. But
it is possible that that power in
the earth, which excited the mind of
the Pythian priestess by divine
inspiration, may have disappeared through old
age, just as we know that some
rivers have dried up, or become
changed and diverted into another channel.
However, let it be owing to whatever
you please; for it is a great
question: only let this fact remain
—which cannot be denied, unless we
will overthrow all his tory—that that
oracle told the truth for many ages.
However, let us pass over the oracles;
let us come to dreams. And Chrysippus
discussing them, after collecting many
minute instances, does the same that
Antipater does when he investigates this
subject, and those dreams which were
explained according to the interpretation
of Antipho, which indeed prove the
acuteness of the interpreter, but still
are not examples of such importance
as to have been worthy of being
brought forward. The mother of Dionysius—
of that Dionysius, I mean, who was
the tyrant of Syracuse, as it is
recorded by Philistus, a man of
learning and diligence, and who was a
contem porary of the tyrant— when she
was pregnant with this very Dionysius,
dreamt that she had become the mother
of a little Satyr. The interpreters
of prodigies, who at that time were
in Sicily called Galeotse, gave her
for answer when she con sulted them
about it, (according to the story
told by Philistus,) that the child
whom she was about to bring forth
would be the most illustrious man of
Greece, with very lasting good fortune.
Am I recalling you to the fables
of the Greek poets and those of
our country? For the Vestal Virgin,
in Ennius, says — The agitated dame
with trembling limbs Brings in a
lamp, and with unbridled tears, Starting
from broken sleep, pours forth these
words :• 0 daughter of the fair
Eurydice, You whom rny father loved,
see strength and life Desert my
limbs, and leave me helpless all. 1
thought I saw a man of handsome
form Seize me, and bear me through
the willow groves, Along the river
banks and places yet unknown. And then
alone, — T tell you true, my sister, —
I seem'd to wander, and with tardy
steps To seek to trace you, but
my efforts fail'd; While no clear
path did guide my doubtful feet. And
then, I thought, my father thus
address'd me, With evil-boding voice : —
Alas ! my daughter, What numerous woes
by you must be endured ; Though
fortune shall in after times arise
From out of the waters of this river
here. Thus, sister, spake my father,
and then vanish'd • 2STor, though
much wish'd for, did he once return!
In vain, with many tears, I raised
my hands Up to the azure vault
of the highest heaven, And with
caressing voice invoked his name, Or
seem'd to do so. And 'twas
long ere sleep, Freighted with such
sad dreams, did quit my breast. Now
these accounts, though they perhaps may
be the mere inventions of the poets,
still are not inconsistent with the
general character of dreams. We may
grant that that is a fictitious one
by which Priam is represented to have
been disturbed : — Queen Hecuba dream'd —
an ominous dream of fate- That she
did bear no human child of flesh,
But a fierce blazing torch. Priam,
alarm'd, Ponder'd with anxious fear the
fatal dream ; And sought the gods
with smoking sacrifice. Then the diviner's
aid he did entreat, With many a
prayer to the prophetic god, If haply
he might learn the dream's intent.
Thus spake Apollo with all-knowing mind
:— " The queen shall have a
son, who, if he grow To man's
estate, shall set ajl Troy in flames—
The ruin of his city and his
land." Let us grant, then, that
these dreams are, as I have said,
merely poetic fictions, and let us
add the dream of ^Eneas, which
Numerius Fabius Pictor relates in his
Annals, as one of the same kind;
in which ^Eneas is represented as
foreseeing, in his trance, all his
future exploits and adventures. But let
us come nearer home. What kind of
dream was that of Tarquin the Proud,
which the poet Accius, m his Tragedy
of Brutus, puts into the mouth of
Tarquin himself? — Sleep closed my weary
eyelids, when a shepherd Brought me
two rams. The one 1 sacrificed;
The other rushing at me with wild
force Hurl'd me upon the ground.
Prostrate I gazed Upon the heavens,
when a new prodigy Dazzled my eyes.
The flashing orb of day Took
a new course, diverging to the right,
With all his kindling beams strangely
transversed. Of this dream the diviners
gave the following interpretation Dreams
are in general reflex images Of
things that men in waking hours have
known; But sometimes dreams of loftier
character Rise in the tranced soul,
inspired by Jove, Prophetic of the
future. Then beware Of him, whom thou
dost think as stupid as The ram
thou dreamest of. For in his
breast Dwells manliest wisdom. He
may yet expel Thee from thy kingdom.
Mark the prophecy : That change
in the sun's course thou didst
behold, Betoken'd revolution in the state,
And as the sun did turn from
left to right, we predict So shall
that revolution meet success. Let us
again return to foreign events. Heraclides
of Pontus, an intelligent man, who
was one of Plato's disciples and
followers, writes that the mother of
Phalaris fancied that she saw in a
drearn the statues of the gods whom
Phalaris had consecrated in his house.
Among them it appeared to her that
Mercury held a cup in his right
hand, from which he poured blood,
which as soon as it touched the
earth gushed forth like a fresh
fountain, and filled the house with
streaming gore. The dream of the
mother was too fatally realized by
the cruelty of the son. Why need
I also relate, out of the history
of Persia by Dinon, the interpretations
which the Magi gave to the cele
brated prince, Cyrus? For he dreamed
that beholding the sun at his feet,
he thrice endeavoured to grasp it in
his hands, but the sun rolled away
and departed, and escaped from him.
The Magi (who were accounted sages and
teachers in Persia) thus interpreted the
dream, saying, that the three attempts
of Cyrus to catch the sun in his
hands, signified that he would reign
thirty years ; and what they predicted
really came to pass ; for he was
forty years old when he began to
reign, and he reached the age of
seventy. Among all barbarous nations,
indeed, we meet with proof that they
likewise possess the gift of divination
and presentiment. The Indian Calanus, when
led to execution, said, while ascending the
funeral pile, " 0 what a
glorious departure from life ! when, as
happened to Hercules , after niy body
has been consumed by fire, my soul
shall depart to a world of
light." And when Alexander asked him
if he had anything to say to
him ; " Yes," replied he,
".we shall soon meet again ;"
and this prophecy was soon fulfilled,
for a few days afterwards Alexander
died in Babylon.' I will quit the subject
of dreams for awhile, and return to
them presently. On the very night
that Olympias was delivered of Alexander,
the temple of Diana of the Ephesiaus
was burned ; and when the morning
dawned, the Magi declared that the
ruin and destroyer of Asia had been
born that night. So much for the
Magi and the Indians. Now let us return
to dreams. Ccelius relates that Hannibal,
wishing to remove a golden column
from the temple of Juno Lacinia, and
not knowing whether it was solid gold
or merely gilt, bored a hole in
it ; and as he had found it
solid, he determined to take it away.
But the following night Juno appeai-ed
to him in a dream, and warned
him against doing so, and threatened
him that if he did, she would
take care that he should lose an
eye with which he could see well.
He was too prudent a man to neglect this threat ; and therefore,
of the gold which had been abstracted
from the column in boring it, he
made a little heifer, which he fixed
on the capital. And the same story
is told in the Grecian history of
Silenus, whom Ccelius follows. And he
was an author who was particularly
diligent in relating the exploits of
Hannibal. He says that when Hannibal
had taken Saguntum, he dreamed in his
sleep that he was summoned to a
council of the gods, and that when
he arrived at it, Jupiter commanded
him to carry the war into Italy,
and one of the deities in council
was appointed to be his conductor in
the enterprise. He therefore began his
march under the direction of this
divine protector, who enjoined him not
to look behind him . Hannibal, however,
could not long keep in his obedience,
but yielded to a great desire to
look back, when he immediately beheld
a huge and terrible monster, surrounded
with ser pents, which, wherever it
advanced, destroyed all the trees, and
shrubs, and buildings. He then, marvelling
at this, inquired of the god what
this monster might mean ; and the
god replied, that it signified the desolation
of Italy ; and com manded him to
advance without delay, and not to
concern himself with the evils that
lay behind him and in his rear.
In the history of Agathocles it is
said, that Hamilcar the Carthaginian, when
he was besieging Syracuse, dreamed that
he heard a voice announcing to him,
that he -should sup on the succeeding
day in Syracuse. When the morning
dawned a great sedition arose in his
camp between the Carthaginian and Sicilian
soldiers. And when the Syracusans found
this out, they made a vigorous sally
and attacked the camp un expectedly,
and succeeded in making Hamilcar prisoner
while alive, and thus his dream was
verified. All history is full of
similar accounts; and the experience of
real life is equally rich in them.
That illustrious man, Publius Decius, the
son of Quintus Decius, the first of
the Decii who was a consul, being
a military tribune in the consulship
of Marcus Valerius and Aulus Cornelius,
when our army was sorely pressed by
the Samnites, and being accustomed to
expose himself to great personal danger in
battle, was warned to take greater
care of himself; on which he replied
(as our annals report), that he had
had a dream, which informed him that
he should die with the greatest
glory, while engaged in the midst of
the enemy. For that time he succeeded
in happily rescuing our army from the
perils that surrounded it. But three
years after, when he was consul, he
devoted himself to death for his
country, and threw himself armed among
the ranks of the Latins; by which
gallant action the Latins were defeated and destroyed: and his death was so
glorious that his son desired a similar fate.But let us now come, if you
please, to the dreams of philosophers. We read in Plato that
Socrates, when he was in the public
prison at Athens, said to his friend
Crito that he should die in three
day, for that he had seen in a
dream a woman of extreme beauty who
called him by his name, and quoted in
his presence this verse of HomerOn
the third day you'll reach the
fruitful Phthia." 1 And it is
said that it happened just as it
had been foretold. Again, what a
man, and how great a man, is
Xenophon the pupil of Socrates! He,
too, in his account of that war
in which he accompanied the younger
Cyrus, relates the dreams which he
sawthe accomplishment of which was
marvellous. Shall we then say that
Xenophon was a liar or dotard ?
What shall we say, too, of Aristotle,
a man of singular and almost divine
genius? Was he deceived himself, or
does he wish others to be deceived,
when he informs us that Eudemus of
Cyprus, his own intimate friend, on
his way to Macedonia, came to Pherae,
a celebrated city of Thessaly, 1
Horn. :"Hfjari Kfv rpirdrca $0ii)v
tpi$ta\ov IKO(U.TIV. which was then under
the cruel sway of the tyrant
Alexander. In that town he was seized
with a severe illness, so that he
was given over by all the physicians,
when he beheld in a dream a
young man of extreme beauty, who
informed him that in a short time
he should recover, and also the
tyrant Alexander would die in a few
days; and that Eudemus himself would,
after five years' absence, at length
return home. Aristotle relates that the
first two predictions of this dream
were immediately accomplished; for Eudemus speedily
recovered, and the tyrant perished at
the hands of his wife's brother ;
and that towards the end of the
fifth year, when, in consequence of
that dream, there was a hope that
he would return into Cyprus from
Sicily, they heard that he had been
slain in a battle near Syracuse ;
from which it appeared that his dream
was susceptible of being interpreted as meaning,
that when the soul of Eudemus had
quitted his body, it would then
appear to have signified the return
home. To the philosophers we may add
the testimony of Scpho- cles, a most
learned man, and as a poet quite
divine, who, when a golden goblet of
great weight had been stolen from the
temple of Hercules, saw in a dream
the god himself appearing to him, and
declaring who was the robber. Sopho
cles paid no attention to this
vision, though it was repeated more
than once. When it had presented
itself to him several times, he
proceeded up to the court of
Areopagus, and laid the matter before
them. On this, the judges issued an
order for the arrest of the offender
nominated by Sophocles. On the application
of the torture the criminal confessed
his guilt, and restored the goblet; from which event
this temple of Hercules was afterwards called the temple of Hercules the
Indicate. But why do I continue to cite the Greeks? when, somehow or other, I
feel more interest in the examples of my ellowcountrymen. All our
historians,the Fabii, the Gellii, and, more
recently, Ccelius, bear witness to similar
facts. In the Latin war, when they
first celebrated the votive games in
honour of the gods, the city was
suddenly roused to arms, and the games
being thus interrupted, it was necessary
to appoint new ones Before their commencemen,however,
just as the people had taken their
places in the circus, a slave who
had been beaten with rods was led
through the circus, bearing a gibbet.
After this event, a certain Roman
rustic had a dream, in which an
apparition informed him that he had
been displeased with the president of
the games, and the rustic was ordered
to apprise the senate of that fact.
He, however, did not dare to do
so; on which the apparition appeared a
second time, and warned him not to
provoke him to exert his power. Even
then he could not summon courage to
obey, and presently his son died.
After this, the same admonition was repeated in
his dreams for the third time. Then the peasant himself became extremely ill,
and related the cause of his trouble to his friends, by whose advice he was
carried on a litter to the senatehouse; and as soon as
he had related his dreams to the
senate, he recovered his health and
strength, and returned home on foot
perfectly cured. Thereupon, the truth of
his dreams being admitted by the
senate, it is related that these
games were repeated a second time.
It is recorded in the history of the
same Crelius, that Caius Gracchus informed
many persons that during the time
that he was soliciting the qusestorship,
his brother Tiberius Gracchus appeared to
him in a dream, and said to
him, that he might delay as much
as he pleased, but that nevertheless
he was fated to die by the same
death which e himself had suffered.
Coclius asserts that he heard this
fact, and related it to many persons,
before Caius Gracchus had become tribune
of the people. And what can be
more certain than such a dream as
this 1 Who, again, can despise those
two dreams, which are so frequently
dwelt upon by the Stoics?one concerning
Simonides, who, having found the dead
body of a man who was a
stranger to him lying in the road,
buried it. Having performed this office,
he was about to embark in a
ship, when the man whom he had
buried appeared to him in a dream
at night, and warned him not to
undertake the voyage, for that if he did he would perish by
shipwreck. Therefore, he returned home again, but all
the other people who sailed in that
vessel were lost. The other dream, which is a very celebrated one, is related
in the following manner:Two Arcadians, who were in
timate friends, were travelling together,
and arriving at Megara, one of them
took up his quarters at an inn,
the other at a friend's house. After
supper, when they had both gone to
bed, the Arcadian, who was staying at
his friend's house, saw an apparition
of his fellowtraveller at the inn,
who prayed him to come to his
assistance immediately, as the innkeeper
was going to murder him. Alarmed at
this intimation, he started from his
sleep; but on recollection, thinking it
nothing but an idle dream, he lay
down again. Presently, the apparition
appeared to him again in his sleep,
and entreated him, though he would
not come to his as sistance while
yet alive, at least not to leave
his death unavenged. He told him
further, that the innkeeper had first
murdered him, and then cast him into
a dungcart, where he lay covered with
filth; and begged him to go early
to the gate of the town, before
any cart could leave the town. Much
excited by this second vision, he
went early next morning to the gate of
the town, and met with the driver
of the cart, and asked him what
he had in his waggon. The driver,
upon this question, ran away in a
fright. The dead body was then
discovered, and the innkeeper, the evidence
being clear against him, was brought
to punishment. What can be more akin
to divination than such a dream as
this ? But why do I relate any
more ancient instances of similar things,
when such dreams have occurred to ourselves?
for I have often told you mine,
and I have as often heard you
talk of yours. When I was proconsul
in Asia, it appeared to me as I
slept, that I saw you riding on
horseback till you reached the banks
of a great river, and that you
were suddenly thrown off and precipitated
into the waters, and so disappeared.
At this I trembled exceedingly, being
overcome with fear and apprehension. But
suddenly you reappeared before me with
a joyful countenance, and, with the
same horse, ascended the opposite bank,
and then we embraced each other. It
is easy to conjecture the signification
of such a dream as this; and
hence the learned inten <reters of
Asia predicted to me that those events
would take place which afterwards did
come to pass. I now come to
your own dream, which I have
sometimes heard from yourself, but more
often from our friend Sallust. He
used to say, that in that flight
and exile of yours, which was so
glorious for you, so calamitous for
our country, you stayed awhile in a
certain villa of the territory of
Atina, when, having sat up a great
part of the night, you fell into
a deep and heavy slumber towards the
morning. And from this slumber your
attendants would not awake you, as
you had given orders that you were
not to be disturbed, though your journey was
sufficiently urgent. When at length you awoke about the second hour of the day,
you related to Sallust the following dream:That it had seemed
to you that, as you were wandering
sorrowfully through some solitary district,
Caius Marius appeared to you with his
fasces covered with laurel, and that
he asked you why you were afflicted.
And when you informed him that you
had been driven from your country by
the violence of the disaffected, he
seized your right hand, and urged you
to be of good cheer, and ordered
the lictor nearest to him to lead
you to his monument, saying, that there
you should find security. Sallust told
me, that upon hearing this dream, he
himself exclaimed at once that your
return would be speedy and glorious;
and that you also appeared to be
de lighted with your dream. A short
time afterwards I was informed, as
you well know, that it was in
the monument of Marius that, on the
instance of that excellent and famous
consul Lentulus, that most honourable
decree of the senate was passed for
your recal, which was applauded with
shouts of incredible exultation in a
very full assembly; so that, as you
yourself observed, no dream could have
a higher character of divination than
this which occurred to you at Atina.
But you will say that there are
likewise many false dreams. No doubt
there are some which are perhaps
obscure to us; but, even allow that
there are some which are actually false,
what argument is that against those which are true ?of which,
indeed, there would be a great many
more if we went to bed in
perfect health; but as it is, from
our being over charged with wine and
luxuries, all our perceptions become troubled
and confused. Consider what Socrates, in
the Republic of Plato, says on this
subject. " When," says he,
" that part of the soul which
is capable of intelligence and reason
is subdued and reduced to languor, then
that part in which there is a species of ferocity and
uncivilized savageness being excited by
immoderate eating and drinking, exults in
our sleep and wantons about unre
strainedly; and therefore all kinds of
visions present them selves to it,
such as are destitute of all sense
or reason, in which we appear to
be giving ourselves up to incest and
all kinds of bestiality, or to be
committing bloody murders, and massacres,
and all kinds of execrable deeds,
with a triumphant defiance of all
prudence and decency. But in the case
of a man who is accustomed to a
sober and regular life, when he
commits himself to sleep, then that
part of his soul which is the
seat of intellect and reason is still
active and awake, being replenished with
a banquet of virtuous thoughts; and
that portion which is nourished by
pleasure, is neither destroyed by
exhaustion nor swollen by satiety, either
of which is accustomed to impair the
vigour of the soul, whether nature is
deficient in anything, or super abundant
or overstocked; and that third division
also, ill which the vehemence of
anger is situated, is lulled and
restrained; so, consequently, it happens,
that owing to the due regulation of
the two more violent portions of the
soul, the third, or intellectual part,
shines forth conspicuously, and is fresh
and active for the admission of
dreams; and therefore the visions of
sleep which present themselves before it
are tranquil and true." Such are
the very words of Plato. Shall we,
then, prefer listening to the doctrine
of Epicurus on this point ? As
for Carneades, he sometimes says one
thing and sometimes another, from his
mere fondness for discussion. And yet,
what are the sentiments which he
utters ? At all events, they are
never expressed either with elegance or
propriety. And will you prefer such a
man as this to Plato and Socrates
1 men who, even if they were to
give no reason for their tenets,
should, by the mere authority of
their names, outweigh these minute
philosophers. Plato then asserts that we
should bring our bodies into such a
disposition before we go to sleep as
to leave nothing which may occasion
error or perturbation in our dreams.
For this reason, perhaps, Pythagoras laid
it down as a rule, that his
disciples should not eat beans, because
this food is very flatulent, and
contrary to that tranquillity of mind which
a truthseeking spirit should possess. When,
therefore, the mind is thus separated
from the society and contagion of the
body, it recollects things past, examines
things present, and anticipates things to
come. For the body of one who
is asleep lies like that of one
who is dead, while the spirit is full of vitality and
vigour. And it will be yet more
so after death, when it will have
got rid of the body altogether; and
therefore we _see that even on the
approach of death it becomes much more
divine. For it often happens that
those who are attacked by a severe
and mortal malady, foresee that their
death is at hand. And in this state
they often behold ghosts and phantoms
of the dead. Then they are more
than ever anxious about their reputations;
and they who have lived otherwise
than as they ought, then most
especially repent of their sins. And
that the dying are often possessed of
the gift of divi nation, Posidonius confirms
by that notorious example of a
certain Rhodian who, being on his
deathbed, named six of his contemporaries,
saying which of them would die first,
which second, which, next to him, and
so on. There are, he imagines,
besides this, three ways in which men
dream under the immediate impulse of
the Gods : one, when the mind
intuitively perceives things by the relation
which it bears to the Gods; the
second, arising from the fact of the
air being full of immortal spirits,
in whom all the signs of truth
are, as it were, stamped and visible;
the third, when the Gods themselves
converse with sleepers,and that, as I have said
before, takes place more especially at
the approach of death, enabling the
minds of the dying to anti cipate
future events. An instance of this is
the prediction of Calanus, of whom I
have already spoken. Another is that of Hector, in Homer,
who, when dying himself, foretels the
approaching death of Achilles. If there
were no such thing as divination,
Plautus would not have been so much
applauded for the following line : — My
mind presaged (prcesagibat), when I first
went out, That I was going on a
fruitless journey : — for the verb sagio means,
to feel shrewdly. Hence old women are
sometimes called sagce (witches), because they
are ambi tious of knowing many
things; and dogs are called sagacioiis.
Whoever, therefore, say it (knows) before
the event has come to pass, is
said prcesagire (to have the power of
knowing the future beforehand). There
exists, therefore, in the mind a
presentiment, which strikes the soul from
without, and which is enclosed in the
soul by divine operation. If this becomes
very vivid, it is termed frenzy, as
happens when the soul, being abstracted
from the body, is stirred up by
a divine inspiration. What sudden transport
fires my virgin soul ! Jly mother,
oh, my mother ! — dearest name Of all
dear names ! But oh, my
breast is full Of divination and
impending fates, While dread Apollo with
his mighty impulse Urges me onward.
Sisters, my sweet sisters ! I grieve
to anticipate the coming fate Of our
most royal parents. You are all
More filial and more dutiful than I.
I only am enjoin'd this cruel task, To
utter imminent ruin. You do serve
them; I injure them ; and your
obedience Shines well, set-off by my
disloyal rage.1 0 what a tender,
moral, and delicate poem ! though the
beauty of it does not affect the
question. What I wish to prove
is, that that frenzy often predicts
what is true and real. I see
the blazing torch of Troy's last
doom, Fire, and massacre, and death.
Arm, citizens ! Bring aid and quench
the flames. In the following lines,
it is not so much Cassandra who
speaks, as the Deity enclosed in human
form:Already is the fleet prepared to
sail; It bears destruction — rapidly it
speeds: A dreadful army traverses the
shores, Destined to slaughter. 1 seem
to be doing nothing but quoting
tragedies and fables. I would mention a
story I have heard from your self,
and that not an imaginary, but a
real circumstance, and closely related to
our present discussion. Caius Coponius, a
skilful general, and a man of the
highest character for learn ing and
wisdom, who commanded the fleet of
the Rhodians, with the appointment of
praetor, came to you at Dyrrha-
chium, and informed, you that a
certain sailor in a Khodiau galley
had predicted that, in less than a
month, Greece would 1 This is a
quotation from Pacuvius's play of Hercules
; the speaker is Cassandra. be deluged with
blood, that Dyrrhachium would be pillaged,
and that the people would flee and
take to their ships; that, looking
back in their flight, they would see
a terrible con flagration. He added,
moreover, that the fleet of the
lihodians would soon return, and retire
to Rhodes. You told me that you
yourself were surprised at this
intelligence, and that Marcus Varro and
Marcus Cato, both men of great
learning, who were with you, were
exceedingly alarmed. A few days afterwards,
Labienus, having escaped from the battle
of Phar- salia, arrived and brought
an account of the defeat of the
army: and the rest of the prediction
was soon accomplished; for the corn
was dragged out of the granaries, and
strewed about all the streets and
alleys, and destroyed. Yoxi all embarked
on board the ships in haste and
alarm; and at night, when you looked
back towai-ds the town, you beheld
the barges on fire, which were burned
by the soldiers because they would
not follow. At last you were deserted
by the fleet of the Rhodians, and
then you found that the prophet had
been a true one. I have explained
as concisely as possible the fore
warnings of dreams and frenzy, with
which I said that art had nothing
to do; for both these kinds of
prediction arise from the same cause,
which our friend Cratippus adopts as
the true explana tion —namely, that
the souls of men are partly inspired
and agitated from without. By which
he meant to say, that there is
in the exterior world a sort of
divine soul, whence the human soul is
derived; and that that portion of the
human soul which is the fountain of
sensation, motion, and appetite, is not
separate from the action of the body;
but that portion which partakes of
reason and intelligence is then most
ener getic, when it is most
completely abstracted from the body.
Therefore, after having recounted veritable
instances of presentiments and dreams, Cratippus
used to sum up his conclusions in
this manner:" If," he would say,
"the exist ence of the eyes is
necessary to the existence and operation
of the function of sight, though the
eyes may not be always exercising
that function, still he who has once
made use of his eyes so as to
see correctly, is possessed of eyes
capable of the sensation of correct
sight: just so if the function and
gift of divination cannot exist without
the exercise of divination, and yet a
man who has this gift may sometimes
err in its exercise, and not foresee correctly;
then it is sufficient to prove the
existence of divination, that some event
should have been once so correctly
divined that none of its circum
stances appear to have happened fortuitously.
And as a multitude of such events
have occurred, the existence of divination
ought not to be doubted.But as to
those divinations which are explained by
conjecture, or by the observation of
events; these, as I have said before,
are not of the natural, but
artificial order; in which artificial class
are the haruspices, and augurs, and
interpreters. These are discredited by the
Peripatetics, and defended by the Stoics.
Some of them are established by
certain monuments and systems, as is
evident from the ritual books of the
ancient Etruscans respecting electrical interpre
tation of the omens conveyed by the
entrails of victims and by lightning,
and by our own books on the
discipline of the augurs Other divinations
are explained at once by con jecture,
without reference to any written
authorities; such as the prophecy of
Calchas in Homer, who, by a certain
num ber of flying sparrows, predicted
the number of years which would be
occupied in the siege of Troy; and
as an event which we read recorded
in the history of Sylla, which hap
pened under your own eyes. For when
Sylla was in the territory of Nola,
and was sacrificing in front of his
tent, a serpent suddenly glided out
from beneath the altar; and when,
upon this, the soothsayer Posthumius
exhorted him to give orders for the
immediate march of the army, Sylla
obeyed the injunction, and entirely
defeated the Samnites, who lay before
Nola, and took possession of their
richly- provided camp. It was by
this kind of conjectural divination that
the fortune of the tyrant Dionysius
was announced a little before the
commencement of his reign; for when
he was travelling through the territory
of Leontini, he dismounted and drove
his horse into a river; but the
horse was carried away by the
current, and Dionysius, not being able
with all his efforts to extricate
him, departed, as Philistus reports, lamenting
his loss. Some time afterwards, as he
was journeying further down the river,
he suddenly heard a neighing, and to
his great joy found his horse in
very comfortable condition, with a swarm
of bees hanging on his mane. And
this prodigy intimated the event which took
place a few days after this, when
Dionysius was called to the throne.
Need I say more 1 Ho\v many
intimations were given to the
Lacedaemonians a short time before the
disaster of Leuctra, when arms rattled
in the temple of Hercules, and his
statue streamed with profuse sweat!
At the same time, at Thebes (as
Callisthenes relates), the foldingdoors in
the temple of Hercules, which were
closed with bars, opened of their own
accord, and the armour which was
suspended on the walls was found
fallen to the ground. And at the same
period, at Lebadia, where divine rites
were being performed in honour of
Trophonius, all the cocks in the
neighbourhood began to crow so incessantly
as never to leave off at all;
and the Boeotian augurs affirmed that
this was a sign of victory to
the Thebans. because these birds crow
only on occasions of victory, and
maintain silence in case of defeat.
Many other signs, at this time, announced
to the Spartans the calamities of the
battle of Leuctra; for, at Delphi, on
the head of the statue of Lysander,
who was the most famous of the
Lacedaemonians, there suddenly appeared a
garland of wild prickly herbs. And the
golden stars which the Lacedae monians
had set up as symbols of Castor
and Pollux, in the temple of Delphi,
after the famous naval victory of
Lysander, in which the power of
Athens was broken, because those divinities
were reported to have appeared in the
Lacedaj- monian fleet during that
engagement, fell down, and were seen
no more. And the greatest of all
the prodigies which were sent as
warnings to those same Lacedaemonians,
happened when they sent to consult
the oracle of Jupiter at Dodona on
the success of the combat; and when
the ambassadors had cast their questions
into the urn from which the responses
were to be drawn, an ape, whom
the king of Molossus kept as a
pet, dis turbed and confounded all
the lots, and everything else which
had been prepared for the purpose of
giving a reply in due form. Upon
which the priestess who presided at the
oracular rites, declared that the
Lacedaemonians must rather look to their
safety than expect a victory. Must I
say more 1 In the second Punic
war, when Flaminius, being consul for
the second time, despised the signs
of future events, did he not by
such conduct occasion great disasters to
the state ? For when, after, having
reviewed the troops, he was moving
his camp towards Arezzo, and leading
his legions against Hannibal, his horse
suddenly fell with him before the
statue of Jupiter Stator, without any
apparent cause. But though those who
were skilful in divina tion declared
it was an evident sign from the
Gods that he should not engage in
battle, he paid no attention to it.
After wards, when it was proposed to
consult the auspices by the consecrated
chickens, the augur indicated the propriety
of deferring the battle. Flaminius asked
him what was to be done the next
day, if the chickens still refused to
feed ? He replied that in that
case he must still rest quiet. "
Fine auspices, indeed," replied Flaminius,
" if we may only fight when the
chickens are hungry, but must do
nothing if they are full." And
so he commanded the standards to be
moved forward, and the army to follow
him; on which occasion, the standard-bearer
of the first battalion could not
extricate his standard from the ground
in which it was pitched, and several
soldiers who endeavoured to assist him
were foiled in the attempt. Flaminius,
to whom they related this incident,
despised the warning, as was usual
with him; and in the course of
three hours from that time, the whole
of his army was routed, and he
himself slain. And it is a wonderful
story, too, that is told by Coelius,
as having happened at this very time,
that such great earth quakes took
place in Liguria, Gallia, and many of
the islands, and throughout all Italy,
that many cities were destrojred, and
the earth was broken into chasms in
many places, and rivers rolled backwards,
while the waters of the sea rushed
into their channels. Skilful diviners can
certainly derive correct pre sentiments
from slight circumstances. When Midas, who
be came king of Phrygia, was yet
an infant, some ants crammed some
grains of wheat into his mouth while
he was sleep ing. On this the
diviners predicted that he would become
exceedingly rich, as indeed afterwards happened.
While Plato was an infant in his
cradle, a swarm of bees settled on
his lips during his slumbers; and the
diviners answered that he would become
extremely eloquent; and this prediction of
his future eloquence was made before
he even knew how to speak. Why
should I speak of your dear and
delightful friend, Roscius 1 Did he
tell lies himself, or did the whole
city of Lanuvium tell lies for him
? When he was in his cradle at Solonium, where he
was being brought up,— (a place which
belongs to the Lanuvian territory.) the
story goes, that one night, there
being a light in the room, his
nurse arose and found a serpent
coiled around him, and in her alarm
at this sight she made a great
outcry. The father of Roscius related
the circumstance to the soothsayers, and
they answered that the child would
become preeminently distinguished and illus
trious. This adventure was afterwards
engraved by Praxiteles in silver, and
our friend Archias celebrated it in
verse. What, then, are we waiting
for 1 Are we to wait till the
Gods are conversant with us and our
affairs, while we are in the forum,
and on our journeys, and when we
are at home? yet though they do not
openly discover themselves to us, they
diffuse their divine influence far and
wide — an influence which they not only
inclose in the caverns of the earth,
but sometimes extend to the constitutions
of men. For it was this divine
influence of the earth which inspired
the Pythia at Delphi, while the Sibyl
received her power of divination from
nature. Why should we wonder at this
1 Do we not see how various are
the species and specific properties of
earths 1 — of which some parts are
injurious, as the earth of Amp-
sanctus in Hirpinum, and the Plutonian
land in Asia: and some portions of
the soil of the fields are
pestilential, others salubrious; some spots
produce acute capacities, others heavy
characters. All which things depend on
the varieties of atmosphere, and are
inequalities of the exhalations of the
different soils. It likewise often happens
that minds are affected more or less
powerfully by certain expressions of
countenance, and certain tones of voice
and modulations, — often also by fits of
anxiety and terror — a condition indicated
in these lines of the poet : —
Madden'd in heart, and weeping like as
one By the mysterious rites of
Bacchus wrought Into wild ecstasy, she
wanders lone Amid the tombs, and
mourns her Teucer lost. And this state
of excitement also proves that there
is a divine energy in human souls.
And so Democritus asserts, that without
something of this ecstasy no man can
become a great poet ; and Plato
utters the same sentiment : and he
may call this poetic inspiration an
ecstasy or madness as much as he
pleases, so long as he eulogizes it
as eloquently as he does in his
Phecdon. What is your art of oratory
in pleading causes 1 What is your
action ? Can it be forcible,
commanding, and copious, unless your mind
and heart are in some degree animated
by a kind of inspiration 1 I
have often beheld in yourself, and,
to descend to a less dignified
example, even in your friend ufEsop,
such fire and splendour of expression
and action, that it seemed as if
some potent inspiration had altogether ab
stracted him from all present sensation
and thought. Besides this, forms often
come across us which have no real
existence, but which nevertheless have a distinct
appear ance. Such an apparition is
said to have occurred to Bren- ims,
and to his Gallic troops, when he
was waging an impious war upon the
temple of Apollo at Delphi. For on
that occa sion it is reported that
the Pythian priestess pronounced these
words :"I and the white virgins
will provide for the future." In
accordance with which, it happened that
the Gauls fancied that they saw white
virgins bearing arms against them, and
that their entire army was overwhelmed
in the snow. Aristotle thinks that
those who become ecstatic or furious
through some disease, especially melancholy
persons, possess a divine gift of
presentiment in their minds. But I know
not whether it is right to attribute
anything of this kind to men with diseases
of the stomach, or to persons in
a frenzy, for time divination rather
appertains to a sound mind than to a sick
body. The Stoics attempt to prove
the reality of divination in this
way: — If there are Gods, and they do
not intimate future events to men,
they either do not love men, or
they are ignorant of the future; or
else they conceive that know ledge of
the future can be of no service
to men; or they con ceive that
it does not become their majesty to
condescend to intimate beforehand what must
be hereafter; or lastly, we must say
that even the Gods themselves cannot
tell how to forewarn us of them.
But it is not true that the
Gods do not love men, for they are
essentially benevolent and philanthropic; and
they cannot be ignorant of those
events which take place by their own
direction and appointment. Again, it cannot
be a matter of indifference to us
to be apprised of what is about
to happen, for we shall become more
cautious if we do know such things.
Nor do they think it beneath their
dignity to give such inti mations,
for nothing is more excellent than
beneficence. And lastly, the Gods cannot
be ignorant of future events. There
fore there are no Gods, and they
do not give intimations of the
future. But there are Gods: so
therefore they do give such intimations;
and if they do give such intimations,
they must have given us the means
of understanding them, or else they
would give their information to no
purpose. And if they do give us
such means, divination must needs exist;
therefore divination does exist. Such is
the argument in favour of divination
by which Chrysippus, Diogenes, and
Antipater endeavour to demonstrate their
side of the question. Why, then,
should any doubt be entertained that
the arguments that I have advanced
are entirely true? If both reason and
fact are on my side,— if whole
nations and peoples, Greeks and barbarians, and
our own ancestors also, confirm all
my assertions, — if also it has always
been maintained by the greatest
philosophers and poets, and by the
wisest legislators who have framed
constitutions and founded cities, must we
wait till the very animals give their
verdict? and may not we be content with
the unanimous authority of all mankind1?
Nor indeed is any other argument
brought forward to prove that all
these kinds of divination which I
uphold have no existe nce, than that
it appears difficult to explain what
are the different principles and causes
of each kind of divination. For what
reason can the soothsayer allege why
an injury in the lungs of otherwise
favourable entrails should compel us to
alter a day previously appointed, and
defer au enterprise? How can an augur
ex plain why the croak of a
raven on the right hand, and a
crow on the left, should be reckoned
a good omen? What can an astrologer
say by way of explaining why a
conjunction of the planet Jupiter or
Venus with the moon is propitious at
the birth of a child, and why
the conjunction of Saturn or Mars is
injurious? or why God should warn us
during sleep, and neglect us when we
are awake ? or lastly, what is
the reason why the frantic Cassandra could
foresee future events, while the sage
Priam remained ignorant of them? Do
you ask why everything takes place as
it does? Very right; but that is
not the question now; what we are
trying to find out is whether such
is the case or not. As, if I
were to assert that the magnet is
a kind of stone which attracts and
draws iron to itself, but were unable
to give the reason why that is
the case, would you deny the fact
altogether ? And you treat the
subject of divination in the same
way, though we see it, and hear
of it, and read of it, and have
received it as a tradition from our
ancestors. Nor did the world in
general ever doubt of it before the
introduction of that philosophy which has
recently been invented, and even since
the appearance of philosophy, no
philosopher who was of any authority
at all has been of a contrary
opinion. I have already quoted in its
favour Pythagoras, Democritus, and Socrates.
There is no exception but Xenophanes
among the ancients. I have likewise
added the old Academicians, the
Peripatetics, and the Stoics: all supported
divination; Epi curus alone was of
the opposite opinion. But what can be
more shameless than such a man as
he, who asserted that there was no
gratuitous and disinterested virtue in the
world? XL. But what man is there
who is not moved by the testi
mony and declarations of antiquity? Homer
writes that Cal- chas was a most
excellent augur, and that he conducted
the fleet of the Greeks to Troy, —
more, I imagine, by his know ledge of
the auspices than of the country. Amphilochus
and Mopsus were kings of the Argives,
and also augurs, and built the Greek
cities on the coast of Cilicia. And
before them lived Amphiaraus and Tiresias,
men of no lowly rank or ob scure fame,
not like those men of whom Ennius
says —They hire out their prophecies for
gold : no; they were renowned and
first rate men, who predicted the
future by means of the knowledge
which they derived from birds and
omens; and Homer, speaking of the
latter even in the infernal regions,
says that he alone was con sistently
wise, while others were wandering about like
shadows. As to Amphiaraus, he was so
honoured by the general praise of all
Greece, that he was accounted a god, and
oracles were established at the spot
where he was buried. Why need I
speak of Priam king of Asia? had
not he two children possessed of this
gift of divination, namely a son
named Helenus, and a daughter named
Cassandra, who both prophesied, one by
means of auspices, the other through
an excited state of mind and divine
inspiration1? of which de scription
likewise were two brothers of the
noble family of the Marcii, who are
recorded as having lived in the days
of our ancestors. Does not Homer
inform us, too, that Polyidus the
Corinthian predicted the various fates of
many persons, and the death of his
son when he was going to the
siege of Troy? And as a general
rule, among the ancients, those who
were possessed of authority \asually also
possessed the know ledge of auguries;
for, as they thought wisdom a regal
attri bute, so also did they esteem
divination. And of this our state of
Rome is an instance, in which several
of our kings were also augurs, and
afterwards even private persons, endued
with the same sacerdotal office, ruled
the commonwealth by the authority of
religion. And this kind of divination has
not been neglected even by barbarous
nations; for the Druids in Gaul are
diviners, among whom I myself have
been acquainted with Divitiacus vEduus,
your own friend and panegyrist, who
pretends to the science of nature
which the Greeks call physiology, and
who asserts that, partly by auguries
and partly by conjecture, he foresees
future events. Among the Persians they
have augurs and diviners, called magi,
who at certain seasons all assemble
in a temple for mutual conference and
consultation; as your college also used
once to do on the nones of the
month. And no man can become a
king of Persia who is not previously
initiated in the doctrine of the
magi. There are even whole families
and nations devoted to divina tion.
The entire city of Telmessus in Caria
is such. Likewise in Elis, a city
of Peloponnesus, there are two families,
called lamidse and ClutidoD, distinguished
for their proficiency in divination. And
in Syria the Chaldeans have become
famous for their astrological predictions,
and the subtlety of their genius.
Etruria is especially famous for possessing
an inti mate acquaintance with omens
connected with thunderbolts and things of
that kind, and the art of explaining
the signi fication of prodigies and
portents. This is the reason why our
ancestors, during the flourishing days of
the empire, enacted that six of the
children of the principal senators should
be sent, one to each of the
Etrurian tribes, to be instructed in
the divination of the Etrurians, in
order that this science of divination,
so intimately connected with reli gion,
might not, owing to the poverty of
its professors, be cultivated for merely
mercenary motives, and falsified by
bribery. The Phrygians, the Pisidians, the
Cilicians, and Arabians are accustomed to
regulate many of their affairs by the
omens which they derive from birds.
And the Umbrians do the same,
according to report. It appears to me
that the different characteristics of
divination have originated in the nature
of the localities themselves in which
they have been cultivated. For as the
Egyptians and Babylonians, who reside in
vast plains, where no mountains obstruct
their view of the entire hemisphere,
have applied themselves principally to that
kind of divination called astrology, the Etrurians,
on the other hand, because they, as
men more devoted to the rites of
religion, were used to sacrifice victims
with more zeal and frequency, have
espe cially applied themselves to the
examination of the entrails of animals;
and as, from the character of their
climate and the denseness of their
atmosphere, they are accustomed to witness
many meteorological phenomena, and because
for the same reason many singular
prodigies take place among them, arising
alike from heaven or from earth, and
even from the concep tions or
offspring of men or cattle, they have
become won derfully skilful in the
interpretation of such curiosities, the
force of which, as you often say,
is clearly declared by the very names
given to them by our ancestors, for
because they point out (ostendunt},
portend, show (monstrant), and predict,
they are called ostents, portents,
monsters, and prodigies. Again, the
Arabians, the Phrygians, and Cilicians,
because they rear large herds of
cattle, and, both in summer and
winter, traverse the plains and mountainous
districts, have on that account taken
especial notice of the songs and
flight of birds. The Pisidians, and
in our country the Umbrians, have
applied themselves to the same art
for the same reason. The whole nation
of the Carians, and most especially
the Telmessians, who reside in the
most productive and fertile plains, in
which the exuberance of nature gives
birth to many extraordinary productions, have
been very careful in the observation
of prodigies. But who can shut his
eyes to the fact that in every
well constituted state auspices, and other
kinds of divi nation, have been much
esteemed? What monarch or what people
has ever neglected to make use of
them in the trans actions of peace,
and still more especially in time of
war, when the safety or welfare of
the commonwealth is implicated in a
greater degree? I do not speak merely
of our own countrymen, — who have never
undertaken any martial enter prise without
inspection of the entrails, and who
never con duct the affairs of the
city without consulting the auspices, — I
rather allude to foreign nations. The
Athenians, for ex ample, always consulted
certain divining priests, (whom they called
yaavrei?,) when they convoked their public
assemblies. The Spartans always appointed
an augur as the assessor of their
king, and also they ordained that an
augur should be present at the
council of their Elders, which was
the name they gave to their public
council; and in every important transaction
they invariably consulted the oracle of
Apollo at Delphi, or that of Jupiter
Harnmon, or that of Dodona. Lycurgus, who
formed the Lacedaemonian commonwealth, desired
that his code of laws should receive
confirmation from the authority of Apollo
at Delphi; and when Lysander sought
to change them, the same authority
forbade his innovations. Moreovei', the
Spartan magistrates, not content with a
careful superintendence of the state
affairs, went occasionally to spend a
night in the temple of Pasiphae,
which is in the country in the
neighbourhood of their city, for the
sake of dreaming there, because they
considered the oracles received in sleep
to be true. But I return to
the divination of the Eomans. How
often has our senate enjoined the
decemvirs to consult the books of the
Sibyls! For instance, when two suns
had been seen, or when three moons
had appeared, and when flames of fire
were noticed in the sky; or on
that other occasion, when the sun was
beheld in the night, when noises were
heard in the sky, and the heaven
itself seemed to burst open, and
strange globes were remarked in it. Again,
information was laid before the senate,
that a portion of the territory of
Privernum had been swallowed up, and
that the land had sunk down to an
incredible depth, and that Apulia had
been convulsed by terrific earthquakes;
which portentous events announced to the
Romans terrible wars and disastrous
seditions. On all these occasions the
diviners and their auspices were in
perfect accordance with the prophetic
verses of the Sibyl. Again, when the
statue of Apollo at Cuma was covered
with a miraculous sweat, and that of
Victory was found in the same
condition at Capua, and when the
hermaphrodite was born, — were not these things
significant of horrible dis asters? Or
again, when the Tiber was discoloured
writh blood, or when, as has often
happened, showers of stones, or sometimes
of blood, or of mud, or of
milk, have fallen, — when the thunder bolt
fell on the Centaur of the Capitol,
and struck the gates of Mount
Aventine, and slew some of the
inhabitants; or again, when it struck
the temple of Castor and Pollux at
Tusculum, and the temple of Piety at
Rome, — did not the soothsayers in reply
announce the events which subsequently took
place, and were not similar predictions
found in the Sibylline volumes'? How
often has the senate commanded the
decemvirs to consult the Sibylline books!
In what important affairs, and how
often has it not been guided wholly
by the answers of the soothsayers! In
the Marsic war, not long ago, the
temple of Juno the Protectress was
restored by the senate, which was
excited to this holy act by a
dream of Csccilia, the daughter of
Quintus Metellus. But after Sisenna, who men
tions this dream, had related the
wonderful correspondence of the event with
the prediction, he nevertheless (being
influ enced, I suppose, by some
Epicurean) proceeded to argue that dreams
should never be trusted: however, he
states nothing against the credit of
the prodigies wrhich took place, and
which he reports, at the beginning of
the Marsic war1, when the images of
the gods were seen to sweat, and
blood flowed in the streams, and the
heavens opened, and voices were heard
from secret places, which foretold the
dangers of the combat; and at Lanuvium
the sacred bucklers were found to
have been gnawed by mice, which
appeared to the augurs the worst
presage of all. Shall I add further
what we read recorded in our annals,
thnt in the war against the Veientes,
when the Alban lake had risen
enormously, one of their most distinguished
nobles came over to us and said, that
it \vas predicted in the sacred books
concerning the destinies of the Veientes,
which they had in their own possession,
that their city could never be
captured while the lake remained full;
and that if, when the lake was
opened, its waters were allowed to run
into the sea, the .Romans would
suffer loss, — if, on the contrary, they
were so drawn off that they did
not reach the sea, then we should
have good success? And from this
circumstance arose the series of immense
labours, subsequently undertaken by our
ancestors in conducting away the waters
of the Alban lake. But when the
Veientes, being weary of war, sent
ambassadors to the Roman senate, one
of them exclaimed that that de serter
had not ventured to tell them all
he knew, for that in those same
sacred books it was predicted that Rome
should soon be ravaged by the Gauls,
— an event which happened six years after
the city of Veii surrendered. The cry
of the fauns, too, has often been
heard in battle; and prophetic voices
have often sounded from secret places
in periods of trouble ; of which,
among others, we have two notable
examples, — for shortly before the capture
of Rome a voice was heard which
proceeded from the grove of Vesta,
which skirts the new road at the
foot of the Palatine Hill, exhorting
the citizens to repair the walls and
gates, for that if they were not
taken care of the city would be
taken. The injunction was neglected till
it was too late, and it after
wards was awfully confirmed by the
fact. After the disaster had occurred,
our citizens erected an altar to Aius
the Speaker, which we may still see
carefully fenced round, opposite the spot
where the warning was uttered. Many
authors have reported that once, after
a great earthquake had happened, they
heard a voice from the temple of
Juno, commanding that expiation should be
made by the sacrifice of a pregnant
sow, and hence it was afterwards
called the temple of Juno the
Admonitress. Shall we then despise these
oracular inti mations, which the Gods
themselves vouchsafed us, and which our
ancestors have confirmed by their testimony
? The Pythagoreans had not only high
reverence for the voice of the Gods,
but they likewise respected the warnings
of men (hominum), which they call
omina. And our ancestors were persuaded
that much virtue resides in certain
words, and therefore prefaced their various
enterprises with certain auspicious phrases, such
as, "May good and prosperous and
happy fortune attend." They commenced
all the public ceremonies of religion
with these words, — " Keep silence;
" and when they announced any
holidays, they commanded that all lawsuits
and quarrels should be suspended. Likewise,
wheu the chief who forms a colony
makes a lustration and review of it,
or when a general musters an arm,
or a censor the people, they always
choose those who have lucky names to
prepare the sacrifices. The consuls in
their military enrol ments likewise take
care that the first soldier enrolled
shall be one with a fortunate name;
and you know that you your self
were very attentive to these ceremonial
observances when you were consul and
imperator. Our ancestors have likewise
enjoined that the name of the tribe
which had the precedence should be
regarded as the presage of a
legitimate assembly of the Comitia. And
of presages of this kind I can
relate to you several celebi'ated examples.
Under the second consulship of Lucius
Paulus, when the charge of making war
against the king Perses had been
allotted to him, it happened that on
the evening of that very same day,
when he returned home and kissed his
little daughter Tertia, he noticed that
she was very sorrowful. " What
is the matter, my Tertia," said
he, " why are you so sad?"
" My father," replied she, "
Perses has perished." Upon which he
caught her in his arms, and caressing
her, exclaimed, " I embrace the
omen, my daughter." But the real
truth was, that her dog, who happened
to be called Perses, had died. I
have heard Lucius Flaccus, a priest
of Mars, say, that Csecilia, the
daughter of Metellus, intending to make
a matri monial engagement for her
sister's daughter, went to a certain
temple, in order to procure an omen,
according to the ancient custom. Here
the maiden stood, and Ctecilia sat
for a long time without hearing any
sound, till the girl, who grew tired
of standing, begged her aunt to allow
her to occupy her seat for a
short period, in order to rest
herself. Csecilia replied, "Yes, my
child, I willingly resign my seat to
you." And this reply of hers was
an omen, confirmed by the event, for
Ceecilia died soon after, and her
niece married her aunt's husband. I
know that men may despise such stories,
or even laugh at them, but such
conduct amounts to a disbelief in the existence
of the Gods themselves, and to a
contempt of their revealed will. Why need
I speak of the augurs 1 — that part
of the qxiestion concerns you. The
defence of the auguries, I say,
belongs peculiarly to you. When you
were a consul, Publius Claudius, who
was one of the augurs, announced to
you, when the augury of the Goddess
Salus was doubted, that a disas trous
domestic and civil war would take
place, which happened a few months
afterwards, but was suppressed by your
exer tions in still fewer days. And
I highly approve of this augur, who
alone for a long period remained
constant to the study of divination,
without making a parade of his
auguries, while his colleagues and yours
persisted in laughing at him, sometimes
terming him an augur of Pisidia or
Sora by way of ridicule. Those who
assert that neither auguries nor auspices
can give us any insight into or
foreknowledge of the future, say that
they are mere superstitious practices,
wisely invented to impose on the
ignorant; which, however, is far from
being the case : for our pastoral
ancestors under Romulus were not, nor
indeed was Romulus himself, so crafty
and cunning as to in vent religious impositions
for the purpose of deceiving the mul
titude. But the difficulty of acquiring
a thorough knowledge of the auspices
renders many who are indifferent to
them eloquent in their disparagement, for
they would rather deny that there is
anything in the auspices than take
the pains of studying what there
really is. What can be more divine
than that prediction, which you cite
in your poem of Marius, that I
may quote your owrn authority in
favour of my argument? — Jove's eagle,
wounded by a serpent's bite, In his
strong talons caught the writhing snake,
And with his goring beak tortured
his foe And slaked his vengeance in
his blood. At last He let,
the venomous reptile from on high
Fall in the whelming flood, then wing'd
his flight To the far east.
Marius beheld, and mark'd The augury
divine, and inly smiled To view the
presage of his coming fame ;
Meanwhile the thunder sounded on the left,
And thus confirm'd the omen. Moreover,
the augurial system of Romulus was a
pastoral rather than a civic institution.
Nor was it framed to suit the
opinions of the ignorant, but derived
from men of approved skill, and so
handed down to posterity by tradition.
Therefore Romulus was himself an augur
as well as his brother Remus, if
we may trust the authority of Ennius.
Both wish'd to reign, arid both agreed
to abide The fair decision of the
augury Here Remus sat alone, and
watch 'd for signs Of fav'ring omen,
while fair Eomulus On the Aventine
summit raised his eyes To see what
lofty flying birds should pass. A
goodly contest which should rule, and
which With his own name should stamp
the future city. Now like spectators
in the circus, till The consul's
signal looses from the goal The
eager chariots, so the obedient crowd
Awaited the strife's victor and their
king. The golden sun departed into
night, And the pale moon shone with
reflected ray, When on the left a
joyful bird appear'd, And golden Sol
brought back the radiant day. Twelve
holy forms of Jove-directed birds Wing'd
their propitious flight. Great Romulus
The omen hail'd, for now to him
was given The power to found and
name th" eternal city. Now, however,
let us return to the original point
from which we have been digressing. Though I cannot give you
a reason for all these separate
facts, and can only distinctly assert
that those things which I have spoken
of did really happen, yet have I
not sufficiently answered Epicurus and
Carneades by proving the facts themselves'?
Why may I not admit, that though
it may be easy to find principles
on which to explain artificial presages,
the subject of divine intimations is
more obscure? for the presages which
we deduce from an examination of a
victim's entrailsfrom thunder and lightning,
from prodigies, and from the stars,
are founded on the accurate observation
of many centuries. Now it is certain,
that a long course of careful
observation, thus carefully conducted for a
series of ages, usually brings with it
an incredible accuracy of knowledge; and
this can exist even without the
inspiration of the Gods, when it has
been once ascertained by constant obser
vation what follows after each omen,
and what is indicated by each
prodigy. The other kind of divination
is natural, as I have said before,
and may by physical subtlety of
reasoning appeal- referable to the nature
of the Gods, from which, as the
wisest men acknowledge, we derive and
enjoy the energies of our souls; and
as everything is filled and pervaded
by a divine intelligence and eternal
sense, it follows of necessity that
the soul of man must be influenced
by its kindred wTith the soul of
the Deity. But when we are not
asleep, our faculties are employed on
the necessary affairs of life, and so
are hindered from communication with the
Deity by the bondage of the body.
There are, however, a small number
of persons, who, as it were, detach
their souls from the body, and addict
themselves, with the utmost anxiety and
diligence, to the study of the nature
of the Gods. The presentiments of men
like these are derived not from
divine inspiration, but from human reason ;
for from a contemplation of nature,
they anticipate things to come, — as
deluges of water, and the future
deflagration, at some time or other,
of heaven and earth. There are
others who, being concerned in the
government of states, as we have
heard of the Athenian Solon, foresee
the rise of new tyrannies. Such we
usually term prudent men ; like Thales
the Milesian, who, wishing to convict
his slanderers, and to show that even
a philosopher could make money, if he
should be so inclined, bought up all
the olive-trees in Miletus before they
were in flower; for he had probably,
by some knowledge of his own,
calculated that there would be a
heavy crop of olives. And Thales is said
to have been the first man by
whom an eclipse of the sun was
ever predicted, which happened under the
reign of Astyages. L. Physicians, pilots,
and husbandmen have likewise pre sentiments
of many events : but I do not
choose to call this divination ; as
neither do I call that warning which
was given by the natural philosopher
Anaximander to the Lacedae monians, when
he forewarned them to quit their city
and their homes, and to spend the
whole night in arms on the plain,
because he foresaw the approach of a
great earthquake, which took place that
very night, and demolished the whole
town; and even the lower part of
Mount Taygetus was torn away from
the rest, like the stern of a
ship might be. In the same way,
it is not so much as a diviner,
as a natural philosopher that we
should esteem Pherecydes, the master of
Pythagoras who, when he beheld the water
exhausted in a running spring, predicted
that an earthquake was nigh at hand.
The mind of man, however, never
exerts the power of natural divination,
unless when it is so free and disengaged
as to be wholly disentangled from the
body, as happens ia the case of
prophets and sleepers. Therefore, as I
have said before, Diceearchus and our
friend Cratippus approve of these two
sorts of divination, as long as it
is understood that, inasmuch as they
proceed from nature, though they may
be the highest, they are not the
only kind. But if they deny that
there is any force in observation,
then by such denial they exclude many
things which are connected with the
common experience and institutions of
mankind. However, since they grant us
some, and those not insignifi cant
things, namely, prophecies and dreams,
there is no reason why we should
consider these as very formidable
antagonists, especially when there are some
who deny the existence of divination
altogether. Those, therefore, whose minds,
as it were, despising their bodies,
fly forth, and wander freely through
the universe, being inspired and influenced
by a certain divine ardour, doubtless
perceive those things which those who
prophecy predict. And spirits like these
are excited by many influ ences that
have no connexion with the body, as
those which are excited by certain
intonations of voice, and by Phrygian
melodies, or by the silence of groves
and forests, or the murmur of
torrents, or the roar of the sea.
Such are the minds which are
susceptible of ecstasies, and which long
beforehand foresee the events of futurity;
to which the following lines refer: —
Ah, see you not the vengeance apt
to come, Because a mortal has
presumed to judge Between three rival
goddesses'? — he's doom'd To fall a victim
to the Spartan dame, More dreadful
than all furies. Many things have in
the same way been predicted by pro
phets, and not only in ordinary
language, but also In verses which
the fauns of olden times And
white-hair'd prophets chanted. It was thus
that the diviners; Marcius and Publicius,
are said to have sung their
predictions. The mysterious responses of
Apollo were of the same nature. I
believe also that there were certain
exhalations of certain earths, by which
gifted minds were inspired to utter
oracles. These, then, are the
views which we must entertain of
prophets. Divinations by dreams are of a
similar order, because presentiments which
happen to diviners when awake, happen
to ourselves during sleep. For in sleep
the soul is vigorous, and free from
the senses, and the obstruction of
the cares of the body, which lies
prostrate and deathlike; and, since the
soul has lived from all eternity, and
is engaged with spirits innumerable, it
therefore beholds all things in the
universe, if it only preserves a
watchful attitude, unencumbered by excess
of food or drinking, so that the
mind is awake during the slumber of
the body, — this is the divination of
dreamers. Here, then, comes in an
important, and far from natural, but
a very artificial interpretation of dreams by
Antiphon : and he interprets oracles
and prophecies in the same way; for
there are explainers of these things
just as grammarians are expounders of
poets. For, as it would have been
in vain for nature to have produced
gold, silver, iron, and copper, if
she had not taught us the means
of extracting them from her bosom for
our use and benefit; and as it
would have been in vain for her
to have bestowed seeds and fruits
upon men, if she had not taught
them to distinguish and cultivate them,
— for what use would any materials
whatsoever be to us, if we had
no means of working them up? —thus
with every useful thing which the
Gods have bestowed on us, they have
vouchsafed us the sagacity by which
its utility may be appre ciated ;
and so, because in dreams, oracles,
and prophecies there are many things
necessarily obscure and ambiguous, some
have received the gift of interpretation
of them. But by what means prophets
and sleepers behold those things, which
do not at the time exist in
sensible reality, is a great question.
But when we have once cleared up
those points which ought to be
investigated first, then the other subjects
of our examination will be easier.
For the discussion about the Nature
of the Gods, which you have so
clearly ex plained in your second
book on that subject, embraces the
whole question; for if we grant that
there are Gods, and that their
providence governs the universe, and that
they consult for the best management
of all human affairs, and that not
only in general, but in particular, — if
we grant this, which indeed appears
to me to be undeniable, then we
must hold it as a necessary consequence
that these Gods have bestowed on men
the signs and indications of futurity.
The mode, however, by which the Gods
endue us with the gift and power
of divination requires some notice. The
Porch will not allow that the Deity
can be in terested in each cleft
in entrails, or in the chirping of
birds. They affirm that such interference
is altogether indecorous— unworthy of the
majesty of the Gods, and an
incredible im possibility. They maintain
that from the beginning of the world
it has been ordained that certain
signs must needs precede certain events,
some of which are drawn from the
entrails of animals, some from the
note and flight of birds, some from
the sight of lightning, some from
prodigies, some from stars, some from
visions of dreamers, and some from
exclamations of men in frenzy: and
those who have a clear perception of
these things are not often deceived.
Bad con jectures and incorrect
interpretations are false, not because of
any imposture in the signs themselves,
but because of the ignorance of their
expounders. It being, therefore, granted
and conceded that there exists a
certain divine energy, by which human
life is supported and surrounded, it
is not hard to conceive how all
that hap pens to men may happen
by the direction of heaven; for this
divine and sentient energy, which expands
throughout the universe, may select a
victim for sacrifice, and may, by
exterior agency, effect any change in
the condition of its entrails at the
period of its immolation: so that any
given characteristic may be found excessive
or defective in the animal's body.
For by very trifling exertions nature
can alter, or new-model, or diminish
many things. And the prodigies which
happened a little before Caesar's death
are of great weight in preventing iis
from doubting this, — when on that very
day on which he first sat on
the golden throne and went forth clad
in a purple robe, when he was
sacrificing, no heart was found in
the intestines of the fat ox. Do
you then suppose that any warm-blooded
animal, unless by divine interference, can
live an instant without a heart 1
He was himself surprised at the
novelty of the phenomenon ; on which
Spuriuna observed that he had reason
to fear that he would lose both
sense and life, since both of these
proceed from the heart. The next day
the liver of the victim was found
defective in the upper extremity. Doubtless
the im mortal Gods vouchsafed Ceesar
these signs to apprize him of his
approaching death, though not to enable
him to guard against it. When,
therefore, we cannot discover in the
entrails of the victim those organs
without which the animal cannot live,
we must necessarily suppose that they
have been annihilated by a superintending
Providence at the very instant that
the sacrifice is offered. LI II. And
the same divine influence may likewise
be the cause why birds fly in
different directions on different occa sions,
why they hide themselves sometimes in
one place and sometimes in anothei',
and why they sing on the right
hand or on the left. For if
every animal according to its own
will can direct the motions of its
body, so as to stoop, to look
on one side, or to look up, and
can bend, twist, contract, or extend
its limbs as it pleases, and does
those things almost before think ing
of doing them, how much more easy
is it for a God to do so,
whose deity governs and regulates all
things. It is the Deity, too, which
presents various signs to us, many of
which history has recorded for us; as
for instance, we find it stated that
if the moon was eclipsed a little
before sunrise in the sign of Leo,
it was a sign that Darius should
be slain and the Persians be defeated
by Alexander and the Macedonians. And
if a girl was born with two
heads, it was a sign that there
was to be a sedition among the
people and corruption and adultery at
home. If a woman should dream that
she was delivered of a lion, the
country in which such an occurrence
took place would soon be subjected to
foreign domination. Of the same kind
is the fact mentioned by Herodotus,
that the son of Croesus spoke, though
the gift of speech was by nature
denied him; which prodigy was au
indication that his father's kingdom and
family would be utterly destroyed. And
all our histories relate that the
head of Servius Tullius while sleeping
appeared to be on fire, which was
a sign of the extraordinary events
which followed. As, therefore, a man
who falls asleep while his mind is
full of pure meditations, and all
circumstances around him adapted to
tranquillity, will experience in his dreams
true and certain presentiments; so also
the chaste and pure mind of a
waking man is better suited to the
observation of the course of the
stars, or the flight of birds, and
the intima tions of the truth to
be collected from entrails. And connected
with this principle is the tradition
which we have received concerning Socrates,
which is often affirmed by himself in
the books of his disciples— that he
possessed a certain divinity, which he
called a demon, and to which he
was always obedient, — a genius which never
com pelled him to action, but often
deterred him from it. The same
Socrates (and where can we find a better
authority ?) being consulted by Xenophon,
whether he should follow Cyrus to the
wars, gave him his counsel, and then added
these words, —" The advice I give
you is merely human : in such
obscure and uncertain cases, it is
best to consult the oracle of Apollo,
to whom the Athenians have always pub
licly appealed in questions of
importance." It is likewise written
of Socrates, that having once seen
his friend Crito with his eye
bandaged, and having asked him what
was the matter with it, he received
for answer, that as he was walking
in the fields, a branch of a
tree he had attempted to bend sprang
back, and hit him in the eye.
Upon this, Socrates replied, " This
is the consequence of your not having
obeyed me when I recalled you,
following the divine presentiment, according
to my custom." Another remarkable
story is told of Socrates. After the
battle in which the Athenians were
defeated at Delium, under the command
of Laches, he was obliged to fly
with that unfortunate general. At length
reaching a spot where three ways met,
he refused to pursue the same track
as the rest. When they inquired the
cause of his behaviour, he said that
he was restrained by a God. The
others, who left Socrates, fell in
with the enemy's cavalry. Antipater has
collected many other instances of the
admi rable divination of Socrates, which
I omit, for they are quite familiar
to you, and I need not further
enumerate them. I cannot, however, avoid
mentioning one fact in the history of
this philosopher, which strikes me as
magnificent, and almost divine ; — namely,
that when he had been condemned by
the sentence of impious men, he said,
he was prepared to die with the
most perfect equanimity; because the God
within him had not suffered him to
be afflicted with any idea of o2
impending evil, either when he left
his home, or when he appeared before
the court. I think, therefore, that true
divination exists, although those men are
often deceived who appear to proceed
on con jecture, or on artificial
rule?. For men are fallible in all
arts, and we cannot suppose tliey are
infallible here. It may happen that
some sign, which has an ambiguous
signification, is received in a certain
one. It may happen that some par
ticular has escaped the notice of the
inquirer, or is purposely concealed by
him, because opposed to his interest.
I should, however, consider my plea
for divination suffi ciently established,
if only a few well-authenticated cases
of presentiment and prophecies could be discovered;
whereas, in truth, there are many. I
will even declare without hesi tation,
that a single instance of presage and
prediction, all the points of which
are borne out by subsequent events—
and that definitely and regularly, not
casually and fortuitously — would suffice
to compel an admission of the reality
of divi nation from all reasonable
minds. It appears to me, moreover,
that we should refer all the virtue
and power of divination to the
Divinity, as Posi- donius has done,
as before observed; in the next place
to Fate, and afterwards to the nature
of things. For reason compels us to
admit that by Fate all things take
place. By Fate I mean that which
the Greeks call ei/mp^e'i'^, that is,
a certain order and series of causes
— for cause linked to caiise produces all
things : and in this connexion of
cause consists the constant truth which
flows through all eternity. From whence
it follows that nothing happens which
is not pre destined to happen; and
in the same way nothing is predes
tined to happen, the nature of which
does not contain the efficient causes
of its happening. From which it must
be understood that fate is not a
mere superstitious imagination, but is what
is called, in the lan guage of
natural philosophy, the eternal cause of
things; the cause why past things
have happened, why present things do
happen, and why future things will
happen. And thus we are taught by
exact observation, what consequences are
usually produced, by what causes, though
not invariably.. And thus the causes
of future events may truly be
discerned by those who behold them in
states of ecstasy or quiet. Since,
then, all things happen by a certain
fate, (as will be shown in another
place.) if any man could exist who
could comprehend this succession of causes
in his intellectual view, such a man
would be infallible. For being in
possession of a knowledge of the
causes of all events, he would neces
sarily foresee how and when all
events would take place. But as no
being except the Deity alone can do
this, man can attain no more than
a kind of presentiment of futurity,
by observing the events which are the
usual consequences of certain signs. For
those events that are to happen in
future do not start into existence on
a sudden. But the regular course of
time resembles the untwisting of a
cable, producing nothing absolutely new,
but all things in a grand concatena
tion or series of repetitions. And
this has been observed by those who
possess the gift of natural divination,
and by those who study the regular
successions of certain things. For though
they do not always apprehend the
causes, yet they clearly discern the
signs and marks of the causes. And
by diligently investi gating and committing
to memory all such signs, and the
traditions of our ancestors concerning
them, they produce an elaborate system
of that divination which is termed
technical respecting the entrails of victims,
thunder and lightning, prodigies, and
celestial phenomena. We must not,
therefore, be astonished that those who
addict themselves to divination foresee
many events which have no place of
existence. For all things do even now
exist, though they are removed in
point of time. And as the vital
embryo of all vegetation exists in
seeds, from which they afterwards
germinate, so are all things even now
hidden in their causes, and perceived
as hereafter to happen by the mind
when it is thrown into an ecstasy,
or relaxed in sleep, and cool reason
and calculation is often granted a
presenti ment of them. And as the
astrologers who watch the risings,
settings, and various courses of the
sun, moon, and other stars, can
predict long before all their revolutions
and phenomena ; so those who have
noted the series and conse quence of
events, with constant and indefatigable atten
tion, during a very long period, do
generally, or (if that is too
difficult) at least occasionally, foresee
with certainty the things that are to
come to pass. Such are some of
the arguments derived from the nature
of fate, by which the reality of
divination may be proved. Another powerful
plea in favour of divination, may be
drawn from Nature herself, which teaches
us how great is the energy of
the mind when abstracted from the
bodily senses, as it is most
especially in ecstasy and sleep. For
even as the Gods know what passes
in our minds without the aid of
eyes, ears or tongues, (on which
divine omniscience is founded the feeling
of men, that when they wish in
silence for, or offer up a prayer
for anything, the Gods hear them,) so
when the soul of man is disengaged
from corporeal impe diments, and set
at freedom, either from being relaxed
in sleep, or in a state of
mental excitement, it beholds those wonders
which, when entangled beneath the veil
of the flesh, it is unable to
see. It may be difficult, perhaps,
to connect this piinciple of nature
with that kind of divination which we
have stated to result from study and
art. Posidonius, however, thinks that there
are in nature certain signs and
symbols of future events. We are
informed that the inhabitants of Cea,
according to the report of Heraclides
of Pontus, are accus tomed carefully
to observe the circumstances attending the
rising of the Dog Star, in order
to know the character of the ensuing
season, and how far it will prove
salubrious or pestilential. For if the
star rose with an obscure and dim
appearance, it proved that the atmosphere
was gross and foggy, and its
respiration would be heavy and unwhole
some. But if it appeared bright and
lucid, then that was a sign that
the air was light and pure, and
therefore healthful. Democritus believed that
the ancients had wisely enjoined the
inspection of the entrails of animals
which had been sacrificed, because by
their condition and colour it is
possible to determine the salubrity or
pestilential state of the atmo sphere,
and sometimes even what is likely to
be the fertility or sterility of the
earth. And if careful observation and
practice recognise these rules as
proceeding from nature, then every day
might bring us many examples which
might deserve notice and remark; so
that the natural philosopher whom Pacuvius
introduces in his Chryses, seems to
me very ignorant of the nature of
things, wlien he says, — All those
who understand the speech of birds
And hearts of victims better than
their own, May be just listen'd to,
but not obey'd. Why should he make
such a remark here, when a little
after he speaks thus plainly in a
contrary sense 1 — Whatever God may
be, 'tis he who forms, Preserves and
nurtures all. Unto himself Ho back
absorbs all beings, — evermore The universal
Sire,— at once the source And end of
nature. Why, then, since the universe
is the sole and common home of
all creatures, and since the minds of
men always have existed, and will
exist, why, I say, should they not
be able to perceive the consequences,
and what is the result indicated by
each sign, and what events each sign
foreshows r( These are the arguments
which I had to bring forward on
the subject of divination. For the
rest, I in nowise believe in those
who predict by lots, or those who
tell fortunes for the sake of gain,
nor those necromancers who evoke the
manes, whom your friend Appius consulted.
Of little service are the Morsian
prophet, The Haruspi of the village,
the astrologer Of the throng'd circus,
or the priest of Isis, Or the
imposturous interpreter Of dreams. All
these are but false conjurors, Who
have no skill to read futurity, They
are but hypocrites, urged on by
hunger ; Ignorant of themselves, they
would teach others, To whom they
promise boundless wealth, and beg A
penny in return, paid in advance.
Such is the style in which Ennius
speaks of those pre tenders of
divination; and a few verses before,
he lias affirmed that though the Gods
exist, they take no care of the
human race. I am of a contrary
opinion, and approve 01 divination, because
I believe that the Gods do watch
over men, and admonish them, and
presignify many things to them, all
levity, vanity, and malice being excluded.
And when Quintus had said this, You
are, indeed, said I, admirably prepared.
When I have been considering, as I
frequentlj7 have, vnth deep and prolonged
cogitation, by what means I might
serve as many persons as possible, so
as never to cease from doing service
to my country, no better method has
occurred to me than that of
instructing my fellow-citizens in the
noblest arts. And this I natter
myself thai I have already in some
degree effected in the numerous works
which I have written. In the treatise
which I have entitled "
Hortensius," I have earnestly recommended
them to the study of philoso phy
; and in the four books of
Academic Questions, I have laid open
that species of philosophy which I
think the least arrogant, and at the
same time the most consistent and
elegant. Again, as the foundation of
all philosophy is the knowledge of
the chief good and evil which we
should seek or shun, I have
thoroughly discussed these topics in five
books, in order to explain the
different arguments and objections of the
various schools in relation thereto.1 In
five other books of Tusculan Questions,
I have explained what most conduces
to render life happy. In the first,
I treat of the contempt of death ;
in the second, of the endurance of
pain and sorrow ; in the third, of
mitigating melancholy; in the fourth, of
the other perturbations of the mind;
and in the fifth, I elaborate that
most glorious of all philosophic doctrines
— the all-sufficiency of virtue ; and prove
that virtue can secure our perpetual
bliss without foreign appliances and
assistances. When these works were
completed, I wrote three books on
the Nature of the Gods. I have
discussed all the different bearings and
topics of that subject, and now I
proceed in the composition of a
treatise on Divination, in order to
give 1 He is here referring to
the treatise De Finibus. that subject
the amplest development. And if, when
this is finished, I add another on
Fate, I shall have abundantly examined
the whole of that question. To this
catalogue of my writings, I must likewise
add my six books on the Republic,
which I composed when I was directing
the government of the State. A grand
subject, indeed, and peculiarly connected
with philosophy, and one which has
been richly elaborated by Plato, Aristotle,
Theo- phrastus, and the whole tribe
of the Peripatetics. I must not
forget to mention my Essay on
Consolation, which afforded me myself no
inconsiderable comfort, and will, I trust,
be of some benefit to others. Besides
this, I lately wrote a work on
Old Age, which I addressed to Atticus
; and since it is owing to philosophy
that our friend Cato is the good
and brave man that he is, he is
well entitled to an honourable place
in the list of my writings.
Moreover, as Aristotle and Theophrastus, two
authors emi nently distinguished both for
the penetration and fertility of their
genius, have united with their philosophy
precepts like wise for eloquence, so
I think that I too may class
among my philosophical writings my treatise
on the Oratorical Art. So there are
three books on Oratory, a fourth
Essay entitled Brutus, and a fifth
named the Orator. Such are the works
I have already written, and I am
girding myself up to what remains, with
the desire (if I am not hindered
by weightier business) of leaving no
philosophical topic otherwise than fully
explained and illustrated in the Latin
language. For what greater or better
service can we render to our country,
than by thus educating and instructing
the rising generation, especially in times
like these, and in the present state
of morality, when society has fallen
into such disorders as to require
every one to use his best exertions
to check and restrain it ? Not
that I expect to succeed (for that,
indeed, cannot be even hoped) in winning
all the young to the study of
philo sophy. I shall be glad to
gain even a few, the fruits of
whose industry may have an extended
effect on the republic. Indeed, I
already begin to gather some fruit of
my labour, from those of more
advanced years, who are pleased with
my various books. By their eagerness
for reading what I write, my ambition
for writing is from day to day
more vehemently excited. And indeed such
individuals are far more numerous than
I could have imagined. A magnificent
thing- it will be, and glorious
indeed for the Romans, when they
shall no longer find it necessary to
resort to the Greeks for philosophical
literature. And this desideratum I shall
cer tainly effect for them, if I
do but succeed in accomplishing my
design. To the undertaking of explaining
philosophy I was origi nally prompted
by disastrous circumstances of the state.
For during the civil wars I could
not defend the common wealth by
professional exertions; while at the same
time I could not remain inactive. And
yet I could not find anything worthy
of myself for me to undertake. My
fellow-citizens, therefore, will pardon me,
or rather will thank me; because when
Rome had become the property of one
man. I neither concealed myself, nor
deserted them, nor yielded to grief,
nor conducted myself like a politician
indignant at either an individual or
the times, — nor played the part of a
flatterer of, or courtier to, the
power of another, so as to be
ashamed of myself. For from Plato and
philosophy I had learnt this lesson,
that certain revolutions are natural to
all republics, which alternately come under
the power of monarchs, and democracies,
and aiistocracies. And when this fate
had befallen our own Commonwealth, then,
being deprived of my customary employments,
I applied myself anew to the study
of philosophy, doing so both to
alleviate my own sorrow for the
calamities of the state, and also in
the hope of serving my fellow-countrymen
by rny writings. And thus in my
books I continued to plead and to
harangue, and took the same care to
advance the interests of philosophy as
I had before to promote the cause
of the Republic. Now, however, since
I am again engaged in the affairs
of government, I must devote my
attention to the state, or I should
rather say, all my labours and cares
must be occupied about that ; and I
shall only be able to give to
philosophy whatever little leisure I can
steal from public business and public
employments. Of these matters, however, I
shall find a better occasion to
speak; let me now return to the
subject of divination. For when my
brother Quintus had concluded his arguments
on the subject of divination, con
tained in the preceding book, and we
had walked enough to satisfy us, we
sat down in my library, which, as
I before noticed, is in my Lyceum.
III. Then I said, — Quintus, you have
defended the doctrine of the Stoics,
respecting divination, with great accuracy,
and on the strictest Stoical principles.
And what particularly pleased me was,
that you supported your cause chiefly
by authorities, and those, too, of
great force and dignity, borrowed from
our own countrymen. It is now my
part to notice what you have
advanced. But I shall do so without
offering anything absolutely on one side
or the other, examining all your argu
ments, often expressing doubts and
distrusting myself. For if I assumed anything
I could say on this subject as
certain, I should play the part of
a diviner even while denying divination.
I am, no doubt, greatly influenced
by that preliminary question which
Carneades used to raise, — namely, What is
the subject matter of divination 1 Is
it things perceived by the senses, or
not 1 Such things we see, or
hear, or taste, or smell, or touch.
Is there, then, among such, anything
which we perceive more by some
foreseeing power, or agitation of the
mind, than through nature herself] Or
could a diviner, if he were blind
as Tiresias, somehow or other distinguish
between white and black 1 or if
he were deaf, could he distinguish
between the articulations and modulations
of voices ? Divi nation, therefore,
cannot be applied to those objects
which come under the cognisance of
the senses. Nor is it of much
use, even in matters of art and
science. In medicine for instance, if
a person is sick we do not call
in the diviner or the conjuror, but
the physician ; and in music, if we
wish to learn the flute or the
harp, we do not take lessons from
the soothsayer, but from the musician.
It is the same in literature, and
in all those sciences which are
matters of education and discipline. Do
you think that those who addict
themselves to the art of divination
can thereby inform us whether the sun
is larger than the earth or of
the same size as it appears, or
whether the moon shines by her own
light or by a radiance borrowed from
the sun, or what are the laws
of motion obeyed by these orbs, or
by those other five stars which are
termed the planets [None of those who
pass for diviners pretend to be able
to instruct mankind in these matters,
nor can they prove the 204 ON
DIVINATION. truth or falsehood of the
problems of geometry. Such mat ters
belong to the mathematician, not to
conjurors. And in those questions which are
agitated in moral philosophy, is there
any one with respect to which any
diviner ever gives an answer, or is ever
consulted as to what is good, bad,
or indifferent ? For such topics
properly belong to philosophers. As to
duties, who ever consulted a diviner
how to regulate his behaviour to his
parents, his brethren, or his friends
1 or in what light he should
regard wealth, and honour, and authority
? These things are referred to sages,
not diviners. Again, as to the
subjects which belong to dialecticians, or
natural philosophers. What diviner can tell
whether there is one world or more
than one 1 what are the principles
of things from which all things
derive their being1? That is the
science of the natural philosopher. Or who
asks a diviner how to solve the
difficulty of a fallacy, or disentangle
the perplexity of a sorites, which we
may render by the Latin word
acervalem (an accumulation), though it is
unnecessary ; for just as the word
philosophy, and many other Grecian terms,
have become naturalized in our language,
so this word sorites is already
sufficiently familiar among us. These
subjects belong to the logician, not
to the diviner. Again, if the question
be, which is the best form of
govern ment, what are the relative
advantages or disadvantages of such and
such laws and moral regulations, should
we dream of advising with a
soothsayer from Etruria, or with princes
and chosen men experienced in political
matters 1 Now, if divination regards
neither those things which are perceived
by the senses, nor those which are
taught by art, nor those which are
discussed by philosophy, nor those which
affect the politics of the state, I
scarcely understand what can be its
object. It must either bear upon all
topics, or else some particular one
must be allotted to it in which
it may be exercised. Now common sense
certifies us that it does not bear
on all topics, and we are at a
loss to discover what particular topic,
or subject matter, it can embrace. It
follows, therefore, that divination does
not exist. V. There is a common
Greek proverb to this effect : — The
wisest prophet 's he who guesses best.
Will, then, a soothsayer conjecture what
sort of weather is coming better than
a pilot? or will he divine the
character of an illness more acutely
than a doctor ? or the proper
way to carry on a war better
than a general '? But I observe, 0
Quintus, that you have pnidently dis
tinguished the topics of divination from
those matters which lie within the
sphere of art and skill, and from
those which are perceived by the
observation of the senses, or by any
system. You have denned it thus : —
Divination is the pre sentiment and power
of foretelling or predicting those things
which axe fortuitous. But, in the
first place, you are only arguing in
a circle. For does not a pilot,
or a physician, or a general foresee
the probabilities of things fortuitous as
well as your diviner? Can, then, any
augur whatsoever, or sooth sayer, or
diviner, conjecture better whether a
patient will escape from sickness, or
a ship from peril, or the army
from the manoeuvres of the enemy,
than a physician, or pilot, or
general ? But you said that these
matters did not belong to the
diviner; but that men could foresee
impending winds or showers by certain
signs ; and to confirm this argument,
you have cited certain verses of my
translation of Ai-atus. And yet these
atmospheric phenomena are fortuitous ; for
they only happen occasionally, and not
always. What, then, is this presentiment
of things fortuitous, which you call
divina tion, and to what can it
be applied? For those things of which
we can have a previous notion by
some art or reason, you speak of
as belonging not to diviners, but to
men of skill in them. Thus you
have left divination nothing but the
power of predicting those fortuitous things
which cannot be foreseen by any art
or any prudence. If, for example,
any one had, many years before,
predicted that Marcus Marcellus, who was
thrice consul, was to perish by a
shipwreck, he would, doubtless, have been
a true diviner, because such a fact
could not have been foreseen by any
other means than that of divination.
Divination, there fore, is a foreknowledge
of events which depend on fortune.
But can there be a just presentiment
of those things which do not admit
of any rational conjecture to explain
why they will happen? For what do
we mean when we say a thing
happens by chance, or fortune, or
hazard, or accident, but that something
has happened or taken place wnich
might never have happened or taken place
at all, or -which might have happened
or taken place in a different manner
? Now how can that be fairly
foreseen or predicted which thus takes
place by chance, and the mere caprice
of fortune ? It is by reason
that the physician foresees that a
malady will increase, a pilot that a
tempest will descend, and a general
that the enemy will make certain
diversions. And yet these men, who
have generally good reasons on which
their opinions respecting relative probabilities
are founded, are themselves often deceived.
As when the husbandman sees his olive-trees
in blossom, he ventures to expect
that they will also bear fruit;
nevertheless, he is sometimes mistaken. Now,
if those who never assert anything
but from some probable conjecture founded
on reason, are often mistaken, what
are we to think of the conjectures
of those men who derive their
presages of futurity from the entrails
of victims, or birds, or prodigies,
or oracles, or dreams. I have not
as yet come to show how utterly
null and vain such signs are, as
the cleft of a liver, the note
of a crow, the flight of an
eagle, the shooting of a star, the
voices of people in frenzy, lots and
dreams, of each of which I shall
speak in its turn ; at present I
dwell only on the general argument.
How can it be fore seen that
anything will happen which has neither
any as signable cause, or mark, to
show why it will happen 1 The
eclipses of the sun and moon are
predicted for a series of many years
before they happen, by those who make
regular calculations of the courses and
motions of the stars. They only
foretell that which the invariable order
of natuie will necessarily bring about.
For they perceive that in the un-
deviating course of the moon's motions,
she will arrive at a given period
at a point opposite the sun, and
become so exactly under the shadow of
the earth, which is the boundary of
night, that she must be eclipsed.
They likewise know, that when the same
moon comes between the earth and the
sun, the latter must appear eclipsed
to the eyes of men. They know
in what sign each of the wandering
stars will be at a future pariod,
and when each sign will rise and
set on any specific day. So that
you know on what principles those men
proceed who predict these things. But what
rational rule can guide those men who
predict the discovery of a treasure,
or the accession to an estate 1
And by what series of cause and
effect are the approach of events of
this kind indicated 1 If these
events, and others of the same kind,
happen by any kind of neces sity,
then what is there that we can
suppose to be brought about by chance
or fortune 1 For nothing is so
opposite to regularity and reason as this
same fortune ; so that it seems to
me that God himself cannot foreknow
absolutely those things which are to
happen by chance and fortune. For if
he knows it. ilien it will certainly
happen; and if it will certainly
happen, there is no chance in the
matter. But there is chance; therefore
there is no such thing as a pre
sentiment of the future. If, however,
you maintain that there is no such
thing as fortune, and that all things
which happen, and which are about to
happen, are determined by fate from
all eternity, then you must change
your definition of divination, which you
have termed the presentiment of thing's
fortuitous. For if nothing can happen,
or come to pass, or take place,
unless it has been determined from
all eternity that it shall happen at
a certain time what, chance can there
be in anything 1 And if there
is no such thing as chance, what
becomes of your definition of divination,
which you have called "a pre
sentiment of fortuitous events'?" although
you said that everything which happened,
or which was about to happen,
depended on fate. [Nevertheless, a great
deal is said on this subject of
fate by the Stoics. But of this
elsewhere. To return to the question
at issue. If all things happen by
fate, what is the use of divination.
For that which he who divines predicts, will
truly come to pass ; so that I
do not know what character to affix
to that circumstance of an eagle
making our friend King Deiotaris renounce
his journey; when, if he had not
turned back, he would have slept in
a chamber which fell down in the
ensuing night, and have been crushed
to death in the ruins. For if
his death had been decreed by fate,
he could not have avoided it by
divination ; and if it was not
decreed by fate, he could not have
experienced it. What, then, is the
use of divination, or what reason is
there why I should be moved by
lots, or entrails, or any kind of
prediction 1 For if in the first
Punic war it had beesettled by fate,
that one of the Roman fleets,
commanded by the consuls Lucius Junius
and Publius Clodius, should perish by
a tempest, and that the other should
be defeated by the Carthaginians, then
even if the chickens had eaten ever
so greedily, still the fleets must
have been lost. But if the fleets
would not have perished, if the auspices
had been obeyed, then they were not
destroyed by fate. But you say that
everything is owing to fate; therefore
there is no such thing as divination.
If fate had determined, that in the
second Punic war the army of the
Komans should be defeated near the
lake Thra- simenus, then could this
event have been avoided, even if
Flaminius the consul had been obedient
to those signs f and those auspices
which forbade him to engage in
battle'? Cer tainly it might. Either,
then, the army did not perish by
fate — for the fates cannot be changed, —
or if it did perish by fate (as
you are bound to assert), then, even
if Flaminius had obeyed the auspices,
he must still have been defeated.
Where, then, is the divination of the
Stoics 1 which is of no use to
us whatever to warn us to be
more prudent, if all things happen by
destiny. For do what we will, that
which is fated to happen, must
happen. On the other hand, what ever
event may be averted is not fated.
There is, there fore, no divination,
since this appertains to things which
are certain to happen; and nothing is
certain to happen, which may by any
means be frustrated. Moreover, I do
not even think that the knowledge of
futurity would be useful to us. How
miserable would have been the life of
King Priam if from his youth he
could have foreseen the calamities which
awaited his old age ! Let us,
however, leave alone fables, arid come
to facts that are more near to
us. I have recounted, in my essay
entitled " Conso lation," the
misfortunes which have happened to the
greatest men of our commonwealth. Omitting,
therefore, the ancients, do you think
that it would have been any advantage
to Marcus Crassus, when he was
flourishing with the amplest riches and
gifts of fortune, to have foreknown
that he should behold his son Publius
slain, his forces defeated, and lose
his own life beyond the Euphrates
with ignominy and disgrace ? Or do
you think that Pompey would have
experienced much satisfaction in being
thrice made consxil, and having received
three triumphs, and having attained the
summit of glory by his heroic
actions, if he could have foreseen
that he should be assassinated in the
deserts of Egypt after the defeat of
his army, and that after his death
those disasters should happen which we
cannot mention without tears ? What
do we think of Caesar 1 Would
it have been any pleasure to Caesar
to have anticipated by divination, that
one day, in the midst of the
throng of senators whom he himself
had elected, in the temple of Victory
built by Pompey, and before that
general's statue, and before the eyes
of so many of his own centurions,
he should be slain by the noblest
citizens, some of whom were indebted
to him for their digni ties, — aye,
slain under such circumstances that not
one of his friends, or even of
his servants, would venture to approach
him ? Could he have foreseen all
this, in what wretchedness would he
have passed his life 1 It is,
therefore, certainly more advantageous for
man to be ignorant of future evils
than to know them. For it cannot
be said, at least not by the
Stoics, that Pornpey would not have
taken up arms, nor Crassus passed the
Euphrates, nor Csesar engaged in the
civil war, if they had foreseen the
future; therefore the end which they
met with was not in evitably ordained
by fate. For you insist upon it
that all things happen by fate,
therefore divination would have availed
them nothing. It would even have
deprived them of all enjoy ment in
the earlier part of their lives; for
what gratification could they have enjoyed
if they had been always thinking of
their end I Therefore, to whatever
argument the Stoics resort in defence
of divination, their ingenuity is always
baffled. For if that which is to
happen may happen in different mode;,
then, indeed, fortune may have great power;
but that which is fortuitous cannot
be certain. If, on the other hand,
every event is absolutely determined by
fate, and the time and cir cumstance
in connexion with which it is to
take place, what service can diviners
render us by informing us that very
sad events arc portended for us. They
add, moreover, that when we are duly
attentive to religious ceremonies, all
things will fall more lightly on us.
But if everything happens by fate, no
religioxis ceremonies cau lighten the
event. Homer acknowledges this, when he
introduces Jupiter uttering complaints that he
cannot save the life of his son
Sarpedon against the order of fate;
and the same sentiment is expressed
in the Greek verse— Great Destiny
o'ermaster's Jove himself. It appears to
me that such a fate as this is
justly ridiculed by the Atellane plays
; but on such a serious subject
we must not allow ourselves to be
facetious. I therefore conclude with this
observation. If we cannot foresee anything
which happens by chance, since that
thing is necessarily uncertain, therefore
there is no divination; and if, on
the contrary, things that are to
happen can be foreseen because they happen
by an infallible fatality, there is
no divination, because you say divination
only relates to for tuitous events.
But what I have hitherto said respecting
divination may be looked upon as a
mere slight skirmishing of oratory. I
must now enter on the contest in
good earnest, and prepare to encounter
the most formidable arguments of your
cause. For you say that there exist
two kinds of divination, — one
artificial, the other natural. The
artificial consists partly in conjecture,
partly in continued observation. The
natural, on the other hand, is what
the mind lays hold of or receives
externally from the divinity, from which
we all derive the origin, and
fashioning, and preservation of our minds.
Under the artificial divination you
enumerate several varieties of divination
connected with the inspection of entrails,
the observation of thunderstorms and
prodigies, and the auguries of those
who deal in signs and omens. And
under this artificial class you include
all kindsof conjectural divination. As to
the natural species of divination, it
appears to be sent forth and to
issue either from a certain ecstasy
of the spirit, or to be conceived
by the mind when disengaged from the
senses and from cares by sleep. But
you suppose that all divination is
derived from three things God, Fate, and
Nature. But as you could give no
sound explanation, you laboured to confirm
it by a wonderful multitude of
imaginary examples, concerning which you
must permit me to say, that a
philosopher ought not to use evidences
which may be true through accident,
or false and fictitious through malice.
It behoves you to show, by reason
and argument, why each circtimstance
happens as it does, rather than by
the events, especially when they are
such as I am quite unable to
give credit to. XII. To begin then
with the Soothsayers, whose science I
believe that the interest of Religion
and the State requires to be upheld.
But as we are alone, it
behoves us, and myself more especially,
to examine the truth without partiality,
since I am in doubt on many
points. Let us proceed, if you
please, first to consider the inspec
tion of the entrails of victims. Can
you then persuade any man in his
senses, that those events which are
said to be signified by the entrails,
are known by the augurs in con
sequence of a long series of
observations [How long, I wonder ! For
what period of time can such
observations have been continued 1 What
conferences must the augurs hold among
themselves to determine which part of
the victim's entrails represents the enemy,
and which the people ; what sort of
cleft in the liver denoted danger,
and what sort presaged advantage? Have
the augurs of the Etrurians, the
Eleans, the Egyptians, and the
Carthaginians arranged these matters with
one another ? But that, besides that
it is quite impossi ble, cannot be
imagined. For we see that some
interpret the auspices in one way,
and some in another, and no common
rule of discipline is acknowledged among
the professors of the art; and
certainly if some secret virtue existed
in the victim's entrails which clearly
declared the future, it must either
belong to the universal nature of
things, or be connected in some way
or other with the Deity himself. But
what com munication can there exist
between so great and so divine a
natuz-e of things, one so beautiful,
and so admirably diffused throughout every
part and motion, and (I will not
say) the gall of the cock, (though
that, indeed, is said by many to
be the most significant of all
signs,) but the liver, or heart, or
lungs of a fat bullock 1 Can
such things possibly teach us the
hidden mysteries of futurity? Democritus,
speaking as a natural philosopher, than
which no class of men are more
arrogant, on this subject, trifles
ingeniously enough. Man, who knows not
the common facts of earth, Must waste
his time in star-gazing. He remarks,
that the colour and condition of the
victim's entrails may indicate the nature
of the pasturage, and the abundance or
scarcity of those things which the
earth brings forth. He even supposes
they may guide our opinions respecting
the wholesonieness or pestilential state of
the atmosphere. 0 happy man! such a
person can certainly never want amusement.
The idea of any one being so
enchanted with such trifling, as not
to see that this theory might be
plausible, if, indeed, the entrails of
all animals assumed the same appearance
and colour at one and the same
time ! But if we discover that
the liver of one animal is sound
and healthy, and that of another
withered and diseased at the same
moment, what indication can we draw
from the state and colour of the
entrails'? Does this at all resemble
the indications from which that Pherecydes,
in a case which you have cited,
predicted the approach of an earthquake
from the drying up of a spring?
It required a little confidence, I
think, after the earthquake had taken
place, to presume to say what power
had produced it ; [but] could they
even foresee that it would take place
at all from the appearance of a
running spring? Many such stories are
recounted in the schools, but we are
not obliged to believe the whole of
them. But even supposing that what
Democritus says is true, when do we
seek to know the general phenomena of
nature by an examination of entrails;
or when did soothsayers ever tell us
anything of the sort from such an
inspection? They warn us of danger
from fire or water. Sometimes they
predict that inheritances will be added
to our fortunes, and .sometimes that
we shall lose what we already
possess. They regard the cleft in the
lungs as a matter of vital importance
to our property and our very life ;
they in vestigate the top of the
liver on all sides with the most
scrupulous exactness, and if by any
chance they cannot dis cover it, they
affirm that nothing more disastrous could
have happened. It is impossible, as I
have before observed, that such a
system of observation can have any
certainty about it; such divination as
this nourished not among the ancients;
it is the invention of mere art,
if, indeed, there can be any art,
properly so called, of things unknown.
But what connexion has it with the
nature of things? And even if it
were united and joined therewith, so
as to form one harmonious whole,
which I see is the opinion of
the natural philosophers, Ulo and especially
of those who say that all things
that exist are but one whole ; still
what correspondence can there be between
the order of the universe and the
discovery of a treasure? For if an increase
of my wealth is indicated by the
entrails of a victim, and this fact
is a necessary link in the chain
of nature, then it follows, in the
first place, that we must suppose
that the entrails themselves form other
links; and secondly, that my private
gain is connected with the nature of
things. Are not the natural philosophers
ashamed to say such things as these?
For, although there may be some connexion in the nature of
things, which I admit to be possible, — (for the Stoics
have collected many cases which they
think confirm the notion, as when
they assert that the little livers of
little mice increase in winter, and
that dry pennyroyal flourishes in the
coldest weather, and that the distended
vesicles, in which the seeds of its
berries are contained, then burst asunder;
that the chords of a stringed
instrument at times give notes different
from their usual ones; that oysters
and other shell-fish increase and decrease
with the growth and waning of the
moon ; and that trees lose their
vitality as the moon declines, just
as they dry up in winter, and
that this is the time to\cut them.
Why need I speak of the seas,
and the tides of the ocean, the
flow and ebb of which are said
to be governed by the moon ? and
many other examples might be related
to prove that some natural connexion
subsists between objects appa rently remote
and incongruous. Let us grant this, for
it does not in the least make
against our argument ;) — granting, I say,
that there is a cleft of some
kind in a liver, does that indicate
gain to any one? By what natural
affinity, by what harmony, by what
secret accord of nature, or, to use
the Greek term, by what sympathy can
you discern a necessary relation between
a cleft liver and my gain, or
between my gain and heaven and
earth, and the universal nature of
things ? I may even grant you
this, though I shall be greatly
damaging my argument if I allow that
there is any connexion between nature
and entrails. But suppose I make
this concession, how does it happen
that he who would obtain some benefit
from the Gods can discover, just when
he wishes, a victim exactly adapted
to his purpose ? I had thought
this objection was unanswerable, but see
how cleverly you get over it. I
do not blame you for this, I
rather commend your memory. But I am
ashamed of Antipater, Chrysippus, and
Posidonius, who all assert the same
proposition — namely, that the divine and
sentient energy which extends through the
universe, directs us even in the
choice of the victim by whose
entrails we are to frame our
divinations. And to improve upon this
theory, you agree with them in asserting
that at the very instant that the
sacrifice is offered, a certain appropriate
change takes place in the victim's
entrails, so that we can therein
discover some sig nificant addition or
deficiency, since all things are obedient
to the will of the Gods. Believe
me, there is not an old woman
in the world so superstitious as
gravely to believe these things. Can you
imagine that the same bullock, if
chosen by one man, will have the
head of the liver, and if chosen
by another will not have it 1
Can this same head come and go
at the instant just to accommodate
the individual who offers the sacrifice
1 Do you not perceive that there
must be considerable chance in the
choice of the victim 1 and in
fact the thing speaks for itself,
that this must be the case. For
when one ill-omened victim is discovered
to have had no head to its
liver, it often happens that the one
which is offered immediately afterwards has
the most perfect entrails imaginable. What
then becomes of the menaces of the
first victim's entrails, or how have
the Gods been so suddenly appeased? But
you will say, that in the entrails
of the fat bull which Caesar offered,
there was no heart, and since it
was not possible that this animal
could have lived without a heart, we
must suppose that the heart was
annihilated at the instant of immolation.
How is it that you think it
impossi ble that an animal can live
without a heart, and yet do not
think it impossible that t its heart
could vanish so suddenly, nobody knows
whither? For myself, I know not how
much vigour in a heart is necessary
to carry on the vital function, and
suspect that if afflicted by any
disease, the heart of a victim may
be found so withered, and wasted, and
small, as to be quite unlike a
heart. But on what argument can you
build an opinion that the heart of
this same fat bullock, if it existed
in him before, disappeared at the
instant of immola-lion? Did the bullock
behold Ceesar in a heartless condition
even while arrayed in the purple, and
thus lose its own heart by mere
force of sympathy? Believe me, you
are betraying the city of philosophy
while defending its castles. In trying
to prove the truth of the auguries,
you are overturning the whole system
of physics. A victim has a heart,
and head of the liver : the moment
that you sprinkle him with meal and
wine they depart, some God carries
them off, some power destroys or
consumes them. It is not nature
alone, therefore, which causes the decay
and destruction of everything; and there
are some things which arise out of
nothing, and some which suddenly perish
and become nothing. What natural
philosopher ever said such a thing as
this? The soothsayers affirm it. Do
you then think that you are to
believe them rather than the natural
philosophers? XVII. Again, when you
sacrifice to several Gods at the same
time, how is it that the sacrifice
is favourably received by some, and
is rejected by others ? And what
inconsistency must there be among the
Gods, if they threaten by the first
entrails, and promise good fortune by
the second ! Or is there such strong
dissension among the Deities, even when
they are nearly related to each
other, that certain entrails bode good
when offered to Apollo, and evil when
offered to his sister Diana ? It
is clear that since the victims are
brought by chance, the entrails must
in the case of each sacrificer depend
upon what victim falls to his share,
and that very thing requires some
divination to know what victim falls
to each person's share, as, in the
case of lots, what is drawn by
each person. Then you will speak of
lots, though you are not strengthen
ing the authority of sacrifices by
comparing them to lots, but weakening
that of lots by comparing them to
sacrifices. Do you think, when we
send a messenger to ^Equime- lium to
bring us a lamb to sacrifice, and
the lamb which is brought to me
possesses entrails peculiarly accommodated to
the circumstances of the case, that
the messenger has been guided to him
not by chance, but by divine direction
? For if you wish to signify
that in this case chance interferes,
as being some lot connected with the
will of the Gods, I am sony
that your friends the Stoics should
give the Epicureans such occasion to
ridicule them, for you know well how
they deride oil such ideas. And,
indeed, it is no hard matter to
be facetious on such an idea.
Epicurus, in order to show his wit
on the subject, introduced transparent airy
deities, residing, as it were, be
tween the two worlds as between two
groves, that they may avoid destruction
from the fall of either. These
deities, it seems, possess bodies like
ourselves, though I cannot find that
they make any use of them. Epicurus
therefore, who, by a roundabout argument
of this kind, takes away the Gods,
naturally feels no hesitation in taking
away divination also. But though he
is consistent with himself, the Stoics
are not ; for as the God of
Epicurus never troubles himself with any
business, either regarding himself or
others; he, therefore, cannot grant
divination to men. On the other hand,
the God of the Stoics, even though
lie does not grant divination, must
still regulate the affairs of the
universe and take care of mankind.
Why, then, do you involve yourself in
these dilemmas which you can never
disentangle ? For this is the way
in which, when they are in a
hurry, they usually sum up the
matter- — a If there are Gods, there
must be divination; but there are
gods, therefore there is divination."
It would be much more plausible to
say — " There is no divination, there
fore there are no Gods." Observe
how imprudently the Stoics make this
assertion, that if there is no
divination, there are no Gods ; for
divination is plainly discarded, and yet
we must retain a belief in Gods.
After having thus destroyed divination by
the in spection of entrails, all the
rest of the science of the sooth
sayers is at an end ; for prodigies
and lightning follow in the same
category. With respect to the latter,
their predictions are founded on a
long series of observations, while the
interpretation of prodigies proceeds chiefly
on inference and conjecture. What
observations, then,, have been made about
lightning? The Etrurians, forsooth, have
divided heaven into sixteen parts; for
it was not very difficult to double
the four quarters, which we recognise,
into eight, and then to repeat the
process, so as by that means to
say from what direc tion the
lightning had come. But in the first
place, what difference does it make ?
Secondly, what does such a thing
intimate 1 Is it not plain from
the astonishment which was at first
excited in men's minds, because they
feared the thunder and the hurling of
the thunderbolt, that they believed that
they were the immediate manifestations brought
about by the all-powerful ruler of
all things, Jupiter ? This is the
reason of the enactment in the public
registers, that the comitia of the
people shall not be held when Jupiter
thunders and lightens. It was enacted,
perhaps with a view to the interest
of the state, for our ancestors
wished to have pretexts for not
holding the comitia. Therefore, in the
case of the comitia, lightning is the
only vitiating irregularity. But in all
other matters it is a most favourable
auspice if it comes on the left
hand. But we will speak of the
auspices hereafter ; at present we will
confine ourselves to lightning. What can be
less proper for natural philosophers to
say, than that anything certain is
indicated by things which are uncertain
1 I cannot believe that you are
one of those who imagine that there
were Cyclopes in mount ^Etna who
forged Jove's thunderbolt, for it would
be wonderful indeed if Jupiter should
so often throw it away when he
had but one. Nor would he warn
men by his thunderbolts what they
should do or what thoy should avoid.
For the opinion of the Stoics on
this point is, that the exhalations
of the earth which are cold, when
they begin to flow abroad, become
winds ; and when they form themselves
into clouds, and begin to divide and
break up their fine particles by
repeated and vehement gusts, then thunder
and lightning ensue ; and that when
by the conflict of the clouds the
heat is squeezed out so as to
emit itself, then there is lightning.
Can we, then, look for any intimation
of futurity in a thing which we
see brought about by the mere force
of nature, without any regularity or
any determined pei'iods 1 If Jupiter
wished that we should form divinations
by lightnings, would he throw away so
many flashes in vain ] For what
good does he do when he throws
a thunderbolt into the middle of the
sea, or upon lofty mountains, which
is very common, or upon deserts, or
in the countries of those nations
among which no meteorological observations
are made ] Oh ! but a head was
discovered in the Tybcr. As if I
affirmed that those soothsayers had
no skill ! What I deny is only
their divination. For the distribution of
the firma ment, which we have just
mentioned, and their various observations,
enable them to note the direction
from which the lightning has proceeded,
and where it falls. But no reason
can inform us of its signification. You
will, however, urge against me my own
verses — The father of the Gods who
reigns supreme On high Olympus, smote
his proper fane, And hurl'd his
lightnings through the heart of Rome.
At the same time the statue of
Natta and the images of the Gods,
and Romulus and Remus, with that of
the beast who was nursing them, were
struck by the thunderbolt and thrown
down ; and the answers of the
soothsayers, with reference to these
prodigies, were found perfectly correct.
That also was a surprising thing,
that the statue of Jupiter was placed
in the Capitol, two years later than
it had been contracted for, at the
very time that information of the
conspiracy was being laid before the
senate. Will you, then, (for this is
the way you are used to argue
with me,) bring yourself to uphold
that side of the question in
opposition to your own actions and
writings ? You are my brother, and
all you say is entitled to my
respect. Yet what is there here that
offends you? Is it the thing itself,
which is of such and such a
character, or I myself, who only wish
to get at the truth ? I
therefore say nothing upon it for the
sake of contradiction, and only seek
from you yourself information respecting
all the prin ciples of the art
of soothsaying. But you have involved yourself
in an inextricable dilemma; for foreseeing
that you would be hard pressed, when
I should urge you to explain the
cause of every divination, you made
many excuses to show why, when you
were sure of the fact, you did
not inquire into its principles and
causes, — that the question was, what was
done, and not why it was done ;
as if I granted that it was
done at all, or as if it were
not the duty of a philosopher to
inquire into the reason why every
thing takes place. At the same time
you quoted my prog nostics, and spoke
of the scammony, the aristoloch, and
other herbs, whose virtues were evident
to you from their effects, though the
law of their operation was unknown to
you. All this is, however, beside the
main question. For the Stoic Boethus,
whose name you have cited, and even our
friend Posidonius have investigated the
causes of prognostics, and though it
is not easy to discover the cause
of such occult mysteries, yet the
facts themselves may be observed and
animadverted upon. But as to the
statue of Natta and the tables of
the law which were struck by
lightning, what observations were made, or
what was there ancient connected with
the matter 1 The Pinarii Nattse are
noble, therefore danger was to be feared
from the nobility. This was a very
cunning device of Jupiter ! Romulus,
represented by the sculptor as sucking
a she-wolf, was likewise smitten by
the lightning. Hence, according to you,
some danger to the city of Rome
was threatened. How cleverly does Jupiter
make us acquainted with future events
by such signs as these ! Again,
his statue was being erected at the
very same time that the conspiracy
was being discovered in the senate,
and you conceive this coincidence happened
rather by the providence of God than
by any chance of fortune. And you
think that the statuary who had
contracted for the making of that column
with Torquatus and Cotta, was not so
long delayed in accomplishing his work
by idleness or poverty, but by the
special interposition of the immortal Gods.
Now I do not absolutely deny that
such might possibly be the case; but
I do not know that it was, and
wish to be instructed by you. For
when some things appeared to me to
have happened by chance in the way
in which the sooth sayers had
predicted, you launched out into a
long discourse on the doctrine of
chances, saying that four dice thrown
at hazard may produce Venus by
accident, but that four hundred dice
cannot produce a hundred Venuses. In
the first place, I know no reason
in the nature of things why they
should not do even this ; but I
will not argue that point, for you
have plenty of similar examples, and
talk about a chance dashing of
colours, the snout of a pig, and
many other similar instances. You say
that Carneades argued in the same way
about the head of a little Pan
; as if that might not have
happened by chance, and as if there
must not be in all marble the
raw material of even such a head
as Praxiteles would have made. For a
perfect head is only formed by cutting
away. Praxiteles adds nothing to the
marble, but when much that was
superfluous is removed, and the features
are arrived at, then you learn that
that which is now polished up was
always contained within. Such a figure,
therefore, may have spontaneously existed
in the quarries of Chios. But grant
that this is a fiction, have you
never fancied that you could discover
in the clouds the figures of lions
and centaurs 1 Accident may, therefore,
some times imitate nature, though you
denied that just now. But as we
have sufficiently discussed divination by
entrails and lightning, we must now
consider portents and prodigies, in order
that we may leave no branch of
the system of the soothsayers untouched.
You have mentioned a wonderful story of
a mule that was delivered of a
colt; a strange event, because of its
extreme rarity. But if such a thing
were impossible, it would never happen
at all; and this may be said
against all sorts of pro digies, that
those things which are impossible never
happened at all; and if they are
possible, it need not surprise us
that they happen occasionally. Besides, in
extraordinary events, ignorance of their
causes produces astonishment; but in
ordinary events such igno rance occasions
no such result. The man who is
astonished if a mule brings forth a
colt, does not know how it is that
a mare brings forth a foal, or
indeed how, in any case, nature
effects the birth of a living animal;
but he is not surprised at what
he sees frequently, even if he does
not know why it happens; but if
that which he never beheld before
happens, then he calls it a prodigy.
In this case, is it a prodigy
when the mule conceives, or when she
brings forth 1 Perhaps the conception
may have been contrary to nature, but
after that her delivery is almost
necessary. But we have spoken enough
on this topic: let us examine the
origin of the establishment of soothsayers.
For when we are acquainted with it,
we shall be better able to judge
what degree of credit it is entitled
to. They tell us that as a
labourer one day was ploughing in a
field in the territory of Tarquinium,
and his ploughshare made a deeper
furrow than usual, all of a sudden
there sprung out of this same furrow
a certain Tages, who, as it is
recorded in the books of the
Etrurians, possessed the visage of a child,
but the prudence of a sage. When
the labourer was surprised at seeing
him, and in his astonishment made a
great outcry, a number of people
assembled round him, and before long
all the Etrurians came together at
the spot. Tages then discoursed in
the presence of an immense crowd, who
treasured up his words with the
greatest care, and after wards committed
them to writing. The information they
derived from this Tages was the foundation
of the science of the soothsayers,
and was subsequently improved by the
accession of many new facts, all of
which confirmed the same principles. Here
is the story that the Etrurians give
out to the world. This record is
preserved in their sacred books, and
from it their augurial discipline is
deduced. Now do you imagine that we
need a Carneades or Epicurus to
refute such a fable as this1? Lives
there any one so absurd as to
believe that this (shall I say god,
or man 1) was thus ploughed up
out of the earth 1 If he was
a god, why did he conceal himself
under the earth against the order of
nature, so as not to behold the
light till he was ploughed up] Could
not that same god have instructed
mankind from a station somewhat more
elevated ? And if this Tages was
a man, how could he have lived
thus buried and smothered in the
earth 1 and how could he have
learnt the wonders he taught to
others ? But I am even more
foolish than those who believe such
nonsense, for thus wasting so much
time in refxiting them. There is an
old saying of Cato, familiar enough
to everybody, that " he wondered
that when one soothsayer met another,
he could help laughing." For of
all the events pre dicted by them,
how very few actually happen ? And
when one of them does take place,
where is the proof that it does
not take place by mere accident 1
When Hannibal fled to king Prusias,
and was eager to wage war with
the enemy, that monarch replied that
he dared not do so, because the
entrails of the sacrifice wore an
unfavourable aspect. " Would you,
then," said Hannibal, "rather trust
a bit of calf's flesh than a
veteran general?" And as to Caesar,
when he was warned by the chief
sooth sayer not to venture into
Africa before the winter, did he not
cross? If he had not done so,
all the forces of the enemy would
have assembled in one place. Why need
I enumeratethe responses of the
soothsayers, of which I could cite an
infinite number, which have either received
no accomplishment at all, or an
accomplishment exactly the reverse of the
prediction 1 In this last Civil War,
for instance — good Heavens ! how often
were their responses utterly falsified by the
result ! How many false prophecies were
sent to us from Rome into Gi'eece
! How many oracles in favour of
Pompey ! For that general was not
a little affected by entrails and
prodigies. I have no wish to recount
these things to you, nor indeed is
it necessary, for you were present.
But you see that nearly all the
events took place in the manner
exactly contrary to the predictions. So
much for responses. Let us now say
a word or two on prodigies. You
have mentioned several things on this
topic which I wrote during my
consulship. You have brought up
many of those anecdotes collected by
Sisenna before the Mar- sian War, and
many recorded by Callisthenes before the
un fortunate battle of the Spartans
at Leuctra, of each of which I
will speak separately, as far as
seems necessary; but at present we
must discuss of prodigies in general.
For what is the meaning of this
kind of divination — this dreadful denouncing
of impending calamities — derived from the
Gods 1 In the first place, what
is the object of the Gods, in
giving us prodigies and signs which
we cannot understand without interpreters,
and in advertising us of disasters
which we cannot avoid 1 But even
honest men do not act thus, giving
notice to their friends of impending
misfortune which they cannot possibly
avoid; and physicians, though they are
often aware of the fact, yet never
tell their patients that they must
needs die of the complaint from which
they are suffering. For the prediction
of an evil is only beneficial when
we can point out some means of avoiding
it or miti gating it. What good,
then, did these prodigies, or their
interpreters, do to the Spartans, or
more recently to the Romans 1 If
they are to be considered as the
signs of the Gods, why were they
so obscure ? For if they were
sent in order that we might understand
what was about to happen, then it
ought to have been, declared intelligibly;
and if we were not intended to
know, then they should not have been
given even obscurely. As for all
conjectures on which this kind of divination
depends, the opinions of men differ
so much from each other that they
often make very opposite deductions from
the same thing. For as in legal
suits, the plea of the plaintiff is
contrary to that of the defendant,
and yet both are within the limits
of credibility, — so in all those affairs
which only admit of conjectural
interpretation, the reasoning must be
extremely uncertain. And as for those
things which are caused at times by
nature, and at others by chance,
(some times, too, likeness gives rise
to mistakes,) it is very foolish to
attribute all these things to the
interpositions of the Gods, without
examining their proximate causes. You
believe that the Boeotian diviners of
Lebadia foreknew by the crowing of
the cocks that the victory belonged
to the Thebans, because these birds
only crow when they are vic torious,
and hold their peace when they are
beaten. Did, then, Jupiter give a
signal to so important a city by
the means of hens 1 But do
cocks only crow when they are vic
torious 1 At that time they were
crowing, and they had not conquered.
You say that this was a prodigy.
It would have been a prodigy, and
a very great one, if the crowing
had pro ceeded from fishes instead of
birds. But what hour is there of
day, or of night, when cocks do
not crow 1 and if they are
sometimes excited to crow by their
joy in victory, they may likewise be
excited to do the same by some
other kind of joy. Democritus, indeed,
states a very good reason why cocks
crow before the dawn; for, as the
food is then driven out of their
stomachs, and distributed over their whole
body and digested, they utter a
crowing, being satiated with rest. But in
the silence of the night, says
Ennius, " they indulge their throats,
which are hoarse with crowing, and
give their wings repose." As, then,
this animal is so much inclined to
crow of its own accord, what made
it occur to Callisthenes to assert
that the Gods had given the cocks
a signal to -crow; since either nature
or chance might have done it ?
It was announced to the senate that
it had rained blood, that the river
had become blackened with blood, and
that the statues of the immortal gods
were covered with sweat. Do you
imagine that Thales or Anaxagoras, or
any other natural philosopher, would have
given credence to such news? Blood
and sweat only proceed from the
animal body; there might have been
some discoloration caused by some 22
4 ox contagion of earth very like
blood, and some moisture may have
fallen on the statues from without,
resembling perspira tion, as \ve see
sometimes in plaster during the prevalence
of a south wind; and in time of
war such phenomena appeal- more numerous
and more important than usual, as men
are then in a state of alarm,
while they are not noticed in peace.
Besides, in such periods of fear and
peril, such stories are more easily
believed, and invented with more impunity.
We are, however, so silly and
inconsiderate, that if mice, which are
always at that work, happen to gnaw
anything, we immediately regard it as
a prodigy. So because, a little
before the Marsian war, the mice
gnawed the shields at Lanuvium, the
soothsayers declared it to be a most
important prodigy ; as if it could
make any difference whether mice, who
day and night are gnawing something, had
gnawed bucklers or sieves. For if we
are to be guided by such things,
I ought to tremble for the safety
of the commonwealth, because the mice
lately gnawed Plato's Republic in my
library; and if they had eaten the
book of Epicurus on Pleasure, I ought
to have expected that corn would rise
in the market. Are we, then, alarmed
if at any time any unna tural
productions are reported as having
proceeded from man or beast? One of
which occurrences, to be brief, may
be accounted for on one principle.
Whatever is born, of whatever kind it
may be, must have some cause in
nature, so that even though it may
be contrary to custom, it cannot
possibly be contrary to nature.
Investigate, if you can, the natural
cause of every novel and extraordinary
circumstance: — even if you cannot discover
the cause, still you may 'feel sure
that nothing can have taken place
without a cause ; and, by the
principles of nature, drive away that
terror which the novelty of the thing
may have occasioned you. Then neither
earthquakes, nor thunderstorms, nor showers
of blood and stones, nor shooting
stars, nor glancing torches will alarm
you any more. If you ask Chrysippus
to explain the laws hat govern these
phenomena, though he is a great
defender of divina tion, he will
never tell you that they have
happened by chance, but he will give
you a natural explanation of all of
them. For, as it has been before
stated, nothing can happen without a
cause, and nothing happens which is
impossible; iior, if that has happened
which could happen, ought it to be
regarded as a prodigy. Therefore there
are no such things as prodigies. For
if we place in the rank of
prodigies every rare occurrence, it follows
that a wise man is one of the
greatest prodigies. For I believe there
are fewer instances of wise men in
the world, than of mules which have
brought forth young. So this principle
concludes that that which cannot take
place in the nature of things never
does take place; and that that which
can take place in the nature of
things, is not a prodigy, and
therefore there are no prodigies at
all. Therefore a diviner and interpreter
of prodigies being con sulted by a
man who informed him, as a great
prodigy, that he had discovered in
his house a serpent coiled around a
bar, answered very discreetly, that there
was nothing very wonderful in this,
but if he had found the bar
coiled around the serpent, this would
have been a prodigy indeed. By this
reply, he plainly indicated that nothing can
be a prodigy which is consistent with
the nature of things. XXIX. Caius
Gracchus wrote to Marcus Pomponius, that
his father having caught two serpents
in his house, sent to consult the
soothsayers. Why were two serpents entitled
to such an honour more than two
lizards or two mice 1 Because these
are every day occurrences, you would
reply, while ser pents were comparatively
rare ; as if it signified how
often a thing which was possible took
place. But I marvel, if the release
of the female snake caused the death
of Tiberius Gracchus, and that of the
male was to be fatal to Cornelia,
why he let either of them escape.
For he does not record that the
soothsayers had told him what would
happen if he let neither of the
snakes escape. But it seems T.
Gracchus died soon after, doubtless of
some natural malady which destroyed his
constitution, and not because he had
saved the life of a viper. Not
that the infelicity of the haruspices
is so great that their predictions
are never fulfilled by any chance
whatever. And, I must confess, if I
could but believe it, I should
exceedingly wonder at the story which
you have cited from Homer respecting
the prediction of Calchas, who, from
observing the number of a flock of
sparrows, foretold the number of years
that would be expended in the siege
of Troy. DE NAT. ETC. Q 2-6
ON Of which conjecture Homer makes
Agamemnon1 speak thus, if I may
repeat you a translation of the
passage which. I made in a leisure
hour Not for their grief the Grecian
host I blame ; But vanqui.sh'd !
baffled ! oh, eternal shame ! Expect
the time to Troy's destruction giv'n,
And try the faith of Calchas and
of heav'n. What pass'd at Aulis,
Greece can witness bear, And all who
live to breathe this Phrygian air,
Beside a fountain's sacred brink was
raised Our verdant altars, and the
victims blazed ; ('Twas where the
plane-tree spreads its shades around) The
altars heaved ; and from the
crumbling ground A mighty dragon shot,
of dire portent; From Jove himself
the dreadful sign was sent. Straight
to the tree his sanguine spires he
roll'd, And curl'd around in many a
winding fold. The topmost branch a
mother-bird possest ; Eight callow infants
fill'd the mossy nest ; Herself the
ninth : the serpent as he hung,
Stretch'd his black jaws, and crush'd
the crying young; While hov'ring near,
with miserable moan, The drooping mother
wail'd her children gone. The mother
last, as round the nest she flew,
Seized by the beating wing, the monster
slew ; Nor long survived, to marble
turn'd he stands A lasting prodigy on
Aulis' sands. Such was the will of
Jove ; and hence we dare Trust in
his omen and support the war. For
while around we gazed with wond'ring
eyes, And trembling sought the Pow'rs
with sacrifice, Full of his god, the
rev'rend Calchas cried : Ye Grecian
warriors, lay your fears aside, This
wondrous signal Jove himself displays, Of
long, long labours, but eternal praise.
As many birds as by the snake
were slain, So many years the toils
of Greece remain ; But wait the
tenth, for llion's fall decreed. Thus
spoke the prophet, thus the fates
succeed. Now is not this a curious
mode of augury1? — to conjecture by the
number of sparrows eaten by a serpent,
the number of years expended in the
Trojan war. Why years rather than
months or days? And how -was it
that Calchas selected sparrows, in which
there is nothing supernatural, for the
signs of his prophecy 1 while he
is silent about the serpent, which 1
This is a mistake of Cicero's. It
is Ulysses who speaks. The pas sage
occurs in Iliad . JTU changed, as it is
said, into stone (an event which is
im possible). Lastly, what analogy or
relatkfe can subsist between the sparrows
seen and the years predicted 1 As
to what you have said respecting the
serpent which appeared to Sylla while
he was sacrificing, I recollect the
whole circumstance ; and remember that
just as Sylla was about to attack
the enemy at Nola, he made a
sacrifice, and that at the moment the
victim was offered, a serpent issued
from beneath the altar, and that the
same day a glorious victoiy was
gained, — not l;wing to the advice of
the soothsayers, but to the skill of
the general. And prodigies of this kind
have nothing miracu lous in them ;
which, when they have taken place,
are brought under conjecture by some
particular interpretation, as in the case
of the grain of wheat found in
the mouth of Midas while an infant,
or that of the bees, which are
said to have settled on the lips
of the infant Plato. Such things are
less admirable for themselves than for
the conjectures they gave rise to ;
for they may either not have taken
place at the time specified, or have
been fulfilled by mere accident. I
likewise suspect the truth of the
report which you have related respecting
Roscius — namely, that a serpent was found
coiled round him when he was in
his cradle. But even if it be a
fact that a serpent was thus in
the cradle, it is not very wonderful,
especially in Solonium, where snakes are
in the habit of basking before the
fire. As to the interpretation which
the soothsayers gave of the circumstance,
that the child would become most
illustrious and most celebrated, I. am
astonished that the immortal Gods should have
announced such great glory to a
comedian, and preserved such an obsti
nate silence respecting Scipio Africanus.
You have related several prodigies whicli
happened to Flaminiusj for instance, that
his horse suddenly fell with him, — there
is surely nothing very astonishing in
that. Also, that the standard of the
first centurion could not easily be
pulled out of the earth. Perhaps the
standard-bearer was pulling but timidly at the
stick which he had fixed in the
ground with confident resolution. What is
the wonder in the horse of Dionysius
having escaped out of the river, and
in his afterwards having had a swarm
of bees cluster on his mane? But
because Dionvsius happened to ascend the
throne of Syracuse soon after this event,
what had happened by chance was
regarded as an extraordinary prodigy and
prognostic. You go on to say, that
at Lacedsemon, the armour in the
temple of Hercules rattled. At Thebes
the closed gates of the temple of
the same God suddenly burst open of
their own accord, and the bucklers
which had been suspended on the walls
fell to the ground. Certainly nothing
of this kind could have happened
without some motion or impulse ; but
why need we impute such motion to
the Gods rather than call it an
accident1? At Delphi, you say, that a
chaplet of wild herbs suddenly appeared
growing on the head of Lysander's
statue. Do you think then that the
chaplet of herbs existed before any
seed was ripened 1 These seeds were
probably carried there by birds, not
by human agency, and whatever is on
a head may seem to resemble a
crown. And as to the circum stance
which you add, that about the same
time the golden stars of Castor and
Pollux, placed in the temple of
Delphi, suddenly vanished, and could nowhere
be discovei'ed ; this seems to me not
so much the work of the Gods,
as the sacrilege of thieves. I
certainly do wonder at the roguery of
the Ape of Dodona being recorded in
the Greek histories. For what is less
strange than that a most mischievous
animal should have upset the urn, and
scattered the oracular lots ? The his
torians, however, deny that this prodigy
was followed by any disastrous event
occurring among the Lacedaemonians. Now to
come to what you have reported
respecting the citizen of Veii, who
declared to the Senate that if the.
Lake Albanus overflowed, and ran into
the sea, Rome would perish, and that
if its course were diverted elsewhere,
Veii must fall. Accordingly the water
of the Alban lake was subsequently
drained away by new channels, not for
the safety of the citadel and the
city, but solely for the benefit of
the suburban district. A short time
afterwards, a voice was heard, warning
cer tain individuals to beware lest
Rome should be taken by the Gauls;
and upon this they consecrated an
altar on the New Road, to Aius
the Speaker. What, then, did this
Aius the Speaker speak and talk, and
derive his name from that circumstance,
when no one knew him ; and has
he been silent ever since he has
had an habitation, an altar, and a
name 1 And the same remark will
apply to Juno the Admonitress; for
what warning has she ever given us,
except the one respecting the full sow
1 XXXIII. This is enough to say
about prodigies. Let me now speak
of auspices and of lots — those, I
mean, which are thrown at hazard, not
those which are announced by vati
cination, which we more properly call
oracles, and which we shall discuss
when we investigate divination of the
natural order; and after this we will
consider the astrology of the Chaldeans.
But first let us consider the
question of auspices. It is a very
delicate matter for an augur to speak
against them. Yes, to a Marsian
perhaps, but not to a Roman.
For we are not like those who attempt
to predict the future by the flight
of birds, and the observation of
other signs ; and yet I believe that
Romulus, who founded our city by the
auspices, considered the augural science
of great utility in foreseeing matters.
For antiquity was deceived in many
things, which time, custom, and enlarged
experience have corrected. And the
custom of reverence for, and discipline
and rights of, the augurs, and the
authority of the college, are still
retained for the sake of their
influence on the minds of the common
people. And certainly the consuls P.
Claudius and L. Junius de served
severe punishment, who set sail in
defiance of the auspices ; for they
ought to have been obedient to the
esta blished religion, and not to
have rejected so obstinately the national
ceremonials. Justly, therefore, was one of
them condemned by the judgment of the
people, while the other perished by
his own hand. Flaminius, likewise, was
not duly submissive to the auspices;
and that was the reason, you say,
why he was defeated. But, the year
afterwards, Paullus was guided by them.
Did he the less for that perish
with his army in the battle of
Cannes 1 Even allowing the existence
of auspices, which I do not,
certainly those at present in use,
whether by means of birds or
celestial signs, are but mere semblances
of auspices, and not real ones.
" Quintus Fabius, I pray thee,
assist me in the auspices." He
answers, " I have heard."
The augurial officer among our forefathers was
a skilful and learned man ; now they
take the first that offers. For a
man must needs be skilful and learned
who understands the meaning of silence.
For in auspices we call that silence
which is free from all Irregularity.
To understand this, belongs to a
perfect augur. It sometimes happens,
however, that when he who wishes to
consult the auspices has said to the
augur whom he has chosen to assist
him, " Say, if silence is observed,"
the augur, without looking above or
around him, answers immediately, "
Silence appears to be observed." On
this the consulter rejoins, " Tell
me whether the chickens are eating."
The augur replies, " They are
eating." But when the consulter fur
ther demands, " What kind of
fowls are they, and whence do they
come?" the augur answers, "The
chickens were brought in a cage by
a person who is termed a
poulterer." Such, then, are the
illustrious birds whom we call, forsooth,
the messengers of Jupiter ; and whether
they eat or not, what does it
signify ? Certainly nothing to the
auspices. But since, if they eat at
all, some portion of food must
inevitably fall on the ground and
strike (pavire) the earth, this was
at first called terripavium, then
terripudium, and is now called tripudium.
When, therefore, the chicken lets fall
from its beak a particle of its
food, the augur declares that the
tripu dium solistimum is consummated. What
true divination can there be in an
auspice of this nature, so artificially
forced and tortured ? which, we have
a proof, was not used among the
most ancient augurs ; for we have an
ancient decree of the college of
augurs, that any bird may make the
tripudium. So that, then, there would
be an auspice if the bird was
free to show itself, and the bird
might appear to be the messenger and
interpreter of Jupiter. But when a
miserable bird is kept in a cage,
and ready to die of hunger, — if such
an one, when pecking up its food,
happens to let some particle fall,
can you think this an auspice, or
do you believe that Romulus consulted
the gods in this manner ? Do
you imagine that those who pretend to
augury apply themselves at the present
day to discern the signs of heaven
1 No ; they give their orders to
the poulterer. He makes his report.
It has been reckoned an excellent auspice
on all occasions, among the Romans, when
it thunders on the left hand, except
in reference to the Comitia ; and
this exception was doubtless contrived for
the benefit of the commonwealth, in
order that the chiefs of the state
might be the interpreters of the
Comitia in whatever concerns the judgments
of the people, the rights of the
laws, and the creation of the
magistrates. " But," you argue,
" in consequence of the letters
of Ti berius Gracchus, Scipio Nasica
and Caius Martins Figulus resigned the
consulship, because the augurs determined
that they had been irregularly
created." Well, who denies that there
is a school of Augurs 1 What I
deny is, that there is any such
thing as divination. " But the
soothsayers are diviners ; and after
Tiberius Gracchus had introduced them into
the senate, on account of the sudden
death of the individual whose office
it was to report the order of
the elections, they said that the
Comitia had not been legally
constituted." Now, in reference to
this case, observe that they could
not speak by authority of the
summoner of the president of the
centuries, for he was dead; and
conjecture without divination could say
that. Or perhaps what they said was
no better than the result of chance,
which prevails to a considerable extent
in all affairs of this nature. For
what could the sooth sayers of
Etruria know as to whether the tent
they observed was as it should be,
and whether the regulations of the
pomoerium, or circumvallation, were exactly
obeyed. For myself, I agree with the
sentiments of Caius Marcellus rather than
with those of Appius Claudius, who
were both of them my colleagues ; and
I think that, although the college
and law of augurs were first
instituted on account of the reverence
entertained for divination in ancient
times, they were afterwards maintained and
preserved for the sake of the state.
Of this, however, more elsewhere. At
present, let us examine the auguries
of other nations who have evinced
therein more superstition than art. They
make use of all kinds of birds
for their auspices; we confine ourselves
to few: and one set of omens
are reckoned unfavourable by them, and
a different set by us. King
Deiotarus often asked me for an
account of our discipline and system
of divination, and I asked him for
information aoout nis. Good heavens ! how
different were the two methods , in
some instances, so much so as to
be downright contradictory to one another.
And he had re course to augurs
on all occasions ; but how very
seldom do we apply to them unless
the auspices are required by the
people ! Our ancestors were unwilling
to wage any war without consulting the
auspices. But how many years have
elapsed since this ceremony has been
neglected by our proconsuls and propraetors
? They never take auspices ; they do
not pass over rivers by the encouragement
of omens ; nor do they wait for
the intimation of the sacred chickens.
As to that divination which consists
in observing the flight of birds from
some elevated spot — once considered of so
much consequence in military expeditions, —
Marcus Marcellus, who was consul five
times, as well as imperator and chief
augur too, omitted it altogether. What
is become, then, of divina tion by
birds, which (as wars are carried on
by people who take no care about
any auspices) seems to be retained by
the city magistrates, while it is
renounced by our military com manders
? So much did Marcellus despise
auspices, that when he was proceeding
on any enterprise, he was accustomed
to travel in a closed litter, that
he might not be liable to be
hindered by them. And we augurs
now-a-days act much in the same way,
when, for fear of what is called
a joint auspice, we order the
sacrificial cattle to be separated from
each other. Not that I commend
conduct like this ; for to make these
contrivances, either that an auspice should
not happen at all, or that if
it happens it should not be seen, —
what is it but an attempt to
avoid the admonitions of Jupiter ? It
is ridiculous enough for you to
assert that this king Deiotarus did
not repent of having believed the
auspices which he experienced when he
went in search of Pompey, because he
had, by doing his duty, thus secured
the fidelity and friendship of the
Romans ; for that praise and glory
were dearer to him than his kingdom
and possessions. I dare say they were
; but this has nothing to do with
the auspices. Surely no crow could
inform him that it was a piece
of magnanimity to defend the liberty
of the Roman people. It was he
himself who felt spontaneously what he
did feel; and birds can do no more
than signify bare events, be they for
tunate or disastrous. Thus, I conceive
that Deiotarus in this affair followed
no other auspices than those of
conscience, which taught him to prefer
his duty to his interest. But if
the birds showed him that the result
would be prosperous, they certainly
deceived him ; for he fled from
the battle, together with Pompey, and
a grievous time it was for him.
From this general he was compelled to
separate — another affliction ; and, to
crown his troubles, he soon had
Csesar quartered upon him, both as a
guest and an enemy. What could be
more painful than this ? Lastly ,
Csesar, after having deprived him of
the tetrarchy of the Trogini, and
bestowed it on a certain Pergamenian
of his train, — after having likewise
deprived him of Armenia, which had
been granted him by the senate, — after
having been entertained by him with
most princely hospitality, left his
entertainer the king wholly stripped of
his possessions. It is needless to add
more. I will return to my original
subject. If we seek to know events
by those auspices which are sought
from birds, it appears by this
argument that no birds could truly
have predicted prosperity to king
Deiotarus. If we want to know our
duty, that is not to be sought
from augury, but from virtue. I say
nothing, then, of the augural staff
of Romulus, which you declare to have
remained unconsumed by fire in the midst
of a general conflagration ; and pass
over the razor of Attius Navius,
which is reported to have cut through
a whetstone. Such fables as these
should not be admitted into philosophical
discussions. What a philosopher has to
do is, first, to examine the nature
of the augural science, to investigate
its origin, and to pursue its
history. But how pitiful is the
nature of a science which pretends
that the eccentric motions of birds
are full of ominous import, and that
all manner of things must be done,
or left undone, as their flights and
songs may indicate ! How can their
inclinations to the right or left
determine the power of auspices ? and
how, when, and by wrhom were such
absurd regulations as these invented ?
The Etrurian soothsayers hold as the
author of their dis cipline a child
whom a ploughshare suddenly dug up
from a clod of the earth. Whom do
we Romans look upon as the author of
ours ? Is it Attius Navius ?
But Romulus and Remus lived several
years before him, and they were both
augurs, as we are informed. Shall we
call our system the invention of the
Pisidians, the Cilicians, or the Phrygians
1 Shall we, by speaking thus, call
men devoid of all civilization the
authors of divination ? " But,"
you say, " all kings, people,
and nations use auspices ; " as if
there was anything in the world so
very common as error is, or as
if you yourself, in judging, were
guided by the opinion of the
multitude. How few, for instance, are
there who deny that pleasure is a
good : most people even think it
the chief good. But is the Stoic
frightened from his creed by their
numbers ? or does the multitude
follow their authority in many things
1 What wonder is there, then, if
in respect of auspices, and all kinds
of divinations, weak spirits are affected
by those popular superstitions, though they
cannot overturn the truth 1 And what
uniformity or settled agreement exists
between augurs [The poet Ennius, referring
to our Roman augurs, says — When on
the left it thunders, all goes well.
In Homer, on the contrary, Ajax,1 making
some complaint or other to Achilles
about the ferocity of the Trojans,
speaks in this manner — For them the
father of the Gods declares, His
omens on the right, his thunder
theirs. So that omens on the left
appear fortunate to us, while the
Greeks and barbarians prefer those on
the right. Although I am not unaware
that our Romans call prosperous signs
sinistra, even if they are in fact
dextra. But certainly our countrymen used
the term sinistra, and foreigners the
word dextra, because that usually appeared
the best. How great, however, is this
contrariety ! Why need I stop to
mention that they use different birds
and different signs from our selves?
they take their observations in a
different way, and give answers in a
different way; and it is superfluous
to admit that some of these modes
are adopted through error, some through
superstition, and that they often mislead.
To this catalogue of superstitions you have
not hesi- 1 This is another piece
of forge tfulness on the part of
Cicero.— See Iliad, ix. 236. tated to
add a number of omens and presages.
For instance, you have quoted the
words which ./Emilia addressed to Paulus,
that Perses had perished ; which
Paulus received as an omen of
success. You quote likewise the speech
that Cecilia made to her sister's
daughter — " I yield my place to
you." Nor is this all : you cite
the phrase, favete linguis (keep silence)
; and you extol the prerogative presage
derived from the name of the person
who takes precedence in the elections
of the comitia. I call this being
ingenious and eloquent against yourself;
for how, if you attend to things
like these, can your mind be free
and calm enough to follow, not
supersti tion, but reason, as your
guide in action 1 Is it not so
? If any one, while speaking on
his own affairs, in the course of
his common conversation, drops a word
that may seem to you to bear on
anything which you are thinking or
doing, shall that circumstance inspire you
with either fear or energy? When
Marcus Crassus was embarking his army
at Brundu- sium, a. certain itinerant
vender of figs from Caunus cried out
in the harbour, " Will you buy
any cauneas /" Let us say, if
you please, that this was an omen
against Crassus's expedition ; for that it
was as much as to say, Cave ne
eas (Beware how you go), and that
if Crassus had obeyed the omen he
would not have perished. But if we
regard such omens as these, we shall
have to take notice of sneezes, the
breaking of a shoe-tie, or the
tripping over a pebble in walking.
It now remains for us to speak of
the lots, and the Chal dean
astrologers, vaticinations, and dreams. And
first let us speak of lots. What,
now, is a lot? Much the same as
the game of mora, or dice, ! and
other games of chance, in which luck
and fortune are all in all, and
reason and skill avail nothing. These games
are full of trick and deceit,
invented for the object of gain,
superstition, or error. But let us
examine the imputed origin of the
lots, as we did that of the
system of the soothsayers. We read
in the records of the Prsenestines,
that Numeriua Sufnicius, a man of
high reputation and rank, had often
been commanded by dreams (which at
last became very threaten- ! The
Latin has quod talos jacere, quod
tesseras, — tali being dice with four flat
and two round sides, and tesserce
dice with six flat sides. ing)
to cut a flint-stone in two, at
a particular spot. Being extremely alarmed
at the vision, he began to act
in obedience to it, in spite of
the derision of his fellow-citizens; and
he had no sooner divided the stone,
than he found therein certain lots,
engraved in ancient characters on oak.
The spot in •which this discovery
took place is now religiously guarded, being
consecrated to the infant Jupiter, who
is represented with Juno as sitting
in the lap of Fortune, and sucking
her breasts, and is most chastely
worshipped by all mothers. At the same
time and place in which the Temple
of For tune is now situated, they
report that honey flowed out of an
olive. Upon this the augurs declared
that the lots there instituted would
be held in the highest honour; and,
at their command, a chest was
forthwith made out of this same
olive- tree, and therein those lots
are kept by which the oracles of
Fortune are still delivered. But how
can there be the least degree of
sure and certain information in lots
like these, which, under Fortune's
direction, are shuffled and drawn by
the hands of a child ? How were
the lots conveyed to this particular
spot, and who cut and carved the
oak of which they are composed 1
" Oh," say they, " there
is nothing which God cannot do."
I wish that he had made these
Stoical sages a little less inclined
to believe every idle tale, out of
a superstitious and miserable solicitude.
The common sense of men in real life
has happily succeeded in exploding this
kind of divination. It is only the
antiquity and beauty of the Temple of
Fortune that any longer pre serves
the Prsenestine lots from contempt even
among the vulgar. For what magistrate,
or man of any reputation, ever
resorts to them now? And in all
other places they are wholly disregarded
; so that Clitomachus informs us,
that with refe rence to this,
Carneades was wont to say that he
had never been so fortunate as when
he saw Fortune at Prseneste. So we
will say no more on this topic.
Let us now consider the prodigies of
the Chaldeans. Eudoxus, who was a
disciple of Plato, and, in the
judgment of the greatest men, the
first astronomer of his time, formed
the opinion, and committed it to
writing, that no credence should be
given to the predictions of the
Chaldeans in their calculation of a
man's life from the day of his
nativity. Paneetius, who is almost the
only Stoic who rejects astro logical
prophecies, says that Archelaus and
Cassander, the two principal astronomers of
the age in which he himself lived,
set no value on judicial astrology,
though they were very celebrated for
their learning in other parts of astronomy.
Scylax of Halicarnassus, a great friend of
Pansetius, and a first-rate astronomer, and
chief magistrate of his own city,
likewise rejected all the predictions of
the Chaldeans. But to proceed merely
on reason, omitting for the present
the testimony of these witnesses. Those
who put faith in the Chaldeans, and
their calcu lations of nativities, and
their various predictions, argue in this
manner : they affirm that in that
circle of constellations which the Greeks
term the Zodiac there resides a
ceiiain energy, of such a character
that each portion of its circum
ference influences and modifies the
surrounding heavens ac cording to what
stars are in those and the
neighbouring parts at each season ; and
that this energy is variously affected
by those wandering stars which we
call planets. But when they come into
that portion of the circle in which
is situated the rise of that star
which appears anew, or into that
which has anything in conjunction or harmony
with it, they term it the true
or quadrate aspect. And moreover, as
there happen at every season of the
year several astronomical revolutions, owing
to approximations and retirements of the
stars which we see, which are
affected by the power of the sun, —
they think it not merely probable, but
true, that according to the temperature
of the atmosphere at the time must
be the animation and formation of
children from their mother's womb ;
and that their genius, disposition, temper,
constitution, behaviour, fortune, and destiny
through life depend upon that. What an incredible
insanity is this ! for every error
does not deserve the mere name of
folly. The Stoic Diogenes grants, that
the Chaldeans possess the power of
foreseeing certain events ; to the limit,
that is, of predicting what a child's
disposition and his particular talent and
ability are likely to be. But he denies that the other
things which they profess can possibly
be known. For instance ; two twins
may re semble each other in
appearance, and yet their lives and
fortunes may be entirely dissimilar.
Procles and Eurysthenes, kings of the
Laceduemonians, were twin-brethren. But they
did not live the same number of
years ; for Procles died a year
before his brother, and much excelled
him in the glory of his actions.
But I question whether even that
portion of prophetic power which the
worthy Diogenes concedes to the Chaldeans,
by a sort of prevarication in argument,
can be fairly ascribed to them. For,
as according to them the birth of
infants is regulated by the moon, and
as the Chaldeans observe and take
notice of the natal stars with which
the moon happens to be in conjunction
at the moment of a nativity, they
are founding their judgment on the
most fallacious evidence of their eyes,
as to matters which they ought to
behold by reason and intellect. For
the science of Mathematics, with which
they ought to be acquainted, should
teach them the comparative proximity of
the moon to the earth, and its
re lative remoteness from the planets
Venus and Mercury, and especially from
the sun, whose light it is supposed
to borrow. And the other three
intervals, those, namely, which separate
the sun from Mars and from Jupiter
and from Saturn, and the distance
also between that and the heaven,
which is the bound and limit of
our universe, are infinite and immense.
What influence, then, can such distant
orbs ti'ansmit to the moon, or rather
to the earth? Moreover, when these
astrologers maintain, as they are bound
to maintain, that all children that
are born on the earth under the
same planet and constellation, having the
same signs of nativity, must experience
the same destinies, they make an
assertion which evinces the greatest
ignorance of astronomy. For those circles
which divide the heaven into hemispheres —
circles which the Greeks call horizons, and
the Latins finientes — perpetually vary according
to the spot from which they are
drawn ; and, therefore, the risings and
settings of the stars appear to take
place at different seasons to dif
ferent races of men. If, then, the
condition of the atmosphere is affected
by the energy and virtue of the
stars, sometimes in one way and
sometimes in another, how can those
children who are born at the same
time in different climates be subject
to the same starry influences in
various quarters of the globe 1 For
instance, in the country which we
Romans inhabit, the dog-star rises some
days after the summer solstice, while
among the Troglodytes, a people of
Africa, it is said to rise before
it. So that if I were to grant
that the heavenly influences have an effect
upon all the children who are born
upon the earth, it would follow, that
all who are born at the same
time in different regions of the
earth, must be born not with the
same but with different inclinations
according to the different conditions of
climate; which, however, they by no
means admit. For they persist in
maintaining that all chil dren who
are born at the same period, have
at their nativity the same astrologicl
destinies allotted to them, whatever their
native country may be. But what folly
is it to imagine, that while
attending to the swift motions and
revolutions of heaven, we should take
no notice of the changes of the
atmosphere immediately around us, — its weather,
its winds, and rains — when weather differs
so much even in places which are
nearest to one another, that there is
often one weather at Tusculum and
another at Rome; as is especially remarked
by sailors, who, after having doubled
a cape, often find the greatest
possible change in the wind. When
the calmness or disturbed state of
the weather is so variable, is it
the part of a man in his senses
to say that these circumstances have
no effect on the births of children
happen ing at that moment, (as,
indeed, they have not,) and yet to
affirm, that that subtle and indefinable
thing, which cannot be felt at all,
and can scarcely be comprehended, —
namely, the conjuncture which arises from
the moon and other stars, does affect
the birth of children 1 — What? is it
a slight error, not to understand
that by this system that energy of
seminal principles which is of so
much influence in begetting and procreating
the child is utterly put out of
sight? — for who can help observing that
the parents impress on their children,
to a great extent, their own forms,
manners, features, and gestures. Now this
could hardly happen if it were not
the power and nature of the parents
which was the efficient cause, but
the condition of the moon and the
temperature of the heavens. Why need
I press the argument that those who
are born at one and the same
moment, are dissimilar in their nature,
their lives, and their circumstances?
Besides, is there any doubt that many
persons, though they were born with
great bodily defects, are never theless
afterwards cured of them, and set
right by the self- corrective power
of their nature, or by the attention
of their nui-ses, or the skill of
their physicians? or that many chil
dren have been born so tongue-tied
that they could not speak, and yet
have been cured by the application of
the knife'? Many likewise by meditation
or exercise have removed their natural
infirmities. Thus Phalereus records that
Demos thenes when young could not
pronounce the letter R; but afterwards
by constant practice he learnt to
articulate it perfectly. Now, if such
defects had been occasioned by the
influence of the stars, nothing could
have altered them. Need I say more?
Does not difference of situation make
races of men different 1 It is
easy enough to give a list of
such instances; and to point out what
differences exist be tween the Indians
and Persians, the ^Ethiopians and Syrians,
in respect both of their persons and
characters, so as to present an
incredible variety and dissimilarity. And
this fact proves, that the climate
influences the nativities of men far
more than the aspect of the moon
and stars. For though some pretend
that the Chaldean astrologers have verified
the nativities of children by calculations
and experi ments in the cases of
all the children who have been born
for 470,000 years, this is a mistake.
For had they been in the habit
of doing so, they would never have
given up the practice. But. as it
is, no author remains who knows of
such a thing being done now, or ever
having been done. You see that I am
not using the arguments of Carneades, but
those rather of Pantetius, the chief
of the Stoics But answer me now
this question. Were all those persons
who were slain in the battle of
Cannae born under the same constellation,
as they met with one and the
same end? Again, have those men who
are singular in their genius and
courage, a separate, some peculiar star
of their own too 1 For what
moment is there in which a multitude
of persons are not born? and yet
no one has ever been like Homer.
And if the aspect of the stars
and the state of the firma ment
influenced the birth of every being,
it should, by parity of reasoning,
influence inanimate substances; yet what
can be more absurd than such an
idea? I grant, indeed, that Lucius
Tarutius of Firma, my own personal
friend, and a man particularly well
acquainted with the Chaldean astrology,
traced back the nativity of our own
city, Rome, to those equinoctial days
of the feast of Pales in which
Romulus is reported to have begun its
foundations, and asserted that the moon
was at that period in Libra, and
on this discovery, he hesitated not
to pronounce the destinies of Rome.
Oh, the mighty power of delusion ! Is
even the b'irth-day of a city subject
to the influence of the stars and
moon'? Granting even that the condition
of the heavens, when he draws his
first breath, may influence the life
of a child, does it follow that
it can have any effect on brick
or cement, of which a city is
composed? Why need I say more? Such
ideas as these are refuted every day.
How many of these Chaldean prophecies
do I remember being repeated to
Pompey, Crassus, and to Caesar himself !
according to which, not one of these
heroes was to die except in old
age, in domestic felicity, and perfect
renown ; so that I wonder that any
living man can yet believe in these
impostors, whose predictions they see
falsified daily by facts and results.
-It only remains for us now to
examine those ttfo sorts of divination
which you term natural, as distin
guished from artificial — namely, vaticinations
and dreams. With your permission, brother
Quiutus, we will now treat of these.
I shall be very well pleased to
hear you, (answered Quintus,) for I
entirely agree with all you have
hitherto advanced, and, to tell you
the trut, although I have had my
feelings on the subject strengthened by
your arguments, yet of my own accord
I looked upon the opinion of the
Stoics respecting divination as rather too
superstitious, and was more inclined to
favour the arguments which have been
adduced by the Peripatetics, and the
ancient DicEearchus. and Cratippus, who now
flourishes, who all maintain that there
exists in the minds of men a
certain oracular and pro phetic power
of presentiment, whereby they anticipate
future events, whether they are inspired
with a divine ecstasy, or are r.s
it were disengaged from the body, and
act freely and easily during sleep. I
wish therefore to know what is your
opinion respecting these vaticinations and
dreams, and by what ingenious devices
you mean to invalidate them. When
Quintus had thus spoken, I proceeded
again to speak, starting afresh, as
it were, from a new beginning. I
am very well aware, brother Quintus,
I replied, that you have always
entertained doubts respecting the other
kinds of divination; but that you are
very favourable to the two natural
kinds — namely, ecstasy and dreams, which
appear to proceed from the mind when
at liberty. T will therefore tell you
my idea very candidly respecting these
two species of divination, after I
have examined a little the sentiment
of the Stoics, and espe cially of
our friend Cratippus, on this subject.
For you said that Cratippus, Diogenes,
and Antipater summed up the question
in this manner : — " If there are
Gods, and they do not inform men
beforehand respecting future events, either
they do not love men, or do not
know what is going to happen; or
they think that the knowledge of the
future would be of no service to
mankind; or they believe it incon
sistent with the majesty of Gods to
reveal to men the things that must
come to pass; or, lastly, we must
believe that even the Gods themselves
are incapable of declaring them. But
we cannot say that the Gods do
not love man, for they are
essentially benevolent and philanthropic. And
they cannot be ignorant of those
things, which they themselves have
appointed and designed : neither can
it be uninteresting or unimportant to
us to know what must happen to
us, for we should be more prudent
if we did know. Nor can the
Gods think it inconsistent with their
dignity to advertise men of future
events, for nothing can be more sublime
than doing- good. Nor are they unable
to perceive the future before hand.
If, therefore, there are no Gods,
they do not declare the future to
us; but there are Gods, therefore
they do declare. And if the Gods
declare future events to us, they
must have furnished us with means
whereby we may appre hend them, otherwise
they would declare them in vain; and
if they have given us the means
of apprehending divination, then there is
a divination for us to apprehend —
therefore there is a divination." 0
acutest of men, in what concise terms
do they think that they have settled
the question for ever! They assume premises
to draw their conclusion from, not
one of which is granted to them.
But the only conclusion of an
argument which can be approved, is
one in which the point doubted of
is established by facts which are not
doubtful. L. Do you not see how
Epicurus, whom the Stoics forsooth term
a blunderer, reasons in order to
prove that the universe is infinite
in the very nature of things ?
That which is finite, says he, has
an end. Every one will concede this.
What ever has an end, may be
seen externally from something else. This
also may be granted him. Now that
which includes al, cannot be discerned
externally from anything else. This
proposition likewise appears undeniable.
Therefore that which includes all, having
no end, is necessarily infinite. Thus
by the proposition which we are
compelled to admit, he clearly proves
the point in question. Now this is
just what you dialecticians have not
yet done in favour of divination ;
and you not only bring forward no
pro position as your premises, so self-evident
as to be universally admitted ; but
you assume such premises as, even if
they be granted, your desired conclusion
would be as far as ever from
following. For instance, your first
proposition is this: If there are
Gods they must needs be benevolent.
Who will grant you this 1 Will
Epicurus, who asserts that the Gods
do not care about any business of
their own or of others ? or
will our own countryman Ennius, who
was applauded by all the Romans, when
he said — I've always argued that
the Gods exist, But that they care
for mortals I deny ; and then gives
reasons for his opinion; but it is
not neces sary to quote him further.
I have said enough to show that
your friends assume as certain,
propositions which are matters of doubt
and controversy. The next proposition is
this, That the Gods must needs know
all things, because they have made
all things. But how great a dispute
is there as to this fact among
the most learned men, several of whom
deny that all things were created by
the immortal Gods! Again, they assert,
that it is the interest of man
to know those things which are about
to come to pass. But Dicsear- chus
has written a great book to prove
that ignorance of futurity is better
than knowledge of futurity. They deny
that it is inconsistent with the
majesty of the Gods to look into
every man's house, forsooth, so as to
see what is expedient for each
individual. Nor is it possible, say
they, for them to be ignorant of
the future. This is denied by those
who will not allow that what is
future can be certain. Do not you
see, therefore, that they have assumed
as certain and admitted axioms, things
which are doubtful ? After which,
they twist the argument about and sum
it up thus : " Therefore, there
are no Gods ; and they do not
grant men intimations of the future."
And, having settled the question thus,
to their own satisfaction, they add,
" But there are Gods ;" a
fact which is not admitted by all
men ; " there fore, they do
grant intimations." Even that consequence
I cannot see ; for they may
grant no intimations of the future
and yet exist as Gods. Again, it
is asserted ; If the Gods grant
intimations to men respecting future
events, they must grant some means of
explaining these intimations. But surely
the contrary may be the case ; for
the Gods may keep to themselves the
mean ing of the signs which they
impart to men ; for else, why should
they teach it to the Etrurians rather
than to the Romans? Again, they
argue, that if the Gods have given
men the means of understanding the
signs they impart, then the existence
of divination is manifest. Biit grant
that the Gods do give such means,
what does it avail, if we happen
to be incapable of receiving them 1
Last of all, their conclusion is ;
Therefore, there certainly is such a
thing as divination. It may be their
conclusion, but it is not proved;
for, as they themselves have taught
us, •' false premises cannot produce
a true result." Therefore, the whole
conclusion falls to the ground. Let
us now consider the arguments of that
most excellent man, our friend Cratippus.
As, says he, the use and function
of sight cannot exist without the
eyes — and yet the eyes do not always
perform their office, — and, as he who
has once enjoyed correct sight, so as
to see what truly exists, is
conscious of the reality of vision ; — so,
if the practice of divination cannot
exist without the power of divination — and
though in the exercise of this power
of divination some errors may occur,
and the diviner may be misled so
as not to foresee the truth ; yet
the existence of divination is sufficiently
attested by the fact that some true
divinations have been made, containing such
exact predictions of all the particulars
of future events, that they can never
have been made by chance, — of which
numerous instances might be cited. The
exist ence of divination must therefore
be admitted. The argument is neatly
and concisely stated. But Cra- tippus
twice assumes what he wishes to prove
; and even if we were willing to
grant him very large concessions, we
could not possibly agree with his
conclusions. His argument is this :
Though the eyes should sometimes possess
very imperfect sight, yet, provided they
sometimes see clearly, it is evident
that the power of vision is in
them. On the same principle, if any
one has ever once uttered a true
divination, he must always be considered
as possessing the faculty of divining,
even when he blunders. LIII. Now I
entreat you, my dear Cratippus, to
consider how little is the resemblance
between these two cases. To me there
is none at all. The eyes which
see clearly exert no more than their
natural faculty of sight. But minds,
if they have sometimes truly foreseen
future events, either in ecsta sies
or dreams, have done so by fortune
and accident ; unless, indeed, you imagine
those who believe that dreams are but
dreams, will grant you that when they
happen to dream any thing that is
true, it is no longer the effect
of chance. But we may concede for
the present these two assumptions of
Cratippus, which the Greek dialecticians
would call lem mata. But we prefer
speaking in Latin ; still the presump
tion, which they term prolepsis, cannot
be granted. Cratippus goes on assuming
premises in this manner : There are,
says he, presentiments innumerable which
are not fortuitous. Now this we
absolutely deny. See how great is the
magnitude of the difference between us.
Not being able to agree with his
premises, I assert that he has drawn
no conclusion. Oh, but perhaps it is
very impudent of us not to concede
a point which is so clear ! But
what is clear ? " Why," he
replies, " that many predictions are
fulfilled." Yes ; but are there not
many more which are not fulfilled ?
Does not this very variation, which
is the peculiar property of fortune,
teach us that fortune, not nature,
regulates such predictions ? Moreover,
if your conclusion is true, 0
renowned Cratip- pus ! — for to you I
address myself — do not you perceive that
the soothsayers, and those who predict
by thunder and light ning, and the
interpreters of prodigies, and the augurs,
and the Chaldean astrologers, and those
who tell fortunes by drawing lots,
will all bring forward the same
argument as yourself in their own
favour? Not one of these men has
been so unfortunate as never on any
occasion to find his pre dictions
verified. This being the case, you
must either admit all the other kinds
of divination which you now most
properly reject; or, if you absolutely
condemn them, I do not see how
you will be able to defend those
two which you retain as favourable
exceptions. For on the same principle
that you maintain these, the others
also may be true which you discard.
LIV. But what authority has this
same ecstasy, which you choose to
call divine, that enables the madman
to foresee things inscrutable to the
sage, and which invests with divine
senses a man who has lost all
his human ones 1 We Romans preserve
with solicitude the verses which the
Sibyl is reported to have uttered
when in an ecstasy, — the interpreter of
which is by common report believed to
have recently uttered certain falsities in
the senate, to the effect that he
whom we did really treat as king
should also be called king, if we
would be safe. If such a prediction
is indeed contained in the books of
the Sibyl, to what particular person
or period does it refer ? For,
whoever was the author of these
Sibylline oracles, they are very
ingeniously com posed ; since, as all
specific definition of person and period
is omitted, they in some way or
other appear to predict everything that
happens. Besides this, the Sibylline
oracles are involved in such profound
obscurity, that the same verses might
seem at different times to refer to
different subjects. It is evident,
however, that they are not a song
composed by any one in a prophetic
ecstasy, as the poem itself evinces,
being far less remarkable for enthusiasm
and inspiration than for technicality and
labour ; and as is especially proved
by that arrangement which the Greeks
call acrostics — where, from the first
letter of each verse in order, words
are formed which express some particular
meaning ; as is the case with some of
Ennius's verses, the initial letters of
which make, ""Which Ennius wrote."
But such verses indicate rather attention
than ecstasy in those who write them.
Now, in the verses of the Sibyl,
the whole of the paragraph on each
subject is contained in the initial
letters of every verse of that same
paragraph. This is evidently the artifice
of a practised writer, not of one
in a frenzy ; and rather of a
diligent mind than of an insane one.
Therefore, let us con sider the Sibyl
as so distinct and isolated a
character, that, according to the ordinance
of our ancestors, the Sibylline books
shall not even be read except by
decree of the senate, and be used
rather for the putting down than the
taking up of religious fancies. And
let us so arrange matters with the
priests under whose custody they remain,
that they may pro phesy anything
rather than a king from these
mysterious volumes ; for neither Gods
nor men any longer tolerate the
notion of restoring kingly government at
Rome. LV. But many people, you say,
have in repeated instances uttered true
predictions ; as, for example, Cassandra,
when she said, " Already is the
fleet,'' ' &c. ; and in a subsequent
prophecy, "Ah! see you not?"
&c. Do you then expect me to
give credence to these fables 1 I
will grant that they are as
delightful as you please to call
them, — that they are polished up with
every conceivable beauty of language,
sentiment, music, and rhythm. LuL we
are not bound to invest fictions of
this kind with any authority, or to
give them any belief. And, on the
same principle, I do not think any
one bound to pay any attention to
such diviners as Publicius (whoever he
may be), or Martius, or to the
secret oracles of Apollo ; of which
some are notoriously false, and others
uttered at i-an- dom, so that they
command little respect, I will not
say from learned men, but even from
any person of plain common sense.
" What !" you will say, "
did not that old sailor of the
fleet of Coponius predict truly the
events which took place ?" No
doubt he did ; but they happened to
be those very things which at the
time everybody thought most likely to
ensue. For we were daily hearing that
the two armies were situated near
each other in Thessaly ; and it
appeared to us that Caesar's army had
the greater audacity, inasmuch as it
was waging war against its own country,
and the greater strength, being composed
of veteran soldiers. And as to the
battle, there was not one of us who
did not dread the result, though, as
brave men should, we kept our anxiety
to ourselves, and expressed no alarm.
What wonder, however, was it that
this Greek sailor was forced from all
self-possession and constancy, as is very
com mon, by the greatness of his
terror and affright ; and that, being
driven to distraction by his own
cowardice, he uttered those convictions
when raving mad which he had
cherished when yet sane ? Which, in
the name of Gods and men, is
most likely; that a mad sailor should
have attained to a know ledge of
the counsels of the immortal Gods, or
that some one of us who were on
the spot at the time — myself, for in
stance, or Cato, or Varro, or
Coponius himself — could have done so ?
I now come to you, Apollo,
monarch of the sacred centre Of the
threat world, full of thy inspiration,
The Pythian priestesses proclaim thy
prophecies. For Chrysipyus has filled an
entire volume with your oracles, many
of which, as I said before, I
consider utterly false, and many others
only true by accident, as often
happens in any common conversation. Others,
again, are so obscure and involved,
that their very interpreters have need
of other interpreters ; and the
decisions of one lot have to be
referred to other lots. Another portion
of them are so ambiguous, that they
require to be analysed by the logic
of dialecticians. Thus, when Fortune
uttered the following oracle respecting
Croesus, the richest king of Asia, — •
" When Crocus has the Halys
cross'd, A mifdity kingdom will be
lost ;" that monarch expected he
should ruin the power of his enemies
; but the empire that he ruined
was his own. And whichever result had
ensued the oracle would have been
true. But, in truth, what reason have
I to believe that such an oracle
was ever uttered respecting Croesus 1
or why should I think Herodotus more
veracious than Ennuis'? Is the one
less full of fictions respecting Croesus
than the other is re specting Pyrrhus
1 For who now believes that the
following answer was given to Pyrrhus
by the oracle of Apollo ? "You
ask your fate; 0 king, I answer
you, yEacides the Romans will subdue
!" For, in the first place,
Apollo never uttered an oracle in
Latin; secondly, this oracle is altogether
unknown to the Greeks. Besides, in
the days of Pyrrhus, Apollo had
already left off composing verses. Lastly,
although it was always the case, as
is said in these lines of Ennius,—
" The JEacids were but a stupid
race, More warlike than sagacious," —
yet even Pyrrhus might without much
difficulty have per ceived the ambiguity
of the phrase, " ^Eacides the
Romans will subdue;" and might have
seen that it did not apply more
to himself than it did to the
Romans. As to that ambiguity which
deceived Croesus, it might even have
deceived Chrysippus. This one could not have
deluded even Epicurus. But the chief
argument is, why are the Delphic
oracles altered in such a way that —
I do not mean only lately in our
own time, but for a long time —
nothing can have been more contemptible 1
When we press our antagonists for a
reason for this, they say that the
peculiar virtue of the spot from
which those exhalations of the earth
arose, under the influence and excite
ment of which the Pythian priestess uttered
her oracles, has disappeared by the
lapse of time. You might suppose they
were speaking of wine or salt, which
do lose their flavour by lapse of
time; but they are talking thus of
the virtue of a place, and that
not merely a natural, but a divine
virtue; and how is that to have
disappeared ? By reason of age, is
your reply. But what age can possibly
destroy a divine virtue ? and what
virtue can be so divine as an
exhalation of the earth which has the
power of inspiring the mind, and ren
dering it so prophetic of things to
come, that it can not only discern
them long before they happen, but
even declare them in verse and rhythm
? And when did this magical virtue
dis appear 1 Was it not precisely
at the time when men began to
be less credulous ? Demosthenes, who
lived nearly three hundred years ago,
said that even in his time the
Pythia Philippized — that is to say,
supported Philip's influence; and his
expression was meant to convey the
imputation that she had been bribed
by Philip. From which we may infer
that other oracles besides those of
Delphi were not quite immaculate. Somehow or
other, certain philosophers who are very
superstitious — not to say fanatical — appear to
prefer anything to behaving with common
sense themselves ; and so you prefer
asserting that that has vanished, and
become extinct, which, if it ever had
existed, must certainly have been eternal,
rather than not believe what is
wholly incredible. The error with regard to
the divination of dreams is another
of the same kind ; their arguments
for which are extremly far-fetched and
obscure. They affirm that the minds
of men are divine, that they came
from God, and that the universe is
full of these consenting intelligences.
That, therefore, by this inherent divinity
of the mind, and by its conjunction
with other spirits, it may foresee
future events. But Zeno and the
Stoics supposed the mind to contract,
to subside, to yield, and even to
sleep, itself. And Pythagoras and Plato,
authors of the greatest weight, advise
men, with a view of seeing things
more certainly in sleep, to go to
bed after having gone through a
certain preparatory course of food and
other conduct. Pythagoras, for this reason,
coun selled his disciples to abstain
from beans; with the idea that this
species of food excited the mind, not
the stomach. In short, somehow or
other, I know nothing is so absurd
as not to have found an advocate
in one of the philosophers. Do we
then think that the minds of men
during sleep move by an intrinsic
internal energy, or that, as Democritus
pre tends, they are affected with
external and adventitious visions? On
either supposition we may mistake during
our dreams many false things for
true. For to people sailing, those
things appear to be in motion which
are stationary, and by a certain
ocular deception, the light of a
candle sometimes seems double. Why need
I in stance the number of false
appearances which are presented to the
eyes of men, among those who labour
under drunken ness, or maniacs ?
Now, if we cannot trust such appearances
as those, I know not why we are
to place any absolute reliance on the
visions of dreams; for you might as
well, if you pleased, argue irom
these errors as from dreams. For
instance, that if stationary objects appear
to move, you might say that this
appearance indicated the approach of an
earthquake, or some sudden flight ; and
that lights seen double presage wars,
and discords, and seditions. From the
visions of drunkards and madmen one
might, doubtless, deduce innumerable const
quences by con jecture, which might
seem to be presages of future events.
For what person who aims at a
mark all day long will not sometimes
hit it 1 We sleep every night ;
and there are very few on which
we do not dream; can we wonder
then that what we dream sometimes
comes to pass ? What is so
uncertain as the cast of dice 1
and yet no one plays dice often
without at times casting the point of
Venus, and sometimes even twice or
thrice in succession. Shall we, then,
be so absurd as to attribute such
an event to the impulse of Venus,
rather than to the doctrine of
chances'? If then, on ordinary occasions,
we are not bound to give credit
to false appearances, I do not see
why sleep should enjoy this special
privilege, that its false seemings should
be honoured as true realities. If it
were an institution of nature that
men when they sleep really did the
things which they dream about, it
would be necessary to bind all
persons going to bed both hand and
foot, for they would otherwise while
dreaming perpetrate more outrages than
maniacs. Now since we place no confi
dence in the visions of madmen,
simply because they are delusions, I
do not see why we should rely
on those of dreamers, which are often
the wilder of the two. Is it
because madmen do not think it worth
while to relate their visions to
diviners, but those who dream do [Once
more I put this question. If I
feel inclined to read or write
anything, or to sing or play on an
instrument, or to pursue the sciences
of geometry, physics, or dialectics, am
I to wait for information in these
sciences from a dream, or shall I
have recourse to study, without which
none of those things can be either
done or explained 1 Again, if I
were to wish to take a voyage,
I should never regulate my steering
by my dreams. For such conduct would
bring its own im mediate punishment.
How, then, can it be reasonable for
an invalid to apply for relief to an
interpreter of dreams rather than to
a physician? Can Esculapius or Serapis,
by a dream, best prescribe to us
the way to obtain a cure for
weak health 1 And cannot Neptune do
the same for a pilot in his art
? Or will Minerva give us medicine
without troubling the doctor? And still
will the Muses refuse to impart to
dreamers the art of writing, reading,
and the other sciences ? But if
the blessing of health were conveyed
to us in dreams, these other good
things would certainly be so too. But
unfortunately the science of medicine
cannot be learnt in dreams, and the
other arts are in a similar
predicament. And if that be the case,
then all the authority of dreams is
at an end. LX. But this is
only a superficial argument. Let us
now penetrate the heart of this
question. For either some divine energy
which takes care of us, gives us
presentiments in our dreams ; or
those who explain them do, by a
certain harmony and conjunction of nature
which they call a~u/j.Tra.Oeia (sympathy),
understand by means of dreams what is
suitable for everything, and what is
the con sequence of everything ; or,
lastly, neither of these things is
true ; but there is a constant
system of observation of long standing,
by which it had been remarked, that
after certain dreams certain events usually
follow. The first thing then for us
to understand is, that there is no
divine energy which inspires dreams; and
this being granted, you must also
grant that no visions of dreamers
proceed from the agency of the Gods.
For the Gods have for our own
sake given us intellect sufficiently to
provide for our future welfare. How
few people then attend to dreams, or
under stand them, or remember them !
How many, on the other hand, despise
them, and think any superstitious
observation of them a sign of a
weak and imbecile mind! Why then
should God take the trouble to
consult the interest of this man, or
to warn that one by dreams, when
ho knows that they not only do
not think them worth attending to,
but they do not even condescend to
remember them. For a God cannot be
ignorant of the sentiments of every
man, and it is unworthy of a
God to do anything in vain, or
without a cause ; nay, that would
be unworthy of even a wise man.
If, therefore, dreams are for the
most part disregarded, or despised, either
God is ignorant of that being the
fact, or employs the intimation by
dreams in vain. Neither of these
suppositions can properly apply to God,
and therefore it must be confessed,
that God gives men no inti mations
by means of dream. Again, let me ask
you, if God gives us visions of
a prophetic nature, in order to
apprise us of future events, should
we not rather expect them when we
are awake than when we are asleep
1 For, whether it be some external
and adventitious impulse which affects the
minds of those who are asleep, or
whether those minds are affected
voluntarily by tiieir own agency, or
whether there is any other cause why
we seem to see and hear or do
anything during sleep, the same impulses
might surely operate on them when
awake. And if for our sakes the
Gods effect this during sleep, they
might do it for us while awake.
Especially as Chrysippus, wishing to
refute the Acade micians, makes this
remark — That those inspirations, visions, and
presentiments which occur to us awake,
are much more distinct and certain
than those which present themselves to
dreamers. It would, therefore, have been
more worthy of the divine beneficence while
exerting its care for us, rather to
favour us with clear visions when we
are awake, than with the perplexed
phantasms of dreams; and since that
is not done, we must believe that
these phantasms are not divine at
all. Moreover, what is the use of
such round-about and circuitous proceedings,
as for it to be necessary to
employ interpreters of dreams, rather than
to proceed by a straight forward
course 1 If God were indeed anxious
for oxir interests, he would say,
" Do this — do not that;" and
he would give such intimations to a
waking rather than to a sleeping man;
but as it is, who would venture
to assert that all dreams are true
? Ennius says, that some dreams are
prophetical; he adds also, that it
does not follow that all are so. Now
whence arises this distinction between true
dreams and false ones 1 and if
true dreams come from God, from
whence come the false ones ? For
if these last do like wise come
from God, what can be more
inconsistent than God ? And what can
be more ignorant conduct than to
excite the minds of mortals by false
and deceitful visions ? But f only
true dreams come from God, and the
false and groundless ones are merely human
delusions, what authority have you for
making such a distinction as is
implied in saying, God did this, and
nature that 1 Why not rather say
either that all dreams come from God
(which you deny), or all from nature?
which necessarily follows, since you deny
that they proceed from God. By
nature I mean that essential activity
of the mind owing to which it
never stands still, and is never free
from some agitation or motion or
other. When in consequence of the
weakness of the body it loses the
use of both the limbs and the
senses, it is still affected by
various and uncertain visions aris ing
(as Aristotle observes) from the relics
of the several affairs which employed
our thoughts and labours during our
waking hours; owing to the disturbances
of which, marvellous varieties of dreams
and visions at times arise. If some
of these are false, and others true, I
shall be glad to be informed by
what definite art we are to
distinguish the true from the false.
If there be no such art, why do
we consult the inter preters 1 If
there be any such art, then I
wish to know what it is. But they
will hesitate. For it is a matter
of ques tion, which is more probable;
that the supreme and im mortal Gods,
who excel in every kind of
superiority, employ themselves in visiting
all night long not merely the beds,
but the very pallets of men, and
as soon as they find any person
fairly snoring, entertain his imagination
with per plexed dreams and obscure
visions, which sends him in great
alarm as soon as daylight dawns to
consult the seer and interpreter: or
whether these dreams are the result
of natural causes, and the everactive,
everworking mind having seen things when
awake, seems to see them again when
asleep. Which is the more philosophical
course, to interpret these phenomena
according to the superstitions of old
women, or by natural explanations 1
So that even if a true interpretation
of dreams could exist, it is
certainly not in the possession of
those who profess it, for these
people are the lowest and most
ignorant of the people. And it is
not without reason that your friends
the Stoics affirm, that no one can
ever be a diviner but a wise
man. Chrysippus, indeed, defines divination
in these words : " It is,"
says he, " a power of apprehending,
discerning, and ex plaining those signs
which are given by the Gods to
men as portents;" and he adds,
that the proper office of a sooth
sayer is to know beforehand the
disposition of the Gods hi regard to
men, and to declare what intimations
they give, and by what means these
prodigies are to be propitiated or
averted. The interpretation of dreams he
also defines in this manner. "
It is," says he, " a power of
beholding and revealing those things which
the Gods signify to men in
dreams." Well, then, does this require
but a moderate degree of wisdom, or
rather consummate sagacity, and perfect
erudition ?and a man so endowed we
have never known. Consider, therefore, whether even
if I were to concede to you
that there is such a thing as
divination which I never will concedeit
would still not follow that a diviner
could be found to exercise it truly.
But what strange ideas must the Gods have,
if the intimations which they give us
in dreams are such as we cannot
understand of ourselves, and such, too,
as we cannot find interpreters of:
acting almost wisely as the
Carthaginians and Spaniards would do if
they were to harangue in their native
languages in our Roman senate without
an interpreter. But what is the
object of these enigmas and obscurities
of dreamers 1 For the Gods ought
to wish us to under stand those
things which they reveal to us for
our own sake and benefit. What! is
no poet, no natural philoso pher
obscure ? Euphorion certainly is obscure
enough, but Homer is not; which, then,
is the best ? Heraclitus is very
puzzling, Democritus is very lucid; are
they to be compared ? You, for
my own sake, give me advice that
I do not understand ! What is
it, then, that you are advising me
to do ? Suppose a medical man
were to prescribe to a sick man
an earth-born, grass-walking, housecarrying,
unsanguineous animal, in stead of simply
saying, a snail; so Amphion in
Pacuvius speaks of — A four-footed and
slow going beast, Rugged, debased, and
harsh ; his head is short, His
neck is serpentine, his aspect stern
; He has no blood, but is an
animal Inanimate, not voiceless. When these
obscure verses had been duly recited,
the Greeks cried out, We do not
understand you unless you tell us
plainly what animal you mean ? I
mean, said Pacuvius, I mean in one
word, a tortoise. Could you not,
then, said the questioner, have told
us so at first? We read in that
volume which Chrysippus has written
concerning dreams, that some one having
dreamed in the night that he saw
an egg hanging on his bed-post, went
to consult the interpreter about it.
The interpreter informed him that the
dream signified that a sum of money
was con cealed under his bed. He
dug, and found a little gold sur
rounded by a heap of silver. Upon
this, he sent the inter preter as
much of the silver as he thought
a fair reward. Then said the
interpreter, " What! none of the
yolk 1 " For that part of the
egg appeared to have intimated gold,
while the rest meant silver. But did
no one else ever dream of eggs
; if others have, too, then why
is this man the only one who
ever found a treasure in consequence 1
How many poor people are there worthy
of the help of the Gods, to
whom they vouchsafe no such fortunate
intimations! And, again, why did this
indi vidual receive such an obscure
sign of a treasure o,s could be
afforded by the resemblance of an
egg, instead of being distinctly commanded
at once to look for a treasure,
in the same way as Simonides was
expressly forbidden to put to sea?
Therefore, obscure dreams are not at
all consistent with the majesty of
the Gods. But let us now treat
of those dreams which you term clear
and definite, such as that of the
Arcadian whoso friend was killed by
the inn-keeper at Megara, or that of
Simonides, who was warned not to set
sail by an apparition of a man
whose interment he had kindly
superintended. The history of Alexander
presents us with another instance of
this kind, which I wonder you did
not cite, who, after his friend
Ptolemy had been wounded in battle by
a poisoned arrow, and when he
appeared to be dying of the wound,
and was in great agony, fell asleep
while sitting by his bed, and in
his slumber is said to have seen
a vision of the serpent which his
mother Olympias cherished, bringing a root
in his mouth, and telling him that
it grew in a spot very near at
hand, and that it possessed such
medicinal virtue, that it would easily
cure Ptolemy if applied to his wound.
On awaking, Alexander related his dream,
and messengers were sent to look for
that plant, which, when it was found,
not only cured Ptolemy, but likewise
several other soldiers, who during the
engagement had been wounded by similar
arrows. You have related a number of
dreams of this nature bor rowed from
history. For instance, that of the
mother of Phalaris — that of King Cyrus —
that of the mother of Dionysius — that of
Hamilcar the Carthaginian — that of Hannibal —
that of Publius Decius — that notorious one
of the president — that of Caius
Gracchus— and the recent one of Ceecilia,
the daughter of Metellus Balearicus. But
the main part of these dreams happened
to strangers, and on that account we
know little of their particular
circumstances : —some of them may be
mere fictions; for who are they
vouched by? As to those dreams that
have occurred in our personal experience,
what can we say about them,about your
dream respecting myself and my horse
being submerged close to the bank; or
mine, that Marius with the laurelled
fasces ordered me to be conducted
into his monument? All these dreams, my
brother, are of the same character,
and, by the immortal Gods, let us
not make so poor a use of our
eason, as to subject it to our
superstition and delusions. For what do
you suppose the Marius was that
appeared to me ? His ghost or
image, I suppose, as Demo- critus
would call it. Whence, then, did his
image come from 1 For images,
according to him, flow from solid
bodies and palpable forms. What body
then of Marius was in exist ence
? It came, he would say, from
that body which had existed ; for
all things are full of images. It
was, then, the image of Marius that
haunted me on the Atinian territory,
for no forms can be imagined except
by the impulsion of images. What are
we to think then 1 Are those
images so obedient to our word that
they come before us at our bidding
as soon as we wish them ; and
even images of things which have no
reality whatsoever? For what form is
there so preposterous and absurd that
the mind cannot form to itself a
picture of it ? so much so
indeed that we can bring before our
minds even things which we have never
seen; as, for instance, the situations
of towns and the figures of men.
When, then, I dream of the walls of
Babylon, or the counte nance of
Homer, is it because some physical
image of them strikes my mind1? All
things, then, which we desie to be
so, can be known to us, for
there is nothing of which we cannot
think. Therefore, no images steal in
upon the mind of the sleeper from
without; nor indeed are such external
images flowing about at all; and I
never knew any one who talked
nonsense with greater authority. The
energy and nature of human minds is
so vigorous that they go on exerting
themselves while awake by no adven
titious impulse, but by a motion of
their own, with a most incredible
celerity. When these minds are duly
supported by the physical organs and
senses of the body, they see and
conceive and discern all things with
precision and certainty. But when this
support is withdrawn, and the mind is
deserted by the languor of the body,
then it is put in motion by its
own force. Therefore, forms and actions
belong to it; and many things appear
to be heard by, and said to it.
Then, when the mind is in a
weak and relaxed state, many things
present themselves to it commingled and
varied in every kind of manner ;
and most especially do the reminiscences
of- those things flit before the mind
and move about, which excited its
interest or employed its active energies
when awake. As, for instance, Marius
at that time was often pre sent
to my mind while I recollected with
what magnanimity and constancy he had
borne his sad misfortunes ; and this,
I imagine, is the reason why I
dreamed of him. You also were
thinking of me with great anxiety,
when suddenly I appeared to you to
have just escaped out of the river.
For there were in both of our
minds the traces of our waking thoughts.
In both instances, however, there were
certain additional circumstances; as in
mine, the visit to the temple of
Marius; and in yours, the reappearance
of the horse on which I was
riding, and who sunk at the same
time with myself. Do you think then,
you will say, that any old woman
would be so doting as to believe
dreams if they did not sometimes and
at random turn out true ? A
dragon appeared to address Alexander.
Doubtless this might be true, or it
might be false; but whichever the
case may have been, there is surely
nothing very wonderful about it; for
he did not hear this serpent
speakinglie onlydreamed that he heard him;
and to make the story more
remarkable, the serpent appeared with a
branch in its mouth, and yet spoke:
still nothing is difficult or impossible
in a dream. I would ask, however,
how it was that Alexander had this
one dream so remarkable and so
certain, though he had no such dream
on any other occasion, nor have other
people seen many such. For myself,
excepting that about Marius, I do not
recollect having experienced one worth
speaking of. I must, therefore, have
wasted to no purpose as many nights,
as I have slept during my long
life. Now, indeed, on account of the
intermission of my forensic labours, I
have diminished my evening studies, and
added some noonday slumbers, in which
I never indulged before. But yet,
though I sleep so much more than
formerly, I am never visited with a
prophetic dream, which I should con
sider a singular favour now, though
engaged in such weighty affairs. Nor
do I seem ever to experience any
more important dream than when I see
the magistrates in the forum, and the
senate in the senatehouse. In truth,
(and this is the second branch of
your division,) what connexion and
conjunction of nature (which, as I
have said, the Greeks term avp.ira.6euL,)
is there of such a character, that a
treasure is to be understood by an
egg? Physicians, indeed, know of certain
facts by which they perceive the
approaches and increase of diseases; there
are also some indications of a return
to health; so that the very fact
whether we have plenty to eat or
whether we are dying of hunger, is
said to be indicated by some kinds
of dreamn. But by what rational
connexion are treasures, and honours, and
victories, and things of that kind,
joined to dreams'? They tell us,
that a certain individual dreaming of
sexual coition, ejected calculi: I grant
that sympathy may have had something
to do in a case like this,because,
in sleeping, his imagination might have
been so affected with sensual images,
that such an emission took place by
the force of nature, rather than by
supernatural phantasms. But what sympathy
could have presented to Simonides the
image of the person, who in a
dream warned him not to put to
sea 1 Or what sympathy could have
occasioned the vision of Alcibiades, who,
a little before his death, is said
to have dreamed that ie was arrayed
in the robes of Timandra his
mistress? What relation could this have
with the event which afterwards happened
to him; when, being slain and cast
naked into the street and abandoned
by all the world, his mistress took
off her mantle and covered his dead
body with it? Was this then fixed
as a piece of futurity, and had
it natural causes, or was it mere accident
that the dream was seen, and came
true ? Do not the conjectures of the
interpreters of dreams rather indicate the
subtlety of their own talents, than
any natural sympathy and correspondence in the
nature of things? A runner, who
intended to run in the Olympic games,
dreamed during the night that he was
being driven in a chariot drawn by
four horses. In the morning he
applied to an interpreter. He replied
to him, You will win : that is
what is intimated by the strength and
swiftness of the horses. He then
applied to Antiphon, who said to him,
By your dream it appears that you
must lose the race ; for do you
not see that four reached the goal
before you ? Here is another story
respecting an athlete; and the books
of Chrysippus and Antipater are full
of such stories. How ever, I will
return to the runner. He then went
to a sooth sayer and informed him
that he had just dreamed that he
was changed into an eagle. You have
won your race (said the seer), for
this eagle is the swiftest of all
birds. He also went to Antiphon, who
said to him, You will certainly be
conquered; for the eagle chases and
drives other birds which fly before
it, and consequently is always behind
the rest. A certain matron, who was
very anxious to have children, and
who doubted whether she was pregnant
or not, dreamed one night that her
womb was sealed up; she, therefore,
asked a soothsayer whether her dream
signified her pregnancy ? He said, No
; for the sealing implied, that there
could be no con ception. But another
whom she consulted said, that her
dream plainly proved her pregnancy; for
vessels that have nothing in them are
never sealed at all. How delusive,
then, is this conjectural art of
those interpreters ! Or do these stories
that I have recited, and a host
of similar ones which the Stoics have
collected, prove anything else but the
subtlety of men, who, from certain
imaginary analogies of things, arrive at
all sorts of opposite conclusions?
Physicians derive certain indications from the
veins and breath of a sick man; and
have many other symptoms by which
they judge of the future. So, when
pilots see the cuttlefish leaping, and
the dolphins betaking themselves to the
harbours, they recognise these indications
as sure signs of an approaching
storm. Such signs may be easily
explained by reference to the laws of
nature; but those which I was
mentioning just now cannot possibly be
accounted for in the same mariner. But
the defenders of divination reply, (and
this is the last objection I shall
answer,) that a long continuance of
observations has created an art. Can,
then, dreams be expe rimented on? And
if so, how1? for the varieties of
them are innumerable. Nothing can be
imagined so preposterous, so incredible, or
so monstrous, as to be beyond our
power of dreaming. And by what method
can this infinite variety bo either
fixed in memory or analysed by
reason? Astrologers have observed the
motion of the planets, for a certain
order and regularity in the course of
these stars has been discovered which
was no* suspected. But tell me, what
order or regularity can be discerned in
dreams 1 How can true dreams be
distinguished from false ones ; since
the same dreams are followed by
different results to different people, and,
indeed, are not always attended by
the same events in the case of
the same persons? For this reason I
am extremely surprised that, though people
have wit enough to give no credit
to a notorious liar, even when he speaks
the trilth, they still, if one single
dream has turned out true, do not
so much distrust one single case
because of the numbers of instances
in which they have been found false,
as think multitudes of dreams estab
lished because of the ascertained truth
of this one. If, then, dreams do
not come from God, and if there
are , no objects in nature with
which they have a necessary sym pathy
and connexion, and if it is impossible
by experiments and observations to arrive
at a sure interpretation of them, the
consequence is, that dreams are not
entitled to any credit or respect
whatever. And this I say with the
greater confidence, since those very
persons who experience these dreams cannot
by any means understand them, and
those persons who pretend to interpret
them, do so by conjecture, not by
demonstration. And in the infinite series
of ages, chance has produced many more
extraordinary results in every kind of
thing than it has in dreams; nor
can anything be more uncertain than
that con jectural interpretation of diviners, which admits not only
of several, but often of absolutely contrary senses. Let us reject, therefore,
this divination of dreams, as well as all other kinds. For,to speak
truly, that superstition has extended
itself through all nation, and has
oppressed the intellectual energies of
almost all men, and has betrayed them
into endless imbecilities: as I argued
in my treatise on the Nature of
the Gods, and as I have especially
laboured to prove in this dialogue on
Divination. For I thought that I
should be doing an immense benefit
both to myself and to my countrymen
if I could entirely eradicate all
those superstitious errors. Nor is there
any fear that true religion can be
endangered by the demolition of this
superstition ; for it is the part
of a wise man to uphold the religious
institutions of our ancestors, by the
maintenance of their rites and ceremonies.
And the beauty of the world and
the order of all celestial things compels us to confess that there isan
excellent and eternal nature which deserves to be worshipped and admired by all
mankind. Wherefore, as this religion whichis united with the knowledge of
nature is to be propagated, so also are all the roots of superstition to be
destroyed. For it presses upon, and pursues, and persecutes you wherever you
turn yourself,whether you consult a diviner, or
have heard an omen, or have im
molated a victim, or beheld a flight
of birds; whether you have seen a
Chaldean or a soothsayer; if it
lightens or thunders, or if anything
is struck by lightning; if any kind of
prodigy occurs; some of which events must be frequently coming to pass;
so that you can never rest with a tranquil mind. Sleep seems to be the
universal refuge from.all labours and anxieties. And
yet even from this many cares and
perturba tions spring forth which, indeed,
would of themselves have no influence,
and would rather be despised, if certain
philosophers had not taken dreams under
their special patronage; and those, too,
not philosophersof the lowest order, but men of vast
learning, and remai'kable penetration into the consequences and inconsistencies
of things, men who are looked upon as absolute and perfect masters of all
science. Nayif Carneades had not resisted their
extravagances, I hardly know whether they
would not by this time have been
reckoned the only philosophers worthy of the name. And
it is with those men that nearly all our controversy
and dispute re specting divination is
mainly waged; not because we think meanly of their
wisdom, but because they appear to defend their theories with the greatest
acuteness and cautiousness. But,as it is the peculiar property of
the Academy to inter pose no personal
judgment of its own, but to admit
those opinions which appear most probable,
to compare arguments, and to set forth all that may be reasonably stated
in favour of each proposition; and so, without putting forth
any autthority of its own, to leave the judgment of the hearers
free and unprejudiced; we will retain this custom, which has been handed down
from Socrates; and this method, dear brother Quintus, if you please, we will
adopt as often as possible in all our dialogues together.Indeed, said he,
nothing can be more agreeable to me. Having held these conversations we went
away. Alessandro Chiappelli. Keyword: academici, Alcibiade, Gli Scipione, la
dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicerone, ambassiata,
Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world, the reality of
the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La scuola di Atene” –
dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens, via Rome.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library
Grice e Chiaromonte: l’implicatura
conversazionale della parola – il cane ha molto. Definizione d’ aggetivo – la
correlazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapolla).
Filosofo italiano. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he let things
influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ –
where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione,
because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what
a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow
theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu
discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista
culturale indipendente "Tempo Presente". Il padre, medico, si
trasfere con la famiglia a Roma, C. si vota all'anti-fascismo, dopo una breve
parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione Giustizia
e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della polizia. E
in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola contro le
armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la figura di C. è
adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale Scali, del romanzo
L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio
del secondo conflitto mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia,
riparò a New York, facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals.
Fu propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte
trotzkiste della rivista politics di Macdonald, a cui pure si legò in un
sodalizio di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia
con filosofi come Arendt e Camus, e scrittori come Orwell, e collaborò con
Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera. Tornato in
Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria, anche per il
suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura strettamente
legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di critica
teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Assieme a Silone,
fondò "Tempo presente", rivista culturale indipendente, esperienza
innovativa nell'Italia dell'epoca che portò avanti, nonostante qualche
dissapore con Silone, con grande attenzione agli autori di notevole spessore
che riempivano le pagine del mensile. Le sue posizioni furono improntate
all'anticomunismo ma, a differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino
alle posizioni di Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana
contro l'automatismo catastrofico della Storia». Nel testo La guerra
fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore)
della storica e giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la
rivista Tempo presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua
i fondatori come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e
principali destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in
Italia. Intrattiene una fitta corrispondenza con Mussayassul, amichevolmente
chiamata Muska, una monaca benedettina, sul tema della verità. Altre saggi: La
situazione drammatica, Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le
Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco
Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet,
Credere e non credere, Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna,
Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte,
Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte,
Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza di Silone, Milano, Bompiani,
Il tarlo della coscienza (The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione
di Mary McCarthy), Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino,
Silenzio e parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa
rimane, Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di
Bari, Schena, Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La
rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te
la verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il
tempo della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino, Albert Camus-Nicola Chiaromonte,
Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello,
Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone
Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare
Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto,
prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli
Italiani, XXIV, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari,
Bollati Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede,
Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola
Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico
controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca
di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte,. Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte
La cultura politica azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo
librario Chiaromonte. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to
utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a
rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce
“parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un
suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o
concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro
segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche
scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa
communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale
si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e
che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione
consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa
idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione,
arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia
abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione
convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante
una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si
stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non
abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare
nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo)
annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale
-- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o
tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del
suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si
destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono
del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come
la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo
scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili.
Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale
‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la
imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la
percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa
l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta.
In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. PRISCIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.DE VOCE.
PHILOSOPHI definiunt vocem effe aerem temuffitmm ftfhtm,uel fiuwm fenfibile ut ritum,idefl
quod propria auribus accidit Et p efl prior definitio ii
fubfhtntia fiumpta, Altera nero d notione quam graa ivvotav dicunt Jnoc efl
ab accidentibus Accidit enimuod auditus quantum in ipfia efl Vedi autem differentia
fiunt IV: articulato, inarticulata, literata, illiterata. Articulata est qua coarguta,
hoc est copulata cum aliquo fienfiu mentis eius qui loquitur, profertur.
INARTICULATA est contraria, qua a nui lo proficifettur affccfht mentis. Litterata
est qua ficribipotefl. IJ-literafa qua ficnbi nbpot. r nuenimtur igitur quadam voces
articulata, qua et feribi poffitnt et intellig, ut Arma uirtemq; cano Quadam
qua no peffunt feribi, intelligiinturth, ut fibili heminu et GEMITVS, ha enm
voces quamus sensium alique SIGNIFICENT proferentis eas, feribi tn no poffiint
Ali vero sunt qua quantus feribantur, tn inarticulata dicuntur, cum nihil
significent, ut coax, cr a baseni voces quanquam intelliginuis
de qua fint noluere proferte, tamen in articulata dicutur, qma vox fut superius
dixi){marticulata est, qua a Milio affvfhe profiafdtur. Alia sunt inarticulata et illitterdta,
qua nec feribi possunt nec intelligj, ut fl repitus, mugitur, et his similia.
Scire autem debemus, quod has IV pecies vocum p- fidunt IV superiores
differentia generaliter voct aeddentes, bina per singulas inuictm coeuntes.
Vox autem didht est vel d Uo* cctndo, ut “dux”, “ducendo”, Uel ccto rojfioxco
jsoco, ut quibufda placet bE Lr fl pars minima uods composita, hoc efi l uods
qua conflant compositione litterarii, minima autem quantum ad totam comprehensionem
uoas litterata, ad hanc enim etiam produrtauoctiles hreuiffima partes inveniuntur,
vel quod omnium est brevissimum eorum quzdiuidi possunt, id quod dividi non
potefl Vcffumus et fic definire Littera e nox qua feribi potest mdiuiduauicitur
autem littera vel qudfi. 5 lenter d, eo quod U<gndi iter prabeat,
ue[atuaris (ut quilufda pia cet) qubdplerunq>in caratis tabulis antiqui fcrilerc
[oletans et pojha delere-Litteras aut, etiam elementorum vocabulo nuncu
pauerunt, ad simlitutem mundi elementorum- Sicut enim illa coeutia omne cor
fu perficiunt, fic etia ha conimfia litterale
vocem quafi corpus aliquod componunt yuel magis nere
corpus na fi acr corpus eji, et nox qua ex aere icdo confiat, corpus
ejfie cflenditur , quippe cum et tangit aurem, et tripartito dividitur, quod
eji finit corporis hoc eji tu altitudinem, latitudinem, longitudine myunde ex omni
parte potefi audiri- Vraterea tamen singula syllabe altitudine quidem habent m tenore,
craffimdinem nero et latitudinem in spiritus longitudinem in tempore- Littera igtut
eji ricta elementi et uclut imagp quadam vocis litterata, qua cogmfidtur ex
qualitate et fti tute figura linearu-Hoc ergo mterefl inter elementa, et litteras,
quod elementa proprie dicuntur ipfie pronundationes nota autem carit littera- Abufiue
tamen et elementa pro litteris, et littera pro elementis
vocantur. Cum enim dicimus non poffie conflare m eadem fiyl labd-K, ante V,
no de litteris dicimus, fid de pronuntiatione earum- nam quantum ad scripturam possunt
coninng, non tamen etia enuciari, nifi ipojl pofitR, ut princeps, sunt igitur figura
litterarum quibus nos utimur- XXUI- ipfie vero promnciationes earu multo ampliores.
Quippe cum singula vocules denos mueniantur habentes fionosyuel plures, ut putaa,
littera brevis IV halet fimi differentias, cum habet afrirationem, acuitur vel gravatur
et rurfus cum fime aft iratio e acuitur vel graudtur – ut: “habeo”, “habemus”,
“abeo”, “abimus”- Longt vero eadem fex modis
fionat, cum habet ASPIRATIONEM et acuitur vel gravatur, vel drcunfleCHtur
– ut: “hamis” hdmoru hamus - Et rurfits cum SINE ASPIRATIONE
acuitur vel gravatur vel ctr cunflecntur, ut dra
ararum dra Similiter ali uoatles pofjimt proferri- Vraterea tatnen-i, &.
u, uoatles quando media; fiunt alternos inter fie fionosuidetur confundere ytefk
bonatofiut vir. u, ut optumus, Eti, quidem quando poft-u,
confortantem loco digamma-V,fi<n<fhm Aeolia ponitur brevis y sequcnte. d,
vel. m, vel. r, ucl.t, Uel x, fonum-y, graca videtur habere – ut: “video”
,um, “virtus” , “vitium”, uix-v, autem qudnuts contrastum eundem
tamen fimum, hoc efi y, habet, inter q} &-efueLiyHela, DIPHTHONGUM pofltum,
ut que quis qua- tenon inter. gt& ea fidem uoatles, cmi in una siyllaba fic
imenitur, ut pin- gte sanguis fiingtta . In
confortantibus etiam fiunt differentia plures, trdnfeuntmm in alias consonantes
et non tran femtium, quippe diversie firmi potefiatis. L tL a
iij Ccidit igitur litterae nomen figura,poteffas- Uomen uefo a ti. a. b. c.
Et fiunt mdechna ilia, tam apud graecos elemetorum nomina, qudm APVD
LATINOS sive p a barbaris inventa dicuntur, sive p simplicra haec Z7‘ fktlilia esse
debent, qudfi fundamentum omnis do firmae nnmvbile, sine p nec aliter apud
iatmos poterat esse, cum a fias uoabus uocztles nominen tur, Saniuocales vero in
se definant, Mutae autem a fi incipientes uo- atli terminetur, quas fiflefkts SIGNIFICATIO
quocp nominum una eud- nefcit vocales igitur ut difhtm efi per fi prolatae nomen
fuuofien dunt. Semivocales vero ab.e, incipientes, &in je terminantes. A bfip
x, que sola ab. i, incipit per anafirophen gracct nominis. xi. quia necesse fuit,
cum fit fiemt uocalts, d uoath vnapere, Zjin fe terminare. quae. x, nou\ ffimcd
LATINIS afjumptaypofi omnes ponitur litteras, qbus, LATINA dichones egent p
autem ab. i, incipit eius nomen, ofhmdit eti , am SERGIO in commento quod scripfitm
DONATO kisuer bis. Sunt, , VII semivocales, qu<e ita
proferuntur, ut inchoent ab. e, littera, et definant innatur ale sonum,
ut f l. m-n. r. s. x- Sed. x, ab. i, inchoat. \d > etiam Eutropius
confirmat dicens. Una duplex. x, quae ideo ab.i,m cipit, quia apud graecos
in eandem definit. Mutae autem d fiincipientes, Z^m-e, uoculem definentes ^x caeptis.
K^t. quarum alteram a, altera in. u finitur, fua confiant nomina. H, enim
aspirationis magis est nota. Figurae acadunt quas videmus in singulis
litteris Tote jhs vero ipsa pronuciatio,
propter qua, et figura ZTiwia fiunt ficht . Quidam ena
a dunt ordinem fied efi pars pote
fiatis litterarum. Ex his uocules dicuntur, quae per
fe noces perficiunt uel fi ne quibus uox litteralis profirn non pote fi, unde &
nomen hoc praecipue fibi defe dunt. Caeterae enim quae cum his proferuntur confortantes
appellantur. Sunt igitur voaules numero V: A E I O U utimur etia. y, grgeorum cuufia
nominum. Q onfonantiu aliae fiunt fi mino cedes, aliae mutat. Semiuocales fint ut
plerisp LATINORUM placuit fiptemfil- m n- r- s. x. Sed-f. multis cfienditur
modis muta mazis, de quatpofi docebimus Z, quoque utimur ingruas dcthonibushae ergo,
hoc efi fi- miuo cules, quantum uincuntur d uoculibus, tantum fi p erant mutas,
ideo apud graecos quidem omnes dichones, uel in uocules uel in fimi- t:ocUlcs, quae
fecundam habent euphoniam, defiment, quam nos SONORITATEM onoritatem pofjimus dhere,
APUD LATINOS autem, ex maxima parte, no tamen omnes. Inveniuntur enim quaedam etiam
m mutas definetes. Semivocales autem furit appellata, qua plenam vocem
non habent f ut fetnideos & femiuiros appellamus, non qui dimidiam partem habent
deorum, vel uirorwmfed qui pleni dij uel uiri non fmt Reliquae funt muta, ut quibufdam
u\detur, numero IX: B C D G H K P R S T. Et fnrvt: W1 wn bene hoc nomen putant
easaccapi[fy cumba quoq; partes fintuoctsqui nefiunt,<p ad comparationem ue ne
sonantiwmita funt nominata, uelut informis dicitur mulier, non qua atret forma,
sed qua male est formata y et frigidum dia mus eumynon qui penitus expers efl atlons
, sed qm minimo hoc utitur. Sic igitur mutas, non qua omnino noce atrcnt fed
qua exiguam parte muods habent. Vocales autem APUUD LATINOS omnes fmt anapites,
vel LIQUIDA liquida hoc est qua fialemodo produci f modo corripi pojfunt, Sicut
etiam apud antiquiffimos erant gr acor uni ante muentionem quibus inuentis.
t, &o, qua ante anapites erant reman, ferunt perpetua breues, aim earum
produdhtrum loca poffcfft fint d fupradiths uoatlibus semper longis. Sunt etiam
in confonantibus lo ga, ut puta duplices. xy&.Zr Slrut enim longa vocalesy ficha
qucq; longam fidunt jy liabam. Sunt similiter in confonantibus anapites vel liquida
ut. L y &-r y qua modo longam modo breuem pofl mutas pofita m eadem syllaba
fidunt syllabam his quidam addunt non irrationabiliter m, &my quia ipfe quoq;
communes fidunt syllabas pofl mutas pofita yquod diuerforu confirmatur
aufhritate tamgra eorum, q latinorum . ouidius in
deamo Metamorphofeos. Vifcofimq; gnidon.gr
auidamq, ; Amathunta metallis. » Euripides
iit Vphoemffis . /Wr#i tro c/t hoc pidjuov
tio'punr. In cifdem . xxax ojuitrSot.Jdco hocmo
cmtofeis tihvov , apud gracos fnnenitur
tamen. myante.n,pofita nec producens ante fe
uoctilem mo re mutarum -Callimachus rcofjutv o
juvturx paetos i<pn £tvof umctw ouvuv.
Apud antiquiffimos gr acorum non plusq
fedeam erant littera , qui'us ab illis accetptis
latmi antiquitatem feruauerunt perpetuam, Nam fi uerxffimt uelimus infpicere
edus,fnoc efl fedeam)non plusq duas additas in It tmomueniemus fermone-V-
Aeolicum diqnmma qS apud antiqwffi mos
latinorum eandem uimyquam apud Aeoles
habuit, eum autem prope Ionum quem nunc
habet - V ,fignifiatbat.p , cum afpiratione.
Sicut etiam apudueteres gracos pro -<p
^tfT-t. Vnde nunc quoque fngrads nominibus
antiquam firipntram fernamus pro-<p.py&.hy
ponentesyut Orpheus vhaethon-pofha uero in
latinis placuit uercis pro.p ,&-h,fjcribitut
fiina,filius.fiao , locoau^m digamma. V,
pro confonante-q od cognatione foni indebatur
affinis cifc diijjmma d iiij »
»9 e i [it ter 4- Qjiare tum- f
Joco mutre ponatur ideft p, & .h
y fiue-<p f miror hanc inter
famiUocales pofiiiffe artium fcriptvres.
mhil.n>ali- ud habet nrec littera
femiuoctihs ,nifi nominis prolatione, epire duo-
(yili incipit. Sed h.ec pote flatem
mutare Iit ter re non deluit, fi
enim effet femiuoculis yneaffario terminalis
nomlnu inucniretur quodmi- nime repencs.nec
anted, uel.r, m eadem fyllaba poni
poffet , qui lo¬ cus mutarum efr
duntaxat.nec communem ante eafdem pofita
faceret fy liabam. Vofiremo grrect (quibus
in omni dottrina auflvnbus utimur) -<p,
cuius locum apud nos. f,optinetyqucdofknditurinhis ma¬
xime dicHonibus quas d grrecis fumpfimus
y hoc efl fama, fagp, far, mutam
effe confirmant. Sciendum tatne q> hic
quoq; error d quibus *= dam antiquis
graecor um grammaticis inna fit latinos,
qui.<p, 6 ,%./£- mtuocztles putabant, nulla
alia cUufa, tiifi q? fpiritus in eis
abwndet induch.quod f effet ueruni, debuit. c,
quoq; uel.t , addita afairatione femiuoculis cffe.quod
omni edret ratione.fpiritus enim potefhtem /it=
terre non mutat, unde nccuoailes addita
ajpiratione alire fiunt, & alire ea
dempta. Hoc tamen fare debemus non
tam fxis labris efi pronuntianda. fy quomodo.
p,&-h,dtq; hoc folum inter efl inter -f,&
phyXftiam duplicem loco,c ,&.s,uel
g,&'S,pofiva d grrecis inuetam afjump fimus
yut dux duas yr cx regs.K,enim &qyqudnuis
figura & nomine uideantur aliquam
habere differentiam cum •C.tn eade tam in
fio io uorum q m metro ycontincnt
pote fiatem -^.K, quidem penitus faperuarua efr
pullam, ratio indetur 'cur a ,fequente.K,
feribidebe- dt.c rthdgo.n.&atputfiue per. ct
fiue per.K,fcribantur, nullam faciunt, necm fano
nec m potefhte eiufdem cofanantis
differentiam ytiero propter nihil aliud
feribenda mdetur effeynifl ut ofiendat feqn
era. u, ante alteram Uo calem in eadem
fyllaba pofitum perdere uim litte r^e in
metro. q> fi alia ideo littera efl
exifhmanda q>c,de- bet.gyqncq; cum fimiliter
pr reponitur. u, amittenti uim litterre alia
putari y & aha cum id non facit
rdicimus enim anguis ficuti quis, O4 ruignr
fi cuti cur. v nde fi uelimus
cu, ueritate contemplari(ut diximus ) non
plus quam decem &ofh litteras, in
latino farmene habemus, hoc cflfadeam antiquas
gr re eorum &.fy&.x,pefka additas eas
quoq; ab eifdem famptas.nam y
y&.^grrecvrum afufia nominum (ut fapra
difhun efl) afamimus.H, aero affirationis
efr nota y & nihil aliud o.tbct
litterre nifii fgurdm/j" q> in
uerfa firibitur inter alia* litteras.Qjeod
fi fa faceret ut elementum putaretur,
nihilominus quo rundam enam numerorum
figurae, quia in uerfiu inter alias
litteras feribuntur , quanuis eis d familes
fint, el ementa fiunt habenda fadmis nime hoc
efi adhibend-ctn, nec aliud aliquid ex
accidentibus pro- f prutatem oflendit
Umufcuiufq; elementi, quomodo potefh,qua .Uret
affiratio- neqenim uoaths nec confotum ejfe
poteflnoculi$ non e fi. b^quia dfieuocem
non fit, nec fiemiuocuhs cum mlla
fyllaba lati- nauel grceafper integras
dittioes in eamdefnat, nec muta cum n
eadem fyllaba, cum duabus mutis bis
ponitur, ut phthius, Erichtho = tiius-nulla
enim fyllaba plus duabus mutis poteftbabere
iuxta fe po fitts,nec plus tribus
confonantibus continuare - authritus quoq;
tam Varronis q Macri, teflv Cenforino,ncc-K,nec-
q,neq;.h, in numro adhibet litterarum -Videntur
tamen i,gy-u,cum in conlonantes tra fiunt
quantum ad pote flatem, quod maxrmum efiin
elementis, alite litterte ejfe pr teter
fifpradidkts -multum enm inter efi utrum
uoctiles fint an confonantes-ficut enm,
qnanuis in uaria figura, g? uario
fwmine fint-K,gy.q,gj*-c, tamen quia u/nam
um halent tam in metro q in
fono, pro una littera accipi debent,
fle. i, &-u, qnanuis unum twmcn,g? unam
habeant figuram, tam uocules q con^onan
tes, tamen quia diuerfum j'onum,gj* dmerfim
umhabent in metris, g? in pronuntiatione
fy liabar um, non fiunt in ei
fidem, meo iudicio, (lententis acapiendte-quanuis
& Cenjbri/w dothfjlmo artis gram¬
maticae idem placuit. multa enim cjl
differentia inter confortantes, ut diximus,
gruocttlcs- tantum enmflre interefi inter
uoculcs gj* confionantes , quantum inter animas g?
corpora, anim.e enim per fi mouentur,ut
philofophis uidetur ,gj* corpora monent, corpora
uero nec per fe fime anima moneri
poffunt, nec animas monent, fid ab il
Its moucntur. Vocales fi militer g? per
fi mouentur, ad perficienda fyllabam,g?
confionantes mouent fecum, confionantes uero fime
uoculu bus immobiles fint- Et-J, quidem
modo pro fi mp lici, modo pro duplici
accipitur confonante-pro fimplici, quando ab
eo incipit syllaba in principio dithonis
pofita, fiubfiquente uocztliin eadem syllaba, ut
luno Juppiter . pro duplici autem quando
in medio diflioms ab eo incipit
fyllaba pofiuoatlcm ante fi pofifom, fu
fiquente quoq; uocttli in eadem fyUab a, ut
maius, peius, eius, in quo loco antiqui
folebant geminare eandem-i,l\tteram,gT
maijus,peijus,eijus feribere ,quod non aliter
prominctari poffet quam fi cum fitperiore
syllaba prior I ,cum fiquente altera
proferretur, ut peijus,cijus,tnaijus, gy duo. ij, pro
duabus conjonantibus accipiebant. nam quantus-
T,fit confonans incadcm syllaba geminatninngi
non poffet. ergo non aliter quam
tellus, mannus proferri debuit. unde Pompeiij
quoque genitiuum per tria-i , antiqui
feribeb aut, quorum duo fiperioraloco confonatium
accipiebant jit fi diats Pompeiij, nam
tribus ili, iunchs qua^ lis poffet
fyllaba pronuntiari ? nam poftremum -l, pro
uocttli efi atcipienc lum . quod
C<eftri doihjfimo artis gramntaticse pla~
citum finjje d Vidvre quoqu r in arte
grammatiat de fylla is com - probatur-Pro
fimphct qucq; in media dithone inuenitur
,fcd in co~ pofitisfut
iniuria^diungo^iedht^reijce Virilius in BucolicisTityre
pafientes d flumine refice capellas*
proceleu fma ti cum pofuit pro daciylo. Nunquam autem poteft
ante.I, litteram loco pofitnm confonan-
tis,afpiratio mucnin yficut nec ante . ii,
confortantem -unde hiulcus trisyllabum rj7* ,
##//.* (ww confonans ante /e afpirationem
recu pit- V, wcro lo.o confortantis
pofita eandem prorfius in omnibus uim
habuit apud latinos,qudm apud Aeoles
digtmma , F.Vnde d ple~ rui j; ci
nomen hoc datur, quod apud Aeoles habuit
ohmyFy digama i-HdUyab ipfuis uot
profetfhtm tefk Varrone, & D idymo, qui
id ei rujmcn cffecfivndut*pro quo Ccefiar
hanc figuram £,fcnb er e uduit, quod
quarum illt reik mfum efty tamen
confuetudo antiqua fiupera «5 uit-Adco autem
hoc uenvm eftyy pro A e otico F
ydigamma -uyponi- ttrr,quod ficut illi
flebant accrperc diqamma-V,pro confonante fim
phaytefiv Aftyaqy,qm diuerfiis hoc oficndit
uerfibus, ut in hocuerfu o otojucvos
VtAtvHV iAtKcoTiJocfic nos quoq ; pro
fimplia habemus cort fonante
plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma pofitumyuty „ At Venus
haud animo ne quicg exterrita mater •
E fi tamen quando Aeoles idem-F finueniuntur
pro duplici quoq; cofonante digtmma pcfmffe,ut vt&opct
cPt FoJ crouSd s - Nof quoqiuidemur
hoc fequi in praeterito perfido &
plusquam perfido tertice £r quartce
coniugationis ,in quibus ,1 ,ante-u ycorfo nantem
pofita produ « citur , eademqs fiubtradn
corripitur yut cupiui cupijtcu piueram cu¬
pieram, audiui audfiaudiueram audieram .
inuemuntur etiam pro Uocdh correpta hoc
digVHtna illi ufi,ut Alcman-Ksh jux tj ?
n <fx Fiov.pfr enim dimetrum iambicum ,
& fic e ft proferendam, Tr yut factat
Ireuem fiyllabam-Noftri qucq; hoc ipfium
fiaffeinueniim tur,& pro confonante. ii yuoatlcm
Ireuem acc<epiffeyut Horatiusfyl fise
trifyllabum protulit in E podohcc uerjit- »
-niuesq; deducunt I ouem, * Nunc
mare nuncsfi liite; E/r enim dimetrum
iambicum comunfhim penthemimeri heroicae, quod
aliter fhtre non poteft, ucfi fylu.e
trifyllabum accipiatur . Si¬ militer
Catullus V eronenfis <p Zonam fioluit
diu ligtam , inter E nde atfyllabos vhalectos
pofitit-ergp nifi fioluit trifyllabum accipias, uer-
fivs fhtre non poteft. hoc tamen ipfium
in deriuatiuis uel compofltis fi e
quentC' fiolet fieri ,ut Heluo uclutus,foluo
follitus ,auts, auceps, aujfi-
PRIMVSdum,m<guriim,<UigupUS,lauo l*u tu s,fitueo, fautor . F,
aigam ma apud Aeoles ejt, quando m metris
pro nihilo decipiebant, ut 4“/“* ^Fetpi
vccvro 6 w 7<>i ^vuorotv Fouiv.Ep enim
h exametr u/m heroicum, apud latinas quoq; hoc
idem-u ,inuenitur pro nihilo inmtris,&
maximo apud uetufb.fpmos comicorum, ut Terentius
in Andria - M sine muidia laudem
inuenias,Et amicos pares. eft.niamicum tri¬ metrii,
quod nifi,pne mui,pro tribracho accipiatur, fhtre
uerfus non potejl.jciendu tamen q> hcc
ipptm Aeoles quidem, ubiq; loco ajpira-
tionis ponebant effligentes ffnritus
affcritatem.nos dutmmultis qui dem,non tamen
m omnibus illos faquimur , ut cum
dicimus ueffera, uis,uejhs. hiatus quoq ; atupt
plebant illi mterponer e -F, digama, quod ojhndunt et
Poetae Aeolidae up,AlcmanxsH X" yocrrJ pn
Mio/ et 'Epigrammata, qu£ egmctleg m
tripode uetujhfprrw Apollinis qui pat in
Xerolopho Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov ,\oiFonxi uv.Et nas
quoq; hiatus atupt interponimus • V doco digama ,F ,ut
dauus, arduus, pauo,ouum,ouis, bouis.hoc tamen etiam
per alias quapiam cbfonan tes hiatus
uel euphoniae atufa folet peri, ut prodeft
,cbburo ,fi cubi ,nu cubi, quod gract
quoq; pol ens facere junntr/,oi/ utri. Sed
tamen hoc at tendendam efl quod
pr&ualmt in hac littera,idefr,in-u,loco digam
ma pofito,potepas fimplids confonantis apud omnium
poetarum do - {hfpmos.in.b, et folet apud Aeoles
tranfire.F , digama quotiens ab p, incipit
diflio qux folet a[pirari,ut pdrcop (Spnrup
dicunt quod di gamma nip Uoaili
praeponi & m principio fyliab <e non
pottft . ideo autem locum quoq;
tranpmtauit, quia. B, uel diqamma pofx-p, in ea¬
dem fydaba pronuntiari non pote fl- A
pudrns quoq ; efl munire <p pro.
u,confonante.b, ponitur, Coelebs codcfium uita ducens, p
er. b, feri bitur y.u.corfonans ante
confortantem poni non potep.pcut etia bru
qes 0 Belenam antiquifpmi dicebant tefh
Quintiliano, qui hocofle dit m primo
mfhtutionum oratori arum. nec mirum cum. b, quoq;
m \i,eufhoni& aufa conuertimuenimus ,ut
aufropro a pro. A ff ira tio quoq;
ante uoatles omnes poni potefl,pofl
confortantes autem quattuor tantummodo more
antiquo gr^ecoru. c,t,p,r, ut haheo, Herenni- usberos, hyems,
homo, humus, hylas, Cremes; Thrafo, vhilippus,Vyr rhus-ideo autem extrmpcus
afcribitur uoatlibus,ut minimum fanet, confortantibus
autem mtrinfecus, ut plunmu. omnis enim littera
fiue uox plusfonat ipfa fefe,cum p
opponitur, quam cum anteponitur, q<t Uoatlibus
aeddens effe uidetur-ncc p tollatur e
a, perit etiam uti f- gnipationis , ut fi
duztm Erenmus abfq; afpiratione,qUti uitium
ui- dear facere , intellectus tamen
inteqvr permanet . Confortantibus autem pc
cohaer et; ut eiufdem penitus ptbpantite
fit , ut p aufratur , LIfignifirttionh
uim minuat prorfis-ut fi dica Cremet
pro chremes* unde hac confyderata ratione
ygr oecorum dothffhni,finguld4 fecerit cas
quot]; litteras, quippe pro,th,Ofpro,ph,p, pro , ch,%
f feribentet nos autem antiquam
finpturam/eruamus- In latinis tamen diiho
nicits nos queqj pro ,ph, coepimus
fjeribere, ut fi lins, fima, faga, nifi
qnbd^utfupra do mimus) cft aliqua in
pronuciatione eius litterae dif- firetia^oim
fono,ph,ut ofkndit tpfius palati pul fis, lingua,
labro rum-R.h, autem ideo non eji tranflatum
abillis m aliam fibram, qg nec fle cvhxret huic
quomodo mutis ,nec(fi tolla tur) minuit fignifid
txonem ,quanuis enim fibtrafot afpiraticne
dicamus, retor , Vyrrus t intellectus permanet
ynon aliter quam fi antecedens Uoailwns au fe¬
ratur. Vnde c frenditur ex hocquoq; aliquaeffe
cognatio-r, litterae cu uocahbus-cx quo quidam
dubitauer ut , utrum proponi debeat huic
af/iratio>an fubiungi^nde Aeoles loco(ut
diximus) afpirationis digamma ponentes in
dictionibus ab -p Rapientibus j olent loco digam
ma-B fcnbere /ududntes debere praeponi diyrtmma
qua.fi uoathfeA rurfis quafi confonanti
digamma in eadem fyllaba preepenere re -
cu j, 'antes ,comutxoant id in-Bfiparcop fcpo
Condicentes Sed apud grte cos hxc littera /idzji
,p -multis modu fungitur loco uoculif ,ut in
decli natione nondnum in,pcc,& in a
puram dcfmentum,qu<e fimiliter . a, /eruant
per obliques cufis ,ut ui px w
pocr^opCoc <ro<p'*s- Apud lati nos
autem non adeo -Q^ucentur cur inuah &ah
poftuocrtles poni tur afpiratio - &
dicimus quod apocopa fidei efl extremae
uoctilif ai proponebatur afpiratio, nam perfidi uaha
aha fint-ideo autem abfdffione fidhi extremce uocztlti, tamen afpiratio
manfitex [k periere pendens uocrtli, quia
fium eji imterictUonis noce alfcondita
profrri-ltaq; pars abfeondii & extremitatis
uidetur congrue in in = teritVYiefhcnis naturali
prclahonercmanfiffe-nec mirum cum in Sy
rorum Acgyptiorumq; dichoni msf oleant etiam
in fine afpirari uo atles.lnfrricttionum
autem pier *q; communes fint naturaliter
omnium gentium uoces-inter-cjine affiratioruey&
cum af/irahoneeft g, inter- tyquoq;
&tih,cft.d,&' inter -p ,gr, ph,fiue-f, efl -b Sunt
iff- tur hae tres, hoc eft -b.gfdymcdice,qute
nec penitus atvent afpiratione, nec eam
plenam pojfident.hoc autem cflvndit etiam
ipfius palati pulfi<s,& linvueucl labroru
confimihs quidem in ternis , inter .
p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts inter -c.&.ch
.&-g- fimiliter inter -t &-th-&.d fidin
humus exterior fit puifus/naf/eris interior, in
me dijs inter utrvet; fipradiihrn
locu-qdfiale digno fci 'tur, fi ai te damus
in fipr tdi&ismoiil us ora mirabili
natura lege modulati a noces- Toto aut e e
cognatio earu <p inuice muemutur pro fi
pofitee in qbu fidit ditfionihusyt ambo pro, u<pu>t
luxus pro w i os, & publicus pro
TouvMHor, trismphus pro dpfocyfros, gubernator
pro HvfitpvSx rnr, gobius pro inofcio,
Caere *Vj' toJ %oupi puniceus
<po/vi'*tif deus Stof purpureum Troptpj
piov. Hoe quocp obfiruanduan efl <p
nd computationem aliarum cofonantium quae [olent
mutari uel abq- dper cti fis , immutabiles
funt apud nos tresl n-r-per cmnes
erwn at frs eaedem permanent, ut fil
falis , flumen fluminis, caefin coefaris-t. quoq;
& >c. quduis m trilus folis mueniantur
nominibus quaepof- fint declinari ,hoc idem
firuant,ut caput rapitis, &ab eo
copojita, Ut finciput fi 'napitis , occiput
occipitis, alec alecis, lac l albis, in quoetia
t. additur • quare quibufdam non
irrationabiliter nominatum hoc lath prolatus
inuenitur. Reliquae uero cojonantes mutantur , uel
ab ij cimtur-d-ut aliquid alicuius an. ut
templum, templi, peliumpelij-f Ut magnus magni-x-rex
regis, nix niuis-ln uerborum qucqipraete *= ritis
p er fettis jolent omnes modo mutari modo
manere, cxcaeptis-L p.fx Mae enim nunq
mutantur, ut habeohabui, iubeo iuffi,compefco
compefcHi,dico dixi, afcendo a fiendi, laedo Ufi, lego
legi, pingo pinxi, demo dempfi, pr emo
presfi, moneo monui, fi no fui, nequeo
nequi ui, torqueo tor fi, differo differui,uro
uffi,uertouertiftedv flexi. \llae au tem quattuor
ut fiupra diximus nuquam mutantur,
mpraeterito per fiflv.l. ut caelo
caelaui,doleo dolui,uolo uolui, mollio molhui.p .turpo
turpaui,ftupeoftupui,fadpo fiulpfi, lippio
lippiui.fiquaffo quaffik ui, cenfio cenfiti-arcefjo
arceffim-x-nexo nexui. Voatles quoqiin eifde
praeteritis perfiflis quaem principalibus fy
liabis mueniwntur uerborum, modo ex correptis
producuntur, modo mutantur in alias uo
cales, modo manent eaede-Troducuntur plemnq omnes, ut fiiueo
fani, ctiueo cdui, fedeo sedi , /ego'
legi,uideo nidi, moueo mom, fbueo fo ui,
fugio fugi . Mutantur. a, &. e-a. quidem in. e.
medo produ&tm modo correptam.Vrodu(fhim,uta^p egi
capio cepi facio faa.fi ango fregi.
correpta, tango tetigi, cado cecidi, parco peperci . E.
uero tran- fitm.i.ut eo m,ueUij.Solinus in
colledhtneis uel polyhijhre. Tatius in arce
ubi nuc aedes efl xunonis Monetae ,
qui anno qntv q mgref- ptsurbem
fuerat a lauretibus inter e p tus
efl ,/eptima &uiqvffinia olmpiade hominem
exiuit.Qjteo quiui uel quij. Haec eadem
uoculis penultima muerbis fi eundae coniu^tiois
fepe mutatur in-u.ut do¬ ceo docuiynoneo
monui, doleo doluuquod fimiliter efl quado
in ter¬ tia uel quarta coniuqntione
patitur aut rapio rapui, aperio aperui
M.&.o>manet in principalibus fy liabis
pofitae immutabiles ,tempo Yimquoq ; m
quibufdam.ut ruo rui , domo domui, doceo
docui. Hoc queep olfirnandu efl p mnq
in fupradifiv tempore poteft qeminari
m ] i i! - n VK - - —
UBER . Wf M principio ncq; in
fine fyllaba ni fi qucedtmte incipit -
ut ton¬ deo totondi, pendeo uel pendo
pependi , difco didici f pofcv popofii,
tundo tutudi, pedo pepedi, iungy tetigi, c&do
eradi , atdo evadi , pello pepuli,
fxllofifilii^rodo prodidi , nendo uendidi-ex
quo etiam ap* paret . f . uvm magis
mutce obtinere d quaincipiens eft geminata
fyl¬ laba- S- antvmutem pofita muenimtur
duo uerba epice qeminant fy liabam m
prcetvrito.jb ficti, fiondeo fiepondi -
Antiquiffnni etiam , fcindo fdadi dicebant
,q> innior er fddi dx erunt , ut
mpr&terit* perfitfv uerbi ofiendemus - nec
fine ratione • 9. ante mutam pofita
vnuemtur qvminatum uerbum, c/m s- amittit unn
fiiamplcnmcp, fic pofita ante mutam,
wndenec in fecunda fyllaba repetitur- M
-quocf ge minatur , mordeo momordi , quee
loco nuttee in multis fungitur, nam
ante-n pofitx communem fiat fyllabam, ut
r amnes ramnetis , fieut Cremes Cremetis-
lamlicti enim fiunt quee fic declinantur ,
quod Callimachi quoque au thr itato
con fi r ma tu r in A ct
ijs ,ficu t i am t :f radicium
cfl hocucrfiu 7w; juiv o uvv <rd paetos
t<pn £tvos uAinr cuvut- nunquam tamen
eadem- m • ante fe natura lonqxm uo-
adem palitar ; n eadem fyllaba ejfe,
ut illam, artem , puppim, i/= Ium
, rcmjfiem , diem , cum abue
omnes femiuoatles bcc habent , ut Meccenas
, pcean ,fol, pax, par - praeterea
fola heee femiuocalis pofr-s. ponitur, quod
trntar u cfl, ut fimyrna,fmardgdu6,& ante
liqui dam ut fitmnis,&q> ante-s
.pofita in finali fyllaba nominis , more ma
tce interpofita i. fiat genihuu hyems
hycmls,ucl uti inops inopis, eoe leis
ccehbis- Apparet igitur, <q) elementoru alia
funt eiufde yvnerts , ut uoctflcs,& con
fonantes. alia eiufde fiedei,ut in uocuhbus breues,
& longce , & in corfonantibus
fimplicvs,& duplices , quee halent
afiiratione,^ quee non habent , & earum
medice- alice uero fibi funt affines
per c6rmtatione,idefi q>imuicvm pro fe
pofitee inucniim tur,ut breucs,CT longce
quee habent afiirationem, et quee atrent ea
* A lice autem per coiuqationem,uel
cognationem cognatee littorce , 0*jg feinuicem
pofitee, ut. b.p.f.necnon-g &-c-cim afiiratione fiue
fine ea-x»quoq; duplex, fitnilitor-d.&.t. cum
afiiratione uel fine ea,&* cum
his-z-duplcs-unde fiepe-d feribentos latini hanc
exprimunt fi no, ut medidics ,hcdie , antiqui (fimi
qucq;Medentius dicebant, pro tnt fentius -
Qjxinenam.fifimplexhabet aliquam cum fipr adi flis
co¬ gnationem, unde fiepe pro-z-eam folemus
geminatam ponere, ut pa- trifjo pro -jr<x,7(>i{w
pitiffo pro tnaffil pro juoc(oc-&do, es
tj pro <rJ-wndc nos queq ; tu
pro<rj (j* te pro ri-kttia autem
tixAccr- roc pretia Aderret tipUrTXpro tipvcrrx
& httov proi crerov ,& /i/^i
jux^os pro <n/'wxXos , Romani etiam aiax
pro tuus . in uoatlibus \ V
v >•••• V . g quoq;
frut affines, e. correpta fiue produdht cum
ei dipthongy,qH<t ue teres latini
utebantur ubiqs loco -idongee-mnc aut
contra pro ea. i. longa ponimus, uel. e
produdhtm, ut v£\os nilus, uocAAio^reiu
allio = peagopci* chorea. e . pe ?Utitimamodo correpta
nwdo produ&t . o breuisfiue longi cum
u. ut hos pro p>ojr ehur, robur,
pro ehor ro~ bor,& platanus pro
'TAocTx/or.A.quoq; cwn-c.&.i-arceo g? coer¬
ceo. facio infido, nec, ion alue cum alqs.g? quia frequenter
he m omnibus pene litteris mutationes non filum
perafus,ucl tempora, frd etiam per
figurarum compofitxones , uel denuationes gj*
tran- jlationes d grreco in latinum
fieri filent, neceffarium efi e arum
po nere exempla .A. correpta conuertitur
in productam, faueofdui, I n. e . correptam
parco peperci , armatus mermis . I n e.
produ - {ktm facio feci, apio cepi producta
quoque- a. im. e .produ<fhtm in¬ venitur, halitus ,
anhelitus in. i . correptam amicus
mmlcus , in c. etiam juxpuocpor marmor,
in. u. fitlfus infrifiis,ara arula-E-cor
rep tatranfit m. e. produchtm, legoleg. in.
a. fero saties ,reor r a tus. in i
correptam moneo monitus , lego diligo, in-
o . tego tvgt . Antiqui quoque amplofli
pro amplctti dicebant . Et animaduortt fro
animaaduerti.in-u.tego tuguriim-Et apud anttquijjimos
quoti € fcuncp.n.d.fecpumtur vnhis uerbts quee
d tertia comugntioe nafcun tur
loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut faaundnmjcgundu, dicundum f
Kertundum,pro faciendum, legendwi, dicendum, uertvndnm-I.tr
an jitin.a.ut genus, genens ,ypneranm, paulus
paulipoulatim -tn,e far tis forte fortiter
fapiens fapientis fapienterdn.o. patris patronus ,&
patro uerbumglh pro illifaxi faxofus . m-u.arnis
arrn/frx antiqui pro arnifrx,ut lucens, pro libes
& pe farnus propefjhm. Sci¬ endum
tamen eft q> pleraq; nomina qu^e
cum uer^is fiue partiapijs componuntur , uel
nomiruttiui mutant extremam fy liabam in-i.cor
reptam, ut arma armipotens ,homo homicida, cornu
cor niger ,fivlla fhlliger , arcus araten es
fatum fatidicus, nurum nunfrx,aiifa ctiufi- dicus
fadhts lucificus, cornu cornicen, tuba tubicen,
fidis fidicvnfi^ des plurale , cuius ftngulare
fidis eft,unJe etiam diminutiuum fidi =
cula-tibia tibicen, pro tibfan, tibia enim,
a-md-debuithmitare, ut fit praditfhtm eft ,unde
pro duabus- vj.breuibus una logafadla ep\c[Uod in
alia huiufremodi compofihone non muenies .
uulnus uulm ficus , magnus magnificus , amplus
amplificus, fruflas fruflificus , opus opifrx
uel gemtna . ut uir uiri , umpotens , par
paris parrict =- da quod uel a pari
componitur , uel ut alij dicunt d
patre . ergo fi efi d pari-r-euphoni£
dufa additur , find patre .tdn r. converti¬
tur , quilufdam tamen d parente uidetur
cffc compofitum, g? pro JLIBER
farentidda per fyncopen,& commutationem -t.fn.r.fadbitn
parn^ eida frater fratris ,fr atruida
foror for oris, foror icida, lux
quoqj lu * ets lucifer, flo; floris
florifer , fdcer facri facnficus,ars artis
artifix • p aucti fwit quce hanc non
[eruant: regiam, ut auceps, anes atpiens0
mtnceps ,mcnteatptus ,municeps munera cupiens,
au^his augufius [milia • &qute ex duobus
nominanuis componuntur , ut puta tufiu -
randum,refpu.non tnutant extremam fy liabam, fid
ea cum defigu* ris dicemus latius
traifhtbimus • O ,aliquot Italia? ciuitates
tefce P linio, non habebant, fed loco
eius ponebant. u . & maxime, Vmbri,
<Z?Y jhufa.o ,tranfit in.a.ut creo creaux-vn
e.Ht tutor , tutela, bonus 6e- ne 71 w
genu wi/rpes . antiqui compes pro compos. m
quo xolesje* nuimur. I Ili enim t^ovioc
pro ocP/vroc dicunt, o . conuertitur vnn,
tsirgo uir <gnis-m-u.tr emo tremui, huc illuc
pro hoc illoc . Virgin yiij. Hoc tunc
ignipotes ccelo defcedit ab alto. et pleraq
; qu& apud grtfcos twminatiuum in, os.
terminant, o.m-u.conuertunt apud nos» Ut h\j' pos
Cyrus , zvovJft o s fpondeus, kv vrpos
cypruS, ^tA ayos pelagus. Multa praeterea
uetufhffimi etiam m principalibus mutabat
fyUabis, ut cungrum pro congrum, cunchin
pro conckm,bumincm pro hominem proferentes
, funtes pro fontes , frundes pro
frondes. Vnde Lucretius m idibro Angujkq;
fretu rapidum mare diuidit undis , pro
freto, idem in tertio, Atqui animorum
etiam qu<ecunc Ji acherunte profundo pro
acheronte . in eodem • Nec tityon
uolucres ineunt ach er untei acente
m,Qjta? tarnena iutiioribus repudiata fiunt,
quafi ruftico more didht • V, quoque multis
ltalue populis in nfa no erat, fid e
contrario utebantur, o. under ornatiorum quoq;
uctufhffi - mi, in multis dicionibus loco
cius-o-pofiuffe inueniuntur,poblicupro publicu,qi tefhttur
Vapirianusde orthographia, polearum pro pul
chrii,colpam pro culpam dicetes,&hercole pro
hercule,& maxi mc digamma antecedente
hoc faciebant, ut firuos pro firuus
,uolgus pro vulgus ,dauos pro dauus-Tranfit
in.a.ut ueredus ueredarius, in. e. pondus
ponderis, deierat peierat pro deiurat peiurap,
labrum labellum, [aerum facellum, antiqui auger,
& auger atus pro augur, et auguratus
dicebant. I n.i-cornu cornicen, arcus arcitenens,
flucfhis fluttiuagus ,curfus ,ucl currus
curriculus, uel curriculum in. o. nemus nemoris
cbttr cboriSy robur roboris. Votutur ha?c
eadem littera itt gratcis nominibus modo
loco • oj . dephthong,ut mufia pro
juv o-oc modo prou correpta ut homerus
pro oyupos pro eadem produfhtut fux
pro (pupficute contrario pro p>ojs bos.
modo pro . u .loga,ut probus mus, modo
pro correpta to' pepv pa purpura. In
plerisfy tamen £oles ficuti hoc faarrns.
I Ui enim OQvycin? dicunt pro
Suyxrvp.oj.cor?/ ** M »3 ♦5) PRIMVS -
ripientes ,Uel magif.v fino-u. jbliti pronuntiare ,
ideoq; afcribunt e . rwn ut dipbthongum
faciant ibifid ut fo ium- u. colicum
ofiendanf Ut Callimachus HX\hi%tafv
%6oviF,ojpi'xs SouyxTup. Qjsod nos fi cuti
u, modo correptam modo productem halemus ,
qua usis uidca- tur-oJ -diphtkoYKg fanmi
habere . Pro .0, cpiocp.au , joletrt frequenter
ponere greeti oj pos oj aos pro 5
poto hos, voj <ros pro vo<ros dicentes, qd
nos frequenter habemus in finalibus maxime
fyllabts, ut V namus, pylus, pelium-u, tamen
cvrripientes-lft quando amittit -u^im tam uo
diu q confortantis, ut cum inter. q, &
aliam nodi em ponitur, ficut ia
commcmorauimusyt quifquam • Hor idem pier
unq; patitur etia inter. g,& aliquam
uocalem,ut [anguis lingua. s , quoq;
antecedente u,<& fiquente.a,uel.e,koc idem
fepe fu, ut fiadeo fiuiws fuefio fetus,
quod apud atoles quoq;.y,fepe patitur et
amittit uim litterae m metro, ut
<rXT<pu) ,%a\x Tu/ePtoc eA Sin
xor/a-xrtt purx, f militer W- av/
difyllabuminuenitur apud cofdcm cnm-y- nonef
dipthongus. .quando tranfit in confomntem
idemu,ut vxuthf nauta , nauita, gaudeo
sgtuifus , ficut eamtrafa confonante tranfit
inuodlem ,ut ft - pra diximus, dueo
atutus,foluofolutus,faueo fautor , uoluo uolutus .
fepe. u, interponitur inter ufuelcm, in gratis nominibus, ut
» pxu herculesxcTKXurijs <efculapiHS& antiqui
,x\k,uh'vh dlcununa ,x\- nutum alcumceon • I n
confonantibus quoqi rmltce fune fimiliter
con~ mutationes. L, triplicem ,ut P linio
uidetur fonum habet , exii em, quan
do geminatur facundo loco pcfita,ut ille
,mctellus , plenum . quando fi¬ nit nomina uel
fylldbds,& quando habet ante fi in
eadem fyllaba aliquam confonantem,ut
fol,fylua,flauus, clarus , medium inalijs , ut
ledtus ledht le&um» L, tranfit in. x
,ut paulum pxuxiUsm,mala maxilla, uelumuexillum,in.r,ut
tabula taberna • M ,ob fimum inex tremitate
dictionum fonat, ut templum apertum in
principio , ut ma gnus}mcdiocre in mcdqs,ut
umbra.tranfit in.n, & maxime, d, ucl
t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut tam tandem , tantum
tantundem, idem identidem ,nwm nvmcul
i,& ut P linio placet, mnquis, nunquam,
an ceps,proamceps.am enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus
in.n, mutat. m,ut anfi adhts, anci fia, anquiro, uodli
nero fi qu ente interci- pit.b tut ambitus,
amhefi:s,ambufius,amb ages jntenon etiam in com¬ buro
combufius idem fit • F inahg di&ioms
fubtrahitur, m, in mtr • plerunq; fi duodli
incipit fiquens diflio,ut lUum expirantem
transfixo pe flor e flammas. Vetufafflmi
tamen non fimper eam fubtrahelant. 'Ennius
in. x. annali ttm . infignita fire tum
millia militum ofh b ltb er
* Duxit delcftvs b ellum tvller are
potentes . N -quoque plenior in prbnis
fionat , in ultimis partibus (yllaba -
rum,ut nomen, [hmen, exilior in medijs, ut
amnis, damnum, tran- fitin.g,ut ignofeo, ignauus,igno
tu s, ignaris, igno minia, cogno fco, co= gnatus-
poteji tamen in quii ufdam eorum
fermonum etiam per con - qfionem adempta
uideri-n, quia in fimplitibus quoque potefl
inueni r iper adie^nonem-g, ut gnatus
gnarus- & fequente.g, uel.c, pro ea
g, fer ibunt graa. & quidam tamen
uetujhffimi authres Romano¬ rum eupnonia
cuufa bene hoc facientes, ut
agchifes,agcepsyaggulu$, agqvns-qucd ofhndit v arro.i.
de origine lingua latina his uerbis •
Aggflas aggvns agguiUa iggerunt. In
eiufmcdi grati & Attius no * fvr binam.
g. feribunt ,alq-n,& .gyquod in hoc ueritatem
facile uide- rc non efhjimiliter ageeps
& agcora.tr an fit etiam. n,wd, ut unus
ullus, nullus, uvnum uillum, catena catella, bonus
bellus, catinum catil- lum,fimiliter collega tcolligp,
illido, collido, tranfit m.m-feqmntibus- b-ucl •
m-ucl-p. audoee Vhnio & Papiriano
,& Probo, ut imbibo, wi o e ilis,
bn outus , bn mineo , ynwvt t to,
im mo tus , improb u$, imp erator,
mpello , ftmiliter in gr acis nominibus
neutris bi.on . definentibus zrxAAx.Stov
paUadium tthaiov pclium, tranfit etiam in*r.ut
corrigo , corrunpo , irrito . Hanc autem
mutationem litterarum / ciendum ejl quadam
naturali feri uccis ratione, propter
celeriore motum lin¬ gua labrorumq; ad
uicincs facilius tranfemtium pulfus . T rafit
fu- pradibht confonans-n, etiam in-s, fando
ftifjus, findo fiffiis , in.t-atnis catulus, catellus-
in- c. ecquid pro cnquid.pxpclhtur -n,d gratis in-w,
definentibus, cum m latinam tr anfaunt firmam,
ut demipho, fimo, leo, draco, fi cut contra
additur latinis nominibus in- o .
definentibus apudgracos ut mm puv }kxtuv tpro
acero, cato. Tranfit m.u.confona = tem,ut,fino
fiuiyfivrno, ftraui-R.fine afiiratione ponitur in
latinis, in graas Ucro principalis uel
geminata, m media ditfione afiiratitr, ut
rhetor, rh entes, rhodus, pyrrhus, tyrrh ems
,orrh ena y pro quo nuc o fit
ena dicentes afpir ationem poft-r -antiqua
feritant feriptura-tra - fu in -l. niger
nigellus- umLr a, umbella. in-s. ut arbos pro arbor,
odos, pro odor -Plautus in Captiuis- Q^uorum
odos fub bafiliatnos omnes abigit m
firu-uerror , uerfius.in duas-ffiuro ufifi,gvro
gvffifo.H.con- fi>iantemytero trimfiro feui.in.n,
ancus pro areus-S-in metro apud
uetufhffitrws yubn fiam frequenter amittit . *
v irgiiius in. xi. aneidos, Ponite fies fibi
quiscp- idem in-xiu ^ inter fe
eoijjfe uirosy<& decernere firro . Nf
autem comunthone fequente am apoflropho
penitus tollitur ut uidcn,fiatin,uim,pro uidesne
fatifne uis'ne. necmn etiam in gradi
mhUmlus.^-Uet. es. ter minantibus plermtq;
tollitur, cu fmt pri¬ ma declinationis, ut
Gefa^irrhia^hedria^cherca poeta quoque jo* phijht,fytha
, citharifkt-in quibus etiafner}produ<fhtm a
correptum conuertitur . tranfit hac eadem
in - m. utrurfmn pro rurfus,dun mimo
pro difminuo . T erentius in adelphis
d>mmmetur tibi te¬ rebrum, m- n -
mittitur- s- pinguis fangninis. in . r.
flos floris, ius iu- ris,curfts amiculus
, «e/ curriculum -in- x - aiax pro
ausgr pi flrix propiftris-in quo fequimur
dores.ilh enim o pvtE pro opvis. m-
d- cujks cujbdis , pes pedis ,prafes
pr a fidis, palus paludis . in . t- nepos
nepotis , uirtus uirtutis ,famnis famnitis .
in-u. condonan¬ tem bosbouts . /ape pro
afbiratione ponitur m his dictionibus quas
d gracis fump fimus , ut /emis , fex
,-feptem ,fefal. nam ijulv. eA/. t
vtd . e . «Ar . rfjwd illos
aspirationem habent m principio . adeo
autem cognatio ejl huic littera idefi-s,
cum afbiratione }quoa pro ea in quibufdam
dicionibus [olebant bceoti idefi pro-s-h-fcnbere
, nudi a. pro mu fi, dicentes -huic- s.prapcnitur-p. et
loco. ‘b-grace fungitur, pro qua claudius Cafar
antifigma - X hac fiqaira fcnbi noluit
fed nul¬ li susfi funt antiquam
feripturam mutare, quamuis non fine ratione
kacpuoq; duplex d graas addita uideatur,
nam multo meliorem , & uclubiliorem fonitum
habet-^.qudm-ps.uelds-ha tamen ideft.bs non alias
debent poni pro ^ -hoc ep in eadem
fyllaba coniunfla ,mfi m fine nominatiui, cuius
gimtiuus m bis definit, ut urbs urbis,
coelebs coelibis ,araps arabis -Sicut ergo-^. melius
fonat quam ps-uel.bs.fic . x-etiam quam- gs-
uel.es -&-x- quidem affump fimus -i- autem non •
fed quantum expeditior eft-^-qudm- ps. tantum
ps-qudm bs- ideoq ; twn irrationabiliter
plerisqsloco uidetur .^.ps -debere feribi , quod
de ordine litterarum docentes plenius
traChtb imus -x- duplex modo pro es.mvdo
pro-gs. accipitur, ut apex apicis, grex gr
e gps, tranfit tamen etiam m-u-confonantem
,ut nix niuispiecmn in. 61. ut nox no5hs,fu
- pellex fupellefUhsSedhac contra regulam
declinari nide ntur-fubit etiam-x. littera loco
aflpirationisfut uehouexi traho traxi-x-uertitur
in-f. ut efficio effero. & /ciendum cp
quoticfuncp . ex - prapofitio , Konitur
compofita didonibus duocahbus incipientibus ,uel
ab peattuor confonantibus , hoc eft.c
-p.t.s- integra manet, ut exa¬ ro, exeo
, exigo , exoleo , exuro , excutio,
expeto f extraho , exe= quor
,exfpes,in quo uidenmr contra gracormn
facere conflatu = dinem-illi enim. a . fequente
nunquam • / • praeponunt , fcd-n -
pro ea tuttK$ot!ri! . melius ergo nos
quoq;. x . [olam ponimus, que lo¬
cum obtinet, es- cuius rationem nonfolum
ipfe- fonus auriu iudido pof fit
reddere, fed etu hoc f qemituiru
s-Jifta confonante a madente b ij
LIBER. minime potefl -geminari autem indetur
pofr confortantem -s-x* antece¬ dente ,qu£
loco-c.&.sfrinqjttcr fi tyfia confequatuT,ut
exfrquia ex - [e^uor -quod fi liceret, licebat
etiam pejt -bs, uel- ps. quas loco - dupli as
acapnnus adderes, ut dicer enm objfiffus, abjfichts ,
quod minime licet -nunquam ennn necs,riec
aha conjonans geminari poteft, ut di¬
ximus, alia antecedente confionante-nunc de mutis
dicrmus-B - tranfit in egit occurro
fiuccnrro,m f,ut opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut fuggro,
in-myut fivmmitto, globus glomus ,in-p ,ut
fiuppo/io,nj-r,ut fitrnpio,ar rtyio,ms,ut luleo
iufp-nam fiifdpio & fijluli d fitfrum
uel fiurfium aduerbio compofiite fiunt,
wnde fiubtinnio & fihbcumlo non mutauem
runt-b-ins • fijpicor quoque fiffido d
frufim uel fiurfibm cvmpo- nantur , fed
abqdum urnam s -non enm didamus fufjjnao
fedfiujpU do,quia non potejl duplicar i
conjonans alia fu pquente conjonante ,
quomodo nec antecedente ,nifi fit mutuante
liquidam, ut fiupplex ptf* fr agor
fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g), quomodo & apud
grteccs o-uyypnoopcJ
<njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn f/cov ,tp6iyy/Ax.
C- tranfit in.u, confio- nantem, ut quiefeo
quieui,pafico paui y afeifeo a fani, in- x, ut
dico dixi, duco duxi, noceo noxa
noxius, ins, parco par fi, uel peperci, m-g,an*
te cedente. n, quadringenta, quingenta, feptmgenfo . ango
quoque pro ancho.et riofond cm cjr f
ante hanc julam mutem finalem inueniwn
fur longce uoatles, ut hoc, hac, sic, hic
aduerbium-nam ante.t,fi qua fnueniatur uoatlis
longa. p er confdfionem hoc euenit , ut
audit, mu¬ nit fimat,pro
audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita trafit aliquando
m-t,ucl ajjumit cam,ut irafeor iratus,
nancificvr nafhts, nafivr natus , pacificor
padhts ,pafivr pafhts. u-tranfit m-c,ut acci -
dit,quicq iam,m g-ut aggero,in-l,ut allido, in.
p, ut appono, in-r,ut arrideo, meridies, antiqui
jjimi uero pro ad frequenti [fime, ar ,
pone - bant,aruenas, amentor es, aruoaitDS,ar fines, aruclar
e, arfkri,dicetes, pro aduenas,aduentores,aducattvsyadfines,
aduolare, adfrri . unde ofienditurrefte arcrjfo
dia ab arao Herbo, quod nuncacao didmus,
quodefr ex ad & do ccmpofitim-arger
quoque dicebant pro agger • tranfit etiam
ins ut afifiideo,rado rafifradeo fiuafi ,
in duas queep ffiut cedo affi, fr
dio fv/fiis,in.t, attinet, attamino, attingo, heee
eadem tamen -d frequenter interponitur
mcompofitis hiatus atufa prohih e- di, ut rediw
, redarguo, prodejl- fini trahitur etiam cum
fequens fiylla ba abs-& alia aonjbnante
indpit,ut afipiro, afpido , afeendo , afb -
V. multis medis muta magis ofkndmr , cum pro.p ,
et afpiratione qu<* fi militer mute, e
fr acdpitur,de quo fiiffiaeter fiupo ius
diximus -qua- q tam antiqui Romanorum
atoles frequentes loco afpiratioms eam
ponebant , effligentes iffi quoque affirationem
• & maxime atni eonfenante, re
rufabant eam proferre in latino fermone
-habebat au- tem haec- f-littera hmc fenum
quem nunc habet u-loco confemntis
fofita,mde antiqui-afpro abferibere felebant,fed
quia mn potefe MU, idejl diqnmma in
finefyllal & inueniriydeo mutata ejl-fm-b. fi
filum quoq; pro fibilum,tefee Nonio
Marcello de do floram indagi¬ ne, dicebant.
G-tr an fit m-;-jfargo ffarfi, mergo
mcrfi,m.x.tego texi, fingo pinxi,in.fl.agor afht;
, legor lebhi; , fingor piflu;. li. littera nonejfe
ofeendjm>ts ,fed notam afeirationis, quam
gr aecorum anti- qulffe.m fimiliter ut
latmi in uerfe fer ibebant, nunc autem
diuiferunt, & dextram eius p artem
fefra litteram p onente;,pfilen notam ha-
bent,quam Remnius Palcerrwn exilem uocut.
Griliuis nero ad vir - gtium de
accentibus fcriben;, lenem nominat, finijlram
autem con * trarix illi afpirationi; da
fiam, quam Grillus flatilem uocrtt-K-fef er-
tutata eft,ut fefra diximus, qu^e quatmis
feribatur nullam aliam uimhabet quam- c.De-q- quoq
; feffidenter fefra traflntum efl ,<pA&
nifi eandem uim haberet quam. c.
nunquam in prinapij; infinito¬ rum uel
mtcrrogatiuorum quorundam nominum fofita fer
obii * quo; atfe; in illam tranferet
, ut quis cuius cui- fimiliter d uerbis-q »
habentibus in quibufdam participi j; m-c. tr an;
fertur, ut, fequor feat tu;, loquor locutu;. trd fit
in-;. ut, torqueo torfi, fient gr-c-parco par
fifimi-iiter abqdt.nfn proterito featt &.
c . linquo liqui, umeo mei . tranfit
etiamin-x-ut , coquo coxi, duco duxi, apud antiquo;
frequen¬ ti ffimcloco.cn -fyllab*, qm, ponebatur ,
& econtrario , ut arquus eoqm;,oqvHlus,pro
ar cu;, cocu;, oculus, qum pro cu,qnur pro cur.
trafit in-; -ut uerto uerfe;, concutio concuffus,
osx grxcnfro offl.c.uc yo antecedente, tr
an fit. t. in -x -ut peflo pexui,fleflo flexi- v
,& ,(,tan tummodo ponuntur mgreeei;
diflionibus, quantus in multi; uctere ;
haec quoq; rmfaffe mueniantur , & pro-v.u-pro-'{
- uero quod pro. ff. conimfli;
acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut fagtmurrrhapro yuyfjuJ}*
fcc, fegunthum mafjk fro (xHvyffo; juxfa
, edor quoq; xtto toj o'(ciy, fethus
fro {»6o; dicente;, &Medentius pro M
efentius.ergp corylus t? limpha, ex ipfe
feripturad graed; fempta non cft dubium,
cum f u -ferio atur 70 7 no puAo; toj
vj^ucpif Solebat enim Uetufhffi mi gr
aecor um-Lpro -n-ferib ere, unde quinquaginta quoq; numeri
fi° gnum,quod illi per -n ,feribunc, no;
per-l-morc illorum antiquijjl- feribimus - D
c ordine litterarum. Kdo quoq; aeddit
litteris, qui quantus in ;yllabis dignofrf- *
tur , tamen quia conimflu; effe
uidetur cmn p ote[ht.teele= mentorum , non ah
fer dum puto ei nunc illum
febiungerc. . b ili *» w
•31 •9 •Jf t* Uodtes
pr<epcfitiu<e alqs uodlibus fitbfiquentibus
in eif dem syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi
apud antt quos pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum
fidebat, qua pro. omni. i, logt fcribebant more
antiquo gr cecoru.lnuenltur h<ec eademi,pojl
u an grceds nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus
cfi-Sunt igitur dij. hthongi quibus nunc
utimur quattuor .diphthongi autem dicun¬ tur
q> binos phthongosyhocefi,uoces comprehendunt. nam
finqul <e uo dies (1*04 Uons habent, &.
ac. quando d poetis per di<erefim profer
tur fecundum graecor per. a- &
.i.fcribitur ,ut cudat, piffai, pro auU &*pifre-Et
Vir glus in tertio . Aulai in medio
libabant pocula bacchi. idem in cdktuo •
t)iues equum ducs pidhti uefhs &auri
• in gy<eds nero quoties hu^
iufcemcdi fit apud nos
di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro duplici con
fanante accipitur ,ut maiapro juou'x aiax pro
cuxs. Trafitini , pro dufhtm,ut qu<ero
inquiro, exqui royquanuis exqu<ero Vlautus
dixit in Aulularia. intro exquire jit ne
ita ut ego praedico . l<edo illido 9
c.edo occido. Vonitur pro.edongt,ut a-^vd fccena
& pro. a. ut <efiu- lapias pro
xraAH^/os, inepto <eoles fiquimur. illi
enim vu^upsus pro vj fiepoes &<poujlv
pro (pari v diau.t muenitur tamen hac
diphthon qus ; n media dicHone correpta
tunc ^quando compofitce dithonis ante
cedentis in fne ejl fiquente
uodli,utpr<eufis.v irglms in fiptimo . Stipitibus
duris agitur fndibn*'ue pueufti -Homerus dv ndo'
ttoAs X* JUOlii/VOU. fiait etiam longae
uodles flent corripi yut dchifiv,virgi.in
quinto - Infindunt pariter fideos ,totu mq;
delvfat , Conuulfitum rernis roftrisq; tridentil us
sequor. G e .queq; idem pati¬ tur
apud grsecos Aefchylnsoizpos roiujdixs
rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn de quidam non fine
ratione imum tempus & fimis fingulas
eas ha¬ bere dicunt. idevq,- fi confiquatur
condonans qa<e dimidium tempus habet ,omni
modo producantur • Mt quocp uidetur quafi
pati diuifio nem cum.i.poft.u. addita ftranfit eadem
.Hin cvnf nantium pctcfkt- tem ut,gtudco
gtuifits/udrus nauitay& vuZ: nauis • tranfit
et indo. uttaufiro ab finii allatus
.Et fiicndumi cp pro ab pr
<epofincne.au. po nitur in his uerbis
,aufugo & aufero. E contrario queq;
frequenter f let fieri m antecedente. a.
C7-H loco condonantis fiquente ,fi abijeta-
tur uocuhs pofitapofi eam idefi pcfi.u .con
fana ntem- au dipht h o ngus fiat.u.redeunte in
Uodlemjut lauor lautus y fiueo fautor }auis
auceps f augurium yaugufiUs . trarfi i ino.predudhtm
more antiquo, ut lotus pro lautus, ple
firum pro plaufiruan, cotes pro dates, fient
etiam cun= trapro.o.au.ut aufirum proyjl rmiguif culmi
pro ofculmfiequcn It mwvj.
ufrim/q; hoc faciebant antiqui, in. u. quoq;
longam tranfit fraudo de frudo, claudo
includo •'tu- tranfit m.edo/igtm,ut A chiller
pro x a<o/V .vlyxer pro oJvarri^quod
o frenditur m gninuo ulyxei,Hora. « in
prime cdrminum, Nec curfar duplicet per
mare vlyxei.in-n.etta mutatur fago pro
epsdyu . oe-eft quando per dicer e [i
m profertur in grecir nermni us
&gr<ectim ) eruat fcnpturam pro. o .
enim &.i. ponitur, que tamen ( jient
fr+pradiflum efr) locum d ipliar optmet
confonanttr ,ut troia pro rr?oix}maiapro
jxoux-in hoc quoq ; <eclcr fa- quimur
fic enim illi diuideter diphihongum ni 7
aqv pro koiaov dicut . Apudgnecor tamen
quoq; .i. fequente producere licet
antecedentem breuem,ut Homerus in hocuerfat
n rtfopx oj h t Ace BtvJ&Xti
Tnvdvrx xip tjuxnr aufertur elidejl-oe.
diphthongo, alter a uoaths faquente. e-
longi more attico,ut poeta pro xamdr, poema
pro xof»/aa,necnon pYo,w/.diph - thong gr nor
hanc idejhoe. ponimus, ut «<y/W/ * comoedia, 7
poc- yufix tragoedia dicentes , nec mirum
cum pro. v. quoq; habemur. o. & pro.'i.e.m
diphthog accipimur. hoc tamen ad imitationem
boeo torum friemur facere. Tranfit in. u. longam ,ut
phoenices ,punicer ,phoeniceon puniceum, poena punio.
Nunquam diphthongir in praeterito perfiflv
mutatur ,ut haereo hefa, audio audiui,mcenio
moeniui , ex¬ cepto c<edo cecidi
-Ei.diphthong nunc non utimur ,fed loco
eius in gr&ctr nominibus- e.uehi.produdhtr ponimur.
Et in priore /equimur Aeoles - lUiennniw
Jh^oo-Suii dicunt pro SHjuotrdtvei &
ixov pro ei xov. Et nor plerunq;
cum. ei. apud graecor fit purapenulhma ,
in illis maxime femininis que per
adiechonem affamunt.a.apud gre cor mutamur. ei.
in.e.produfktm, ut ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo' •xh
HXKKio-yreix cztlkopea.nam in illis quemda-frlum
definunt apud graecor raro,fathoc,ut
arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia- Statius in.iiij .
1$ C andensq; iugr Lampia niuofar/idem in
eodem, Hoc quoq; fe creta nutrit Langa
fub wmbraidem in facundo. TWnc donis
Arga nitet , uder q; fororis, Ornatur
facro preculta frperuenit amo.Raro autem diximus
pro - i f&r Medeam, plateam, niceam-Nam quod
Virg. Qui tela tiphoea i temnis. e. correptam
protulit ,doricum efr , illi enim frient. a
. diph- thong abijeere . i , In
laiinir autem dictioni’ m difficile (nuentes -i
longam ante uoctilem pe fatam nifa in
gnirnts in tus defi nentibus , ut
illius, folius, ullius, quae tamen licet &
corriperem metro & in ucr bo fiam
fias fiat, quod ipfrm quoq; contra
aliorum eiufdem coniugrt tionir fit regulam
uerborum. I n tnafatlinis quoq;. ei. pura
m.edon- b iiij M »3
HIBER. grm conuertitur , £xkk uos Achilleus,
a^puos alpheus caror fu os /pcndcus-non
fine ratione tamen hoc fitySed
quia.^purapenultima ante.us,uciayiiel.umy per mminatmos
nm muenitu r p rodufta in latinis
dicncnisiis nif indifyllabis &ipfis greeas .
Nam m greeeis fepe inuenimus ut chius
£r diay & m tino triJylUbo quod
apud M Statium legiyut licyus- Statius
in decimo Thebaidos. Ad patrias f n
quando domos optafaq; paean. Templa hcyc
dabis tot ditia dona facratis V ofibuStO4
totidem noti memor exiget auros . m
ahjs nero co fionanteyl y fequente pro
ei diphthongo longrtm.i y ponimus ut rubos nilus
• In femiuocaiiius f militer fiunt
alia prcepofitiuce alijs femtUo- cahbus m
cade fiyilab a ytt.m, fequente. nyut
mnefivus,amnis.Sf quoq» f Ruente. m, ut
finyrnayfmaragdus . nam uitium facium
qui.z,ante m, firibunt . Nunquam enim
duplex in atpite fyilab# pefita potejl
cum aha iwngi condonante . Luatnus quocp
hoc ofendit in deamo. '* Terga fa
dent crebro maculas difhndkt fmaragdo. nam f
effet.^an- te.mfiubtrahi vnmetro minime peffet tnec
fair et uerfus- Syenim irum trofepe uhn
conjonantis amittit. m fine autem fyllabte
omnes liqui* dee f lent ante.s .
poniyut plus hyems fmons yars -fimiliter dnte.xyexc<e
ptn.myut falx lanx arx. In mutis
proponuntur .b ^.g, fequente >d, ut
[ScPihv po ? bdellium genus lapidis ,abdir
,aldomcnfmygdonides.C, uero Zr-p , proponuntur fequcnte.t }ut
a{htsylc£hisyaptusydiphthon gus. Semiuoczths nulla
proponitur mutis nifi.s, fequete.b, ut
afbejhfs ajbufivs.cfuelqyut fcutii fquallor .p
yut [pes /phatra.tjhtfusfihenni- us-Ante alum
autem nullam nuitur um . Mut<e uero
fetniuo atlibus praeponuntur liquidis abfip.
myomnes pene omnibus-bly ut blandus clyut
clarus -dlyabcdlas nomen barbarnrn.fi frauus-gl gladius
gla^ brio.tlytlepolemus ^tlas pl, planus 'bnyabnuo
frd>by magis fiuperio * ns ejl jyilaba:.
cnyc nidus. dnyadnus ariadne. gnygneusanyatna. pn,
therapnefpnus. brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra-
tusfr, frater- prfratum.trsracfhts. Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*
ut py r a cmony
alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi mos . T
res aut confio nates no aliter
pcjjimt iungi in principio fiyllabce nifii
fit prima. syucl.cyuel py fecunda
pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p. Tofit.ct aute aut- p,prma
pales fiainda.tytertialHchrfd.lyin fiohs illis quee
ab.symapiunt.ut A fclepicdotus, fiyiba fitlopus fylendidus ,
fretus . Ingratas etiam. <p ,t fecunda ponitur
qudm nos per.ph,plerunqs ficru bmus.crypxyit
uittrix.fceptrum • Nam pofi.pt yuehdyfimul iunfkts
l non inuenitur iit cfivndjmus, ipfit
fioni natura pyohibente. \n fine uero
aitUonis contra inuenimus primam liquidam
fequentem muta, poftremam- fiut uris ,fhrps
• fin aute\n in cluas definat
confionantes di&io diMoynecejfe cfi
priorem liquidam effe,et /cquente-s-uelx-ut
fitpr* offendimus, ude. ueUt- antecedente. n,ut hmc,dicunt ,
amat, hunc, uel loco-i-grace bsuel ps fcribcrc
pro ratione <grutwi,ut arahs arabis,
petopr p elopis, coeleps ccelibis , princeps
principi*. Quii ufdam fame Ut fupra docuimus ynon
aliter uidetur-^- gr<e at nifi pro-psfcnben =
da.quanquam enim ratio genitim fiipradiflttm
exigat scripturam, tamen cognationem foni
ad hoc procliuiorem cjfe aiunt hoc
tamen fci endum eft,cp principium syllaba
omnimodo pro. i. ps >debcthahere0
Utpfitacns,pfiudolus , ipje,mbo quccp mp fi, scribo
scnpfi faciunt, quanuis analogia per -b,cogat
scribere ,/edeuphonia fuperat, qua etiam
nuptam non nubtam, & scriptum non
scribtum compellitper-p,non-b,dicere & scribere-
PROBI IWSTITVTA ARTIVM. M R. P- ^' 30
V. DE VOCE. Vox sive soDus est aer
ictus, id est percussus, sensibilis auditu,
quan- lUDi io ipso es(, hoc est
quam diu resonat. nunc omnis vox sive
sonus aul articulata est aut confusa.
articulata esl, qua homines locuntur et
5 lilteris conprehendi potest, t puta ^scribe
Cicero', ^ Vergili lege' et cetera
UHa. confusa vero aut animalium aut
inanimalium est, quae litteris con-
prehendi non potest. animalium est ut
puta equorum hinnitus, rabies €3Dum,
rugitus ferarum, serpenlum sibiius, avium
cantus et cetera talia; inaDimalium autem
est ut puta cymbalorum tinnitus,
flageilorum strepitus, 10 uodarum pulsus,
ruinae casus, fistulae auditus et cetera
talia. est et con- fusa vox sive
sonus homiiium, quae litteris conprehendi
non potest, ut puta oris risus vel
sibilatus, pectoris mugitus et cetera
talia. de voce sive sono, quaDtum
ratio poscebat, tractavimus. DE ARTE. 15
Ars est unius cuiusque rei
scientia summa subtilitate adprehensa. Dam el
Graeci aico TtjgciQSTijg, a virlute,
censebant artem esse dicendam. uDde et
veleres artem pro vlrtute frequenter
usurpant. nunc huius artis, id est
grammalicae, omnis dumtaxat Latinitas ex
duabus partibus constat, ' hoc esl ex
analogia et anomaiia, et ideo utriusque parlis rationem sub20 iriiDus.
Analogia est ratio recta perseverans per
integram declinationis disciplioam, ut puta
hic Catilina, haec lupa, hoc scrijnium
et cetera talia; $cilicet (|uoniam haec
nomina sic per || omnes casus
secundum sua genera 2S in derlinalione
perseverant, sic uli est analogiae rccta
declinationis dis- riplina. 1 PROBI
GRAMHATICI DB VIII 0RATI0NI8 MBMBRI8
AR8 MINOR. DB
VOCE V Ci COdtParisinus 7519
incipit tractatos probi granmatici de uocb
codex Parisinus 7494 DE TocB fi: cf.
PrUeian. p. 727 conl. Prob. p. 306
ed, Find., Pompei. p. 187 ed, lixd.
conl. Prob. p. 236 sqq. ed. f^ind.
4 omnis R communis r 9 ruditus
corr, ragitus R rndttus rv serpentum
R serpentium rv 24 scrioium rv
scriptam R " 26 analogiae recta
R analog^ia recia r analogia e recta
v .Anomalia est misrcns vel inmutans aut
deficiens ratio per declina- tionem. De
miscente. miscens anomaliae per declinalionem
ratio esl ut puta 5 ab hoc
altero, huic aiteri; scilicet quoniam
quaecumque nomina ablativo casu numeri
singularis o littera terminanlur, haec secundum
analogiae rectam rationis disciplinam dativo casu
numeri singularis o iittera definiun- tur.
item ab hac mula, his et ab his
mulabus; scilicet quoniam quaecum- que
nomina ablalivo casu nueri singularis a
littera terminantur, haec secundum
analogiae rectam ralionis disciplinam dativo
et ablativo casu numeri pluralis is
litteris definiuntur. item ab hoc iugero,
horum iugerum; scilicet quoniam quaecumque
nomina ablativo casu numeri singularis o
liitera terminantur, haec secundum analogiae
rectam ralionis disciplinam genetivo casu
numeri pluralis orum litteris definiuntur.
sic et cetera talia, quae contra anaiogiae
rectam rationis^disciplinam miscent per casus
declinatiouuro formas, anomala sunt appellanda.
De inmutante. inmutans anomaiiae per
declinationem est ratio, ut puta hic
luppiter, huius lovis.' sic et cetera
talia, quae conlra analoglae rectam
rationis discipfinam inmutant per casus
declinalionum formas, anomala sunl appeilanda.
De deficienle. deficiens anomaliae per
declinalionem est ratio, ut puta hoc
nefas et cetera (alla; scilicet
quoniam haec contra analoglae . rectam
rationis disciplinam non per omnes casus
in declinatione per- severanSic iam et
per ceteras partes orationis analogia vel
anomalia comsideranda est, hoc est ut,
quaecumque pars oralionis neque miscet
neque inmutat aut deficil per deciinalionis
disciplinam, ad analogiam pertineat, quae
vero miscet vel inmutat aut deficit
per declinationis discipllnam, anomala sit
appellanda. nunc etiam hoc monemus,
quod analogia maximam partem oralionis
contineat, anomalia vero aliqnam. de
anomalia et analogia, quantum ratio poscebat,
tractavimus. Liltera est elementum vocis
articulatae. eleroen{|tum autem est unius
cuiusqi.ie rei initium, a quo sumitur
incrementum et in quod resolvltur. accidit uni
cuique lilterae nomen figura polestas.
nomen lilterae est quo appellatur. sane
nomen unius cuiusque litterae omnes artis
latores, prae- cipuequc Varro, neutro
genere appellari iudicaverunt et aptote
decllnari iusserunt. aploton est autem,
quando nomen per omnes casus uno
sche- mate declinatur, ut puta hoc a, huius
a, huic a, hoc a, o a, ab hoc a. 40 sic et
ceterarum lillerarum nomina genere neulro
aptote et numero tantu esi inmiscens liv
neqne inmiscd Rv sit] sunt Rv orationis o
rationis R in quod v et Diomedes p. 415 in quo R—24 49 p. 1U.56R. p. 231.32 V. siflgulari declinaDda suBt.
figura litterae est qua notatur et
qua scribitur. polestas litterae est qua
valet, hoc est qua sonat. nunc omnes
Latinae litterae dumtaxat sunt numero
XXIII. hae nominantur Tocales semivocales
el mutae. sed semivocales et mutae
appellantur consonantes. sane qnae- rilor,
qua de causa semivocales et mutae
consonantes appellanlur. hac de &
causa, quoniam coniunctis iliis vocalibus
sic nomina earundem consonanl. sed cum
ad ipsas litteras pervenerimus, iliic quem
ad modum coniunctis illi.s Tocalibus nomina
earundem consonent conpetenter tractabimus.
Vocales litterae sunt numero quinque. hae
per se proferuntur, hocio est ad
vocabula sua nuliius consonantium egent
societate, ut puta a e i o u,
et per se syKabam facere possunt, hoc
esl ut ipsae inter se tantum modo
misceantur et syilabae sonus efficialur, ut
puta ua ue oe au ui ia et
cetera lalia. Iiarum, id est vocalium,
hae duae, i et u, transeunt in
consonantium poteslatem tunc, cum aut ipsae
inter se geminantur, ut luno viator
15 rultus, vei quando cum aliis
vocalibus iunguntur, ut vates vecors iam
vos maiestas maior et cetera talia.
nunc quaeritur, quando i vel u
litterae loco consonantis- sint positae,
vel quando inter vocales accipi debent
quare hoc monemus, ut tunc i vel
u loco consonantis accipiantur, quaudo
praepositae vocalibus in syllaba scilicet
sua inveniuntur; quando vero subiectae, et
ipsae vocales iudicenlur: ut puta iu,
utique i nunc loco conso- oaDtis et
u loco vocalis accipitur; item ui,
utiqueu nunc loco consonantis et I
loco II vocalis consideratur. sic et
iuxta | vocales alias, si i vel
u litterae in syitaba sua praeponuntur,
vim consonantium habere iudicantur; si vero subiciuntur, vocalium
loco funguntur. Semivocales consonantium litterae sunt
numero septem. hae secundum musicam
rationem per se proferuntur, hoc est
ut ad vocabula sua nullius vocalium
egeant societate, ut f 1 m n r
s x. at vero secundum metra
Latina et structurarum rationem subiectae
vocalibus nomina sua ao elficiunt, ut
ef el em en er es ex. sed
per se syllabam facere non possunt,
sciiicet quoniam semivocales litterae, si
inter se misceantur, sonum syllabae facere
non reperiuntur, ut puta fl ms rx
ns; et ideo, ut diximus, per se semivocales syllabam facere non possunt.
ex his autem, id est ex semi<
vocalibus, x littera duplex in metris
sive structuris ludicatur, siquidem 3&
geminatarum harum consonantium sono fungatur,
id est gs aut cs, ut rex et
regs, pix et pics. nunc etiam
hoc secundum aliquos reprehendendum est,
quod huic duplici litterae, id est x,
ad exempium genetivum casum 10 Tecors
o uaecors R 20 yocalibns v uocabulU R
22 consonantis el 1 loco ak. R9
^23 iaxta vocaies alias v ex codice
Parisino 7519 iaxta ceteras uucaittB •Hu
R secundum R iuxta rv 50 PROBI p.
156. 67 R. p. 232. 33 V. videantur
subicere, ut puta rex r^is, pixpicis;
quod a ratione x litterae, quae
duplex est, longe alienuin esse videatur.
at in Iiog nomine non est simile
huic tractatni, quod est nix nivis.
DE MVTIS. « Mutae consonantium litterae
sunt numero novem. hae nec per se
proferuntur nec per se syllabam facere
possunL per se hae non pro« feruntur,
siquidem vocalibus litteris subiectis sic
nomina sua deOuiuiit, ut pula be ce
de ge ba ka pe qu te. per
se autem syllabam facere non pos-
sunt, scilicet quoniam mutae litterae, si
misceantur, sonum syllabae facere lonon
reperiuntur, ut puta bc dg tk pq
et cetera talia. nunc et in his
mutis supervacue quibusdam k et q
litterae positae esse videntur, quod dicant
c litteram earundem locum posse complere,
ut puta Carthago pro Kartiiago. nunc
hoc vitium etsi ferendum puto, attamen
pro quam quis est qui sustineat
cuam? et ideo non recte hae litterae
quibusdam super- 15 vacue constitutae esse
videntur. [| item ex isdem mutis h
aspirationis notam, non litteram esse
existimaverunt, cum et haec, sic uti
ceterae, certum sonum retineat potestatis
suae, ut puta honos: numquidnam onos?
aut cetera talia; et ideo hoc quoque
non recte existimasse notandi sunt Nunc
quaeritur de consonanjtibus, quare in duas
partes dividantur, hoc est in semivocales
et mutas. hac de causa, quoniam
semivocales maiorem potestatem habent quam
mutae. nam cum omnes artis latores,
praecipueque Caesar, propter rationem metricam
et structurarura quaUta- tes singularum
litterarum sonos ponderarent, hac ratiooe
semivocales mutis praeferendas iudicaverunt, quod
semivocales geminatae ad sonum vocalibus occurrunt, hoc est ut
syllabam facere possint, ut puta fla ars mons iners et cetera
talia; at vero niutae geminatae, si
vocalibus ocAirrant,. nec syllabam nec
sonum scilicet facere possint. quis enim b cdkpqtg geminatas
vocalibus misceat et sonum syllabae potest audire? et
ideo hac pcaelatione semivocaies mutas rite
videntur antecedere. nunc hoc monemus, quod
h iuncla cum aliis mutis possit vocali concurrere et sonum syllabae suscitare, ut
puta pulcher; et ideo hic aspirationis nota, id esl sonus, non littera accipi debet,
scilicet quoniam mutae coniunctae, si vocalibus occurrant, prohibentur sonum syllabae
suscitare. y aotem et z propter Graeca nomina LATINI accipiunt.
Nunc etiam hoc quaeritur, qua de causa ratio metri vel musicae proclivior sit
ad rationem Graecam quam LATINAM. utique hac de causa» quoniam Graecarum litterarum
vocabula in dimidia parte sunt dtsyliaba et in alia monosyllaba, id esl ut
XXX et VI sonos contineant. at vero litterarum LATINARUM nomina cum
sint omnia monosyllaba, id est ul XX et 2 atnivis alia manu add Ua esge in codice
adnoiatwn esi in R11supervacue coniecU ediior Vindobonensis superuacuae Rv quod
r quo R 14 8uper> vacuae R 28 misceat r miscel corr. misceat R.68
R. 34V.sonum contiDeaDt, necesse est ut et
in ratione roetri vel musicae plus facultatis
raUoGraeca quam LATINA obtioeaL sed boc in metris vel rousicis conpetenter traclabimUs.
dudc et boc moDemus, quod pauci sciuDty siquidero ood semper x littera duplex sit
accipieuda; sed tUDC duplex accipieDda, quaudo subiecta syllabam coDfirmat,
ut puta dox et 6 Docs, lex et legs, felix et felics. et celera talia,
siquidem tuDc et soDum duaruffi litterarum coutiDeat.at
vero qqaDdo praeposita syllabae existat, noD duplex sed simplex est accipicDda,
ut puta maximus auxius: Dumquiduam macsimus aut aocsius? Et cetera talia; et ideo,
ut diximus, quotieos X [[ littera praepositasyllabae existat, simplex est
supputaada, sciiicet loquoDiaro cs et gs litterae geroinatae, si vocalibus
praepooaDtur, numquam sonum syllabae suscitabuDt de litteris, quaoluro ratio
poscebat, tractafimus. Etiaro de syllabis, quouiaro dod brevis ratio est, ideo alio
loco cod- i6 petenter cum roetris tractabimus. Partes orationis sunt VIII:
nomen, pronomen, participium, adverbium, coniuctio, praepositio, interiectio,
et verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than they analise it. I
play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes from Cicero,
‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a formula
‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E
belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems
with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a
correlation of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”.
Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus,
definizione di voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Chiavacci: l’implicatura
conversazionale poetica di Gentile –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo
italiano. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with
Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of
Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are
three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his
little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley
would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His
‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista
italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo
gentiliano. Riceve l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria
nel liceo di Iesi. Frequenta la facoltà di lettere del Regio Istituto di
Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Mazzoni, e conobbe tra gli altri
il poeta filosofo Michelstaedter, di cui divenne grande amico, insieme ad
Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con una tesi
sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di
insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata dell'Italia nella
prima guerra mondiale, C. combatté al fronte come capitano di artiglieria.
Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il
ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia
a Roma, dove incontrò Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio
Rosmini. Comincia a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu
promosso a preside di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio
Enrico. Divenne professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di
Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di
estetica. Entra a far parte dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli
verranno quindi elargiti diversi altri titoli accademici e riconoscimenti, come
la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo:
tra Gentile e Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero
filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua
dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più
esatta di questa: la dottrina dell'atto puro. C., L'eredità di Gentile, in
«Giornale di metafisica». La filosofia di C. si muove tra l'idealismo attuale
di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Michelstaedter
dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista cristiana.
Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale
dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza
dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e
un futuro illusori. Riappropriandosi al contempo del criterio della
persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta
fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal
suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita». Gentile ha avuto
il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si
esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista
nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà
attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le
conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro
un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione
logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e
smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per C., proprio perché
non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni
metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di
dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza oggettivarsi»,
è per C. fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la
dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa
bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato"
senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva,
ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca
dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un
contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità
dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui». Essa è infine,
negli esiti religiosi dell'ultimo C., essenzialmente fede. Opere Tesi di
laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, Fiori) Il valore morale nel Rosmini
(Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione
(Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva
del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter
in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica».
Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto
michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione
umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica
(Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che
affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra
fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che
assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il
fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della
religione. C. ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter
(Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce
"Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana. A lui si devono
poi altri due saggi sul Rosmini: Filosofia e religione nella vita
spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini
(Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, Leonardi,
introduzione di Garin, Firenze, Olschki, Gentile-C.. Carteggio, Simoncelli, Firenze,
Le Lettere. Grita, C., su treccani. Antonio Russo, C., interprete di
Michelstaedter, Trieste. Così C. ricorderà il suo primo incontro con la figura
di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi
un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di
potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da
una lettera di C. a Gentile, cit. in Gentile-C.: Carteggio Simoncelli, Firenze).
Scheda su C. su agiati.org. Cit. anche
in G. C., Quid est veritas? Saggi filosofici, C. Leonardi, Olschki. C., Il
pensiero di Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia
italiana». C., Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto,
in «Giornale critico della filosofia italiana», C., Il centro della
speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, C., Quid est veritas? Saggi
filosofici, C. Leonardi, Olschki, C., Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo,
C. interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci,
Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo, C. interprete di Michelstaedter, C.
su sapere. Gaetano Chiavacci,
Michelstaedter in «Enciclopedia Italiana», Roma.Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia, La Scuola, Guzzo, C. la "Ragione poetica",
in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi
sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,
Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia»,
Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi»,
Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e
Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di C., in «Filosofia», Negri, Gentile:
sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, C.
interprete di Michelstaedter, Campailla, in
La via della persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia,
Marsilio, Attualismo (filosofia) Gentile Idealismo italiano Michelstaedter La
Persuasione e la Rettorica C. C., in
Dizionario biografico degli italiani. L’encomiabile Bibliografia michelstaedteriana1,
regolarmente aggiornata, che appare sul sito della Biblioteca
statale isontina, ha ormai assunto dimensioni più che ragguardevolie,
nell’ultimo anno, per via del
centesimo anniversario della sua
morte, essa si è di molto arricchita.
Sembra, quindi, cosa ardua dire qualcosa di nuovo su Michelstaedter.
Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge
allorché si tien conto che con il giovane pensatore goriziano ci troviamo
di fronte ad un intellettuale anomalo, del tutto sconosciuto in vita e
scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono i primi passi
nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la
rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di laurea ed è stata data
alle stampe postuma; sicché il riconoscimento tardivo e la fortuna, non
solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma anche di carattere
internazionale, che essa ha avuto, sono in gran parte dovuti alla devota
sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e
quella degli altri scritti di Michelstaedter. A loro si deve, infatti,
dopo la sua scomparsa prematura, il merito di aver sottratto alla morte
la sua memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella
ristrettissima cerchia degli amici fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e
C.. Il lavoro paziente e meticoloso del secondo, in particolare,
per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di Michelstaedter, con la
sua edizione delle Opere (Firenze, Sansoni), “costituisce una
pietra miliare nella vicenda
storico-culturale e storico-critica del filosofo goriziano.
L’edizione Sansoni di C. è all’origine del lavorio critico e interpretativo
che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna ormai a
declinare” In uno studio su
Michelstedater, non si può allora
perdere di vista questa verità; e,
soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare il
compito di chiarire il senso e i termini della ricostruzione del suo
pensiero proposti da C.e da Arangio – Ruiz. E
parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare
sotto silenzio un autore, Gentile, le cui suggestioni
sono penetrate per canali vari e
hanno raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita nella
cultura italiana. Non a caso, con aderenza più o meno piena, da lui
hanno preso le mosse molti autori che poi hanno svolto idee
originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro
aspetto della sua filosofia. Nella sterminata letteratura
critica che gravita sull’attualismo, i due pensatori ‘fiorentini’
compaiono, sia pure con caratteristiche proprie che li distinguono
dall’uno e dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti”
della sinistra (Vl.Arangio – Ruiz) o della destra gentiliana (C.)
Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica,
sia pure ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai
messo a fuoco con efficacia e nei suoi risvolti più significativi ed è
stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire
strano che su questi problemi e su questi autori, e in particolare sulla
loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni
ad insistere: essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono”
Gentile ; non persero mai di vista l’approfondimento del suo
pensiero e si riconobbero in esso
nell’arco di alcuni decenni, giungendo ad
un suo “sincero ripensamento”. Una lettera
di dedica a Gentile (che apre
il volume La ragione poetica, Firenze,
Sansoni), mette ampiamente in evidenza l’effetto che provoca su C.
la lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un
lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprendere la vita,
di potervi trovare quel valore, senza del quale ogni altra cosa non ha
pregio” A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri.
Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e di spazio, occorre prescindere da
una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche e del
contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore
limitazione del discorso al solo rapporto C. – Michelstaedter - Gentile,
anche perché “Arangio – Ruiz non ha lasciato un
grosso volume sistematico, ma solo
volumi di saggi; e quanto a Conoscenza
e moralità, che già subito non lo appagava più...egli
stesso lo considerava un saggio, non un trattato”12; e, poi,
egli fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e colto
letterato, un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di
discussione su problemi di estetica e di critica d’arte”. Infine,
tutta la sua opera è pervasa sin dai suoi momenti
iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13;
invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano tratti più
sistematici, rientrano nel grande alveo dei motivi
tipicamente attualistici e culminano con
maggior consapevolezza ed esiti più cospicui
in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione dell’idealismo14.
Qui, come termine di
riferimento e di confronto, occorre prendere
in considerazione l’insegnamento di Gentile negli anni in cui
la sua attività didattica e scientifica trovò il suo più maturo
affermarsi, a partire a Roma. Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le
basi di un fitto tessuto di relazioni che interviene a
connettere C. a Gentile, in un rapporto che
diventerà sempre di più assiduo, “amichevole
e confidente”. La prima domanda da
porsi, per sgomberare il terreno da equivoci, è
di sapere, attraverso l’analisi puntuale dei principali
documenti letterari, quali furono il consenso e i punti di dissenso.
Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i
testi. Gentile si occupa ripetutamente di Michelstaedter. Su
sollecitazione di C., che si era iscritto in Filosofia, a Roma
dopo averne letto i testi e ascoltato le lezioni, interviene presso Vallecchi,
una delle sue cittadelle editoriali, per
caldeggiare l’edizione de La persuasione e
la rettorica data effettivamente alle stampe; in lettera
a C.) chiede allo stesso C. di redigere per
l’Enciclopedia Italiana la voce Michelstaedter
di 10 linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per
la stessa voce a 30 righe18. Nel 1922, poi, recensisce l’opera di
Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel farlo,
tributa innanzitutto elogi all’iniziativa ad
opera di un “fido gruppo di
amici” di Michelstaedter; rileva subito dopo che
si tratta di uno scritto giovanile in
cui non c’è un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati,
e né un loro “sviluppo sistematico 19. Infine, prende
in considerazione “il problema dell’opposizione tra la persuasione
vera, che corrisponde al possesso della vita, e la falsa
persuasione, scopo della rettorica”. Per Gentile, in
Michelstaedter la persuasione serve ad indicare il fatto che il
“possesso della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé
il suo mondo”, ma è caratteristica “della sufficienza, dell’autarchia,
come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come lo intuì e lo
volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo
mondo: nel suo animo”. Di contro, la rettorica è espressione
dell’individualità illusoria, inganna e s’inganna, è superficiale, prende
il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa credere di
vivere in mezzo ai piaceri”; la rettorica uccide la
vita, irretisce l’uomo “nella vana
teoria dei concetti”, “sdoppia il sapere
e la vita”, oppone “alle cose
direttamente affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra
“l’insufficienza delle cose che hanno nella persona il loro correlato e
l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine
integrante”Tuttavia, per Gentile, anche se
il Michelstaedter sceglie giustamente a
suo bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle
proprie forze speculative e del proprio lavoro di tesi, “non ha né tempo
né animo per considerare direttamente e con pari studio la persuasione.
Sono accenni qua e là, e
qualche spunto del suo pensiero positivo
si può scorgere” nelle Appendici e,
più precisamente, ne Il prediletto
punto di appoggio della dialettica socratica24. La
persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica “di
chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non
asservirsi al futuro, e tenere raccolta nel presente la propria
vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine poetica, non con
un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul
cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del
Michelstaedter, il suo guadagno speculativo più cospicuo,
secondo Gentile, consiste nel mettere
in rilievo un universale aspetto di verità,
che consiste nel fatto che l’uomo “rientra in
se stesso, liberandosi della rettorica e gettando la salda
ancora della vita nel porto della persuasione”. Quali furono le
reazioni di C. a questo giudizio di Gentile Uno sguardo da vicino
all’elenco dei suoi scritti e una loro attenta
analisi consente di accertare che la
sua personalità speculativa, ma anche quella
di Arangio – Ruiz, nasce dall’incontro
con Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo
“culto” per l’amico comune “restò fino all’ultimo sempre
vivo”27. Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con
diversa, e non certo marginale, fisionomia sistematica
e speculativa, fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane
centrali e le affrontano sotto le suggestioni di Michelstaedter,
nel tentativo di riguadagnare, come nel
caso del Chiavacci, l’essenza dell’attualismo
e così di offrire un contributo,
“perfettamente consentaneo”, alla sua più
compiuta espressione. L’intero percorso speculativo di C.,
ad esempio, manifesta fino in fondo la fedeltà a conservare queste
istanze, comunque egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo
pensiero. In particolare, egli dà alle stampe nella “Rivista
di cultura”, di cui Gentile era membro del comitato di redazione, un
testo intitolato Le due nature. In esso, egli affronta il problema
del rapporto tra finito e infinito, sostenendo che “l’infinito
ideale non può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente
alla negazione del finito”30. Il testo viene pubblicato con una postilla
dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non
insistere tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo
e, soprattutto, ad approfondire meglio gli aspetti relativi
al ruolo della “negatività nella dialettica propria
dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità
dell’atto, della negazione in cui si deve cogliere una attività che passa
e supera il limite che si è posto e si afferma nella “sua libertà da ogni
limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una
trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza
dello spirito nella sua concretezza”. Dopo questo intervento,
due anni dopo, e sulla scia evidente
delle sollecitazioni di Gentile, nel
Giornale critico della filosofia italiana, la
rivista fondata e diretta dallo stesso Gentile, C. dà alle
stampe un corposo articolo su Michelstaedter in cui cerca di mostrare,
rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di
Michelstaedter non è riconducibile ad
“una realtà negativa”, ma è “la
positività dell’atto negante, in quanto vero atto,
cioè vita”; esso non è “pura negatività”, e tutta la sua
novità consiste nel fatto che “il positivo di Michelstaedter è
l’attività che crea se stessa dal nulla” e perciò è senza condizioni o,
in termini gentiliani, “libertà senza limiti”. Tutto il testo di C.
è una serrata, e pacata, replica e a Gentile, in cui si
pone il problema di precisare e difendere
le giuste esigenze, quasi come una
esplicitazione in positivo del pensiero di Michelstaedter e
in particolare come una prosecuzione della sua tesi su La
persuasione e la retorica. Già il
titolo dell’articolo di C. è una
risposta a Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza
di una vera e propria dottrina filosofica, di un approfondimento
metodico e di uno sviluppo sistematico
e parlava piuttosto di “personalità
filosofica”. Per C., invece, Michelstaedter non parla
direttamente della persuasione, ma non per questo è giusto dire che ne
dia pochi cenni della persuasione si parla in tutto il saggio, perché
essa è il criterio della lotta contro la rettorica”. Egli non ne fa la
teoria, “come non fa la teoria del positivo della persuasione, così si
rifuta di considerarne il risultato, come un fatto staccato dal processo”.
Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a tante
altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è
Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua
affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può
contraddirsi”; e perciò la definizione della persuasione risulta “da
tutto il saggio”. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è
l’attività vera, la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve essere
essa la vita. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine
fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito,
è la vera vita del finito: è processo, vita”39.
Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di
trascendente, “ma è la realtà stessa più profonda
del soggetto”; quel che egli nega
del particolare “è insieme affermazione,
come dice l’idealismo”: si nega la
particolarità del particolare, “nella sua [C.,
Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”, pretesa
immediata, quel che si afferma è quel che
implicitamente era in lui di universale, senza di che non poteva
neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che
dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai
stato reale: quel che del particolare ci deve premere, la sua
aspirazione all’universalità, quella non perisce, ma
s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla
dell’immortalità”. Questo particolare, questo esserci del mondo come
particolare, come finito, non è possibile senza “la richiesta
dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra e trionfa...’è
il lampo che rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo
come fare non come è dato. La convergenza delle due
posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,
diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere
naturale e che “non si restringe nei limiti del particolare: perché egli
non può né pensare, né sentire, né altrimenti realizzarsi, che
in un modo universale”, caposaldo e
tipica espressione dell’attualismo gentiliano
chiamata in causa nel testo di C., viene pienamente accolta. E si pongono
così le basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori
svolgimenti del confronto tra i due autori.
Per cogliere ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e C.,
al di là dei punti di convergenza fin qui
messi in risalto, è necessario tener
presente i principali scritti di Gentile di quegli
anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo primo
affermarsi con volontà rivoluzionaria. Si determinava una
svolta essenziale del suo pensiero e della sua azione”.
Gentile, infatti, al culmine della propria maturità scientifica,
iniziava il corso di Storia della
filosofia. E, nel concludere la sua
prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di
rinnovamento della filosofia, con l’intento di “rifare l’uomo intero,
che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il vecchio letterato
è morto…l’accademia e la filosofia da eruditi devono
essere davvero un passato irrevocabile” : la vita deve
diventare una milizia continua46. Come documento
più significativo di questa svolta può essere preso il proemio del
primo numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della
Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso
della prolusione. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare
all’avvenire” per incominciare una nuova vita, uscendo
dall’individualismo e dall’egoismo. E, per
farlo, egli dice, occorreprecisare il rapporto tra
scienza e filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte
c’è la scienza e dall’altra la
filosofia. La prima presuppone il proprio
oggetto di conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi
impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se potesse veramente
realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente:
critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone
fuori”; la seconda, invece, e lo stesso discorso vale per la religione,
“non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea; non analizza perciò, ma
vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di
questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce
l’aspetto fondamentale del programma della nuova rivista. Gentile parla
qui di sviluppo dialettico che si risolve e si supera in un
dramma eterno, che, proprio perché
continuo superamento, rinvia necessariamente al
continuo superato, all'oggetto nel soggetto.
Cosicché la realtà, o atto spirituale,
è una unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto,
ossia della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello
spirito, ribadita a più riprese, significa che la filosofia
non è più "teoria e contemplazione del mondo, ma
solo azione e creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un
immediato agire, bensì coscienza di agire''. Tanto
che, come afferma Spirito, "l'idealismo
trionfa veramente di ogni intellettualismo non in
quanto esso rimane una teoria dell'atto, ma solo in quanto
si attua, sicché il suo valore teoretico è
assolutamente nulla (intellettualismo) se non diventa etico
(attualismo)''. Gentile insiste,
in altre parole, sul valore dell’attività creatrice dell’uomo
e sviluppa il concetto di un mondo che noi facciamo
e dobbiamo fare. Anzi, esso è l’unico veramente
esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza
pedagogica e dal posto che il problema dell’educazione occupa nella sua
speculazione, che è così ”il massimo centro della sua concezione” e mette
in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta in
quell’umanesimo, che dà significato fin
da principio alla teoria e alla
storiografia dell’attualismo. La vita spirituale
è educazione, anzi autoeducazione...questa
affermazione non ha un significato parziale,
e relativo ad una determinata
questione, ma rappresenta l’essenza del concetto di
spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile. E, perciò, per
intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre ”guardare al
lato più propriamente etico della sua filosofia: a quello cioè per cui la
filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato
intellettualistico, si afferma come identica alla
vita, come il valore stesso della vita. La
filosofia del Gentile è tutta Etica o
meglio Pedagogia. Poiché una filosofia
che non è concetto della realtà, ma
autoconcetto, non può essere più
teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del
mondo stesso”52. In forza di queste considerazioni, è
chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una tale filosofia,
infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il
filosofo poteva rintanarsi nell’ozio
speculativo, far propria una ideologia
estetizzante da filosofo - letterato, ed avere come unico compito
quello di guardare e giudicare, per intendere una realtà altra ed
indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per
il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col
Gentile, invece, cessa ogni dualismo e ogni astratto concetto di
filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole di sé, vita
umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di
conoscere e fare e viene meno la separazione meccanicistica, e
con essa ogni residuo dualistico, tra le varie sfere
dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti
termini sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e
responsabili del nostro mondo e di conseguenza natura, società,
storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è
assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non
è più quella degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma
“quella della nostra personalità, più profonda che non è di fronte ad
altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo seno in
una vita unica che deve farsi sempre più una, e
cioè sempre meno particolare ed egoista”53. Così
viene vanificata la nozione individualistica
della persona, nel tentativo di guadagnare una
societas in interiore homine, perché, per usare le stesse
parole del Gentile della Teoria generale dello
spirito come atto puro :“altri, oltre di noi,
non ci può essere, parlando a rigore, se
noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identificare,
superare l’alterità come tale. L’altro è
semplicemente una tappa attraverso di
cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire
alla natura immanente del nostro spirito : ma
passare, non fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e
ulteriormente approfondito in Genesi e struttura della società, dove si
afferma che l’individuo non da considerare come un atomo; ad esso,
infatti, è :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società.
Perché non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco,
ma in sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius”. L’uomo,
allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua
particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria
“personalità nella coscienza di una vita universale”. Gentile, secondo Spirito,
non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la
propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della
nuova idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita
sociale si sono realizzate nella sintesi più concreta e
consapevole. Egli, perciò, nel significato
più proprio della espressione hegeliana,
è un individuo portatore dello spirito;
anzi, “è il simbolo, e, meglio,
che il simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua
umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione, ma
egli è un uomo intero, appunto
perché è quella “universalità che si
concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi
nell’individuo”58. Il che, nei suoi termini
essenziali, non è altro che lo stesso discorso che C. aveva svolto nel
suo articolo. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo
di vederlo più sopra, anche Michelstaedter
non elabora una teoria della persuasione,
e il criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente.
Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e
il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo essenziale
del suo pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita, che
non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita.
“La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé.
Essa intanto è la vita dell’infinito
nell’individuo finito, è la vera vita
del finito: è processo, vita.
Lo stesso tema verrà ulteriormente ripreso dal
C. negli anni successivi. Il suo volume Illusione
e realtà, e sua prima opera
sistematica di filosofia, per usare
un’espressione di Garin, può essere
intesa “come una sorta di esplicitazione
in positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare
come una prosecuzione della sua tesi su La persuasione e la retorica
volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi, cioè
il tema della persuasione. Dopo pochi anni, ossia nel 1936,
dà alle stampe un Saggio sulla natura dell’uomo
(Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione
dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini
illusione/realtà e, così, di continuare la chiarificazione
delle principali istanze michelstadteriane in
rapporto alle posizionigentiliane. Tale compito
campeggia sin dalle prime battute discorsive del saggio, che perciò
viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe
riuscire ad una riaffermazione di idealismo”. Nell’Epilogo,
poi, il risultato dell’argomentazione
discorsiva, considerato nelle sue rigorose
e ultime conseguenze, lo porta ad
individuare nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama
la ragione poetica, il punto focale della riflessione attorno
a cui disegnare il tracciato del
confronto Michelstaedter – Gentile. E
questo atto consiste in una liberazione e in un distacco da tutto
ciò che è caduco e relativo; epperò, nello stesso
tempo, conduce “a vivere con altra mente
la vita che ci troviamo a vivere,
un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione,
perché tale atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica
pura gioia, se tale può dirsi – è lo stesso suo puro conoscere, la stessa
sua assoluta liberazione interiore”64. In un altro saggio del
1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia
italiana”, C. affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della
speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto. Nel farlo
ammette che il centro dell’attualismo è
l’attualità dell’atto, ossia l’affermare la
realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e
non è”, atto come processo che è “assoluto possesso, realtà attuale
immanente al suo farsi”. Per spiegare come sia da intendere questa affermazione
di carattere fondamentale, C. analizza alcuni dei principali testi
del Gentile; mette in evidenza, poi,
che la realtà di cui il filosofo
di Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera creatività “che
sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo,
bisogna rivivere dal di dentro. In questo processo, il finito, l’io
empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza,
nella sua pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma
“acquista tutto il suo valore, quando, vedendosene l’insufficienza
in sé, è considerato nel suo
essenziale rapporto con l’infinito...perché visto
con altri occhi nella sua vera
realtà” Per C., in questo consiste la verità elementare e il valore
incontestabile, positivo, di ciò che il gentilianesimo indica quando
parla di attualità dell’atto. Non più filosofia in senso logico, ma vita in
atto, attività giudicante e nello stesso tempo attività creatrice. Questo
è l’aspetto più importante, avvincente e persuasivo, ossia il
concetto della processualità dello spirito, in cui “il processo è veduto
come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo stesso come
assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico”68, un conoscere che è
nello stesso tempo fare e vivere. In questa concezione, per C.
sembra annidarsi, comunque, una difficoltà di fondo, cioè:
anche l’attualità dell’atto sembra essere una forma di
mediazione, di logica, e quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra
cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a suo tempo contro la
filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per
Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come
“spirito, non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente pensato che
questa sia la nuova mediazione; giacché
un farsi, un divenire, non può essere in sé un immediato, ma
deve essere passaggio in atto dal non essere all’essere...Ma anche questa
è mediazione logica”69. La soluzione di questo problema è di capitale
importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far
si che esso non sia da abbandonare come una realtà del passato
definitivamente tramontato, ma sia “più vivo che mai”. Per
sciogliere i nodi del problema e
dissipare i dubbi, in modo da comprendere
l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente
che la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il
suo modo di intendere l’atto in atto, “è una mediazione non di
opposizione, ma di distinzione, in cui non si afferma né si
nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto
si vive la vita altrui, e si vive l’altrui in quanto si vive
la nostra” Questo è il vero e incontestabile attualismo,
ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a
vivere questo suo non essere (cioè questo suo superare il finito)
come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del finito in cui
si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia dell’arte e Genesi
e struttura della società, in particolare, C. trova conferma a questa
sua rilettura del Gentile, soprattutto quando si parla nell’ultima opera
del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della Società
trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è spirito,
è originariamente, già nel suo principio, non un’unità
semplice, un io indivisibile, un individuo atomistico: ma è
unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società
orginaria per la quale soltanto ci possono essere
l’io e l’altro. Si tratta di fondare
una società, in cui “l’io, essendo
conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli altri, e la vita di
ciascuno è la stessa, identica vita di tutti. Solo nella misura in cui
l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea per lui una più vera e
libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua più vera
realtà, ora consapevole e perciò soltanto ora
veramente reale nella sua
concretaindividualità. Si tratta in altri
termini di una dialettica tra logo e
attualità o attualità dell’atto, che consente al
Gentile, secondo C., di prendere le distanze e di realizzare un
fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel. Gli
stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi
anche quelli di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo
attualistico la distinzione michelstaedteriana tra persuasione (vita del
finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e
trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo
atomistico, ecc.). A ulteriore dimostrazione di
quanto fin qui affermato, c’è un
altro testo di C., significativamente intitolato
L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che non
si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui
‘individuo’ “. Per cogliere il vero senso del pensiero di Michelstaedter,
occorre allora tener presente che “egli è un uomo d’azione: il suo
parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una nuova realtà,
in cui il mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa
sola con lui, in quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la
ragione, e che perciò sia giusta verso tutti, perché abbia
raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose lontane’ “. E,
nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero
significato del pensiero di Michelstaedter, C. ribadisce ulteriormente
che :”il valore individuale...è la concreta consapevolezza che la nostra
essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si
porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità
reale, che né spazio e né tempo
potranno minacciare, e il molteplice
del mondo si unificherà anch’esso e si farà a noi
interiore”. Giunti fin qui, il quadro che nei
suoi tratti più peculiari ci si
presenta agli occhi, in particolare dopo la sintetica
analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata
attualistica e dei testi dati alle stampe da C. nell’arco di alcuni
decenni, è quello di un tentativo di riguadagnare il
più profondo significato dell’attualismo. C.,
in altri termini, a partire dai
primi anni Venti, riprende un motivo
tipicamente attualistico, espressione di
quell’idealismo che egli considera come la “più
ricca eredità tramandataci dalla storia della
filosofia moderna, e cerca di mostrare i legami di fondo che
stringono Gentile a Michelstaedter. Colloca così in primo
piano i punti di forza del momento
dellapersuasione e, nello stesso tempo, del momento
dell’attualità dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono,
seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova
il problema della persuasione e di Gentile
quello dell’atto in atto, che si
fa continuamente, che è vita. Il
suo intento è quello di collocarsi
all'interno dell'attualismo nell'intento di chiarirne
alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più
recondito, del lascito gentiliano - e de La persuasione e la
rettorica - e di non lasciare che esso venga ridotto
a teoria, ad una chiusura sinteticistica
o una formulistica ripetuta pedissequamente.
Lo stesso Gentile, per C., non sempre ha
avuto piena coscienza degli ulteriori svolgimenti impliciti
nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto, e ancor di
più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista,
ma questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad
una ripetizione puramente verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio
questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo pensiero, ma
addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente
le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza.
Così C. ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter
una forme maitresse, la cui chiave d’oro è data dal significato che
quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una di quelle verità
fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma
che possono essere pienamente accolte e
fatte oggetto soltanto di ulteriori
svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo,
non più inteso come atomo e che perciò non può più rinchiudersi nella sua
angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso nella coscienza di una
vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che
il mondo sia con noi una sola cosa”79 -, e che perciò “sceglie di
permanere, sceglie l’ora, il qui, convertendoli in sempre
e dovunque : sceglie la qualunque situazione
che si trova a vivere, e esaurisce in
essa l’infinita sua esigenza: far
finito l’infinito, far vicine le cose
lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della
teoresi gentiliana, della sua dottrina dell’atto puro, e rivela una
profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un differente
uso terminologico e di enunciazioni
gentiliane non sempre rigorosamente univoche.
Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle
stampe, C. conferma e sviluppa ulteriormente
queste posizioni, sempre sullo sfondo
del dialogo con Michelstaedter e con Gentile, ancora una
volta nel tentativo di conciliarne leesigenze
di fondo. Così in un saggio, significativamente incentrato su L’eredità di
Gentile, si propone il compito di individuare
e descrivere ciò che deve al
filosofo di Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi
termini:” Se mi domando...che cosa debba al pensiero filosofico di
Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, che
egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che
sentono l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il
dovere di non dilapidare, ma anzi accrescere, il patrimonio che
il padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e
saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una
parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell’atto puro. Su
questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed è un io senza
residui intellettualistici che, per poter assolvere
opportunamente il suo compito e realizzarsi senza
impietrarsi, non deve avere alcuna realtà presupposta, ma deve
“reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del
soggetto, nè in ogni modo qualcosa fuori di questo” Si tratta qui
di un io il cui carattere peculiare è di avere una
infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite
di una logica formale, di una natura presupposta, di un
mondo di idee già codificato e
platonicamente costruito sin dall’eternità -,
che si alimenta tutto e sempre
“sull’infinita, indefettibile, unica attualità
dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite
individuazioni storiche” o “la consapevolezza che l’atto
ha di sè come forma immanente
dello stesso suo concreto e individuato
agire”, “assoluta responsabilità di chi
si assume attualmente la responsabilità
della propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita
dell’universo”.83 Sicché non può esservi altro che una “eternità
che sia il senso immanente della temporalità...un infinito che si
realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno
speculativo più cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia “la più
esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno, e tale da aprire
la possibilità dei più felici sviluppi” Tuttavia,
secondo C., il filosofo siciliano non
è riuscito a dare alla propria
riflessione una formulazione in tutto e per
tutto univoca; e anzi ha mantenuto aperte due
possibilità interpretative, che hanno dato vita ad altrettante
enunciazioni del suo pensiero, col rischio di invalidarne le ragioni più
genuine e geniali. In particolare, Gentile non avrebbe assolto
pienamente al proprio compito di riformare
la dialettica hegeliana : avrebbe sì
investito in maniera efficace e acuta
Hegel dell’accusa di intellettualismo, per
esser eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non
avrebbe tratto tutte le conseguenze di questa sua battaglia
e sarebbe ricaduto egli stesso in
una dialettica a sua volta
intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa il
movimento per il quale il reale è; è il concetto dell’autoconcetto,
per dirla con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto
stesso, che per essere tale non può essere concetto, ma autocoscienza
superante il concetto. In altri termini, una volta intesa veramente la
dialettica come dialettica del pensare, nella sua attualità, come vita
dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può essere colta da una
teoria ad essa staccata e sopranuotante che
trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in sintesi la tesi e
l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per
C., si ricade soltanto, e ancora una volta, in una forma di platonismo o
di dualismo; invece, la vita interiore dell’atto o, meglio, della
soggettività dell’io trascendentale “non può esser conosciuta
che per la consapevolezza che il
soggetto ha di sé senza oggettivarsi,
consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto è se
stesso, in quanto è conscio del suo rapporto all’altro,
così che il soggetto come vivente relazione non è terzo oltre i
due momenti, ma è tra i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto
ciascuno di essi è per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La
dialettica dell’Atto non può essere che una monodiade. Il passo che
Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a rigorosa coerenza il
suo discorso filosofico consisteva nel far
propria l’esigenza di una “dialettica attuale,
fra momenti attualmente vissuti nella
loro reale soggettività...la dialettica triadica degli
opposti era un dannoso impaccio”; occorreva intendere “l’atto come il
vivente attuale processo unitario in cui gli oppos ti si trasfigura
non in distinti, in quanto l’io, realizzando la proprio apertura
infinita, supera le determinazioni intellettive e attua
quella coincidenza di individuale e di universale, così
profondamente vista e così suggestivamente proclamata tante volte dal Gentile,
la quale mal si concilia con la
solitudine del logo come sintesi. Essa
richiede invece un interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben
si può scorgere nel più profondo dell’esigenza gentiliana”. Solo
così, ossia liberando la dialettica dai
residui intellettualistici che ancora ne
gravano la comprensione e il pieno
sviluppo, è possibile riaprire il
discorso e operare un rinnovamento
dall’interno dell’attualismo, per farne fruttificare il lascito più
genuino e importante. E questo è appunto l’intenzione fondamentale che
pervade anche gli altri, successivi,
scritti di C. - tutti volti alla
miglior comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze
speculative – che aspira a connotarsiquesta sua più
significativa e innovativa scoperta90; ed
egli resta in definitiva ancora impigliato
nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni,
secondo C. occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e
prendere in esame il problema del processo dialettico dell’autoconcetto,
che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia dello spirito
che vive nell’intuizione; e poi è
necessario cercare di rispondere
all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso dal suo
opposto, e nascano insieme soggetto e oggetto, nasce cioè la
coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri
dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da certe
inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.
In un altro, denso e complesso,
saggio della tarda maturità su
L’autocoscienza nella filosofia di Gentile, le
posizioni fin qui prese in esame ricompaiono, imperniate sul
bisogno di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze
teoretiche. Esse, infatti, ruotano sempre
attorno al problema dell’atto e ai
vari aspetti ad esso strettamente correlati, e si
concentrano soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue
articolazioni, perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del
pensare, in cui consiste l’essenza e l’esistenza
concreta dell’Io, diviene il centro che
sostiene la realtà di tutto
l’universo”.Per Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo
problema graviti tutto il pensiero gentiliano, negli scritti del
filosofo siciliano, tranne qualche sporadico cenno, non compare una
esposizione adeguata del modo in cui l’Io
trascendentale ha coscienza di se stesso. Nella
Teoria generale dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia e
in qualche altra opera, ad esempio, si dice quà e là, e in
maniera stringata, che l’Io, l’atto, in quanto realtà presa nella sua
infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito si
conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una
trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non
v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si riconosce che
ogni grado della consapevolezza (sensazione,
percezione, rappresentazione, intuizione, sentimento, e così
via) è cosciente perché si tratta di distinzioni relative di certi
atti psichici con certi altri, e in quanto tali, sul
terreno del logo astratto, esse sono sempre espressione
di un pensiero logico. Tuttavia,
affinché l’atto spirituale sia veramente
uno, questa distinzione per gradi tipica della psicologia
empirica e di una concezione analitica dell’anima umana,
nell’attualismo viene abbandonata. In forza
di queste considerazioni, Gentile, secondo C., per
evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così di
considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette
nell’intuizione una forma di logo che non è quella astratta del logo
oggettivo, epperò la traduce in termini diversi da quello di intuizione,
ossia con auto-concetto, facendo valere la
distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia,
pur se questa via è in profonda
dissonanza con i modelli della comune concezione psicologica
precedente, sfugge al Gentile la piena portata. Per C., la distinzione tra i
due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel momento in cui c’è
una forma dell’io che conosce se stesso distinta da quella con
cui l’io conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico,
stricto sensu parlando, l’io non ha alcun contenuto; la
realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano.
Questo è un aspetto che orienta tutto il
quadro di pensiero di Gentile -
e su cui egli è costantemente ritornato, sottolineando
l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione
comporta la necessità di precisare come concepire l’autocoscienza
e “quell’autotrasparenza per la quale mentre vive la sua conoscenza
delle cose, sa di essere in atto di conoscerle” .Si tratta qui di una
iniziale intuizione di sé, che si svela ancora una volta come un
atto logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato,
concettuale e oggettivante, “non ci sarebbe neppure l’intuizione del
soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere intuitivo, la cui
peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo della
conoscenza sin dal suo primo momento e se si
tien conto, secondo C., di come a
partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto.
Ci si accorge allora che si tratta di “un atto di analisi che dà per
risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali, concreti,
come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che
anche l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in
cui il soggetto si riflette, il contenuto della sua vita, il mondo che
costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il mondo che
vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale
si può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli ulteriori
svolgimenti discorsivi, poi, sul terreno che
in termini attualistici viene coperto
dall’area semantica del pensiero pensato, in
cui si analizza il contenuto sintetico
datoci attraverso l’intuizione e si costruisce un fitto
tessuto di relazioni concettuali, cioè la kantiana sintesi a priori
del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere di
vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico
analizzato”, per esplicitarla in maniera analitica. Una cosiffatta
mediazione concettuale, infine, da punto di vista del
filosofo di Castelvetrano non può non
riconoscere la propria astrattezza, cioè la
coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si
distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che
gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l’intuizione costitutiva
dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui”.
Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per
quanto utile e per certi aspetti finanche necessaria, come momento
essenziale dello sviluppo dialettico, se abbandonata a se stessa verrebbe
ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio, ma che
invece se si alimenta alla fonte di ogni mediazione, che è
la consapevolezza di sè dell’io, crea per ciò stesso la propria
ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella concreta unità
dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera
e proficua radice. Questa certezza Chiavacci la
chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate non poche
critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura
alla religiosità della vita spirituale mostrata
da Gentile in tutto l’arco della
sua produzione scientifica e, in
particolare, negli ultima anni della sua vita.
L’atteggiamento del filosofo siciliano nei confronti della religione,
tuttavia, in proposito avrebbe potuto
essere più evidente e di maggior respiro, se egli avesse stabilito
con chiarezza inequivocabile come individuabile
specificazione dell’autoconcetto ciò che esso
veramente è: intuizione o sentimento Nel
tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio
questo il punto più debole e bisognoso di una
riconsiderazione critica. Per C., infatti,
la sua costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e
improntata a una visione metafisica di grande rigore filosofico e
fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di
oltrepassare con la costruzione intellettuale, col loro
logo pensato, l’unica autentica fonte della verità, il
logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa
nell’attualità dell’atto”. Questo non significa affatto
sminuirne l’importanza e le grandi possibilità che essa ci
dischiude; anzi, il valore sostanziale
delle sue tesi comporta il più
ampio riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a
profitto ciò che egli solo ci ha insegnato, riprendendo l’aureo filone
dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e arricchendolo
nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò
fin dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra,
quando ero quasi giunto al mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di
grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi permise di
riprendere il mio cammino attivamente. E di questo
non cesserò mai di sentire gratitudine. E’ una gratitudine non
minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi sempre
incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”.
Questa conclusione riassuntiva implica il riconoscimento
dell’importanza fondamentale della teoresi gentiliana e, nello
stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il più
genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria
dell’atto ad approfondimento e revisione interna,
in un ampio, continuo e serrato
dialogo, con una disamina volta a stabilirne
una più rigorosa coerenza che valga a
guidare e inquadrare la propria riflessione speculativa. In particolare,
la prospettiva a cui giunge C., nel corso del suo lungo
cammino intellettuale, presa nel suo
complesso, comporta in definitiva un
triplice guadagno: un riuscito tentativo di promozione dell’opera
dell’amico goriziano, per accreditarle una sua peculiarità e dignità
filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana; C. nello
stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica
dell’attualismo; gli spetta così
il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori
citati, non solo di aver speso con efficacia le sue
migliori fatiche in difesa dell’amico, ma anche un
posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito
della letteratura che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter
essere considerato come espressione di un indirizzo del pensiero
filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli che
più sono progrediti”. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che
gli sono stati variamente tributati, le acute indagini e la
argomentazioni del C., volte a svolgere una vigorosa opera di
individuazione e di messa in chiaro
di un comune ambito teoretico tra
Gentile e Michelstaedter, non sempre trovarono unanime
consenso; in alcuni casi esse suscitarono non poche perplessità. E’
questa, ad esempio, la convinzione di Spirito che, nel concludere la
propria risposta all’amico C., non esita
ad affermare: “a me sembra Chiavacci,
profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle
michelstaedteriane, non abbia potuto conciliarle fino
in fondo, sia rimasto in una posizione
intermedia tra la concezione dell’assoluto dialettico e
quella dell’assoluto adialettico”. Su questo punto, comunque, la riflessione
critica che gravita sugli autori fin qui presi in considerazione
(alquanto lacunosa, a dire il vero, soprattutto negli ultimi anni e
per quanto concerne l’esigenza e il compito
di saggiare storicamente le posizioni
di C.!!) a tutt’oggi non è concorde
e perciò il problema della conciliazione tra
la speculazione gentiliana e quella di
Michelstaedter ci sembra tuttora aperto
a ulteriori sviluppi e approfondimenti che sono ben
lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del tutto
assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso
soltanto delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come
un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a
sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico,
critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo,
carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chiocchetti: l’implicatura
conversazionale prammatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena).
Filosofo italiano. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are
unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on
Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he
went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and
his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of
abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a
‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford
being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the
abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the
palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his
self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the
wastepaper basket!” -- Veste l'abito francescano. Conclude gli studi secondari
a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici,
anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso
l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna.
Ordinato sacerdote. Studiò filosofia a
Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto
per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò
un'assidua collaborazione, su invito di Gemelli, alla Rivista di filosofia
neoscolastica fin dalla sua fondazione. Progettò uno studio sistematico sulla
filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente per approfondire
ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi
neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare
Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore
le lezioni di psicologia di Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto, assunse
la direzione della Rivista tridentina.
Note C. su
siusa.archivi.beniculturali. Faustini,, C., SERBATI e la cultura trentina: un
filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri. Faustini,, C.: un filosofo francescano di
fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura,
Trento, Pancheri, C. un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti
del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento.
"Archivio Trentino", Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica
tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-C., Firenze,
Sismel Edizioni del Galluzzo, Centi, Un filosofo francescano C. Trento, Gruppo
culturale Civis, Coen, C. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (Dizionario
biografico degli italiani) G. Consolati,,
C. filosofo trentino rettore generale francescano e professore di storia
della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento,
Saturnia, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. C., su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di C..Pubblicazioni
di C., su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO COLLEZIONE
DIRETTA DA PICCOLI C. Milano IL 5a PRAGMATISMO agi
E 7 EDIZIONE ATHENA MILANOVia Vigentina' 7-9 s santo, MRETTRI
s», è ita, canina eno er insit) miri iztarta e ea
Nihil obstat quominus imprimatur 19 Mediolani, Bernareggi. Nihil obstat
quominus imprimatur Mediolani,Mons. Can. Cavezzali. ALL'AMICO
P. ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE SA
CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA sg AL
LETTORE ca Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume
questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi anniì sono
nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per- chè il Pragmatismo
contiene aspetti di verità che non A vanno dimenticati. Quali siano quest»
aspetti verrà rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo i
Uue principali rappresentanti di esso il James e lo Schiller.
f In questa esposizione ho introdotto solo mulazioni accidentali,
più che altro verbali, che mettano quella corrente nei tempi
suoi, già mollo lontani spiritual- mente dai nostri.a E. C. LLINEE
FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II Pragmatismo. Pragmatismo e Umanismo.
Pragmatismo e conoscenza. Nell' Inghilterra e nell'America, come è noto,
la filosofia ha avulo sempre un carattere prevalentemente pratico, cioè, ha
studiato con particolare predilezione quei problemi filosofici che si
riferiscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle scienze
pratiche, in generale; e, anche quando si è sollevata alle più alte
speculazioni, non ha mai perduto il contatto intimo con la vita pratica «ed è
stata più sollecita della ricerca del vero in vista dell'orga- nizzazione
della vita reale, che non dell'astrazione collivata per sè stessa e per
la sodisfazione dello Spirito. Per ciò che riguarda l'Inghilterra
basta pensare alla filosofia di Hobbes e di Bacone, all filosofi
cmpirica e crilica di Locke, alla filosofi naturale di Newton, alle
dottrine teologiche dei De (3) Cfr. «Revue Néo-Scolastique», dove
son tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B
CELAERE' (New-York) le parole citate. La «Revue Néo-Sc Stiquen ne di un
amplo riassunto col titolo: Le mouveme hilosophiqgue en Amérique. Vedi
anche i riassunti cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea
in Inghil- Mica in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N.
IL SEE. (6) Linee fondamentali sti, alla
fase clica del movimento empirico del se- colo XVIII, all'Associazionismo
e all'Utilitarismo. Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni
filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghil- terra, degli
inglesi emigrati, i quali naturalmente portarono al di lù dell'Oceano la
caratteristica della filosofia della madrepatria: l'atteggiamento
pratico, che assunse allora, per speciali circostanze storiche, un
carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra, «una corrente più
profonda non ha mai cessalo di rimontare in senso opposto (alla corrente
empirica). Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i
Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del ‘senso comune, e
apparisce nella sua forma più sor- prendente in Berkeley, fondatore
dell'’idealismo in- glese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte, Hegel
e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha mai perdulo il'carattere
pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi più volentieri sulla
volontà e sul sentimento e a trascurare le categorie puramen- le
logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì deve dire della
filosufia in America. Quando la rivoluzione americana pose fine al
pe- Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a manilestarsi
varie e nuove correnli filosofiche — ppiella del senso comune, il
Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel;
l'Ideali- smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre la
tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il
contatto con la realtà, a far risal- lare il carvaltere pratico dei
problemi filosofici. « Ne- gli scritti, p. es., dei seguaci
dell'Idealismo Kan- liano non è la critica che tiene il primo posto, ma
la psicologia cosidella scientifica in opposizione alla psicologia
metufisica» (2). (1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
» (1 i S- sunto della relazione del MACHENZIE: La EIA nea in
Inghilterra, donde sono prese le parole citate. (2) «Revue
Néo-Scolastique », I. c. rat ET tit, 0 ELLI a_n GI Il
Pragmatismo ('S Allualmente i due indirizzi filosofici
predominanti nel mondo inglese-americano sono o erano qualche anno
fa il Neo-hegelianismo e il Neo-volontarismo. Quale dei due trionferà? Se
la storia ci può ammae- strare, se il carattere cinico dei due paesi può
servire di fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc-
si guì dei lempi sono veridici — intendo la reazione "i
Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI denza
della filosofia contemporanea a dare il valore Li principale della
valutazione delle vedule speculative i al sentimento e alla volontà — possiamo
applicare anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive dell'America:
« È verosimile che il corso fuluro del pen- | siero filosofico non
subisca tanto l'influsso dei Neo. hi legeliani quanto quello dei
Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano
non è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo studiarlo,
lauto più che esso non è più limitato a quelle regioni, ma ha suscitato
anni addietro vivo a interesse in lutto il campo filosofico, dove,
accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi
nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-. n° no, con lono
da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le filosolie avversarie. Già lo
Schiller aveva annunziato il maturarsi di grandi eventi nel mondo
intellettuale à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto
vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi | di un tempo propizio a
nuove intraprese filosofiche secondo la nuova forma, egli guardava con
compia- cenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour: «Le
basi della fede»; alla serie di opere popolari. del James: «Lu volontà di
credere, Immortalità _ mana, Le varie forme della cuscienza
religiosa» | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È |
Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà, «una volla centro
di Idealismo, un manifesto così dace com'è «L’'idealismo personale» dello
stesso | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori Linee
fondamentali della scuola di Chicago (alla testa della quale slava
è il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘ tions»
della Università (1). i; Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non
passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase del «batti ma ascolta!»
e quando i falsi concetti, È dovuti a prella mancanza di famigliarità con
la dot- |A — trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile
D applicazione ». D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è
* affermato con sempre crescente energia, suscitando vive
polemiche, incontrando simpatie e disprezzo, seguaci c avversari, così
che polè scrivere il James: «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine
delle .. © riviste filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi
di pensiero che mancavano di un denominatore comu- ne lo trovano nella
parola Pragmatismo » (3). Esso ha avuto in tutte le nazioni
rappresentanti di grande valore, fra quali, i principali sono: in
America il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger-
mania il Simmel e il Jerusalem (4), in Ilalia gli seril- tori del
Leonardo, specialmente il Papini; in Francia , (1) ScHiLcen,
IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri; (9) Der
Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte Denkmetho- «en, trad, in tedesco dal
Prof. \VILHELM JERUSALEM, p. 29, Leip- zig 1908. Verlag. von Dr,
Werner Klinkhardt. Di questa tradu- zione tedesca mi servo nella
esposizione del Pragmatismo. (3) Zbid. (4) Sì è
voluto vedere un Pragmatista anche nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo
non ha niente a che vedere col Pragma- tsmo, L'Attivismo poggia sopra
determinate presupposizioni metafisiche, mentre il Pragmatismo è
puramente empirico; a eno il Pragmatismo inglese e americano, «Il
ripudiare com fa l'Eucken, Ja concezione intellettualistica della vita,
non è una caratteristica del Mo- | | talismo e di Misticism
ca À « n Pragmatismo ma di ogni specie di
(OA 2 vrib CE: Il Pragmatismo . il
Blondel, il Le Roy, il Bergson e molti fra i moderni- sli più avanzati
(1). Come si vede, aveva un po' ragione lo Stein quando
scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola d'ordine» filosofica, che è
diventola grido di guerra di un nuo- vo indirizzo di pensiero, di un
movimento filosofico che passa potentemente dall’ America sul
vecchio mondo e comincia a incerospare la superficie - delle nostre
acque stagnanti (2) ». Facciamoci a considerare davvicino una tale
filo- sofia, allenondoci specialmente ai suoi due rappre- sentanti
più illustri: il James e lo Schiller. gs 2 — Il nome «Pragmatismo »
viene dal greco «pragma» che significa «azione, operazione », vie-
ne dalla stessa radice che ha dato origine alle parole «prassi,
pratico»; perciò, più italianamente sì chia- mercebhe praticalismo. Jl primo a
introdurlo nella fi- losofia fu Charles Sander Peiîrce (3) «nel senso
di un metodo che consiste nel giudicare del valore di una
affermazione dalle sue conseguenze nella pra- lica », ossia di un metodo
che era già stato applicato dall’Empirismo inglese alla valutazione delle
cono- scerize umane. Ecco in breve Ja sua dottrina. È un
falto psicologico che il dubbio, l'incertezza producono in noi uno stato
di malessere, di irrita- zione; uno stalo spiacevole insomma, Per
uscirne — e noì vogliamo uscirne — è neces- saria una convinzione, una
credenza in cuì l’attività del pensicro possa riposare: la
credenza attutisce le sofferenze del dubbio. Produrre la credenza
è la sola funzione del pensiero: il pensiero in altività —
non persegue allro fine che il riposo del pensiero e lo distinguono
profondamente dall'inglese-americano. (2) «Archiv. fur system
Philos.» (3) Egli espose il suo sistema
fino dal 1878, ma non fu che — | dopo essersi servito lungo tempo della
parola CART EVA nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un
articolo . | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le
Pragmatism Bi. Alcan, Paris 1908, p. 6. Lan
"a (1) IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie
che. 2A f 10 Linee fondamentali quindi tutto
ciò che non contribuisce alla formazione della credenza non fa parte del
pensiero propria- mente detto. La credenza, poi, ha per fine di
pro- durre un'abiludine alliva, che diventa regola per fazione. Se
le credenze mettono fine allo slesso dub- bio, creando la stessa
abiludine e la stessa regola d'azione, non diversificano fra loro.
Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non c'è da far altro
che determinare quali abitudini essa produce, poichè il senso d’una cosa
consisle sempli- cemente nelle abiludini che essa implica. Il
caral- tere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa ci fa
agire in ogui possibile circostanza... e il fine dell'azione è di
condurre a un risultato sensibile. Noi prendiamo, così, il sensibile e il
pralico come base di qualunque differenza di pensiero, per quanto
sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo così sottile da non
polev produrre una differenza nella pratica (1). In allre parole: Il
pensiero crea la “convinzione, la convinzione è regola dell'operare
e in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’ope- l'are è il
risullato sensibile, pratico: questo, dunque, deve servirmi di crilerio
per giudicare del valore del pensiero, per conoscere con chiarezza il
significato dei concetti. Come render chiare le nostre idec? In-
lerpreliumole dal punto di vista pratico, domandia- nio ad esse quale
efficienza pralica contengono, quali Sensazioni possiamo aspellarci
dall'oggetto che ci bappresentano, e quali reazioni dobbiamo
preparare. La rappresentazione di questa efficienza pratica, me-
diaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap. presenlazione
dell'oggello e in ciò sla tutto il significalo positivo della rappresentazione.
« L'idea di una cosa è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice il
Peir- ce (2). «E contradittorio il dire che si conosce con
(1) Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub pippoz pt
Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto «Rev HosophiQuew
1879-VII: «( x È ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos
(2) « Revue philosophique» 1. c. p. 47. | IRIS Il
Prugmatismo precisione l'effetto di una forza, ma che non si
com- prende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti
della forza si conoscono tutti i fatti impli- cili nella affermazione
della esistenza della forza e uon v'è più nulla da conoscere » (1).
Come render chiare le nostre idee? «Pensando », risponde il Des Carles,
conducendole alla evidenza della proposizione: « Cogilo ergo sum ».
Agendo, ri sponde il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità ‘*
d'azione che è in esse, nell'oggetto rappresentato: è ciò che
agisce, è distinto ciò che produce effetti di- stinti nella vila pralica:
dunque al: «Cogito ergo. sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta
la funzione della filosofia è di scoprire quale differenza
definitiva forà a ine 0 a te in definiti istanti della vila se questa è
quella formuia del mondo fosse la vera. 4 Tale è il principio
del Pragmatismo. Rimasto inos- servato per venVansi fu mpreso dal James
ed appli calo alla religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca
nerale poi. D'ullova in por tanto il nome quanto i principio hanno falto
forluna, così che i due leader: pragmalisti ce no possono dure una
esposizione co vaggiosa e abbastanza sistemalica in due opere ap
parse nel niondo anglo-sassone e diffuse rapidamen- te fra i cultori di
filosofia. “a Per comprendere l'importanza del principio enun:
3 ciato, ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad applicarlo
vi casi particolari, come fece con perfetta | chiarezza, senza
nominare il Pragmatismo, l' Osl- - wald nelle sue lezioni sulla filosofia
della. nalu -. TTI) Ivi, p. 92. Ne (2) Tm una conferenza
tenuta nel 1898 davanti alla società. fil “sofica di Howison nella
università di California, Al JAMES il n | me non Dpince, ma ormai «è
troppo tardi per cambiarlo »; egli dice nella prefazione al «
Prugmatismus», D. X. (3) Zweite Vorlesung, P. 29. 12 Linee
fondamentali conforme a ciò che egli stesso scrisse al James:
« Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c ? questo influsso è
quello che per noi esse significano. - Nelle mie lezioni iv sono solito
domandarmi: in qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se fosse
vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente per cui sarebbe
differente, l’alternaliva non ha sen- si so » (1). Che è quanto dire: le
opinioni rivaleggianti, «nel caso. hanno identico significato pratico e
non esiste che un solo significato: il pratico (2). Ossia: qual'è
il valore di un’idea? Risolvetela in fatti; il valore di questi
‘rappresenta il valore dell'idea. E poichè i falli in tanto sono in
quanto sono da noi csperimentali, il valore di un'idea mi è dato se
la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es., sil
principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una sostanza noi la
conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò
che di essa si può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o di
essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se Dio, lasciando l'ordine
degli accidenti, distruggesse la sostanza, noi non lu potremmo neanche
sapere. Se del legno mi resta la combastibililà e la struttura
Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inacces- sibile ad ogni forma
di esperienza? d Dunque Ja sostanza come un quid in sè distinto
dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so- | Slanza non è che il
complesso de' suoi accidenti. L'unica applicazione pragmatistica
dell'idea di so- Stanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il
caltolico non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza del
corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del Berkeley della sostanza
materiale è affatto pragma- lîslica, e pragmalistica è la critica del
Locke e del- l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte
del Bea, o n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato
f | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT
RESTRA 3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT
; (2) Ibfa. A non ci sia un quid come soggetto, sostegno,
substrato. ià It Se ll Pragmatismo 13
Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un dato istante
della vita, ci ricordiamo di quello che eravamo in altri istanti e
sentiamo questi istanti co- me parli della stessa serie personale di
avvenimenti vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci
to- gliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la so- slanza
dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo di lui, la maggior parte dei
psicologi empirici, negò l’anima addimttura (1). Altro
esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha cercato Dio; il materialista
lo dà come il risultato di forze fisiche, cieche. Ebbene, le
due teorie sono identiche, se il mondo si. considera come un tutto
terminato, completo. Poi- chè «che valore ha Dio per il mondo, per noi,
se Egli non lo può mutare e far procedere di un passo? Sé il mondo
fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il mondo non è al termine della sua
evoluzione, allora la questione: «Materialismo e Teismo» acquista
una importanza vitale. La ‘scienza della natura pre- “dica che la fine di
ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà
come non fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli ideali,
i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del materialismo! Ma se Dio
esisle, se è Dio che dice al mondo l’ullima parola, allora potrà perire
il mon- do materiale, ma gli ideali saranno conservati e
lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine morale e recide le
speranze che su quello si fonda- no; lo Spiritualismo afferma un eterno
ordine mo- rale del mondo e lascia libero spazio alle speranze
(1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha
dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes-
sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Giovanni Stuart
MIN, dal quale ho imparato la prima volta la pra- gmatica apertura dello
spirito e che, nella mia fantasia, figuro. così. volentieri come il
nostro duce, se vivesse al presente Non per nulla il sottotitolo
aggiunto al Pragmatismo suon . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere
di pensare», sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio
Empirismo inglese, 14 Linee fondamentali
dell'uomo (1). Lo slesso principio si deve applicare alla
questione della finalità nella nalura e della li- bera volontà. Dio,
finalità, volontà libera, pragmati- slicamente hanno un senso;
intelleltualisticamente nessuno (2). ) x Empirismo, dunque, e
Pragmatismo applicano lo stesso principio, giungendo, naturalmente, alle
stes- se conseguenze. Con una differenza però, tiene a dirci il
James. I vecchi empiristi non fecero che un uso frammentario del
principio pragmatislico: ne era- no un semplice preludio. Il Pragmatismo
rappre- senta l'empirismo in una forma più radicale e meno aperla
alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto, una volla per sempre, a
una mollitudine di abitu- dini antiqualo, care ai filosofi di
professione: alle astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramen-
le verbali dei problemi, alle argomentazioni «a prio- bi» ai principî
fissi, ai sistemi chiusi, all’assoluto e all'originario, alla vecchia
melafisica intellettuali- sfica, Insomma, la quale, quando ha dato al
princi. pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia,
ragione, assoluto, energia, crede di possedere il si- smficalo ullimo
dell'essere e di aver raggiunto il fermine delle sue ricerche metafisiche
13). — L'atteo- giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel-
Ieltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è dci più decisi
(4). Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al-
l'agire, alla forza, è signore della disposizione em- pirica, ama l’aria
libera e le molteplici formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle
artificiosità, alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva (9).(1)
Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. (2) Ibid. p. 76. «Eine andere als dicse
praktische. Bedeu- tung haben die Worte: Gott, Will Z, - MO
ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber (3) Zweite Vorlesung, D.
31-33. (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più che nel
James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si trova di
fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno aggressivo, quale è {l
(5) IUid. p. 32. ne 1° MN i 14 PACI ZZZ Il
Pragmatismo 15 Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti
intellettualista perchè vuol essere una dottrina per la vita prima
che della vita, un metodo ordinato alla sodisfazione dei bisogni umani
quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo
me- lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî, dulle
calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo alle cose
ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti (1). Perciò non accella
nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le teorie,
a tutti i sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore
pratico? siete. utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica,
— all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura all'uomo?
L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di principî, di scienza e
di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo per soddisfare a
questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo Materialismo
e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma lontano da
ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri dolori e per
il quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma at-
luale nella filosofia (2). ma Il Pragmatismo invece può soddisfare
ambedue quei bisogni: può conservarsi religioso come i si- 9 slemi
razionalistici e può mettersi in intima unione coi falli (3;. Il
Pragmatismo, come dice il Papini, si. trova nel mezzo delle teorie come
un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo che
la-. vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza ulligua un
allro chiede a Dio con la preghiera fede «e forza; in una {erza un
chimico ricerca le proprietà dei corpi; nella quarla sì sta abbozzando un
sistema » Vily] (1)
Ib2d. n». 34. «Er hat keine Dogmen und keine Leh ausser . seiner Methode.
Die pragmatische Methode bedeutet. Keineswegs bestimmte Ergebnisse,
sondern nur eine orlentie- — * rende Stellungnahme ». >»
(2) Il JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma tutta la prima
lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der — Philosophie ».
(3) Erste Vorlesung, DD. 10-12. o x è 16 2 Linee fondamentali di
metafisica idealistica, nella quinta un Tizio dimo- stra la impossibilità
di ogni metafisica. E il corridoio appartiene a tutti. Tutti vi debbono
passare se ab- SE bisognano di una via praticabile per entrare e
per hi uscire (1). , Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il
suo fine è di por terminc alle beghe filosofiche presen- ì lando un
criterio Pratico per giudicare del valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il
mondo è una uni B va plicità? — Vi domina il fato 0 vi è una volontà
li- bera? — È materiale o spirituale? — I giudizi dati in Proposito
valgono tanto che niente e le discussioni sono interminabili. Ebbene, in
questi casi il metodo ; Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di
interpretare a ognuno di questi giudizi dalle sue conseguenze pra-
i tiche. Quale differenza pratica risulterebbe per qual- cheduno se fosse
vero l'uno o l'altro di quei giudizi? Se nessuna, i due giudizì opposti
si equivalgono r.ra- icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove
1.n c'è differenza di Significato pratico non vi può es- sere
differenza di significato teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il
James, si sare gli allriti, attenuare le contese ie intelligenze,
riuscire alla concordia e alla pace, Esso © dunque un mataviglioso
eirenicon perchè «non «Vale la pena di opporre l'una all'altra nel
campo «della speculazione due teorie che abbiano le medesi-
f me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi»
(3). .Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo
Pragmalistico non permette ecc. come lermine ultimo
della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'espe- —
rienza: le teorie non sono soluzioni, ma programma per nuovo
lavoro; non risposte definitive, ma stru- menti d'azione, ma
indice che cj addita i mezzi per. Ì ) di considerare le parole :
È __ Dio, materia, energia, ty Gazelle Vorlesung, p. 34,
2) p. 28. Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il Lettura
seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall, J ll Pragmatismo?), er
Pragpmatismus? (Cosa vuole “Ri ORANDO, La Mlosoha |
«Rivista Rosminiana » A Apologetica Moderna] dell'azione e vr
» N. I, 1906, not? PO UTNE e ne I Il
Pragmatismo 1? k i) | 1 quali le realtà esistenti
possono esser mulate e adattate all'uomo (1). Il Pragmatismo toglie così
alle i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa
la- j vovare (2). Esso si accorda col Nominalismo nello È
i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es |
cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di- , i sprezzo
delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@ i bali, delle
astrazioni metafisiche, di tutto ciò in- somma che non serve all'uomo
nella vita reale. Per- chè luomo è il centro dell'universo, afferma
l'Uma- nismo (3) conlro il Noaluralismo che considera l’uomo |
è. come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son
subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmocentrica (Uanlica) e alla
teocentrica (la medioevale) ani deve sosliluirsi l'aniropocentrica.
«L'uomo è la mi- sura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo-
È prolagorista, con Prolagora l’umanista (4). L'Uma- nismo
consiste semplicemente nel rendersi conto che sono degli esseri umani
coloro ai quali è proposto. il problema filosofico, degli esseri umani
che si sfor- zio di comprendere un mondo di esperienza umana | coi
mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo l'Umanisimo sono «il
sentimento e la vo lonlà che custiluiscono l'interesse centrale
dell’es- sere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti nel
mondo esterno ». (1) « Theorien werden... zu Werkzeugen », p:
33. (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n. (2)
Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James, c'è
differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil- «_ ler l'Umanisino è
più largo, il suo metodo sì applica a tutto: i d@ll'etica, all'estetica,
alla metafisica, alla teologia, mentre il Pragmatismo non si applica che
alla teoria della conoscenza. In realtà Je applicazioni che fa lo
Schiller del suo metodo, — È le sa o le accetta anche il James, Lo
confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE | _.,(4) Protagora
l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d Gli: Studies in Mumanism, p.
302. A p. 36 egli stesso chiam il suo sistema « Nèo-Protagoreanismo »,
> o ip”td 54 18 - Lince fondamentali
Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia la filosofia più
autropocentrica che si possa dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può
essere sostituito «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un
melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggia- mento benevolo di
fronte a tutte le concezioni, pur- che non si voglia erigerle a un che di
« assoluto ”, ma sì prendano come pure interpretazioni umane 5,
dell'esperienza umana. Non si dimentichi — avverte lo Schiller — «che
l’uomo è la misura di tutte le cose, cioè di iullo il mondo
dell'esperienza... non si dimentichi che l'’uomu è il fattore delle
scienze che servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo, tutto
all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il Pragmatismo accetta
questa dottrina umanistica, e «io — dice il James — la tratto sotto il
nome di Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire, il
soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma- | lisliche: non
ha valore che ciò che ha un significato per l'uomo. $ 3. —
La logica finora ha tentalo di essere una pscudo-scienzu di un, processo
non esistente e im- | possibile chiamaio pensiero puro. In nome di
essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni traccia
di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le Diù
perniciose surgenti di er- tore. Così la logica fu ridolta ad una pura
rappre- | Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al- luale,
perchè non si è voluto osservare che quegli __ inMussi (sentimento,
emozione) sono egualmente fon- le di verità e pervadono tutto il nostro
processo co- | gilulivo (3). Poichè «il Primo passo nella acquisi- (1)
Humanisme, (Prefazione) p. xx. (2) Lettura seconda, p. 4I, (8)
ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10 SEITE
ELE 0 logico e gnoseo- zione di nuove
conoscenze è l'intervento di un postu- lato emozionale » (1).
Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo, la natura data di
un conosciutu non può formare il a fondamento logico per la inferenza di
caratteristiche 0 opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside-
|. Ù rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò mondo
la necessità dell’esistenza di un mondo mi: gliore, sc il ragionare —
come afferma la logica tra- dizionale — è il prodotto di un pensiero puro
non affetto da volizione? «Sollanto se una trasfigurazione
sconosciuta del- l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in
parec- chi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pensiero puro non
influenzato dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor mero
giustificare quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero
de- ve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della
volizione e del desiderio » (2). La ragione - «pura» e una pretla
finzione c una impossibilità si psicologica; lu strultuva reale
della ragione attuale E è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata
fino n] nelle midolla (permeated (lhrough and through) da ulti di
fede, da desiderì di conoscere e da volontà di credere, di non credere,
di far credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un fatto che
abbia luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il *
a nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri
interessi e dalle nostre preferenze, dai | Il Praghiatismo 19
/ i | nostri desiderî, dai nostri bisogni e dai nostri
fini. x Questi formano il potere movente della nostra vita
intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non
3: sa nulla (3), postulati di una fede che sorpassano la È
2 (1) Ibid. p. XI. >» (2) p. XII «To attain it,
cur thougth needs to be impelled vi ‘na guided by the promptings of
volition and desiro ». - POS) (3) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di
BIAGIO PASCAL,(Pensées), LA 4 20 Linee fondamentali
intelligenza pura e possiedono una razionalità più alta che un
gretto inlellettualismo non è riuscito a comprendere. L'irrazionale si
trova ad ogni passo, in ogni processo della vita conoscitiva ». La
fede «sla a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la
razionalità stessa è il supremo postulato della fede. Senza fede
non c'è ragione; la fede è un ingrediente nel progresso della conoscenza;
realizza sè stessa nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula
alle conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e ragione
perchè la razionalità pura non esiste (1). Il carattere leleologico della
vita mentale influenza e pervade le nostre ullivilà cognoscilive più
remole. Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del
Pragmatismo: ne dà la vera definizione (2). Il pen- siero Non è un
prosesso aslrallo, ma si svolge in una - psicologia concrela, è
una funzione vitale è perciò finalistica. L'uomo non pensa per
pensare e il Prag- malismo è: «una prolesta sistematica contro
l'igno- vanza della finalità nella‘conoscenza » (3). La volontà,
lintenzionalilà è da per tutto: il Volontarismo si constata nella
psicologia, nella logica e nella meta- fisica, È questo uno dei lralli
caratteristici del Punto di visia leleologico. Il Pragmatismo si formula
da per lutto in funzione della finalili.. «La ragione è
un'arma nella lolla per l'esistenza cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne
segue che l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione)
(1) Questi concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i JI S °
seialmenie in un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI
The Ilibbert Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra l'altro, che è base
es- senziale in scienza e in religione partire da supposizioni che
TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se ; Viviaino per
fede può anche esser veri r - Ralemo pen pata L e esser vero che
cono (2) Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4, 5.
(3) Stud. in Hum Essay, I & * Èssay, I $ II — È ques a ses
sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se nite e
collegate l’una con l'altra nei S S b ;3 (4) «I cannot but conceive
the Or AR] In the struggle for existence and tation è. pag. 7,
Humanism, reason as being... a weapon a means of achieving
adap- à, cea Il Pragmatismo i
svolgimento, deve essersi impresso profondamente nella sua
strullura, se pure non l’ha formata da istinti prerazionali. Una ragione
che non ha valore n pratico ai fini della vita è una mostruosità,
una aber- razione morbosa, una mancanza di adattamento che
la selezione naturale presto o tardi deve far spari- re {1).
Quindi, da questo punto di vista il Pragma- lismo polrebbe
definirsi: « Una applicazione coscien- le alla epistemologia (0
logica) di una psicologia te- < leologica, che, in ultima
analisi, implica una metafi- sica voloniaristica » (2). pis TANA
Nice di questa psicologia felcologica applicata alla conoscenza i
problemi della logica devono appa- rire sotto un aspelto nuovo e si deve
dare una im- porlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine.
Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno sfor- zo diretto a conoscere,
che, come ogni sforzo, è te-: leologico, ispirato da un bene che si vuol
consegnire. SI Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza è
una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore di bene
(3). Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il |
Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come TU la logica, che ne
è lo strumento, e come la metafi- sica che ne è il coronamento, ha il suo
fine e la sua giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento
| slabile e sicuro in quel primo dato originario e di | Ù conoscenza
immediata che è la nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto di
sensazioni, rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo
corredo di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr
scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut zione» (4). (1)
Mumanism, p. 8. (2) È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre
Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma- |
smo. - ae p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto «Essay»
di questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i » = (4) L,
AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm otze — «La Cultura
Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295, ai dui #
iii ar E° vee Linee fondamentali Non è qui il luogo di
dimostrare che, se il Lotze ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli
perè non è un umanista alla Schiller. La ragione nelle sue esplicazioni
molteplici, è una strumento ordinato ai fini della vita. È questa
la concezione strumentalistica della conoscenza esposta dal Dewey e
dallo Schiller (1) e accettata dal James. Essa è un portato del metodo
evolutivo e della con- cezione biologica della conoscenza. Darwin con
la teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio- “ne
naturale» aveva insegnato «che nulla può sus- Sistere o svolgersi che non
abbia un determinato Significato per l’intera concatenazione della vita
». Scrittori posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sosten- nero che
lu vita è un continuo accomodamento alla natura circostante, fisica,
sociale, morale. E ora la teoria della evoluzione è chiamata da molti a
spie- gare anche il sorgere e il progressivo. svilupparsi ella vita
cognoscitiva (2) e così i principt evolutivi di cambiamento, di
relalività e di movimento sono ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo
sviluppo del pen- siero in generale, il suo carallere, il suo valore,
allo 2 Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i __Te c
spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il — Valore della
stutlura, degli organi, di fulte le dif- __ Ierenziazioni biologiche.
Come in bio non ha valore nè senso che per la sua ulili dine
all’adatlamento dell'individuo condizioni fisiche circostanti, ha, cioè
un valore e un senso puramente Pratico, così in psicologia qua- ai
5 ao (1) L'opera principale del Dewey è: Studies 1
Theory bey John Dewey, with the Cooperation of embe Fellows of the
Departement of Philosophy. Decennial Pubbli- 1 one of the University of
Chigago — Second Series vol. XI e» Peli ha esposto le sue teorie anche
in: The esperimentai Pe: # in: eguig otel Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV
Pp. 293-307; din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N Sì 6) "Vol
NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S. Lol), Cir. Baowr,
7hioughi and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1:
Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi puntf
Il Pragmatismo 23 lunque differenziazione : sensazione,
coscienza, pen- siero ecc., trova tutta la sua raison d’étre e la
sua giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze, nella ef- ficacia
pratica. La questione di valore non si può scindere dalla queslione di
origine e di sviluppo; la considerazione statica deve dar luogo alla
conside- vazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda il
pensiero, la logica formale alla logica funzionale (1). La
concezione biologica della conoscenza (2) ha fatto un passo innanzi: non
ha detto semplicemente : applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo,
(il che, per sè, non inchiude la riduzione della psico- logia alla
biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti del pensiero teorelico hanno
un carattere utilitario » (biologico) «cioè servono come strumenti al
conse- guimento di fini essenzialmente biologici, perchè mi- rano a
dare soddisluzione alle esigenze dell’organi- smo cioè ai bisogni della
vita» (3). Questa subordinazione della vita teoretica alla
vita pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna ma- raviglia
quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e fatta oggetto di studi
speciali (4). Il Dewey, oltre alla funzione generale della
cono- scenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico: il
giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico. larmente degli assiomi
primi della conoscenza. S'è veduto in che cosa consiste la
concezione stru- mentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in
base (1) Baldwin, Op. c. 1. c.
passim. (2) È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal
Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le monografie di
A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ost- wald in «Cultura
Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4. . Lo Psicologismo logico dì
A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4, specialmente pp. 242-255.
Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, — « Cultura
Filosofica » a. III, n. 2. (3) A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La «
Cult. Fil.» a. IMI, n. 3, p. 254. pà & {4} Intendiamoci: hanno
accettato la dottrina della subor- ‘dinazione della vita teoretica ai
fini pratici, in generale, no ai fini biologici esclusivamente,
È 24 Lince fondamentali
ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in ter- mini di
funzione; esso è una armonizzazione di varie parti della esperienza; è
uno sforzo « per determi. nare gli elementi che realmente procedono di
con- serva e per respingere quelli che solo si collegano
apparentemente »: così esso si forma, per differen- ziazione, sotto
l'impulso del bisogno di armonia e di unità nelle esperienze (1).
To Schiller (2) afferma e dimostra, a modo suo, che gli assiomi
fondamenlali della conoscenza o primi princip! (di identità, di
contradizione, del terzo esclu- so, di causa) sono dei semplici
postulati. Un postu- lato è «una supposizione, che senza dubbio
l’espe- rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma che non
è, nè può essere lenuta come provata, poi- chè spesso di poi la si assume
solo perchè la desi- deriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» (3).
I postulali sono domande che noi facciamo alla espe- rienza;
processo di esperimento ordinato a porre il mondo in armonia coi nostri
desiderì; sono perciò un processo di sviluppo non dissimile dalle altre
at- tività e funzioni umane, derivando dalle esigenze dell’uomo,
dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal suo volere: sono quindi un
prodolto della attività umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che
una cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre Db, ecc.
perchè diversamente, come polremo conoscere la sua condotta futura
rispetto a noi? e, per conse- g&uenza noi desideriamo che nulla venga
a distrug- gere quella idenlità: così nascono il principio di
identità e di contradizione, che sono due aspelli (po- Silivo e negalivo)
dello stesso principio, Noi esigia- Mo delie distinzioni precise, delle
disgiunzioni com- plete, perchè con esse possiamo dominare (assimi- (1)
Op. cit. II, passim, Vedi anche N. c. 257 dove si trovano le parole
da’ (2) Personal Idealism — « Arioms 902. La Cultura
Filosofica » me citate, Macmiizs o! as Postulales n — London,
(5) ScHILLER in 3 «The
Hibbert Journal» }, e, Il Pragmatismo lando ed
eliminando) il lusso ininterrotto della esperienza: vogliamo che una cosa sia o
non sia: ecco il principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro-
si durre degli avvenimenti utili alla vila e di impedire i nocivi;
per agire abbiamo bisogno di un mondo connesso, ordinato, postuliamo,
cioè, una causa € una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto
di- venta; l'identità perfella non esiste. La enntradizio- ne è
pensata frequentemente contro la grescrizione - della legge; l'esperienza
non sodisfa le nostre esi- ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione
suMceiente, e ve la poniamo noi. A chi opponesse a questa
concezione volontari- slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di
uni- versalità e di necessità, lo Schiller risponde che: «Ia universalità
di un postulato deriva dalla sua stessa natura, inquantochè, quando ci
serviamo di una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo di
farne uso ogni volta che ci piacerà; la neces- sità di un postulato
designa semplicemente il biso- gno che noi ne abbiamo, ossia... deriva
dalle esì- senze di una volizione intelligente e finalislica; la
incapacità di pensare il contrario di una proposizione si riduce... ad un
nostro rifiuto di compiere un certo atto del pensiero ». Il
James accetta e fa sue le dottrine dello Schiller e del Dewey (1) ce
proclama: «Dalla logica scienti- fica è stala cacciata la necessità
divina, e al suo. posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla
mostri melodi fondamentali di pensare sono inven- — . zioni dci nostri
antichissimi antenati e si sono. potuti — conservare attraverso {tutte le
esperienze successive. — pe (1) Il James considera gli «
Studies in Logical Theory » com | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr.
Der Pragmatism Vorwort, XI, AI
ve, 26 Linee fondamentali Essi formano ciò che si
chiama «il senso comune », che, in filosofia significa l’uso di certe
forme dell’in- lelletto e di determinate categorie del pensiero.
Noi pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie per mettere
unità e ordine nella piena confusa, nella Varietà sensibile delle
esperienze, per combinare con meno dispendio di forze possibili le nuove
con le vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per con-
neltere il iontano dell'esperienza col vicino, per adat- lare, in
una.parola, la esperienza ai nostri bisogni dopo averla dominata.
E la dominiamo razionaliz- \ zandola. i «Se fra le
impressioni dei sensi e i concetti pos- è». cai È, t
ATI tas siamo trovare rapporti univoci abbiamo già
razio- nalizzato le impressioni sensibili. I senso comune
> mette questa razionalità nelle esperienze (vollzieht
diese Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î sà
quali i più importanti sono i seguenti ; 4 = Cosa (in sè) —-
Identità e Diversità — Specie — Spi- x , rili -— Corpi — Un lempo —
Uno spazio — Soggello b e ullributo — Influsso causale — Immagini
fanta- > stiche — Realtà (1). 9 Queste categorie
lrovale forse in momenti felici ai nostri antenati si sono conservale e
sono dive- nule la base del nostro pensiero per la loro sufficien-
za a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe possibile che
calegorie diverse dalle enumerate po- __lessero servirci, come quelle che
usiamo ora, alla elaborazione della nostra esperienza. Del resto il
Senso comune non è che una fase della evoluzione dello spirito umano, c,
nonostante che la filosofia _bemipatelica abbia tentato di fissare per
sempre le Sue categorie, concatenandole ordinandole in si- _
stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione MICCCALVII È a più
i DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il car a
scienza della natura e la filos riti hanno. rotto i limiti del pensiero
ATao CECI (1) Finfte Vorlesung. Con la
scienza della natura cessa il Realismo in- genuo. Le qualità secondarie
perdono la loro realtà: non restano che le primarie. La filosofia critica
di- strugge lutto: le categorie del senso comune non si- gnificano
più nienle di reale. Esse non suno che astuti provvedimenti del
pen- siero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfug- gire alla
inquietudine in cui ci getta l'incessante cor- rente delle sensazioni
(1). Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di
pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il natu- ralistico, almeno,
può vantarsi di aver servito ai fini pratici quanto il senso comune; si
pensi al Galilei, ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur
trop- po, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 qua- si);
nessuno di essi è assolutamente più giusto e più vero degli altri (2).
e; La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi
particolari. Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue
presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo & presupposizioni
che ne costituiscono la vera es- senza. Il James dice che un aspetto
essenziale del Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della ve-
rità (3). Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «pa- rallela alla
teoria della verità è quella della realtà », e perciò la trallazione
della prima non può andar disgiunta dalla esposizione critica della
seconda (4). A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottri-
ne essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0 applicazioni del metodo
alle due forme oggettivo- soggettiva c oggettiva dell’essere. E
Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci lrattando della
teoria della verità e della realtà nel pragmatismo. \ (1)
Ibid., p. 117. (2) Ibid:; p. 118 Par (3) Der Pragmatismus, p. ki: Das
wdre das Wesen des Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens
cine. gene tische Wahrhettstheorie », (4) Stud, tn Hum., p.
284, "E lla ate RA A da LTL
LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTA. La Condotta. La dottrina
della verità. La dottrina della realtà. Che cosa ci sa dire la filosofia
intorno alla condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponen-
dlola sopra un piedestallo all'adorazione del mondo 0 | la deprime perchè
venga calpestata dalle persone i Superiori? In allre parole: qual'è,
secondo la filoso- | fia. lo relazione della lcoria colla pratica della
vita, della cognizione coll’azione, della ragione teoretica colla
pralica? » (1). Così comincia lo Schiller il suo primo saggio del
volume: « Umanismo, — La base È elica dellu metafisica ». E continua: «La
dottrina di È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in-
bi tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo della
storia risulla chiaramente un fatto: che le pre- lese delle teorie
antagonistiche (leoreticiste e prali- gra * cisle) sono così larghe e
così insistenti da rendere impossibile ogni compromesso fra loro;
bisogna sce- pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la
vita. i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un
sogno: aul Caesar aut nullus » (2). Noi sappiamo a giù quale dei
due estremi abbia scelto il Pragmati- sil smo. Invece di supporre che il
pensiero sia altra cosa o dall'azione, esso tralta il pensiero come una
forma di , È condotta, come una parle integrale della vita attiva.
(1) umanism, Invece di considerare i resultati pratici come
poco o affatto importanti, fa dei valore pratico un deter- minvute
della verilà teoretica. Im una parola: la condotta, in luugo di svanire
nella nullità di una il- lusione, è ristabilita nel potere di controllo
di ogni dominio della vila. Dal punto di vista pragmatislico
della psicologia le- leologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i
problemi logici quanio i metafisici si presentano in una luce | nuova,
poichè vien dala una importanza decisiva i | concetti di proposito e di
line. SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro
l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie sul pensie- ro e sulla
realtà, la finalità del pensare attuale © i rapporti delle nustre realtà
attuali ai fini della vila; è r'aflermazione delta basc chica della
iogica e della id metafisica. « La valutazione (cologica è una
sfera speciale della ricerca clica, € quindi il Pragmatismo, To con
la sua accentuazione della teleologia in ogni (campo del pensiero,
assegna al metodo lipico «della elica una validità metalisica » (1),
alfermando la su- preva autorità della concezione etica di bene
sopra | da concezione logica di vero € la metafisica di reale. II
bene, il valore pratico © un determinante essen- ziale così della verità
come della realtà. La condotta è la sostanza del tulto. La nostra
apprensione del reale, la nostra comprensione delia verità si effet
luano sempre in esseri che tendono al consegui- mento di qualche
bene: sono penetrate, informate “dalla tendenza a un fine pratico, dalle
esigenze della condotta. pt g 2. — Chi studia
seriamente i processi conoscitivi della intelligenza umana viene subilo a
trovarsi d fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni La
teoria della realtà e della verità logiche hanno l'audace pretesa, senza
riserva e senza d riguardi alle pretese delle altre, di esser vere.
Eppure gran parle di esse non sono che delle menzogne : non sono
realmente vere e la scienza deve respin- gere la loro pretensione. Per
far questo è necessaria una scella di ciò che è realmente vero dalle
verità apparenti: una condanna del falso ed una ricogni- zione del
vero; il logico, in altre parole, deve valu- tare le ioro prelensioni di
verità (1). Con qual crì- levio? Come dislinguere fra proposizioni che
preten- dono di esser veré c non sono, e le pretese buone che
pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il carattere distintivo della
verità? Così si pone il pro- blema crileriologico; e una teoria della
conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). ©
Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione alla quale è
stato in qualche modo al- luccalo (attached) ialtributo «vero» e che,
conse- __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La ve- Tila è
la lolalità delle cose alla quale e stato appli- «cato o è applicabile
questo modo di lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla totalità della
nostra espe- _ Rienza» (3). È una qualità di certe rappresentazioni
«© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni con l’oggello {4). È
questa la definizione comune che | accellano, come qualcosa di evidente,
intellettualisti * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti
comincia Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si- —_
Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà » con la Tuale
devono convenire le nostre idee (5) |, Secondo la concezione Opolare | n
BRA { ot ROIO Popolare l'accordo consiste > In una copia
dell'oggetto. Alcuni idealisti affer ne ue le nostre idee sono vere
quando corrispondono. a or \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno
al loro alla /eoria della *&gello, Altri,
streltamente fedeli (1) ScHmzLER: Stu (2) Id., Jvta.
(3) Id., p. 14. Essay Y. @ JAMES, Der Pra i o
gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor], dies in
MHumantsm, D. 3. Essay I Il Pragmutismo_ 31 i ì tre idee
in copia («copytheory»), dicono che le nostre in nilo sono vere in
quanto corrispondono ai pensieri elerni dell'assoluto. Vediamo quanto
valgano queste concezioni. ; Intanto la verità
assoluta, scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è
caratlteriz- zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla
mutabilità delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-
somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per verità, Ogni verità
umana, com! è attualmente e com'è stata storicamente, sembra fallibile e
transi- toria... le verità del passato sono riconosciute come
errori al presente; quelle del presente sono in via di essere
riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità
umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo
scetticismo che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri-
valutazione e transvalutazione delle verità, che for- ma la storia della
conoscenza, si è ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente
dalle vicis- situdini della verità umana; la quale verità assoluta
si concepisce come un modello da imitarsi, come una misura per la
valutazione delle verità nostre, come una rocca inespugnabile in cui non
può penetrare cangiamento alcuno (1). i Si slabilisce, cioè,
una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale,
che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le
nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso
imperfetto, ma valido, misleriosumente tran- sustanziato per la immanenza
in esso dell'Assolulo e per la partecipazione della sua stessa
sostanza. i Mau l'espediente è fulile e dannoso. | l'utile
perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a mutabile, non può
discendere dagli eccelsi cieli della logica a
trasformare le nostri ‘i Ì La, e verità e a togliere la
transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana, (1)
ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay VIII, p. 204. 32 La teoria della
realtà e della verità dal canto suo, non può SORIrare alle
prerogative so- Rraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta
non può identificarsi, in qualche modo con la umana, e se la cognizione
umana non può diventare assolu- la, non può congiungersi con l'Assoluto,
l'Assoluto per nvi non esiste e non può quindi redimere dal ilusso
perpeluo le nostre verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia impossibile,
si deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità umana) Cc
tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità lrascendente).
La verità umana è fluida, non rigida; temporale e lemporanea, mon
elerna e perenne; arbitraria, non necessaria; scella, non inevilabile ;
nata, come Afro dite, di passione e di slancio da un Inare
schiumoso di desideri, non puramente intellettuale e spassio- nata;
incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner- tante ; assorbita nella
tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non beala nella. sua
com- iiulezza. Questi caratteri della verità umana risul- tano
dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve- tilà. Essa è discorsiva
perchè non puo abbracciare lutta la realtà; © fallibile perchè è
‘essenzialmente parziale € puo quindi Sempre venir corretla e com-
pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve- rità assolula si
estende al lutto e dipende dalla cogni- zione del lutto. Li sua
ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività (2). Se non V'è
conoscenza conm- pielamente adeguata all'intero sistema della
reallà _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la
no- stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap- punio
perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è generala dalle
parzialità dell'alten- stone selelliva ed'e diretla a fini parziali. Un
abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi può essere
ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi verità attuale sia
in « accordo con la b RP assurdo che Ju he (I)
SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p, 207, via {9) Id.,
4bid. E (4) SCHILLER, 1a., p. 2, i Le
Lia - di asta ideale, eterna,
Irascendente » come pretendono gli as- solutisti. be La concezione
della verità assolula è anche perni ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la
differenza fra ia verità assoluta e la relativa o non la
percepisce. Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m- .
perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo | Scelticismo sarà
inevitabile. CIÒ è tanto vero che, ‘anche attualmente, la linea di
divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è molto
indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà come
assolute anche le nostre verità. E poichè l’as- soluto non soffre aumento
nè alterazione, egli non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi,
rigetterà come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso al- cuno
nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as- surdo Ja rovina della
teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è aumento, c'è
alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può spiegare,
anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera- zione, e
non ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche
du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro
reale progresso cognosellivo: ud est verilas? È forse un
«accor realtà ; La Accordo » Questa ipotesi reatitiae csfetto, del
fallo. sterno? A LI ‘a — dice ancora lo Schiller ci
conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli
incredibili paradossi, con la cha: 1 SE Rc e
die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI » che «eg hipothesi
» 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS È
e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e
È |< PRE e %% È Da teoria della verità e
della realtà c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che la
«corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della
noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare nella nostra conostenza, è in
qualche modo perfelta e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non
pos- siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen- _ siero,
dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la verilà consista nella
« cocren- za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina- “zione
assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere costruite im
diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze »
sistematiche: biso- cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2).
RR . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è
falso? » Im che consisle la verità del «sistema coerente? » Dal
punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare una
risposta reale alla questio- ne; non si può indicare nessun metodo
praticabile di ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se
non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con- | seguenze, di
saggiare la validità delle rappresenta- zioni (c dei sislemi di rappresentazioni);
se non rica- | Noscendo uno stadio intermedio, nel facimento della
s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e tn ideale
completo di verità assoluta (3). Il Pragma- smo è appunto il
tentativo dì tracciare il modo del > (I) Id, p. 181, Essay, VII.
(2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a dottrina
_pragmatistica della verità e della A ita «ex professo « nella quarta
lezione (del vol. cit.): Etn- lett uni Vielheit « Unita e Pluralità. — ©
pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di una
molteplicità di ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico
(Ato- TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico
(Dua» smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulte-
ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London, Longman
Green 1909, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e
pub- mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam-
(3) SCHILLER, Stud. in Hum. facimento aztuale della verità, le maniere
attuali di distinzione tra vero e falso per giungere alle sue ge-
neralizzazioni circa il metodo di determinare la na- tura della verità
(1): mette in luce, in altre parole, lo sladio intermedio del divenire
della verità, il modo della convalidazione delle pretensioni di verità.
Or- bene, come s'è veduto, non si può spiegare il movi- mento del
pensiero verso qualche cosa senza fare appello a motivi psicologici:
desiderio, sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è possibile
descrivere cosa alcuna in puri termini logici e senza costante
ricorso alla psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi della
definizione della verità sono anzitutto psicolo- gici»; ogni verità
attuale è, in primo luogo «un pro- cesso psichico, c, come tale,
condizionato dalla va- rietà degli influssi psicologici sentimentali e
voliti- vi» (3). i E così anche i sistemi di verità.
L'esistenza di un numero di giudizì cocrenti connessi in sistema
non basta per avere da noi la ricognizione della verità. li
«sistema» per esser vero, deve anche aver valore ai nostri occhi; la
tendenza al «sistema» è parte della tendenza più vasta all'«armonia
attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il si-
stema non è semplicemente un tutto di consistenza logico-formale, ma
anche il prodotto di influssi ema- <ionali. in vista di soddisfazioni
emozionali. Perciò nessun sistema è giudicato intellettualmente «
vero » se non è migliore — in rapporto alle nostre esigenze -— di
un altro, se non abbraccia e non soddisfa qual- cosa di più che gli
aspetti intellettuali astratti delle. esperienza (4).
(1) 1d., ibid., p. 4-5. « Pragmatism essays to trace out the actual
«making of truth», the aciual ways In which discri- _minations between
the true and the false are effected, and derives from these its
generalisations about the metliod of determining the nature of truth ».
? (2) Id., Humanism, Essay III, p. di. NI (3) Id.,
ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Spe- cialmente p. 152
Sgg. (4) ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. 42-50.
‘36 La teoria della realtà e della verità Vi sono dei
sistemi che, nonostante la loro coeren- za, non hanno valore di
verità, perchè non TiMUON Î no e non risolvono un senso di disaccordo
finale nel- l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici (1); e
n sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi-
cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-| slema (2).
Non si dimentichi mai — ci avverte conti- nuamente lo Schiller —
che la nostra conoscenza èi maleriata di inleresse, di desideri e di
sentimento; che la verità e il sistema della verità è il prodotto
dei mostri sforzi lelcologici (3). Da ciò risulla che il pro- hlema
della verità è essenzialmente psicologico, € deve essere formulato così:
« Qual’è la natura psi- chica della ricognizione della verità? A qual
parte della nostra esperienza è applicata questa ricognizio- ne?»
(4) N Pragmatismo risponde : «La verità è una ferma di valore; la natura
psichica della sua rico- gnizione è la valutazione » (3). « La
valutazione della nostra esperienza è un processo naturale
ininterrotto in una coscienza normale. Sponlaneamente, neces-
sariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat. live », «belle » e «
prulte », «vere» e «false». È l’osi- stenza di quesl’abito che fa sorgere
le scienze nor- mutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le
diverse valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valuta- zioni
del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le valutazioni del «buono» e
del « cattivo »). Anche la (1) 1d., tDid. «AI pessimismo in
filosofia » lo Schiller consa- cra il IX Essay del sno /umanism. Anche il
« pessimismo, come ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di
fronte alla grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi
di valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo
dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se no, il
suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel pri- Rpanraso
abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo LA . (2)
Mumanism, D. 50, (5) Specialmente là dove tratta del ri a e
Re ti el rapporto fra logica (4) Humanism, Essay III, p. 54.
(5) «Truth is a form of a Value ».. Would be no «tru
ren o na er at - * Without valuation there
Ri the at all» tv p. 55. (4 4umunism, Essay II, p. 55.
> 7 Il Pragmatismo . 37 logica è una scienza
normativa che ha per fine di re- golare e di ridurre a sistema le nostre
valutazioni di «vero » e di «falso » (1). Come in ogni altra
classe di valulazioni anche nella valutazione della verità (2)
l'inleresse umano è vi- tale, il che vuol dire: che una verità ha
conseguenze (ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha
una portata sopra qualche interesse umano, e che le conseguenze debbono
valere, debbono essere conse- guenze per qualcheduno, in vista di un fine
determi- nato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ». berciò, a
tulle Ie asserzioni che prelendono di esser vere noi dobbiamo intimare: «
Mostrateci che siet> buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo
pet tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità; noi
dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal frutto conosceremo l’
albero n. Una asserzione che soddisfa un interesse umano pratico, che
corrispon- de al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che è
praticamente buono; è falso ciò che è praticamente cattivo (3). 1
predicati «vero» c «falso» non sono in fondo che indicazioni di valore
logico, comparabili come valori, coì valori «elici» ed «estetici»
(4). Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo, invece di
considerare la verità intellettualisticamen- le, cioè, come un rapporto
puramente statico fra rap- presentazione e oggetto, si pone, di fronte ad
ogni pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una
rappresentazione 0 un giudizio affaccino la preten- sione di verita, noi
chiediamo: Quale diffevenza con- creta produce nella vita concreta di un
uomo quel tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es- sere
vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel
tal giudizio fosse falso (0. 3 (1) Id., bid. La
parentesi è mia |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità »,
perchè que- | Sta fla verita) non è che il processo della valutazione. Ingl,
| «truth-valuation ». ‘ | (8) Stud. in Hum, p. 5-8: 38
La teoria della realtà e della verità vero)? Qual'è il valore
della verità se noi la cambia: mo în moncla di esperienza? » (1) ue
Per il Pragmatismo porre la questione è scioglier- la: «Sono
vere quelle rappresentazioni che possiamo far nostre, cioè che possiamo
far valere, lrasforma- — re in forza e «verificare», sono false
quelle che non sono suscettibili di lule trasformazione in valore
pra- tico » (2). La verità di una rappresentazione non è
una proprietà immobile che le è inerente: la sua ve- rità è
un accadimento: una rappresentazione non è vera, ma divien vera; è
un divenire, è il progresso della sua auloverificazione (der
Vorgang ihrer Selb- È stbewahreilung); 1 valore della verità non è
altro che il processo del suo farsi valere (3). E si fa va- È:
lere, e si verifica con le sue conseguenze pratiche, con la sua utilità:
anzi il farsi valere e il verificarsi non sono in fondo che queste
conseguenze (4). Dalla definizione della verità come vulore logico (5)
— segue che lutte le verità debbono essere verificate. Una
rappresentazione che non vuole o non può sol: tomettersi alla
verificazione è già condannala. Essa | può avere lull'al più una verità
potenziale, senza si- «| _°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o
congetturale, e dipendente “fl da condizioni non uvverate. Per diventare
realmente da 3 (1) Der Pragmatismus, VI
Vor, p. 125. < è» (2) « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir
uns aneigqneny die wir gellend machen, in Kraft setzen und
verifizierem hòn- pe; nen, [alsche Vurslellungen sind solche bei denen
dies alles ("g nicht moglich ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il
Jaines stesso che n sottolinea. : % (3) Id., 126. E lo SCHILIER:
«Che cosa erano le verità prima p di venir scoperte?» La questione
è oziosa, Se «vero» significa «valutato da noi» è naturale che
ogni verita diventa vera quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre
stadi, mel LA processo della verità: verità da venir fatta, verità
diveniente, i verità fatta. Il processo è unico e identico per tutte le
verità a. _ Stud. in Huni. p. 195-199. i (4) JAMES. fui.
SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono que: Sei in fondo, che formazioni e
syolgimenti del principio del EIKCE. \ (5) È la prima
definizione del Pragmatismo, secondo lo. Schiller: «'The doctrine that
lrw{hs are logical values» (Stud in Hum.) p. 5. Me:
ati t 44 vera deve venir dichiarata e provata, e non
si dichia- ra nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30.
ne fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue applicazioni (1). Le
verità astralte, come tali, non sono verità. Perfino le verità
aritmetiche derivano il loro esser vere dall'applicazione all'esperienza.
Osservale per esempio ll’ enunciazione astratta: 22=4. Esso è
incompleta. Noi dobbiamo, prima di aderirvi, conoscere a che cosa si
applicano 2 e 4, poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera
applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e due dispiaceri, a
due + due goccie d'acqua, ecc. Così si dica delle verità tutte in
generale (2). Vi sono delle verità fuori d'uso, e vi sono
delle verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita con- creta.
Finchè non operano nel mondo della esperien- za immediala sono ambigue
(3); solo la potenza e le conseguenze del loro operare le tolgono
all’ambi- guilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M
le, vere o false. Le verità sono regole per l'azione; ma una regola che
rimane nei campi dell’astratto non significa nulla, non regola nulla: il
significato d'una legge sla nelle sue applicazioni (4) ec ogni st
gnificato dipende dal proposito (5), perchè qualunque applicazione della
verità all'esperienza è in istretta connessione con qualche fine il quale
determina ta natura dell'intero esperimento. Per ragione della di-
pendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi- (1) E la
seconda definizione del Pragmatismo (ivi p. 6). (2) Stud. in Hum.
p. 9. ; Ria ioè: sono in potenza alla verità € alla falsità. 0)
mind di questo AT delle idee astratte lo SCHILLER nana consacrato un
saggio intero: il V (Stud. in Hum): «The ambiguity of Trutn» p. 141-162.
> (4) Secondo ALFRED SinGWicK_ — seguito in questo dallo |
ScuiLcer — le parole sot.olincate contengono l'essenza del med todo
|pragmatistico, e ne sono la terza definizione (Stud. in Hum, p. 9). .
, (5) Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle due PD denti.
(Id., ibid.). ib pi A 40 La teoria della verità e
della realtà cato è selettivo e teleologico: il giudizio logico è
«va- lutazione » (1). ° Resta da rispondere alla seconda
questione: « A qual parte della nostra esperienza è. attaccata la
ri- cognizione della verità? » i Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo
o neghiamo noi 1l valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi
nella valulazione della nostra esperienza? È «vero» ciò che è
praticamente buono, sta bene; ma che cosa chiamiamo noi «praticamente
buono?» (2). «La risposta a quesla questione — dice lo Schiller
— ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci spiega in che senso il
Pragmatismo professi di avere un criterio di verità » (3). E la risposta
non è diflì- cile. Il nostro pensiero tende all’armonia e alla
quic- te del pensiero, a ridurre a sistema, con un lavoro di
selezione guidala dall’interesse, il complesso della esperienza, a
coordinare, in visla d’un fine, tutti gli elementi della vilu: quindi è
vero, (cioè buono, il che è, per lo Schiller lo stesso) «ciò che
armonizza con le leggi proprie del pensiero e con tulta la nostra
esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di cen- tro vitale per
ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa progredire. Il possesso della
verità non è fine a sè stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche
ne- cessità della vita (5). La verità non è altro che la via, per
la quale noi siamo condotti da un fram- mento dell'esperienza ad allri
frammenti che mette conto di far nostri (6). La verità è una guida
all’a- zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una selva în
pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa che assomiglia ad una
strada, immagino in fondo ad Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi
salvo. La (1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154, passim,
(2) Id., ibid. (3) Id., ibid. (4) IZumunism. Essay JII,
p. 57. (5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127. (6) JAMES, Op.
c. p. 128. 2° Il Pragmatismo | I
rappresentazione della casa è vera perchè è verifi- \i cala dalla sua
ulilità; mi salva facendomi prendere | la strada che vi conduce (1).
Questo semplice e per- | severante carattere di « guida» che possiede e
mo- | stra una rappresentazione è il vero prototipo del pro- cesso
della verità. È vera quando, finche-e in quante | «conduce
n: e si intende vera di verità reale; poten- zialmente è vera la
rappresentazione alla a condur- _ ve, falsa la inutlu. ’lulto
ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni soggettive, individuali, che
sono il prodotto di inte- da ressi psicologici e mirano ad una
soddisfazione s0g- — gettiva, non può formare che un complesso di
verità soggellive, individuali: la mia esperienza è soltanto n la
miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto valulazioni mie: come si
esce dal soggettivo? non x | siamo in pieno «solipsismo? » (2) No —
risponde lo eo Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista), facendo
na dell'individuale il suo punto di partenza, intende fili
fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali non sono che una
piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa che l'uomo è
un animale sociale e che la verità è in gran parle un prodotto sociale.
La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione individuale:
Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve trasformar- si in proprietà
comune, E diventa sociale appunto per lu sua utilità ed efficienza. Come
nell’individuo 3 (1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer
parla spesso della «con: duciveness a «proprietà di condurre», come di un
criterio di Verità, Le «conseguenze pratiche» non sarebbero in fondo,
che questo « Hinfùhren» che permette poi uni specie di «previ-.
sione » di cio che è utile, Cf, a questo proposito: «La previ- stone
nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento A. I, Fa- ‘scicolo II,
1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: « Per conseguenze pratiche»
vanno intese le esperienze particolari ‘che la dottrina o
l'affermazione in questione permette di pre- «vedere» p. 191. «Esperienze
che costituiscono il criterio non | solo della verità e della
falsità ecc...» Id., ivid. -& (2) Del «solipsismo» lo SCMILLER si
occupa nel X Essay (Stud. in Hum.) « Absolutism and Solipsism»
258-265. Per | questione se «l'empirismo radicale» sia
«solipsistico» ctr ournal of Philosophy, vol. II, N. V e IX.
li 42 La leoria della verità e della realtà Îl
criterio dell'uso, della ulilità regola Ie valutazioni soggellive,
consolida e subordina i vari interessi ai fini principali delia vila,
così lo stesso criterio (del- lVuso) fa una selezione lra le valutazioni
individuali e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni scelle,
la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale. Ciò che non è
socialmente ulile, elliciente, operativo, presto o lairdi viene
eliminato. L'utilità sociale è così l'ultimo delerminante della verità
(1). Protagora ha detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1
commen- latori sì domandano: uomo si deve intendere in sen- so
individualislico 0 generico? Tutte e due le inter- pretazioni sono esatte
— dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era abbastanza vasto per
esten- dersi all'uomo individuale e agli uomini (2), Egli ri-
conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per- cezioni
individuali (3): fra i giudizi di valore indivi- duali si stabilisce una
selezione dei migliori, che so- pravvivono agli altri e si consolidano in
grandi siste- mi di verilà oggellive accettabili da tutti (4). Ed
ora SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is made),
«come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali dell'esperienza
umana. La conoscenza. cr'e- sce in estensione e in fidalezza
(trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo
funzionamento, per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-
riale da parte dei complessi organici preesistenti di cognizioni. I
sistemi (come organismi viventi) sono Im un conlinuo processo di «
auloverificazione » di (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.
(2) «His Humanism Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum.,
Ess. JI DI 34. RIS a (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire
a Protagora che, se le percezioni di uno non possono essere più vere di
cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di mo
ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo
ASI LUoO (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi
accettiamo come vera la migliore, quella che possiede «greater
conduci- Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C
astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. (Id.,
ibid.) Il Pragmatismo 49 prova della
propria validità dalle conseguenze e dal potere di assimilare, predire,
controllare fatti nuo- vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel
pro- cesso biologico, così anche qui assimilare significa
transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la
compenelrazione delle nuove, assu- mono un aspetto dillerente e cambiano
in realtà, in- Irinsecamente poichè diventano più operalive ed
effi- cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga-
nizzazione; ci conducono meglio ai nostri fini, acqui- slano maggior
capaciià di armonizzare le esperienze future in reiazione a noi, al
nostro interesse e ai nostri desideri (2). In realtà siamo noi che
facciamo la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere
falli nuovi, muove esperienze: il fattore della sele- ‘zione, è il
nostro interesse, è la loro utilità rispetto a noi. È questo
processo di fare la verità è continuo, progressivo e cumulativo. La
soddisfazione di un intento conoscitivo conduce alla formulazione di
un altro; una verità nuova diventa presupposizione di
ulteriori imdagini (3). I così all’indefinito: la conqui- sla
della verita assoluta, cioè della verità adeguata ad ognì fine umano non
è che un ideale, com'è pura: mente ideale la verità stabile, immutabile,
eterna (4). Ogni verilà può esser mulala da una nuova espe- rienza.
La Verità non esiste: esistono le verità. « La Verità con leltera
maiuscola è un mito. In realtà esi- stono nel mondo umano soltanto
le verità, altrettante quanti sono gli: uomini, cioè le rappresentazioni
e le affermazioni praliche di cose che non sono, ma di-
vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su di esse, lanto
più eflicace, quanto più, con l’azione esso passa dall'incosciente
al consapevole ed al ri- liesso (5). 4 (1) Stud. in Iuni.,
«The Making of Truth», VII Ess. 194-195. (2) Id,, ibid. 23,
(3) «A new truth, when established, naturally becomes ti e
presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E, 4)Id,, Ess.
VIII, par. 8, Pp. | ILEN a GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna
Nazio ita le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646, S6g.). de
4h La leorìa della verità e della realtà
Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi- nizione della verilà:
«accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola accordo — dice James
(1) — comprende ogni processo mediante il quale da una
tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve- himento fuluro
corrispondente ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla nostra
progressiva evoluzio- ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di
ricono- scere la verilà non è che una parte del dovere ge- herale
di cercare e di riconoscere ciò che torna conto. Il tornaconto, contenuto
nelle idec, è l’unica ragione che ci obbliga di allenerci ad esse» 3). k
lo Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la verità? è
la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della verilà-valutazione,
là verilà può definirsi: «la fun- zione finale (ullimate) della nostra
allività infellel- liva; se si ha riguardo agli oggetti valutati
come Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì rende Utili
primariamente ad ogni fine umano, ultimamen- le allu perfetta armonia
della nostra vita intera che cosliluisce Ja nostra uspirazione finale »
(4). $ 3. — La dottrina della realtà è affine a quella della
verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa. ll principio
umanistico di Prolagora è universale: umano genera e informa lutto ciò
che è; anzi...j ma uscolliamo i due leaders del Pragmatismo.
Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a- niutusi della
nostra esperienza è, quindi, un prog) sso ln quella cognizione di noi
stessi dalla quale dipende. li-cognizione del mondo. ‘ale passo in avanti
non è Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della fi-
losofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolo- logica la priorità
sulla questione ontologica (5). (1)-1d., {bid., Vorles, VI, p.
135-136. (2) Id., ibid. e passim in tutta la medesima lezione. °
(5) «Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten, ist ner DES Grund,
der uns verpflichtet uns an sie zu halten» (4) SCHILLER,
Humanism » III, p. 60-61. (5) Id., Ibid., p. 85. :
<> at loin | + cat
” Il Pragmatismo : 45 Che cos'è
la realtà? Così, cioè in lermini ontolo- gici, era posta ia questione
fino a Kant, Ebbene, fino a tanto che non si melle in chiaro come la
realtà possa venire in noi, è impossibile qualsiasi risposta alla
questione; non esisfe, per noi, nessun reale se non in quanto è
conosebile; una realtà inaccessibiie alla nostra cognizione è inutile e
quindi si distrugge. Perciò la vera formazione del problema metafisico
è questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1). La dollrina
della reallà è condizionala dalla dottrina della conoscenza; la ontologia
suppone come fonda- mento la epistemologia: ecco quella che Kant
chia- mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».
Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo
rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza
non è una operazio- ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i
nostri interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a noi
delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto quegli aspelli che sono
termine di un nostro deside- rio attuale, di una tendenza a conoscere:
tutti gli altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).
(1) Id., Ibhid., p. 9 (2) Il BERGSON +- il rappresentante,
in Francia, della Philo- sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi
apprendiamo le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere
con- siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti
sol- tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, « Noi
cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o queto, in
qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0 di attitudine
dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Méta- pliysigue). Cfr. anche La
cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione,
trad. del PAPINI, p. 43. Il Bergson è pragmatista? Risponda lui
stesso: « Bisogna distinguere due maniere profondamente differenti di
conoscere una cosa... la prima si ferma al relativo, l'altra
ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per simboli,
per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og:
getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia
intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto | per
coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi d'inesprimibile; con
l'assoluto »... «La prima nasce dalle esi- genze della vila pratica e non
è filosofica, ma empirica: lil seconda nasce dall’affrancamento dagli
schemi pratici, dal concetti-ctichette ed è quella per cui è possibile la
vera meta- 46 La teoria della verità e della realtà
Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non ciò che è oggetto di
una nostra tendenza, di un no- stro desiderio e volere; e non si
desidera, non sl vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la
questio. «me di fatto (ontologica), nè la questione di conoscen- 3a
(cpislemologica) sono possibili a considerarsi in- — (ipendentemente e
senza coinvolgere come loro base la questione di valore (psicologico-etica)
(1). Le nostre | valutazioni pervadono la nostra esperienza tulla
«quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni cogni- zione. Perciò la
verità della formulazione epistema- logica del problema della realtà è
incompleta finchè «non realizza, tutto quello che è implicito nella
cogni- zione nostra: cioè il desiderio, la tendenza, l’inte- SEEGS
3 La completa il Pragmatismo così: Che cos'è la realtà per uno che
aspira a conoscerla? «Reale» si- gnifica: reale per qual proposito? per
qual fine? per qual uso? (2). È la «volontà di conoscere » che pons
la questione e quindi non potrà venir risolta che in termini della
volontà di conoscere (3). Ecco la spie- | gazione. della diversità di
dottrine che intorno al «reale» ci hanno dato le scienze e le filosofie.
La di- x rezione della sforzo determinata dalla «volontà di *
conoscere» entra come fattore necessario e isradica- IN
Di ar v fisica, cioè la cognizione dell'assoluto
» (Ibid.} passim). E an- cora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre
directement, sans faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir
er non plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice, p. 323).
JI Bergson riedifica sulla intuizione il tempio dell'Assoluto che
prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità dell'ana- list, della
cognizione per idee astratte. Poco importa che non ci sia riuscito.
(Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius. PREZZOLINI, Rocca S.
Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intui- zionismo contro la filosofia,
La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT ecc...) La distinzione delle due
differenti maniere di conoscere; in- tuitiva (metempirica) e analitica
(empirica) spiega l'apparente inconciliabilità dei passi citati e d'altri
ancora, (1) Z/umanism, I, p. 9-10. (2) Id., Ibil.
(3)... the answer... comes in terms of the will to know which puts
the question» Ibid., p. il. Il Pragmatismo urti
. bile (ineradicable) in ogni rivelazione della realtà a
nol. i La risposta alle nostre questioni dipende dal loro
carattere, ma questo dipende in tutto da noi. Siamo noi che le poniamo
così e così; l'iniziativa è del tutto nostra. Dipende da noi il
consultare l'oracolo della nalura o l'astenercene; dipende da noi il
formulare le nostre domande alla natura. Se la domanda è falla bene
la nalura risponderà; se è fatta male non risponderà, e noi
dobbiamo ritentare la prova (1). ci Che cos'è dunque la realtà?
Procediamo -con or- dine. Vediamo prima di lutto quali
caratteristiche at- « lribuiscano alla realtà le scienze.
. Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è trattata nelle
scienze, la realtà presenta i seguenti caratteri: a) non è rigida,
ma plastica e capace di sviluppo. h) non è reale assolutamente e
incondizionatamen- le, ma relaliva alla nostra esperienza e
dipendente dallo stato della nostra cognizione. 7.6) La
concezione che noi abbiamo della realtà cam- bia e perciò:
d) riduce spesso all'irreale ciò che è slato accettalo lungo fempo come
reale. e) Una «realtà iniziale» (come una «verità
ini- ziale») è reclamala da ogni cosa sperimentabile: è necessario,
CENCI un principio selellivo che ci serva come di criterio a distinguere
fra «realtà iniziale » e «realtà reale » (2). (1) «M vecchio
oracolo ammonisce: ogni cosa ha due ma- Michi: bada di prendere quello
giusto ». Emerson, American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ
PASCOLATO. « La natu- ta, quindi non risponde sempre, a nostro
piacere :... « Natura Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si
noti bene Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in
corri. spondenza con altre loro asserzioni. (2)
SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo tto Ja differenza fra
realtà «iniziale» (primaria) e realtà reale». : VELA
i 48 La teoria della verità e della realtà
Contro la dottrina scientifica il Razionalismo af- ferma: «La
reallà è immutabile, è finita e completa . da tutta VPeternità
(1). Essa è una perehè ha un fine uno, forma un sistema, narra
un'unica storia (2). La nostra esperienza della realtà è mulevole
come la nostra cognizione della verità, non perchè verità e realtà
divengano, mutino, ma perchè la esperienza dell'una e la cognizione
dell'altra sono processi psi- chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e
Realtà sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, cono- scendo,
non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida, uon migliorabile; è e sarà
quello che è stata; non diviene 4). Il Pragmatismo si pone
dal punlo di vista delle scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e
dan- nosu come la verilà assoluta per le medesime ra- gioni. Lu
concezione della realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione
attuale della realtà (5); non e conoscibile, il che è quanto dire: non
esiste. Non esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre
esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che le realtà ora
conosciute e accetlate siano un milione : tsse non esauriscono
tulle ie possibilità dell'univer- SO: VI possono esistere accanto ad esse
allri dieci milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come
lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro potere:
molle realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir
realizzale dai nostri sfor- zi E viceversa: molle delle realtà conosciute
pos- sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir- leali e
rigellale (6). Non v'è nulla di assolutamente posto. La
realtà come la verità, diviene senza posa (7). La natura (1)
James, #0id., VI, Vorl. p. 143 (2) Id., ibid., IV Vorl, p.
ot. (3) Id., ibid., D.. 143. (4) Id., tbid.,
passim. (5) SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D. 219, (6) Stud.
in Mum., p. 218. (7) 1d., ibid. È lui che sottolinea.
iii - — —_ _—_ Sali I
Il Pragmatismo 49 delle cose non è delerminata ma determinabile
come quella dei nostri simili. Prima del nostro esperimento su di
essa è indeterminata non solo per la nostra ignoranza (soggettivamente),
ma da ogni punto di vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si
de- termina sotto i nostri esperimenti come il carattere umano. La
nozione del «fatto in sè », come quella della «cosa in sè, è un
anacronismo filosofico (1). Noi chiediamo allo Schiller: su che
cosa facciamo i nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di
pendente da noi? Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a
guisa di postulato, una base iniziale di fallo, come condi- zione
dei nostri esperimenti (2), ma quesla prima base è affatto indelerminala
e plaslica: può diven- lare tullo quello che nvi vogliamo che essa
diven- li {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo sce- gliere
e realizzare la migliore (4). Noi chiediamo ancora: «qual'è la
natura delia realtà iniziale prima, della base di fatto dei nostri
esperimenti? » E come può ammetterla il Pragmatismo se essa
sfugge alla nostra esperienza, se non è conoscibile?» Schiller
risponde: «La difficoltà di concepire nel Pragmalismo l’accellazione del
falto come base non dev essere traltala come obbiezione ai metodo
prag=* matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo lulto il suo
significato. Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever
luce la distinzione importante tra realtà che è «fatta» soltanto
per noi, soggettivamente, cioè «scoperta », e ciò che noi supponiamo che
venga «fatto » real (1) Humanism, p. 12 in nota (2) Stud. in
Mum. vp. 428-XIX. x - (8) EMERSON scrive: «Com'era
plastico e fluido nella mano di Dio, così Il mondo è in mano
nostra». Queste parole sem: brano un commento alle parole dello Schiller:
« Noi possiamo quanto può Dio nello schema intellettualistico di
Leibniz». «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare
nella formazione del inondo », ibid. (4) Stud. in Hum.
mente, oggettivamente, in sè (I). Che noi facciamo tale dislinzione è
chiaro, ma perchè la facciamo? Se tanto ìl soggettivo come l’oggellivo «
facimento della rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello
slesso processo cognoscitivo, sotto l'impulso degli sforzi soggellivi,
come può sorgere o mantenersi, da ullimo, quella distinzione? Ebbene:
anzi tutto è chia- «ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè
ci ; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer-
i mare «the making of reality » in senso oggettivo. Sia È può
benissimo concepire quel facimento come pura- | mente soggettivo, solo in
rapporto alla nostra co- quizione della realtà e punto in relazione alla
sua esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della me- lafisica,
ma della epistemologia: si può essere prag- mualisli in epistemologia e
realisti in metafisica (2). Sia che si ammetta, sia che si neghi che la
realtà è fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero che
sono necessari i nostri sforzi per iscoprire la _‘—‘vcealtà, che i
nostri desideri, i nostri interessi deb- è bono anticipare le
nostre «scoperte» e farci la via id esse e che, perciò, la nostra
concezione del mondo .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva
di Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi-
stenza (3). } .__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi
scegliamo i no- Sti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel
Jlusso omogenco degli eventi (4). Per noi la realtà iniziale è pura
potenzialità, come la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di
tullo | ciò che è deslinalo a diventar reale (5). È un concetto
# Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia ; U.C0E
e; è la possibilità indeterminata di __ lutto cio che sarà, di
lutto ciò che noi facciamo, co- nuscendo: ogni realtà attualmente
riconosciuta si () Id., ivu., p. 428, XIX Gi (2) Id., ibd.,
p. 42) «in nota», (3) Id., 40id., p. 499-XIX «in nota», i) Jd,
ibid, IN p. 299. (9) Jd., ibid., XIX p. 222. (6) Ia., ibia.,
p, 12 in nota, È Il Pragmatismo 51 deve concepire
come evoluta dal processo e nel pro: cesso conoscitivo nel quale ora la
osserviamo e come destinata ad avere una storia (1). Per la teoria
prag- inalica della conoscenza i principî iniziali sono lel-
teralmente dei semplici termini @ quo, scelti varia- mente,
arbilrariamente, casualmente, nella speran- sa e nel tentativo di
avanzare verso qualche cosa di meglio (2). lullo ciò che è, è
reale. Bisogna distinguere fra vealtà «primaria» (primary reality) e
reallà reale (real realtty). La realtà primaria è semplice domanda
di divenir reale: è la realtà non veryicata © com- pele anche alle
«apparenze ». Non c'è distinzione nè criterio di distinzione a priori fra
apparenza e realtà. La distinzione sorge soltanto quando la mente,
mos- sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa passa a
controllarla (3). La reallà «primaria » che ri- sponde alle noslre
domande interessate diventa real- la «reale»; quella che non risponde ad
esse si ma- nifesta come apparenza. La realtà «reale» non è che la
realtà primaria passata a traverso il fuoco del criticismo esperimentale
e promossa a un grado su- periore (i). I poiche gli interessi crescono. e
variano continuamente e i propositi sono continuamente dif-
terenziati, anche la realtà « reale » cresce in comples- stla, viene
dillerenziala in serie, le serie si ordinano in sistemi, i sistemi
vengono coordinati e- subordi- nati fva loro (5). E così
all'inciciimto. Il processo della nostra co-, suizione della realtà (=
della nostra creazione delle reullà) si estende dal caos assoluto fino alla
saddi- sfuzione assoluta (6). (1} 14. td. (2) ju.,
tbid., p. 439. (3) Id., IX, p. 233-234, «Watever is, is «real» ls
what we begin with,.. (4) Id., p. 244... «real» reality
which has survived the fire of criticism and been promoted to
superior rank. - Le conse- % | guenze provano la realtà come provano e
fanno la verità, (6) Id., ebid., VIII 221.
SCART ROTA À ge 52 La teoria della verità e
della realtà La realtà è plastica. Forse (1) la lasticilà del
reale dipende (anche) da una vena di indeterminazione, di libertà
che corre per l'universo: questo giustifica il nostro trattamento delle
idee come di forze reali e Passerzione cho il nostro fare la verilà è
necessarla- menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo facciamo la
verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva. della nostra
esperienza «reallà» e «verità» cresco- no pari pussu (3). Realtà
significa « realtà per noi» precisamente come verità è «verità per nol».
Noi assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto » ciò che
giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è il bene, l'ulile; l'elica,
dunque, è la base della me- lafisica e della logica. È il
James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione, debbono
controllare. Da que- slo punto di visla la corrente delle nostre
sensazio- ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono
imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab- biamo nessun controllo sulla
loro natura, sul loro ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono
nè vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù che noi
diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le teorie intorno alla loro
natura, al loro essere, ai loro rapporti possono essere veri o
falsi. Il secondo elemento della realtà è costituito dai
rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella 4 (1) Siamo in
piena metafisica e come! Non solo la livertà è nel reale ina anche la
cognizione. « L'usare e l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere
conosciuto («to use and to be used includes to know and to be know»). La
nozione della « materia » morta... non trova più favore nella scienza
mo: derna » — «Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:
l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilo- zoisino »
0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpre- tazione del basso
(inferiore) in termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo,
tuttavia esso inclina a questa 0 & quella metafisica secondo che
meglio corrisponde a’ suoi ca- noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p.
422-4na. (2) Id., p. 427. (3) Id., p. 426.
(4) Id., 20i4, (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr
arde è RS | eee VI Il Pragmatismo
nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e ac- cidentali; p. es.
quelli di spazio e di tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed
essenziali perchè si fon- dano sulla intima natura degli oggetti
corrispon- denti. Gli uni c gli altri di questi rapporli
vengono perce- pili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe-
cie di falli più importanti per la teoria della cono- Fi scenza è
l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono
apprese ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto
fra loro e | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e
> gico-matematico. : Il ferzo elemento della realtà
consta delle verità È antecedenti che debbono esser prese in
considerazio- es ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone
| molto minore resistenza degli altri due: finisce quasi ty sempre
col cederci il passo (1). i Ora, sebbene questi elementi della realtà
siano un po’ fissi, tuttavia, operando in essi godiamo di
una cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero; il loro
essere non dipende da noi; però dipende da noi, dal nostro interesse di
rivolgere l’attenzione a que- ste più tosto che a quelle; dipende da noi
di tener + a conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende da
noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza de- + cisiva alle prime 0
alle seconde (2). LS Noi leggiamo le stesse cose diversamente
secondo il punto di vista da cui le guardiamo. La battaglia
di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle- ‘se, come sconfitta
da un francese. Così l’ottimista. legge nell'universo la parola «
vittoria», il pessimi. (1) Id., îbid, Come? tra le verità antecedenti vi
sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima struttura
dell'oggett mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è
i discutibile? non formano esse la struttura del nostro pensiero?
‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero logico-matematico? À parte
questa incoerenza, è certo che il James non sl pre «senta con le audacie
quasi spavalde dello Schiller: a vol sembra di trovarsi, leggendolo,
davauti a un realista e intel | lettualista autentico. Cfr. « Revue
Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin d’Epistemologie » p. 278-298.
= (2) James, î'2d., p. 156,
pers i: La teoria della verità e della realtà
È, sta la parola «sconfitta». «La esistenza della real-
© tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo di- pende dalla
nostra scelta, e la scelta dipende da | noi» (1). La realtà è muta.
Le sensazioni dei rap- (SAh porli loro non ci dicono niente intorno
alla propria natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice-
2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi scol- piamo
la statua. Giò vale anche per le parli « eterne » della reallà. Noi
scompigliamo le nostre percezioni Mei rapporli inlrinseci e le
ordiniamo a nostro pia- . cere; le classifichiamo in serie, le
raggruppiamo in classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come
fon- damentale, finehè le nostre credenze formino quei sistemi di
verilà che conosciamo solto il nome di lo- gica, di geometria, di aritmetica.
Im ognuno di quesli ‘sistemi la forma e l'ordine è evidentemente
opera (umana (2). È difficile parlare di una realtà indipen-
«| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al concetto di
ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non è | @ncora
denominato, oppure all'assolutamente mulo, o a, un limite puramente
immaginario della nostra coscienza (3). Ad ogni modo è
inaccessibile, inaffer- | rabile: quando crediamo d’'averla còlla
noi ci tro- viamo lra Je mani un semplice surrogato, una crea-
. lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega- lala
per il noslro uso e consumo (4). La corrente delle sensazioni c'è,
chi lo nega? Ma ciò che noi di- ciamo di quel flusso è creazione
nostra dal principio sino alla fine. Noi condensiamo la corrente plastica
| în cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e 1
predicali*dei nostri giudizi veri e falsi: tutto cià «che è, è
frutto della nostra elaborazione. «Il mondo «| non è — come
vogliono i razionalisti — l'edizione in (1 1a. dbig. « Die
Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr, aber hr Inhalt hingt von der
Auswal ‘ RO vahl, und die Auswahl hangt (8) 1d., p.
159. | (a) Ia., ivia. Il Pragmutismo 56
folio infinita, l'edizione di lusso elernamente com- plota che le
coscienze individuali non riescono a de- cifrare nella sua interezza e
rifanno in lante piccole edizioni finite, piene di errori di stampa, più
o meno deformate e mutilate; ma è un’edizione non ancora perfetta,
che viene completandosi a poco a poco spe- cialmenle per l’attività degli
esserì pensanti » (1). E questi la stampano nelle loro edizioni; la
plasmano nei loro schemi connoscitivi, in mille modi diversi,
secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri, hanno tutti lo
slesso valore di verità se rispondono al fine per il quale furono
elaborati. L'anatomico con- sidera l'individuo come un organismo:
la sua realtà sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples-
È so di cellule, il chimico un insieme di molecole (2). Il n
numero 27 si può considerare come la terza potenza di 3, come il prodotto
di 3 e 9; come la somma di 26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo
creatori nel 0, conoscere come nell’operare. Il mondo aspetta la
sua forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo apre nuovi
orizzonti alla forza divino-creatrice del- Puomo (3); così il pensatore è
rivestito di dignità LI nuova piena di
responsabilità. 6 i Noi «solleviamo ad altezze nuove la realtà pree-
» sistente » se sappiamo credere, agire, lottare: la fede ci
fa salvi, ci porla alla conquista dell'universo, ul niglioramento
progressive della realtà (4) La no: stra sorle è nelle nostre mani! Lungi
da noi il fata- lismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un
ar: cobaleno: vi troviamo tutti i colori, a nostro grado: la noslra
azione ve li crea (9). a VP | (1) 10. ibid., pi
165... Cfr.: La cultura filosofica, N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la
traduzione delle parole qui citate. i (2) Id., p. 161-161;
passim. Ù (8) La frase è del PAPINI, «der Fiihrer der
italienischen V80 Pragmatisten » come lo chiama il JAMES, ibid., p. 104.
NP». int (4) Le parole sono prese dall'EuckeN ima non si ha alcuna
e) citazione di opera; EUCKEN parla di una « Erhohung des vorge- i
fundenen Dascins » -- p, 163. ine. (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER:
«like a rainbow Life glitters ti în all the colours». /fum, 16, \?,
uindi, o uomini, imparale a conoscere voi stes- vi consapevoli
delle vostre vocazioni; in- allargate le vostre finalità:
sollevatevi i | dominazione in dominazione; sappiate volere e
sappiate creder?, cioè uermare con tutto il vostro essere che le cuse
stanno realmente come voi le po- ele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede
\} farà salvi, ioè vi permetterà di conseguire i. fini della vostra
esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esi- ste in sè; ma
parlate, pensale, agile come se real ente fosse tal quale voi la vedete,
voi non servi, na padroni suoi © suoi fallori» (1). ‘Questa è
lu dottrina della realtà sostenuta dal agmalismo.
INI. LA RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO “Sommario: x
l. Le preoccupazioni etiche e religiose. — $ 2. L'esistenza di Dio. — $
3. Il concetto di Dio. — \ 4. Religione e religioni. g. 1. —
Esporre con una certa ampiezza le dottrine pragmaliste, senza fare un
posto speciale al modo con cui in esse sono presenlali e risolti i
problemi religiosi, sarebbe una mancanza grave. — Chi ha
studiato o lello con amore, le opere — al meno le principali — dello
Schiller e del James, sa “che, allraverso ad esse, si sentono passare,
come n fremito, più o meno distintamente, due preoccu- | pazioni;
luna, più generale, che tulto pervade, tulto “colora, tulto
fondamenla: la preoccupazione etica: l’altra, più speciale, che nasce
dalla prima come condizione necessaria o postulato del coronamento
dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione — religiosa
(I). È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non è
così intensa e così manifesta come nel James; lo (1) Per questo io
credo che, se si può e si deve parlare di nn pragmatismo religioso (e
così pure di uno epistemologico, metafisico ed estetico) come di un
complesso di applicazioni del principio del Peirce alla religione (alla
metafisica cecc.), non si può invece parlare di un pragmatismo etico,
come di lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma-
ismo è etico: l'etica è alla base della epistemologia, della me- a Lab
della SESLIgione °, della IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo
Schiller non se ne son Ù A articolare, Il non ne sono
occupati 5 0 58 La Religione nel
Pragmatismo Schiller — il véro filosofo del pragmatismo,
sebbene meno popolare del James — ha lavorato sopratlulta a
stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio: il carattere, cioè
feleologico-morale di ogni nostra at- tività e di ogni prodotto
dell’altività umana: tutta- via sono numerosi i saggi nei quali egli si
occupa ex-professo, più o meno largamente della religione, V, e da
per tulto si sente che per lui la religione vale. - Del resto: non ci
dice lui stesso, espressamente, che il pragmatismo «non è soltanto un
movimento che riguarda un insieme di dottrine tecniche intorno al 7
problema della conoscenza, ma anche un tentativo di determinare i
rapporti tra «fede, ragione e reli . gione?» (1).
Quanto ai James è nolo — per la sua stessa con- fessione — che la
prima applicazione da lui falla del principio del Peirce fu
un'applicazione ai problemi KS. religiosi (2). Ed è noto del pari
che, dal giorno del ; suo primo discorso pragmatista all'Università di
Ca- È lifornia (1898) fino all'opera: « A _Pluratistic
Univer- | Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie forme
dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le volte che gli si
presentò l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo, i più
fondamentali tra i pro- i blemi della religione. Il James fu un? anima
carat- - leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :
«Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il inisticismo
del grande pensalore svedese Swe- dlenborg, il principio del quale era la
relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa
«dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James»
(3). Egli lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella
fedeltà alla crc- denza che fuori del mondo del nostro «pensiero
co: Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le energie
capaci di arricchire e di trasformare la no- 4
(1) Studies in Humanism, Essay XVI, p. (2)
Pragmatismus, p. 29. |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5
Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale, 349, SEE.
culi * Il Pragmatismo 59 stra vila» (1).
«Chi sa — scriveva egli, conchiuden- do un’opera classica sulla religione
— se la fedeltà di ogni uomo alle sue umili credenze personali non
possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen- {e ai deslini
dell'universo? » (2). Aggruppo l'esposizione intorno a questi tre
punti: 1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.) Reli-
gione e Religioni. «2. — Cominciamo col James, La
storia della filosofia è in gran parte la storia del conflitto dei
temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il riflesso del
carattere intimo del- l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento;
ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno che
un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria
insapula, o deliberata- mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega
il sor- gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.
Noi possiamo distinguere due principali tipi spi- rituali d'uomini
aventi caralterisliche affalto diver- se: l'uomo dalla (empra tenera
(lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il
tipo simpatico c il cinico (4). Mettele questi due tipi
profondamente diversi in faccia all'universo e chiedele loro una
dottrina: a- vrele da una parle il malerialismo sensualista, con
lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo, come traduzione
del temperamento rude e cinico; dall’altra lo spiritualismo con contenuto
ottimistico, quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.
L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due
lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il
loro speciale rilievo di opposi- | zione davanti al problema
dell’esistenza di Dio. Il (1) L'Expérience religleuse, p.
436. (2) /ui, p. 437. : Li Mi (3) JAMES, Der
Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p.
20 (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »
- ? 60 La Religione nel Pragmatismo
complessa delle cose che vediamo, che esperimentia. mo e che abbiamo
convenuto di chiamare « mondo » sono il prodotto della materia o di Dio
esistente fuo- ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le
cose 0 e'è anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il quale non sarà
risolto mai — e la storia è là a di- mostrarlo — in base alle vuote,
astratte e. sottilis- sime discussioni sull'essenza intima della materia
€ sui suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h-
telleltualistiche de! Dio che è in questione (2). Ogni speculazione è
impotente — di fronte al materiali- smo ateo — a dare una solida base
razionale alla re- ligione: i due grandi (entativi sistematici di
dimo- strazione dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti-
‘co e l'idealismo trascendentale — hamno fallito al loro scnpo.
‘Tulli conoscono gli argomenti classici della filo- solia
Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per sempre la causalilà dal mondo
fisico, ha reso impos- sibile ogni inferenza dal creato a una causa
prima; del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di
fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio,
l'immortalità e la li- berlà, non avendo alcun contenulo sensibile,
sono parole vuole di-senso dal punto di vista della cono- scenza
(corica, e ha fatla giustizia una volta per sempre della vecchia
leologia, che ora non regna che nel volto e non è difesa che da qualche
ritardatario. Il darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova
per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il disor- dine che noi
troviamo nel mondo non sono che in- venzioni umane: chiamianio ordine ciò
che corri- sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne
(1) I metodo praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra-
duzione PAPINI). (2) Occorre far notare che questa visione degli
ontologi non è da confondersi con la ?n!uizione del sentimento,
intuizione sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi:
PIAT, Insuffisance des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg.
Il Pragmatismo 61 allontana (1). Finalmente il pragmalismo,
cacciando - dal mondo la necessità logica, ha tollo ogni speran- a
di una soluzione per coucetti del problema in que- stione, di modo che le
prove dell’esistenza di Dio non sono valide che per coloro che già
credono in Dio i e debbono trovare degli argomenti per
difendere tale 3 3 i A “pre
credenza (2). ; L'idealismo trascendentale non è più felice nel suo
SG tentativo di dare una base solida alla fede: vedremo quali assurdilà
sono implicite nel concetto di una coscienza concrela infinita che
sarebbe l'anima de! x - inondo: vedremo a che si riduce l'Assoluto.
e «E allora? Quale altra via rimane aperta per risol vere il
problema? Già nell'opera : La volontà di cre- dere, il James assegnava ai
molivi emozionali un valore definitivo, nel casu che l'intelletto non
poles- E se offrire delle ragioni sulficienti per l'adesione a i
doltrine di caraltere religioso. La via è aperta: met- liamoci in essa.
La questione: « Dio esiste? »per il pragmatismo si risolve in questa, più
determinata e più chiara: «Quali conseguenze pratiche importa (|
per la reallà, per noi, l'esistenza di Dio?» Se prali- = camente, cioè
dal punto di vista del criterio della uti- .lita pratica, la negazione
dei malerialisti vale quan- lo l’allermazione dei leisti, le due teorie
sono equi- valenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il
di lato e il valore pratico (9). 7 | Ebbene, la questione se il mondo sia
creazione di Dio o prodotto delle forze materiali può essere con-
pe sideralo da un doppio punto di visla: relrospettivo + e prospettivu.
lFingiamo che il mondo sia completo. ti ed evoluto in tutte le sue partì
(punto di vista retro- | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di
ri sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun- (1)
Jaars, L'Expérience religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331.
ia a JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui
qui déjà croit en Dieu ces arguments sont solides... La On {ltoure... des
arguments pour défendre ces croyances le doit les trouver ». :
di Ò NI Vol., p. 59; L'Experience (3) JAMES,
Der Prugmatismus, religlouse, pas. 132. INA La
Religione nel Pragmatismo que aumento e qualunque alterazione. Da un
mondo lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da temere,
perchè il potere creativo, qualunque fosse slato, si sarebbe esaurito
tutto in quello che è, che è irrevocabilmente, in tulle le sue
particolarità: uno dono che ci è stato dato e che non può essere ripre-
ì so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il valore «di Dio, sc
ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo mondo già trascorso? » (1).
Egli non varrebbe niente più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo,
non avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè egli,
secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6 aggiungere a ciò che è. A
un Dio simile noi saremmo riconoscenti per quello che ha fallo, non per
altro. lì ora prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le
parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» po- lessero fare lullo
quello che, nell’ipotesi precedente Da fatto Dio: saremmo noi loro meno
riconoscenti che a Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se
lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo respon- subile la sola
maleria? Come, essendo l'esperienza definitivamente cd irrevocabilmente
ciò che è sfata, “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più
vi- vente e più ricca al nostro sguardo?» (2) « Chiamia- mo materia
la causa del mondo e non leviamo nep- pure una parle di quelle che lo
compongono; nè, sc chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque
«materia e Dio significano precisamente la stessa | cosa, cioè il potere,
nè più né meno, capace di fare | questo mondo celerogeneo, imperfello e
tuttavia ter- | Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e
il leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifi- ante». Se la
presenza di Dio «non porta un giro v lin risultato differente all'insieme
del mondo, non Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al:
RE TIE (I) JAMES, 12 metodo
pragmatista, in Saggi È : MES, li SI, gi pragmatisti, x D.
15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da 3 Saggi
pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione | del PaPINI e
del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo | pragmatista
dall'inglese, | (2) James, 0 Metodo Prag matista, pp. 16-17;
Dì mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis: — mondo) verrebbe nessuna
indegnità se Dio non hi fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch
È scena» (1). È saggio colui che volta le spalle a siffat- ‘la
inulile discussione (2). 3 ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un
punto di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel inondo
reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu- ro, che è tullavia
incompleto... ». ; 3 «In questo mondo non finilo l’allernativa di
«ma- lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa si può
formulare così: «In qual modo il programma della nostra vila è allo a
variare, secondo che si con- siderano i fatti dell'esperienza come
configurazioni di atomi senza finalità (materialismo), oppure come
dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero che in questo mondo non
finito la materia fa prati camente lutto ciò che può far Dio, che essa
equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima ri-
chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia, di cui paria
Spencer, per la quale si compie il pro- i cesso dell'evoluzione cosmica,
è veramente un prin- | cipio di perfezione infinita quanto Dio? ».
(8) Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria
dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione della materia e
del moto» sono rivolte incessante- _Inente al disfacimento del mondo, «a
dissolvere tutte le cose che hanno falto evolvere ». Così il
Balfour cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo
quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le e- Nergie del nostro
sistema si consumeranno ; la gloria del: TR cselrata, e la terra, inerle
e desolata, a disturbato 1a oltre la razza che per un momento E SS
GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel EF va suoi pensieri periranno.
La inquieta a... le «azioni immortali » moriranno, e l'a- i More,
più forte che la morte, sarà come se non foss _ mai slalo. Nè vi ‘'à Il i
i sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio i fu) Ivi, PP.
17-18; pp. 59-63. a (2) Ivi, p. 81; p. 61. (8) d04, DD. 18-21, pp.
63-64/ 64 La Religione nel
Pragmatismo per lulto ciò che il lavoro, il
genio, la devozione e la sofferenza dell'uomo avranno fentalo di
effettuare durante età innumerabili » (1). Dunque la sorte ulti-
ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmica- mente evolute è
tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è slalo: non un'eco, non una memoria:
la rovina sarà universale. È si noti: « questa rovina e trage- dia
finale sono nell'essenza del materialismo scien- lifico. Le forze più
basse, e non le più alte, sono le forze eterne o quelle che sopravvivono
ultime nel solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definiliva-
mente vedere » (2). Ma se Dio esiste, i risultati pratici
dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che con-
lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi ar- derè o ghiacciare,
ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura
che al- riveremo a goderne; perciò il naufragio e la disso- luzione
non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno di un ordine morale eterno
è uno dei più profondi bisogni del noslro cuore... ». «Qui
giacciono i significati reali del materialismo e leismo...; matlcrialismo
signitica Ja negazione del. l'ordine morale eterno e l'esclusione delle
speranze ultime; il teismo significa l’afiermazione di un eler- no
ordine morale e dà libero corso alla speranza » (3). Un'altra
conseguenza pralica di grande importan: za deriva dalla affermazione
feislica: il sentimento d'intimità col mondo. I mulerialismo
con la sua visione impersonale dell'universo ci pone di fronte a una
realtà muta, in: differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò
che crea, senza curarsi del bene e del male, e dei biso - gni
umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il quale si dovrebbe
avere dei riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come una
(1) BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30,
citato dal JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus,
pp. 64-65. (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D.
66. (3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg. Il Pragmatismo
= rrasca, 7 are in burra sopra: unt ma senza tre- qui
epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj venti e le onde c iizoirenomoni
Uasc due i i non siamo che degli €} gli eventi (1). Come otza (dol
flusso irresistibile deG Letta così falla? È Si simpatia e amore per o a
senoi mettiamo 6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n
Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo- | ù calde, viù vicine a e
voni saremo più estra- "o pensiero : > e al Nostro La non
lo saranno a noi. Ri Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe
dire Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il le la
differenza che passa fra de senlire i no: CE "nali el concepire e
sentire ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE BLOGO SÌ
differenza sociale. £ i rapporti col mondo è una eee iamo
malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn {ra socio, il mondo, difidenti e
USE E guardia che non ci GU slringorit Spiritualisli noi possiamo
fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra
" tai Ise peosstere ident so utile, che on ai Rostri bisogni emozionali,
che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze sulla
Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do- — mande che
le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della | Verità, noi dobbiamo
concludere che il (eismo è vero © il materialismo è falso. Vi
sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare conclusione in favore
dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli produce differenze prati porti
call'universo; se c'è un Dio, renze « nella sorte finale del mondo
: lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei
nostri lap- questo s'è vedu- i produca differ .
Ina durante tutto il ere che l’esistenza di Mella sorte
finale do» (3) Ammetl ì, L'Expérience
religieuse, D. 409, 411. >, Il Metodo pr agmut., p. 15; 4
Pluratistie Univer Il Met. Ppragm., p. 25. Egli produce
diffe È più: se c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che
egl enze non solo, | corso del mon- Dio non possa a
66 La Religione nel Pragmalismo
— cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare
‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap- punto in quelle
differenze che debbono essere ammes- se nella nostra esperienza, ove il
concello sia ve- “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un
‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza
fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica
pura c semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la
realtà tolale e pie- ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di
espe- ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che (ci dà
una massa di esperienze concrele affalto ori- «_—‘ginali. «Se voi
chiedete cosa sono queste esperienze vi dirò che sono conversazioni
coll’invisibile, voci e visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di
cuore, Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura
zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla
attitudine interna, con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si
perde, e può esser trovalo soltanto in una certa direzione de-
terminata, proprio come se fosse una cosa concreta e maleriale» xl},
Vedremo più sotlo perchè pratica- mente parlando è cosa di poco momento
che il Dio della teologia sistemalica esista o non esista; «ma se
il Dio di queste particolari esperienze è falso, è una cosa lerribile per
quelli la cui vita è poggiata su tali esperienze » (2). _,
Concludendo: «la controversia teislica assume un lreniendo significato se
noi la saggiamo coi suoi re- ; sultati nella vita attuale » (3). Il
naluralismo, il posi- ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con
cu- lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa- talmente
nella tristezza e nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il
teismo, la nostra vita ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un universo
mo- rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre sofl- a O TAES: ALI relty., ).
432. ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto queste |
‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la materia di:
L'Experience — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30. a
N ll Pragmatismo 67° ferenze ha
la sua ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride alla terra e
se gli dei vengono a visitare gli uomini; se la fede e la speranza
sono come l'atmosfera della nostra anima, allora la no- stra vila
scorre abbondante © colorita in mezzo a grandiose prospellive (1) i
Possiamo tirar subito una conseguenza importan- le dal punto di
vista pragmatlistico ; la speculazione è- impotente a condurci a Dio; noi
affermiamo la gran- de probabilità della sua esistenza in base alle
con- seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che
derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen- te, e lo vedremo
sotto, il pragmatismo non può darci più che una probabilità.
Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse conseguenze.
Col James egli rigetta le prove tradi- zionali dell'esistenza di Div e fa
una guerra spietata alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli
idea- lisli trascendentali. Per lui la comune insufficienza
delle prove tradi- zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti,
sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non ul
nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar- gomento cosmologico
inferisce Dio dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento
fisico-teleologico è costruito arguendo, in maniera affatto
generale, dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-
‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal
momento che si possono applicare ad'ogni sol- ta di mondo, buono o
cattivo che esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie
di argomen- tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,
al bene e al male che esso racchiude: è un Dio amorale, che si può
inferire così bene da un universo ollimo come da uno pessimo. La
inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel
l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a Dio attribuli
morali sono condannati a ;certo insuc- (1) Ivi, p. 30. (2)
JAMES, L'Experionce religieuse p. 117. 4
Se | il |
cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mon- do come si
può giungere a un principio morale gli esso? Ebbene, non è di codeste
prove che noi abbia- mo bisogno; non chiediamo una prova
dell'esistenza di Dio che sia valida per ognì universo pensabile,
mù per il nostro mondo aituale, che tenga conto del con- tenuto
concreto, reale delle cose che noi: esperimen- liamo; ci occorre un Dio
il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo vi è un polere capace e
disposto a dirigerne il corso (1). È È Il dialogo: Gods and
Priestes (Dei e Sacerdoti) (2) è lullo una critica birichina degli
argomenti raziona- li (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi
pa- re che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esi- stenza
dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero, e che ci starebbero a
fare i sacerdoli? » Un argomen- lo puerile, a dir poco, come si vede.
Eppure Anlino- ro risponde: «Questo argomento è... migliore della
più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre Antinoro dice: .« Finchè
il Dio ignoto non è desideralo è inco- moscibile » (4). Noi sappiamo che
« inconoscibile », per l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma
dunque il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio?
Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli dei sono reali in
quanto responsi ideuli ai reali biso- gni umani, che ci funno realmente
agire» (5). Dio 6 un postulato della fede ed è delia stessa nalura
dei postulati della scienza (6), cioè una supposizione uli-
(1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82. = lo non
posso indugiarmi a esporre largamente le teorie re- liglo5e dello
SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola non basta a ciò, Del
resto non è neanche necessario, perchè lo SCHU.LER, quando pula di
religione. si appoggia spesso al JAMES, €, sostanzialmente, lo
riproditeo (2) ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay XV, pp.
326-348. (3) Ivi, p. 227. (4) Ivi, p. 347.
(5) IVI, pp. 340-341: «They (gods) nre real as the ideal re-
sponses to real human needs, which really move us, (6) Studies in
Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La tolontà di credere del
James, = "i si » etiam Lu e e ir__nnnn_nn_
RPEI EN oli Pragmulismo le, una domanda di qualche
cosa che corrisponda alle esigenze dell'uotno e mella armonia in una
speciale sfera di esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà, come
s'è veduto: È è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la
soslanza è allivilaà, e l'attività non esiste se non come attività per
noî. La domanda di Dio non è la doman- da di un essere lrascendente, ma
di uno perfezio- È nante la esperienza nostra (1). Perciò la
questione: LI, Dio esiste? significa: Qual'è il valore per noi del
con- X cetto di Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol- | le,
qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi ai quali lulte sì possono
ridurre? E qual'è il migliore fra i concetti di Dio? $ 9. —
Nella filosofia spiritualisla noi troviamo due specie di (eismo in senso
largo: il leismo dualistico, o teismo propriamente detlo, e il leismo
monistico o panteislico. Il primo è la elaborazione teologica della
filosofia scolastica, il secondo è proprio dell’idea- lismo
posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o ideali- smo simpliciter, che si
voglia chiamare (2). Esponia- noli brevemente ed esaminiamone il valore
alla luce del pragmatismo. >» Il'ieisino scolastico insegna che
Dia è la Causa Pri- ma, la quale differisce tolo genere dalle sue
creatu- re. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è la fon- le
di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e assolutezza,
immaterialità e semplicità, infinità e per- sonalità metafisica, ecc.; e
degli attribuli morali: sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia,
im mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene, applichiamo a
- (1) ScuuLer, ivi. Considerazioni simili a quelle del James
contro ia visione materialistica della vita nol troviamo li — Humanism,
Ess. XIV, pp. 250 seg.: «The ethical significance. of immortality ». Vi
dintostra che la vita non è degna d'esser "vissuta se non sono
conservati i valori ideali. / (29) JAMES, A Pluralistic Universe
pp. 23-24; Der Pragma- lismus, VIII Vorl. p. 192. a (3) JAMES,
L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376; Saggi prag- mat., IL metod. pragm.,
pp. 25-20. ) ar n .
70 La Religione nel Pragmatismo RO T questi attributi
di Dio il principio del Pierce ec vedre- L mo che fra essi ve n'ha di più
e di meno importanti. i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che
diven- N gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol
attributi morali? Quali effetti possono produrre sulla nostra condotta?
Che cosa importa per la vita del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti
a sè stesso, che Dio non appartenga & nessun genere ecc. ecc.?
«Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlima- mente? Quale speciale
cosa posso io mai fare per adattarmi alla sua « semplicità? n «O
come devo de- terminare lu mia condotta da qui innanzi se la
sua «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan- ‘do di quesli
attributi ci si desse una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo
confessare che essi non hanno senso, 4 poichè sono lontani dalla
morale, lontani dai bisogni umani (1). ‘Non è così degli
attribuli morali. Essi risvegliano il limore e la speranza e sono il
sostegno dell’ani- ma. Se Dio è santo non può volere che il bene;
se è onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la sua onniscienza
ci vede nelle tenebre; per la sua iustizia, Egli punisce le nostre colpe
anche segrete. ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile e
quindi possiamo contare sul suo amore. i Iddio, nella creazione, si è
proposto come fine la manifestazione della sua gloria; « questo dogma
ha certamente una qualche elficace connessione pratica ©. colla
vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen- | za che ha esercitato
sulla storia ecclesiastica e per ? ripercussione sulla storia degli Stati
curopei» (2). Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezio-
ne monarchica del mondo, di una divinità con la sua corle e le sue pompe
non corrisponde più alla nostra mentalità, ma gli aliri attributi hanno
un valore re- ligioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica
(1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod.
Pragm. (op. c.), p. 25-27. .(2) JAMES, L'Expérience religicuse, p.
376; Il Metod. Pragm. (op. c.), pagina 27-28. i LA
4 s = lì Pragmalismo 1 polesse stabilire
in modo irrefutabile che Dio li pos- e) siede (gli attribuli morali},
darebbe una base solida si alla religione. Ma, come per
l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli allribali morali essa ba fallito nel
tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare
d storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È suno.
Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita della
bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella sua
essenza! (1) Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in
quanto sono dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi
du- (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto
ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A livo e
fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» (2), non
quindi in base a speculazioni, | Pi - ma per la loro efficacia
pratica. |, V'ha di più. La concezione leistica (scolastica)
di- pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una dall'altra,
anzi come affatto diversi, mette il soggel- lo umano fuori di ogni contatto
con la più profonda realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal-
. l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in - lo
unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- : carci, si
afferina, (conte possa toccarci è un misleto) ma Lui non può essere
affetto dalla nostra reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i
due terni. | ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore del
nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma nostro maestro e giudice,
ll nostro dovere inorale è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi,
di aderire pussivamente alle verità che non noi faccia > mo, ma
che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» (4). Ebbene, lutto
questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente all’animo
dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, | con la
sua creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES, L'Erper.
relig., DD. 370-977. “26 o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 .
Ca ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i | (4)
James, «Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |
72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed
escatologica, col suo gusto per le ricom- pense e le punizioni, col suo
considerare Dio cone un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al
piu di noi come se si trattasse di una religione selvag- gia di
stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evolu- Zionismo scientifico e lo
marea monlanie degli ideali delia democrazia sociale hanno cambiato il
tipo del la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico è
vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mon- do dev'essere più
organico G più intimo. Un creatore esteriore e lc sue islituzioni pussono
essere professa- le ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule
che sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è lontana da
esse, non lano più adito nei nostri cuo- sti (1). Quel magnifico uomo nou
naturale (2) che è il ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello
delle idee morali correnti e perciò condannato dal- l’'alinosfera morale
regnante, divenula per noì indi. spensabile. «I frulli che un
tal Dio ha dato ai nostri avi hanno perduto ogni valore per noi, le idee
morali e sociati nostre ci costringono, sc abbiamo bisogno di Dio,
a foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli ideali del
lempo nostro (3). Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto
la possibilità di una più intima Weltunschauung; la vi- sione
panteislica di un Dio immanenfe come sostar- za inlima del mondo, e il mondo
come parle di quesia profonda realtà. Questi concezione hu assunto
due forme diverse: la monistica e la pluralislica (4). (1)
Ivi, pp. 29-30. — Lo stesso pensiero è espresso più lar- gamente in:
L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la Saintele, pp.
250-284 (2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., p.
24. (3) JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto che”il
Dio tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè così
porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare «il
complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una data epoca,
l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quel- la brutta cosa che
tutti conoscono, non credo che sia esatto il dire chè il James giudica di
Dio in base ad essa. Cfr.. L'Erpér, relig., 1. c. (4) JAMES,
LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la sostanza umana (e
mondia- ©. le) si identifica bensì con Ja divina, ma non
diventa veramente tale che nella forma della totalità. Lo spi- -
3 rifo finito non ha realtà che neila comunione con lo pi
spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente È solo
quando è esperimentato nella sua assoluta l0- rà lalità. Pev il
monista essere significa due cose: se si È predica delle cose
finite significa: essere un oggetto Ì dell’Assoluto; se si predica
dell’Assoluto stesso vuol i dive: essere il pensamento dell'insieme
degli oggetti. " LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente
come noi, nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una
storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e asso- julo sono la stessa
cosa espressa con nomi diversi: " pensiero e pensato (Gedanke
und Gedachles). «Quale grandiosa concezione nella sua terribile unità!»
esela: ma il James (1). Quale intimità fra il mondo e 1 AS- solulo!
> Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI
St x. milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà
il divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo monarchico
(2). E in vero: per lassolulisla noi, POSI ad uno ad uno nella
nostra finilezza empirica non abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per
far (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro indi- vidnale
con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'As- Ea solulo è noì e lutte
le allre apparenze, ma non è I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel
tutto TION x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua-
Fat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam wr mentem
conslituit — ha scritto lo Spinoza, il primo ; grande assolulisla (3). La
vera conoscenza di Div = serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che
le cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han: ‘no verilà
(4). L'Assoluto — secondo il Taggarl — non è processo, ma stato immobile:
il movimento (1) JAMES, ivi pp. 34-37, (2) Zbta. (3) James, A
Plural. Univ., pp. 40-47, (4) Ivi, p. Di. » DI art ri È
aaa” * -- ul = Pa. ASTRA La Religione nel
Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella sua
immutabili È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più DA
estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè una
persona, ne una collezione di per- sone, nè vero, nè bello, nè buono nel
senso che noi diamo a queste parole? — come. ha scritto il Brad-
ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi- sico incapace: di
odiare e di amare, di soffrire e di desiderare? (3) L’Assoluto non può
essere personale nel senso ordinario della parola; dunque non può
interessarsi delle persone: la sua relazione con ess? è tutt'al più una
relazione di inclusione, puramente logica, quindi, non morale (4). Io non
posso avere nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha co-
mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu- dine non s’inleressa
di me come posso io interes- sarmi di Lui? (5) = Non solo
l'Assoluto non è un principio morale, ma non ha neppur valore
scientifico. Per aver valore scientifico dovrebbe essere un aiuto alla
compren- sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non è la
ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ; ticolare (e l'universo si
compone di cose particolari) > appunto perchè è la ragione esplicativa
di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore di una spiegazione
ge- merale che non spiega nulla in particolare? (6). È, come
si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat- lezza dei concetti
con i quali sì prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne deiermina
l’essenza, secondo lo Schiller. s (1)
JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay XII,
passim; (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e:
(Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE (3) JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER,
Ess. JV. (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287. | (5) James, A
_Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. — bp, 391; « If th» One is
neither of these {hings (beautiful and | good), I will not worship it.
nor call it Good. If it is indif- ferent to 9ur Gocd, I am indifferent to
its existence n. (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25).
db Ît Pragmatismo Ti) Ma c'è di
più. Uno dei problemi che ha maggior- mente alfalicalo il pensiero umano
è il problema del î male, il più fondamentale e il più pressante dei
pro- blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico.
Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» — Il
prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor- ge
dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza
e con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta,
senza limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se
Dio è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru
il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la periezione di
Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il primo altu di questa
perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il finito
sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede
7 queste schifose forme di vita che troviamo nella real- tà? (2).
Ecco il problema che nessun assolutista € . nessun infiniusta potrà maì
risolvere. Negarlo nou è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la
im- pertezione del tuito non è che apparenza, una illu- sione degli
esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è assorbito con Dio nella
sintesi superiore dell’As- soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma
ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.
L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita
del male che è nel mondo? ». Il lato pra- tico del problema, chie è il
solo veramente impor- tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò
che è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l
determinata nel suo essere e nel suo di- venire; ia connessione fra le
cose è assoluta, ogni —— evento è determinato da lulti gli eventi (3).
Non esi- lai” sad (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258.
nati (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda
è rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |
rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural. Univ., vp.
119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto, e non si
contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? » >
95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a La Religione nel
Pragmatismo ioni; i é che stono possibilità di nuove
connessioni; non vi è c ; DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP
DESeRa silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono
chimere. Ecco a che conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili
accuse ACCIAIO deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato
alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO amet no RO . Dal punto di vista
intel: ì es (1), E ris : ) 5 : CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL
SDOlai elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser- Di all'uomo.
Orbene, quantunque l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della
religione popo- laure ordinaria e non si debba confondere col Dio
del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa — ne vedremo più sotto il
perchè — tuttavia è stalo e può essere il Dio di una certa classe.
d'uomini, che in Lui solo trovano la pace {?). Ciò che sembra
logica- nente assurdo c impossihi può essere dimostraio in q
non le — dice lo Schiller ualche modo con una
fede eroica e palelica, Non v'è materiale così poco pro- Inettente
che non possa divenire il fondamento di una veligione. Non' vi sono
conclusioni così bizzarre che non possano essere accellale con fervore
religioso. Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfa- zione
non possa essere riguar data come un atto di cullo
(3). Perciò l’assolulo può esistere ed esiste come Dio se ha una
reale iniluenza s ulla vita umana, se è qual- “ehe cosa di
vitale e di valutabile pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni
ne ha dimostrato l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una
sicurezza assoluta che l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non
audrà in isfacelo sotto il COZZO (1) Zut, p. 110, (2)
Jul, pp. 110, Iii, 1923; Der Pragmatismus, VIII Vorl., ASSI, (3)
SCHILLER, S/ud. in Ilum., p. %6.
i Iîì Pragmatismo Ti degli clementi
instabili e fortuiti; lale sicurezza non può aversi che ammettendo
un'assoluta necessità e una interna coerenza del mondo, una
determinazione a priori del futuro. Vi sono anime che provano
un sentimento d’orgo- glio al pensiero di essere una parle, una
«manife- stazione », un «veicolo» o una ripreduzione della Mente
Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime stanche, accasciate sotlo il peso del
male, incapaci di trovare in sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita
si sfa- scia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo, co- me
una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo dei momenti in cui
aspiriamo al Nirvana, alla libe- razione di noi stessi dalla esperienza
finita. Questo stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì
certi temperamenti mistici ai quali è conforto ed ebbrezza il
sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche l’uomo col cuore e
con l’anima ammalati: che tutto è uno in Dio e che in Dio lullo è buono.
che in que-. slo mondo di apparenze, qualunque sia il nostro suc-
cesso, siamo sempre dei miserabili » (2). Vi è dunque un istinto
dell’Assoluto. L’Assoluto può servire all'uomo, e perciò, nonostante le
sue as- surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci dicono a una voce
il James. e lo Schiller — poichè gli istinti uma- ni sono preziosi ©
sacri (3) e tutto ‘ciò che opera è vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo
sotto le grandi ali della misericordia... del pragmatismo. ,
Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra concezione del mondo
e quindi di Dio. L’'Assoluto mena necessariamente all’indifferenlismo e
al quie- lismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti che non
rifuggono dal male della vita ma lo affron- tano pur nel dubbio di
trionfarne, esso è per le ani- me un oppio spirituale; è il Dio dei
deboli, degli stan- (1) JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., pp.
174-194, passim; SCHILLER, Stwal. in Mum., PP. 289-290. (2)
JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di questo singo- lare stato
d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig., Chap. X, pp.
353-358, (3) JAMES, Der l'ragmat., p. 176; SCHILLEK, op. c., p.
YI. fo) La Religione nel
Pragmatismo chi (1); il pragmatismo non può accertarlo. Si è
aC- cusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però. Non è a
credere che la dottrina pragmalista, rigel- tando VAssoluto e il Dio del
teismo monarchico, ne- ghi che il mondo contenga in forma di coscienza
qual- cosa di più grande e di meglio che la nostra co- scienza.
Forse che la nostra fede istintiva in esseri superiori, il nostro
persistente rivolgersi verso una società divina non è che una illusione
patetica di anime incorreggibilmente sociali e immaginative? (2).
No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia reale; per quanto
possano essere gravi le difficoltà che le si oppongono, l'esperienza
dimostra che essa opera. Il problema di Dio consiste in questo:
come elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare in accordo
con le allre verità operative? (3), Ebbene, è logicamente possibile di
credere in esseri sovruma- ni senza punto identificarli con l'Assoluto.
Il con- _celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idea-
listico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzio- ne del pluralismo:
è la forma pluralistica del pan- teismo religioso. Il pluralismo —
in quanto ha rapporto con la re- ligione — ammette col monismo la
immanenza di Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda delle
“cose, sostanzialmente identica con la vita e con l'es- sere più vero dell'uomo
(4), ma differisce inconcilia- bilmente dal monismo negli svolgimenti
ulteriori della lesi unica. — Per il pluralismo la vera realtà
delle cose è la loro individualità. Il mondo è collezione, non unità.
Ogni (1) JAMES, iui, pp. 176 @ 188. (2) Jimes, Her
Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER
pro- is contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine f
adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. — Per Îl res della citazione, vedi; A
Plural, Unlv., n° 133. Per E (3) Jamrs, ber Pragmat., p.
192. (4) James, A Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller parla
del Pluralisino in generale in: Stud. in Human D 907 è 459; vl
ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. plu- ralismo
con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina XX PI LA
SE cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un ambiente
esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU inclusive). Nessuna inchiude
lulte le cose assorben- done la realtà tutta, nessuna domina su tutte.
Men- {re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All form
(formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del plu- valismo è
caratterizzata dalla Zach-form (forma del le individualità o
distributiva, come altrove la chia- ma il James): è la forma dataci dalla
esperienza im- inediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una
repub- blica federale che un impero, un regno. L'unione delle cose
singole — atomi e unità spirituali — non è compenetrazione di tulte in
ognuna, non è il tipo del la unione monislica della tosalità-unità
(Alleinheit), non è complicazione universale, ma contiguità, con-
tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di unio- ne synechislica
(1), quindi vi è dislinzione e indipen- denza. Perciò nessun centro di
coscienza, nessuna azione puo lutto abbracciare: qualche cosa
sfugge sempre e non può mai essere ridotta all'unità to) Non c'è
un'assoluta unità causale del mondo; non cè un'assolula unila generica;
non e'è un'assoluta unità teologica e morale; non c'è un’assolula
unità estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale
(1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il «synechi- smo» è quella
tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea di continuità una delle
più Importanti in filosofia. Il continuo è inteso come qualens cosa le di
cui possibilità di determina- zione sono inesavribiti. (2)
Oltre questo synechismo — che è metafisico — ve n'è uno
epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica come
gradualmente approssimabile, ma non mai interamente taggiunsipilo dal
pensiero. I.'uomo tende a una interpreta- zione scinpre più razionale e
coupleta dell'universo, ma ogni fase del processo conoscitivo non è che
una razionalizzazione parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE
Pragmatism nel ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce
il | Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea.
(Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of
Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Lo; dra 1910: da essi
ho prese queste cliazioni n proposito del symechismo, dal
7 9 80 La Religione nel Pragmalismo
dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità, reali indelerminazioni,
reali incominciamenti, reali finì, roali mali, reali crisi, reali
catastrofi e reali scom- pi (2). Nel mondo accanto all'ordine vi è il
Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a bello il
brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque perfetta, unità, ma
molteplicità reale neil u- nità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi
sarà mai; forse non potranno essere liberate dalla di- sgregazione
e dal disordine che certe parli del mon- do, quelle alle quali si estende
la nostra allivilà uni ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà pos-
sibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma alla fine, non un
primo ma un ultimo (3); la salute — ogni salule, anche ia parziale — non
è necessa- ria, certa a priori, ma solo possibile. Nella concezio-
ne assolulista il fondamento della realtà è l’unità sta- tica; nella
pluralista sono delle possibilità, pure pos- sibilità. Il pragmatismo
riconosce un valore reale al- la prima, ma preferisce la seconda, come
più in ar- menia col suo temperamento, poichè essa è alta a
suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di esperienze future e
sprigiona in noi determinate al- livilà. Il suo effetto sull'uomo non è
il quielismo, 1a il lavoro strenuo, poichè com’essa insegna, da lui
{dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria pos- sibile a prezzo
di lotta contro i pericoli e la resi stenza della realtà ad essere
redenta è unificata. Così il jvagmatismo tiene Ja via di mezze fra
l'ollimismo — per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è
“sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute an- che parziale è
impossibile. Il pragmatismo è melio- tristi: per esso il fuluro sarà di
più in più migliore del vresente come il presente è migliore del
passato. E la possibilità anzi la probabilità della salvezza per
(1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal. Univ.
specialmente Zesi. VIII pp. 303-331. (2) JAMES, Will to Believe,
p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo Schiller
(1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180. _
i mo. il Pragmatismo 8
ja liberazione dal male e per la diminuzione della moltiplicità
non unificata aumenta in proporzione del numero e della bontà delle forze
iiberatrici. Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e
lot- tano con noi? Allora la incertezza della salute è ridoita
di mol- lo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buo- no.
Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipo- lesi di Dio; per questo
gli uomini religiosi del tipo pluralistice hanno sempre credulo in Lui
(1). Ma chi accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovru-
mane (2), deve elaborare il concello di queste in mo- do da accordarlo
con le esigenze e con le verità ope- rative di tale dollrina. Quindi: la
realtà divina (o le lealtà: vedremo più sotto se al singolare o al
plura- le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi- duali
inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussiste- re le possibilità, le
indeterminazioni, la libertà e quin- di la incerlezza del futuro;
dev'essere personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è
impossibile 1 mità con essa: in una parola: può e deve es-
SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente RT Ta Tio
onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla nostra natura;
noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen e
umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui
siamo Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f
apporti reali, non puramente astrat- CES col mondo deve esistere nel
tempo e una storia, deve quindi escludere la staticità
È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191. IESUe i celli accetta il pluralismo
con tutti i suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du
solo per rendere Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui
reli- Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al
tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo sulla AT i mezzo
— che è la via aurea — perchè conta a dleì temperamenti umani. I
più degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I SIANZA dei
due temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico
del telsmo,. Ivi, p. 193- Pragmatismo - 6 v
PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1 pragmatismo
È s2 La Religione ne ,” ed avere Un ambienté
esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi. essere, IN una
arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico, una conti
nuazione di esso (1). i ; Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può
con: cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente _. ‘dice il
James — purchè sj ammetta la sua finità; è Vunica via per sfuggire a
tutti gli assurdi e gli 1n- convenienti che por sè l Assoluto (2).
Tuttavia il pragmatismo inclina evidentemente al politeismo, alla
concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss! occupa di una frazione dell'universo;
© di una ge- rarchia di coscienze inferiori che vanno dalla c0- d
una suprema, senza soluzione scienza della razza ® | i a non
è infinita perchè di continuità; © la suprem infir ‘sintesi di
coscienze finite (3); © è — dice il Boutroux — ‘un sostituto
pragmatistico dell'Uno astratto degli idealisti; in essa € per
essa le coscienze inferiori pos- sono entrare in relazione fra loro,
amarsi e compren- dersi (4): sla qui il suo valore pratico.
‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto a rovarci che la
loro concezione del divino sì accorda perfettamente con la religione
pratica, con la espe- rienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la
teolo- ia orlodossa non inquinata dal veleno monistico. — «Ne
Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre Ce- Jeste del Nuovo hanno nulla
di comune con l'Asso- julo se non questo, che lutti e tre sono più
grandi dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche
fn 9” cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0
(1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318. (2) JAMES; Ivi, p.
310-311. 13) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV
Let ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner »:
133-177 0 oo : ì questa coscienza feclneriana « esistente
dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc con l'Assoluto dei
° rascenden- ‘ ° talisti, il James sveva già pirlato in una conferenza «
sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime | i |
mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr: (mortalità dell'anima » p.
199, (4) Op. c. Di JI. = Il Pragmatismo
83 di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente fini-
to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti locali e personali »
(1). La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio par-
ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po- veri framinentli
finiti del tutto (2). In nessuna religione il Divino, il principio
dell'aiuto e della giustizia, è ri- guardalo come onnipolente in pratica
(3). Il politeismo originario dell'umanità si è svolto solo
imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo stesso, in
quanto è veramente una reli- gione e non il tema di conferenze
universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un
primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre- sicdono alla
storia del mondo e la formano {4). Il tei- simo pratico e popolare è
sempre stato piu o meno francamente un pluralismo, per non dire un
politei- smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo
risullante di più principì indipendenti gli uni dagli al- tri, purchè gli
sì permetta di credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto)
sia il principio supre- mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E
vero che questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo-
sofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che ab- bianìo così
severamente giudicali. È «unico », è «in- finito »; l'idea che possano
esistere -più dei finiti nn è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto
che il po- polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti
di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà la credenza
religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in cui si
può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le
esperienze (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,
(2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa. e
svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le
Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp. 447-457, anno 1906.
(3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì. (4) TAMES, Der Pragmat., p.
192. (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.
pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@ en TEZZE
RR a ge 84 La Religione nel Pragmatismo
dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che esta: esisle
per ogni individuo una porsnza supe: riore & lui, e a lui favorevole,
alla quale può \.nirsl perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per
susci- tare la confidenza dell’uomo pasta che quel potere sia assai
grande, sia più grande dell'io cosciente, non è necessario che sia
infinito © unico. Si potrebbe conce- irlo come Un “ jo» più grande € più
divino, del quale io attuale non sarebbe che l'espressione in
piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di questi
«io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso- luta. Questa specie di
politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è ancora (1). La
credenza opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVI-
denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il mondo ideale è il
mundo reale, i supporre che le po- lenze spirituali intervengano nel
gioco delle forse tisi- Vide che a determinarne gli avvenimenti
particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del Divino e ì
praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.
smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono
persuaso che questa è L'ipotesi che sod- ita disfa un più gran numero di
legittime aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il
pragmatismo la fa sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da
ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate st Riti sanno
che nol abillamo in un ambiente spirituale in- visibile, donde ci viene
l’aiuto; che la nostra anima è misteriosamente una con un'animu più vasta
di cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che uesta
anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu- rale e più probabile è
ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0 nell'uno
e neli'al- } tro (2). 1:4% (i) gas,
L'Erpér. relig., DD, 194495 - 7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si
trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli.
— A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2
Giovanni Mul il quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di
religione ine L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To
credo che : unicamente un Dio finito è degno di questo nome »,
appunto perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.
* bd mici dissi a = o Ie Les E così
è sciollo il problema del male. Im questa con- cezione Dio non è
responsabile dell’esistenza del male, non lo sarebbe nemmeno se il male
non dovesse mai esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto,
- il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo prin- cipio in
Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale asso- lutaumente alla religione
— dice lo Schiller — come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin
dall'origine il mon- do è un insieme di principî distinti, che il male
non è parte essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di
Dio è salva: il problema teorico del male è- sciolto. E col
leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è essenziale, come parte
dell'Assolulo, il male è indi- struttibile; se invece è elemento non
appartenente al- essenza della realtà, noi possiamo sperare di
poter- Ì lo espellere (il male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a
le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee ha subito
l'influsso degli assolutisli, concepiscono di fulto il male come dovuto a
un potere che non è Dio e ne è in qualche modo indipendente: è
denominato variamente: «materia », « volontà libera », 0 « il dia-
volo ». La onnipotenza di Dio dei teologi non è quella dell’Assoluto:
essa è dipendente da necessità metafi- siche (2). HE
Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala col criterio del
valore pratico sulle rovine della critica. È dell'Assoluto e del
leismo scolastico e in armonia col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che
corrisponde alle. 4 esigenze umane del divino; è salva la libertà
del- l'uomo: è dato un fondamento alle sue speranze è al suoi
desideri di salule ed è resa possibile la massima. intimità fra il mondo
c Dio: intimità di sentimento e intimità morale, cioè la vera religione,
che tanto ha operato e opera sulla condotta. : Noi chiediamo ; « Di
che natura sono le reallà spl TOA =
(1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. . “A ()
ScHILLer, Stud, in Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,,
- -.86 La Religione nel Pragmatismo ; P,
rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James (1).
Chiediamo ancora: ‘ esistenza di Dio è un puro "contenuto
soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè am mettiamo bene che
l’azione di Dio, nell'esperienza re- | ligiosa, è reale, che ha
un'efficacia reale e che tutto | accade come Se una forza sopramondana
agisse diret- tamente sul mondo dell'esperienza umana (2); am
mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale va- lore pratico quando
è affermata con fede, specialmente coloso com'è quello del pluralismo
; ‘in un mondo peri ina noi sappiamo dal James stesso « che
certi oggetti ovocano in nol delle reazio- uramente
intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o
reali (3). Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà
sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen- dente per
sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in- dipendente solo perchè
noi, con Patto di [ede, V'alfer- - miamo lale? e
TS il pragmatismo questa domanda non ha sen -S0; richiamiamoci alla mente
la sua dottrina della verità, della realtà e della conoscenza.
Una dottrina che nega il valore rappresentativo dei concetti e
professa il nominalismo; che dichiara di te abbandonare la logica
francamente, recisamente © irrevocabilmente (4) » non può condurre che
all'agno- slicismo e allo scetticismo. È Ben poco ci rimane da dire
dell’applicazione pragmalistica del criterio delle conseguenze alla
reli- gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che
cos'è la religione? È assai probabile che nen e che quindi è
impossibile definirla. « Religione » non designa un principio unico, ma
piuttosto una collezio- ne: non v'è un'emozione religiosa elementare,
come (1) L'Expér. relig., D. 136. (2) James, L'Erper.
relig.. D. 433, (3) Zut, p. 45. ù (4) A_Plur, Univ., p.
24. arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-
Il Pragmatismo 87_ non esistono nè un oggelto
religioso nè un atto reli- gioso specificamente determinati. Se è
impossibile da- re una definizione astratta della essenza della
religio- ne non è però impossibile delimitarne il campo e in-
chiudere in una formula i lraiti caratteristici empimci délla religione.
Una divisione salta subito agli occhi: tra istituzioni religiose (0
religioni stabilite) e religioni individuali (0 personali). La religione
stabilita è un in- sieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di
sacrifici propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si
può definirla: un'arte pratica di assicurarsi il favore della divinità,
La religione personale è la vita interio- re dell'uomo religioso;
gli atti che essa produce sono | personali, non rituali ;
l'individuo sbriga da sè i pro- pri affari con la divinità ; e la chiesa
coi suoi preli, coi suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari
passa in ultima linea. Si può definire: «le impressioni, i sentimenti,
gli atli dell'individuo preso isolatamente in quanto si considera in
rapporto con ciò che gli ap- parisce conie divino » (1), comunque poi
s'intenda que- sto divino: come legge dell'universo, come anima del
mondo o come un Dio personale. Parliamo anzitutto del valore della
religione in senso personale e poi del valore delle religioni o
istituzioni religiose. — Per quanto grande sia la differenza con
cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli altri elementi del
pensiero, anzi, per quanto diverso sia il principio stesso religioso nella
molteplicità delle sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi
possiamo affermare che le credenze più caratteristiche della vita
religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che una parte d'un universo
invisibile e spirituale, dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine
dell'uomo è l'unione intima, armoniosa con questo universo.
(1) James, L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons exclusivement
par le divin une réalité première de telle na- ture que l'individu se
sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle ‘une attitude solennelle
et grave, en Jaissant de coté tout blasphème et toute plaisanterie » (p.
34). — Son io che sot» | tolineo. (2) JAMES, L'Expér,
relig., P. 406, tas dee tie. nea
880. La Religione nel Pragmatismo 9.0. La preghiera, cioè la
comunione con lo spirit dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente
una ; legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne i risulla
un influsso di energia spirituale che può mo- “A ‘ dificare in una
maniera sensibile (anto i fenomeni materiali quanto quelli
dell'anima (1). (ei Nella valutazione di queste credenze il
criterio non sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eolo-
gico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce.
l'albero. E poichî nella religione il senti- mento vi ha la parte
fondnmentale, vediamo qual'è il valore affettiva della religione. Tolstoi
ha detto che Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli-
gioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dine- mogenica che tonifica
e rianima la potenza vitale: aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli
oggetti più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se la
religione non avesse che questo valore soggettivo, IR
non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto
intellettuale, vera 0 falsa che cessa RAI — fosse, nol sarebbe meno una
delle funzioni biologi- UU: che più importanti della specie umana;
ciò che ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non
è 373 Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2:
non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2). Ma la religione ha
anche un'immensa fecondità pratica sociale. JI frutto della
vila religiosa è la santità, che inchiu- de in sè tutto ciò che di meglio
ci abbia dato la sto- ria. La santità ha avulo bensì delle
manifestazioni ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE
n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive- lavo nei santi dei
precursori © dei creatori. La san- lità accresce nel mondo în somma di
energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con
la (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le
varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza e per quali
ragioni. 2 (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas
dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire
que l'on s'en serta, sua forza d'animo, col suo amore eroico
pei mise- rabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è
un fallore essenziale del benessere sociale. La reli- gione è la
condizione necessaria di certi effetti, la «fonte dei quali nè
l'individuo nè la società hanno sa- | puto trovare altrove: il
disinteresse, l'energia, la per- severanza (1). : 2 BAR Olire
questo valere affettivo, o biologico, indivi duale e svciale, la
religione ha anche un valore in- lelleltuale? Questa questione si divide
in due — dice il James: — «Solto la moltitudine delle credenze vi
sono delle affermazioni comuni? » E: «sono vere tali affermazioni?» La
risposta alla prima questione è affermativa: in tutte le religioni vi
sono due stali —»- —. d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che
<S in noi c'è qualche cosa che va male, e il sentimento che noi
siamo salvati dal male entrando in rapporto con esseri superiori — con
qualche cosa più yrande di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi
della reli- gione personale e il perchè del suo immenso valore
sulla vita. Ma che cos'è questo qualche cosa di più grande? È reale o immaginario?
Come possiamo en- {rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la
verità della religione? Xispondeve a quesle questioni
impiicile nelia se-. conda è costruire delle sopracredenze
(surcroyances) individuali e collettive, tutte buone se aiimentano
il nucleo vitale della religione. Vi possono essere e vi sono di
fatto tante aggiunte individuali alla credenza unica quanle sono le anime
o i lipi religiosi (2), Il «rapporto col divino potendo essere, o essere
inter- { pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale,
«Si capisce come possano nascere delle costruzioni 7A _ losofiche e
leologiche — delle quali abbiamo visto | Valore — e anche come sorgano le
Chiese (3). . James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil
SA (1) JAMES, L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX.
E) (2) JasrEs, ivi, pp, 406 e 423-125, — Ci è nota la sua
croyance. 0% ‘La Religione net Pragmatismo pragmalisti
— non ama — a dir poco — le Chiese, con la loro organizzazione, coi loro.
dogmi, con le loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita
inte- AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es: sere
giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti della vita
religiosa sono sommessi alla giurisdizione del buon sense (2) e dei
pregiudizi filosofici e istinti morali — dice allrove (3). Ed essendo
questi pregiu- ‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti,
essi stessi, dî una. evoluzione empirica incessante, anché le idee
religiose si andranno incessantemente modi- ficando. Dal giorno che ìi
frutti di una data forma re- ligiosa perdono ognì valore, dal giorno che
la vec chia credenza è in contraddizione con un nuovo idea- le; dal
giorno che la ragione la dichiara lroppo pue- rile, troppo assurda o
troppo immorale... essa cade trascinando, nella sua caduta, il Dio creato
dall'uo- | mo per «servirsene » (4). E noi confessiamo che in i una
dottrina interamente antropocentrica, nella qua- d le l'uomo è la misura
di iulte le cose, cioè, le esi» È enzo, i desideri e gli interessi umani
nel modo che s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino
& un certo punto: Ed è naturale che il pragmatismo creda di
fare un mondo di bene alla religione € alle religioni. Ci dice lo
Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha dimostrato che la volontà di
credere sta. ulla base, non solo della religione, ma di qualunque -
gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi, la sfera dei
iudizi di valore non è coestensiva solo | |» alle verità religiose, ma a
qualunque verità: la fede i lia così cessato dì essere un ‘avversario e
un sosli- i | futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo
| essenziale. ‘ Come potrà la ragione contestare la validità
della dor: L'Erpér. relig., speclalinente Chap. IK, pp.
281-293: IA Ivi, p. 293. (9) /vi, p. 281. 7 (4) Ivi, p.
272. — Pel «s î actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita ancora il Lepba
L lì Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla
sua stessa validi- tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni
(concrete) possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che
l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi del- la nalura umana e
verso le evidenze e i metodi delle religioni. 1l pragmatismo, affermando
il fatto reli- gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza
inte- riore e dei risultati individuali e sociali, rende vani gli
altacchi razionalistici e mette la religione al sicu- ro dalle
confutazioni dialettiche. Il pragmatismo inol- (re, come si è mostrato un
eccellente « eirenicon » tra le dottrine filosofiche, apparirà un
«eirenicon» non meno efficace tra le religioni. Non è vero che
lutte operano (in senso pragmatista) in una cerchia più o meno
vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro parle veramente vilale,
attiva: e che importa sc dif- feriscono teoricamente? Terzo beneficio:
il: pràgma- lismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in
esse di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed
csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce. — Che cos'è la parte
non-funzionale della religione? È il suo lato teologico (2). 18 qui una
tirata contro i sistemi teolo- gici, contro le infiltrazioni della
metafisica greca nel « Credo atanasiano » e contro l’identificazione di
Dio con «l'Uno». Già! — La conclusione possiamo ac- cettarla anche
noi, ma basandola su fondamenti af- futio diversi da quelli del
pragmatismo: «La reli- 5 gione più vera è quella che proclama una vita
mi- $ , gliore e la promuove» (8). ; (1) Stud. in Hum., pp.
352-353. | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p. 363. | ,..(8ì E la
conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri ligion in: Stud.
in Humarism, p. 369: «the truest reli tons that Which issues in and
fosters the best life», Rd A eri della
Logica formale nella con= Sommario: S 1. Caratt — { 2. La
validità formale. cezione dello Schiller. gi. Lo
Schiller (1) sotto il nome di « logica formale» inchiude e condanna non solo
quella che da al tri è designata col nome di « logica formalistica »
mn anche la logica formale propriamente detta, e, cri
| licando e condannando quella, presume di aver cri ficato e
condannato anche questa, cioè, in blocco, . tulla la logica tradizionale
e classica, alla quale do- vrà sostituirsi la logica psicologica, 0
psicologistica, cioè quel complesso di leggi o regole o norme del
pensiero che risultano dall'analisi psicologica del pen siero,
ossia dalla considerazione dei processi del pen- | siero, non in
una pretesa forma di esso di materia idel concetto, del giudizio, del
raziocinio con: siderati astraltamente nella loro forma verbale di
temine, proposizione € sillogismo considerai9 esso pure, a sua volla,
astrattamente), ma nel loro sor- gere e syolgersi allraverso la fitta
rete psichica di Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello
psicologi smo e della forma speciale di esso offertaci dal prag-
matismo, insomma. Una logica & posteriori risut 1) F. C. S.
SCHILLER. — Formul Logic. A sclentifle and s0- cial Problem. ——> Un
yol, in:8 pp. XII-123, Macmillan and 0.9, ‘London 1912.
stinta dalla | er selezione, non a priori, una logica,
pare, SOA sì, ma indotta in base a postulati, non dedotta. Il
pensiero puro, così come la forma pura del pensiero non esistono; quindi
ogni logica è neces- sariamente empirica nella sua origine e nel suo
va- lore. E così con la logica sillogislica è condannata anche la
logica del concello col solo semplicismo che abbiamo imparato a conoscere
altre volte nello Schil- ler. Ma, evidentemente, prima di condannare in
bloc- co, bisogna vedere se tra la logica formale e forma- lislica
c'è idenlità, o se non c’è invece una diiferen- za radicale che impone
una pertraltazione a parle e radicalmente diversa di quelle due
discipline. La lo- gica formale vera è la dottrina della forma unica
del pensiero: il concelto, come sintesi di individuale c
come concelto universale contro, come scienza del concetto puro. Per essa
la forma verbale in cui si suole incarnare generalmente il concetto non
ha nes- sun valore logico e si guavda bene dal cousiderane le
distinzioni verbali come distinzioni conceltuali 0 l’identità di forma
verbale come identità concettuale. La logica forinalislica invece,
trasporta nei concetti le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta
nei giudizi le modalita e le specie delle proporzioni, lra- sporta
nei raziocinì le figure e ì modì dei sillogismi: anzi la distinzione
stessa delle forme logiche in con- celti, giudizì e raziocini è nient’allro
che una proie- zione di forme verbali nell’altivita del pensiero.
Per- ciò la logica formalistica qua talis, non ha valore
speculativo (logico in senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci
dà, Massunti, con piu o meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti dei
quali l'uomo 51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila
"a discussione delle idee; è un'arte in senso di tecnica, 9 meglio,
è una collezione (non connessione) delle forme del discorso empirico
umano, una specie di leltorica 0 grammatica messa a servizio non del
par- lur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è fino a un
certo punto praticamente utile come tutte le. discipline
descriltive assunte a discipline nurmative d universale,
come storia o guidizio sintetico, a priori, . DA | Sèhiller e la Logica
Kormale e precettistiche, ma non ha valore speculativo, ron
ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del pensiero
necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le forme esteriori,
arbitrarie è quindi componibili € combina: bili all'infinito. -
. I Jo Schiller na un buon gioco @ mostrare il caral- tere
arbitrario di questa logica, la astrallezza di essa, la îmulilità e
perfino il danno non leggero che essa può anrecare allo sviluppo Serio
delle scienze © della mente individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs
nol .? ossible t0 abstract {rom the aclual use of the logical
| material and lo consider — forms ol lought — @ 4 Ihemselves,
voilout incurring thereby @ total loss, 1’ hi
nol only of Wrui, but also of meaning ” (IX). i s 2. — Ma con ciò
non si è déito che ba ragione @ | ‘non riconoscere altre logica ché
que:lu psicolugica, | tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale
cu- | mè la chiama erroneamente lo Schaller), c'è la logica i
formale vera secondo la quale la maleria è fusa nel la forma, poichè per
èssa la forma logica, concel- ‘tuale, sintesi di materia e forma, di
pensiero e lup- ‘esentazione: è forma Non astratta me concrela
; e tulto il pensiero reale storico perchè
appunto sun: f (esi univarsale individuale: è il razionale-reale, il
fl concetto. È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0
psicologi- | stica! Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di
# meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì trova
neanche quella apparenzà di necessità e di as- Solutezza che la logica
tradizionale ci oifre, sia pure solto una forma astratta e verbalistica.
Finchè non si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro
e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà nulla più che un
saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario, dall'astratto ali’astratto e un
aggiungere al mele 131 nuovo male o una forma nuova del male. L per
yite- nere questo scopo non mette certo conto di scrivere un grosso
libro come questo. Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che
lui ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1o- Ml
Praqmalismo' (h) gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia
pos- sibile considerare la «validità formale» come una cosa a parle
e indipendente e astrarre dalla verità «materiale »; 2° la credenza che
sia possibile tratta- re la iogica senza riguardo alla psicologia e di
aslrar- re dal contesto atluale in cui le asserzioni sorgono,
tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc. (P. 375) e se avesse
poi esaminato con più spassio- natezza la logica del concetto-sloria, non
avrebbe for- se futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi-
zionale cd avrebbe trovato che parecchie delle sue critiche sono state
già fatte da altri, i quali non sen- lirono però il bisogno di
sostituire, come fa lui, le elichelte psicologiche alle elichette della
logica for- malistica. In questo libro c'è molto del buono anche
perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una domanda sempre
crescente di concretezza ce, anzi, pare a volte che lo Schiller abbia
colto il centro della critica e della ricostruzione. Purtroppo i:
pregiudizi pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un punto
di vista superiore; anche lui, pur nella lotta contro gli schemi e !e
elichetle, maneggia schemi ed etichette; meno mole, anzi molto bene che,
da buon pragmatisla, ne è consapevole. := & | La
reazione contro l'intellettualismo. — Verità e ‘utilità. | gi, —
Del pragmatismo non si parla più che com di un indirizzo di
ricerche e di asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto
d'ora di celebrità pei scomparire per sempre e senza visibili influssi
sullu svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une
reazione all'intellettualismo razionalislico ed empiristico, che non
sapevano valutare l'attività de: soggetto nella creazione del mondo del
pensiero € della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:;
nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha sapulo nè volulo
evilare, con una doverosa distin: zione dì logica e psicologia, lo
scoglio terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte
lt cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È
inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto
dell'individuo, © ad espressioni del la nostra soggellività volitiva e i
giudizi scientifici speculativi a semplici giudizi morali; negala la
pos sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima immanente
e ascendente dell'essere o del divenire con l'affermazione della
universale soggettività e Ie ‘natività; posto l’utilitarismo a base di
ogni costruzio: ne concelluale e considerati, quindi, i concetti
com‘ funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale,
il pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può
essere metodo per sè, I i UT Il Pragmatismo : i lla vita
colta non filosofia sc IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei
s o ve omalismo profes- E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso
non ha sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan: dog int aa
istcao mon è forse una dottrina? Magli vamestto he riassume il me-
Non è una dottrina la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er
6 da acco utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza
in: ilitari ico e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo
ab: Dima definito, credo, Felino due aspetti più es- ziali la
teoria pragmati nd AR Sa CLES Della quale non è qui il luogo di
TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D
pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al- l'eccesso opposto
nella sua reazione all intellettua- lismo, perchè ha negato addirittura
il concetto come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso,
vano, perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in- dirizzo,
quella che, purificata di tutto l’utilitarismo + materialistico che
troppo spesso la intorbida, si può esprimere nelle parole evangeliche:
«Dai frutti co- noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso
spirituale altissimo della parola — è un aspetto della verità: la
verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non
dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare,
perchè e in quanto è utile, ma è utile perchè‘vera. .La verità
metafisica e logica di una idea e di un Sistema d’idee è il fondamento di
tutti gli altri at- tributi dell'idea e del sistema e di tutte le loro
cor- rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.
Yogi Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie: « The
Pych Zev. » Parini, Sag- gì pragmatisti, R. Carabba, Lanciano; Ugo
SPIRITO, JI pragmatismo nella Jilosofia contemporanea, Firen- ze,
Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su James, Milano,. Ed. Athena
1924. | Segnaliamo poi, nella ricchissima bibliografia del-
argomento — oltre ui molti scritti segnalati occasio- almente nelle note
— le seguenti opere: G. VAILATI, Scritti, Firenze, Secher 1911; G.
Papini, Sul Pragma- | lismo, Milano, Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato
‘dal Vallecchi nel 1920); M. CALDERONI è G. VAILATI, IL $ pragmatismo,
Lanciano, R. Carabba, U. SPr- “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a
cura di O. CAM- 7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», IT.
I. III. — INDIVI - LUO
LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo anglo-americano. Pragmatismo
e Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA
REALTÀ.La condotta.La dottrina dolla verità. La dottrina della
realtà. LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. Lo preoccupazioni etiche e
religioso. L’esistonza di Dio. Il concetto di Dio.Religione e Religioni. SCHILLER
E LA LOGICA FORMALE.Caratteri della logica formale nella concozione dello
Schiller. La validità formale Ù 5 5 9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione
contro l’intellottualismo.Verità e utilità . È. NOTA BIBLIOGRAFICA . I
MAESTRI DEL PENSIERO. VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE i) ei n VALENTINO PICCOLI À { Bi:
INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA. ROTTA PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY |
IALENTINO SETCOO LI ! GIUSEPPE TAROZZI | PLATONE LOCKE | S: PICURO.
E. PAOLO LAMANNA AAA ° "KANT 6000 V. ARANGIO-RUIZ na *
LOTINO GIUSEPPE MAGGIORE |» FICHTE HQ P.
E. CHIOCCHETTI AGOSTINO PIETRO MIGNOSI E. CHIOCCHETTI SCHELLING
| "S TOMA ASO GIUSEPPE MAGGIORE | CHIOCCHETTI HEGEL i S.
PONAVENTURA Big ni x TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa
PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI o SPINOZA STUART MILL “50 »ALENTINO
PICCOLI E. MORSELLI Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P.
ROTT _ SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER P.
LAMANNA — KA MAGGIORE — FIGI TITE . E. CHIOCCHETTI — S.
TOMASO VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI. COMTE
BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio
Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know
that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher,
and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica,
Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Chiodi: l’implicatura
conversazionale dell’esistenti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Corteno
Golgi). Filosofo italiano. Grice: “I
like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian
language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to
play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians
only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent
‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” Frequenta le
scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio
sotto la guida di Credaro, che lo avvia allo studio della filosofia. Dopo aver
conseguito l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò sotto
la guida di Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e
filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò/ Qui entrò
in contatto con Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi
allievi Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti,
con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il
partigiano Johnny, il personaggio di Monti.
Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, C.
entra far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di
battaglia di “Piero”. Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi
compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck.
Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio.
Era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera,
giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il
nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un
battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito,
impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle), insieme ad altri
patrioti. Narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile
nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei
primi memoriali di deportati politici italiani.
Dopo la liberazione di Torino, C. torna ad Alba. Si trasfere come insegnante al
Liceo di Chieri e poi al Liceo Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne la
libera docenza e fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della
storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino. L’Accademia Nazionale dei
Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la
filosofia e negli fu conferito il Premio Bologna. Alla ristampa di Banditi C. premise questa
avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si
rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli
odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro
senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione
permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la
giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano
ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia». Raccolse grande stima ed affetto tra suoi
allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido
esempio di tolleranza e serenità di giudizio.
Attività filosofica L'attività filosofica di C. si concentra
specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte
delle sue opere è dedicata a Heidegger.
Egli è il primo traduttore in italiano di “Essere e tempo.” Proprio a C.
si deve la definizione della terminologia heideggeriana in italiano, divenuta
poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione di “Dasein”
come “esserci”, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non
ancora raggiunta in questo specifico caso in altre lingue. Al filosofo tedesco
dedica anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger,
L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e fenomenologia. È, inoltre, traduttore di
L'essenza del fondamento e Sentieri interrotti. A Kant dedica, invece, La
deduzione nell'opera di Kant e ne tradusse la Critica della ragion pura e gli
Scritti morali. È infine da ricordare il suo interesse per Sartre, del quale si
occupa nell'opera Sartre e il marxismo.
L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita
di C.i, per cui il valore della libertà occupa sempre il primo posto. Non è un
caso che Fenoglio fa rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny,
proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di
vista la libertà». La sua unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non
solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Lajolo «Il più
vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità) e
da Fortini “un capolavoro.” Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come
nel comico». Opere C., Banditi, con
introduzione di Beccaria, Torino, Einaudi, C., Esistenzialismo e filosofia
contemporanea, Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici
Italiani, su restellistoria.altervista.org. C., Banditi, Torino, Einaudi,
Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati
politici italiani Esistenzialismo Heidegger Opere di C.,. Biografia di C. nel sito dell'Associazione
nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi Fenoglio C., su
centrostudibeppefenoglio.Antifascismo Filosofia Filosofo del XX
secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e
LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla
annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical
reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality,
maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chitti: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Citanova). Filosofo italiano. Grice:
“I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and
law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack
of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles
of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di
quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla
Gran Corte Criminale di Reggio. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli,
alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara
in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti
patrioti del tempo. Ferdinando I delle
Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese
Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, la principessa
di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come
avvocato, dopo la restaurazione ha la nomina di segretario generale al
Ministero di Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Hipman,
un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Coinvolto nella rivolta
contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, e quindi
privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di
ritornare a Napoli, ma ha l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale.
Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si reca a Bruxelles. In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di
economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si
fece un nome. Il governo belga gli confere la licenza di professare Economia
Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue
quattro letture sono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale»,
compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento.
Pubblica altre saggi ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli
conferì la carica di professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In
Belgio pubblica la maggior parte dei suoi saggi e strinse amicizia con GIOBERTIi,
che lo define valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a
Napoli ma rimane in Belgio. Altre saggi: “Trattato di economia politica o
semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si
consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali
dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del
Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of
Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì.
New York Daily Times pag. 4 Daily Free
Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for
Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley
Online Library Vincenzo De Cristo, Prime
notizie sulla vita e sulle opere di C. Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana,
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Per una rassegna delle
interpretazioni dell’azione economica corporativa si veggano i nostri :
Lineamenti di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale
Moderno, Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e
descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il
nostro studio : « Homo Oeconomi- cus » e Stato Corporativo in : Giornale
degli Economisti. Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi
italiani allo studio dell’economia corporativa, tralasciando di segnalare
gli studi, nume¬ rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi
di consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della stessa
realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V
Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, Arias G. : L’Economia
Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, idem. idem. Economia Corporativa,
Firenze, Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e Stefani A. : Scritti
cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. :
Cenni di teoria della politica economica, in « Giornale degli Economisti
». Classifica le varie politiche economiche. Carattere di quella
corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare
misure rispondenti, nei rami particolari, alla politica economica
generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni
sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di
interventi statali, in «Archivio di studi corporativi », Pisa; Borgatta G. :
Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica
corpo¬ rativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica
nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso: Le crisi economiche delV
ordinamento corporativo della produzione, in « Atti del II Convegno di
studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e forme delT
attività economica, in «Rivista di Politica economica » Secondo questo
autore J economia corporativa non è altro che un’ economia di complessi
economici, che dev’ essere studiata nella sua realta concreta,
prescindendo da erronee identificazioni dell individuo con la società e
di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo
corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in onore
di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il corporativismo
italiano pur traen¬ do alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal
Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto che
inquadra le sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo
conto degli interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività
nazionale, che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli
interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli
Espinosa A.: La forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze
Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in « Lo Stato »; Einaudi L. :
Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », ; e dello
stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », ; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista
economico, Padova, CEDAM, Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara,
S.A.T.E. e dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz.
dei « Problemi del Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz.
«Diritto del lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara;
Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica
corporativa, in : « Rivista di Politica Economica », (Ritiene questo A. che tanto la politica
economica corporativa, quanto l’attività corporativa come condotta
ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati di una coscienza
corpo¬ rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in
tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa
(all’autore parendo il più adatto perchè conforme alle direttive del
Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo
benessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo,
quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da
consentire una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si
mescolino precetti e teoremi, e peggio, non si confondano gli uni con gli
altri, è perfettamente legittimo fare della economia corporativa una «
economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico).
Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale
degli economisti»; Galli R. : Corso di economìa politica, Firenze,
Poligrafico Universitario, e dello stesso: Corso sulle imprese
industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino, e dello stesso : Scienza, critica e
realtà economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia
applicata, Padova, Cedam, e dello stesso A.: Il contenuto dell’ economia
corporativa, in ««Rivista Bancaria », ed Economia corpora¬ tiva e
politica economica, in « Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di
produzione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato come
inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche Ettore Lolini, a
parte la sua antipatia per la scienza economica tradizionale e la
notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i quali riescono
interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li- erali o di
altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un
carattere di socialità, che concili l’interesse privato con quello
sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla
totale abolizione dell’economia privata ed alla identificazione dell’
economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre
erroneamente al centro dell attività economica umana la produzione
e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’
interesse individuale e dell’ interesse sociale, perchè nello scambio,
mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del
tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei
valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa
economica privata coll’ iniziativa economica pubblica o statale,
bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬ nalità
economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni, di desideri e
di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che
costituiscono la base dello scambio e la molla del progresso
economico e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬
scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa
la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della
produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione del
prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro, del
capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari, porta
a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la definizione dei fini e
delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬ mica
col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con
la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia
pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬
sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la
funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo
economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la
parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di adeguare
l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr.
di questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia corporativa,
in « Critica Fascista »; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di
teoria e metodo¬ logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con
lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A
proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma
italica », e dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in
«Giornale degli economisti», (in
questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica
corporativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru- guier nello
scritto sopra citato ed anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra
anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico
nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre
1933; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », e,
dello stesso : Economia corporativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di
studi sindacali e corporativi», Ferrara; Spirito U.: La critica
dell’economia liberale, Milano, Treves, dello stesso: I fondamenti dell’
economia corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di
questo A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente
polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo. Nella critica
all’economia liberale, infatti non fa che ripetere, con sintesi
brillante, quanto è stato detto dai seguaci della scuola storica tedesca
e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa
la scienza economica con la praxis dei governi liberali e demoliberali. Nella
critica al capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale, quanto
il Sombart ha espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo
e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto contro il sistema
capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna
discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare
che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi
di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare
delle dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che rincalzano la
propria tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini
entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pensiero di
Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica
la quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis- sione
della corporazione come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il
partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e già discusso
ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere
nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per cui dopo
aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire
meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri grossolani errori
espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come
per es. su quelle in cui consiglia per il nostro Paese una
industrializzazione ad oltranza, la emissione di prestiti esteri, una
politica commerciale che sara forse realizzata, ecc (Tutte queste
idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni,
Firenze). Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit.,
Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso
citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e attualizzata,
in «Critica»; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo Stato in «La
Vita Italiana», novembre; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella
concezione corporatina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali
e Corporativi », Ferrara; Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà
Cattolica», e dello stesso: Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni (Archivio di Studi Corporativi) mostra come la formula dell
identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei liberali.
L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè
stesso. Il grande significato del Corporativismo è la disciplina
economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo
all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,
sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il nuovo modello
della realtà economica non potrà non essere anch’eseo, naturalistico e
deterministico: non c’è scienza senza determinismo. Caratteristica delle
conce¬ zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato
Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza
ideale con l’economia degl’idealisti non va assolutamente confusa con le
invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi chiedono
e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che hanno gli
occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista di
Politica Economica»). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo.
Integrando e correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera
l’economia corporativa come una economia non euclidea. Papi U. : Un
principio teorico deW economia corpo - rativa, in « Giornale degli
Economisti », e più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale
e Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova. (Il P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica
il concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria
dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento corporativo traduce nel
diritto positivo un complesso di norme di diritto naturale, che
presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto
corporativo, definizione giuridica della libertà economica c e sottopone
1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo corporativo si
risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione
nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica
economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il
dover essere della vita economica. Dover essere: razionalità
(teoria economica pura), eticità (politica economica). Le forze
direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano
regolatore). Vinci F.: Il corporativismo e la scienza economica («Rivista
Italiana di Statistica» etc.. Questo A., conscio delle interdipendenze
fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di
concorrenza mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e
l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni
e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬ l’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di
conciliazione in base a valutazioni complicatis¬ sime, a criteri di
difficile determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa.
Si espressero anni addietro a favore del contingente: Griziotti,
Finanza di guerra e riforma tributaria, in «La Riforma Sociale», pag.
150-174. Contro il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle
Finanze, Torino. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti
più seri): Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza
corporativa, in « Echi e Commenti », e dello stesso : Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi », Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo nelle
entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat. trib. »e dello stesso:
Lo Stato corporativo e la sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I,
357; Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, «
Relazione al I Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, e dello
stesso: Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in «
Diritto del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato
corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Finanza corporativa, in «
Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, ed infine, sempre dello stesso:
Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara. Fra questi autori la
corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.
Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata
in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che
trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che
riconoscono doversi inserire nell’ordinamento cor¬ porativo anche la
finanza allo scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono
caratteri fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo:
Eva¬ sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4 del
1929), e Genco («Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi
», Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per lo meno alla
riduzione degli organi finanziari statali ed alla loro sostituzione con
le Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere
impo- sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può
inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento
corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e rivoluzionarie
trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto politico,
riveste un con¬ tenuto tecnico con il quale male si accorda la
improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi- stazione di
essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri rimarrà
la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che in
materia finan¬ ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e
perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-
Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione
tributaria e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », e dello
TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria»,; Gangemi
L- rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-
Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello Stato
Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r”
cernii in «Rivista di Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili
(e una carica a fondo contro la funzione graduale, ransitona e
limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il
quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f
, 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e problemi della-
economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria Colombani (è questa una
diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine, si
segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni m7rzoT932 **
WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure
molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero
neppure in grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e
l’inade- guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche
a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal
modo animosità lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista,
che costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla
tesi riformista del Benini. La ritorma propugnata da questo autore
(studio cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e
coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito
totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-. Senza dubbio, la
scienza finanziaria ed il procèsso evolutivo della legislazione fiscale
degli Stati moderni pongono in evidenza i tributi globali e personali
come il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬ retta
in luogo delle imposte reali imperfette e causa di sperequazioni gravi ed
inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali,
integrati da una imposta personale, la complementare, che con i
procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura
che le consente di assolvere agli im¬ portanti suoi compiti.
Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini muterebbe
radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari,
per giungere ad essa, lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla
composizione, sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,
sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre,
per concepire ed attuare una riforma così vasta e complessa che le
condizioni dell’economia nazionale e della pubblica finanza entrino in un
periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui
il Benini è consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il
quale fra le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa
oppure il contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente
che trova riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze
pubbliche nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro
»); Idee generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario,
esposte al Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino
del Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le
finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930.
Il Griziotti, se non erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate
in modo da rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬
stema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia nella
ripartizione dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata
ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste idee
evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente
sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che
reggono l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si
aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato
». . Nello Stato corporativo anche la politica finaziaria deve
necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con quelle
del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine)
nè con quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta
uno dei principali strumenti di cui lo Stato — qualora rispetti il
principio della pro¬ prietà privata — si può valere, per intervenire nel
campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso
uno Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse
nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel sistema
corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:
mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e
prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle forze
individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato
corpora¬ tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti,
non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma
facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’ob¬ biettivo prefisso. Non possiamo chiudere
questa nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha
dato Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale,
economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cicerone: l’implicatura conversazionale
di Marc’Antonio – filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ciceronian implicaturum:
Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone
ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo
romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone
IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to
provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I
would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for
the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- Marcus
Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important
not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for
anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas,
Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of
a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of
Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of
Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and
not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However,
unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind
phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism.
Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about
knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false
impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive”
probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed
accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course
between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest
of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits
them to criticism, and tentatively supports any positions he finds
“persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature
of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and
natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is
cool, witty, and skeptically detached
much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with
Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic
arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes
Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on
death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus
Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a
practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes
dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively
choosing from what had become authoritative professional systems often displays
considerable reflectiveness and originality.
“Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different
things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di Cicerone.
Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of
the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which
he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate.
The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and
never displayed courage. Cicerone affronta e sviluppa
la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione
teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei segni
divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito – le
opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il
concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da
una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo
genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere socio-politico,
volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società
romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In
queste opere tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova
indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si
configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il “De inventione”, le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere
molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazione e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono
l'apparato tecnico della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il parossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa
l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi
naturale che al suo interno si trovano riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente p che
permette discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il
segno involontario -- l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato
-- come indizio di colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo
secondo la sua relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità,
contemporaneità, posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma
bisogna anche dire che la classificazione del segno proposta da Cicerone è in
larga misura diversa da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno
della teoria dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale
vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione
sembra essere qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela
un'altra cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ) , o la
dimostra in un modo necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se
non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra
una forza argomentativa debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza
necessaria – “necessarie demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato
diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è
stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv. ,
l, 86. Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum
priore necessario posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto
di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" --
De inv., l, 46. Con questa definizione, Cicerone mette in evidenza due
caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da
Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i
primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è
madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv., I, 46). In essi compare anche il
tipico rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile --
Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra
dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”,
poi, compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-- all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se
le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte
in base a criteri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive),
il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno
è ciò che cade sotto qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un
qualcosa che sembra derivato dal fatto stesso, e che può essere verificato
prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno
di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv. , I, 48. Ne sono
esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga",
"la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come
fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non volontario.
Qui sono presentati in una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga
sviluppato in proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota
relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaia come sottopartizione di un'altra
categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur
nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un
uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex
ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama
suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm comparabile / -- --. Infine, viene
accettata la distinzione aristotelica tra "luoghi estrinseci" -- corrispondenti
alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' --
corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata
nel “De inventione” (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È
curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto
alle testirnonianze umane, anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i
vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part.
or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione ordalica e
antichissima deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio
di un continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto
semiotico, anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né
questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura,
si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos”
aristotelico, di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota
propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, come il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evidentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che rimanda
alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Aristotele, segno proprio
e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto
che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno
proprio ha puo carattere di necessità e si define come quel segno che non può
esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De signis, l, 12-16).
Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non define QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, Cicerone è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora
si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano
la retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe
si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non
direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene
operata una distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e
altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine ·
coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam
alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa
dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova
extratecnica corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone polemicamente rileva (De div. , II, 55), il segno della divinazione e
talvolta interpretati in maniera diametralmente opposta, proprio come avviene
nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni diverse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della divinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellettuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della filosofia a fondamento
razionalistico, e contemporaneamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deorum, nel
De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in
forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte
divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione
all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria sostenuta
da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e
propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in
negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli
dei si pongono come fonte dell'informazione e come emittenti nei processi di
comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinatari. Ma, a
seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo comunicativo si
struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col
divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai
vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non
si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conseguente. Per
distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione,
Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina,
la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e
deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div. , II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze,
ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri
gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le
interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.
, Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione
dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato
come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66). In certi casi l'interpretazione è motivata da
ragioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II,
74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb
Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since
there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the
revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually.
His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since
Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote
about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s
ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if
you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The
sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and
Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between
ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated
his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not
count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE
becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of
the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE
man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure
a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions –
one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire.
The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that
his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would
not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if
this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s
desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very
useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes
lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is
some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s
no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into
prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not
exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the
Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were
there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite
popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors,
etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or
masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the
sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware
of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword
should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the
periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the
Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in
that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views
did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero
mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’
against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include
visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the
Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being
erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would
Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and
Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE
VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the
foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some
detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a
treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is
lawyer-based. His idea is that if x, y.
x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is
interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is
not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this
Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with
what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He
said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice:
“Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence,
and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A
topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some
which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer
a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin
liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il
Cicerone di Rensi. Spero enim homines
mtellecturos quanto sit omnibus odio crudelitas et quanto amori
probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14
C. Renisi . Vita parallele ,li due filosofi
4 Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo Stato legale
romano, che già precedentemente a- veva subito terribili scosse, ma che
mediante una saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo
stesso tronco senza frattura o soluzione di conti¬ nuità, riceveva da
Cesare il colpo di grazia... Non è più necessario rivendicare la
grandezza di Cicerone contro le denigrazioni del Mommsen e di altri
due o tre storici tedeschi (I). Egli non era una ràbula e un politico
superficiale. Bensì un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,
nel cui animo si radicava e viveva di vita vigo¬ rosissima tutta la
grande tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del
Mommsen si può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die
Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt,
1909). L' Horneffer però rivendica solo il valore di Cicerone come
epistolografo e oratore, non come filosofo. e pur senza che l’animo servilmente vi
soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della nuova
direzione che quella tradizione doveva pren¬ dere, e della misura e forma
in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi.
Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura
dell'epoca : Demostene e Platone insieme pel suo paese, come
riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una squisitissima
sensibilità artistica e una passione vivacissima per le cose d’arte ;
basta vedere quanto “ vehementer „, com’egli stesso dice, attendeva che
Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est
voluptatis rneae,, (Ad Att.) ; e basta aver letto
attentamente le sue orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con
cui sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una
sensibilità in generale per le cose, le persone, gli eventi, gli affetti,
così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme
impressionabilità, ritroviamo interamente noi stessi : e il suo dolore
erompente e pieno di accenti passionali per la morte della figlia
Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola;
assolutamente completo. Platon, ed. cit., voi. I, p. 745. (2) Un
pensatore di così sottile e sicuro buon gusto e di cosi grande
penetrazione storica (e particolarmente Il rimprovero che gli si fa di
debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi di
poltrona hanno quasi sempre occasione di ri¬ volgere al grande che si è
trovato a dover dav¬ vero vivere avvolto da un gigantesco turbine
di avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande
poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non
fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto
venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella repressione
della congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza della
costituzione con¬ tro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta
che chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue
incertezze di altri momenti sono unicamente frutto della sua profonda
moralità. Perché l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in
mezzo a cataclismi enormi che travolgono gli individui come
fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si trovò, mentre non può operare
contro coscienza, e per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi
o tornare a grandeggiare, però avverte anche i pencoli micidiali a cui
espone sè ed 1 suoi o- perando secondo coscienza : e la condotta risultante
è necessariamente quella che tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso
conflitto interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà
questo giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands espnts
qui aient jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab
hoc si recte fecero, nec ullum in his malis consilium periculo
vacuimi inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un
uomo si trova realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si
può domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da
lui coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita.
Sicuro e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non
sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a
Cicerone da questo consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non
ti sfugga come nelle discordie politiche interne gli uomini debbano
seguire, finché si lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte
quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore
ciò che è più sicuro „ (Celio Rufo, del resto ottimo scrittore, tanto che
per molti uma¬ nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello
di stile). Ma Cicerone era un uomo di coscienza. Questa soltanto, non la
sua incapacità mentale, la causa della sua rovina. Egli era
andato con Pompeo, non già sedotto dalla speranza della vittoria, ma
quando la causa di costui era ormai pressoché perduta e con la
piena nozione di tale condizione di cose, e mentre Cesare, Antonio,
Celio, per cercar di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano offerte
larghissime : secuti non spem, sed officium „ {Ad Div. X 5).
Vi era andato essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione
di Pompeo e di quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che
poco o nulla c era da sperare da essi circa la restaurazione della
legalità, animati come costoro erano da propositi di persecuzione sillana
(Ad Att.; Ad D/v.), e chiaro ormai essendo che dai pompeiani non
meno che dai cesariani non si pensava che a far man bassa dello
Stato: “ regnandi contendo est » (Ad Att.), “ dominatio quaesita ab
utroque est, non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era
andato straziato dall’ idea d una guerra civile e unicamente in
obbedienza a considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza che ci
costringe, scrive ad Attico (X ,8), a stac¬ carci da Cesare più ancora se
vincitore che se vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà
alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et turpissimorum
honores, et regnum non modo Ro¬ mano homini, sed ne Persae quidem cuiquam
to- lerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni e speranze,
unicamente per senso del dovere. Sed valuit (scrive più tardi a
Cecina) apud me plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse
Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset meae. ltaque vel
officio, vel fama bonorum, vel pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus,
sic ego prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam sum
profectus (Ad Div.). Egli sapeva cioè di andare alla rovina e vi andò in
obbedienza a yu principio d'onore (pudor) e di gratitudine, per
quel poco che Pompeo aveva fatto onde ri¬ chiamarlo dall’esilio. “ Pudori
tamen malui famae¬ que cedere quam salutis meae rationem ducere
riconferma a M. Mario. E ritornando più tardi in una lettera a Torquato,
che aveva anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a
entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al correligionario
politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et liberos et
fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium et debitum
reipublicae nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id
faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis esset victoria. Ne è
questa un’opportunistica configurazione postuma della sua con¬ dotta di
quel tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo
e suo editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il piede in
più staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza
inimicarsi i vinti) per constatare che tale veramente, cioè il senso
del dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me
deliberalo cruciat, cruciavitque adhuc ; cautior certe est mansio ;
honestior existi- matur traiectio (Ad Alt. Vili, 15). E quando
Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte le parti, e Cicerone è
ritornato in Italia, egli si cruccia proprio di questo suo atto da cui
gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile,
e si rammarica di non essere stato con Pompeo sino alla fine; “
numquam enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis mallem
fuisse „ (Ad Att.). Il principio, insomma, che in un’altra posteriore
circostanza, piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro
Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi ma- ximae curae est, non de
mea quidem vita, cui sa¬ tisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me
patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente
nell’animo di Cicerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio
con 1’ impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso.
Allorché, essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico
gli dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non mihi quidem
(egli risponde) cui sunt multa po- tiora „ (Ad Att.). Certo,
un uomo mosso prevalentemente da sen¬ timenti di tale natura, nelle
tragiche vicende pub¬ bliche da cui si trovò avvolto Cicerone, va
al fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di inferiorità o se
non lo sia piuttosto quel successo che è raggiunto (e la cosa è facile)
in grazia del¬ l’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni
freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della
nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di diritto e di
morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera attaccando
coraggiosamente nell’orazione prò Roselo un favorito potentissimo di
Siila, era un pavido. Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo
conso¬ lato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza di
timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che egli, come disse di
sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione
mentale anticipata di essi, non già che titubasse poi ad affrontarli
nella realtà. Quintiliano narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam :
quibus optime respondit ipse, non se timidum in susci- piendis, sed
in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio:
mi accusavano di essere timido, “ eram piane, timebam enim, ne evenirent,
quae acciderunt „ ; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura,
quae facta sunt „ (Ad Dio.). Nè è giusto accusarlo di non aver saputo
intuire con chiarezza le situazioni e di essersi per questa deficienza
di sguardo gettato a corpo perduto a combattere per soluzioni che
la realtà escludeva. È questa la so¬ lita iniqua condanna che ì posteri,
aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel
dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui che difese
la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia
rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era giusto e logico che
essa lo fosse ; quasiché il mero fatto, il fatto del successo, sia anche
verdetto di giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa
storicamente prostrata non sia quella che avrebbe dovuto vincere. Che la
cosa stia così nel caso di Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da
lui combattuta e che vinse costituì la rovina della vita di Roma :
basta per accertarsene constatare che nella stessa nostra memoria di
posteri la vita di Roma resta chiaramente presente e attira la
nostra appassionata attenzione appunto sino ad Augusto; ci
rimangono ancora come appendice già torbida i primi imperatori ; poi
tutto ci si confonde di¬ nanzi in un lungo stato comatoso chiazzato
di continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo sto¬ rici di
professione) non distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui
non ricordiamo, nè c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per
es., scorgeva Roma Mas¬ simo d’ Azeglio. “ Fra tutti gli Stati
dell’antichità è Roma quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei
Gracchi, intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò
la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate dai più
vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre vittorie che un voto
ne’ Comizi „. E poco prima : Se è giusto e vero il principio fondamentale
delle Società moderne, essere la legalità di un governo dipendente
dalla volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se 1’umanità
consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli
aveva messo in opera per sostenere la causa che soccombette, erano
ina- deguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto quanto
era necessario perchè essa vincesse: aveva cercato di assicurare ad essa l’appoggio
e la fedeltà dei maggiori personaggi militari e poli¬ tici ; aveva
costituito e messo in campo eserciti poderosi ; con la sua parola teneva
altissimo il tono morale del popolo all’ interno. Se la causa non
vinse, lo si deve, non a un fato storico, a condizioni incoercibili
insite nella realtà e sfuggite allo sguardo di Cicerone, o al logos
immanente nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi, che
potevano accadere diversamente e in tal modo rovesciare la situazione.
Dice in qualche luogo Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’
uomo può sciogliere la propria mente da molti pregiu¬ dizi e da’
legami delle consuetudini sensibili, si è l’esercitarsi a considerare le
cose non solo come sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare
questo precetto al periodo di storia in discorso (come Renouvier in
Uchwnie l’ha applicato in modo grandemente interessante a tutta la
storia occidentale dagli Antonini in poi), scorgeremo agevolmente che due
o tre futili casi, per l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia
Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti
diversamente, sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle
cose; se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬ vellotto
l’avesse ucciso quando egli si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai
disfatto, se Planco non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe
ba¬ stato per far di Cicerone il capo dello Stato romano, e perchè egli
occupasse nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto
d’Augusto. E quanto lo Stato romano e la posterità sareb¬ bero
stati più fortunati se il potere fosse venuto in mano ad un uomo di
rettitudine profonda e di vivo senso del diritto e del dovere, come
Ci¬ cerone, anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata
luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens,
come sempre Cicerone lo chiama, (sed est piane puer n \Ad Att. XVI,
11), ad essere qualcosa solo per 1 ap- poggio datogli appunto da Cicerone
e con lo stri¬ sciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat
primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel non longe a Capua... ducem se
profitetur nec nos sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die
mihi litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae,
ut negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius „ — Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11, XIV, 11, 12), non si trattenne dal
sacrificare ad una propria maggiore ascesa la vita di colui che l’aveva
sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli, si, veramente, pusillanime, che
vinse le guerre solo per mezzo dei suoi generali e specialmente di
A- grippa (1), e non aveva il coraggio di presentarsi nel campo se
non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria (Svet. Aug. 16).
Fondamental¬ mente istrione e poseur come risulta dal fatto,
narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comu¬ nicava mai nemmeno con sua
moglie senza scri¬ vere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché
dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava stilizzare a
particolare espressività e lu¬ minosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vain- quit por i’habilité d’Agrippa...
Je crois qu’ Octave est le seul de tous les capitaines romains qui ait
gagné 1 affection des soldals en leuv donnant sans cesse des marques
d’une làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence des
Romains. Tanto Cesare quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei
versi delle Fenicie di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva
scelto è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava
citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il
diritto, è quando lo si viola per conseguire la tirannide citazione
signifìcatiice dello spirito violento e illegale. Augusto amava citare il
verso 559: è meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che
es¬ sere ardito (ihf aouc) „ ; citazione significatrice della vi¬
gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio Aug.] si qui sibi
acrius contuenti quasi ad fulgorem solis vultum summiteret e infine in
modo palmare dalle parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae commode
transigisse „) e dalla citazione greca richie¬ dente 1 applauso per la
commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99).
Uomo che desta particolare antipatia precisamente in grazia del suo
proposito di moralizzare la vita romana ; perchè niente è più ripugnante
del dis¬ soluto che si da il compito di costringere gli altri alla
virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato
tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,
conducendola con sé in un altra stanza donde era ritornata spettinata e
con gli orecchi rossi, e poi introducendola in casa propria incinta d’un
altro (ib 62, 69) ; aveva commesso le oscenità che narra Svetonio,
irripetibili, tranne forse una : “ adultena quidem exercuisse ne amici
quidem negant; e dopo ciò faceva udire le parole am¬ monitrici di
vita austera e imprendeva a ricondurre i costumi alla prisca severità
(I). La scandalosa con¬ dotta di sua figlia e di sua nipote, che
condusse [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly
disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume thè maske of
hypocrisy, which he never afterwards laid aside. With thè saine hand, and
proba’bly with thè same temper, he signed thè proscription of Cicero and
thè pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were
artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio
complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si aveva il
senso netto del come si poteva prendere sul serio una riforma morale che
pretendeva at¬ tuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti
precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare si
avvicinasse alla sessantina, Cicerone non. era uomo che non sapesse
comprendere i tempi. Li comprendeva benissimo, più profondamente e sapientemente
di Cesare e di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore. Subito dopo
quell epoca egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che
su¬ scitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono e saranno
letti con entusiasmo o rispetto da tutte ( I ) Coglie veramente nel
segno Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii
severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi
velie- menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.
lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur, ce
prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui- mème très
vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre l’adultere et il
vivait publiquement avec sa mèce, la bile de Titus, qu’ il avait enlevée
à son mari et dont il causa la mort en essayant de la taire avorter. Ce
contraste etait choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne
„ (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli
svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più decisa, piu energica
e più importante, e, insieme, con le filippiche raggiungeva un’altezza da
lui ancora non tocca nella forma d’arte che gli era propria : “
divina „ chiama giustamente un giudice certo non facile, Giovenale (X,
125), la seconda di esse. La sua idea di portare alla luce del
mondo politico, sotto la sua direzione, il proni¬ pote e figlio adottivo
di Cesare, ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni), accordandogli
an¬ che onori che a molti parevano eccessivi, e di riuscire così
giovandosi del nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito
cesariano nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una
si- Inazione difficilissima, era una idea geniale, abi¬ lissima, da
politico grandemente avveduto, l’unica (I) Sull immensa influenza
esercitata da Cicerone sui a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi
‘'furiente r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I
d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella sua Vita di Cicerone (
Heroes of thè Nations Series „) dice giustamente che se si dovesse
decidere quale degli scrittori antichi maggiormente influì sul mondo
moderno, la decisione sarebbe ,n favore di Plutarco e Cicerone —
hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane aonr enVa
rf matUra era andato sempre più apprezzando Cicerone. Ld è proprio
giusto il noto giu- d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse
sciat, (e s. può aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti
Jne etico-politica) cui Cicero valde placebit „ (X, 112). G.
Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea che in quel terribile
cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non
riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli del
futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬ demente intelligente, un uomo
di Stato fondamen¬ talmente onesto come Cicerone, non fa entrare
nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di gran lunga
travalicante la media ne¬ quizia umana, come fu quella di Augusto; nè
si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa gli
si rizza impensatamente dinanzi man¬ dando a picco i suoi piani più
accortamente e sapientemente elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40 a.
C., cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, Cicerone assume
risolutamente, nel momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la
parte di leader del Se¬ nato e del popolo romano, come egli stesso
scrive a Cornificio, “ me principem Senatui populoque romano
professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ; spiega un’attività prodigiosa, tanto
verso gli eserciti quanto rispetto alla situazione interna, per
dirigere (I) Giustamente Platone osserva (Rep. 409 A-D) che
le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai malvagi perchè non
hanno in sé il modulo dei sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv
éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però
il malvagio, a- bilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta
ingan¬ nato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se, e
ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà
xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo,
attesta scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con
la prima Filippica: “ fundamenta ieci reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV,
1); e al gio¬ condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia
e come ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita
l’avrebbe spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes
mini aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique
sint : nullum locum praetermitto mo- nendi, agendi, providendi : hoc
demque animo sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi
ponenda sit, praeclare actum mecum putem „ (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In
questi primi mesi del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli
aveva idealizzato nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore
del Senato, dei consoli, dei governatori delle provincie „ (1). Non è
questa la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano
illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta com¬
prensione dei tempi, basta ricordare come la ri¬ forma che occorreva allo
Stato romano, pessima¬ mente attuata, secondo attestò la susseguente
vita (1) F, Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza I929‘ p. 187).
Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle politique qu à ce
moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom- me d Etat que ces
ennemis lui refusent „ (Boissier, Cr- céron et ses amis] dell’Impero, da
Cesare e da Augusto, fosse stata prospettata per primo da Cicerone nel De
Re¬ pubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più fermo
principio d’autorità sotto forma di un rector rerumpublicarum d’un “
moderator reipublicae d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep. V, 3, 4,
6). Senonchè Cicerone, con molto maggior senso della necessaria
continuità di sviluppo dello Stato romano e con molta maggior
disinteressata cura di esso, non intendeva che questa riforma dovesse
rivol¬ gersi a distruzione della costituzione esistente, bensì che
dovesse ingranarsi in essa e formarne un na¬ turale complemento e uno
svolgimento spontaneo e logico ; “ homines non tarai commutandarum
quam evertandarum rerum cupidos „ , egli giudica i cesariani .(De Off. 11
c. 1), mentre per lui la costituzione romana, come esattamente nota
lo Zielinski, era “ capace di ogni progresso in quanto questo
conducesse all’accettazione e allo sviluppo di idee feconde (fordeTnder),
non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui egli concepiva
la riforma e il modo con cui la attua¬ rono Cesare ed Augusto è si può
dire scolpito dalle seguenti sue due proposizioni : “ me nun- quam
voluisse plus quemquam posse quam uni- versam rempublicam „ (jdd Div •
VII, 3); “ ego sum, qui nullius vim plus valere volui, quam ho-
nestum otium „ (ib. V, 21). Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana
del princeps e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa nel
bell’ emistichio con cui Lucano (1, 150) de¬ scrive il modo di operare di
quest’ultimo : « gau- dens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto
ciò per scorgere tosto che non solo la mente di Cicerone era nel
suo pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per
questa s’intende, non già furbesca valutazione personalmente opportunistica
delle cir¬ costanze, ma avvertimento delle necessità profonde che
ad un dato momento si presentano nella vita sociale e politica d’un
paese) era perfetta. (1) Il * ‘ sovversivismo „ di Cesare è provato
dal dolore che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei
(“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant„ — Svet, Caes. 84),
cioè precisamente coloro che nel seno nello Stato romano, da essi
violentemente odiato, costitui¬ vano la catapulta diretta a farlo
saltare, e che, sotto la veste del Cristianesimo, a farlo saltare
effettivamente riusci¬ rono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero
romano si deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri
lamenti intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella ple¬
baglia quella sommossa per e attorno al rogo del ditta¬ tore, la quale
fece prender nuova forza al cesarismo. “ É noto come per la commozione
popolare che lo straziante rito ebreo provocò colle sue lugubri
lamentazioni orientali, se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la
faccia de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con Bruto
e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne vennero le lunghe
guerre civili e l’Imperio di Augusto „ (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano]
Mente possente, senso politico sicuro, compren¬ sione dei tempi piena.
Non si può dunque attri¬ buire a deficienze intellettuali il modo con
cui Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui capeggiato.
Egli non vide certamente Cesare come la sua figura si è plasmata nella
storia, che corona con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha
trovato in ogni presente la consacrazione del bruto suc¬ cesso di
(atto. Lo vide come glielo presentava la realtà immediata. Lo vide come
lo vide Catullo: Pulcre convenit improbis cinaedis,
Mainurrae pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio
Cesare e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Men- tula) il suo
generale del genio. A permettere al quale di “ mangiare „ (il verbo si
usava anche in latino con questo preciso significato) milioni su
milioni, il commovimento politico aveva principal¬ mente servito. Doveva
essere una cosa nota a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi:
Cinaede Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et
vorax et aleo. Eone nomine, imperator unice, Fuisti in
ultima occidentis insula. Ut ista vostra diffutata Mentula
Ducenties comesset aut trecenties ?] Cinaede Romule Romolo debosciato,
impu¬ dico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Ce¬ sare. E
press’a poco così lo vede Cicerone. Egli non scorge Cesare, quale
il fanatismo in¬ teressato dei seguaci e poi gli storici l’hanno
co¬ struito: gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro
se non aggiungere, per supino servilismo postumo, la loro adulatrice
consacrazione al suc¬ cesso di fatto e di solito non osano mai, per
la paura di passar per “singolari,,, sviscerare il clamoroso successo
di fatto ottenuto da un “ grande „ nella età in cui visse, mettendone
coraggiosamente in luce le vere molle, spessissimo casuali, o
basse, o vili, ma sempre invece per essi è “ grande „ colui che
nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o i misfatti hanno portato
in alto (I). (1) “Si vous avez une vue nouvelle, une idée
origi¬ nale, si vous présentez !es hommes et les choses sous un
aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le le- cteur n’aime pas à
ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une histoire que les sottises qu’
il sait dejà. Si vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que
l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que
vous insultez à ses croyances... Un historien originai est 1 objet de la
défiance, du mépris et du dégoùt universels». Questo è l’abituale
comportarsi degli storici, secondo la satira, aggiustatissima, che ne
schizza A. France (L’ ile des Pingouins, préf., p. IV-V). Ci sarebbe solo
da ag¬ giungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi
della storia che scrivono serve al loro servilismo verso i personaggi
della storia che vivono. Cicerone vede Cesare muoversi davanti ai suoi
occhi, nella vita vera, non nella luce abbagliante del mito. Esso
gli appare screditato, corrotto, senza senso di morale nè privata nè
pubblica, uomo la cui vita, i cui costumi danno la certezza che si
condurrà male : e sopratutto la danno la gente che lo circonda. “ O Dii,
qui comitatus ! in qua erat area scelerum! scrive ad Attico (IX, 18),
dopo uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva
cominciato a costruirsi la sua potenza accaparrandosi e tenendo alle
proprie dipendenze i manigoldi audaci e bisognosi (2). Egli scorge
( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine storiche di
Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo
Scénes et portrails historiques, si legge (p. 269 ) : “ Tout personnage
qui doit vivre ne va point aux générations futures tei qu’ il était en
réalité : a quelque distance de lui, son epopèe commence : on idéalise
ce personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,
des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les hasards de
sa vie, on les violente, on les coordonne à un système, Les biographes
répètent ces mensonges ; les peintres fixent sur la toile ces inventions
et la posterité adopte le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire.
L’histoire est une pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva
già osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes,
corame les autres, aux caprices de la fortune „ ( Grandeur et décadence
des Romains, Ch. 1 ! (2) “ Habebat hoc omnino Caesar : quem piane
per- ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam homi¬ nem
audacemque cognorat, hunc in familiaritatem liben- tissime recipiebat „
(Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare
tutta la gente equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime
dan¬ nate, vexu (<x (Ad Att. IX. 18), “ omnes damnatos, omnes
ignominia affectos, omnes damnatione igno- miniaque dignos, omnem fere
inventutem, omnem illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att. VII,
3,), tutti i giovani circa i quali pensava che “ma¬ ximas republicas ab
adolescentibus labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava
« perdita iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barba¬ tuli
iuvenes, grex Catilinae » (ib. I, 14), «feccia di Romolo » (ib. II, I), i
precursori di quella che poi Giovenale denominerà «turba Remi» (X, I,
3); cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è raggruppato
tutto il canagliume della penisola, « cave autem putes quemquam hominem
in Italia turpem esse, qui hinc absit » (IX, 19); osserva¬ zione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxu- ria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.
II, 2). Come Catullo, Cicerone vede con disgusto i cesariani ormai
dominatori darsi al lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre
Balbo (altro comandante del genio di Cesare e sua longa manus in
Roma) si costruisce dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae?... at
Balbus aedificat „ “(Ad Att XII, 2) (1), e Antonio scorrazza l’Italia
con¬ fi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso ducendosi
dietro in una lettiga aperta la sua amante in un’altra sua moglie, “
septem praeterea coniun- ctae lecticae amicarum sunt an amicorum ? „
l^/JJ Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in Cicerone una nausea
invincibile: “ nosti enim non modo sto¬ machi mei, sed etiam oculorum, in
hominum inso- contiene un’osservazione di indole psicologica e
morale eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa che
lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si
quaeris, homini non recta sed vulupta- ria quaerenti nonne [kfifwTai ? „
Cioè: “ Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò
? E in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la co¬
scienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho
vissuto (1) La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita
non solo nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filip¬
piche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che stanno a dimostrare
una volta di più come, in una situa¬ zione politica tirannica ed eslege,
anche persone notoriamente turpi possano salire ai più alti gradi, perchè
il controllo dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono
sop¬ presse dalla forza e la gente costretta al silenzio. — Non
ostante, in un primo tempo Cicerone, usando l’avveduta prudenza dell’uomo
politico, aveva cercato di persuadere quasi amichevolmente Antonio a
rimanere nell'orbita della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di
citare le se¬ guenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in
repu- blicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sen-
tiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur, deinde, si haec
non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi „ (c. XI).] lentium
indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per Cicerone “
hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta neppur l’ombra
dell'onestà, che considera la tiran¬ nide come il maggior dono degli Dei,
(Ad Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeter-
rime facturum „ ( ib . VII. 12), uomo del quale “ vita, mores, ante
facta, ratio suscepti negotii, so¬ di „ fanno ritenere che non potrà
comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis
civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad
meliores venit, tamen eos fero- (1) La stessa ripulsione, e per la
stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da
ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immo¬ ralità che non oso
neanche ripetere (01. 11, 19). E De¬ mostene si illudeva che anche perciò
Filippo sarebbe ca¬ duto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana
gli uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assen¬ nati
e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità (àxpaafav xoO pioti
-/.al xal xopSaxia|jioOs) sono da lui cacciati e ridotti a nulla,
TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i
fatti hanno sempre provato che è vana speranza contare che que¬ ste
ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza morale non trova
sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati)
reddit ; ut etiamsi natura tales non sint, necessitate esse co-
gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos vicit, etiam invito,
facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9). E su questo stesso pensiero insiste anche
con Cor- nificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim ci- vilium hi
semper exitus sunt, ut non ea soium fiant, quae velit victor, sed etiam,
ut iis mos gerendus sit, quibus adiutoribus sit parta victoria „. La
situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare a Cicerone un
mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma
precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza,
po¬ polo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni
cosa umana e divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli
imperatori „ (2). Cice¬ rone vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in ( I ) Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo , che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente
letti, con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna.
(2) Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche nei libri di Cicerone.]
seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt „ (jdd Div. IV, 9) al punto che
Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che devono apparire
come senatusconsulta (Ad Div. IX, 1 5), si formi un’at¬ mosfera di
falsità, di servilismo, di adulazione uni¬ versale, tanto da parte di
privati quanto di enti pubblici, cosicché non si distingue più il
sentimento sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus
voluntas a simulatione distingui posset « (Ad Att. Vili, 9); (1)
quell’adulazione e quel servilismo, che, diventati poi a poco a poco
ora¬ mai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, sti¬ gmatizza con
magnifici versi, facendone risalire 1' inizio appunto al dominio di
Cesare : - V (1) “ Cette abjection de la patrie releva
I’ àme de Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire de
Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès, qui est la
raison du vulgaire, est le scandale des grandes àmes (Lamartine, Cicéron,
Calmati - Levy, 1874, pag. 167). E’ un libro, poco conosciuto, in cui
Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra da ogni
erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai
elevati, la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di prece¬
denti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambi- tieux, les
factieux, les séditieux, les corrupteurs et les cor- rompus, la jeunesse,
la populace et la soldatesque, les barbares mèmes enrólés dans les
Gaules, étaient avec Cesar „ (p. 186). “ Coriolan... n’avait rien fait de
plus monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a
déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui prennent le
succès pour juge de la moralité des événe- ments „ (154).] Namque omnes
voces, per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit
aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,
Ausonias voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces
aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit tempore digna
Maestà nota (I). Cicerone vede come, appena risultò che
Cesare era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovver¬ sivi
ma anche gli “ ottimati le vecchie figure (1) V. 386, —Si avverte
che la parola “ imperium „ qui non significa il nostro “ impero „ ma “
officio pub¬ blico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usur¬
pazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio pubblico
legale. Come è noto, è sopratutto col nome di potestà tribunicia che (
usurpazione si effettuò. Nel libro, ricco di dottrina e di acume, di G.
Niccolint, Il Tribu¬ nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’
impero si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la
potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi, che il trionfo
della democrazia [più esatto sarebbe dire : demagogia], e se chi aveva
fondato il suo potere sul partito democratico, non poteva abolire la
pericolosa magistratura, non gli restava che appropiarsela nella sua
sostanza, se non nella forma esteriore... Cosi la temuta
magistratura, nata per difendere la libertà del popolo, che
conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in
tirannide... costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca
» (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬ nistico
comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce
qui nous répugne le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à
s’accomoder au regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche,
abili a restar sempre a galla, “ huic se dent, se daturi sint „, sia pure
perchè terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando
os¬ sequiavano Pompeo (Ad Alt IX. 5); come essi se^ venditant „ a
lui, mentre i'municipi fanno di lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il
grosso del pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa
che alla propria tranquillità (“ otium „), non rifiuta, come non ha mai
rifiutato, nemmeno la tirannide dummodo otiosi essent „ (ib. VII, 7), non
si occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini, nihil prorsus
aliud curant nisi agros, nisi villulas, msi nummolos suos „ (ib. Vili,
13) ; atonia che si aggravo ancora più tardi quando diventava po^
tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est populum romanum manus
suas non in defendenda YA/I own , " plaudendo consumere (Ad
Att. AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula- (I) Anche
qui si riscontra un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva di
Demostene per l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione
(egli dice) che i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora
invece hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi
iTera^ C ° Sa 'vi ^ ^ Persian ° e fece la Grecia def rarH
mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza (Filla 36 C 37ìT 81
asciavano corrompere e comprare uiterr di bene ** Gr “
j .' , , 1 era un tempo non avere fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì
la misura della felicità e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc
xaì iole V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta
alla ] zione universale, questo continuo panegirismo or¬ mai
diventato di prammatica, non è, per Cicerone, se non un’universale
falsificazione di coscienza, quella stessa per cui più tardi egli
osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato
a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della patria il titolo di
parens patriae : “ potest cuiquam esse utile faedissimum et taeterrimum
parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab op¬
pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf. Ili, 83) (1). Questa
situazione che fa fremere d’or¬ rore Cicerone (2), nella quale egli trova
che non c e salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa
vostra viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella
malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi creerete tosto voi
stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet; gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re
(Fil. IV, 11). (1) In questo stesso luogo, volendo Cicerone
dimostrare che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra
l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler dominare
tirannicamente la patria] si honestam quis esse dicit, amens est ; probat
enim legum et libertatem mteritum, earumque oppressionem taetram et
detestabilem glonosam putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all
usurpatore? Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures
ei regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum romanum
oppressisset ? ». (2) Ricco com’era d’un pathos etico affine a
quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai
suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo
tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità in noi, e che
è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori,
probitati, virtuti, rec- tis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati
ac Dh - V. 16), gli appare sopraia!,„ basata sulla menzogna e
sul falso, perchè sotto 1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che
l’atmosfera ufficiale orma, impone, circola larghissimamente quel
malcontento e quell’esecrazione generale verso ì distruttori dello Stato
legale, che egli constatava già precedentemente quando essi avevano
iniziata tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium
hominum in eos qui tenent omnia ; mu- tationis tamen spes nulla Ad Alt.
Il, 22). Que¬ sta esecrazione generale, sotto le parvenze dell’os¬
sequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare, il quale, dopo poco
tempo di dominio, ormai in realta persino “ egenti ac perditae
multiludini in odium acerbissimum venerit „ ( ib . X, 8). Invero,
Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover esserlo, sopratutto per
la posizione di superiorità e distanza, così urtante al senso
cittadinesco ro¬ mano, che egli aveva finito per prendere : dopo la
sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone che stess., può
esprimersi in modo più o meno chiaro nei seguent, precetti: non siate
schiavi degli uomini: non permettete che , vostri diritti siano
impunemente calpe¬ stati „ (Dottr. della Virtù § 12). Che è, del resto,
il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,
SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs UylCWXw!]) ^ ”
4Xlv tu r» G. Reati . Vita parallele di due filosofi avendo
dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un
uomo come Cicerone deve attendere per essere introdotto da me e non
può a piacer suo parlarmi, “ ego dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad
Att. XIV, 1 e 2) (I). (1) A proposito dell’uccisione di
Cesare. Vi sono molti i quali pensano che perchè Bruto era stato «
perdonato » da Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo «
il tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia dato «
perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (A. Corradi). Questa
opinione è la tipica prova della completa mancanza d’ogni senso di ciò
che è diritto. Proprio il fatto che Cesare gli aveva * perdonato »,
doveva essere per Bruto una giusta ed onesta ragione di più per
abbonirlo. Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello
Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo caso,
condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali (Senato), non a
un individuo. Il solo fatto che non già le leggi o le autorità legalmente
costituite, ma l’individuo Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere
o far proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,
assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare od assolvere,
e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse di delitto, fosse di
competenza d’un individuo, e quasiché questo stesso fatto non comprovasse
lo sfasciamento dello stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di
più per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il sistema,
e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un
altro fatto, onde far ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano
dovuto pregare un individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell'
individuo Cesare, è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna
per [Era, insomma, la situazione che un filologo ita¬ liano
contemporaneo descriveva di recente crn tutta esattezza così : “ La
crescente potenza di Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di
Far- salo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo la libertà
della vita politica di Roma, aveva, per primo, inaugurato la lunga e
mostruosa serie degli questo individuo, che si sovrapponeva in tal
guisa alle leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè
precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle leggi assolvere
o condannare, ma da lui perdonare o no. — Piena ragione ha Seneca quando
in un capitoletto pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di
Bruto, dice che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare,
perchè questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se
non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio,
ma si astiene da un maleficio : « in ius dandi beneficii iniuria venerai;
non enim servavit is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed
missionem » (De Benef. Il, 20). Del pari piena ragione ha Cicerone, il
quale, ad Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli
di non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva : questo
è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un assassino per non aver
ucciso taluno : « quod est aliud beneficium latronum, nisi ut commemorare
possint iis se dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C.
111). E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi alla
corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia, poterono il primo
dare a Bruto la massima delle lodi facendo dire da Marcello a sè stesso :
“ tu vive Bruto miratore contentus „ (Ad Helviam IX, 8), il secondo
dipingere nel suo poema con smaglianti colori di gran¬ dezza morale “
magnanimi pectora Bruti „ (11, 234 e s.). ] imperatori romani ; la viltà
degli adulatori, che disertavano il partito dei vinti per quello più
van- taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi, che, r er
trar partito dalle circostanze ad accu¬ mular potenza e ricchezze,
pullulavano su su dal fondo di quella corrotta società, come
marcida fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le cru¬ deltà dei
prepotenti, che volevano, anche a mezzo di violenze e di sangue, aprirsi
un varco nella folla dei concorrenti a quella specie d’albero della
cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello Stato con le loro mille
seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio dei beni pubblici e
pri¬ vati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato in cui
vivevano, nell’esilio volontario o non volon¬ tario, le anime dei
virtuosi e degli onesti, fautori del partito repubblicano ; tutto insomma
contribuiva a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...
Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro
caratteristico orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria
in¬ tanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo
spettro della fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’
Italia ; le classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed
alla disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame „ (I) (1) U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus,
Torino, Chiantore, 1932. p. XXVIII, XXXI. Ora, tanto appare a
Cicerone falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (“ divitiarum in aerario „) sono cadute; è impossibile
che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, rie¬
scano ad amministrare soddisfacentemente le pro- vincie e lo Stato ;
cadranno da sè, per gli errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis
,,, “ aut per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est
adversarius unus acerrimus „ ; questa tirannide non può reggere sei mesi,
“ iam intelliges id re¬ gnimi vix semenstre esse posse „ (ib. X, 8) ( I
). ( 1 ) Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe sopra¬
tutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quel¬ l’errore che il
Romagnosi descrive così : “ La temerità e l’intolleranza sono i vizi che
sogliono guastare questo pro¬ cedimento [inventivo dell’ incivilimento).
Si pecca di teme¬ rità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura
o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca
d’intolleranza allorché si vuole seminare e racco¬ gliere ad un sol
tratto, e però si passa ad infierire con¬ tro attriti che da se stessi
vanno cessando in forza della riforma fondamentale già praticata. Siate
severi nel man¬ tenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare
il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali, le
vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono, invece di
affrettare ritardano; e se per caso avrete un frutto precoce, ne avrete
mille falliti » {Dell’ Indole e dei Fattori dell’ Incivilimento,
Avvertimento finale). Auree pa¬ role d’uno dei nostri massimi pensatori
politici, che an¬ drebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale
previsione di Cicerone andò incontro ad nna smentita colossale. Quella “
divinatio „ del¬ l’andamento degli eventi che egli, ricavatala
dallo studio e dalla pratica, aveva la coscienza di pos¬ sedere ( 1
), qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate,
sempre ad illustrazione del sentimento politico, che, in quelle perturbate
circostanze, si sprigionava vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a
quel popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non prevalgono che
poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr. T e ° r \. P \
1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti dell uomo, da lui
chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che
vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso di
questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà 1 eguale
inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render ragione, sono
tutte condizioni di questa originaria padronanza „ (Lett. a G. Valeri). Cu,
quidem divinationi hoc plus confidimus, quod ea nos mhil in his tam
obscuris rebus tamque perturbatis umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae
ante futura dixissem, ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus,
quem ego tam video animo, quam ea quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex
aliqua specula prospexi tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa
sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento, Cicerone lo
possedeva in effetto. Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva
giusto, preveveva cioè quello che tutto faceva ritenere dover accadere.
Se i fatti si svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si
può, in un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone. Cioè
che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di
storia che sia stato come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco
dopo e probabilmente lo fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità
in cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente
lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché
Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua
nobilissima lettera (Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e
che gli rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in
cui, subito dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava
crollato e i cesa¬ riani in pericolo — diceva, deplorandone la
morte: che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’
ingegno che aveva, non trovava la via d’u¬ scita, (exitum non
reperiebat), chi la troverà ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la
morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose finirono per
peggiorare rapidamente. Anche Cice¬ rone è costretto a constatarlo. Il
tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad Att. XIV, 9 e 14);
(I) Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione di
Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie ;
la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr.
XI). ] d siamo liberali dal re „„„ dai regno (yìj Di,. ■’ /aj' fi marzo non consolano più come pnma (Ad AH. XIV, 12, 22): "
stolta L iZZ
Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus cooubs puenbbus ; excisa est
arbor, non avulsa ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21);
si poteva con piu libertà parlare contra illas nefarias
partes xiv r vivo che non ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che
Cesare vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desideran-
dus , (,b. XI V, 13). Infatti, la situazione era di¬ ventata quale la
descrive ad Attico così • “ S ed vides magistrati ; si quidem illi
magistratus'; vides tyranni satellites m impems ; vides eiusdem
exer- cniis ; vides in latere veteranos „ (ib. XIV 5) In
conseguenza il sistema di governo che Cicerone prevedeva non poter durare
un semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o peggiorando
per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’im¬ pero bizantino.
Ma la fallacia di questa previste la torio all. mente di
Cicerone. E' la fallacia propria delle menti profondamente razionali,
che hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la mente di
Cicerone era appunto secondo la felice dennizione che ne dà Io Zielinski,
un “ Aufkà- rungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile
(I) O. c. P . 147. ammettere che la mostruosità,
l’irrazionalità, l’as¬ surdo vengano a tradursi permanentemente nel
fatto, si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,
quindi è impossibile „ ; questo è per siffatte menti un canone
assolutamente insopprimibile, sradicando il quale essa sentirebbero di
strappar le proprie medesime radici. A cagione della stessa forza
della loro compagine razionale, è ad esse impossibile riconoscere
che il fatto che una cosa sia assurda non impedisce menomamente che essa
divenga realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana avviene
che ciò che all’ inizio la mente scorgeva come cosa “ assurda », “
pazzesca „, implacabil¬ mente ciò non ostante si realizza. Come
buon platonico Cicerone non poteva a meno di essere fermamente
convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou?
(juar^aag (Fed. 89 d.). Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli
scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva
giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per lui una conquista
permanente» della civiltà, la ci¬ viltà stessa, la civiltà che non può
perire. Con tale forma di governo il suo spirito si era immedesi¬
mato ; essa faceva parte essenziale della sua co¬ scienza d uomo, formava
il cardine su cui poggiava tutta la sua vita spirituale. Pensare che
tale [Che tale stato d'animo fosse non solo “ cicero¬ niano „
ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’in¬ dignazione per la caduta di
quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente
scom- parire, era come pensare che potesse precipitare tutto ciò
che si è sempre visto stabile, la terra, il sistema solare, ciò che è
l’incarnazione di un’e¬ terna legge della natura. Sempre gli uomini
quan- o si sono trovati in una fase di cangiamento analoga a
quella in cui si trovò Cicerone_e tanto più quanto più la loro
mente era fortemente razionale hanno emesso la medesima errata pre¬
visione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile, quindi non può
durare. ( 1 ) prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore
romano d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic
erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam perpetua
potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium servitio
premere, cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda fastidia;
nemini labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam
do- mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle
deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit msolentiam.
Quem invenias Hominem qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat
insigne, fiatqe volens nu- mero postremus ex primo ? „ {Hexameron,
XV). ... ^ osa & nota : lo stesso errore, la stessa
illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si e rilevato,
in Demostene, il dramma della cui vita fa esattamente riscontro a quello
di Cicerone. Anche Demo- j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva
che la potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv
teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per lui
principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta sulla
malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma,
della vita di Ci¬ cerone, è appunto questo. II dramma dell’uomo
oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop- xoOvxa
xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg
àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§
10). E nemmeno dieci anni dopo Filippo trionfava definitivamente a
Cheronea. Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni
di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le illusioni in cui
il « razionalismo » induce gli uomini. Ma neppure la battaglia di
Cheronea guarì Demostene dal- 1 illusione. Plutarco narra che quando
Filippo fu assassinato, Demostene comparve nell’assemblea, raggiante,
tpatSpòg, splendidamente vestito, incoronato : con la morte
dell’uomo, secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera
doveva certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sor¬
reggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa xai |ia T
txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione fondata sulla perfidia, e che
perciò, secondo Demostene, non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo
addirittura fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini
non possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a possa
ottenere un successo duraturo, che il male trionfi permanentemente. Pur
troppo, invece, è questa una pia illusione; e le cose vanno precisamente
cosi. E gli astrattisti, 1 « razionalisti », gli spiritualisti, non
sanno ricavare dal male che sotto ì loro occhi permanente trionfa,
neppure quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè
di essere definitivamente istrutti dell andamento assoluta- mente
arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita. Chiusi nel loro mondo
dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da quelli che continuano a
credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore
petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr. V. I 1
30). ] che con disperazione vede rovinare intorno a sè senza
possibilità di salvezza il mondo civile di cui la sua più intima vita
stessa era intessuta, il mondo “ razionale „, e trionfare
ineluttabilmente, “ in causa impia, victoria etiam foedior „ ( T)e
Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una forma di mondo umano “
impensabile „, “assurda,,. 11 dramma della coscienza eticamente desta
che vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione morale e iniquità
acquistare ufficialmente il carat¬ tere di nobiltà, grandezza,
elevazione, e avviarsi a restare definitivamente sotto questo aspetto
nella storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella mente di
Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando egli è ormai costretto a
vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “ quae potest spes
esse in ea republica, in qua hominis impotentissimi (violento)
atque intemperantissimi armis oppressa sunt omnia ? „ (Ad Div. XI);
quando deve con¬ statare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam
ut allevationem quisquam non stultissimus sperare debeat „ (Ad Div. IX,
I), il suo strazio non ha confini- Ciò che già precedentemente, quando
tale condizione di cose si delineava, egli cominciava a sentire,
civem mehercule non puto esse qui temporibus his ridere possit „ (Ad.
Div. II, 4), diventa ora il suo stato d’animo permanente. La vita
non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est „ (ib.
IX, II). Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi (v. 1 608
e seg.). Du hast zerstòrt Die schòne Welt
Mit màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie zerfàllt !
Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir tragen Die
Triimmern ins Nichts hinuber Und kiagen Uber die
verlorne Schòne. Questo dramma strappa a Cicerone espressioni
di dolore profondamente dilacerante. E la sua corrispondenza è forse la
lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni
tempo ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scrit¬ to, vi
si scorge con l’immediata evidenza della vita vissuta e quasi vedessimo
la cosa svolgersi giorno per giorno sotto i nostri occhi, come sotto
quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la terribilità
della sua rovina personale affligge gravemente Cicerone : “ natus enim ad
agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo a-
gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem „ (Ad
Div. IV, 1 3) ; ed egli ha ragione di deplorare di essere stato
travolto proprio nel momento in cui avrebbe potuto e dovuto,
cogliendo il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice
della sua carriera. “ Omnis me et industriae meae fructus et fortunae
perdidisse „ (ib. XI, V). “ Casu nescio quo in ea
tempora aetas nostra incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum
vivere edam puderet „ (ib. V. I 5). Certo anche la ro¬ vina che
incombe sulla sua famiglia e specialmente sulla sua figlia lo tortura. “
Quibus in miseriis una est prò omnibus quod istam miseram patre,
patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam (Ad Att. XI, 9). Ma ciò che
forma il crepacuore di Cicerone non è la sua situazione personale,
bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.' “ Sed tamen ipsa
republica nihil mihi est carius (Ad Dio. II 15, XV, li). “ Ego enim is
sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci- vium causa
fecerim „ (ib. V. 21 ). Ma ora ? “ Ego vero, qui, si loquor de re
publica, quod oportet, insanus, si, quod opus est, servus existimor,
si taceo, oppressus et captus, quo dolore esse de¬ beo ? „ (Ad Att.
IV, 6). Due sono sopratutto le note in cui erompe 1
espressione di questo suo strazio. In primo luogo, andarsene, andarsene
dovunque, pur di non veder più simili cose: “ evolare cupio et aliquo
pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam „ egli ripete
con un tragico antico (ib. VII, 28, 30, Ad Att. XVI, 13, XV, 11); “ ac
mihi quidem iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo exire, ut
ea quae agebantur hic, quaeque dice- bantur, nec viderem nec audirem „
(Ad ‘Dio. IX, 2); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere,
cuius iam etiam nomen invitus audio „ (ib. IV, I).
95 Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando abbandonasti
Roma per la Grecia, ora veggo che sei “ non solum sapiens, qui hinc absis,
sed etiam beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc esse
beatus potest ? „ (Ad Db. VII, 28). E’ il desiderio che si fa strada
persino nei suoi trat¬ tati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di
Da- marato. Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit exilii
libertatem domesticae servituti ? (V, § 1 09). O, se andarsene non si
può, almeno ritirarsi in solitudine : “ nunc fugientes conspectum
scelerato- rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quam- tum
licet, et saepe soli sumus „ (De Off. Ili, 3). In secondo luogo,
morire. “ Perire satius est, quam hos videre „ (Jd Db. Vili, 1 7) <
Mortem] quam etiam beati contemnere debebamus, prop- terea quod
nullum sensum esset habitura (I), nunc [Che cosa pensi intimamente
Cicerone della vita futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi
puramente estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla
sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due altri, (Ad Dw.
VI, 3 e 21) ricordati più innanzi, basterà citare: « Fraesertim cum
impendeat, in quo non modo ^ or ,*. v erum finis etiam doloris futurus
sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di Cicerone questo suo
vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane (V. I 1 7) : Mors.
aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello (IX) c Q uo
d (la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia
postea nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171):
«quid ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > (ib. V. 15) ; non si sa < si aut hoc lucrum
est aut haec vita, superstitem reipublicae vivere > (ib. IX. 1
7) ; « nam mori millies praestitit quam haec pati > (Ad. AH. XIV, 9) ;
« eis conficior curis, ut ipsum quod maneam in vita, peccare me
exi- stimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur con- sciscerem
causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib. VII, 3). In uno
spirito, così pro¬ fondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spun¬ tare
questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi
sumus ? » (jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito
quin cogites > (Ad Div. II. 7). Cosi, pur nell'atto che prevede
la prossima caduta del cesarismo, dice : Allo stesso modo la
pensava Cesare, il quale nel discorso, riferito da Sallustio, da lui
tenuto in Senato circa la pena da darsi ai complici di Catilina, si
oppose alla pena di morte appunto perchè con questa cessa la coscienza
e quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque
curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va però notato che Cicerone dà
un’altra interpretazione a questo punto del discorso di Cesare. Cesare
cioè era contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a
diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed aut necessitatem
naturae, aut laborum ac miseriarum quietem esse » (In S. Catilinam, IV,
cap. IV. § 7.).] id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus est nos de
illa perpetua iam, non de hac exigua vita cogitare » (Ad. Att. X, 8). E
il pensiero della morte come unico scampo e rifugio viene a gran¬
deggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo vediamo insinuarsi anche
nei suoi scritti teorici : così, p. e., nel proemio del terzo libro del
De Oratore : « sed 11 tamen rei publicae casus secuti sunt, ut mihi
non erepta L. Crasso a dis immor- talibus vita, sed donata mors esse
videatur > (IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi
ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuis- sem obire ! nihil
enim iam acquirebatur, cumu¬ lata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant (I, 109). Morte per sè, morte per coloro che amiamo ;
questo soltanto è ciò che lo « status ipse nostrae civitatis » ci
costringe a desiderare : « cum beatissimi sint qui liberi non
susceperunt, minus autem miseri qui his temporibus amiserunt, quam
si eosdem, bona, aut denique ahqua republica, perdidissent... non, mehercule,
quemquam audivi hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum
aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta- libus ereptus ex his
miseriis atque ex iniquissima conditione vitae videretur > (Ad Div.V.
16). Ne solo nell animo di Cicerone il trovarsi « in tantis
tenebris et quasi parietinis rei publicae > (ib. IV, 3) induceva il
desiderio di sfuggire a questo sfacelo con la morte ; ma tale
sentimento era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui
G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio Sulpicio cerca di
consolare Cicerone per la morte della figlia, 1 argomento principale
che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non pessime cum
iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum vita commutare
„ e che Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum repu- blica
fuisse „ (Ad Dio. IV, 5) ; al che Cicerone dolorosamente risponde che
l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici, l’affettuosa
intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora “ nec
eum dolorem quem a re publica capio do- mus iam consolari potest, nec
domesticum res pu¬ blica „ (ib. IV, 6). Ed anche in Catullo, il di¬
sgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum honores „, disgusto
che faceva gemere dal suo canto Cicerone, cosi ; “ o tempora ! fore cum
du- bitet Curtius consulatum petere ? „ (Ad Att. XII, 49, e circa
Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) : Quid
est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus
sedet, Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge Cicerone qualche conforto
in questa immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante
confessione) dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi
non c’è più nulla 99 da tare : “ quod me in
forum vocas, eo vocas, unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid
enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia ? „ (Jld Jltt. XII,
21). Era il momento in cui i vincitori della violenta lotta politica,
giravano per Roma baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello
Stato legale, battuti, erano melanconici : “ Mane saluta¬ rne domi
et bonos viros multos sed tristes (1), et hos laetos victores, qui me
quidem perofficiose et peramenter observant „ {Ad Div. IX, 20). Due
di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a prender lezioni
d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto, lo sorvegliavano per
conto di Ce¬ sare. Anche queste lezioni recano a Cicerone qual¬ che
sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior mi¬ sura, egli ne ricava dal
far udire, quando e come era possibile, qualche parola di ammonimento.
Così, pur avendo risoluto di non più parlare in Senato, allorché
sulla universale istanza di questo, Cesare amnistia Marcello (che non
aveva fatto nessun passo per essere richiamato e sembrava non de¬
siderarlo — e che fu, del resto, assassinato da un suo impiegato nel
momento in cui stava per par¬ tire alla volta di Roma), Cicerone prende
la pa- (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni im¬
morali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come un torto, di
essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce si fa udire, secondo
Seneca : c Istos tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae
hostes, publicos paedagogos assis ne feceris » (Ep. 123, § 11).] rola per
ringraziare il dittatore ; ma sa anche at¬ traverso i ringraziamenti
esporgli il parere più libero e ^coraggioso che forse mai Cesare
abbia sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1 ardue
di significargli) hic exitus futurus fuit, ut devictis adversariis rem
publicam in eo statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne
tua divina virtus admirationis plus sit habitura quam glonae „.
(Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria,
del giudizio che da¬ ranno i posteri sulle tue azioni, saper
considerare ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei con¬
temporanei, ma con quelli di coloro che giudiche¬ ranno le cose a
distanza, nell’avvenire. Se tu non avrai ristabilito la vera legalità
nello Stato, tu sa¬ rai certo sempre ricordato, ma non con giudizio
concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur, sicut mter nos fuit,
magna dissensio, cum alii lau- dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii
for- tasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi belli cmlis
incendium salute patriae restinxeris, ut illud fati fuisse videatur, hoc
consilii „ (ib. IX). E questo un nobilissimo linguaggio da
cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna riconoscerlo,
Cesare sa ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi contro di lui,
con tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75)
(1). (1) Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta
constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1
oppressione, 1 uso del potere per far tacere censure al detentore di
esso, e persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia
con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pol- lione (lo stesso, alla
nascita del cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i
potenti e a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi
occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli “ nam et
ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum
naturam videtur „ Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa
che accadde con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è
straor¬ dinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo
personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere
anche intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un
uomo dal cuore fondamental¬ mente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tor¬ mentare, perseguitare, far
soffrire altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio
mette in bocca ad Emilio Lepido : “ Cuncta saevus iste Romulus, quasi
ab externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con- suhs
et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse- rat, satiatus : sed
tum crudelior, curri plerosque secundae res in miserationem ex ira
vertunt „ (Hist. Fragni.). Ra¬ ramente, si, ma però talvolta avviene che
un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più
bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali in¬ genio
avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate- fecit „ (Tac., Hist.] Itimi
posti, Ottavio, (I) dedicò la sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee
Egloga IV) nell’elegante epigramma, riportato da Macrobio (Satura II
4) che non si può più scrivere dove in risposti si può proscrivere
: temporibus triumviralibus PoIIio cuna fescenmnos ,n eum Augustus
scripsisset, ait: g taceo ; non est emm facile in eum
scribere qui potest proscribere (2) Più ampio conforto ricavò
Cicerone dagli studi, bbene una volta fuggevolmente accenni che
forse senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale! exculto
emm animo nihil agreste, nihil inhuma- (I) Si vegga nel libro diV.
Alfieri D»/ p • , » I J1
'> e la dimostrazione che questa viltà ha in Virg.ho guastato
l’arte. “Quella parte divTna e ha per base il vero robusto pensare e
sentire tm-,1 niente manca in Virgilio „ (L. II C VI) “ V -esse
avuto nell’animo quella P napesco, assai maggiore sarebbe stato
egli stesso e quindi assai maggiore il suo libro „ (L. II C VI •
vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci j ;• , C S ‘ uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D < ’ . .: Vlr g‘lio si lascia traricchire • anche Boissier, Lopposition sous
tes Césars p.
I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a
memor ia, la seguente versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est „. (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto
dallo
studio della filosofìa, la passione per la eguale '’quo- tidie ita ingravescit, credo et
aetatis maturitate ad prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia levare animum molestiis possit. „
(Ad Dio. IV, 4). Le sue lettere di questo periodo sono piene delle
sue attestazioni che non vive se non negli studi filosofici e non trae
conforto che da essi (ib IV 3 ; VI, 12 ; IX, 26 ; XIII, 28). Ad
aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua atti¬ vità di scrittore. Sono
questi gli anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. “ Nisi
mihi hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem
me non haberem „ (Jld Alt. XIII, 9) Equidem credibile non est, quantum
scribam die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi „ (ib. XIII,
26). “ Nullo enim alio modo a miseria quasi aberrare possum „ (ib. XIII,
45). Vero è che le afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza
dell’avve¬ nire, derivanti dal pessimo andamento degli affari
pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello studio : Utinam quietis
temporibus, atque aliquo, si non bono, at saltem certo statu civitatis,
haec inter nos studia exercere possemus ! „ Però, ap¬ punto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere ve- limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così
nascono i trat¬ tati di filosofia di Cicerone, circa i quali si
cita sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “ sono
copie „ cascatagli dalla penna scrivendo al 104
suo amico e certo come convenzionale espressioni t Xlì Vf fr
° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di
affrontare tale fra e con le sue numerose e consuete esternaziom
dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli off" 3
de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles „ (ib. XII 38) egli dice di star
scrivendo ; quanto alle Jìc- G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ
8 enere ne aVud , cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)-
le chiama “ argutolos libros „ ^ XIli.Y 8 ,00^ XIII 19? ac n
ra ? posset supra ” r/4. XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono
“ ve - hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib
?AJ ÀI XvT i , soddisfa Attico bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT
L'P'a (M AA- ( ’ 8 ^ eSpnme anehe ,a sua Propria soddisfazione per queste due opere
; » mihi
vakle pbcent, maHem tibi dice dei libri,
perduti d!
Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e sua opere filosofiche le
Tusculane, che facilmente si prendono per un mero esercizio
letterario, sono
invece un libro profondamente vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i„ cui Cicerone" si di¬ batteva e che come tale, come
idoneo cioè a for¬ nir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tu- scu ana te
confirmat, sane gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut
paratius ,, (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca,
nelle medesime circostanze da cui esso è nato, è servito allo scopo per
cui era stato scritto : “die Eroica der romischen Philosophie „
come con calzante espressione lo definisce lo Zie- linski ( I ).— Ma il
supremo conforto di Cicerone è un altro. # *
* Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella filosofia
come un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello
che poi Lucano, il grande poeta anticesariano, definirà “ ius
sceleri datum „ (II, 1), quanto nel rivivere in sè i con¬ cetti
della filosofia come atti a fornire forza d'a¬ nimo per affrontare e
sopportare le sciagure de¬ rivanti da una situazione politica e sociale
particolar¬ mente triste : filosofia cioè non come “ ostenta-
tionem scientiae, sed legem vitae „ ( Tusc. II, 1 1). Anche in lui, per
usare l’espressione di cui poi si servì Marco Aurelio (VII, 2) zi 5
óypaia (2). (1) O. c., p. 87. — Giustissimamente il Moricca:
“Sa¬ remmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tul¬
liana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che quelle parole...
furono scritte per una generazione d’uo¬ mini... nelle cui orecchie
esse... andavano diritte al cuore „. “ Un libro di morale
dell’epoca di Cicerone è da con¬ siderarsi non come una fredda e vuota
argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del
pas¬ sato, che sale dalle tombe e vince i secoli „ (O. c. p. XXIX).
(2) Secondo il testo di Trannoy (* Les Belles Lettres »).
106 bisogno di vivere tali precetti A' i ,•
. ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò, Cicerone
Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima,
scnVoSo^v"' 0 i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro
dl profecto anfe me TeZ. ^Z 'T *** consolarer ; que m librum jf .
me per i‘ tera s serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S
‘,^'P' esso talem ; totos die® U c °nsolationem quid, sed t
n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™ XII 14) p t,sper im P e dior,
relaxor „ (Ad 4tt « 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«„e meditazioni
morali!^ e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4
stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d
oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o Prisco
fornirono ° Peto ed EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù
insigni, .1 hiosofo :z :L: r , ai ^ cristiano, il
sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f
« molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi
coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX .(I) Plauto, fatto morire
da Neron» • mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei
3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et
socratici viri ! (esclama Cice¬ rone, qui, veramente riguardo a traversie
di ca¬ rattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un
immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9). Attico (egli
scrive al suo liberto e se¬ gretario Tirone) mi vide agitato, crede che
sia sem¬ pre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae
septus sim „ (Ad Div. XVI, 23). La disperata e rovinosa condizione dello
Stato “ quidem ego non ferrem nisi me in philosophiae portum con-
tulissem „ (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et omnia quae homini accidere
possunt sic fero ut philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non
modo ab sollecitudine abducit, sed etiam con- tra omnes fortunae impetus
armat, tibique idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid-
quam m malis numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23) E noi vediamo
veramente questo pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo sforzo di
distornare il proprio interesse da ogni cosa esteriore per con¬
centrarlo unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare
appagamento e pace (questo, come si può chiamare, ottimismo della
disperazione, che e il solo che resta nei momenti di maggiormente
infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto, riconoscendo tale
inguaribile infelicità, trovare an- Demetrio (ib. XVI, 35): e
Seneca dice di Cano. dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur
illuni Losophus suus „ (De Tranq. An. XIV, 9). man-
phi- ] cora una tavola di salvezza), vediamo questo pen¬ siero
centrale dello stoicismo svelarsi sempre più chiaro agli occhi di
Cicerone e proprio come po¬ stogli innanzi delle circostanze di fatto. “
Sic enim sentio, id demum, aut potius id solum esse mi- serum quod
turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4). “ Video philosophis
placuisse iis qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil
esse sapientis praestare nisi culpam „ (Jld Dio. IX, 19). Cogliamo
il procedere di questa appassionante tra¬ gedia, per cui un uomo di
indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli spettacoli naturali,
del- I arte, della letteratura, delle relazioni sociali, del- I
attività pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio
politico, risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la
feli¬ cita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni
filosofiche (scrive a Varrone) ci re¬ cano ora maggior frutto “ sive quia
nulla nunc in re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit,
ut medicmae egeamus eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum
valebamus (Ad r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sen¬
timento a cui Cicerone è ora pervenuto, il pen¬ siero della morte, qui
fonte anchesso di consola¬ zione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc
vero, eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid e veni t
ferre moderate praeserlim cum omnium rerum mors sit extremum... magna
enim consolatio est cum recordere etiamsi secus acciderit te tamen
recta 109 vereque sensisse „ (Ad Div. VI, 21).
“ Nec enim dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non
ero, sensu omnino carebo „ (ib. VI, 3) Il crollo dello Stato è cosa
gravissima, “ tamen ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia
quae non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre de- beamus „
(Jld Div. VI, 20). E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti
ed incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si scambiavano
tra di loro, prova, sia di quanto il dolore per la catastrofe dello stato
era largamente sentito, sia dell’estensione che a lenimento di
questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. È la genuina
visuale stoica a cui i nefasti avvenimenti politici ha tutti guidati. Non
aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere
rationes (Ad Div.). Se Cicerone ad ogni momento ripete di sè quidquid
acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec esse
ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa magnum est
solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et imbecillam,
animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi oportere. Se
l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva
conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta conscientia
transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, «
a Lucccio7“'“ 8 “ 1 humanas contemnentem
et opule Cont r 7 c„ g „„ vi „ {Ad0 7 casu, et deiicto h Z ,n
non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo- Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ— digni et Ss TstrrdublteTo; ea
maxime conducant ! P ° SSimus ’ V. 19 ) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s (A. praesertim quae absit a ancora a Torauato “ P ) e delio Stato) vereor ne I
^ n 3 ' (,a rovina teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P
°7 “r: e, atque noTZIt,» questi sentimenti ogni
IralToìtTd' !“l “ 7 ° a anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ? scrive Sulpicio in morte di Tullia)
Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-' ,cer °nem esse 9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et
dare con- Ili silium quae alns praecipere soles,
ea tute tibi
subirne, atque apud animum propone; vidimus ali- quotiens secundam pulcherrime te
ferre fortunam fac ahquando intelligamus adversam quoque té aeque
ferre posse. Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia
di massime di vita stoica da servire efficacemente in ogni tempo al
ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per
cui queste lettere suscitarono in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto
di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi trattati, come
le Tusculane e il De Officiis, ove egli dava sistemazione teorica alle
medesime idee 1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle dee
morali che, suscitate in Cicerone dalle vicende di ogni giorno, riempiono
la sua cor¬ rispondenza, ci si ridimostrano, non mere eserci¬
tazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla vita vera e scritti
col sangue che le ferite inferte da questa facevano stillare dal suo
cuore. « Herzenphilosophen > chiama giustamente Cicerone lo] Plutarco
racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote
scorgendolo nascondeva impaurito un libro sotto la oga, glielo prese, e
visto che era di Cicerone ne lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo,
dicendo • uomo dotto e amante della patria, Xó r ,o : *vl' ?. «rat,
io T ,o £ *«l Tardo (come al so’ hto) riconoscimento del meriti di
colui che egli ave¬ va raggirato, tradito, abbandonato al carnefice
Ma Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e st'anzetn
m n “'T'? 1 "” da »! le circo- ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere,
espres. sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma
d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre
un-espenenza morale di elevazione e di purificazione del dolore
stesso nel fuoco della filosofia intesa come via, di cui molti e b
dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende
appassionatamente attraente la sua grande figura alla quale
veramenle-secondo un penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili,
243)-e Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava
Sr p a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma
parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit. Platone
Cicerone Ultime pubblicazioni dello stesso Autore
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C„„ c0 [R om ., CaS a Pagine di Diario : Scheggio [Rieti,
Biblioteca Editr.J, Cicute [Todi, Atanórj. Impronte [Genova,
Libt. Ed. Italia] Sguardi [Roma. La Laziale], Scolli [Torino,
Montes, 1934], Imminenti : Critica deir Amore
e del Lavoro [Catania. Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio, untranslatable,
signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ciliberto: l’implicatura
conversazionale del principe -- il suo principato– filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Cilberto; he
philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’
with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much –
but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an
implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the
‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si
laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale
Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze.
Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e
Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi:
il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri);
“Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il
libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” –
etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento,
Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale,
Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della
Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism,
neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari,
Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele
Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Preludio al Machiavelli *
Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola — dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo
? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 \l Pnncipe di
Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade ZldlZtfìl U °™° dt
g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà Slfia ’ a . 8glU f? e ? e
cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio- ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H °
rilett ° attentame nte il Principe loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S ,
e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem - po e voionta per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel Ma chiavelli.Ho voluto mettere il
minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e
stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non .8 uastare la di contatto diretta
fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie
osservazioni di n0mmi , e f° Se ’ 3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che
mi )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f quindi una fredda dissertazione
scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma, se può
considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il tentativo di
gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^ cveuti La
domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c’è an- cora di
vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero ave- * Da
“Gerarchia”, I ,i . •>\fruzione del
regime i. iniit t|ualsiasi utilità anche
per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic del sistema politico del
Principe è circoscritto all’epoca in > 111 1 11 scritto il
volume, quindi necessariamente limitato e in parte > I.luco, o
non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? I i inin tesi
risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina • li Machiavelli è
viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della
nostra vita sono grandemente cangiati, non si h« i(io vcrificate profonde
varia^ioni nello spirito degli individui e dei itopoli. ln politica
è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre,
educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in < nin di
scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre la i'iin individuale
perché si proiettano nel futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è
dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui
bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste- inn politico di
Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o
pessimista? E dicendo “uomini” dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso
ristretto degli uomini, cioè degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e
pesava come suoi contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del
tempo e dello spazio o pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie
della eternità”? Mi pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame
del sistema di po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato
nel Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse
Machiavelli de- gli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, t|iicl che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli
nei confronti della nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto
occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è
uno Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra
poco documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti.
(,li uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle
cose chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e
passioni. A1 capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili .imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la
roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, .piando el bisogno è
discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel
l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre
prepa- rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che
si faccia mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da
uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni
occasione di propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura
di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani,
trovo fra le Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un
podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La
ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno
fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al
capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a
chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti
gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità
dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini
non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà
abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione
e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I
brani riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo
su- gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli.
È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli
non si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,
fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola “principe” deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione .• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è
mai definito. I una entità meramente astratta, come entità
politica. Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca.
L’aggettivo di “sovrano” applicato a “popolo” è una tragica burla. II POPOLO
tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi “rapprenntativi”
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove
questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore
solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la
risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità —
buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione
o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO
non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete
che la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata
solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di
ordinaria ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il
luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi
supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque
immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia
— che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo —
il dissidio fra forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei
singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del
mio oramai famoso articolo “Forza e consenso”, Machiavelli scrive nel
Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro
una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però
conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far
credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto
fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati
disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. "PRELUDIO"
DI MUSSOLINI POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS POI UN
ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri
ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL PRINCIPE" PREMESSA:
Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi
centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni
critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo del
granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una
rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore di un
"Elogio di MACHIAVELLI". Galanti fa propria quell'interpretazione
repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo
"machiavelisme" dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a
Diderot) e nel "Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di
dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di
Machiavelli è il libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i
suoi famosi versi in "Dei sepolcri". Contro questa
interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni
dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che
aveva indicato in una monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di
superamento delle lotte tra i partiti. Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel
interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare
situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un
precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello
storicismo tedesco. In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione
continuò a oscillare tra la condanna dell'"immoralità" di Machiavelli
e la sua "esaltazione" come profeta della riscossa nazionale.
Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate
di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come
diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini -
leggendolo capiremo perchè). A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo
come il profeta dell'idea di nazione ma come "fondatore dei tempi
moderni", come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e
delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle
considerazioni dell'uomo, che "ha in terra la sua serietà, il suo scopo e
i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del
Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello
spirito. Entrammo poi nel "Ventennio" fascista e qui una
facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini
che prima un suo articolo lo scrive su "Gerarchia", poi cura a
prefazione (che chiama "PRELUDIO") di una edizione del Principe, adornandola
opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis). In queste
pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione
al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è
affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo
stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è
tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea
di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di “fasci”,
creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i
lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo
lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari
affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato
dalla "sovranità POPOLARE", e sulla stessa utopica "democrazia POPOLARE".
Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe,
cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e
solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista -
lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della rivoluzione
violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua teoria la
"morte dello Stato.” E nell'organizzare gli scioperi, lui è un vero e
proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci i
socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel
farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento
socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi
improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti
che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta
dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO chiamato
SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex
socialisti, uscendo dal giornale "Avanti" che dirige – ed è poi
perfino cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la guerra -
soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i
suoi "fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex
soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui
che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi
fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove
o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai
sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. "La
sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo
quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la
fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche
i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo
tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini
inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti
socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in
questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe;
e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto “utilizzo”,
perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia
umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività,
nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in
tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo
al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene
a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. "usare la
forza" -- dando origine a quel mito
del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre
da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la
personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo
vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui
stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e
sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata
irrazionalità "fa quello che vuole". E suona dunque privo d’effetto
quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono
più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo,
forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a
farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole,
parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre ...le
pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di
Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li
Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo,
rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25
luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto
amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di
assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro
comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua
disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso
per strada anche gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile
del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare
"quello che voleva" lo appese a un distributore a Piazzale
Loreto. "Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti
umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande
storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto
queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che -
illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore". "I meccanismi
politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli
delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le
formiche nè gli uomini. "L'individuo umano ha sempre rappresentato
un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al
potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di
altro materiale per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio
che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della
natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le
funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non
sara' neppure una buona formica". E ancora ("non sempre
nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile"). Questo non
è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna
(Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini usò
tante parole. "Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse
accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche
il grande Napoleone: "qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica" Paradossalmente
proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui
fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini". Solo
lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo "suo il popolo":
"devono solo Credere, Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse
il consenso, c'è la forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più
duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o
accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al
Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che
un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte?
Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A
Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. *
ecco qui sotto il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di
F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla
vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli. Mussolini:
" Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di
Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum
parole non si mantengono li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò
senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei
chiamarlo un "Commento dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al
libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo". Debbo
inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro
ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente
il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo
e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su
Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi
o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la
presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue
e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di
governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda
dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se
può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di
gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro secoli di distanza
che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero
avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il
valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu
scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é
invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a
queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di
quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello
spirito degli individui e dei popoli. Se la politica é l'arte di
governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni,
i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che
trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro,
se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa
arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel
sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È
egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo interpretare la
parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli
conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là
del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito "sotto la specie
della eternità" ? Mi pare che prima di procedere a un più analitico
esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli
uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é
l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti
coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri
simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come
verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e
mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più
affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e
passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime:
"Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati,
volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai
loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli,
come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e'
(essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole
loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno
rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere,
perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini
tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da
una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne gli egoismi
umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si dolgono più
di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é
pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".
E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é
necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre
tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità
dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non
operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che
vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine
». Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati
sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è
incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue
opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto
iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi
sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel
concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente.
Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.
Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io
sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale
contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di
risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano
applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non
può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui
non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi
normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace
o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente
al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno.
Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti
diordinaria amministrazione. Vi immaginate voi una guerra
proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di
scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma
quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi
ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso.
V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla
Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile
di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo
dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben
prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso" (vedi subito
sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui nacque che
tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei
popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in
quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non
credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo
non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino
(fossero) stati disarmati". POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU
MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA" MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO
"FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI
FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo
liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici,
immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto,
poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere
"scientificamente" una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi,
luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non
rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in
quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e
in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è
nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo,
dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella
storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e
rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai
stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia
in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun
governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque
soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi
della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti.
Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà". Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de "IL PRINCIPE" Testo integrale originale (che è
comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE
SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in
luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere
dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto,
dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il
secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano
ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una
fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de'
Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le
confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello
spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e
in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel
corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti
stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici,
restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima
nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori,
acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla
repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue
tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio
di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi
d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le
sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo
principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare
l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e
di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita
tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu
scritto: "Tanto nomini nullum par elogium". I suoi Decennali,
arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni », scritte in quindici dì;
i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri
fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna,
dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue
stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è
impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo,
altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il
colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in
questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una
profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa:
sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello
stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è
l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e
dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io
spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso
core; io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non
par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa
mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e ardo, e paura ho
di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle
cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto?
Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento
Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la
scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni
letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la
giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella
descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi
storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della
peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile; ciò
che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle
lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli
scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi
indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi. Dove non
pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa
italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e
beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel
tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle
cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente
negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli,
quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli
ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione,
un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma
un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità
della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più
esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già
vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della
sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi
artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai
mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua
fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni
degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno
battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora
indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte
le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore
è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che
questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il
fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato
"machiavellismo" questa dottrina. Molte difese si sono fatte di
questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è
anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica,
oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i
fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la
coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità,
dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento.
In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione
della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le
passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in
solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di
staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con
l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le
Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere
d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in
Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli
stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di
cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di
ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli,
l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e
buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i
principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino. Gli
stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e
tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i
letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo
quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia
fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e
di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove
altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo « decadenza »
egli disse « corruttela », e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto:
la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di
Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in
tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza,
accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la
corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione
Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale
non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era
armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del
Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della
coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali.
Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure
erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera
del concilio di Trento e la reazione cattolica. Rifare il medioevo e
ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione
religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e
purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle
moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro
mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale
italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era
non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza,
vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di
ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua
demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre
concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo,
de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche
nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del
medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del
linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è
visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è
della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è
pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella
negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E
perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e
ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono
demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un
nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle istituzioni
sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E
in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non
si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende
Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in
mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione. Non è
possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea
fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è
attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della
vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la
verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che
deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il
purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da
questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la
letteratura del Duecento e del Trecento. Il simbolismo e lo scolasticismo
sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica:
Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro
spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane,
che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato,
parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma
cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del
peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme
teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della
Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c'
era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in
questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa
indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel
tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni
filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche.
E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in
alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una
coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è
filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e
contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del
Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno
scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue
attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non
è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo
e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo,
rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua
serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le
opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del
Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la
contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali
però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio
evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' « essere » o, com'egli
dice, alla verità « effettuale ». Subordinare il mondo dell'immaginazione, come
religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due «
Soli » stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la
prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e
svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei
gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La
«patria» del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù
e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di
tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de'
grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato
anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune
gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano "Stati" o
"Nazioni". Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea
tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio » tra i vari
Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo
ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato
italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria
gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione.
L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del
Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e indipendente. La « patria
» del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A
quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di
Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le
azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita
pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formule volgari, nelle
quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La
divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la « patria », ed era non
meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre
l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo
era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la
servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi
"repubblica". E dicevasi "principato" dove uno comandava e
tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era
sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza
dello Stato. Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui
trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate
dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la
sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si
porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora
nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere
senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è
solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri,
ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel
popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di
Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era
perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli
statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza,
l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga
bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come
ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre
virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in
quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi
contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che
vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si
emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta
era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni,
ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che
ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «
disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a «
sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est
». Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza
della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa « forza
», « energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri
riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli
dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i
popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le
tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la
loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza
virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E
parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè
nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria,
Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra,
gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale.
Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee
che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca.
E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il
mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano,
che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non
è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata
dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue
facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento
di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di
effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni
e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e
di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base
scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi
successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia. Questi
concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una
lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel
grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo
l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la
conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè
audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante
Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma
di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato.
Dante chiama le gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza
», come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli,
o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà
principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini
fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le
due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il
misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che
ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove «
non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio,
e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono
maculati di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i
costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi
tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di quell'antica
sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa
elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua
gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel
suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo,
profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è
vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla
alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con
lineamenti molto precisi de' tempi moderni. Il medio evo qui crolla in
tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo
negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione
sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento.
Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra
l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un
nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri
distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le
repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che
riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e
la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali,
e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma
degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare.
Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi
Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il
Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante,
combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati
ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La
religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non
meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E'
in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai
fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico
del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione
della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo
tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele,
ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la
virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I
suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel
calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è
il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora,
il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se
ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a
base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo
come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del
sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono
insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di Firenze...
perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata
a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente,
ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato: dallo
spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite, insofferenze del
popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura di dieci
cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero
cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in
modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una
complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente;
l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure
è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una
sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori
a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno
artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla
riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di
effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o
accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela
l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la
storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I
suoi ragionamenti sono anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si
contenta di enunciare e non dimostra nulla. Sono fatti cavati dalla
storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con
semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti
anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro
princìpi », o quell'ironia de' « profeti disarmati », o « gli uomini si
stuccano del bene, e del male si affliggono », o « gli uomini bisogna
carezzarli o spegnerli ». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte
raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti
delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali
usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi
Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul
periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica
dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle sue idee
medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la materia era intellettuale, o «
descrizione », se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici
proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o
enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma
letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della
forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la
coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è
nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua
verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che
a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la
sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se
possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il
« Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il
fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti
collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il
Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico.
Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: « Nil admirari ».
Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e
non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le
perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e
le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione.
Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non
distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di
fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi.
Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un uomo occupato in cose
gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità,
quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel
Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte
quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere
faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa
sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che
tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua semplicità talora è
negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E
sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di
pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature,
scorrezioni e simili negligenze. La prosa del Trecento manca di
organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto
e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai
l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il
periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di
membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto
non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il
lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più
frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la
coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la
serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane
profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo
quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è
nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce
falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo,
come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in
mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale
importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche l'intelletto,
in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della
composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento
boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto
d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non
avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i
prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione
esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza
dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima.
C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo
scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi « forma
letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo
e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche,
comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui
l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il
Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa
generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce
maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto.
Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo
caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola.
Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con
lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la
cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente
colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma
principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena
come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che
vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei
nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora, di Cesari e
Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il marmo, la
cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni
fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e
Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo
vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto
come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono", che accenna
a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa, asciutta, precisa
e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto,
emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo
regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo
è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce.
Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un attrito di forze
umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro
che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti,
passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza
superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è
l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza.
Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze
mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna
intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima
del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente
mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo
significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la
tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare
secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se
l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola
cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni.
La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino
scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo,
tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in
Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli
è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e
meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I
personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non
è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena,
ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i
motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e
tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e
impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a'
moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita
intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena
e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve,
come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena
finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a
quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e
contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di
quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di
fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione,
tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione,
come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di
gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò
che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi,
perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee,
mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da
una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice
che ti pare superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli
uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non
hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà.
Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la
risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie
di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o
appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso
storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a
un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e
incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,
come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi:
degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia
non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini
politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a
fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono «
gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica
non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si
ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran
parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi,
degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere »,
cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o
così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e
perciò freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere umano ha
questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed
esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi;
onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia
intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il
mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua
immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di
questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro
con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria,
ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non
può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza
de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo,
tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le
buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono,
clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto;
perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più
efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine
principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun
riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi
troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita.
L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non
secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve
domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole
o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato
dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti
poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in
lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo
dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli
bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da
elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E
il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e
regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle
proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo,
la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare. Quando Machiavelli
scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con
lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato.
La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il
barbaro dominio»; ma erano solo velleità. E si comprende come il
Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella
sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al
contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli
glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che
il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua
incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia
la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli
poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della
forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito
italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè
a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in
Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un
esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di
mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli:
ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini
cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che
parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che
quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri
foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo,
quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva
fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale
ferità di core ». - Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in
caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra
gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è intelligenza,
serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava,
rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.
Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la
superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza
adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza
dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella
coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è
vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità
dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e
comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che
disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo
era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza
morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza,
ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a
vivere e a morire per quella. Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima
di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui - scrive - è virtù
grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e
nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con
la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava
di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza
nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono
i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il
patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa
era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui
Lutero era il comento: "La... religione, se nei principi della repubblica
cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato,
sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non
sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa,
quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana,
capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i
fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello".
Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un
dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: "Chi nasce in
Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia
turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi". Per lui è questo una
sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la
storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia,
in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del
soldano, e le geste della « setta saracina », e le virtù « de' popoli della
Magna » al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente
in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il
paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la
decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire
degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli
sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la
malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento
del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: "Se la virtù
che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che
ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di
quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e
della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè,
essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa
operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito
di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e
cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i
principi: "Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel
principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia
loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi...
quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive: "Il fine
della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi,
forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta
Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini,
avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura "
"Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi
delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare
o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre
alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni
d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta
moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della
civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla
radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema
feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause
della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è
che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva
come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono
fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali
d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna...
dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge
i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi
considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato
loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun
riparo". Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca
un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la
riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo,
a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare
di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma
per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio originale
rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare,
sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano
sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il
quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero
liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne
direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile
Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto
fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo
biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E
conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con
Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non
solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: "Considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie:
l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa
vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia".
Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue
ferite, «e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del
Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo
infistolite » E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante
invocava un messia politico, il veltro. Se non che, il salvatore di Dante
ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino
dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe
italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori
di essa era straniero, barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso
dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica
Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella
forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di
Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », «
Italia », « buoni ordini », « buone armi », erano parole per le moltitudini,
dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le
classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e
letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e
della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e
cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene.
Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi
la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per
lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a
vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite
glorie. Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di
liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu
neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che
abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere
un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo
solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma
persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di
traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto
queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua
utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione
italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale
egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta
sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è
entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un
mugnaio, con due fornaciari a « picca » e a « trie trac »: "E... nascono
mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si
combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San
Casciano". Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico
nel comento appostovi: "Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di
muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per
quella via, per vedere se la se ne vergognasse". Vedilo tutto solo per il
bosco, con un Petrarca o con un Dante, « libertineggiare » con lo spirito,
fantasticare, abbandonalo alle onde dell'immaginazione: "Venuta la sera,
mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio
quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e
curiali, e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi
uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è
mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e
domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi
rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e dimentico ogni
affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco
in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel « libertineggiare » sono
frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una
parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici,
nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della « divina commedia » e
cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione
dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida
: - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo
spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali
popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale
italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca
"Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè
l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma furono brevi
illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile
e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo
fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo
disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo
simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è
l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia
dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi
ecclesiastici scrive: "Costoro soli hanno Stati e non li difendono,
hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro
tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè
possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla
quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo
esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il
discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere
sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei.
Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione.
Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo alito, per
mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura
contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente".
Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito
ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i
suoi disinganni. Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era
chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di
Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi
si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora
gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il
Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità,
quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai
Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche.
"Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio...
tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere
che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici
d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...:
colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello
atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi". L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal
Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella
scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero
che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A
questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro;
e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini
armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono
una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide"; .....dice
sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte
ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e
poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti
pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà
d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al
caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo
mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che
debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto
nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco.
Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di
latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più
pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in
Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la
moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a
quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua
bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e
rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare
il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con questo: che
s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo tempo più
soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso; chè gli è
stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non sendo premio
alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di
malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo
d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, «
assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno
scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto,
ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse
commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che
usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa,
come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli
attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo
ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui
freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è
dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione
di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo.
Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di
vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false.
La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri.
Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi
colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende
comico "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte
mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle
piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si
commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la
lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma
queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il
marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato
e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle
figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa
ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con
tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto
comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli
tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle
ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel
teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere
Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una
luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer
Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza
superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è
terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in
poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco
criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle
ragioni della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola
mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu
dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte
mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti
che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo
faccia senza pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -
« ... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia)
alle mie voglie ». Il carattere più interessante è fra Timoteo,
precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della
chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la
bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non
sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io
dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi
una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante
volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi
se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!"
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un
dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua
semplicità. Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua
mercanzia". E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: "
...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte
le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se
de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce
bene i suoi polli: "Le più caritative persone che ci siano son le donne, e
le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le
intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele
senza le mosche". Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il
linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che
procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete,
e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da
poter cominciare a far qualche bene ». - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: " Messer
Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per
trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro
dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento". Se mostra
inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa ch'io non pensava a
ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio,
intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi
fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la
persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che,
quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è
l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; -
ma non credo mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non
dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo
misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la
madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti
e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un
« misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano
indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece
ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del
Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e
nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non
lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista. Appunto perciò
la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata
in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La
depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia
appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia.
Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il
suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che
snuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non
c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella
spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il
gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e
descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle
impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E'
un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più
profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da
forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per
indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui
premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi
meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso
sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia
e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie :
«d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse
nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di
quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella
complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione
è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da
una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra
commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due
qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti
e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti
e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza
operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero
esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare
e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ». C'è lì
tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo
scrittoio. Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una
parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte
più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua
vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo». Anche oggi,
quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama «patria di
Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci
«figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.
E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione
e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del
Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in lui è un incidente ed è
il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo » quello che nella
sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di
assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da
un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.
C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto. La sua logica
ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno
scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo»
significa «marciare allo scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso,
perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti,
e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che
stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la
plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con
lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la
stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o
un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda
Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla
pianta « uomo », in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere
o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende
che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e
che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il
codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come
base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è
regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla
concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o
individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza intelligente,
coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo,
sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con
uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il concetto
fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e
ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali. La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro;
col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e
indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi:
ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui
è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere: « altere et pati fortia ». Il fondamento scientifico di
questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e
l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così
perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la
scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il
programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno
realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque
alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte
dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo
! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e
annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si
grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non
solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni
sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E
quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe,
protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in
tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è
mia. Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua
esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e
assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo « Stato » non è
contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente.
Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La « ragione di Stato
» ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute
pubblica» le sue mannaie. Fu Stato di guerra, e in quel furore di
lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno.
Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza,
l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se
chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei
fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini
rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua
colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia
posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli
che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è
migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e
produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli:
allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode,
le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già
tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le
rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età
dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che
d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri
un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a
maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal
Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo
nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare
Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della
storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella
qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della
coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi,
è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente
rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle
qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa
quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il
calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è
l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i
grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente
relativo e variabile. Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di
sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se
stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo
sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società.
Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli
inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla
coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero.
Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno
trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui
rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le
transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria,
sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità
e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è
la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali,
e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi
dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e
ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del
meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della
conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio
toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli
scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con
la sua illustre coorte di naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni
più giovane di Machiavelli e di Michelangelo, già non sembra della stessa
generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più
corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia
unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di
governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali
o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a
realizzarli. "Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia
morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una
repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i
barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti".
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento
del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del
Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano
amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella
società è il Guicciardini, che scrive: « Conoscere non è mettere in atto ».
Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi,
ma fai come ti torna. La regola della vita è « l'interesse proprio », «il tuo
particulare ». Il Guicciardini biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza
de' preti » e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per
vedere ridurre « questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o
senza vizi o senza autorità » ; ma «per il suo particulare » è necessitato
amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio
temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si
mescola, lui, « non combatte con la religione nè con le cose che pare che
dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli sciocchi ».
Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse », ma a patto che non
sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria, e, se perisce, gliene duole,
non per lei, perchè « così ha a essere », ma per sè, « nato in tempi di tanta
infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma « non s'ingolfa tanto nello Stato
» da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la
sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè « mutano i visi delle persone,
non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo », e, quando la vada male,
ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito ». Miglior consiglio è portarsi in
modo che quelli che « governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano
fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno sono uomini « leggeri ». Molti,
è vero, gridano « libertà », ma « in quasi tutti prepondera il rispetto
dell'interesse suo ». Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo
com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità
possibile. Così fanno gli uomini « savi ». La corruttela italiana era
appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla
vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria,
la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la
terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e
buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno
conciliabili col tuo « particulare », come dice, cioè col tuo interesse
personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al
sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè
francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi »,
come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi », quando «
i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende dell'assedio di
Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non
dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e
non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché
non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua
saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo
non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina
predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio
del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto
si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere
una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello
esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un
cavallo". In questo concetto della vita il Guicciardini è di così
buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda
con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che
avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di
cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni,
dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui
giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice
il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si richiede
la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' « esperienza »
che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al reale e non
abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la « discrezione »
o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi
tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il vero
libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il quale si
richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non basta, e
non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere
vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in
speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti». L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari
» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che
scrivono le cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » :
perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha
servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa
base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e
l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il
sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma
anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico
e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di
asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella
tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il
mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si
riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di
premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la
povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare,
più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore
ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia
di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non
meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «
credi poco e fidati poco ». Questo è il succo dell'arte della vita
seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma
il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza
e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana,
tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e
alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza,
trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo,
avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il
Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni
e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si
riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il
Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla
potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana.
Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale
facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli
altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con
una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e
non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e
indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati
generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e
tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo
svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in
lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale
buono e la discrezione. Meravigliosa è soprattutto la sua
discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso
per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di
circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la
vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è
naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con
sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo
della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la
sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi
nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il
carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il
Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva
de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè
ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle
pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua
franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di
sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo
se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da
un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal
1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di
tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa
tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia
c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le arcioni, le
prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti « atrocissimi
accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli
attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La Riforma, la calata di
Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del
papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta
un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali
preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi
tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e
minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa
essere così o così. L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi
così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni,
interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale
è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi
costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva
quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo
nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo
stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è
meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca
questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero,
è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello
che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia
naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se
stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie
di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una
specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco
interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono
quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio
dell'ingegno. Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di
fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non
solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà,
nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che
le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E
se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo
da imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il
segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti
elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine;
e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una
virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512
quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da
antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e
veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico
perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due
nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere
molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le
ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro
insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare
presso Cesare Borgia , l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del
papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia
centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze. Presso
il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel
giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di
Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso
) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia,
l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore "molto splendido e
magnifico" che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra
parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del
crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di
Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo
fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di
Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua " ultima ruina " . In quella
occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche
rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell'energia e del "
furore " che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni
. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la
corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette
alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana,
Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e
l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si
vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli. I
problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente
chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe
non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della
nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una
serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello
ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca
di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati;
Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di
scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra
l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto
delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E' del tutto
comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel
momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose
dall' alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in
un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) ,
sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero
inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche
incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione
fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze )
, di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare
come ambasciatore presso la " repubblica degli Zoccoli " , cioè
presso il capitolo dei Frati minori di Carpi . Solo nel 1526 gli
venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori
delle mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati
e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio forzato,
Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la
giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o
imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o
infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie
coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie
e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira
questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro
"vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che
nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i
dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La
Mandragola. Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è
questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più
alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo
dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei
suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire,
nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che
lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal
presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi
astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si
pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e
così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una
situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del
sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e
distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti
al Principato" con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo,
all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica
indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera
dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E
se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non
sentendosela di identificare la "virtù" - sia pure nella particolare
accezione in cui egli usava questo termine di "energia" e
"capacità" - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli
non manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non
coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente
procurare la "ruina" di un principe, al contrario, mancare di parola,
ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di
immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del "fine che
giustifica i mezzi" che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si
limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono
politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto
all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema
non lo interessava: la "realtà effettuale" italiana non suggeriva
certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra
tutto, invece, sulla figura del "principe nuovo" come la sola che
possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi
fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni
inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema
della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e
i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei
suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà
un posto che non ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é
" più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe "
e che " se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi ,
formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare
a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche
moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le
permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi
l' argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un
campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il
discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere
costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i
cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e
stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il
discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando
in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la
necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle
cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente
" nella prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in
" questo tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é
già consapevole della sua libertà ed individualità " e il "
ragionamento a piramide degli scolastici " cede il posto al "
ragionamento a catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha
costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a
un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni .
La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che
squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era
in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge ,
di frequente , con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi
compagno e sodale del suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze
di questo . In tal senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E
quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario
fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule
condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera , il lettore ha la
sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa
possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della
gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una
realtà mortificante , la " ruina d' Italia " , nelle sue istituzioni
comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell' avvilimento del
popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare
distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi
appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo
della Mandragola , il capolavoro del teatro del '500 . Egli , però , ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa , sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta . Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire " in laboratorio " : le
sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica , in cui
egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella
Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà ,
modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta
così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi
e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli
vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta
attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non presenta quei
solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee
e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e
instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e
compagnie di ventura , anzichè su eserciti " cittadini " , che soli
possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la serietà di impegno ; ma anche
crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti ,
tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per
Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per
la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l'
orgoglio e il senso dell' onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento
scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio
mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare . Perciò , come
hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi
nel 1494 , gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza
politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando
il territorio della penisola . Per Machiavelli l' unica via d'
uscita da una così straordinaria " gravità de' tempi " é un principe
dalla straordinaria "virtù" capace di organizzare le energie che
potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una
compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche
degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta
le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del
calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento
decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche
immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il
senso . Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo
così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora
tanto interesse : partendo da quella situazione particolare , cercando di dare
una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza ,
Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a
fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche
immediate danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono
affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore
letterario , ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera
teoria scientifica . Concordemente Machiavelli é stato definito
come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina
nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello di altre
discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo , come l' etica .
Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione
politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l' agire degli
uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè ,
nell' analisi dell' operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha
saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare
e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio ,
se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato
fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione
politica del suo operato . E' una teoria di sconvolgente novità , veramente
rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale . Machiavelli ha il
coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di
delineare degli Stati ideali " che non si sono mai visti essere in vero
" . Proclama infatti di voler andar dietro alla " verità effettuale
della cosa " anzichè all' " immaginazione di essa " , proprio
perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma
scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire uno strumento
concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura
efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza ,
Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio
fondamentale nell' aderenza alla " verità effettuale " : proprio
perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua
costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta ,
empiricamente verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo
mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire
principi generali . L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi :
quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti
, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi . Machiavelli le
definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle
cose moderne " e " lezione delle antique " . In realtà si tratta
solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell' informazione su cui
lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi
alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é
convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i
suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e
delle stelle . Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il
comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta , si
possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale .
Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia
antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi
l' agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini "
camminano sempre per vie battute da altri " , perciò propone il principio
tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi
tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative ,
nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella
politica . Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di
Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia
individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi
sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza
per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell'
uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne
teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in
conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare
empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono "
ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de' pericoli ,
cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre
che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale
e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini
malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la
professione di buono " perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche
sapere essere " non buono " laddove lo richiedano le necessità dello
Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro ,
ossia un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come
una bestia a seconda delle situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e
le sue istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente
sarebbero " cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non
compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é
il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista
e considera " cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ;
egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su
altri criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno ,
invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe
ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle
altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a
Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di
verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di
salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " ,
ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi
principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a
mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva
già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi
Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere
spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che
essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di
governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella
repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il
principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria ,
indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai
suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma
repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha
istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio ,
Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un " opuscolo
de principatibus " , in cui si trattava " che cosa é principato , di
quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si perdono " . L'
indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta , ma lascia
aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se
sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i
rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio "
. Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione in una stesura di getto
, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo
de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di
appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " ,
sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato .
Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di
tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per
far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di
maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della
situazione italiana . Il Principe é un' operetta molto breve ,
scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola
in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come
era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I
- XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che
consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilità .
Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo
II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come
membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta
questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV
- V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui
si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro
che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli
distingue tra la crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella
impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore
utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il
tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno
. Machiavelli affronta il principato " civile " , in cui cioè
il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si
debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati
ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa , come nel
caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema
delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari
( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell' Italia del
tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto
costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e
delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui
, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie
, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per
difendere i loro averi e la loro vita stessa . Machiavelli tratta dei modi di
comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in
cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale
e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù
morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verità
effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi ,
mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro
non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere
" non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al
fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno sempre
considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente
suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l'
esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i
principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà
italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é
essenzialmente l' " ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non
hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva
avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce
naturalmente l' argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna ,
cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre argini alle
variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa
allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo é ,
come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed
energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai
barbari . (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ) .filosofico.net/filos1.html
ANDIAMO ALL'ARTICOLO di Pellegrino. Mangieri IL PENSIERO
POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA ANDIAMO ALLORA
DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE > >
HOME PAGE STORIOLOGIA. Grice: “When I created Deutero-Esperanto, I felt
like the principato senza il principe!” --. Michele Ciliberto. Keywords: il
principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice,
lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i
contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola,
immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul
rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana,
democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto
sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi
costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed
implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra
quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.
Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks
to join the circle of Pythagoras. He is rejected because Pythagoras sees in him
a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads the people of Crotone
in a campaign against the sect -- as a result of which Pythagoras has to decamp
to Metaponto. “At least he left with his judgment vindicated – Pythagoras did.”
Archita said. Cilone.
Grice e Cimatti: l’implicatura
conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti
naturali della comunicazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological
semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has
thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion
animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed
esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si
parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri);
“Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri
La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente
e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva”
(Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati
Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della
comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia
dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile
ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino
Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le
ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio
ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo
sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno
passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e
psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei
sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte,
Quodlibet); Filosofia del linguaggio:
storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e
l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del
reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes,
Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo
(Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto,
l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce"
(phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che
un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un essere
animato ed è dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un
animale non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito,
riso, pianto), ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” --
e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na
tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o
"non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto,
come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità
del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi,
"invisibili" -- possono articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma
non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del
linguaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano,
attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi
indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di
significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi
indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo
dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da
un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una
espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette
di distinguere anche tra il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’)
emesso dall’animale, questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox,
vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product, groan) e interpretabile.
Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’
‘characterisation of a product’, groan) presenta alcune interessanti
particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice –
‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a
sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia
emesso da un essere animato (II); (ii) sia dotato di significato (semantikos)
(Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un animale, per quanto definito psophos
(''rumore"), ha tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale
(e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura"
phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e
sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il
cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi
in unità più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono
(Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si
possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese linguaggio
umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali,
attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per
convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile
ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr.
Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word –
meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome.
Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento
in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o
manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra
l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal
verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The
Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our
ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech
was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and
bang. What's wrong with this theory? Relatively few words are
onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance,
a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in
China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all
are derived from natural sounds. The Ding-Dong Theory The
ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose
in response to the essential qualities of objects in the environment. The
original sounds people made were supposedly in harmony with the world around
them. What's wrong with this theory? Apart from some rare instances
of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an
innate connection between sound and meaning. The La-La Theory The
Danish linguist Otto Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that
language may have developed from sounds associated with love, play, and
(especially) song. What's wrong with this theory? As David Crystal
notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still
fails to account for "... the gap between the emotional and the rational
aspects of speech expression... ." The Pooh-Pooh Theory The
pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection – a spontaneous
cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"), surprise
("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").
What's wrong with this theory? No language contains very many
interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath,
and other noises which are used in this way bear little relationship to the
vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho Theory
According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt, the groan,
and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with this
theory? Though this notion may account
for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in
explaining where words come from. Wikipedia Ricerca Origine del
linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui
Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una
considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è
uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A
differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua
natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a
metodi indiretti per decifrare le sue origini. Secondo la Genesi,
la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la
confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I
linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e
che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza
fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza
e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi
necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario
necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono
esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili
e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con
una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di
un'altra[3]. Le lingue umane potrebbero essere emerse con la
transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico
superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e
l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro,
mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200
000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico
(Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000
anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative
dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo
stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la
lingua umana completamente sviluppata. L’origine del linguaggio negli
studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu
una tematica fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo)
e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono
due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio.
Schelling, nel suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali: Ipotesi
teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato
di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale
il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata
dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare
progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano
a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito,
non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in
contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi
teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è
stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il
linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque
giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che
il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del
pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il
linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è
quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio
vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la
composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è
in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel
terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i
propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema
riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una
proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.
Parola e linguaModifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il
discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato
fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare
parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto
diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente
non usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua
dei segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente
sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede
sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici
mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa. Comunicazione
animaleModifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di
comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione
come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie
animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad
esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per
nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa molto a proposito della
comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura
anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di
produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In
cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e
l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del
vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite
ad imparare ed usare correttamente centinaia di lessigrammi. Le aree di
Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono responsabili del controllo
dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come
di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le loro "grida
vocali", che vengono generate dai circuiti neurali presenti nella
corteccia cerebrale e nel sistema limbico. Nell'ambiente naturale, la
comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono
note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste
vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in
avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un "grido
del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in
moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di
ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni
pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione.
Se un cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre
scimmie si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10].
Antichi ominidiModifica C'è una speculazione considerevole sulle capacità
linguistiche degli antichi ominidi. Alcuni studiosi ritengono che l'avvento
della postura eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, abbia apportato importanti
cambiamenti al cranio umano, formando un tratto vocale più a forma di L. La
forma di tale tratto ed una laringe relativamente bassa nel collo sono
requisiti necessari per produrre molti dei suoni che si producono nelle lingue
umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi invece credono che, basandosi
sulla posizione della laringe, neanche i neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria
a produrre l'intera gamma di suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro
punto di vista considera invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo
sviluppo della parola. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal
linguista Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui
manca: una sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi
ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si
tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il
linguaggio dei primati superiori e le lingue umane moderne pienamente
sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma
di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13].
Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra,
era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce
che probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione
più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La scoperta nel 2007 di un
osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani
potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli
moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli
ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale
ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua
dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di
300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé
che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani fossero stati in grado
di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio che potessero
possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò il suo dubbio
sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra. Per 2 milioni
di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli attrezzi in
pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato intensamente sugli
antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani
come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma
che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale
dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani
probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua
articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben
sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica
dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa. Homo sapiens. I primi
esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei
reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero
anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili
non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano
preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano
meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni
modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di
un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia
sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo
costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un
consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni
climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del
periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con
più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e
corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla
funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi
per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio
gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza
l'aiuto della lingua[21]. Il passo più grande nell'evoluzione del
linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo
pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una
lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere
stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello,
come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed
il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche
negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro
del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a "tutti"
i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione linguistica
sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che l'insieme degli
organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il ramo evolutivo
umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo, il linguaggio
parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri umani.
Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo
dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni
fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella
colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non
erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi[24][25].
Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna
che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la
possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a
quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento
della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento
in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori
di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni[28][29]. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica
Teoria dei gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano
parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano gesti
o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi gesti
assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta", con le
mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che
il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto.[32] La questione più importante per la
teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale.
Ci sono tre possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad
utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza
poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si
debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno
bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si
avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di
cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un
leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe
creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri
umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua,
in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato
dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9] Se questi contatti tra
i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono
diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini
di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una
lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una
fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di
tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle
lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno
dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono
l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce
da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le
lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli
determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture
frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9] Grammatica
universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di
un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in conflitto
con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene spesso citata
come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua
dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua
dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti.
Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro
d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini
sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva
accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel
mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma
linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché
l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole
dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli
studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.
I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in
precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini
vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di
comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano
più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano
avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano
meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro. In seguito
il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua
dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori
cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani
avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un
alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della
grammatica.[34] Approccio sinergicoModifica La Azerbaijan Linguistic
School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno,
sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della
scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:
Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o
sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura
sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una
lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema = frase (linguaggio
pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase
III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono
(linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva
l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della
parola[non chiaro][35],[36] StoriaModifica La ricerca delle origini della
lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.
Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del
XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i
vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate,
culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica
moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann
Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti fino al
XIX secolo. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile
agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò
clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un
problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica
divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed
altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione
riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica
universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia.
L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi
di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La
bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un
capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica,
mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni
novanta. Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di
aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per
esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il
faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da
pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato
senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi
disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane.
Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta
che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi
bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico
II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento
simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e
morirono.[37][38][39] Nella religione e nella mitologiaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua
sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per
le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle
mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua
divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare
con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state
analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il
Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite
un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva. Uno dei
migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella
Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi
abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre,
confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi 11:1–9). Un
gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto
simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda
alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro
lingua, così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su
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«Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in
futuro indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per
la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa
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0-471-58426-6. «Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus,
would likely have possessed less developed forms of language, forms
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DOI:10.1142/9789812774262_0020. URL consultato il 10 settembre 2007 (archiviato
dall' url originale il 15 ottobre 2006). «Hyoid bones are very rare as
fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but one
Neanderthal hyoid has been found (Arensburg et al., 1989), very similar to the
hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a
vocal tract similar to ours (Houghton, 1993; Bo¨e, Maeda, & Heim, 1999).» ^
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humans or people who look pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years
ago and that's the fossil evidence behind the recent "Out of Africa"
hypothesis, but that they only spread from Africa about 50,000 years ago. What
took so long? Why that long lag, 80,000 years?» ^ Wade, Nicholas, Early Voices:
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bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info. Controllo
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fa di Paroll PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula
che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano
innati per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine africana
dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we
both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s
psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and
communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum,
‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I
use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing
that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della
comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural –
non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica,
prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia
semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti
naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come
percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” –
The Swimming-Pool Library.Cimatti.
Grice
e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). A philosopher of the Porch.
Grice
e Cinna: il portico a Roma -- il tutore
del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and
tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C. the value of
friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.
Grice e Cione: l’implicatura
conversazionale del corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – l’idea corporativa
come interpretazione della storia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus –
which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him
– the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other
subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case,
first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He
thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs
– his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational
etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady
interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste,
studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso
nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto
dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica
Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta
cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta
per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle
epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia
repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il
partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne
eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al
Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto.
Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di
Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro
dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno
importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da
Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito
avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo
nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò
assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la
magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò
positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo. Home
Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By
Redazione 4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl
sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica
tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano molto,
moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono
diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra fratricida un altro
esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio “indolore” dei
poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al Regno. Si trattò
di operazioni sotterranee molto complesse, spesso contraddittorie, che si
fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte del movimento partigiano
(i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione
delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di
passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un socialismo che avrebbe
dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo
tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi
personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i ministri della Rsi Carlo
Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della
polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese,
più altri minori; da parte socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi
e soprattutto Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di
“collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e
socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln. Punto di
raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce,
antifascista liberale, confinato politico, il quale alla vigilia della guerra
civile decide di puntare sulla riconciliazione degl’italiani. Un progetto
ambizioso, non sempre sorretto da una vera lucidità politica, che comunque
portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì
a catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera
per il passaggio indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la
fiducia di Mussolini che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine
riusce a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale,
il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio
e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma
ed Almirante. La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame,
di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA
REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra le prime,
ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto questo.
Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che cercarono di
costruire dei ponti tra fascismo e
antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più
moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci.
Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di
novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di
sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo
mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta
effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il
costante richiamo alla CONCORDIA nazionale.
Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia
di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento
dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento
essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non
per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale
senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è
quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia
italiana e soprattutto di potere non considerare con attenzione le
soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo
di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In
questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso
produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante
da recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la risoluzione
dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la
ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della
categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C.
non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella
precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra
civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello
che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se
vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità
di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità
politica del saggio di C. sulla Rsi, ma
anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie
convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti
politici. La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è
vero che in Italia il filosofo tende a correre verso il carro del vincitore,
la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei
futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza
riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i suoi
studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a
frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno
le idee e gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente
critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì
tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue
la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne
l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca
di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari con
il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino, ritornato
in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense
di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod "Popoli",
dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera docenza di storia
della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e intitolato "Croce",
la cui polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere
della Sera, procura a C. numerosi consensi anche da parte di MUSSOLINI, che C.
incontra personalmente grazie alla mediazione dell'allora Ministro della
Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di Mussolini, il
"Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il giornale
"L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista
più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fontiGennaro Incarnato, in Dizionario
biografico degli italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione
tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993. CIONE,
Domenico Edmondo di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani -
Volume 25 (1981) Condividi Pubblicità CIONE, Domenico
Edmondo. - Nato a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine
pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone,
figlia di commercianti di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il
consolato germanico, poi al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per
iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata
istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una
dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città
come Napoli in permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella
si tendeva a sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento
sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del
C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di
tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella
ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli
frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e
meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle
gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da
cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.
Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee,
attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito
moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato
un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi
violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì
le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli
anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la
frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione
a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e
tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo
gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente. I numerosi studi sul De
Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla
Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche
sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce.
Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla
mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante
rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di
Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura
umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla
rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non
scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La
ricerca appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano
(Napoli romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del
suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo
piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo
sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non
propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come
un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie
romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno
mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e
lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di
cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del
famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per
venire incontro ad aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e
nel 1932, seguendo i suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune
familiari registrano nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un
posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non
veniva ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu
trasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti
con l'opposizione liberale al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed
aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli,
Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. Tra il 1930 ed il 1940 l'adesione al sistema crociano era del resto
indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali
emergente dagli studi sul Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica
al marxismo), sul Valdès e dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis,
l'emancipazione non era così consapevole come tenterà ad affermare in
seguito. Nel settembre 1940 l'intercettazione di una lettera da parte
della polizia, che ne interpretò malamente il contenuto, provocò il suo internamento
nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori furono
mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui maturò la sua crisi politica e la
rottura col Croce. La convivenza con oppositori socialisti, anarchici e
comunisti aveva su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto con uomini
che, non solo si opponevano al fascismo sino alle ultime conseguenze, ma che
non disdegnavano nei loro programmi di far uso degli stessi mezzi coercitivi
del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo indusse alla revisione e
all'abbandono, dell'antifascismo. La compilazione di un volume
celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo dallo
stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con questo,
anche se un compromesso rese possibile la pubblicazione L'opera filosofica,
storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942), dopo strascichi giudiziari.
Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle biblioteche, stavolta alla
Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista Popolidell'Istituto per
gli studi di politica internazionale, diretta da F. Chabod. Nel 1942 conseguì
la libera docenza in storia della filosofia; fu professore di ruolo di storia e
filosofia nei licei, e nell'aprile 1943 ottenne, sia pure non a pieni voti, un
giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia
della filosofia, nell'università di Napoli. Nel 1949 conseguì la libera docenza
in storia moderna. L'armistizio lo colse a Roma in contatto col movimento
"L'unione nazionale" di P. Martini, antifascista di tendenze moderate
e conciliatrici; il movimento venne poi stroncato in seguito all'arresto dello
stesso Martini, il quale finì trucidato alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a
Milano con un giudizio negativo sull'antifascismo del quale coglieva solo gli
atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per spirito di parte sembra
gioire dalla disfatta. A Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il
momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con
l'anticipata apparizione della polemica prefazione del C. sulle colonne del
Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica di Salò,
gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini
mostrò d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della
Cultura, s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in
virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21
ottobre 1944 il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per
parlare il linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della
minaccia e dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli
antifascisti hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di
copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e
puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto
buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da
masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che
Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli
antifascisti. Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite
da Mussolini dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il
Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e
socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana
L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e
strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato
a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala
estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare
Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli negò la
pubblicità per il giornale, considerando il suo "un tentativo di
conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una polemica con
l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua
chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le
pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione. Il C.
dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa
ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di
professore e nel 1948 riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi
attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con
virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei
giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro
comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del
Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al
tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia
della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951). Nel 1946
ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica
anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel
recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non
con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle
premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al
cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori
filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo,
Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul
Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò alla rivista di C.
Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia
all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio
presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle
illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma
ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con
una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare
fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del
partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.
Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della
gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini.
Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai
nella direzione nazionale dei partito. Sull'onda dello spostamento a
destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto
prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli
capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere
eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove
però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale
di S. Riccio. Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli)
di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e
alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto
sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di
Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina,
Napoli 1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana
(Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli
1960)per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi
sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione
di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano
1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di
impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo
(Bologna 1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di
Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F.
Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della Facoltà
di lettere e filosofia dell'Istituto magistero di Napoli, anno acc. 1960-61,
pp. 65-69; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX
(1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino
1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino
1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965),
pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma
1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari
1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.
Sulla bibliografia Fascista
Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere
ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i
campi. Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a
cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma,
1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione
del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a
cura di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi dei vari
aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di L.
Màdaro); Il Libro (Vita- ha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929
(complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura di C. S.
Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, ed. tedesca, Heidelberg, 1928;
ed. italiana, Firenze, 1927. Studi vari : Opere e leggi del Regime
Fascista, Roma, 1927; Mussolini e il Fascismo, Roma, 1929 (complesso
di 30 studi); Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti vari).
Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni del Fascismo nella Nazione,
pubblicato a cura della « Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma.
Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili. A cura
del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio
è aggiornato a tutto l’esercizio 1932-33 con la seguente pubblicazione
annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale
del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario 19... ecc. Per la
storia finanziaria fascista si vegga : De Stefani A. La Restaurazione
finanziaria (1922-25). Bolo¬ gna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata:
Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La politica
economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri,
Bologna, Zanichelli, 1924; Gangemi L. : La politica finanziaria del
Governo Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.: Le
Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova Italia ». Opere Pubbliche
(pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La
Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Mi¬ nistero delle
Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano. Nei riguardi
della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente volume
di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno d’Italia, 2
voli. Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni straniere quelle
tedesche sono le più ricche e meglio informate. Le opere e
gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che
meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione economica, e
cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eber- lein G.;
Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.; Leinert
M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i
particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a
cura della C. N. P. A., Roma, X.). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pub¬ blicati in « Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegege- ben
von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche: Die fascistische
JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von G. Dobbert,
Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e
svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni dell’azione
economica corporativa Per una rassegna delle interpretazioni
dell’azione economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti
di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Catania, Studio Editoriale
Moderno, 1932. Sono ivi ricordati i contributi più notevoli,
teorici e descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬
tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi- cus » e Stato
Corporativo in : Giornale degli Economisti del gennaio 1932. Riportiamo
qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio
dell’economia corporativa, tralasciando di segnalare gli studi,
nume¬ rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di
consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della stessa realtà
politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza
Fascista in Gior¬ nale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. :
L’Eco¬ nomia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Lit¬ torio,
1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica Universitaria,
1932; Amoroso L. e De’ Ste¬ fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti,
cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della
politica economica, in « Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934
(Classifica le varie politiche economiche. Carattere di quella
corporativa: autogoverni economici particola¬ ri, con il compito di
emanare misure rispondenti, nei rami particolari, alla politica economica
generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni
sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di
interventi statali, in «Ar¬ chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase.
III, Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. :
Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della
economia politica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le
crisi economiche delV ordinamento corporativo della produzione, in « Atti
del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa:
Caratteri e forme delT attività economica, in «Rivista di Politica
economica » del 31 gennaio 1931. (Secondo questo autore J economia
corporativa non è altro che un’ economia di complessi economici, che dev’
essere studiata nella sua realta concreta, prescindendo da erronee
identificazioni dell individuo con la società e di questa con lo
Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo eco¬
nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in onore di Prato»,
Torino, 1931 (In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano
pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬ novesi,
dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto che inquadra le
sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo conto degli
interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,
che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della
Nazione, viene organizzata gerarchica¬ mente dallo Stato); Degli Espinosa
A.: La forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze
Poligrafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre
1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale
», novembre-dicembre 1933; e dello stesso: Corporazione aperta in «La
Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla
teoria delVuomo corporativo, in « Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15
gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista
economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara,
S.A.T.E., 1929 e dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano,
Ediz. dei « Pro¬ blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed
econo¬ mia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Camera
corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara 1930; Fossati A.:
Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa,
in : « Rivi¬ sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene
questo A. che tanto la politica economica corporativa, quanto l’attività
corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati
di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e
in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬
scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della
Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬ ciente chiarezza
(univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Pur¬ ché non si mescolino precetti e teoremi, e
peggio, non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente
legittimo fare della economia corporativa una « eco¬ nomia » astratta,
trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il
procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli
economisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa politica,
Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle
imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello
stesso : Scienza, critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »;
Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso
A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », novembre
1928, ed Economia corpora¬ tiva e politica economica, in « Giornale degli
Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria » (Lo
Stato come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche
Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica
tradizionale e la notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i
quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee
li- erali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia,
riconosce che per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse
privato con quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è
necessario giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e
identificare F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica
pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la
perso¬ nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di
bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli
uomini, differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬
scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa
la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della
produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione del
prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,
del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari,
porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la definizione dei
fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione economica col
passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la
conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pub¬
blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬ sumerà la
direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione
economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di
impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone
nei confronti con gli altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi
al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di questo A. :
Il problema fondamentale delTeconomia corporativa, in « Critica Fascista
», 15 dicembre 1933 ; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e
metodo¬ logia economica, Catania (Sono raccolti con lievi
modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito
di un tentativo di teoria pura del corpora¬ tivismo, in « Fiamma italica
», gennaio-febbraio 1930 e dello stesso: Strumenti teorici di
corporativismo, in «Giornale degli economisti», settembre 1930 (in
questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica cor¬
porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru- guier nello
scritto sopra citato ed anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra
anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico
nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933;
Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », giugno-luglio
1927 e, dello stesso : Economia cor¬ porativa e agricoltura, in « Atti
del II Convegno di studi sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito
U.: La critica dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello
stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano, Treves 1932, e
Capitalismo e corporativismo, Firenze, Sansoni, 1933.
L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo A. sono
dovuti a ragioni di carattere esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha
espresso il giovane filosofo. Nella critica all’economia liberale,
infatti non fa che ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto
dai seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituziona- listi
americani contro la economia liberale. È confusa la scienza economica con
la praxis dei governi liberali e demoliberali. Nella critica al
capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart
ha espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo e quanto
altri economisti contemporanei hanno scritto contro il sistema
capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna
discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare
che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio.
Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene
conto, in particolare delle dichiarazioni della << Carta del
Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa
n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il
pen- siero di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella
costruzione teorica la quale e apparsa a sfondo social-comunista per
l’ammis- sione della corporazione come proprietaria. Propugna,
inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e
già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può
Scorgere nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per
cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬ rativismo si
riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri
grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche
corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il nostro Paese
una industrializzazione ad oltranza, la emissione di prestiti esteri, una
politica commerciale che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc
(Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo,
Sansoni, Firenze, 1933). Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit.,
Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci,
ap¬ presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬ nomia
filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen- naio 1931 ; Galli R. :
SulF identità delV individuo con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre
1933; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo -
ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali e Corporativi
», Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu- leri A.: L economia corporativa, in
«La Civiltà Cattolica», 16 dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi-
talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora- .V'iV-’i 193 - 3 ’ anno
*V, f asc - IV) mostra come la formula dell identità è chiarissima nel
pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo moltiplicando le
sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato
del Corporativismo è la disciplina economica nazionale. Con il
Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione
professionale è affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte
economiche. Il nuovo modello della realtà economica non potrà non
essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza
determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per
es. nello Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!).
La nostra divergenza ideale con l’economia de¬ gl idealisti non va
assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un
intervento che oggi chiedono e ieri respingevano, nè con le
interpretazioni di coloro che hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo
ancora: Moretti V.: I principii della Scienza Economica e l’economia
corporativa («Rivista di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M.
rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando ® correggendo
le opinioni di Arias e Fovel considera l’economia corporativa come una
economia non eu¬ clidea. Papi U. : Un principio teorico deW
economia corporativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930 e più
diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e Corporativa», voi. Ili,
Gedam, Padova, 1934. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teo¬ ria dell’equilibrio economico generale.
L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un complesso
di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della
ricchezza. Ne risulta un diritto cor¬ porativo, definizione giuridica
della libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola;
e la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema
or¬ ganico, razionale di politica economica. L’economia corporativa
risolve il contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica.
Dover essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬
mismo economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo
e la scienza economica («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio
1934. Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di
produzione e fra le varie imprese e delle con¬ dizioni di concorrenza
mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e l’autodecisione,
ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi,
esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione
investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte
le Cor¬ porazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬
porazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di conciliazione
in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione
oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si espressero anni
addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di guerra e
riforma tributaria, in «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro
il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬ nanze,
Torino, 1932, pag. 257-262. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo
gli scritti più seri): Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una
finanza corporativa, in « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso
: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. II;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, «
Dir. e prat. trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e
la sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar :
Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in «
Diritto del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato
corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬ nanza corporativa,
in « Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed infine, sempre dello
stesso: Ordina¬ mento corporativo e ordinamento tributario, in «
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara,
1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale trova favorevoli
Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia
individualista e per¬ ciò la vorrebbe riformata in un senso meno
individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che trova
consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che riconoscono
doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di
raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri fascisti.
Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬ sione fiscale e riforma
tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco («Comunicazione al II
Conve¬ gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932, voi.
II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per lo meno alla
riduzione degli organi finanziari statali ed alla loro sostituzione con
le Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere
impo- sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può
inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento
corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e rivoluzionarie
trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto politico,
riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione
degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi- stazione di essere
considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri rimarrà
la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che in
materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò si
ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non meno
rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali. Il
tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-
Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione
tributaria e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e
dello TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria»,
giugno 1929; Gangemi L- rinanza Corporativa, in « Rivista di
Politica Economi- Stato C e dell ° stesso: La finanza nello
Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r”
cernii in «Rivista di Politica Economica», fase. VII-Vili
(e una carica a fondo contro la funzione graduale, ransitona e
limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il
quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f
, 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e problemi della-
economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria Colombani, 1932 (è questa
una diligente ras- segna dei problemi corporativi della finanza).
Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni
m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L
Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra
opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri
tributari a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬
te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe
spesso non sarebbero neppure in grado di svolgere efficientemente data la
limitatezza e l’inade- guatezza dei mezzi che hanno a propria
disposizione, anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti
di potersi creare m tal modo animosità lesive di quella compattezza
dell’Associazione Fascista, che costituisce uno dei suoi requisiti più
essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La
ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette,
proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro
sistema at¬ tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da
una imposta personale, la complementare, che con i procedimenti fatti
approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura che le consente di
assolvere agli im¬ portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè
la riforma proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro
sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,
lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla
distribuzione e sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione
tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed
attuare una riforma così vasta e complessa che le condizioni del- 1
economia nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di
sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini
è consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra
le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il
contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente che trova
riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche
nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee
generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al
Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del
Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le finanze
pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il
Griziotti, se non erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate in
modo da rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico
e razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia nella
ripartizione dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata
ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste idee
evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬
mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei
principi che reggono l’economia capitalista viene apriosticamente
ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale
che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato
dallo Stato ». . Nello Stato corporativo anche la politica
finanziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non coincidono
nè con quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano
assai più vicine) nè con quelle del sistema collettivista.
Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo Stato —
qualora rispetti il principio della proprietà privata — si può valere, per
intervenire nel cam¬ po dell’economia, individuale, è logico che ad essa
faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio l’intervento,
ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda. E essenziale
rilevare che nel sistema corporativo, mutano fondamentalmente i modi
dell’azione statale: mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si
propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la
protezione di tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a
tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri
fini, si fa esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli
scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri
fini, ma facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa
nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato
Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti fareb¬ bero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La
respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione
del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”;
p. 99; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica
Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore
italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211,
“La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale
della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo
di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed
economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra
partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La
catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e
Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla
rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come
INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de
Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO,
l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la
caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa,
principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo,
corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito,
“pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool
Library.Cione
Grice
e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A
member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Grice e Civitella: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Montorio
al Vomano). Filosofo italiano. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco).
(Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on
Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s,
not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them
days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’
as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes
the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it
is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive
it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo
illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti
interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima
conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età
così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose
esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di
espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di
Berardo e Margherita Civica nacque nel castello feudale di Leognano, in
provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo
XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il
capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il
motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi
Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua
famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre,
fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli, per il completamento degli studi. Nella
capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche
per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi
per l'archeologia. Nella città partenopea si laureò in utroque iure
sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il
governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per
motivi di salute. Nella prima parte della vita si dedica in particolare
allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi
trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione
di molti abusi. Con il ritorno in patria si inizia un periodo
fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a
loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un
profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui
agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle,
Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di
Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in
tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri
antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del
Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della
Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per
sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del
Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali. Restaurato il
governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e
successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne
eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della
Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia
di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano,
dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La
filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del
diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte
da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i
principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di
eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una
valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale
logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini
dell'autorità invadente. Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli
strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo,
anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e
soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo
principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova
concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato
dalle regole della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali
indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di C., come
Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni; In un diario del
curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente
a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove
un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella
rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski
ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda
il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare
a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle
Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani
illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù
di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle
opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente
d'Abruzzo, ITeramo, Ars et Labor, ora in
Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio
delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario
biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella
Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di
Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme
politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni
ETS, Perrone, La Loggia della
Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo,
Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il
suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure
quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo
mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle
che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo
ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e
de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli
doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si
servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo
delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i
compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del
dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale.
E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire
di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza
oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando
conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con
incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè
si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT
-- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse
nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE
INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL
COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per
accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN
ASILO da era retto ve s9 da che si puo
comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i
più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i
primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici
relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo
cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti
chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in
seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -- come ne fanno ancora i sei re successivi.
TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO
il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO
PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono
gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello
stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa
dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come
dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma
non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA
PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la
migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato
politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della
legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei
o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio
scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci,
m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle
origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO
DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici
ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio,
di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato
poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri
sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da
principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè
Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private
dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari,
e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI
-- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di
lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie
nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle
stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato
consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale: GL’OTTIMATI.
Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia è sempre
salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli
e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO. Tale idea pero
del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo per quanto
io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità delle
filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le
tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale nasce
dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna
superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e fermatosi
particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere
che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -- non si sostiene che
sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI
-- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici è
specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della
legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una
dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a
modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI.
Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per
quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una
repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i
necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno
i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a
poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il
nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa
breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' amministrazione
giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza impegnarci
nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con
sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione
delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni
individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare,
arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire,
e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re
sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi
di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti
frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno
poco conto e le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la
conferma di quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza
prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano
di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per
servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri.
Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge
e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione
e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je
gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona
fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali
doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a
raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche
luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono destinate.
CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi
molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver imposto
pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale
per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione per
aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam!
esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense. Tale è la
saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si
riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe, é
crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono
restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della
Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del
tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle
leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch'
esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici
dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà
ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di
famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in
un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono
terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle
secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato
civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime
attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse,
poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso
riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli
nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume
-- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed
in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che
sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar
intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi
delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi,
godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la
giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone
risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli
specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri
frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e
rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario
fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo
credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è
infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è
cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar
la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato,
ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il
patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera
qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo
sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze
solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria
potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi,
poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non
potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj
maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine
regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di
un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro;
e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il
voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria
e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch '
esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII
tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità
principali, cioè d'eso ser PUBBLICO e
generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo,
fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj,
la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza
ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien
sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie è la
misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma
il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del
bujo & del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta
sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo,
perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i
misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la
fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le
altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei
polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle
viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di
scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno
servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta
disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso
dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or
poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza
arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col
quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il
potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za
7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono
avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi
conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne,
quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e
finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può
amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza,
ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una
legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde
coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la
giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non
si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII.
tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma
le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte sui
s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati
affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa.
Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata
per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di
sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le
biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a
dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di
non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si
tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù:
perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può
godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il
suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo
verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md
esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo,
che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili,
e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro
che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre
città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza
pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto
politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia
Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè
di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il
popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno,
poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono
fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe
però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la
quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde anche
presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza che
succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo dritto
così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente espone
POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan
in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare
giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe
riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media
e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle
ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare
le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne
disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti
seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i
più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di
soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali
quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti
rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa
che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse
allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e
dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non
ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO)
e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre
preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire,
mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua
persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia
di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori
dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune
differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO
a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO CLAUDIO,
cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un libertino e
scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al
popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno della plebe,
senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle quali si è già
parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO CIVILE FLAVIANO,
benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Roma la
popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole, SESTO
ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato DRITTO
ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa
publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la pratica, e le leggi
stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illuminato su i
principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di amministrar la
giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione
de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu '
altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj – gl’ottimati -- perdere
per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che
forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano il'modo, onde far
rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni
mistici destinati al riconoscimento, presstamente si cangiano, e de ' nuovi si
surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono,
cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell'ordine, e conservano il
grande arcano della giurisprudenza. Le formole e le azioni sono cangiate, e
forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo
nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, CICERONE, il
qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN INIGNA POTENTIA QVI
CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS PETEBANTVR INVENTVS EST
SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS
EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN
SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI NE DIERVM RATIONE
PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT
VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è d’alcun utile dunque
l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero
rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue, la storia troviamo
sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli
stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta,
arbitraria, ignota al popolo, e privativa del solo ordine patrizio sacerdotale,
il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza »da quella
sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella giustizia
trova i principj nella ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella
naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo
civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai
scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste qualità e gl’eroi del
Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo
spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti sociali,
dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso
d’un illegitimo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza!
Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna
l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal
popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e
soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un'
altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i
magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè
vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO
ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver
parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de'
principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel
la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o
sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è
scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti: dalle azioni della
legge le quali contengono le formole di
agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini
de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti
costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni
de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del
dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori tunti convengono.
Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo
dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e
la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di
arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche
dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità
cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita
le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda
l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di
qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho
possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più
diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria.
Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser
sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de'
senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto
cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno
di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate
formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di
tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in
altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto,
e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e
giurisprudenza. Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si
vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee
semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare
impropriamente le immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e
delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e
l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo
civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della
giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la
plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e
questi per allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL
FORO ROMANO. Ma accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine
del dritto onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore
contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a
partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi,
come è quello della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi
assicuraii i sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature,
vale a dire il consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che
sempre col manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o
tependone lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de'
sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono adempire
agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo magistrato che
adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che si traesse dai
patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita per conservare
nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del quale hanno
facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la Giurisprudenza segueno
ad essere malversate, ma per poia chi anni dura privativamente nelle mani de'
patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si può fissare veramente
l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di mano in mano fino agli ultimi
tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome Romano e l'Impero. Questa
parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO, nasce dagl’editti, che
emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura, ed essa fa
il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della medesima
ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola
brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso, il carattere;
e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comunicazione a tat
officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO MASSIMO il governo
di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io
non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella
forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare è molta, e
qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza, poichè essa non era
limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il potere legislativo non hanno
mai quela regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo
regnante e tranquillo. E non è mai tale il popolo Romano, poichè la forma del
suo governo non è costituita su d'un piano antecedentemente ragionato nel quale
dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse rimontato alla
necessaria divisione del pubblico potere, e questo ripartito in modo che le
varie parti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 )
tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero
al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind'
innanzi frequente occasione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia
patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione,
essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germinazione.
Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che
sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo finalmente a
vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza in questo nuovo ordine di
cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accuratamente trattarono degli
editti pretorj sono da distinguere il celebre Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud
dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che
fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica
ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al
loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12 ) Memor. de l'Accadem. des Inscr. com.
72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero ancora non solo
quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse altre cariche ed
officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il
costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddivisioni
del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse
costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la facoltà di
straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e dai tribuni
della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e
Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il dritto di far
editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa è
compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano cotale autorità, gl’editti
di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza sono
quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e fatia stabilire questa nuova
Magistratura a consolazione ed indennizzamento della perdita che avevano fatta
d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il pretore dal loro
ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99 molto intanto questo, privilegio
poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni
dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a tal carica, mentre ancora è unica
e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un
secolo dopo. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei
due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de'
quali alcuni sono addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di
ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10
da LIVIO e da altri, cioè che essa è surrogata al potere giudiziario, che i
Consoli esercitano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori
cagionarono alterazione nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una
puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o
sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della
pubblica autorità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu
certamente per tal motivo, nè si potrebbe facilmente immaginare, che essi a
priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giurisprudenza. Eppure
non fu altrimente: essendo essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla
facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità legislativa,
che il dritto è cangiato, e gl’editti più che la legge sono osservati, e
maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che
Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio è solo di applicare la
legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del
quale si disputa. Un Giudice non può creare un dritto colle sue sentenze,
poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che
la legge nel caso proposto si verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta
in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistratnra
non può crear un dritto, molto meno dee ciò poter fare per la sola qualità di
Magistrato o in forza della Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali
si alterano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie,
ci presentano degl’atti d’autorità arbitraria, temporaria, ed incerta che non
possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla potestà
legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia
abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no
contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere
divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in
potenza, come diceno i scolastici, i principj del disporisano, e dispotico si
può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio
supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta
carica è surrogata al potere giudizionario che avevano prima i Consoli, il
quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado
d'autorità che prendevano dall’ordine da cui erano tratti, non è difficile il
farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giustamente la cosa non nasce
nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far
gl’editti. In fatti se si va all'origine di questo dritto, ne troveremo la
ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto
generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa
la legislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono
di uso promiscuo: Ma PAPINIANO è quello
che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che
è introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto
civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia
propter publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o nociva
alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli czualmente
e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo il Ministro
di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o
che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a
soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad
interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o circostanze delle leggi,
sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il restituirle in qualunque modo
non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in quanto all'interpretarle,.
sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabilita la sua autorità,
rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da principio è in Roma del soto
ordine del patrizi, quando tutti i poteri e specialmente il legislativo sono
ristretti nell'ordine aristocratico. Essi dunque che fanno la legge sono i soli
che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico
ed abusivamente amministrato. Quando una legge è oscura, non vuol dir altro,
che il non sapersi precisamente, ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo
deve venir dunque dalla stessa autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima
di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un
autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi
legislatori e GIUSTINIANO stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104
) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i
loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior
male da esse prodotto è d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito
la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i
Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori
cogl’editti prova visibilmente due punti: il primo che la legge è così
incompleta, come è quella dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal
segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il
lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai
principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come
scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù,
e che connobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma
gl’onori che merita. Essa è la prima inventrice degli editti, essa è la sola
Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per
quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie
lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi
prenderli per riformatori o correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non
per uno stabilimento autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per
abuso, vergognoso ai costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso
sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue
leggi, e l'incongruenza nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi,
e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i
stabilimenti d’Atene, avrebbe trovato più opportuno mezzo a correggere e modificare la sua barbara
legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti,
il quale propone annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e
queste sono poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci
intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità
straordinaria, se rifletteremo che quella. Magistratura è da principio
stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo
potere per anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo
ricordare, che vi sono IV specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi
fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di
ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ristringo
ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i
quali dovevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, sono
quelli appunto, da'quali derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts
dictionis causa, pei quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni,
delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or
avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali
formole è compreso, chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto
medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que
causa, cade dall ' azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite
anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la
disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed
arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse
fatto senza principj, e che non avendo idee certe e generali de' principj del
driito, facessero gl’editti ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee:
poichè come le ultime derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar
tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro
editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali,
ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE
IL NOME DI PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD
UN SOL ANNO. Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto
assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a
lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre
nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conservano integralmente o
parzialmente gl’edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli
editti di tal indole, è sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di
nuovo conio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità,
incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne !
dritto, lo lascio giudicare agl’amici della Giu stizia e della ragione. La
Giustizia dipende solo dal capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano
essere ben intrigati in variar le loro formole, e su di esse disputare ed
argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito.
Questo porta col tempo, che fossero molte le azioni per lo stesso giudizio,
ciocchè fa un nuovo intrigo, ed accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche
dovette crescere quando i Pretori sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione
di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era
giusto presso di uno, si trova ingiusto presso un altro. La morale pubblica e
quella delle leggi particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola
che le opinioni o il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava
secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio
e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di Europa!
Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il numero degl'individui;
ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo
stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multiplicarsi
e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi crescere
e diversificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o
dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono
essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il
dividere i giudizj criminali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni
differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi
dell'arbitrario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e
con precisione i rapporti del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà
univoca, generale, uniforme; i limiti del potere giudiziario resteranno
distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite
e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle
Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guerra
fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è
in ragion inversa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli,
più avranno i difetti della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli,
ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di
Magistratura ben costituito e convenevolmente diviso, senza gelosia e senza
interessi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne
avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i
Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle
cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da
abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi
pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il
termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella
storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il
dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della
pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo
leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe
fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della
Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a
quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos.
ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io
penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per
interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia.
Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu
risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de'
Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo,
ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò
finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua
la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che
della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com
mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle
semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e
l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia
Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va
condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo'
nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli (come rapporta PLUTARCO)
i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle
cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o
ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria
e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un
tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i
sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre
le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su
la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare
più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti
prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di
partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani
nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura.
Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici
del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno
cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della
Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a
nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo
termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la
Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano
le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto
conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto
susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato
contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco
dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle
depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la
rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO
e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la
sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a
conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale
ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi
sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa
ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò =
Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus
dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto
impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e
Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi
perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i
disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro
Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla,
nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla
eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se
nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono
introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine
giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar
te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove
parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon
l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones,
quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus
expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg
gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti
autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto,
che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che
nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de'
tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la
realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la
secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro
prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente
par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando
le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai
loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le
immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice
il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva
i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i
viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te
maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni
favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì
fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti
somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza
furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per
le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre
si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs &
libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di
nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c.
non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere,
me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le
processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi
d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale
delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le
gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é
divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente
consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di
sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi
prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si
disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè
mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per
la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi
continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla
frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai
sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia
conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che
vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il
cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi
non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato
censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica
non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad
alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana,
rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi,
convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore,
dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or
potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E
quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un
frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di
Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a
partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e
non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di
classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso
e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea
prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear
pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana,
vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia
certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte
in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi
costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di
communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà
pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di
suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no,
e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede
simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è
libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do
particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè
nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più
la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e
di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto
lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere
con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra
od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più
degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma
cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e
mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si
diedero į suf (18) DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM (126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi
si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè
i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere
legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza
alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro
dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere
legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata
per Centurie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere
legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo
molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni,
giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i
Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle
quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol
to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu
meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun
stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà
legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti
colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati,
delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello
della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso
della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo
Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per
mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme,
le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio,
non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di
Cittadino era misurata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la
volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà
generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi
s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la
quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la
volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un
sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel
giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i
principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere
legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni
simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di
un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni
sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero
Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu
risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano
in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e
sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i
quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del
suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il
Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza,
che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò
mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo
non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più
giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai
Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti
la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le
quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono
tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero
leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi
necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da
imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone
cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche
fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si
avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi,
ma che toline i due GRACCHI, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi.
Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi
an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a
pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de'
Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo
più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad
esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse
l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre
s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far
credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie
testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE. Possiamo da esse
raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de'
Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat
tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo
veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò
destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili.
In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una
prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini
Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re
videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj,
nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar
Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In
tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi
passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le
stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione.
Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della
Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La
grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello.
L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri).
Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine
del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della
morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della
morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione
morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La
benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La
felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana
dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere
della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza.
L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei
varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della
Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le
memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento
delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle
memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto
il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela
del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi
ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed
inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine
naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica
incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità
della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli
antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I
bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il
bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello
ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del
bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E.
reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani
all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. Delfico. Luigi
Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141 Toaldo a M. Delfico..Spannocchi a M.
Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G. Berardino
Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag. 154
Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159 Mùnter a M. Delfico..Filippo
Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a M. Delfico..Bertola
a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos
a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M.
Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M.
Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti
a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis
a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206 Bossi a M. Delfico..Tommaso
Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209 G. Napoleone a.
M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M.
Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231 Tracy a M.
Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti
a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246 Michele Arditi a M.
Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico.....
pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260 Donato Tommasi a M.
Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini
a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a
M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a
Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287 Giuseppe Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M.
Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326 Stati
Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella
provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in
occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di
Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di
Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere
ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere
di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in
onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M.
Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo
stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della
seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al
1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa
scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed
altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare
negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più
urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della
società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del
governo borbonico (4). È soprattutto dalla rilettura del genovesiano
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il
manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico
del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale,
la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la
convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un
atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7)
e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali
inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno
di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e
di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9).
Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica,
dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su
quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con
l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode»
(10). Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento
illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura
riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola
riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della
corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola
genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice
culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti
dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva
desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e
sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto
pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che
il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel
vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio
filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in
provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese
basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che
indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index
librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato
coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma
soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e
sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo
e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è
l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui
sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società,
fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine
dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso
di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la
sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì
la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi
vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le
quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità
di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle
condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel
passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono
del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi
nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente
alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta in una scelta
della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti
politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica.
L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di
un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria
simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della
politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più
immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti.
Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato
attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di
trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e
di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo
l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora
assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del
potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza
- afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone
politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense
che a quelle del merito personale e dell'industria. Al contrario, il persistere
dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già
precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità
perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la
virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro degli Indizi di morale e
la messa all'Indice del Saggio filosofico, C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con
le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e
dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è
ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero
di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del
Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine
di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22)
presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi
dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla
conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno
1780. Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di
distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore
teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con gli ambienti
riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della
cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano,
Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia
possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale,
un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità
di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri
periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale
tutti attendono una politica di riforme. Ritornato a Teramo, Delfico
pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che
gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare della sua
provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa
stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme.
Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito
l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per
la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel
«sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di
loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a
riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in
tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo,
sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino (23),
così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad alimentare la
fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo
e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario,
contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle
Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo
Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e
perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione
promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso C.
vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia
di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e
ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è
una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di
nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa
una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto
un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale.
Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma
organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova
dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare
quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.
Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della
scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo,
un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus
delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra
l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e
il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane
sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei
«paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28)
sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al
Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de
Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo
quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione
rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno
di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più
concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in
funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la
nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di
fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la
conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle
nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a
Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale
nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo
l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in
Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli
Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di
scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e
lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella
Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e
dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono
fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il
Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.
Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C.
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà
infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei
proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono
di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni
altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur
breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero
«desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi «avarie»
commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il
libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle
sempre più. Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione
di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo
Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla
libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli
affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni
Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva
non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate
del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere,
non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria
per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto» (42). La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico
lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era
recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che
studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo
soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare
in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli
Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso
di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei
quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è
difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli
guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la
determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono
a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e
rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non
indugino più sulla strada delle riforme. Rianimato da queste speranze,
nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale
(44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del
1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al
dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed
esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare.
Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e
de' suoi cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero
illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato
ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed
uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo
legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e
dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo
scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare,
una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il
necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda
sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento
dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza
restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della
giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa
nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che
lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali,
e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare
un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel
dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e
letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la
rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti,
come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa
è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della
sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo
vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di
rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante
il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca
della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna
di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano
venga presto scagionato. L'accentuarsi del carattere reazionario della
politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri
illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano,
anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia
del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli
eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna
negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della
rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo
l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma,
restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera
successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali
e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese
André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia
politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla
libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del
1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in
Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui
disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche
le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796)
sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di
cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è
invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97
egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non
scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà
guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà
nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di
rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle
trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il
susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da
parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale
prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni
«malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55).
Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica,
tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo,
assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo
a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità
della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale
dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58),
l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto
fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi
repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il
generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il
territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che
è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione
(60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie
del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia
pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno
VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui
maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi
e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i
provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica
napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo
di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione
gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a
tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita
ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione
delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse
provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché
la possibilità di ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe
portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato
membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C.
non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il
rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo
Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura
«obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più
ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è
da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia
elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio
rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino
(63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789,
del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i
diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza
all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza,
giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui
spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le
imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di
armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il
ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e
i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si
stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro
le nuove istituzioni. Di fronte al crescente stato di abbandono delle
province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima
ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il
falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere
nel settembre successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino
al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo
chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato. Durante il
soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi»
di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva»
manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i
loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia,
afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia,
«abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni
di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più
grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non
aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica
né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le
forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia»
(67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae
l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si
sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua
tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza
rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica
saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per
«proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a
cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle
forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San
Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non
utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di
società» (69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per
andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della
biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad
Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la
stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove
sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di
Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove
amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio
Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo
Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio
Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di
Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in
corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si
fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello. È, quello sammarinese, un
periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e
pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più
famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che,
usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo
studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente
negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione.
Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della
prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia
come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà
poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In
essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato
abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta
forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento
con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto
dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile,
perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un
esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza
storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni
l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano (74). Nei
Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua
interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba
preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime l'esigenza, già
manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e
interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è
necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica,
infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali
che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di
Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons
d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei
fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la
verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera
utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della
manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal
fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi
storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato
luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei
principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere
l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti,
per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i
rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe
consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri,
per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali
positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più
facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità
desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine storica
permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe
di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo
storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un
successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini
italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e
«registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione
di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre
scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e
morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste
funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una
disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle
scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo,
che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente
conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo
facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80). Un
atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui
origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire
una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di
serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una
Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo
degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta
agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della
letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura
requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e
portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il
risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o
di effetti naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei
cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone,
Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo
spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non
aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare
le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che
i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di
male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che
divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non
verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se
convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a
quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio»,
si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il
ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come
l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore
teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e
che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio
sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio,
della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la
possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a
cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e
che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei
rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari. Nominato da
Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene
assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza
della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio
di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte
delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice
civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma
della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei
beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del
Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene
insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86). I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis
(1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento
dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de
l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le
Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della
sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del
1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il
principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui
segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le
Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la
restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita
politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820,
Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del
1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro
della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino
al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento
che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando
Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza
costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di
allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi. Dopo il crollo
del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze
reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo
economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che
lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino
dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia
alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere
il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti
«retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture
ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che
alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini
politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto
il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in
gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni
venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli
intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale,
l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto
la sua «potente autorità, senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che
potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto
fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche
affinità e valutazioni positive. Dell'«illustre autore» Delfico
sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli
guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno
scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione
ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia.
Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore
dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai
diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di
soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società
italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza
politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione
del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore
teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se
si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non
vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le
preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima
rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali,
dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico,
non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e
politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94). Divergenze
emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il
pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle
proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra
il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che
considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei
conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta
inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la
condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che,
«oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma,
soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione
militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una
imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica
un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da
parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da
garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le
aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo
vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra
dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia
costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri
bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione
di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi
anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di
assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei
cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale. Nel maggio del
1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a
Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia
la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre
il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua
a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora
inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari)
ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni
fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua
concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come
strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare
l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi
alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e
gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel
1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con
un discorso preliminare su le origini italiche. Non verrà meno neppure il
suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due
scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto
di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99),
con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona
ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un
rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza
e floridezza delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le
condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe
essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo
ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un
notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione
di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a
molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati
dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di
Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul
commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i
capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere
quelle esistenti. La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce
del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel
Brevecenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra
loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la
determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità
che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per
l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta
di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di
avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto
centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade,
l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima
verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo,
ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che
renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di
Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando
era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano
fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per
agevolarne gli scambi commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro
anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à
la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H.
Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana
incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore
Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del
testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da
alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei
presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto
del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs
jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle
condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto
servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo
dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte
delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una
partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia.
Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105)
alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della
condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio
filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a
coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi
studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite,
conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e
la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini
del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili
che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la
pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel
1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e
viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno
1835. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C.
cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Gentile dal ristretto ambito locale, che lo
aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e
proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa
considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si
determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la
cultura e la storia, e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e
politiche significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è
quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al
fervore culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha
privilegiato il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che
del ventennio fascista. Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C.
(alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio
rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante gli anni
della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a
filosofo della storia e della politica. Era nato il 1° agosto 1744 in un
paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico,
si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a
Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche,
la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836,
arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni
dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei
frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. col titolo
Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico
e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di
Melchiorre Delfico. (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi
furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino,
Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso
Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di
economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il
«partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura,
società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e
46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti
1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento
dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4) Sul riformismo
borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma
1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di
M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799,
in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il
riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il
secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa
contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato
assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire
l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche
detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli,
uscì a Napoli nel 1753. (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la
questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764),
Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese,
Feltrinelli, Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione dell'influenza
di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro
sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel
Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del
regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo
tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di
E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol.
II, pp. 744-780. (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti
dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio
Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze
1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg. (9) Le due
Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento
e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli
d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della
Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia
autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc.
178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata
la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V,
fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta
dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio
istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903,
pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei
quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901
al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini. (10) M.
Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17. (11) F. Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani,
Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 11. (13) M. Delfico, Memoria autobiografica,
inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo
«Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846. (14) M. Delfico, Saggio
filosofico sul matrimonio, in Opere complete, cit., vol. III, p.
126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e
il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
(16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino
1988, pp. 501-508. (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., (20) Ivi, p. 47. (21) Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il
Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp.
71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori
napoletani, cit., p. 1168. (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno
sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia,
Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario
alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione
in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M. Delfico, Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784,
in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27) Delfico ammira
soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore
era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia
politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e
di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del
marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M. Delfico,
Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245. (29) J.-J.
Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les
hommes (1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard, Paris
1964, p. 193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio
Grimaldi, cit., p. 253. (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio
1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di
Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione
francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334. (32) Alcune lettere
sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit.,
pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel
Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830,
herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig
1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al
libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e
ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di
Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato
altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla
sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite,
sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. (33) M.
Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete,
cit., vol. III, pp. 265-323. (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario
Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso
piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del
commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo,
pubblicata anonima a Palermo nel 1783. (35) M. Delfico, Memoria sul
Tribunal della Grascia, cit., p. 279. (36) M. Delfico, Discorso sul
Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 359-396. (37) M. Delfico, Discorso sul
Tavoliere di Puglia, cit., p. 370. (38) Il testo è stato pubblicato da L.
Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e
Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata
Teramo, 7 ottobre 1784. (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito
dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema
della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a
Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici
italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato
recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia.
Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le
carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio
della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato
l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile
flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1°
dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel
1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato
riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del
commercio. (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene,
come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del
Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di
detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati
all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue
richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di
istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed
orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi
delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel
teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di
Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la
Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e
G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo,
Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7. (41) La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine
del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367. (42) M. Delfico, Memoria per
la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354. (43) Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n.
402. (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del
1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a
Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in
patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e
di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere complete, cit.,
vol. III, pp. 403-431. (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso»,
sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più
parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu
ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel
1815. (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di
Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII
(1954), vol. VII, parte II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I,
pp. 225 e 105. (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia
di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del
Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle
lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di
Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e
rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della
Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani,
Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli,
in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp.
853-867. (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari
19264, p. 24. (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
38-46. (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da
Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p.
419. (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De
Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr.
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di
26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre
Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso
di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima
imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo
dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli
ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto
al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.
(55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp. 415-416. Il
vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano,
religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804
e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva
alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un
illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a.
XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi
al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche
delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì
tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della
Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata
all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del
Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in
seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe
conferito quello di barone. (56) Il pretesto è fornito da alcune lettere
«rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre
faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di
averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi
frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da
Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere
il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel
processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli
di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio
1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV
(1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che
portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg. (57) I Francesi, al comando
del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre
in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e
Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende,
fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio
Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr.
anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli
avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj,
Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814,
con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da
V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e
Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e
n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a.
XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti
seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di
cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e
Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non
oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo.
Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina,
in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora
in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992,
pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.
Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra
intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987),
n. 1-2, pp. 41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico,
interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze
reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e
riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.
(60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a
XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi,
cit., p. 519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani,
Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e
principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di
scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439.
Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama
sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale
venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp.
441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti
delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce,
Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la lettera di Delfico al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799),
in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974,
pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze
di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981),
fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica
dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli
1995. (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp.
138-139. (64) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese,
cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti
Grafiche Della Balda, San Marino 1935. (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla
Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg. (66) Si veda
l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino
(Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250. (67) Ivi, p.
472. (68) Ibidem. (69) Ivi, p. 250. (70) Il libro, il cui
titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce
due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La
seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814. (71)
M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.
(72) Ivi, p. 246. (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984),
n. 3, p. 94. (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni
della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di
allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo
radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce,
La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni
nostri: 1. Il «secolo della storia» e 2. Il nuovo pensiero
storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp.
16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia
italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il
pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp.
158-165. (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza
ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit., vol. II, p.
11. (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées
à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney,
chez J.A. Brosson, Paris an VIII. (77) Sull'affinità di vedute dei due
autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une
discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et
les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.
(78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima, cit., p. 43. (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II,
pp. 307-325. (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed
inutilità della medesima, cit., p. 174. (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca
I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie
sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico
e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina
venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa
nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano,
molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis. (82)
Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una
ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in
«Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori
di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre,
L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come
prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato
pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.
(84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85)
Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli,
Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti grafiche
Della Balda, San Marino 1934, p. 53. (86) Sull'attività del Teramano
nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il
decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il
quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La
monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene,
Napoli 1985, pp. 125-135. (87) Ora in Opere complete, cit., vol.
III, pp. 471-497. (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III,
rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550. (89) Ripubblicate nelle Opere
complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di
A. Marroni, Ediars, Pescara 1999. (90) Per un quadro d'insieme
dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno
napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla
prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia
meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio
francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai
Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli
nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli
1985. (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di
esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di
Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e
59-79. (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino, cit., p. 20. (93) Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi,
pp. 29 e 70. (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di
Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I,
lib. II, cap. XII, p. 79. (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p.
159. (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588. (98)
L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di
Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno
con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol.
II, pp. 299-505. (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp.
293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti,
La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp.
37-50. (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37. (101) M.
Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32. (102) M. Delfico, Breve
cenno, cit., p. 38. (103) Cfr. ivi, pp. 47-49. (104) Ora, tradotto,
in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia
inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico. (105) M. Delfico, Della
preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara
Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in
Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45. (106) Cfr. la lettera di
Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario
e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156. (107) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87. (108) Per un quadro
d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G.
Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari
1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione
degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una
storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico
sul matrimonio. I. voi. in 16. 1774* ( segnato nell'indice de'
libri proibiti ). a Indizi di morale ( proibito prima di
pubblicarsi ) Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli 1784* presso Vincenzo Orsino
Memoria sul tribunale della grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del regno . I. voi. in 4 * Napoli 1785. presso
Porcelli . Memoria sulla necessità di rendere uni-
formi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti 4 * Napoli 1787.
presso Porcelli . ’ - 8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su
la servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma- rittime degli
Àpruzzi. I. voi. in 8. Napoli 1787. 9 Discorso sul tavoliere di
Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor- ma. I. voi. in 8. Napoli
1788. 10 Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri.
I. yol. in 4 * Napoli. 1788. ( stampata una col reai dispaccio di
appro- vazione ) . I I Riflessioni su la vendita de’ feudi
umi- liate a S. R. M. I. voi. in 8. Napoli 1790. presso Porcelli
. 1 2 Ricerche sul vero carattere della giu- risprudenza romana
e de’ suoi cultori . un voi. in 8. Napoli 1791. presso Porcelli : ( ristam-
pato in Firenze , ed in Napoli un altra volta nel 18 15 ) 1 3
Lettera del signor duca di Cantalupo ( su feudi ) Napoli Memorie storiche
della repubblica di San Marino I. voi. in 4 * Milano 1804. dalla
tipografia di Francesco Sonzogno . 1 5 . Memorie sulla libertà del
commercio : ( stampate nella Collezione de classici italia- ni di
Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la
incertezza ed inutilità della medesima . I. voi. in 8. Forlì
Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’ organizzazione de’
tribunali : ( stampati sen- za il nome delF autore , nè V epoca ,
dalla stamperia reale di Napoli nel 1808. ) 18 Lettera al
Climo sig. Abate D. Gasparo Selvaggi ( sulla Tragedia. Pubblicata dal
Gior- nale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. I. voi.
in 8. Napoli 18 j 8. 20 Ricerche sulla sensibilità imitativa
con- siderata come il principio tìsico della sociabilità della
specie , e del civilizzamento de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta
nella reale Ac- cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli
Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie ) .
21 Memoiia su la perfettibilità organica considerata come il
principio fisico dell’ educa- zione , con alcune vedute sulla medesima
: Seconda memoria sulla perfettibilità organica ec. ( letta nel
1816. , e pubblicala come sopra ) . Ragionamento su le carestie (
letto nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli il 1. dicembre 1818
, e pubblicato negli Atti della medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) .
Poche idee su V accusa de' ministri . Pubblicate in uno de'
giornali costituzionali di Napoli il z 3 . dicembre i 8 ao. a
5 Dell* antica numismatica della città d’ Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i
Tirreni. I. voi. in fol. Teramo 1824. con tavole in rame .Rischiarimenti
ad alcune osservazioni fatte dal Micali su la stessa , e di una Lettera
al sig. Conte Zuroli su le antiche ghiande missili di piombo. I.
voi. in fol. Napoli 1826. , dalla tipografia di Angelo Trani : con più
tavole in rame . 27 Della preferenza de’ sessi. Lettera
all’or- natissima signora contessa Chiara Mucciarelli Si- monelti .
I. voi. in 8. Siena 1829. ( Ristam- pata in Napoli insieme ad alcune
poesie del Conte di Longano )
Lettera all’ autore delle Memorie in- torno i letterati e gli
artisti ascolani. ( Stampa- ta in fine delle stesse Memorie , Ascoli i 83
o ). 29 Espressioni della parlicolar riconoscenza della
provincia e città di Teramo dovuta alla memoria dell’ immortai Ferdinando
I. Annali civili del regno delle due Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di
Napoli sul- la città di Benevento. Memoria. 1768. 3 1 Intorno
a’ diritti sovrani di Napoli sul- la città di Ascoli . Memoria . 1
768. 3 a * Lettera a' fratelli sulla eruzione del Vesuvio
Estratto ragionevole del trattato degli animali . pag. 8. 34
Lettere sulla cavalleria ed i romanzi . P a S- 7 - 35
Lettera al sig. Michele Torcia sul tratto di paese che si estende dal
Fortore al Tronto . 1784 . pag. 1 5 . 36 Supplemento alla
Memoria su la gra- scia , per rapporto all' estrazione degli
animali vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri- bunale
collegiato nella provincia di Teramo . 1786. pag. 11. 38
Memoria per lo stabilimento d’ una uni- versità in Teramo . 1786. pag.
7. • I titoli in carattere corsivo sono per ^quegli scritti
che 1’ autore lasciò senza una denominazione . ** S’ intende
per lo più di pagine scritte , come si dice , alta spagnola , ossia nella
sola metà . Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel
prosieguo del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy 83
. - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche de' Castelli. Lettera. 1788.
pag. 24* 4 1 Appendice al discorso sul Tavoliere di Puglia .
1788. pag. 84. 42 Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati nel
iygo. pag. 8. 43 Estratto ragionato del Saggio analiti- co su
le facoltà dell’ anima di Carlo Bonnet . pag. 100. 44 Seconda
Memoria sulla vendita de’ be- ni allodiali. 1791. pag. 7. 45
Breve Saggio su l’ importanza di abo- lire la giurisdizione feudale , e
sul modo di ese- guirlo . pag. 32. 46 Supplemento alla
Memoria pe’ regii stucchi .Degli Appalti. Memoria, pag. g. 48
Per la città di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di S.
Agostino . pag. 11. 4 g Memoria per la decima impesta al
re- gno . 1797. pag. io. 5 0 Memoria intorno a’ danni
sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello
Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la
nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al
commercio delle provincie confinanti del regno . 1797. pag.
17. 5 a Discorso sulle Scienze morali, pag. ira. Novena di
San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia , ( Questo ed i selle
seguenti scritti si suppongono composti in Napoli dal 1806. al 18
15. 55 Rapporto alla reai società d’ incorag- giamento sul
progetto di stabilire nelle provin- cie del regno altre società
simigliatiti , Considerazioni sul debito pubblico , e su’ beni
nazionali relativamente alla legge de’ a. luglio 1806. pag. ia. «
57. Breve esame dell’ indole delle dogane interne . pag. 20. 58
Rapporto per gli stabilimenti di uma- nità e di pubblica beneficenza
Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria .
pag. 1 3 . 6j Osservazioni sulle procedure criminali die si
chiamano Nullità . pag. 14. 62 Parere intorno ad un’ opera del
Sig. Biie D. Davide JV'uispeare , intitolata : Storia degli abusi
feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni scrittori .
Opuscolo, Lettera sulla imputabilità de’
muti . 65 Pochi cenni su’ fondamenti delle Scien- ze morali.
Discorso ( letto nella reale Accade- mia delle Scienze di Napoli nel
iSlij , e de- stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti della
medesima , insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i
metodi d’ istruzione usati in Europa . 67 Alla Giunta
preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore
di alcuni impie- gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine
po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici
per supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3 o. t&arzo 18
23. pag. 19. 7 1 Deli’ importanza di far precedere le co-
gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale .
Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di Napoli il 26.
lu- glio 1823. ) pag, 18. 72 Elogio in morte della Duchessa
di S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri
sulla Sto- ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi- ma ,
per risposta alle obiezioni di Amaury D re- vai pubblicate nel Mercurio
straniero tom . A ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che
seguono nella presente classe furono compo- sti dopo V ultimo ritorno
dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So- cietà
ossia Saggio filosofico sulla storia del genere umano Proposta di alcune
riflessioni sulla filo- sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio
sulla storia fi losofica di Da - miron. Lettera, pag. 3 .
Lettera su cF un manoscritto comuni- cato , riguardante politica,
pag. 28., 78 Due biografie di se stesso : una scrit- ta nel i
8 z 5 , t altra nel 182J. 79 Delle cagioni per le quali il
civilizza- mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla
perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8. 82 Sulla medicina
omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di Samuele
Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera
al Mse. Tommasi. pag. 18. 86 Sullo stesso argomento. Lettera
pole- mica. De' confini del regno di Napoli nella linea del Tronto
; ossia : Sugli antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di
beneficenza. Let- tere 3 . Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral
; civile , ossia trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto
naturale delle genti , ossia della morale delle nazioni, Sistema di
ragione e benevolenza uni- versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle
Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà, pag.
123. 96 Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia
colla Fi- losofia. Dissertazione, pag. 12. 98 Dell’
eguaglianza de’ diritti delle donne , considerati specialmente nelle
successioni, Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e
dritti civili, pag. 14. 100 Sul quesito : Quale sia il
miglior de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag. 26. 101
Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati , o sia de’ veri
principi della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni.
Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della pro-
vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 . Ricerche su le leggi
coniugali , con- siderate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,
nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali e civili, pag. 3
fi. 106 Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina.
Pensie- ri. pag. 5 fL 108 Osservazioni sull ’ opera
intitolata : De’ principi della scienza etimologica, pag. niL
109 Saggio filosofico su la guerra e su la pace. pag. fili.
i_lq Igiene, pag. % JFritmmitttt
iti Di ciò che si chiama quadro dello stile , pag. sLm
112 Sul poeta Orazio. Critica, Pensieri divèrsi filosofici e
letterarj. pag.’ 224. 1 1_4 Qualche osservazione sull' opera
di Neker Sur 1 ’ administration. pag. t i fi Del Vesuvio, pag.
£L 1 ifi Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le
origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc. (
Prefazione per una raccolta di aneddoti ) . pag. 2. m 120
Sulla Città di Reggio, Sul travaglio, pag. 2« 1 22 Progressi dello
Spirito - Orgoglio na- zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso
di tipografia, pag. 18. 128 Su’ pastori, pag. 2.
124 Saggio sull’ adulazione. ( Progetto di un' opera ) . pag.
2. iz 5 Ricerche storico - filosofico - polili- clie su la
nobiltà. ( Progetto di un' opera ) . pag. a. 126 Istoria
dell’ anima, pag. 5 L 1 27 Sugli ospedali. ( Molti pensieri
non legati) . pag. 96. 128 Progetto d’ un nuovo giornale
delle mode. pag. 1 Q. 129 Notizie su le opere impresse nel
pri- mo secolo della stampa , per ordine alfabeti- ca fino alla
lettera P. pag. io 4 < 180 Qualche pensiero di dritto
pubblico, Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’
magistrati munici- pali. pag. 4^ 1 33 Della Solitudine,
Qualche osservazione sulle Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. pag.
8. 1 35 Qualche osservazione sull’ opere fi- siologiche di
Spurzheim.pag. 8. 1 36 Della civiltà, Catechismo universale, pag.
2. 1 38 Della ragion di stato, Estratto della politica d’
Aristotile. Morale nelle leggi,
Piano di scienze morali, pag. 4- 14 ^ Dell’ origine e significato
della parola morale , e delle varie applicazioni della medesima Frammenti
diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla
risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana,
Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’
opera di Lemer- cier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato
secolo ad uti- lità del presente Viste politiche e morali sugli
effetti della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’
obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune
espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle Scienze
naturali, pag. io. Al sig. Ab. D. Cataldo Jannelli . Dell’ uso vero
della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo alla società.
Sull’ Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la divozione pel Sangue
di Gesù – Cristo Miscellanea di cose
Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche
Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei
Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella.
Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico,
l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione.
La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla
caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza
conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Clarano: Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of
Seneca from the time they study philosophy together under Attalo. In a letter
to Lucilio the Younger, Seneca contrasted the ugliness of his body with the
beauty of his soul. Grice: “Strictly, this is Chiarano – since the Italians,
unlike the Romans, seem unable to pronounce the ‘cl-‘ cluster.” Clarano.
Grice e Claudiano: l’anima di Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Writes a treatise on the sould against Fausto d Riez. Claudiano
Mamerto. Claudiano.
Grice e Claudio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best
under Appius. Appius Claudius. A reforming politician who, according to
Cicerone, was at least influenced by Pythagoreanism.
Grice e Claudio: la sofistica a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. The son of the sophist Marco Antonio Polemo. Primarily known as a
sophist himself, he was also a logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.
Grice e Claudio: Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofi italiano. A philosopher
highly regarded for his moral virtue. Claudio Antonino. Claudio.
Grice e Claudio: il portico a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A member of the Porch and a friend of Antonino. He had a career in
public life and was highly respected. Antonino says he leart the value of self-control
from him and admired him for his cheerfulness, modesty, imperturbability, and
generosity of spirity. He presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio
Massimo. Claduio.
Grice e Claudio: il lizio a Roma –
filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo
italiano. A Lizio -- a friend of
Antonino. The emperor admired him for his kindness, warmth, and honesty, as
well as for his dedication to philosophy. Claudio Severo. Claudio.
Grice e Cleemporo: Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According
to Plinio Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of
herbs that others attributed to Pythagoras.
Grice e Cleomene: la gnossi a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A gnostic who founded his own set in Rome. Originally a pupil of
Epigono.
Grice e Cleonte: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Cleofronte: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Grice e Cleostene: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone).
Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinagora: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinia: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. The information about Clinia is confusing, but
running through it all is the constnt theme that he was a Pythagorean.
Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and Heraclea. Clinia and
Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the works of Democrito
di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of Pythagorean
friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di Cirene at
considerable cost and risk to himself. Although neither story is possible to
date with any precision, if both are true, Clinias would appear to have lived a
very long time. A confusion of two people with the same name is perhaps more
likely.
Grice e Clitomaco: la setta di Thurii -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Thurii). Filosofo
italiano. Probably a pupil of Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio,
Clinomaco was the first to write about propositions and PREDICATES. He was
interested in logic and attached great value to the use of argument. Some
regard him as the initiator of the dialectical school.
Grice e Clodio – Roma: la setta di Napoli
-- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Napoli). Filosofo italiano. According to Porfirio, Clodio wrote a book arguing
against vegetarianism.
Grice e Clodio: all’isola -- Roma antica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
italiano Clodio Sesto – a teacher of rhetoric.
Grice
e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Coconato – I
used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless
you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato!
He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto
Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore,
fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero
Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima
dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di
Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione,
verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio
precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte
padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i
conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il
partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re
sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana. Il
grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e
ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's
Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi
della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo
autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di
«uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni
bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti
miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento
agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i
vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia
ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio
compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il
raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse
di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di
Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue
opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici
redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente
alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII
diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito
potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua
stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra,
dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e
la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto successo l'instant
book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo
II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi
scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan,
uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione,
che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di
Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una
esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura
spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua
meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un
dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane,
riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo
Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto
individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul
suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni
confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente
nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede,
considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo
cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La
certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e
dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo
vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio
londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci
giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione,
continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione
continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la
materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel
meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui
ineriscono direttamente movimento e autoregolazione. L'universo è un
mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche
solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni,
rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono
tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si
perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse
parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare
anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita
dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella
materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà
sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta
dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di
lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una
delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità,
nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo
per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame
arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e
disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a
ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non
conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che
temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita
della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà
poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della
vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature?
come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»
Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi,
Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò
editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite
parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante,
Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo
messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento
di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla
morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero
Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino,
anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto
Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,
Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi
documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in
«Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero
pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica
Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of
Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione
a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo,
Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e
legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite
parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò,
Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di
Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in
Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others
in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite
Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come
uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di
filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono
a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero
come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come
il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese
su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua
filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S.
Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True
Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher
newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in
Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The
History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his
confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd
that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the
present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret
Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the
Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in
London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke,
at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano.
Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and
Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the
consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold
by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele
III colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della
opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC.
(Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve
discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of
Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The
second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops
in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les
plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils -
contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les
motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques
et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la
profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre
secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis
en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan
Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par
Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter
celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic]
imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione
dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la
Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe,
traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers
par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres,
au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de
l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour
traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste
opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera
più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le
inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo;
alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta
nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito.
Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di
fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del
March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del
suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino,
non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di
Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale
andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia
da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del
Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita,
in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella
mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece
incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author
gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the
Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto
mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al
secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses
riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus
Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al
Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue
linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di
valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di
vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior
importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese;
e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel
testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del
filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più
attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali
fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the
Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption
of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the
great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the
Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse
VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by
the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e
facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur
essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente
un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British
Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad
un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo.
Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve
les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de
son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est
repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à
entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à
la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S.
1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La
politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de
Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione:
Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de
filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris,
in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio
identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a
Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de
sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui
obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son
fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre.
Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à
présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui
regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux
affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita
dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale,
Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa
detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter
sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi
de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes
de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di
Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié.
Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention
au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le
trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non
abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo
originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di
forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al
British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della
bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death -
Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano
translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto
dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte
che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals,
dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi
del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di
stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana
dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon
Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere,
Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è
una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova
edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS,
op. cit. loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER:
op. cit. loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove
però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di
luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che
i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel
" Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano
rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista
la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere
edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de!
1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver
visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di
conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più
dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con
quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese
la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il
" Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da
pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che
hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo
svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto
riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E
AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the
benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098.
MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK:
Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18
Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando
del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui
de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in
foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad
averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante
omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great
PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and
as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his
Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that
if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been
conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have
alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more
intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in
all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word,
the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse
it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do
declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and
Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I
have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD
and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is
to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long
since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER)
and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very
humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and
Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples,
and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See
the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with
what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this
is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I
tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
„. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII )
And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond.
pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione
olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è
qualificato: 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz.
de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag.
2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz.
Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ "
généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion
e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or
Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the
Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside
the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. -
In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole
Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a
mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a
hungry Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without
exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy.
For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di
sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 -
continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag.
26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il
medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è
quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole
" le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il
testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer
e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that
Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many
words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone
in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him,
saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly,
his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the
other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not
amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith
without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This
Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha
t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he
is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***)
Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better
without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a
man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian
in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag.
165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti
sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant
ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz.
Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By
natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each
individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as
he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are
forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they
eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of
them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the
greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right,
and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are
determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural
right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most
certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over
every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends,
so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of
nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and
consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of
every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the
right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry
that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings,
that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in
his power, without regarding anything save his own preservation. it follows,
that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end
according to the power which nature has given him. In this state man is not to
be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words,
reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and
unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the
foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according
to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is
determined by nature to such and such a thing, without being able to act
otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted
with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit
of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of
their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue,
and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he
who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to
him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and
foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite
suggests, and to live according to its dictates. For, according to the
apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could
sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the business of that reason, or
justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of
every individual. For, so far is nature from determining us to live according
to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding
education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is
the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve
our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of
appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us
are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among
us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the
nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere
nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without
exception, because nature has given all to every man, and may use it without a
crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or
threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to
hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal
may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support
his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine
that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of
the same kind, as many have thought, because nature has previded them
necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel
esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with
Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of
nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him
without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a
man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of
the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part
3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them,
which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make
their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali
Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature,
commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions
to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently
to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to
it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on
Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h
on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order
to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they
have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or
drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them
ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever
Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never
forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and
a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a
greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they
have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are
guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which
cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind
are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches,
without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only
makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There
is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man,
which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to
life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz.
1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi
differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i di quest a edizione son o
son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles
en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di
pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag. 224-248; Ediz. Rot.)
Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society
by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that
consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione
olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del
titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di
queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority
in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera
pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz.
Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag.
524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh.
5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon
and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's
time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con
tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be
allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the
Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la
seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica
differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of
Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own
power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun
fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.;
Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data
dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12:
Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „
contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „
ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „,
sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro
ultima redazione francese. Notiamo invece per le operette " d „,
" e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere
l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi,
anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa
possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R.
ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a
noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle
in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia
conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la
traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for
preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their
parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non
esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del
testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione
a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „
immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione
della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „
della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa
di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus
interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova
ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata
l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14
formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine
numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n.
14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e
convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National
Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla
rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift,
London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of national biography,
edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231, T
III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris,
1827 > T. III. N. 16186. commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8,
nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „
manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.;
pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces
Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn.
del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la
spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „
manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del
testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo
ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2;
manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel
testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur
dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: "
mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla
rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”)
manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è
affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo
Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100
dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso
Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14,
sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di
quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene
seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è
l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a
Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità.
A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese,
tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si
tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute
alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la
precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo
esaminata, come stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la
appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite
a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in
grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da
qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove
era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato?
Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di
potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione
piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza
della vita del R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia
degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia nella
fenomenologia degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile
desiderio per il sa- pere del filosofo giunge infine alla liberazione e
soddisfazione dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da
una prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-
lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig- matiche
di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in- dagine
privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al- la disamina
delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo- gia e alle derive
psicopatologiche tracciate da Platone nel libro Vili, nonché alla
dinamica dei processi onirici e alla mania di- segnate nel IX. Da ultimo
ci soffermeremo sulla contrapposi- zione strutturale tra repressione e
canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed eros, che attraversa
il grande dialogo. A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico
volto a riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di ori-
gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a
convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi- 1
Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui voi.
Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del
desiderio cfr. M. VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a
cura di), I Greci, voi. I, Noi e i Greci, Torino 1996; pp. 431-67 (p.
441); sul rapporto complessivo psyche-so- ma, cfr. T.M. ROBINSON, Plato
's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54. 472 ' PLATONE, LA
REPUBBLICA ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei
cardini metapsicolo- gici della fenomenologia degenerativa del libro
Vili, fa tutt'u- no con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una
sfera "pro- pria" di desideri esplicitata nel libro IX:
«siccome tre sono le parti della psyche, triplici mi sembrano anche i
piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il
loro ruolo di comando» (580d6-7). Con ciò la statica tripartizione
deli- neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata,
retroattivamente, all'interno della dinamica psico-politica e quindi
delle forme caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino,
l'attribuzione rende conto del legame tra il governo del logistikon e il
desiderio di sapere del filosofo, il go- verno dello thymoeide s e
il desiderio di onori e gloria del carat- tere timocratico, e le tre
forme caratteriali dischiuse dal gover- no del polimorfo epithymetikon,
contenente tre specie di desi- deri e piaceri: 1) i «necessari», dei
quali «non ci si può libera- re», quali fame, sete ed eros riproduttivo,
il cui appagamento è utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono
essere «al- lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene,
talvolta anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge,
per- versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi
allonta- nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale
pog- gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico,
do- minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio
per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-
mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri non
necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure 2 La
convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio
Fici- no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio
di bellezza"; soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le
tensioni tra concupiscentia, appetitus e desiderium derivate dalle
letture scolastiche della metapsicologia aristotelica: cfr., per es.,
TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul- la revisione
dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A. GRAESER,
Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.
22-24. Vm E IX, [H] 473 deYL'erottkos e del tirannico, invasi
e pervasi dai desideri para- nomoi? Questa diairesi delle
specie del desiderio, tassonomica- mente inerente d& epithymetikon,
eccede euristicamente la ca- talogazione tipologica su due fronti. Su un
versante viene con- 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle
specie dei desideri e il poli- morfo epithymetikon, cfr., per es., D.
HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern
Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte
«discrepanza» e «aperta contraddizione» tra la tripartizione psichica e
r«improwisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia- logform
und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat-
tutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme
costituzio- nali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la
partizione psichica sia forzatamente modellata su quella politica.
Sebbene sia vero che rimangano delle tensioni nel testo - soprattutto
rispetto al desiderio necessario del carat- tere oligarchico:
l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale
elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithy-
metikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta
perfettamente i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali
altre forme "interme- die". Sul rapporto complessivo tra la
tripartizione psichica e le cinque forme politiche cfr. TJ. Andersson,
Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic', Goteborg 1971, pp.
155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin Plato's 'Repu- blic', Sankt
Augustin 2003, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson, il
carattere meramente «analogico», «non causale» dell'isomorfismo, cfr. so-
prattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della
kallipo- lis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto,
della timocrazia (p. 69); vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente
alcune tensioni del testo (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la
dimensione dialettica e temporale della di- namica degenerativa. Inoltre,
Ferrari è costretto a eludere interi brani, come 544d, e nello specifico
la dimensione sociale nella quale è calata la degenera- zione
caratteriale come a p. 67 ove non considera che il giovane timocratico
«esce di casa» etc. (550a), e che la figura paterna risulta infine «sconfitta»
per- ché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo
modello psico- caratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto
al carattere oligarchico (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto
al carattere democratico (p. 74) ove tace su 557b, 563d e 564a, nonché
559d sgg. In breve ritengo, di con- tro a Ferrari, che i due piani,
psicologico e politico, siano in una relazione di corrispondenza
biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia semi-ontologica
dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva nel
templata la possibilità che i desideri possano essere allontanati o
meno, approccio che mostra come la materia epithymetica sia analizzata ad
iniziare dalle strategie di controllo adottabili nei suoi confronti. E questa
la prospettiva all'interno della qua- le si articola la catalogazione,
non viceversa. Sull'altro fronte, anche qui sorvolando al di sopra dei
contenuti specifici veico- lati dalle singole epithymiai, viene rimarcato
il peso che la loro soddisfazione gioca rispetto al benessere o al
malessere psicofi- sico complessivo del soggetto. Questi due fattori,
modalità di gestione tese al contenimento e allontanamento del
materiale epithymetico più pericoloso, insidie e derive
psicopatologiche ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre
la dege- nerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la
loro unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ri-
percorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenera-
zione. 2. Repressione ed esilio Kolazomenai: i desideri
possono essere e talvolta vengono repressi: Fra i piaceri e i
desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere contrari alle leggi.
Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se ven- gono repressi
(kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della
ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure
restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi. La
repressione dei desideri non necessari, ed in particolare di quelli
paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita rispetto alla
modalità funzionale, tripartita quanto alle catego- rie
caratterologiche. contempo la relazione causale circolare
dal punto di vista dinamico-tempora- le, dialettico. E IX, [H] 475 a)
L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi «si al- lontanano
del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più
in generale, alla repressione giovanile dei de- sideri genericamente non
necessari: «si potrebbero allontanare (apallaxeien) , se ci si prendesse
cura di farlo fin da giovani» (559a3). Ancora: se il desiderio non
necessario «è represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da
giovani, può es- sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte
degli uomini» (559b9-10). b) La permanenza: i desideri
repressi permangono esplicita- mente (leipesthai) . Esito a sua volta
ramificato: 2) in un caso permangono «pochi e deboli» desideri;
condizione che non viene però contrapposta al loro intero allontanamento:
le due forme riguardano la stessa categoria di persone. 3) Nel
terzo caso permangono desideri «più forti e numerosi»» sì che viene
delineata una seconda categoria di persone. 4 Per comprendere la
dinamica, la forma, la topica e le con- seguenze che comporta l'adozione
delle suddette strategie re- pressive fornisce un contributo essenziale
il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello
democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera
il giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita
distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimen- to del
desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono di- strutti
{diephtharesan), altri banditi {exepeson). Ab- bandonati i desideri
banditi al proprio destino, Platone si con- 4 Analoga la
ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di «abwenden» i
desideri non necessari e il «fortdauern» dei paranomoi attestata dall'analisi
dei processi onirici, di H.P. VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute bei
Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un
fronte la specie dei desideri necessari, "alleati" alla figura
paterna, rappresentanti della parte oli- garchica, e la specie dei
desideri non necessari, fomentati dalle cattive compa- gnie,
rappresentanti della parte democratica. I
476 PLATONE, LA REPUBBLICA centra quindi sull'analisi di
«altri desideri affini a quelli che so- no stati messi al bando», dei
quali scrive, in un passaggio ne- vralgico, che, in talune occasioni,
«cresciuti di nascosto» (hypo- trephomenai) , diventano infine «molti e
vigorosi» (560a9-b2). Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di
nascosto, in- sensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone:
esse «unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla»
(560b4-5). Essendo tale proliferazione «nascosta», «segreta», «furtiva»
{lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettiva- mente
«inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da cui si
nascondono non può essere se non ciò che noi usualmen- te indichiamo con
l'espressione «coscienza». In breve, sfuggo- no alla presa di coscienza.
La proliferazione dei desideri non necessari è dunque in questo caso
collocata in un luogo intra- psichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di
fuori della sfera co- sciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei
desideri para- nomoi repressi nel caso in cui restano «forti e
numerosi». L'individuazione e concettualizzazione di processi
psichici pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto
atte- stata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove
leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando perso- ne
viziose, ammassino «senza accorgersene {lanthanosin) un'u- nica grande
mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario, devono crescere
tra «opere belle» così che la loro «aura», «fin da bambini,
inconsapevolmente {lanthane)», li conduca «al- l'armonico accordo con la
bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed an- 6 Anche D. HELLWIG, op.
cit. (n. 3), pp. 121-22, 130, sottolinea come le «Begierden gewaltsam
unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e pos- sano poi rafforzarsi
«in heimlichem». 7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze
1954, voi. II, pp. 601, 395 parla a questo proposito di «inconscio», così
come J. Lear, La psicoanalisi e i suoi nemici (1998), trad. it. Milano
1999, pp. 183, XVIII; il termine «incon- scio» però, in questo caso
specifico, non può essere inteso nel senso classico e ristretto (dinamico)
di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla ri-
mozione. cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione esce
dalla mente» «in modo involontario» (412el0-413al), come accade in
«coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e che se le
dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ra- gionamento, le
portano via di nascosto {exairoumenos lantha- nei)» (413M-7).
Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Plato- ne
all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desi- deri
repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto, «hanno infine
conquistato l'acropoli della psyche» (560b7-8). L'acropoli raffigura il
centro direttivo della psyche-polis, il luo- go nel quale si controlla
l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le particolari sfere di
desideri ad esse pertinenti pos- sono governare l'individuo. I conflitti,
lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano intimamente la
psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la «regale
fortezza», penetrare attraverso i «portali» che conducono al cuore
del soggetto, al sé (553b7-d7). La repressione che si limita
ad allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non
so- no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso
alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui la
politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo
metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro- cessi
psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-
rettamente, in questa dimensione concettuale. Un ultimo elemento
chiave inerente alle strategie repressi- ve, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente «rende schiavi», «mette in
schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che
riemerge, in generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e
mette- re in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te
kai doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro-
cessi onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette le opinioni
che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo- lo cruciale. Il punto
che ora ci preme sottolineare è che la re- pressione in taluni casi si
configura come un processo seguito da una forma di controllo radicale, di
incatenamento. In conclusione, la repressione dei desideri,
paranomoi ma più in generale non necessari, è un processo tale per cui
essi vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa
comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della
co- scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi
di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo- mento, tentare
un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico del represso
I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del libro
IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3), inaugurando così
l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un contributo tanto
stringato quanto sorprendente per la sua modernità, essenziale
nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie di
controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie dei
desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II «risveglio» avviene
quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e
adat- to al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena
di ci- bo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno,
cerca di aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi
(571c3-7). Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon,
sti- molato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via
il sonno; ciò comporta il sincronico «risveglio» dei
suoi desideri; ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò
non può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche
ciò che è «socievole», 8 probabilmente lo thymoeides. Il proseguo
del brano fa luce su tale stato psicologico: «Sai bene che in un simile
stato essa osa fare di tutto, come sciolta e liberata da ogni freno di
vergogna e di ragionevolezza» (571c7- 9). H sonno del logistikon,
l'istanza cui va ascritta la phronesis, e verosimilmente dello
thymoeides, al quale possiamo attribui- re, quando è sotto l'egida della
ragione, Yaischyne, viene quindi a rappresentare la mancanza di
quell'attività di resistenza che impedisce la manifestazione dei desideri
repressi. Il fattore quantitativo e la struttura dinamica delle due
precondizioni so- no perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto dall'ecci-
tazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pres- sione dei
desideri, segue la loro emersione e soddisfazione per- messa
dall'inattività delle forze razionali, morali. Date tali
condizioni, tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina)
non la imbaraz- za affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi,
animali, e commette- re qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun
cibo (571c9-d3). Quadro «edipico», 9 perversione, aggressività
omicida. Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli
occhi dell'impotente sognatore. Posto che l'attività onirica
rappresenta la «soddisfazione» «immaginaria» o «visionaria» di desideri
repressi (571dl; 572a9-bl), riprendendo la topica dell'acropoli la loro
appari- 8 Su hemeron e thymoeides cfr. W. JAEGER, A New Greek Word
in Plato's 'Republic' (1946), in Scripta Minora, 2 voli., Roma 1960, voi.
II, pp. 314-16. ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano,
tra gli altri, K.R. POP- PER, La società aperta e i suoi nemici (1966 5
), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi. I, p. 421; C.H. Kahn, Plato's
Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics», XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p.
83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der Staat, Munchen 1991, p.
506. zione e sincronico appagamento potrebbero essere
interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la
vigilan- za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione,
an- che se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela nell'uni-
co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'a- cropoli
si verrebbe così a configurare come sfera della coscien- za, come teatro
dell'immaginazione nel quale i desideri impon- gono la visione della loro
drammatica rappresentazione, diven- tando coscienti e trovando soddisfazione
senza però attivare le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di
quest'immagine, priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in
termini spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo,
il sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è
possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti in
schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha
così dischiuso e percorso la «via regia per l'in- conscio» tracciata nel
Novecento da Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia
intendere alla luce della rimo- zione {Verdràngung), o viceversa,
anzitutto perché quest'ultima, che è una forma particolare di repressione
{Unterdrùcken), 12 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte
(1982), trad. it. in G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia,
Roma-Bari 1988, pp. 103-20 (p. 109). La più articolata trattazione
platonica di ciò che noi indichiamo con le espressioni «coscienza» e
«autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi,
utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un indivi- duo
«vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opina-
te» (39b-c), poi che egli «scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della
Re- pubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte
psichicamente, pare presupporre una concezione della «coscienza»
simile. u Parlano di desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn,
op. cit. (n. 9), p. 82, e J. LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142.
12 «Ci sono nella vita psichica desideri rimossi [...]. Ci sono non è
inteso storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi
sono stati distrut- ti; per la teoria della rimozione [...] simili
desideri rimossi esistono ancora, ma contemporaneamente esiste
un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio COMMENTO Al
LIBRI Vm E LX, [H] 481 dal carattere
«morale», 13 tesa a contrastare una sfera di deside- ri «immorali,
incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadi- che», 14 anziché
condurre ad «una completa distruzione» 15 dei desideri, si limita al loro
«allontanamento» (Entfernung) dalla coscienza. 16 Questi perciò
«permangono» (Fortbesteben) al di là dei confini della sfera cosciente.
17 In una sola parola, il rimosso è vogelfrei, 18 ovvero
"bandito", "proscritto", "fuori-
legge". La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio
ta- glio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di
«scaricarsi nell'azione reale», 19 gli viene metaforicamente nega- to
l'accesso alla Festung freudiana, la «fortezza» dalla quale si
colpisce nel giusto quando parla della "repressione"
(Unterdrucken) di tali impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a
codesti desideri repressi di realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S.
Freud, L 'interpretazione dei sogni, in Opere complete, 12 voli., trad.
it. Torino 1967-80, voi. Ili, p. 220; originale: Die Traumdeutung, in
Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p.
241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste
edizioni). 13 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. LX, p. 498; cfr. anche
Lo., Breve compendio di psicoanalisi, voi. IX, p. 592. 14 S.
FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni', voi.
X, p. 158. 15 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie
di lezioni), voi. XI, p. 201 [S. FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur
Einfiihrung in die Psychoa- nalyse, voi. XV, p. 98: «eine vollstandige
Zerstòrung»]; il richiamo successivo è certamente a Id., Il tramonto del
complesso edipico, voi. X, p. 3 1; cfr. anche S. Freud, Inibizione,
sintomo e angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD, Metapsicologia,
voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza consiste semplicemente
nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla co- scienza» [Die
Verdràngung, voi. X, pp. 252 250]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, voi. IX,
p. 480. 17 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die
Verdràngung, voi X, p. 251]. 18 S. FREUD, Inibizione, sintomo
e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung, Symptom undAngst, voi. XIV, p.
185]. 19 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, voi. IX, p.
205. 482 PLATONE, LA REPUBBLICA «domina la
motilità». 20 Sull'altro però esso «sopravvive al di fuori» della
coscienza godendo del «privilegio della Exterrito- rialùàt»: 21 una volta
estromesso dal dominio cosciente può «sviluppare derivati e annodare
connessioni», «prolifera per così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22
Proliferazione che rap- presenta la possibilità del suo sempre possibile
«ritorno». 23 Da qui la necessità di una costante attività di
«resistenza» alle so- glie della coscienza. 24 In termini spaziali:
espulso un ospite in- desiderato si deve «poi far sorvegliare
perennemente la porta da un guardiano giacché altrimenti l'individuo
respinto la for- zerebbe». 25 Poste queste premesse, Freud,
ricalcando ancora le orme platoniche, 26 individua nel sogno la via regia
per l'inconscio perché in esso i desideri repressi, approfittando del
cedimento della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e godendo del
casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, voi. Ili,
p. 517 [Die Traumdeu- tung, voi. II/III, p. 573]. Riprende questa stessa
immagine, accostandola ai conflitti della psyche platonica, M. Stella:
cfr. qui voi. III, [J], p. 317. 21 S. FREUD, Inibizione, sintomo e
angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hem- mung, Symptom und Angst, voi. XIV, p.
125]; cfr. anche Id., Il problema del- l'analisi condotta da non medici,
cit, voi. IX, p. 370. 22 S. Freud, Metapsicologia, voi. VIII, p. 39
[Die Verdrdngung, voi. X, p. 251]. 23 Sui meccanismi di
difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi. VILT, p. 44.
24 Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud,
Metapsico- logia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, sintomo e angoscia,
voi. X, p. 303. Sulla distinzione tra derivati e rimosso originario, e
tra rimozione originaria e post- rimozione, cfr. Id., Metapsicologia,
voi. Vili, pp. 38 sgg. 25 S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p.
43 e nota; cfr. anche Id., Cinque conferenze sulla psicoanalisi, voi. VI,
pp. 143 sgg.; Id., Introduzione alla psicoa- nalisi, voi. Vili, pp. 454
sgg. 26 Cfr. in questo senso anche A. KENNY, The Anatomy of the
Soul, Oxford 1973, p. 12. 27 S. FREUD, Introduzione alla
psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 134.
Vili E IX, [H] 483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28
riescono talvolta a farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze»
della co- scienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che
condu- ce alla motilità» durante il sonno viene «chiusa» dal
«guardia- no», 30 il sogno rappresenta infatti la «soddisfazione
allucinato- ria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei
meccanismi peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la
censura inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche
per Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino
sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno subito
alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui allude Giocasta
nell'Edipo re». 34 Infine, considerato che il concetto di inconscio
in senso stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente
«ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è
per 28 Cfr. S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi.
X, p. 304; Id., Intro- duzione alla psicoanalisi (nuova serie di
lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico- logia, voi. Vili, pp. 40-42;
in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509, viene
ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei pro- cessi
di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L
'interpreta- zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C. 29 S.
Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp. 317-18;
cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111. 30 S. Freud, Il
interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp. 104-
05. 31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione alla
psicoanalisi, voi. VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, pp. 134, 142. 32 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni),
voi. XI, pp. 135 sgg. 33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni' , voi. X, p. 158. 34 Ibidem.
Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non
temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so- gno
con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).
4 noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento
essenziale è dato dal fatto che i desideri confinati «non possono
divenire co- scienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente
co- me accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). 36 4. Difese pre-oniriche
La difesa approntata da Platone per prevenire l'emersione onirica
dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così deli- neata: ci si
deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben de- sto il logistikon»,
facendo nel contempo «rimanere assopito Ye- pithymetikon» - conducendolo
cioè in una condizione tale per cui non resti né «affamato» né sia
«troppo riempito» - ed infi- 55 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. IX, pp.
477-78. 36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER, op. cit. (n. 7), voi.
II, pp. 599, 602; T. GOULD, Platonic Love, London 1963, pp. 175, 108; J.
Lear, op. cit. (n. 7), pp. XIX, 34, 140-42; A. HOBBS, Platon and the Hero.
Courage, Manliness and the Impersonai Good, Cambridge 2000, p. 57; O.
GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L. MONTONERI, Platone: l'eros, il
piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi greci e il piacere,
Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e salute, Milano 1999, pp.
281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr. E.R. DODDS,
Plato and the Irrational Soul, «The Journal of Hellenic Studies», LXV
(1945) pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n. 26), p. 11. Di diversa
opi- nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in Plato's 'Protagoras' ,
in Procee- dings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, VI
(1990), pp. 115-140, rispetto a Repubblica cfr. soprattutto pp. 116-18,
135; egli rimanda però alla messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon
(589c6- 590c6), che abbiamo visto essere di natura diversa, in quanto
tesa allo "sfrut- tamento" e non all'allontanamento (cfr. n.
42), dalla messa in schiavitù dei de- sideri paranomoi etc. Ho cercato di
affrontare l'intera questione in M. SOLI- NAS, Unterdrùckung, Traum und
Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei Freud, «Philosophisches
Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp. 90-112. ne «ammansendo lo thymoeides»;
in questo caso «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle leggi» (571d6-572bl). 37 Rispetto all'emersione"
onirica lo thymoeides presenta un carattere asimmetrico: la sua
inattività sembra agevolare l'e- mersione del materiale represso, il suo
risveglio rappresenta però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla
sua costitu- tiva ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la
sua natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b);
caratteristica che potrebbe suggerire che esso possa contribuire alla
manife- stazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere
marca- tamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il
logi- stikon ed un vago «ciò che è socievole». Quanto all'
epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del lasciarlo «affamato» può
esser inteso sia come un richiamo alla concezione del desiderio quale
soddisfazione di una mancanza (cfr. 43 9a), sia alla formazione di sogni
non appaganti, avvalo- rata dal fatto che l'attività onirica dell'
'epithymetikon è detta comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi «dolori»
(572al: %aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che trova un
puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si risveglia dal sonno,
come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7). Anche rispetto al
logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi e ricerche» (571d7), emerge
un'asimmetria funzionale: il sonno rappresenta l'inattività delle sue
funzioni di controllo e resi- stenza, il suo risveglio non comporta però
la capacità di svolge- re alcuna attività inibente, è limitata allo
svolgimento di funzio- ni intellettuali interne: «solo in se stesso nella
sua purezza» po- trà «venire in contatto con la verità» (572al-3). 38
Attività che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame
tra tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n.
10), p. 108. Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il
fegato a fornire una conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la
ragione deve «interpretare con non ha, quindi, niente a che
fare con l'emersione dei desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe
pensare alla netta di- stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio
svolto nel sonno dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39
Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter- vento
diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare o compiere una
qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali intemperanze delle altre
istanze. Il loro assopimento, come vie- ne ribadito due volte nel
proseguo del passo, deve essere per- seguito e raggiunto prima di
abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto questo compito ci si
può finalmente conce- dere il riposo (572a7). La non-emersione dei
desideri è, dun- que, garantita univocamente da un intervento
consapevole, pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi
oniri- ci paiono perciò significativamente ridotte rispetto a
quelle della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e proprio
conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere «turbata» dalle
gioie o dai dolori dell' epithymetikon (571e2), accenno che sembra
indicare che essa si limiti a percepire passivamente, ad assistere
impotente alle sue turbolente manifestazioni. In conclusione, il
quadro dei processi onirici è così artico- lato: o il logistikon è desto
e le altri parti dormono, ed allora «le visioni fantasticate nei sogni
sono le meno contrarie alle il ragionamento» (72a) dopo il
risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubbli- ca sono i sogni quali
appaiono in Fedone 60e, Critone 44b, Leg. 909e-910a, Epinomide 985c,
poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al riguardo
E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (1951), trad. it. Firenze 1997 2 ,
pp. 122-31. 39 Cfr., per es., S. FREUD, Lio e l'Es, voi. IX,
p. 489: «un lavoro intellet- tuale sottile e difficile, che normalmente
richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in modo
preconscio senza pervenire alla coscienza. Non vi sono dubbi su casi del
genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 136: la funzione
preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma «non ha
nulla a che fare con il lavoro onirico». leggi», ed esso può attivare le
sue funzioni intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo
thymoeides son desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri
repressi. Es- sendo l'esito univocamente determinato da un intervento
indi- retto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare
con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, di- retta ed
inconscia. 40 In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non
compaiono affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.
5. Strategie di controllo e caratteri universali Ora, poiché
leggiamo che proprio chi «si trovi in una con- dizione di sanità e
moderazione» deve ottemperare alle sud- dette misure preventive prima di
concedersi il riposo, sì da evi- tare la manifestazione delle empie
visioni, è necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo della
loro comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della precarietà
di ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche
ri- spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi
dei processi onirici: Però parlando di queste cose siamo
andati troppo lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno -
anche in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è
senza dubbio presente una forma di desideri terribile, selvaggia e
illegale, che si manifesta chiaramente appunto nel sonno (572b2-8).
Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap- parenze,
il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro che più sembrano
moderati, nonostante ciò possa parere inam- 40 Cfr. per es. S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni), voi.
XI, p. 130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e sulla
«resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-
nalisi, voi. XI, p. 594. missibile, ebbene anche in loro,
anzi in «noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso -
questa specie di desi- deri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno».
Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la migliore
repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse- re stati
«interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né pochi né deboli né
schiavi. Ciò nonostante tale operazione la- scia aperta la via alla
possibilità del loro ritorno. Lo stesso peri- colo affiorava del resto
nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini «cari agli
dèi», in altri termini i mode- rati, predispongono la «guardia» alle
porte dell'acropoli (560bl0). Ta hautou ethe: nel sogno V
epithymetikon soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri»
(571c7). In questa defi- nizione sta la chiave che spiega l'incombenza
del pericolo: sia- mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda,
selvaggia e illegale» che costituisce un elemento strutturale dell'
'epithyme- tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e
origina- ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata
non può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò
Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi- deri
paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5- 6). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'a- cropoli fin dalla
giovane età, come mostrano i molteplici ri- chiami ad operare una loro
repressione ed educazione «fin da giovani» (559al sgg.).
Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana- ti
«esistano» anche nei moderati non significa che il loro status sia lo
stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo- derati. Con
ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio- ne i cui fili è
giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo dal carattere
oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari (554a7), in
altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza» (554cl:
katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone:
[il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su
di sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo
abitano, non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore,
né li ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della
necessità e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei
[...] oì> TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p). La
capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe- ra razionale è
qui direttamente contrapposta alla forza o vio- lenza (bia) di una
repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole (epieikei),
con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo di fronte a
due modelli di ge- stione del desiderio alternativi: l'uno repressivo,
negativo, l'al- tro persuasivo, positivo. 41 Di contro, è
anche vero che Platone discutendo del carat- tere democratico
scrive: se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono
relativi ai desi- deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che
bisogna praticare e ono- rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i
secondi, in tutte queste occasioni scuote la testa e afferma che essi
sono tutti uguali e di pari rispetto (561b8-c4). Poiché qui
la messa in schiavitù assume un valore positivo, sembra emergere una
contraddizione. In verità però come il processo di repressione svolto
dall'oligarchico è «apprezzabi- le» nelle intenzioni, è comunque meglio
di niente per un indi- viduo degenerato, così nel «discorso vero» che
deve esser fatto passare nella psyche del giovane carattere democratico,
che è ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non
41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste
su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit
Gewalt un- terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al
carattere ed alla co- stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera
fenomenologia degenerati- va; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon- do adottati da
Platone. preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe
già sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-
re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a- dozione
della strategia più drastica: la loro repressione e messa in schiavitù.
Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei
degenerati caratteri oligarchico e democratico (e anche del timocratico),
nei quali il logistikon, l'unico in gra- do di gestire i conflitti in
modo «armonico», è ormai «asservi- to» 42 all' ' epithymetikon (o allo
thymoeides: 553dl-7) 43 Stringente il parallelismo semantico e
concettuale che si pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la
degenerazione poli- tica e sociale permette la nascita e proliferazione
di «ladri, ta- gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della
polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
for- za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou).
Il circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico,
si avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con-
turbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e polis,
di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e patogena,
ancorché lodevole, della repressione violenta. 44 42 In
questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del- lo
sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare
le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei
desideri ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento,
espulsione, allonta- namento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's Comparison
of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla- ton. Politela, Berlin
1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.). 44 Diversa la questione che si
pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg., ove Platone, rimarcando il
suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen- de la necessità di
«asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le di- rettive
corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non
pie- namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema
ratio, nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche costitutive,
tali per cui l'auspicata ar- monia sociale trova agli occhi di Platone
dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse
strategie di controllo dei desideri non necessari emergono allora quattro
modelli para- digmatici (escludendo la loro soddisfazione): due
repressivi, uno misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono
«di- strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»; 3)
quel- lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene
«allontana- to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è «convinto» e «ammansito». 45
Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside- ri
paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla loro
esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è esattamente una
medesima operazione repressiva come l'ab- biamo interpretata
inizialmente, ma rimanda a due strategie af- fini ma distinte. La prima
rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù» ed ha l'esito
univoco di spostare e incatena- re il desiderio. La seconda rientra nel
modello per cui il deside- rio «represso ed educato [...] viene
allontanato». Qui la com- presenza di repressione e educazione, sì che il
desiderio «allon- tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente
incate- nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione
in un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno
interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali per- mangono ma
sono «pochi e deboli». Modalità nella quale po- tremmo forse inserire
anche quei desideri «banditi» che Plato- ne abbandonava al proprio
destino: in tutti e tre i casi i deside- ri vengono repressi, non
distrutti, ma si tratta di una repressio- ne per così dire morbida,
tendente perlomeno in parte alla loro «educazione», sì che essi non
permangono, in massa, alle porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia
puramente repressiva, di ce viene criticata una modalità di
controllo metapsicologica che adotta, a priori ed unilateralmente, un
approccio brutalmente repressivo, lacerante. 45 Cfr.
rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan; 2) 561c2-3: kolazein te hai
doulousthai; anche 554a7: douloumenos; 3) 559b9-10 kolazomene kaipai-
deuomene [...] apallattesthai; anche 559a3: apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia
ka- techei [...] oupeitho [...] oud'henieron logo.
messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico
dei desideri; è questa la via che conduce prima al democratico,
poi' alla mania del tiranno. In conclusione, l'eventualità
che anche nei moderati emer- gano oniricamente i desideri paranomoi si
lascia intendere co- me se, piuttosto che singoli desideri incatenati che
premono ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe
origina- ri e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad
approfit- tare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del
logi- stikon per mostrare le strutture universali, esse stesse
«incon- sce», 46 che generano e sospingono in avanti i singoli
desideri paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli
desi- deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là di ogni modalità di
controllo adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno
mo- stra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie»
dei desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «be-
stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa
sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in quei
pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48 46 W.
Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di fronte alle
«regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso A. Kenny,
op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n. 10), p. 108; W. Janke,
AAH0E- LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie»,
XLVII/3 (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera del resto una
distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali»,
«innate» ed «inconsce» dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi,
cit., voi. XI, pp. 572 e 590; Id., Luomo Mosè e la religione
monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id., Metapsicologia, voi.
Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id., Dalla
storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591. 47 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495: «tutti
gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Al-
cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 159; Id.,
I miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T. GoULD, op.
cit. (n. 36), p. 175. 48 Sostengono apertamente
l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri, Guthrie, A History
ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla realtà:
derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di con- tenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psico- patologica. La rottura dell'armonia intrapsichica,
condizione necessa- ria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale
assicurata dal governo del logistikon, ha inizio con il carattere
timocratico, che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides (cfr.
550b4 sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora una figura
pa- tologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si
fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il carattere
oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met- tere in
schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri- solve ma
acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non
potrà dunque esser libero da conflitti interio- ri, e non sarà uno ma in
un certo senso doppio» (554d9-10). In negativo: «la vera virtù, quella
della psyche concorde a armo- niosa, fuggirà via lontano da lui»
(554e4-5). La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane
figlio democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare
con la forza quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non 1975,
p. 534; A. BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150;
C.H. KAHN, op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in
Plato s Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp.
341-56 (p. 347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear,
op. cit. (n. 7), p. 142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel
migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da
rendere inoffensivi o da ri- muovere». 49 L'approccio duramente
repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza nell'interazione
psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la persuasione ma con la
forza» (548b7-8). 4 necessari» (558d4-6: Bice Sri kou
oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv), In questo modo però, se talvolta
alcuni desideri ven- gono distrutti, talaltra invece proliferano
«inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli.
Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere
le porte della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il
pudo- re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia, superata la
lacerante fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra
parzial- mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi
in passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5). Il passo
che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de- terminismo
degenerativo disegnato da Platone, è però ormai cortissimo: l'Eros
tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero sciame dei desideri paranomoi,
facendosene «capo» e «guida» (573 a-b), e quelle opinioni che gli fanno
da «scorta», si libera- no definitivamente «dalla schiavitù», mentre
prima, quando egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le
opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le
cate- ne della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi- ta da desto
quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da
alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione (574e2-4). L'uomo
tirannico è «colui che da sveglio è proprio come l'avevamo descritto nei
suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi- sta della fenomenologia
degenerativa questa figura è dunque dovuta, a livello psicodinamico, al
«ritorno» di un represso che scavalca le barriere oniriche: si transita
dall'appagamento oni- 50 Cfr. anche J. Lear, op. cit. (n. 7), p.
193: «La comparsa dell'uomo de- mocratico è, in linea di principio, il
ritorno del represso nella generazione successiva»; sull'oligarchico cfr.
ivi p. 182. 51 Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù,
è però l'Eros con i suoi desideri a riempire di contenuti sia le
manifestazioni oniriche sia le azioni dissolute del tiranno.
rico a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rap-
presentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immagi- nazione
alla conquista permanente dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora
incontrastato, «governa ogni settore della psyche abitandovi come un
tiranno» (577d; 329c- d; 573 d; 575a). I rapporti di forza della
psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e
scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni oneste» (573a3-b7).
Tirannia che genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della
«vo- lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più
sel- vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai
comple- tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. 53 Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori». 54 Riepilogando, dal punto di vista
intrapsichico il processo di degenerazione avviato dal defenestramento
dell'armonico ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia
del- l'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi,
quale risultato di un approccio brutalmente repressivo del
materiale epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza
e il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei
processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigo-
ritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psico-
patologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed espropriazione
maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodina- mica è dunque a tale
strategia di controllo che deve essere at- tribuita la più grave
responsabilità della fenomenologia dege- nerativa. 52
Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,
cfr. O. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a),
“Museum Helveticum”. 54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te
k<xì épcÓTCOV. 7. L 'altra via: la canalizzazione
PLATONE, LA REPUBBLICA La strategia antitetica
alla repressione è quella della per- suasione e educazione del desiderio.
L'architrave metapsicolo- gico sotto il quale si dispiega tale modalità è
rappresentato dal- l'adozione di un modello pulsionale
"idraulico" che assicura all' epithy mia, e all'eroi-, una
intrinseca malleabilità. Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto
di vista dinamico si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come
emerge lim- pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che quando le
epithy- miai di una persona si concentrano con forza in una sola
dire- zione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il
resto, come una corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone,
«in quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi
e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il piacere della
psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del corpo», come accade
nel philosophos (VI 485dl0-12). Se, allora, si con- sidera non Yepithymia
nella sua fenomenica e contingente sin- golarità, si tratti di specifici
desideri necessari, non necessari e/o paranomoi, ma le epithymiai nella
loro plurale unitarietà, esse risultano essere una forza
energetico-pulsionale unitaria, canalizzabile verso mete diverse, anche
opposte, secondo un modello economico. Anche da qui l'insistere di
Platone, a monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie
di gestione del materiale epithymetico. Questa è la ragione,
dalla nostra prospettiva psicodinami- ca, con la quale si spiega perché
l'estensione metapsicologica della tripartizione del libro IX poteva
coniugare esplicitamen- te, in modo simultaneo e complementare, piaceri,
desideri e governi: ogni parte, in conformità con la sua natura
intrinseca, «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere
preservati, rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù
dell'egemonia intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché
le Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae
àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono
una risorsa unitaria e limitata. 56 Modello rafforzato, descrittivamente,
da una sorta di estremizzazione erotico-caratteriale operata da Platone:
si tratti del filosofo o meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in
tutta la sua forma» (V 474d8-10), come chi «desidera qualcosa la desidera
in tutta la sua forma». Estremismo che conforta la tipologia caratteriale
del libro Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni,
psicodinamica e caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità
di misura comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes
della ve- rità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa
contrapposizione strutturale tra repressione e canalizzazione risulta
così radica- lizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante
scor- re il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i
ter- ribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il
mare .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa
ma benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola
forza psichica che in virtù della sua potenza può supportare la
lunga navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro
della dikaiosyne. 38 In conclusione, posta la permanenza di specie
di desideri stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di
riferimento, come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può
mai svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithy-
metico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti
56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's
'Repu- blic', Oxford -Sulla centralità psicologica, etica e politica
dell'eros e la possibilità di una sua «canalizzazione» o «sublimazione»
nella Repubblica ma anche nel Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI,
Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la necessità di non confinare
l'eros nel- la dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study
of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that confines eros to the
sub-rational parts of the soul most definitely falls short of the truth. PLATONE,
LA REPUBBLICA di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente
trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte
riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma
doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché tentare,
inutilmente ed invero assai pericolosamente, di annientarne il potenziale con
strategie brutalmente repressive. E questo lo snodo cruciale di fronte al
quale vediamo divaricarsi i due approcci fondamentali, le due strategie
basilari di con- trollo del desiderio adottate da Platone: repressione
versus canalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione versus
educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare la via che
conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo,
o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del
tiranno. L'uomo massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto
da una massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi
dal- le catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei
confini della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e
per- mettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi
l'esplosione finale del loro devastante potenziale. Alberto Radicati,
conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e
tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Coco: l’implicatura
conversazionale del mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale
prevalente -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico).
Filosofo italiano. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can
play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is
conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the
‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on
‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It
sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the
subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must
‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too
– what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ –
what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and
boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a
lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista sistematico molto vicino
alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.
Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia
Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma.
Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per
aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché
del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa
prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione,
e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni
di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia
del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano,
Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice
penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle
tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione
giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico
sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla
costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi
Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla
pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele
Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa
cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario
Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina,
legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto
pubblico. La giustizia amministrativa, Roma,
Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una
vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di
giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La
giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento
pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli
Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.
La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città
di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del
Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva.
Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume
in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a
Roma presso la Procura. Presidente di sezione della Corte Suprema di
Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una
solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai
lavori per la stesura del Codice Civile e del Codice di Procedura Civile.Cura
vari aspetti della normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una
delle sue grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia
leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo,
inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il
profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda
l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per
l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di vista
epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle
scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al
pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non
si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei
confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare
come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non
corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica
amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica
amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso.
Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal
padre, persona di cultura, ricevette i primi rudimenti di
storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in
taluni suoi saggi filosofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera
giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per
assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino.
Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti oltremodo
favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e
Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi
permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello.
Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello
di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a
presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della
Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”,
pubblicazione mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della
nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non
disdegna di appartenere, nonostante l’altissimo grado che ricopre
nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense,
Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di
Cassazione sin dagli anni ormai lontani della sua felice unificazione. E
stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che
raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema
Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica
di Consigliere, partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così
eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non
sarebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore;
non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo
di Professore di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento
di Diritto Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di
Redattore Capo della Rivista di Diritto Pubblico. La recente
nomina, se indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti
di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore
di così ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado,
assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni
giudiziarie, alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma
soprattutto una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti
illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non
è stato caratterizzato soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo
lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’evoluzione
dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina
a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico
e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e
l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli
diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della
Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i
principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè
all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività
accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i più bei nomi della
dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base
della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua
eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto
Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco,
dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente riferimento
alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia
di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo
dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di
efficace e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro
e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero una novità assoluta
nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si verificheranno gravissime
crisi socio0economiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la
politica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto
Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata delle linee guida
tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i
quali appunto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso
alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e
Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile,
emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e
giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione,
diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza della promulgazione, il
Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il
prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide con
l’immane conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di
vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione
della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza
della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di
Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nonostante tale ferma
presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni
articoli che aveva scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi
e questioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta
Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una pluridecennale
collaborazione, ne scova qualcuno che suona come apologetico del Fascismo.
Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato
integerrimo, del quale va appena ricordato, ammesso ve ne fosse bisogno, che
la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire sollecitazioni per
una causa che la interessava. Ebbene, Coco procedette secondo coscienza,
quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta,
nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e
invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per meriti poteva
benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne
mina rapidamente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre
ricorso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortesemente
anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di
Calabria gli avevano offerto con affetto e riconoscenza. Spira serenamente,
non mancando nel suo testamento di perdonare cristianamente quanti gli avevano
provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa
cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative –
disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa
cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la
definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita
prevalente. Del Lavoro. Le Società
di Mutuo Soccorso in Italia. Il prof. Gobbi, nel suo pregevole
libro: « Le Società di Mutuo Soccorso » dice che « il nome di Società di
Mutuo soccorso è comunemente assunto da associazioni, le quali hanno per loro
scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre
eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività
economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci
stessi ». Considerato così il carattere economico-sociale dei
sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime
traccie di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e
mestieri, nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste
associazioni si proponevano scopi di difesa professionale, di
perfezionamento nelle arti esercitate dagli associati ; qualche volta, in
via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumevano
importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come
nelle arti della repubblica Fiorentina. Abbiamo però nel
nostro paese esempi di società mutualiste sca¬ turite dal vecchio tronco
della corporazione o del Collegio, o meglio che'di questo possono
reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti noi possiamo considerare
la Società fra i falegnami e fabbri di Faenza che fa rimontare la sua
origine al 1410; l’altra pure di Faenza fra calzolai ed arti affini che
si dice sorta nel 1474; la Società Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del
1454 ; la Società Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei
Cappellai di Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del
deci- mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610);
le due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami
ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai, sellai,
fabbri¬ canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni di Asti
(1681); la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra
fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di officina) (1700); la
Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova; le Società Riunite
Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto lavoranti
Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino (1736); la Società
Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la Unione
Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che abbia assunto
dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi adattamenti, i
caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e
poi nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770.
E ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo
decimottavo e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica
di To¬ rino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano
par- ticolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino
del i/54 e la Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo decimottavo
sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il
concetto mo- Daese affe[>m are che di buon'ora si manifestò nel
nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale. Ed è cosa
singo- concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica
del Sassari dalIe , f orme più semplici di essa dovrebbe
videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre¬
previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi
della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio
auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,
litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù so-
adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova
l’organo domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti
quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che
l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che
versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della
mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta
alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar- occorre per i
bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S
a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro- primo
dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851 società di mutuo soccorso
(1). di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo : nel 1810.
Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni
SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in
seta areento l a Società di M. S. fra cap- ’ aigento e oro di Tonno; nel
1884, la Società Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e
'sociale che la unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche
il rapido incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo
della prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro
la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35
anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896
So¬ dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722,
con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza
siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica,
pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza. Le
Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono
associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere
assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste
altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche e
intellettuali e morali dei soci. Fra le funzioni di carattere
assicurativo ha prevalenza in tutte l’assicurazione di un sussidio in
caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte
ed un sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono
commisurati ai contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta
alla stregua di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le
Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al
sussidio fissano un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente
chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il
sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1);
tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi,
e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24
mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a
12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non tutte le Società concedono
il sussidio dal primo giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle
che lo concedono; le al¬ tre fissano un periodo, che chiamono periodo di
carenza, nel quale i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di
carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche
So¬ cietà va oltre i dieci giorni. orefici ed arti aifiai di
Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel'
1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel
1836, la Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M.
S. fra brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai,
tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di
M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri
di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e
profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e
chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi
di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici e
veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di
M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei
medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S.
fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua pro¬ vincia, la Società
mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra
calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S,
l’Unione operaia pa¬ triottica fratellanza di Asti, la Società Femminile
di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di
Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione italiana fra
lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra
i pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei
pescivendoli patentati di Roma Questi dati e i seguenti concernono le
Società riconosciute soltanto, per la quale la statistica ha potuto
registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono
1548 Società soltanto. Nè il sussidio è concesso per tutta la durata
della malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma
nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno,
e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120
giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2
per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in
molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti
giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl
infortuni del lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma
non H tutela tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie
ohe non appli¬ cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell
assicurazione obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione
dei nostri sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto
inte¬ gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità
temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965) conside¬ rano
questa agli effetti-del sussidio come una malattia ordinaria; le altre
danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero delle Società
che danno sussidio in caso d’invahdita permanente (542), e il sussidio
per alcune è determinato sia in un assegno una volta tanto, sia in forma
continuativa;- per altre, e sono il numero maggiore, il sussidio è
indeterminato, viene dato, cioè, secondo la entità e la disponibilità dei
fondi sociali. E ancora in minor numero sono le Società che danno sussidi
in caso di morte per fa,tto di in¬ fortunio sul lavoro (464 soltanto); e
questi sussidi sono in misura determinata sotto forma di assegni per una
volta o continuativi o di pensioni o di spese funerarie, o in misura
indeterminata. Quantunque riferentisi alle Società riconosciute
soltanto, hanno valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di
malattia sussi¬ diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate
ed agli oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati
ripor- Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’
anno, per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con
una spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di
malattia, sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia
sono sussi¬ diate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono
sussidiate giornate 5.52. Questa media può rappresentare l’indice di
morbosità nei soci delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore
per il migliore ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più
razionale corri¬ spondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni
che assumono con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di
malattia, annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio
esistente. Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i
sussidi per spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono
diretta- mente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia
alle spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che
danno sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in
forma continuativa. Sono relativamente poche le Società che
concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono
molte le Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5
per 5 — 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali
si occupa la statistica recente. Carattere degno del
maggiore studio delle nostre Società mu- iualiste è di aver attinto alla
forza delle loro organizzazioni per dar vita ad istituzioni cooperative a
vantaggio dei propri soci. Questa geniale filiazione della cooperazione
dal seno della previdenza mu- tualista fu rilevata ed illustrata dal
Mabilleau in occasione di uno studio che, per conto del Musee Sociale di
Parigi venne a fare in Italia delle nostre Istituzione di previdenza
assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri (1). La statistica recente ne
dà una conferma luminosa. Nel quadro seguente è indicato il numero
delle Società di Mutuo Soccorso che esercitano funzioni
cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di
consumo Cooperative di lavoro Cooperative
di credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia
233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182 23
1 Toscana. 92 58 1 Marche 128
24 1 Umbria. 72 18 Lazio 63 2 .
Abruzzi. 82 5 Campania. 150
10 Puglie 1 • 57 7 1 Basilicata.
27 Calabria 47 14 Sicilia.
95 17 Sardegna 15 Regno . .1597 552 5 2 Nella maggior parte dei
casi non si tratta di istituzioni autonome fondate secondo le norme del
codice di commercio, ma di i-ami di attività della stessa Società di
mutuo soccorso operante coi fondi di questa. Le Casse di prestiti sono
principalmente dirette al fine di produrre un maggiore rendimento coi
fondi sociali, e quindi si com¬ prende come esse siano in numero maggiore
(il 24.9 per 100). I ma¬ gazzini di consumo, che sul totale rappresentano
8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il
21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e
merita par¬ ticolare mensione quello della Società Generale operaia di
.Torino, reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo
dei ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et
C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste
meritano poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei
soci; le Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o
festive, scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione
di premi, la provvista dei libri e così via. Altri scopi
accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^ ed alcune Società
hanno annessi veri e propri uffici di collocamento; il conferimento di
doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni operaie; la
concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati sotto le
armi. Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge
del 1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le Società
di mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei
loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge vuole
soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono assumere,
costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella legge
parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione di
intraprendere la costruzione di case Operaie. Un nuovissimo
ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere
la iscrizione, collettiva o individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di
providenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai.
Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano pensioni di
vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due Società,
maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali non pensioni
ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai loro soci in misura
e qualità corrispondenti ai fondi disponibili. E siccome le Società
che corrispondono pensioni o sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale
servizio costituito un fondo speciale alimentato da speciali contributi o
da avanzi di bilancio, la legge institutrice della Cassa Nazionale di
previdenza consente’ a queste Società di versare alla Cassa i fondi così
raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci
aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più
anziani, qualche maggior favore. Quel precetto della legge è provvido,
contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e
più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi
intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di
quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio.
Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza
per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la soli¬ darietà
mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuo- soccorso il
servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed altri persuasi
che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei b^ C n t rni°HAi I
ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari vorrebbero
che una parte delle risorse assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve
risorse affluissero a quelle Società che intendono mstituire o continuare
un bene ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non
posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in
pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono
lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese
in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può
assicurare pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono
provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai
lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società
mutualista cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei
soci di un gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della
fratellanza e della soli¬ darietà. La Società, organo intermedio fra il
socio e la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci,
anzi li afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in
tutti i fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che
colmano le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un
momento turbato. La seconda tesi è pericolosa per le
conseguenze cui condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali
per dare il maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e
solido organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di
assicurazioni, la legge così proficua dei grandi numeri. In
un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella
obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo Stato,
il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto all’Istituto
nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente di
attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,
vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procurando ad
essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sot¬ tratti
all’Istituto Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione libera non
può farsi che all’ombra di un grande Istituto verso il quale convergano
le cure assidue dello Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la
fiducia dei lavoratori. La legge operò quindi saviamente quando
volle associare alla grande opera dell’assicurazione per la invalidità e
la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti
; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un
ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione dei soci della Società
di mutuo soccorso. Intanto sono salutari gl’incitamenti che
l’amministrazione del grande Istituto adopera presso le nostre Società
mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e
commercio, il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a
premi in danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a
quelle Società di mutuo soccorso che al 30 giugno del corrente anno
di¬ mostreranno di avere contribuito efficacemente alla iscrizione
dei propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza. Di queste
buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi frutti. Sono molte le
società che hanno inscritto collettivamente o procu¬ rato le inscrizioni
individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise di 73 sodalizi a
tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società hanno inscritto alla
Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare mensione: la Società
di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino che ha inscritto tutti i
soci (587); la Società Generale di m. s. per le operaie di Milano che ne
ha inscritto 568; la Società operaia di m. s. di Modena che ne ha
inscritto 519; la Società di m. s. di Mol- fetta. (Bari) che ne ha
inscritto 512. 3.° La legislazione e la giurisprudenza.
Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge 15
aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il
legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconosci¬ mento
giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della potestà politica,
potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mu¬ tualistica. le
soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le Società composte
di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il riconoscimento
giuridico con il procedimento escogitato. La for¬ mula rigida della legge
è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che
possa considerarsi operaia una Società costituita in gran parte da
operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento
di soci benemeriti, di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario
esercitano il benefico ufficio del patronato. Le Società di
mutuo soccorso non composte di operai possono ottenere il riconoscimento
giuridico in base all’articolo 2 del codice civile, come enti morali, e
seguendo le norme che all’ uopo furono tracciate dal Consiglio di
Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza ha riconosciuto
nelle Società di mu¬ tuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi
non ammette che in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa
essere distribuito fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a
scopi afllni o in opere di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo
soccorso nello acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di
legati siano autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che
contempla appunto enti morali. a uà, ^aucenena aei j naie
Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e
statuto. statuto. Le condizioni che la legge vuole adempiute
sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono proporsi tutti o
alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un sussidio nei casi di
malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ; venir in aiuto
alle famiglie dei soci defunti. Possono inoltre;
cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ;
dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere
; esercitare altri uffici propri delle istituzioni di
previdenza economica. 2. Gli statuti delle Società devono
determinare espressamente; la sede dèlia Società; i Ani
pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione e
di eliminazione dei soci ; i doveri che i soci contraggono e
i diritti che ne acquistano ; le norme e le cautele per l’impiego e
la conservazione del patrimonio sociale ; la disciplina alla
cui osservanza è condizionata la vali¬ dità delle assemblee generali,
delle elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della
rappresentanza della Società in giudizio e fuori ; le
particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo scioglimento,
la proroga della Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che
le medesime non. siano contrarie alle disposizioni della legge.
La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo
soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’
esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non
si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge
presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione
tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone
l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve
però avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione
parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni,
implicando un regolare servizio di pensioni necessariamente la
dimostrazione di un ordinamento tec¬ nico adatto allo scopo. Nè si può
dire che la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella
formula della legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni
di previdenza economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale
importanza che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico
preciso, che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo assoluto
ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare, che il
legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una . così
importante funzione. B la giurisprudenza ha confermato il pensiero
del legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione
governativa per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di
invalidità; concessione subordinata alla dimostrazione di un
ordinamento tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni
assunti (1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per
a concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a
“® Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di
più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può
sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne
meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si
consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore
coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale
discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬ taglio negli Statuti.
E nello stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche
proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La
legge chiede il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e
meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di
mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle
tasse di bollo e registro, conferita alla So¬ cietà cooperative
dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa
sulle assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’
articolo 8 della legge 24 agosto 1877, numero 4021; parificazione
alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per la esecuzione dalle tasse
di bollo e registro e perla misura dell’imposta di successione o di
trasmissione per atti ira soci ; esenzione da sequestro e
pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci. Gli
obblighi delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con
decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio Statuto al Ministero
di agricoltura, industria e commercio e nelle comunicazioni allo stesso
Ministero dei rendiconti annuali i quali sono compilati sopra moduli dal
Ministero stesso forniti gratuitamente. Il Ministero esamina i rendiconti
annuali e spesso dà buoni consigli per la migliore gestione del
patrimonio sociale, mettendo in guardia il sodalizio contro la tendenza
di spese suutuarie, per un più cauto impiego dei fondi disponibili.
Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle Società registrate, nè
esercita ufficio di vigilanza so¬ vra di esse, non potendo sottoporle ad
ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari Regi.
Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine
fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il
Consiglio di Previdenza non espresse divei del 1897, cosi concepita « Le
Società di mutuo so< lità giuridica ai termini della legge del
15 aprile -- -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa
e prestabi i una nota al modello di statuto spirano ad
ottenere la persona- s possono proporsi di assi- diretti
dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva- mente, o
quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le
proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio,
costituisce il loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli
aiuti di carattere non continua¬ tivo e straordinario che vengono ad esse
nei concorsi a premio e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di
agricoltura, industria e commercio. Nel campo dei concorsi a
premio meritano particolare mensione quelli che una volta con alquanta
frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di mutuo
soccorso meglio ordi¬ nate. Nel 1882 fu bandito un concorso a
premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero)
per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu
indetto un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di
cinque¬ cento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società
ope¬ raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare e garantire
un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di inabilità al lavoro
o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo sociale, sia mediante
l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di previdenza. Ho
rammentato più sopra il concorso a premi del 1905. Incoraggiamenti
morali vengono dal Governo alle Società di mutuo soccorso, mediante
concessione di medaglie di benemerenza. Nella occasione della Esposizione
Generale di Torino del 1882, il Ministero istituì premi consistenti di
quattro medaglie d’oro di prima Classe, cinque di seconda e 12 medaglie
di argento da conferirsi a quelle Società Operaie che avessero dato prova
di miglior ordinamento e di più lunga esistenza con risultati efficaci,
giovando anche con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli
operai. E frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza
ai sodalizi operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di
buon ordinamento e di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono
infrequenti i sussidi in denaro, non molto larghi data la parità dal
fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si
addimostrano bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale.
La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate
dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la esistenza
in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali
riconosciute 1548 non riconosciute 4987 Abbiamo
veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre
di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi
nel decennio, in luogo di riscontrare un incremento, come erasi verificata, e
notevole, dal 1885 al 1894, si constata uua diminuzione di 187 Società, e
cioè, in cifra media, del 2 - 8 per cento. La diminuzione più notevole si
osserva nell’Italia meridionale e nell’insulare ed in parte della
centrale; si giunge sino al 48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per
compenso si ha un aumento nell’ Italia settentrionale e nel rimanente
della centrale; aumento che riuscì notevole nel Veneto col 24.2 per cento
e nella Lombardia col .15.0 per cento. Abbiamo detto più innanzi che
la diffusione delle Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del
secolo decimonono, andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e
riportammo, a dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del
1894. La dimo¬ strazione riesce più evidente classificando il numero
delle Società per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le
medie seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904:
Società fondate prima del 18*0 — % . 1.0 » ,, dal 1850 al 1859 — »
. 2.7 » » dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3 » » dal 1870 al
1879 — » . 19 . 2 » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9 » »
dal 1885 al 1889 — » . 14 . 5 » » dal 1890 al 1894 — » . 12 .
6 » » dal 1896 al 1899 — » . 8.7 » » dal 1900 al 1904 —
». 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889,
con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo
il decennio 1870-79 con 19 2. . Ma l'incremento più rapido si
determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai
vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome
in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società
nel periodo 1895- 1904, si deve concludere che in esse le Società hanno
vita più breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:
Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle sciolte
nel decennio: Piemonte Liguria
Lombardia Veneto. Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo
danno le Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la
Sardegna. ° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904
sono composte di soli uomini . » » di sole donne
» » di uomini e donne se ne ignora la composizione .
5,078 252 1,017 189 Le
Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono 1548. Di
queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e 1506 con
provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile 1886. Al 31
dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi fu quindi nel
decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per %• L’aumento fu più
sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società esistenti, si contano 23.7
Società riconosciute. Quando si consideri che la legge del 1886 è
sufficientemente liberale, non impone vincoli e formalità costose, lascia
ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello esplicamento dei fini che
si propongono, sullo impiego dei fondi, non le asservisce ad alcuna
vigilanza governativa, male si spiega il lento incremento delle Società
riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse deve
rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non ancora rimossi
dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta conoscenza dei
benefizi che la personalità giuridica reca, indipendentemente da quelli d’ordine
finanziario conferiti dalla legge. Non vogliamo ammettere che influiscano
anche tendenze che esulano dal campo della mutualità, del fratellevole
aiuto. Queste tendenze trovano più conveniente esplicazione in altre
forme di organizzazioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto
di cittadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e per
la protezione del lavoro. Il,numero dei soci aggregati alle
Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre date, risulta nelle
cifre seguenti: nel 1885 — 730,475 nel 1894 - 933,685 nel
1904 — 926,026 Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre
indagini le indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la
integrazione, il criterio della media dei soci per ciascuna Società, si
avrebbero le cifre seguenti : nel 1885 — 760,085 nel
1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media dei soci per ogni Società
nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 .
9. Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti
dell’Ita¬ lia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche
nell’Emi¬ lia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito
in tutti gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio
dei soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e
Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri
com¬ partimenti. Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre
1904, la diversa com¬ posizione numerica di esse è indicata dalle cifre
seguenti: Sino a 99 soci . — 53 . 6 Con soci da »
» da » » da » » da » » da » »
da b b da 1000 a 1500 — 0 . 5 b b oltre . 1500 —
0.3 100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 — 27 . 3 300 a 399 —
4.5 400 a 499 — 2.3 500 a 699 — 1.2 700 a 899 — 0.8
In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se
ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100,
più della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in ge¬ nerale un
quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100 a 200.
La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei
926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne. Sul
movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si pos¬ sono fare
raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non con¬ tiene
alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi alle due
date: Entrata. Spese . Patrimonio L.
7. L. 14,632.425 .404.205 » 11.790.028 1.200.840 »
72.395.544 Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885
era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85. Volendo
integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non diedero la
indicazione del patrimonio sociale, assumendo come cri- terio il
patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con lo stesso
metodo si possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed alle
spese. Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto
dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L.
4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218
sul pa¬ trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100. t 9 o^?
trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L. 2,342,43, con
un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un massimo di L.
3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle entrate
per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la
Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ
- nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ®
oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, do¬ nazioni ed altro
(patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904 ,1
tre elementi davano le cifre seguenti: Contribuzioni di soci
effettivi .... 68 80 Contributi di soci non effettivi, donazioni,
ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor
6 di entrata è dovuto, come abbiamo già no¬ tato, alle contribuzioni dei
soci effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si consideri che
le altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla
loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle
entrate 1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^
SSmo Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in
Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società
riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al
1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi
patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi . . .
Redditi straordinari | Rendita di beni immobili ... 1.
69 ( Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60
^ non effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo ... 27.
58 1 di aziende sociali.6.85 .7.16 Anche
per queste Società, nella media generale del Regno, il maggiore delle
entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi, esclusi però il
Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene da¬ gli introiti dei
magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate
sono dovute alla assunzione da parte di due So¬ cietà di Palermo, quella
fra la gente di mare e T altra dei capitani marittimi, di appalti di
carico e scarico di merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci
effettivi eguagliano quasi i redditi patrimo¬ niali; ivi infatti sono le
Società più antiche e con patrimonio più rilevante. Le
contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109 nell’Umbria,
al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di questa regione è
minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media per
ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire 13.
Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30 per
le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle della
provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si riscontrano
quindi nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed il massimo
delle entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un minimo di lire
6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in Liguria.
Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta
discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi
divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad
ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti:
spese per sussidi.51.4 altre spese.29.7 Le spese
superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria: nelle altre
regioni le spese furono inferiori alle entrate. Nelle So¬ cietà della
Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione delle altre
spese alle entrate è superiore a quella delle spese per sussidi ai soci e
alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso ordinamento
amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle spese fu
assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come per le
entrate così per le spese si hanno più minuti rag¬ guagli nelle spese
delle Società riconosciute, erogate durante l’anno 1903. Nelle cifre
seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di
malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro
Sussidi di vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi
l Onoranze funebri. . ^ Sussidi alle famiglie
19,45 3.01 4,40 10 87 0.75 2.62
1.34 03 ( Magazzini di consumo . Ҥ < Altre aziende sociali
. ’S g ( Altre spese. Spese di amministrazione Spese straordinarie.
. . Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del
totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia
ad un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le
regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese
per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento
nel¬ l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di
vecchiaia. Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte
(56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97
per cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento
in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. . 28.78 .
7.05 . 2.6S . 13.14 . 5.91 La sostanza
patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è
di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci e distinta fra
Società registrate e Società non registrate, dà le cifre seguenti:
patrimonio medio. per ciascuna Società Società
riconosciuta 24.267,00 Società non riconosciuta 7.887,67
Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per ciascun
Sòcio 123.32 60,16 82,50 È più
alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬ stra che il
riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi elemento di singolare
prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬ tati e quindi più
evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della personalità
giuridica. Dalla media generale del patrimonio per Società si
discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la
Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media
del pa¬ trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in
Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio
soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre
1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute
ammon¬ tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni
stabili ...... L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati .... »
15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374
40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima
di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5
per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per
cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella
provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo
in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria
presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento.
Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società di
mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬ duto.
Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società
per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società
che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999
Cifre assolute 1.517 Su 100 Società 23.6 11
1000 a 4999 2.117 35,3 » 5000
a 9999 9S9 16.5 n 10.000
a 49.999 1.239 20.6 n 50.000
a 99.999 156 2.6 n 100.000
a 249.999 60 1.0 ii 250.000
a 49.1,999 12 0.2 n 500.000
a 1.000.000 5 0.1 Oltre un
milione 4 tu Senza indicazione del
patrimonio 535 — Di 5999 Società che hanno comunicato
1’ ammontare del loro pa¬ trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute,
hanno un patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per
cento. 11 23.6 per cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire
1000; il 35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per
cento un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un
patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio
da lire 50.000 a 100.000. 5. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬
noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬ messa la
costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di
riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con
medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune
assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte
legalmente riconosciute per esercitare un controllo sui soci sussidiati o
per regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che
cambiano resi- Ta legge francese del 1898 sulle Società mutualiste
consente la costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna
la propria autonomia, aventi per oggetto principalmente :
l’organizzazione a favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi
indicati nella legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle
condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione
dei membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle
pensioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei
rischi diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la
fonda¬ zione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più
Società per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga
durata; il servizio del collocamento gratuito. La statistica
ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi o d Unioni
costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta analogia eon quelli
indicati nelle norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo
soccorso fu deliberata la costituzione di unioni regionali, ma ancora non
possiamo dire se furono costituite e per quali scopi. Nel
primo Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso tenuto a Milano
il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra m loro tutte le
Società operaie di mutuo soccorso in federazione nazionale, salvo
studiare il modo di organizzarle razionalmente, con a nomma di una
Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa
dl , pre ,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e
i e dl - un numero superiore; e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl
one delle Società operaie, quelle delle Ca- La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle
Cooperative per un’intesa comune ». con?t^ a aduna " za deI 5
settembre dello stesso anno 1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n
aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole morale. Società federate ed? ,?^
ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle nomico delle classi i a JÌ
,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed eco- raS ungeretei intenti ^
per mezzo delIa Previdenza ». Per aggiungere p ento la Federazione si
propone in modo speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i
ment + ) d '^ istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris
S°"- fare opera di solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de !
lavoratori; e ,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice;
“ P6r slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema
completo di legi- a tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene .
fiz i dell’associazione, sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i
tributi che gravano nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate,
intervenendo mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e
6 di P revid enza, meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo
soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di siano
inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto - P^chè- videnza. P p l0
ndamentali della mutualità e della pre- di iirc 5 se
hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100 a
500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno più
di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a e
hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva
in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl
che la Federazione stabilirà nell’in- àana, monitore della 6
P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione Ita- Congresso; ^aerazione, ed
una copia degli atti di ogni « d) di ottenere gratuitamente consulti
legali e pareri di in¬ dole amministrativa; « e) di valersi
del giornale La Cooperazione Italiana per trattare quelle questioni che
si riferiscono agli interessi della mutualità e della previdenza ».
Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle Società
federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal
Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione esecutiva
composta di nove membri scelti fra i soci delle Società federate e
residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le circoscrizioni
stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei Sindaci com¬ posto
di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal Congresso fra i
soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni di
consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse re¬
clamata la costituzione. La Federazione ha organizzato tre
Congressi nazionali: quello di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia
nel 1901; quello di Fi¬ renze nel 1904. Le Società federate sono andate
crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella proporzione seguente:
1901 — 548 1902 — 573 1903 — 720 1904
— 733 1905 — 745 In un Congresso internazionale e nel
chiudere questa rela¬ zione la quale dimostra quale sia la condizione
delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo che si possano
presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che abbiano
riferimento alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al loro
avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha
necessario legame con la proposta costituzione di una Federazione
internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso,
poiché, a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il
suo principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali.
Ed il voto è il seguente: Che si promuova in Italia la
costituzione di Federazioni od Unioni regionali di mutuo soccorso, le
quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio specificati
dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle particolari
condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che le
Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione Nazionale, la
quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è nel programma
dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici propri delle
federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire i soci dei
sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di lavoro o per
altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la Federazione
regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se
il tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali
aggiunge nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni , è bello invece
vedere per virtù popo- lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso
anche in Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.
Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà , e non mossi da
studio di soverchio guadagno , finiscono col raccogliere anche la
ricchezza , come premio della loro virtù e col dare un'alta pro\a di
quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei
conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di pic-
coli indaslriali , svincolale dai vecchi rancori , amiche deirordiiie e
della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni
dell' azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire
della nostra patria. Fatta Tlta- lìa, è d'uopo per fare gP italiani che
alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero
, sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione.
Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di
onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio,
tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le
citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali
sappiano inlen- dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le
opere buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella
spensieratezza , colla quale i più le stemperano nella ca- scafigine e
nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi
nei gruppi de' nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti
discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi
volumi di economia politica , senza lettori, val- gono a provare colla
evidenza dei fatti , che la maggiore delle industrie è l'onestà dei
costumi, e che il lavoro e r associazione non accrescono soltanto la
nostra fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri
affetti e delle virtù nostre. Di fronte al movimento
d'associazione che si estende da tutte le parti, è. necessario stabilire
i cardini su cui s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell'
associa- zione. Fino ad oggi te società di commercio e
dMndostrla avevano per unica mira il guadagno di coloro che le di-
rigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo , aveva per motore
l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la speculazione e r aggiolag!2Ìo. E
pur troppo mezzi così odiosi hanno fatto colossali e scandalose fortune
con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le
società cooperative hanno invece per ragione la fra- ternità, per
principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei
cooperatori associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la
cooperazione dà ai- spiaiTo d' associazione. 25
r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso
ciò che gli appartiene , ed a ciascun cooperatore accorda la facoltà di
aver parte air amministrazione delle cose co- muni. Còsi la cooperazione
sorretta dall' intelligenza , vi* vificata dair amor fraterno , rivela
air uomo T arcano della sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga
agli sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fon-
damenlo di ogni rigenerazione sociale , si addomanda ai cooperatori
vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiega- zione e virtù; nè, per
evitare gli scogli contro cui ruppero tanti , cessino di tenersi in guardia
contro i funesti allctlamenli, i desiderii ambiziosi , le passioni
egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi
con- tengono i germi di discordia e di dissoluzione che bi- sogna
sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative
formate lìnora in Italia, mentre dobbiamo conoscere la devozione , il
disinteresse dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza
fe- lici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da supe- rare,
converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno sbandite tutte quelle
mezze misure che conducono facilmente air aborto. Si ha bisogno di
uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi restrittiyi, e
rendersi p^puasi che un progresso non è realmente buono se non m
quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima
della cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il genio cooperativo nel
suo oggetto , nel suo scopo e nelle sue conseguenze sociali , ha una
missione immensa da com- piere, e che deve penetrare come il sole, tanlo
nelle campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le società di
credito e di produzione pos- sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il
terreno del- l' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate
alle campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza
cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si
trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi
lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione
col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale
per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero quando si
formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza potenti per
oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla loro
aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al
riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società
cooperative non propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero
nelle sole pitià, su- birebbero i maggiori disinganni. Ed
oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge quella che i lavoratori si
fanno fra essi e che forma reggette dMndebite lagnanze. E infatti
coltivatori, affit- jtaìuoli , proprielarii si lamentano troppo spesso dr
questa concorrenza che , a detto loro , impedisce di vendere i
frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pen- sano intanto che
la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra
concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle
vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e
appunto per la concorrenza delle fucine che procura a minor prezzo il
ferro di che hanno bisogno per gli isiru- menti de' tgro mestieri ; che è
la concorrenza dei tes- sitori e de" granaiuoli che fa comperare ad
essi con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra
nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la
concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrec-
ciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è il supremo
beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo dell’opera
il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne , nò depongano
la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La
concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la sua
perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato
dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse , e porta poi come
ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio deir
esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli uni e degli altri
promana il vantaggio di lutti; nè per- meile ad' alcuno di predominare a
scapito degli altri, è una compensazione che ci facciamo a vicenda.
Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pa- gherebbero tutto ad
una esorbitanza di prezzi , e senza la concorrenza clie i consomatori si
fanno tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più
sollecitato alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne
trae l’emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per
Fat- tività deir uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi-
tazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale
intento , e trovare nuovi processi di produzione più economica e più
abbondante per accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore , e per
soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la
forza deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non
sa far meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;
egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora
meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure
restrittive, chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci
forestiere , attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a
suo pro- fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra-
nieri. Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la
concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani
campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella
delP artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga più cara
che ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario alla
mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate agli ordigni degli
opificii tolgono le larghe emanazioni di quella occupazi.one che fin dai
primi tempi alimentò l'uomo «uila terra. Eppure l uomo della campagna
quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto
siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in
minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il
sappiano, che abbiano ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno
allettati, e che le provvide virtù camminino fra i popoli agricoli »
sotto i tetti di paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e
il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed al
telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa,
impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo
soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente,
contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo,
considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco”
– The Swimming-Pool Library. Coco
Grice e Codronchi: l’implicatura
conversazionale del contratto -- giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio
– Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Imola).
Filosofo italiano. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for
the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously
– perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the
subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk
about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time,
I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk
exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels
outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my
stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer
help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become
stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you
are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each
party should, for the time being, identify himself with the transitory
conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should
be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding
(which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being
equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties
are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start
doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO.
C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO
CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che
sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra
il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato
quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee
produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al
contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia
possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura,
più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne
determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia.
Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un
diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei
separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte
(cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel
medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i
contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta
per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza
incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che
avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio.
L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della
cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata
la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del
contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno
nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che
l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E
se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real
prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere
un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per
conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello
per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad
una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo
tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza,
che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior
precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone
per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla.
Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna
applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i
veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che
convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la
natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino
una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi
li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e
dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di
fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre
fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali
poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei
caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è
ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e
dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue
per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel
tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè
meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di
azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne'
contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura
diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore
di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il
premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo.
Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo,
che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe
perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali
dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il
premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective
porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il
quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che
ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi,
ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che
così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori
azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta
di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi
acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il
primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo
è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me
trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei
ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i
caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi
potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una
evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali
dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli
ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi,
e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco
di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un
giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei
caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri,
altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario.
Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque
anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita
proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da
ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo
revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più
ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino
maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro
in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe
favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di
depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce
nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che
fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero
di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle
leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare
in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi
trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo
dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un
dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto
eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è
più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel
primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le
leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti
due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni
nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari,
di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al contrario.
Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la
quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que
combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che l'altro azzardi
una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione reſta alterata. Che
ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia
più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di
dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a
quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai
fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del
libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un
ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini
queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente
nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare
il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non
ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado
ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a
quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col
patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol
taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è
detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i
contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la
depoſitata porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria,
benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima
moltiplicata per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in
tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed
eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo
chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha
in alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti,
quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove
giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione;
poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla
ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è
maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi
favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi
conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al
banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che
giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone
egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il
puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for
tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare
i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la
ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per
dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar
profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano
un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere
medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte
ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione
eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di
queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a
circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par
te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare,
la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei
primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che
eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere
per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte
fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa
figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando
l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del
gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il
9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non
variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque
nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione
delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu
mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o
ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma
relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra
indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi
vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della
poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo
ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti
giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i
giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi
uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al
domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente
irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol
colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si
aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia
dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i
mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i
celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour
occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur
foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco
di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi
Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti
commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata
come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti
quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo
eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua
glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i
medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi.
Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi
comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo,
e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra
della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di
queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti,
per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel
quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti
alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto, e una
ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere, che
ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro,
pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce
aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non
la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per
ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i
gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta
per rendere le gitima quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva.
Queſto argomento proverebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve
conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli
mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò
la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare,
che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi
rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come
ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito.
Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal
padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo
che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta
a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non
ſia ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo
ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però,
che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. Quì però fa
d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e
limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto
conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che
un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo
affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati.
Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi
ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al
pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può
deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio
ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che
ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi,
può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur
talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un
nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano
a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga
di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di
valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne
chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro.
Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa
delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato
e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali,
o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può
darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia
una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia
ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran
numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado
di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia
conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante,
formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo
la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta,
come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render
qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco
tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35
quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza
medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi
loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più
freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo,
e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto
oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge
leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri
ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed
eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid
non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico
vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla
loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo,
e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento
però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi
attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico,
di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono
per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che
hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo
che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto
amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti
nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte,
ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine
dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri
ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in
Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome
ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha
ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di
ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme
di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come
nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte,
perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a
quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual
prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri
relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più
vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de
dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non
ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro
che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi
impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di
Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati
così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata
regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato
mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma
ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a
ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome
chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le
qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in
un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri
neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo
eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto
medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla
regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere
pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio
dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono
vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini
chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di
Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad
eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa
fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un
altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta
l'opinione del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può
vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma
ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua,
e il diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au
tore ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte
decida a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque
dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe
comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che
ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli
parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno
fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di
viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi
potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario
prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in
ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli
poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di
paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del
gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le
ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una
compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione,
giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della ſperanza, ma
bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo
una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare.
Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le
ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della
ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o
l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi
per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più
antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie
mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi
erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione.
Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli.
E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di
queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi
offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti
Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge
con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a
caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della
rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe
per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli
amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d'
Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano
per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio
dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi
odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di
Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e
piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle
parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo
propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei
monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che
chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente
eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte
enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima;
eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè
tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e
commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe,
e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice
della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien
eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa
alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in
talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno,
giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione
tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento
della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti
ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono
rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei
caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri
riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i
favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma
dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può
dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello
degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all'
urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a
farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti
depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del
quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando maggior por
zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime
regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato
diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano
ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti
diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai
medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che
coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei
contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra
la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare
un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni
che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi
conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi
fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma
no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo
Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di
eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a
regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione
di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi
quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi
bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti
che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a
formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del
paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur
trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che
nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi
e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette
da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano
a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo. La ſeconda,
che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre
cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero
eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare
che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed
eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe
sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi
ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che
fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante
maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate
ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre
volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle
ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno
conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono
ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei
ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno
può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e
tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo
averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e
la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità
e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui
non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto
moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe
ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi
poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la
ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è
compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in
infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render
certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi
della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre
cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi
deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il
caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di
azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la
maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa
certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi
gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a
portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le
coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal
gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che
ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla
ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo
hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne
riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro
vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le
quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma
perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha
propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di
molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in
eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi
fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie
concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che
un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una
libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre
un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che
ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi
in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il
ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota
influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante
che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro
babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e
confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te
generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti
ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà
vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle
umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che
pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non
ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi
debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle
ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien
fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda
mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza
fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine
vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon
tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che
imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l'
uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime
deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che
nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello
ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la
queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e
ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che
recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti,
che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e
al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi
elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio
invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati
da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo
ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo
rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta
ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro
forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad
entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il
diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di
loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud
ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta
uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto,
perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano
moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della
ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che
eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti
neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la
conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni
ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile
che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno
attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in
duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello.
Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di
un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per
formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un
qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte;
poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no
egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle
ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a
queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata
l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a
riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio,
o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata
mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1
Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano
fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e
fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del
loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e
gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti
a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover
eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori.
Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione
che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni
1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein
cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima
delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze,
e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua
ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli
ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie.
La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci
che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede
l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell'
aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi
dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza
del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa
gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il
loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono
all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu
introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non
nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti
affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola
eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa
della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta
ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora
quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo
che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto,
purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in
qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta
regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo
con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne
forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo
della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66
minazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli,
agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno
di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità
del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli
Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon
derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle
cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera
determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente.
La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti:
il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei
pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici
armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti
della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali.
67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è
impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà
molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione
di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che
operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più
apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul
momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia
metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non
preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna
cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare
l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e
quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto
alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente
è combi nata, o temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano
queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga
ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte
quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder
la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili
violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e
frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze
ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine;
la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe
conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la
proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza
che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo
appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini
ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il
numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga
ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri
pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in
proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più
ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto
numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore
ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione.
In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto
anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti
perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la
propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze
preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti
i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il
medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra
anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga
zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta
veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola
oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di
varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non
obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro
influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i
gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un
vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno:
infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che
alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi
per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile
loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che
ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto
l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va
lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa,
che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più
volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi
calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare
una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti.
Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei
contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all'
aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga
all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il
contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare
all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato
non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa
la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo
alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal
contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della
ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende
il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe
aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante
fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi
quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe
aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74
l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede,
qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di
pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta
ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In
queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità,
poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in
proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del
ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere
di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento
favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro.
Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera
che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto.
Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di
una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi
potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te
volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere
egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci,
ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in
altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente,
e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto.
Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo
che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione
di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della
notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a
prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne,
ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza
che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore
ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che
appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli
uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni
che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto
che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un
uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono
del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo
guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale
collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad
oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il
dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non
avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non
curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal
provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più
molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur
dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il
vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco
nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente,
accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie
mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran
lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci
domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un
frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo
l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo
paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca
il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti.
Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la
ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di
più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi
affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito
di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e
per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca
pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un
certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli
ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le.
Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo
d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia.
Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato
numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è
neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia
uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni,
o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo
che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un
vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di
perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti
gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle
medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone
che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il
diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe
ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la
media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della
ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi
ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle
quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può
dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op
porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei
noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il
prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite
vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero
dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i
quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la
ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81
ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine
del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si
ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto
numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione,
ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito
per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le
condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per
formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata
di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto
affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di
azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se
queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi
abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque
miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto
contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le
perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di
temperamento, indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome
per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per
contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media
vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza
ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se
abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto
delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in
forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un
frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo
della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità
del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la
rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'
ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto
mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato
ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della
rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro
porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non
farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che
chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale
corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia
di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte,
eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia
eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando
il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il
di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto;
il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col
tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la
differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima
ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte;
fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini
individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata
differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non
s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno
ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che
ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da
molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la
vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet
tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime.
Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la
naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole
appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed
elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti.
Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente
le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del
temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle
prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche
riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti
oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore
omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili
le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità,
che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera,
ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti
mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un
libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo
d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo
Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è
tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei
noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente.
Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari,
ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome
dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di
rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi,
che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa.
Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate
le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre
di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi
dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà
armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed
anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione,
allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli
ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus
De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la
Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages,
Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai
penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la
ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu
queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così
gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo
utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente
raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve
contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali
rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi
potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato
dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla
compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che
in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1
1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui
ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla
conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato,
e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio
dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle.
Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la
natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il
numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il
numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e
per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia
vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente
dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle
altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e
quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà
Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai
cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne
formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla
fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto
di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della
medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre
palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m;
112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto
ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di
quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io
chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità
dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e
ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe
attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due
palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei
giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi
moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare
nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che
per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo
neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa
da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97
giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe
a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa
minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a
quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche
in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto
dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio
ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe
vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra
indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i
riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza,
ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora
non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la
diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito
fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla
propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e
rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio
deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro
l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua
glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi
ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono
alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da
cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono
eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a
miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti
l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di
rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente
dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può
ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la
perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti,
l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire
in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente, e attuazione di
fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi
poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col
medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro frequenza, e quanto
al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui
il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle
invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze incerte, e indeter minate,
Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della
ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere, imita in queſto un gran
generale, e un abile politico. Al valore del primo, e alle vedute del ſe condo
è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle
ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton capo, ove forſe non gli
avrebber condotti i mezzi più maturati, e i piùmeditatiprogetti. Nei giochi
miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei
giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento
medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e l'altro ſta ozioſo ſpettatore,
e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario. Nel
primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente
dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi riduce a calcolo
l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze
quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo che ſi fonda
ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d' uopo che ſi
foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza, e abi lità
di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e potendoſi queſto
rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i progrelli, o uguali,
o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano nel gio co. E' vero
però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in qualche modo gio vare le
offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo
all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario.
Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva, ma aſſoluta; e fi riduce
a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina zioni, o in non molto
diffimili per la natura del gioco, quante volte l'avverſario abbia ottenuto
quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date condizioni; e quante volte non
abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire.
Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è
dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte dalle oſſervazioni, che
miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà diſtinguere, e calcolare
queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli, e ſiniſtri; e
formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario. Se non
due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di ridurre i caſi
compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le
ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi ram mentare
i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli della
feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei
caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del
contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di offervazioni,
e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non omettendo mai di
riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni, ſu gli
altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla ſcorta
delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe
di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi Filoſofi
il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità
quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli, queſto
cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che ſono
ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica
poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in alto una
moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per eſempio
palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte
per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi
raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto
queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto
diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura.
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte.
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi
dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente
poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io
dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per
queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di
fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le
combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria
una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe
pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un
infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere
offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade,
ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le
facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il
caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia,
a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò
non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato )
che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad
un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi
raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per
dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme
ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè
vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno,
che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro
diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A
non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro
diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe
combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia
palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè
croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto
prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due
coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite
diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni
delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure
ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi
che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle,
ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto.
Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la
infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a
ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine
fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo
ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così
dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti
getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non
così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili
fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici
adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove
nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che
la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare
mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità
che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia.
110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo
in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e
riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle
medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe
ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero
due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in
aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non
ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle
addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe
tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello
ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle
diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola
Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi
combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo
poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per
infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio
è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto,
che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun
riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo
alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere
la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce
ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due
tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33,
niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure
il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente
poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo,
che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei
pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro,
alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo?
perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre,
ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà
poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la
moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta
fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a
quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni
dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte
l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non
le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti;
cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi
della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare
la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert
degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata.
E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi
favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti
ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme
di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari
che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente
poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le
combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me
ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e
moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli
uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici
diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che
l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più
ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e
coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con
ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa
conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior
numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di
altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal
corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni,
conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto
maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello
degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche
cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal
ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che
vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che
o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa
faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può
gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta;
con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo
faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare
in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo.
Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che
laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite
volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo
ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme
ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli
altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo
or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non
la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua
maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del
Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro
appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la
preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che
nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della
direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente
impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120
riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa
conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un
effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli
addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non
potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo
della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza,
altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche
dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa
direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1
pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e
queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della
moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre
ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta; verità che ſi accorda
perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo
fanno conoſcere,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile, e con la
ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la
teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del
buon eſito appariſca, per poterne formare la propor zione.. Quando poi cominci
il numero in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia
della moneta, le oſſervazioni, e non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer
vazioni io dico, che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi
appartenenti alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente
che la propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle
probabilità, che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze,
che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio
il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale
a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan
za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi
ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6;
altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in
tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita
ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior
fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero
che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata
opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123
glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a
deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino
in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto
a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver
formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e
per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o
aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già
rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la
disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia
sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore
nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col
magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a
diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile
degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla
cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i gravi studii della
giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan
nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la
poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo
lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le
stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in
Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne
gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti,
onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni
verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con
arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi
sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano
parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di
Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil
lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che
t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che
lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato
della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di
cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto
passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da
quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di
colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo
gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di
etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per
fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il
Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui
avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti
dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi
del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo
di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di
pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti
poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia
ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa
pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25
novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual
tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri,
cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di
amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri
proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che
leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove
egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per sovrano volere eb be a
recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da
maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il
provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e
pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio:
imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di
sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a
maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di
quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa
regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a
Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo
impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse
tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non
comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere
del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma
salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a
quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il
conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e
delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile
istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di
bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso;
e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè
mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe
providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della
vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della
quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena
calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed
alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della
acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per
la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono
congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re,
integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of any
text-book on mercantile law will hardly deny that CONTRACT is the
handmaid if not actually the child of Trade. Merchants and bankers must
have what soldiers and farmers seldom need, the means of making and
enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to
the special case before us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN
HER INFANCY and when her free inhabitants busied themselves chiefly with
tillage and with petty warfare, their rules of sale, loan,
suretyship, were few and clumsy. Villages do not contain lawyers, and
even in tdwns hucksters do not employ them. Poverty of Contract was in
fact a striking feature of the early Roman Law, and can be readily
understood in the light of the rule just stated. The explanation given by
Sir Henry Maine is doubtless true, but does not seem altogether
adequate. He points out 1 that the Roman household consisted of many families
under the rule of a 1 Ancient Law, p. 312. B. E. 1 2
paternal autocrat, so that few freemen had what we should call legal
capacity, and consequently there arose few occasions for Contract. This
may indeed account for the non-existence of Agency, but not for
that of all other contractual forms. For if the households had been
trading instead of farming corporations, they must necessarily have been
more richly provided in this respect. The fact that their commerce
was trivial, if it existed at all, alone accounts completely for the
insignificance of Contract in their early Law. The origin of
Contract as a feature of social life was therefore simultaneous with the
birth of Trade and requires no further explanation. It is with the
origin and history of its individual forms that the following pages have
to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and
Contract growing steadily to be more complex and more flexible.
Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of agreement
which sufficed for the requirements of a semi-barbarous people have
been almost wholly transformed into the elaborate system f of Contract
preserved for us in the fragments of the Antonine jurists. At the
most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can
be made, and which for convenience we may call the Regal Period, we
can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The
promise could be enforced either by the person interested, or by the gods, or by the community. When however we speak
of enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind of
enforcement then possible was to make punish- ment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, was doubtless the most ancient protection
to promises, since we find it to have been not only the mode by
which the anger of the individual was expressed, but also one of the
authorised means employed by the gods or the community to signify their
displeasure. This rough form of justice fell within the domain of
Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to
punish the delinquent, whenever religion or custom had been violated. But
as people grew more civilized and the nation larger, self-help must
have proved a difficult and therefore inade- quate remedy. Accordingly
its scope was by degrees narrowed, and at last with the introduction of
surer methods it became wholly obsolete. Religious Law, as
administered by the priests, the representatives of the gods, was
another powerful agency for the support of promises. A violation of
Fides, the sacred bond formed between the parties to an agreement, was an
act of impiety which laid a burden on the conscience of the delin-
quent and may even have entailed religious disabili- ties. Fides was of
the essence of every compact, but there were certain cases in which its
violation was punished with exceptional severity. If an agreement
had been solemnly made in the presence of the gods, its breach was
punishable as an act of gross sacrilege. III. The third
agency for the protection of promises was legal in our sense of the word.
It consisted of penalties imposed upon bad faith by the laws of the
nation, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the
delinquent belonged. What the sanction was in each case we are left
to conjecture. It may have been public disgrace, or exclusion from the
guild, or the paying of a fine. And as some promises might be
strength- ened by an appeal to the gods, so might others by an
invocation of the people as witnesses. Agreements then might be of
three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They might
consist of an entirely formless compact, (2) a solemn appeal to the gods,
or (3) a solemn appeal to the people. A formless compact is called pactum
in the language of the twelve Tables. It was merely a distinct
understanding between parties who trusted to each other's word, and in
the infancy of Law it must have been the kind of agreement most
generally used in the ordinary business of life. Such agreements are
doubtless the oldest of all, since it is almost impossible to conceive of
a time when men did not barter acts and promises as freely as they
bartered goods and without the accompani- ment of any ceremony. Compacts
of this sort were protected by the universal respect for Fides, and
their violation may perhaps have been visited with penalties by the guild
or by the gens. But intensely religious as the early Romans were, there must
have been cases in which conscience was too weak a barrier against
fraud, and slight penalties were ineffectual. Fear of the gods had to be
reinforced by the fear of man, and self-help was the remedy which
naturally suggested itself. In the twelve Tables pactum appears in a
negative shape, as a compact by performing which retaliation or a
law-suit could be avoided 1 . If this compact was broken the offended
party pursued his remedy. Similarly where a positive pactum was violated,
the injured person must have had the option of chastising 1 GELLIO.
zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20. the delinquent. His revenge might
take the form of personal violence, seizure of the other's goods,
or the retention of a pawn already in his possession. He could choose his
own mode of punishment, but if his adversary proved too strong for him,
he doubtless had to go unavenged ; whereas if the broken agree-
ment belonged to either of the other classes, the injured party had the
whole support of the priesthood or the community at his back, and
thus was certain of obtaining satisfaction. It is therefore plain that
though formless agreements contained the germ of Contract, they could
not have produced a true law of Contract, because by their very
nature they lacked binding force. Their sanction depended on the caprice
of individuals, whereas the essence of Contract is that the breach
of an agreement is punishable in a particular way. A further element was
needed, and this was supplied by the invocation of higher powers.
II. At what period the feshion was introduced of confirming
promises by an appeal to the gods it would be idle to guess. Originally,
it seems, the plain meaning of such appeals was alone con- sidered,
and their form was of no importance. But under the influence of custom or
of the priest- hood, they assumed by degrees a formal character,
and it is thus that we find them in our earliest authorities.
Since Religion and Law were both at first the monopoly of the
priestly order, and since the religious forms of promise have their counterpart
in the customs of Greece and other primitive peoples, whereas the
secular forms are peculiarly Roman 1 , the religious forms are evidently
the older, and formal contract has therefore had a religious
origin. Fides being a divine thing, the most natural means of
confirming a promise was to place it under divine protection. This could
be accomplished in two ways, by iusiurandum or by sponsio, each of
which was a solemn declaration placing the promise or agreement
under the guardianship of the gods. Each of these forms has a curious
history, and as they are the earliest specimens of true Contract,
we may discuss them in the next chapter. III. Another method, and
one peculiar to the Romans, which naturally suggested itself for
the protection of agreements, was to perform the whole transaction
in view of the people. Publicity ensured the fairness of the agreement,
and placed its ex- istence beyond dispute. If the transaction was
essentially a public matter, such as the official sale of public lands,
or the giving out of public contracts, no formality seems ever to have
been required, so that even a formless agreement was in that case
binding. The same validity could be secured for private contracts by having
them publicly witnessed, and the nexum was but one application of
this principle. In testamentary Law it seems probable that the
public will in comitiis calatis was also formless, whereas in private the
testator could only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote" Thus the
two elements which turned a bare agreement into a contract were
religion and publicity. The naked agreements (pacta) need not concern
us, since their validity as contracts never received complete
recognition. But it will be the object of the following pages to show how
agreements grew into contracts by being invested with a religious
or public dignity, and to trace the subsequent process by which
this outward clothing was slowly cast off. Formalism was the only means
by which Contract could have risen to an established position, but
when that position was folly attained we shall find Contract discarding
forms and returning to the state of bare agreement from which it had
sprung. Art 1. Ivsivrandvm is derived by some from
Iouisiurandum 1 , which merely indicates that Jupiter was the god by whom
men generally swore. To make an oath was to call upon some god to
witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerved
from it. This appears from the wording of the oath in LIVIO, where SCIPIONE
says: Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime, domum familiam
remque rneam pessimo leto afficias" and from the oath upon the
Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus, where a man
throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn me
Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc lapidem" A
promise accompanied by an oath was simply a unilateral contract under
religious sanction. And it would seem that the oath was in fact used
for purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the oath was
proved by the language of the XII Tables to have been in former times the
most binding form of promise ; and since an oath was still morally
binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53. » Off.
ni. 31. 111. in the time of CICERONE, though it had then no
legal force, the point of his remark must be that in earlier times
the oath was legally binding also. From Dionysius we know that the altar
of ERCOLE (called ARA MASSIMA) was a place at which solemn compacts
(ovvdfjtcai) were often made 1 , while Plautus and Cicero inform us that
such compacts were solemnized by grasping the altar and taking an
oath 2 . It would seem probable that the gods were consulted by the
taking of auspices before an oath was made. Cicero says that even in
private affairs the ancients used to take no step without asking
the advice of the gods 8 ; and we may safely conjecture that whenever a god
was called upon to witness a solemn promise, he was first enquired
of, so that he might have the option of refusing his assent by
giving unfavourable auspices. The terms of the oath were known as
concepta uerba, at least in the later Republic, and like the other forms
of the period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did not
mean then, as now, false swearing. It meant the breach of an oath 5 , the
commission of any act at variance with the uerha concepta There is some
dispute as to what were the exact consequences of such a breach. Voigt 7
thinks that it merely entailed excommunication from religious
rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that its consequences
in early times were far more serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud.
5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12.
13. 6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37.
4. 6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149.
they amounted in fact to complete outlawry. Cicero says that
the sacratae leges of the ancients confirmed the validity of oaths. Now a
sacrata lex was one which declared the transgressor to be sacer
(i.e. a victim devoted) to some particular god 1 , and sacer in the
so-called laws of Seruius Tullius 2 and in the XII Tables 8 was the
epithet of condem- nation applied to the undutiful child and the
unrighteous patron. So likewise it seems highly probable that the breaker
of an oath became sacer, and that his punishment, as CICERONE hints,
was usually death. The formula of an oath given by Polybius 6 is
more comprehensive than that given by Paulus Diaconus , for in it the
swearer prays that, if he should transgress, he may forfeit not
onry the religious but also the civil rights of his countrymen. This
shows that the oath-breaker was an utter outcast; in fact, as the gods
could not always execute vengeance in person, what they did was to
withdraw their protection from the offender and leave him tolhe
punishment of his fellow-men. The drawbacks to this method of contract were
the same as those of the old English Law, which made hanging the
penalty for a slight theft ; the penalty was likely to be out of all
proportion to the injury inflicted by a breach of the promise. So
awful indeed was it, that no promise of an ordinary kind could well
be given in such a dangerous form, and consequently the oath was not
available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230,
s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in.
25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common affairs
of daily life. The use of the oath therefore disappeared with the rise of
other forms of binding agreement, the severity of whose remedies
was proportionate to the rights which had been violated; while at the same
time the breaking of an oath came to be considered as a moral,
instead of a legal, offence, and by the end of the Republic
entailed nothing more serious than disgrace (dedecus). In one instance
only did the legal force of the oath survive. As late as the days of
Justinian^ the services due to patrons by their freedmen were still
promised under oath 1 . But the penalty for the neglect of those services
had changed with the development of the law. At and before the time
of the XII Tables, the freedman who neglected his patron, like the
patron who injured his freedman 2 , no doubt became sacer, and was an
outlaw fleeing for his life, as we are told by DIONISIO. But in
classical times the heavy religious penalty had disappeared, and the
iurisiurandi obligatio was en- forced by a special praetorian action, the
actio operarum*. By the time of Ulpian the effects of the iurata
operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the
operarum stipu- latio*, though the forms of the two were still
quite distinct. We may then summarise as follows our
knowledge as to this primitive mode of contract : The form
was a verbal declaration on the part of the promisor, couched in a solemn
and carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n.
10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10. 1 worded 1
formula (concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari
deos)*, to behold his good faith and to punish him for a breach of
it. The sanction was the withdrawal of divine protection, so
that the delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose
to slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Art. 2. Sponsio. Though the
point is contested by high authority, yet it scarcely admits of a
doubt that there existed from very early times another form, known
as sponsio, by which agreements could be made under religious sanction.
This method, as Danz has pointed out, was originally connected with
the preceding one. It was derived from the stern and solemn compact made
under an oath to the gods. But Danz goes too far when he identifies
the two, and states that sponsio was but another name for the sworn
promise 4 . The stages through which the sponsio seems to have passed
tell a different story. The word is closely connected with
airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a pouring out of wine 8 ,
quite distinct from the con- vivial \ocfirf or libatio 6 , so that "
libation " is not its proper equivalent. The other derivation given
by 1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52. * 46
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106. 8 Festus p. 329 s.u.
spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o.
Varro 1 and Verrius 2 from sports, the will, whence according to
Girtanner 8 sponsio must have meant a declaration of the will, savours
somewhat too strongly of classical etymology. I. This pouring
out of wine, as Leist 4 has shown, was in the Homeric age a constant
accom- paniment to the conclusion of a sworn compact of alliance
(optcia iriara) between friendly nations. The sacrificial wine seems
originally to have added force to the oath by symbolising the blood
which would be spilt if the gods were insulted by a breach of that
oath. In this then its original form sponsio was nothing more than an
accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by
the omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as
the principal ceremony in making less important agreements of a private
nature. In the Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is
customary at betrothals 5 , and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connec- tion with which we find sponsio and
sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride 6 , were
very like those of other Aryan communities 7 . We may therefore
clearly infer that at Rome also there was a time when the pouring out of
wine was a part of the marriage-contract; and thus our derivation of
the word receives independent confirmation. III. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u.
spondere. 8 Stip. p. 84. 4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ.
p. 448. 8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc.
ciu nothing more than a particular form of promise,
and it is easy to see how this came about. At first the verbal
promise took its name from the ceremony of wine-pouring which gave to it
binding force ; but in course of time this ceremony was left out as
taken for granted, and then the promise alone, provided words of
style were correctly used, still retained its old uses and its old name.
Sponsio from being a ceremonial act became a form of words. Such
was the final stage of its development. The importance
attached to the use of the words spondesne ?, spondeo in preference to
all others 1 thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally
meant " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do
so promise," just as we say, "I give you my oath,"
when we do not dream of actually taking one. Another peculiarity of
sponsio, noticed though not explained by GAIO 2 , was the fact that it
could be used in one exceptional case to make a binding agreement
between Romans and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gaius
expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice
of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early formalities of an
international compact (op/cia mard), it was natural that the word spondeo
should survive on such occasions, even after the oath and the wine-
pouring had long since vanished. Sponsio being then a religious act
and subse- quently a religious formula, its sanctity was doubtless
protected by the pontiffs with suitable penalties. What these penalties
were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94.
though clearly they were the forerunners of the penal sponsio
tertiae partis of the later procedure. Varro 1 informs us that, besides
being used at be- trothals the sponsio was employed in money
(pecu/nia) transactions. If pecunia includes more than money we may
well suppose that cattle and other forms of property, which could be
designated by number and not by weight, were capable of being promised
in this manner. Indeed it is by no means unlikely 2 that nexum was
at one time the proper form for a loan of money by weight, while sponsio
was the proper form for a loan of coined money (pecunia nwmerata).
The making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the afibio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the
origin and early history of the sponsio is so different from the
views taken by many excellent authorities that we must examine
their theories in order to see why they appear untenable. One great class
of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institu- tion, but was introduced at a date subsequent to the XII
TABVLAE. The adherents of this theory are afraid of admitting the
existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and
flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the
fact that no mention of sponsio occurs in our fragments of the XII
Tables. While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early 1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42. J sponsio
the actionability and breadth of scope which it had in later times, still
it may very well have been sanctioned by religious law, in ways of
which nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius
1 should some day be discovered. As to the silence of the XII Tables on
this subject, we are told by Pomponius that they were intended to
define and reform the law rather than to serve as a comprehensive code 2
. Therefore they may well have passed over a subject like sponsio
which was already regulated by the priesthood. Or, if they did mention
it, their provisions on the subject may have been lost, like the
provisions as to iusiurandum, which' we know of only through a
casual remark of CICERONE’s. 8 . The early date here attributed to
the sponsio cannot therefore be disproved by any such negative
evidence. Let us see how the case stands with regard to the question of
origin. (a) The theory best known in England, owing to its
support by Sir H. Maine, is that sponsio was a simplified form of neocum,
in which the ceremonial had fallen away and the nuncupatio had alone
been left 4 . This explanation is now so utterly obsolete that it
is not worth refuting, especially since Mr Hunter's exhaustive criticism
5 . One fact which in itself is utterly fatal to such a theory is that
the nuncupatio was an assertion requiring no reply 6 , i
Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4. 8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am.
Law, p. 326. 5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24.
B. E. 2 whereas the essential thing about the sponsio was
a question coupled with an answer. (6) Voigt follows
Girtanner in maintaining that spondere signified originally " to
declare one's will," and he vaguely ascribes the use of sponsiones
in the making of agreements to an ancient custom existing at Borne
as well as in Latium 1 . He agrees with the view here expressed that the
sponsio was known prior to the XII Tables, but thinks that before
the XII Tables it was neither a contract (which is strictly true if by
contract we mean an agreement enforceable by action), nor an act in
the law, and that its use as a contract began in the fourth century
as a result of Latin influence 2 . In another place 8 he expresses the
opinion that its introduction as a contract was due to legislation,
and most probably to the Lex Silia. The objections to this view are
that the etymology is probably wrong, and that the inference drawn as to
the original meaning of spondere iuvolves us in serious
difficulties. An expression of the will can be made by a formless
declaration as well as by a formal one. And if a formless agreement be a
sponsio, as it must be if sponsio means any declaration of the
will, how are we to explain the formal importance attaching to the
use of the particular words " spon- desne ? spondeo." (3) This
view ignores the religious nature of the sponsio, which I have
endeavoured to establish, and (4) it forgets that sponsio, being
part of the marriage ceremonial, one of the first subjects 1
Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43. 8 Ius Nat. §§ 33-4. to
be regulated by the laws of Romulus 1 , is most probably one of the
oldest Roman institutions. Again (5), as Esmarch has observed 2 , the
legislative origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We
only know that the Lex Silia introduced an improved procedure for matters
which were already actionable, and had a new formal contract been created
by such a definite act we should almost certainly have been
informed of this by the classical writers. (c) Danz also derives
sponsio from sports, the will; but he takes spondere to mean sua
sponte iurare, and thinks that the original sponsio was exactly the
same as iusiurandum, i.e. nothing more than an oath of a particular kind
3 . . His chief argu- ment for this view is to be found in PAOLO DIACONO,
who gives consponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus
meant more than to give a synonym ? in which case it by no means follows
that spondere = iurare. For such a statement as that we have
absolutely no authority. Moreover, as we saw above, iusiurandum was a
one-sided declaration on the part of the promisor only. How then could
the sponsio, consisting as it did of question and answer, have
sprung from such a source ? especially since the iusiurandum, though no
longer armed with a legal sanction, was still used as late as the days
of Plautus alongside of the sponsio and in complete contrast to it
? (d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale
Schutz" of Danz 4 , maintains that sponsio had nothing 1 Dion.
n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n. 516. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4
Ueber die Sponsio, p. 4 fif. 2—2 9
to do with an oath, but was a simple declaration of the individual
will, and that stipulatio had its origin in the respect paid to Fides.
This view however is even less supported by evidence than that of
Danz 1 . Arguing again from analogy Girtanner thinks that, as the Roman
people regulated its affairs by expressing its will publicly in the
Comitia, so we may conjecture that individuals could validly
express their will in private affairs, in other words could make a
binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a
misapprehension of a leading principle of early Law. For, as we
have seen, no agreement resting simply upon the will of the parties
(i.e. pactum) was valid without some outward stamp being affixed to it,
in the shape of approval expressed by the gods or by the people. In
the language of the more modern law, we may say that such approval, tacit
or explicit, religious or secular, was the original causa ciuilis which
dis- tinguished contractus from pactiones. Now a popular vote in
the Comitia bore the stamp of public approval as plainly as did the
nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was clearly not
endorsed by the people ; therefore the endorsement which it needed in
order to become a contractus iuris cvuilis must have been of a religious
nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originated in a religious cere- monial such as I have
described. To recapitulate the view here given, we may
conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and
Latin peoples, which grew into its later form through three stages, (a)
It was originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact
of alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it
became a sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made
under oath such as betrothals. Just as iusiurandum for many
purposes was sufficient without the pouring out of wine, so for
other purposes sponsio came to be sufficient without the oath, (c) Lastly
it became a verbal formula, expressed in language implying the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justi- nian, Its form was a
question put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "
" Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?
Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could
use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further
proof of religious origin. Why they used question and answer rather
than plain statement is a minor point the origin of which no theory has
yet accounted for. The most plausible conjecture seems to be that
the recapitulation by the promisee was intended to secure the
complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless* imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what
that sanction was. Having now examined the ways in which
an agreement could be made binding under religious sanction, let us
see how binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan civilizations
1 . Art. 3. nexvm. There is no more disputed sub- ject
in the whole history of Roman Law than the origin and development of this
one contract. Yet the facts are simple, and though we cannot be sure
that every detail is accurate, we have enough information to see
clearly what the transaction was like as a whole. We know that it was a
negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other
commodity measured by weight in the presence of witnesses 2 ; that the
commodity so weighed was a loan 8 ; and that default in the repayment of
a loan thus made exposed the borrower to bondage 4 and savage
punishment at the hands of the lender. We know also that it existed as a
loan before the XII Tables, for it is mentioned in them as
something quite different from mancipium 6 . To assert, as Bech-
mann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I.
Civ. I« e Abt. pp. 435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L.
L. 7. 105. 4 Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22.
well as loan " mancipiumque " must therefore be an
interpolation into the text of the XII Tables 1 , is an arbitrary and
unnecessary conjecture. The etymology of nexwm, and of mancipium shows
that they were distinct conceptions. Mancipium implies the transfer
of mami8, ownership ; nexum implies the making of a bond (cf. nectere, to
bind), the precise equivalent of obligatio in the later law. It is true
that both nexwm and mancipium required the use of copper and
scales, to measure in one case the price, in the other the amount of the
loan. But this coincidence by no means proves that the two transactions
were identical. A modern deed is used both for leases and for
conveyances of real property, yet that would be a strange argument to
prove that a lease and a conveyance were originally the same thing.
Here however we are met by a difficulty. If, as some hold 8 and as
I have tried to prove, we must regard mancipium as an institution of
prehistoric times distinct from the purely contractual nexwm, how
are we to explain the fact that nexwm is used by Cicero 8 and by other
classical writers 4 as equi- valent to mancipium, or as a general term
signifying omne quod per aes et libram geritur, whether a loan, a
will, or a conveyance ? Now first we must notice the fact that neamm had
at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been
so, there could have been no doubt in the minds of 1 Kauf f
p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11. p. 162 n. * ad Fam. 7. 30 ; de Or.
3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1. 35. ; pro Mwr. 2. 4 Boethius
lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in
Varro, L. L. 7. 105. Scaeuola and Varro that a res nexa was the
same thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro both deny,
and we must remember that Mucius Scaeuola was the Papinian of his day.
Manilius 1 on the other hand, struck perhaps by the likeness in
form of the obsolete nexum to other still existing negotia per aes et
libram, seems to have made nexum into a generic term for this whole class
of trans- actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 . The
new and wider meaning, given by them to that which was a technical term
at the period of the XII Tables, apparently became general in
literature, partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, namely in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem*. One
peculiarity men- tioned by Gaius in the release of such legacies
seems altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of
the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should certainly
find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi, but this, as
Gaius shows, was not the case. The view that nexum was the parent
gestum per 1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s. u.
nexum. 3 Gai. iii. 173-5. aes et libram,
and that mancipium was the name given later to one particular form of
nexum, is worth examining at some length, because it is widely
accepted 1 , and because it fundamentally affects our opinion concerning
the early history of an important contract. Bechmarm 2 thinks it more
reasonable to suppose that nexum narrowed from a general to a
specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum should
have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram
geritur* when it was still a living mode of contract, and the
technical meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual
form no longer existed. What seems far more likely is that nexum had
a technical meaning until it ceased to be practised subsequently to
the Lex Poetilia, and that its loose meaning was introduced in the later
Bepublic, partly to denote the binding force of any contract 4 ,
partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram\ Even in Cicero we find the word nexum used chiefly with a view to
elegance of style 8 in places where mandpatio would have been a
clumsy word and where 7 there could be no doubt as to the real meaning.
But when Cicero is writing history, he uses nexum in its old technical
sense and actually tells us that it had become obsolete 8 . 1
See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 .16. p.
181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum. 4 Cf. "nexu
uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cic. de Or. in.
40. 159. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.
7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf.
Liu. mi. 28. 1. Rejecting then as untenable the
notion that nexum denoted a variety of transactions, let us see how
it originated. The most obvious way of lending corn or copper or any
other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower,
who would naturally at the same time specify by word of mouth the terms
on which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
super- vision. It dealt only with commodities which could be
measured with the scales and weights, and did not recognize the
distinction between res mancipi and res nee mancipi, — a strong argument
that nescum and mandpium were, as above said, totally distinct
affairs. Its sanction lay in the acts of violence which the creditor
might see fit to commit against the debtor, if payment was not
performed according to the terms of his agreement. Personal
violence was regulated by the XII Tables, in the rules of manus iniectio,
but before that time it is safe to conjecture that any form of
retaliation against the person or property of the debtor was freely
allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1 ,
which we find also in rnancipium, . is the only modification of nexum
that we know of prior to 1 Gai. hi. 174. .
the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the reforms
of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing the five
classes of the Servian ceruma, personified the whole people. This
is a mere conjecture, but a very plausible one. For we are told by
Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject of Contract
and Crime, and in another passage of the same author 8 , we find an
analogous case of a law which forbade the exposure of a child except with
the approval of five witnesses. But here a question has been raised as
to what the witnesses did. The correct answer, I believe, is that
given by Bechmann 4 , who maintains that the witnesses approved the
transaction as a whole, and vouched for its being properly and
fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the
function of the witnesses was to superintend the weighing of the copper,
and that before the intro- duction of coined money some such public
supervision was necessary in order to convert the raw copper into a
lawful medium of exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that
neacum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act per-
formed under public authority, and (2) it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of
Huschke's theory may be accepted without reserve, but the second part
seems quite untenable. We have no evidence to show that nexum was
confined to loans of money or of 1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii.
15. 4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff. copper.
Indeed we gather from a passage of Cicero that far, corn, may have been
the earliest object of nexum 1 , while Gaius states that anything
measurable by weight could be dealt with by neari solvtio*. No
inference in favour of Huschke's theory can be drawn from the name
negotium per cms et libram, for this phrase obviously dates from the more
recent times when the ceremony had only a formal signifi- cance,
and when the aes (ravduscvlum) was merely struck against the scales. If
then we reject the second part of Huschke's theory, and admit, as
we certainly should, that nexum could deal with any ponderable commodity,
it is evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neawm radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities 4 , but which has few if any
supporters among modern jurists. This , view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as 1
Cic. de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87. 4 See Sell,
Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n.
25. a freeman who gives himself into slavery for a debt which he
owes 1 . The inference drawn from this remark was that the debtor's body,
not the creditor's money, was the object of nexwm, and that a
debtor who sold himself by mancipium as a pledge for the repayment
of a loan was said to make a nexum' 2 . Such a theory does not however
harmonize with the facts. The evidence is entirely opposed to it,
for Varro's statement, as will be seen later on, admits of quite
another meaning. Neither nexum nor man- cipium is ever found practised by
a man upon his own person. Nor could nexum have applied to a
debtors person, for the idea of treating a debtor like a res mancipi or
like a thing quod pondere numero constat, is absurd. Again, if nexum =
mancipium, the conveyance of the debtors body as a pledge must have
taken effect as soon as the money was lent, therefore (1) by thus
becoming nexus he must have been in mancipio long before a default could
occur, which is too strange to be believed, and (2) being in
mancipio he must have been capite deminutus*, which Quintilian expressly
states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then mancipium was under
no cir- cumstances a factor in nexum. Thus it would seem that
the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other
goods measurable by weight, is the one beset with fewest
difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later
law were called res fungibiles. 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page
52. 8 nexum inire, Liu. vn. 19. 6. 3 Paul. Diao. p. 70,
*. u. deminutus. 4 Decl. 311. The borrower was not required
to return the very same thing, but an equal quantity of the same
kind of thing. And this explains why neanim, the first genuine
contract of the Roman Law, should have received such ample protection. A
tool or a beast of burden could be lent with but little risk, for
either could be easily identified ; but the loan of corn or of
metal would have been attended with very great risk, had not the law been
careful to ensure the publicity of every such transaction.
lusiurandum or sponsio might no doubt have been used for making
loans, but they both lacked . the great advantage of accurate
measurement, which neanim owed to its public character. It was the
presence of witnesses which raised neanim from a formless loan into
a contract of loan. This general sketch of the original neanim
is all that can be given with certainty. The details of the picture
cannot be filled in, unless we draw upon our imagination. We do not know
what verbal agreement passed between the borrower and the lender,
though it is fairly certain that payment of interest on the loan might be
made a part of the contract. We cannot even be quite sure whether
the scale-holder (libripens) was an official, as some have
suggested, or a mere assistant 1 . Our description of the contract
may then be briefly recapitulated as follows: The form
consisted of the weighing out and delivery to the borrower of goods
measurable by weight, in the presence of witnesses, (five in
number, probably since the time of Seruius Tullius),
whose attendance ensured the proper performance of the ceremony.
The ownership of the particular goods passed to the borrower, who was
merely bound to return an equal quantity of the same kind of goods,
but the terms of each contract were approximately fixed by a verbal
agreement uttered at the time. The sanction consisted of the
violent measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony pre-
cisely similar to that of the nexum itself, the amount of the loan being
weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses 1 .
Art. 4. We have now examined three methods by which a binding
promise could be made in the earliest period of the Roman Law. The
next question which confronts us is whether there existed at that
time any other method. The other forms of contract, besides those already
described, which are found existing at the period of the XII Tables,
were fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of
these have their origin before this time ? Fiducia is doubtful, and lex
mancipi, as we shall see, owed its existence to an important
provision 1 Gai. in. 174. \.t
of that code. As to the origin of uadirnonium, we cannot be
certain, but judging from a passage in Gellius 1 we are almost forced to
the conclusion that uadimonium also was a creation of the XII
Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V asses et
taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum antiquitas." We know that
twenty-five asses was the fine imposed by the XII Tables for cutting
down another man's tree, therefore it would seem from the context
that uades had also been introduced by that code. The point cannot be
settled, but since the XII Tables were at any rate the first
enactments on the subject of which anything is known, we may discuss
uadimonium in treating of the next period. The only contract of which the
remote antiquity is beyond dispute is the dotis dictio. Art.
5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us that in the earliest times a
dowry was given with daughters on their marriage, and that if the father
could not afford this expense his clients were bound to contribute. Hence
it is clear not only that dos existed from very early times, but that
custom even in remote antiquity had fenced it about with strict
rules. From Ulpian 8 we know that dos could be bestowed either by dotis
dictio, dotis promissio, or dotis datio. The promissio was a promise by
stipu- lation, and the datio was the transfer by mancipation or
tradition of the property constituting the dowry ; so that these two are
easy to understand. But dotis dictio is an obscure subject. It is
difficult to know whence it acquired its binding force as a
contract, 1 xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. vi. 1.
since in form it was unlike all other contracts with which we
are acquainted. Its antiquity is evidenced not only by this peculiarity
of form, but 9,lso by a passage in the Theodosian Code which speaks
of dotis dictio as conforming with the ancient law 1 . An illustration
occurs in Terence 2 , where the father says, "Dos, Pamphile, est
decern talenta" and Pamphilus, the future son-in-law, replies,
"Accipio"; but we need not conclude that the transaction was
always formal, for the above Code 8 , in permitting the use of any form,
seems rather to be restating the old law than making a new
enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4 and by Gaius 5 , was
that dotis dictio could be validly used only by the bride, by her father
or cognates on the fathers side, or by a debtor of the bride acting
with her authority. Dictio is a significant word, for Ulpian 6
distinguishes between dictum and promis- sum, the former, he says, being
a mere statement, the latter a binding promise. This distinction
should doubtless be applied in the present case, since dotis dictio
and dotis promissio were clearly different. The following theories seem
to be erroneous : (a) Von Meykow 7 holds that dictio was adopted as
a form of promise instead of sponsio for this family affair of dos, in
order not to hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by
appearing to question their bona fides. That theory would be a
plausible explanation, if dictio could ever have meant a 1 C.
Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4. 4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n.
9. 3. 6 21 Dig. 1. 19. 7 Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.
B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can
hardly be admitted. (6) Bechmann 1 , again, connects dotis
dictio with the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.
The dos, he thinks, was promised by a sponsio made at the betrothal, so
that the peculiar form known as dotis dictio was originally nothing more
than the specification of a dowry already promised. The dotis
dictio would therefore have been at first a mere pactum adiectum, which
was made actionable in later times, while still preserving its ancient
form. The objection to this theory is tKat it lacks evidence :
indeed the only passage (that of Terence) in which dotis dictio is
presented to us with a context goes to show that this contract was in no
way connected with the act of betrothal. (c) Another
explanation is given by Czylharz 2 , ie. that dotis dictio was a formal
contract. His view is based on the scholia attached to the passage
of Terence, which say of the bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset
' accipio' dos non esset." Czylharz therefore looks upon the
contract as an inverted stipulation. The offer of a promise was
made by the promisor, and when accepted by the promisee became a
contract. Though such a process is quite in harmony with modern notions
of Contract, it would have been a complete anomaly at Rome. And we
cannot believe that, if acceptance by the promisee had been a necessary
part of the dotis dictio, we should not have been so informed by
Gaius, when he has been so careful to impress 1 Rom. Dotalrecht. 2
Abt. p. 103. a Z.f. R. G. vn. 243. upon us that the dotis dictio could be
made nulla interrogatione praecedente. Thus the view of Czylharz
besides being in itself improbable is almost entirely unsupported by
evidence. Even the scholiast on Terence need not necessarily mean
that " accipio " was an indispensable part of the trans-
action. He may merely have meant that the bride- groom at this juncture
could decline the proffered dos if he chose, and this interpretation is
borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give formulae of
dotis dictio without any words of acceptance. A satisfactory
solution of the problem seems to have been found by Danz 8 . He looks
upon dos as having been due from the father or male ascendants of
the bride as an officium pietatis 4 , and quotes passages from the
classical writers in which they speak of refusing to dower a sister
or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the obligation
lay in this relationship to the bride, not in any binding effect of the
dotis dictio itself. But in order that the obligation might be
actionable its amount had to be fixed, and this was just what the dictio
accomplished. It was an acknowledgment of the debt which custom had
decreed that the bride's family must pay to the bridegroom. In this
respect the dos was precisely analogous to the debt of service which a
freedman owed as an offidum to his patron, and which he acknowledged
by the iurata operarumpromissio. The dos and the operae were both
officio, pietatis, but 1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig. 3. 59. 3 Rom. RO.
I. 163. 4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2. 63 ; Oic. Quint.
31. 98. 3—2
it became customary to specify their nature and their quantity.
In the one case this was done by an oath, in the other by a simple
declaration, and in both cases the law gave an action to protect
these anomalous forms of agreement. What kind of action could be
brought on a dotis dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an
actio dictae dotis, for which he even gives the formula, but
formula and action are alike purely conjectural. We can only infer that
the dotis dictio was action- able since it constituted a valid contract.
How or when this came to pass we cannot tell. A further advantage of
Danz' theory, and one not mentioned by him, is that it explains the
capacity of the three classes of persons by whom alone dotis dictio
could be performed. (1) The father and male ascendants of the bride were
bound to provide a dos under penalty of ignominia; the bride, if
sui iuris, was bound to contribute to the support of her husband's
household for exactly the same reason 3 ; and (3) a debtor of the bride
was bound to carry out her orders with respect to her assets in his
posses- sion, and supposing her whole fortune to have con- sisted
of a debt due to her, it is evident that a dotis dictio by the debtor was
the only way in which this fortune could be settled as a dos at
all. Thus the hypothesis that the dos was a debt morally due from
the father of the bride, or from the bride herself, whenever a marriage
took place, completely explains the curious limitation with 1
XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23. FORM
OF D0TI8 DICTIO. 37 regard to the parties who could perform
dotis dictio. The nature of the transaction may then be summarized
as follows : Its form was an oral declaration on the part of
(1) the bride's father or male cognates, (2) of the bride herself, or (3)
of a debtor of the bride, setting forth the nature and amount of the
property which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in
the presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be
settled in this manner 1 . No particular formula was necessary. The
bridegroom might, if he liked, express himself satisfied with the
dos so specified ; but his acceptance does not seem to have been an
essential feature of the proceeding. Most probably he did not have to
speak at all. Its sanction does not appear, though we may be
sure that there was some action to compel perform- ance of the promise.
This action, whatever it may have been, could of course be brought by the
bride's husband against the maker of the dotis dictio. Perhaps in
the earliest times the sanction was a purely religious one.
Art. 6. Now that we have seen the various ways in which a binding
contract could be made in the earliest period of Roman history, we may
con- sider briefly the general characteristics of that primi- tive
contractual system. The first striking point is that all the contracts
hitherto mentioned are unilateral: the promisor alone was bound, and
he was not entitled, in virtue of the contract, to any
counterperformance on the part of the promisee. 1 Gai. Ep. 3.
9. The second point is that the consent of the parties was not
sufficient to bind them. Over and above that consent the agreement
between them was required to bear the stamp of popular or divine
approval. Even in dotis dictio, as we have just seen, a simple
declaration uttered by the promisor was invested with the force of a
contract merely because the substance of that declaration was a transfer
of property approved and required by public opinion. Thirdly we
notice that the intention of the con- tracting parties was verbally
expressed, but that the language employed was not originally of any
impor- tance (except in the one case of sponsio), provided the
intention was clearly conveyed. We must therefore modify the statement so
commonly made that the earliest known contracts were couched in a
particular form of words. For how did each of these particular
forms originate and acquire the shape in which we afterwards find it ? By
having long been used to express agreements which were binding
though their language was informal, and by having thus gradually
obtained a technical significance. Conse- quently the formal stage was
not the earliest stage of Contract. The most primitive contract of all was not
an agreement clothed with a form, but an agree- ment clothed with the
approval of Church or State. Nicola Codronchi. Keywords: Su i
contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto
epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere
informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il
giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi)
e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura.
Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita
come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard
ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si
manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del
primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la
proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di
p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.
Grie e Colazza: l’implicatura
conversazionale dell’iniziazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni
Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong
anthroposophical influence came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard.
Close to the group, which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the
Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C.,
e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN
ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio
l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un
saggio importante, da tenere sempre presente come guida. L’uomo così come nella vita quotidiana serve a
poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo
poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra
persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto
utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare
in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di
Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente.
L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni,
circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare
fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi
stessi. Si dice che è importantissimo
cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il
concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla,
visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente
tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra
cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare
e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di
natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie
nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una
diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo
prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite
l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere
di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa
manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente
delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva
è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare
il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di
questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare,
anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel
sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di
neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o
impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo
spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale
disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare
autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le
forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I
vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi,
legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i
pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti
gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del
corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale
moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza
sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema
circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro
del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si
percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema
nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la
percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi
interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati”
al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo
esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto,
odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare
la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere
cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un
organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia
delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci
permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente
dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi,
per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su
ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero
serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa
viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso,
rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi
dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza
di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere
con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di
non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche.
Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa
assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il
buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve
significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto
ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione
luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi
senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza
rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi
un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi
riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento,
in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste
condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista,
trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori.
Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via
giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano
purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza,
a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé:
dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei
rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una
barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e
se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale
libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA
PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte
volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi
sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso
miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la
chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo
esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o
un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini:
non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la
figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire
l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di
questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo
apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale
dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna
aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire
consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza
che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto
concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità
per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si
diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare
secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve
prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica,
è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una
decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e
dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente
mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda
di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti,
grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di
Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri
esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato
possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento
giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione
enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata
alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano
determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere
abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA
POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e
orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione.
Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna
vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa,
supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali,
inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il
corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso
longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane
connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la
coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio
che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di
percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi,
perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla
chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del
loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare
tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non
ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL
LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle
“forme”. Come gli altri, anche questo
centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono
sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un
oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così
dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in
modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire
correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli
dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni;
uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti,
prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che
non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci
non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della
Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre
a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa
vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti;
qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere
operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro
provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto
in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di
controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir
trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione
e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far
discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE
ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità
di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per
la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino
Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione
interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa. E’ relativamente facile contemplare l’intero
cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la
stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita
non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda
delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima
o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA
“CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale:
è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha
assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero,
di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate,
queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto,
in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo
inferiore, il suo Ego. Si ha la
percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che
tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento
delle immagini, tipico del mondo astrale. Il praticare esercizi in modo non corretto,
disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe
causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed
aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche
possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante
la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di
sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà
portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la
stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E
L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in
modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve
distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui. Il fatto di poter dominare le reazioni e i
sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché
le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si
deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al
discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo
spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà
prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di
moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma
per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi
superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali.
Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno
a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato
pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano
della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi
direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo
eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si
avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente
visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano
diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si
era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro
essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti
interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si
presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima
esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al
cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi
raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità
nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie
limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo
essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento
inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO.
Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai
potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando
per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria
figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo
all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il
nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le
cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare
in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la
responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a
questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento
del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni
mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion
di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura. Il coraggio di affrontare il guardiano è
contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé
stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di
essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel
quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il
riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che
ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere
nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno
la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a
quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo.
Breno. Kur. “ Giardino di Maturità , chiamano
certi antichi saggi il luogo, in cui pone piede l'uomo allorchè gli
divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel giardino
non ci sarebbe fiore, che non re- casse il suo frutto, non uovo, che non
por- tasse .a maturità la vita in esso germinante. Ma come oscure
e- pericolose vengono al tempo stesso descritte le vie che menano
alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu- de quel giardino. Si
assicura, però, che quel- l'oscurità diviene più chiara del sole e
che quei pericoli non hanno potere contro le forze di cui ferve
l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate con provvida
mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come puerile concezione di
un' e- poca, in cui nulla si sapeva delle scienze dei giorni
nostri, viene ripudiato dall’ i/lu- minato, che crede di saper
distinguere fra i vaneggiamenti di una fantasia brancolante e
le ponderate vedute d'un intelletto “ scier- “i So ca
| oggi tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di
coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti
dei È , suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo,
per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci
sono I alcuni che, come quegli antichi saggi, par- MAS lano del «
rondo dell'anima , e della “ pa- “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro
vengono riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo
immagi- fa nario, figurato loro soltanto dalla propria | » Sbrigliata
fantasia. Si deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo che ha
raggiunto i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i, now
austera logica, vadano brancolando come eb- branco ‘@& bri, cui ad
ogni momento viene meno la li sicurezza, perchè non si attengono a ciò
È che esiste “ positivamente ,,. Ora, che cosa dicono questi edbri
stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f arrivati
all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di sè,
allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti
: È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che dovete essere i
nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone da bene,
che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del Buono; ma
sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi non ci potete
capire, fin tanto che pen- sate come appunto pensate. Sulle cose,
delle quali noi abbiamo da ragionare, potremo di- iscorrere con
voî, soltanto quando vi sarete presi voi stessi la pena di apprendere il
lin- guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia- razione molti di
voi, certo, non vorranno più oltre occuparsi di noi, perchè
crederanno di aver riconosciuto che al farneticamento della nostra
fantasia si accoppia in noi an- che un immedicabile orgoglio. Noi però
comprendiamo voi anche in siffatta affer- mazione e sappiamo al tempo
stesso che dobbiamo essere non già superbi, ma mo- desti. Per
incitarvi a tentare di entrare nel nostro ordine di idee non ci resta che
una cosa da dire: Credeteci, noi non ricono- sciamo un vero diritto
di parlare delle no- stre conoscenze se non a colui, il quale sia
capace di sentire con voi ciò che vi co- stringe alle vostre asserzioni,
e che cono- sca a fondo la forza, la potenza convincente e la
portata della vostra scienza. Colui che non reca in sè la sicura
consapevolezza di poter pensare ponderatamente, scientifica mente,
come l’ astronomo o il botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in
fatto di vita spirituale, di conoscenze mistiche do- 9
e = e Re
vrebbe contentarsi di apprendere, e non già volere insegnare. Ma
non ci si frain- ‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti,
non di studiosi, Studioso di misticismo può : divenire
chiunque, giacchè nell’ anima di ogni persona si trovano le
facoltà, i poteri presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi- stico
dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro,
ai quali, secondo il grado del loro intendimento, egli non potrebbe
dire un centesimo della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro
oggi riconoscono questa millesima parte ; domani riconosceranno la
centesima. Tutti possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,,
non dovrebbe voler diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi
alla disciplina del più austero intelletto e della scienza' più
severa. Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedente- mente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò
che cosa viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qua- lunque
momento il solenne paludamento del mistico per indossare la modesta
tunica del fisico, del chimico, del botanico “e dello zoologo
», sitori ;' con la massima modestia li assicura ‘che intende
il loro linguaggio e che non si arrogherebbe il diritto di essere un
mistico, se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al- lora, però,
egli può anche aggiungere di sa- f |pere, e di saperlo come si sanno i
fatti della Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi- ® \tori
imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa
que- sto come chiunque, il quale abbia studiato chimica, sa
che, date certe condizioni, dal- l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l'
acqua. Che Platone non volesse ammettere ai gradi superiori
della sapienza nessuno che > mon conoscesse la geometria, non
significa «già che egli facesse suoi alunni soltanto i
li Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppo- A
9 U L dotti in geometria, ma significa che quei
suoi alunni dovevano essersi educati alla se- vera, rigida, ed esatta
investigazione, prima che venissero loro schiusi gli arcani della
vita spirituale. Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se
‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'ele-
| mento di fatto, a cui si saggia e corregge ad ogni piè
sospinto l' investigazione ordi- naria del mondo. Se il botanico si
forma “concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu-
n conci Da (UR IZA minano circa il suo
errore. Tra lui e il mi- stico corre il rapporto stesso che
intercede fra chi cammina su strada piana e chi ascende una
montagna: il primo può cadere a terra, ma solo in casi eccezionali potrà
causarsi la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo sta sempre
dinanzi, E certamente nessuno che non abbia imparato a camminare
può ascendere una montagna. Poichè ; fatti spi- rituali non
correggono i concetti allo stesso modo che li correggono i fatti del
mondo esteriore, un pensare rigorosissimo e degno della massima
attendibilità è un ovvio pre- supposto per l'investigatore mistico.
Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti, si riconosce che cosa
intendevano dire que- gli antichi saggi, allorchè parlavano dei pe-
ricoli che minacciano chi voglia penetrare negli arcani del mondo. Se
alcuno si ap- pressa a questi arcani con mente indiscipli- nata,
essi determinano nella sua anima de- plorevoli disordini. Divengono
pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di un fanciullo.
Perciò da ogni investigatore mi- stico si esige rigorosamente che la
norma- lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica,
abbia saggiato le proprie forze SE E attorno a problemi
gravi e spinosi, prima che egli si appressi ai compiti più elevati.
Valga ciò come accenno a quel che il mi- stico intenda dire, quando parla
dei primi gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i
quali reputano di starsi SUI Mrfica | più alti gradi della cultura
moderna, stimano che sano pensare e misticismo siano due termini
incolta sano che una illuminata educazione scienti- fica
debba estirpare dall'individuo qualunque | tendenza mistica. E costoro
trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor»
tantissimi risultati della moderna scienza na- | turale. Se avesse
ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora, certo, concedere che
la Mistica non abbia nel nostro tempo se non | piccola probabilità
di trovare accesso alle anime dei nostri contemporanei; giacchè
nes- «suno, il quale abbia intendimento dei biso- gni spirituali di
questa nostra età, può du- bitare che siano pienamente giustificati i
trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da conseguire in
avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici. Essi pen- K
pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti insoddisfatti
<j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le” oro anime
han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore
ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si In contatto
con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo
| eve incessanternente ce vino! D’ rcare: l’ali
Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito diate a
monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja cie rale, un pen
| non vj chiappanuvole vai monito, l’anima loro
sj inaridisce, econdita , . tò, in fondo all’ an ogni
individuo Verità, e i che grande maestra dell’uomo è la
] mande AIR Chi potrebbe non dare, per
intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che dagli errori
e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira sempre con rinnovato
contento, ri- volgendosi alle eterne necessità della natu- ra? E
chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le
quali il grande poeta descrive i sentimenti che lo
assalirono in una solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le
quali la natura forma le montagne ? “ Seduto su di
un’ alta e nuda vetta, e spaziando con l'occhio su di una vasta
sottostante regione, io posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente su di
un suolo, che ‘arriva fin giù ai più profondi strati della
terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di attrazione e
di movimento della terra quasi direttamente agiscono su di me,
in cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli influssi del
cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi più alti
sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa cima nuda
volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia schiu-
dere l'anima propria unicamente ai più pri- mordiali, più antichi e più
profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso: SONG).
pe Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, im- mediatamente
eretto sul punto più basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere
di tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione
d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi alla grande istruttrice
Natura, si trasferisca sulla scienza ‘che ne discorre. Non
deve esistere antinomia fra i senti- menti che pervadono l'anima, quando
essa si approssima alle “ austere e profondissime verità
primordiali , circa la vita spirituale, e quelli che v'irrompono, quando
l'occhio si posa sull'attività costruttrice della natura.
Manca forse intelletto al mistico per co- testa armonia della
natura coi sentimenti più sacri all'anima umana? Tutt'altro;
giacchè al di sopra dell’altare, sul quale il vero mi- stico offre
i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può spingersi l'indagine umana,
stette scritto a lettere di fuoco fiammante, come legge. suprema: “
Natura è la grande guida al divino, e la conscia ricerca umana
delle fonti del Vero deve seguire le orme della sua recondita,
volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma suprema, nessuna antitesi
dovrebbe sussi- stere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli
investigatori della Natura. E tanto meno tale antitesi dovrebbe
determinarsi in un'epoca, che tanto deve alla scienza na-
turale. Per intendere bene quest’ ordine di de occorre
domandarci: “ In che, dune ue consistere l’ accordo fra la Scienza*fi
Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece, aversi
un'antitesi? ,, Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se
non nel fatto che le rappresentazioni che ci facciamo intorno alla
entità dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in- |
torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della
natura e nella — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di “ ordine
retto da leggi ,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo-
lesse vedere nell’uomo un essere di specie "completamente diversa
dalle creature natu- rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal
senso si sbigottirono fortemente quando, più di 40 anni fa, il grande
scienziato Huxley, informandosi allo spirito stesso della scienza —
naturale moderna, sulla base della somi- pigliante struttura anatomica,
concluse la stretta parentela fra l’uomo e gli animali supe- ori
con queste parole: “ Possiamo prendere in esame un sistema di organi
qual- siasi; l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie
ci conduce sempre a questo me- È desimo risultato: che le diversità
anatomi- che, per le quali l’uomo è distinto dal go- rilla e dallo
scimpanzè, non sono tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla
dalle altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però,
sbigottire solamente quando la si riferisca in modo errato all’
essezza dell'uomo. Certo ne può. facilmente rampollare il pensiero: “ Ma
come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Questa stretta affinità non
suscita però nel mi- stico nessuna preoccupazione , giacchè per lui
ne balza subito anche l' altro pensiero: | “A quali fini superiori, però,
possono ser- \vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, —
allorchè sono trasformati in organi umani! » Il mistico sa che l'occulta
volontà della na- tura muta la percezione animale in percezione umana
cofì lo sviluppare in altra forma gli-organi animali. Egli segue le
sicure orme della natura e ne continua l'operato. Per lui i l'opera
della natura non è punto terminata con ciò che essa gli ha donato. Egli
diviene un fido discepolo della natura per il fatto appunto di
portarne l’opera a maggiore al- 1
toi tezza. La natura lo ha portato fino al pen- sare e
al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare e questo sentire
come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende capaci di
attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò, che
nell'ambiente na- turale esteriore avviene indipendentemente da
essa. Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi
sono capaci di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©» nelle
scimie. Così l’ occhio può venir tra- stormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo svi- luppo
delle sue facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In
questo “ altro mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re »Yiene
Mistico rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha
prodotto senza di lui con la propria volontà occulta. Per-
di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL.
PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL Los ; mid :
ni gd ed deli è y villa mM ni collo i fiat 1a CA di (ANI it
pece iò egli si pone in contrasto con la natura, «giacchè
questa trasmuta continuamente le proprie forme: dal vecchio essa
crea eterna- mente il nuovo. Ora, chi, conformemente
%@. alla moderna scienza naturale, crede a que- sta
trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e, ciò nonostante, non
vuole trasmutare se esso , costui riconosce, sì, la natura,
ma A; nella sua propria vita si pone in contradi-
&l-zione con essa. Non si deve soltanto rice- >
noscere l'evoluzione, si seno ivato Non si limitino, dunque, le
facoltà della nostra vita ;, col tener conto esclusivamente della
nostra ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu-
cazione mistica diviene un fido alunno della natura, si
schiude il senso per la superiore evoluzione. A proposito di
questi cenni sulla Mistica e sulla /riziazione molti diranno: Ma
che ci giova questo discorrere di facoltà a noi
sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre- deremo ! ,.
Nessuno, però, può dare a un altro cosa che questi rifiuti. E il
più delle volte ciò che incontrano i nostri mistici è .
un brusco rifiuto. Al presente essi non pos- sono fare. molto .di
più che raccontare le loro cognizioni mistiche a quelli che
vo- gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente n nt x
IE RAIPAT cn potima tl — 29 C j Pa ENTI OT le
ero Art 1 er? che, I, , a . = ì” \ wr / a) i e. e 7
pederntdt hern ci tCAns4- 1 È à a tutta prima un
volersela cavare col RE ce raccontare che cosa c'è in America a chi
ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,. Ma pare, non è realmente una
scappatoja, perchè i processi dello spirito sono diversi da. quelli
fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado di fissare la verità
im piena luce, egli ha la possibilità di intrave- derla, e di
accoglierla nel suo sentimento. E questo sentimento stesso è una forza,
che lo può condurre più avanti. E' questa una fase per cui è
necessario passare Chi segue con ricettivo abbandono la narrazione
del Mistico, già calca il sentiero che mena alle verità
superiori. Solo l' Iniziatof'comprende completamente l’Iniziato: ma angie
per vero rende anche il non iniZiato ricettivo alle parole del
Mistico. E questa sua ricet- tività è strumento con. cui egli lavora a
schiu- dere i propri organi mistici. Ciò che prima-, mente occorre
è che si abbia questo senso | della possibilità di conoscenze superiori:
al- | lorà not si passa più incurantemente ac- canto alle persone
che di queste conoscenze superiori tengono parola. E' stato
già detto che anche al presente ci sono persone che si adoperano a
rinno- vare la vita mistica. Up irene Kona
diteou@ crt u pe ud) fasi cl
fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale tri rautwews i
E Qui vi voglio intrattenere di due esempi di tal genere,
cioè del libro “ // Cristiane- simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,,
di Annie Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati » el geniale
pensatore e poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste opere
gettano luce sulla natura della così detta Iniziazione. Annie
Besant, mostra come il Cristianesimo debba venire compreso quale
risultato di codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg- gia le
figure dei massimi duci spirituali della umanità, fondandosi sulla
convinzione che le grandi confessioni religiose e le grandi
filosofie cosmologiche da quei duci dispen- sate all'umanità,
celano verità eferne, che si possono cercare e re soltanto in
quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la
propria giustificazione unicamente nel campo del Mi- sticismo. Esse
traggono la loro origine da quella corrente spirituale dei tempi
nostri, che è destinata ad elevare l'umanità da un incivilimento
puramente esteriore all'altezza Traduzione Italiana di D. e O. Calvari,
Roma, 1904, (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza,
Bari, suh Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4, nu pori?
IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il “pensiero
scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente.
La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito
col.negarlo , e che | non si contr lle leogi naturali col_cer- re
Treo © x iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici
come oscurantisti , giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
con- sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo
esteriore, bensì na osservanza di un determinato orientamento della..vita
si- È ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe
verità, le quali non con- templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A
cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s
sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO
CA \periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò
nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I
ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P
even ord LISI (NE presumere di dire che “ nel
suo mondo vi i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se
un uonio ha tanta presunzione, assomi- i glia al verme che ritiene_come
orizzonte i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. li —_
* Giardino di maturità » Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi
gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo bisogna tI che
l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al raggiungimento della
propria maturità. Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da
te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli
| see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi
en- n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino È di maturità
,. TAR Come molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse
numerose verità dalla pro- fonda vena del suo intuito ,
enunciandole non già in diffusi e circostanziati discorsi, bensì in
brevi e spesso enigmatici accenni. sr Uno di tali accenni è in questo
periodo: dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle n e della
Natura, sono le intenzioni, che meri- / tano specialmente la nostra
attenzione ,,. E' questo un aforisma che verrà com- preso in
tutta Ia sua profondità quando lo Î si applichi ai più importanti
fenomeni della vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci
senso e comprensione per le azioni di un singolo individuo soltanto
quando ne veniamo a conoscere le_inten- zioni, così ci accade anche per
la storia del- l'intiero genere umano. Ma che abisso in- tercede fra
l' osservazione degli atti che si svolgono palesemente alla luce del
giorno, e il riconoscimento delle intenzioni che giac- ciono nelle
regioni occulte dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto
a intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia
capaci di osser- varne le azioni; ma bisognerà avere almeno
un po' delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si
vuole penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo
! agire rimane un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci
manca la chiave, Non accade diversamente con i grandi fatti della
storia spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti
davanti agli occhi dello storico; ma le intenzioni giacciono in
profondità molto recondite. In queste profondità deve pene- frare
colui, che vuol procurarsi la chiave per la comprensione. Orbene,
l'iptenzione di un’a- zione giacerà tanto più profondamente re-
condita, quanto più questa azione avrà im- portanza e quanto più ampia
sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita quotidiana
non è difficile a penetratsi. Ma non può essere così, naturalmente, di
azioni, la cui portata abbraccia una serie di secoli. Chi a ciò pon
mente giunge a presentire che cosa siano i Misteri: giacchè in
cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi fatti dell’
umana evoluzione, involgenti il mondo intero nella loro portata. E
coloro che conoscono queste intenzioni e posseno con ciò conferire
alle proprie azioni stesse \ quel peso che le rende realmente efficaci
per lunga serie di secoli, sono gli /niziati. Solo chi nella storia
del mondo scorge unicamente una mèra successione di casi fortuiti,
può negare l'esistenza dei Misteri e degli Iniziati. In tal caso non c'è
che da attendere che un uomo siffatto si ponga un bel giorno a
studiare con occhio amorevole i fatti della storia. Allora un po’ per
volta albeggerà al suo sguardo un significato, un nesso, ed egli
finirà per non più conside- rare Tortuiti quei fatti storici, come non
con- sidera automa un individuo che veda muo- versi ed agire.
Giungerà così nella sua in- vestigazione là, donde gli Iniziati
dirigono il progresso umano, secondo le conoscenze the sono avvolte
nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer,
i 40 dad x x £ > it hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W;
7 Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi
di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti coloro, che non si fermano
alla vita estrin- seca dei fondatori delle varie religioni , nè alle
vicende storiche del propagamento delle loro dottrine; ma che, invece,
cercano di elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di |
religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il fatto che queste intenzioni
rimangano av- volte in arcana oscurità e vengano comu- nicate
soltanto a degli eletti entro le scuole di sapienza, che sono appunto i
Misteri; giacchè si fa opera saggia solo quando a un individuo si
comunica ciò che egli può capire, o, con altre parole, quando gli
si comunica qualcosa, soltanto quando egli si sia messo in
condizione di capirla. Per com- piere azioni che abbiano peso e valore
oc- |_——corre possedere un’alta sapienza, e per ap- propriarsi
un'alta sapienza bisogna passare per un periodo lungo e arduo di
prepara- zione. Così avviene nei Misteri. L’ evoluzione
spirituale dell'umanità pro- cede innanzi per opera delle varie
religioni e cosmologie. Chi coopera a questa evolu- zione mette in
movimento le forze spirituali degli uomini. Bisogna che egli conosca
le leggi da cui dipende questo movimento, DE: pri come
deve conoscere le leggi della chimica chi vuol mescolare le
sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono insegnate le
. leggi supreme della vita spirituale; viene in- _ segnata la
chimica dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere , o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro
che cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi-
rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/ Cristianesimo
esoterico, (0 I Misteri mino- ré) », di un “ lato occulto delle
religioni , A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane- 1%
simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa
luminosamente si addentra e trascina. d il lettore nell'intimo
della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro-
| Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven- gono date
al mondo da uomini più saggi delle masse etniche , alle quali le
religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi pure
«Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso
l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri
sia Pe i Dul th h Ha DI ire _ eSleeml J > Uibftsore
» Sé Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino
agli individui e avere in- fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono
î tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione
potrebbe venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su
ognuno asLelo api dei quali si trovano
uomini. I massimamente evoluti stanno di un gran tratto più su dei
meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A rattere; ad ogni grado
varia la capacità di 4 .. comprendere egualmente che quella di agire.
} E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE _ segnamento
religioso; quel che gioverebbe all'uomo d'intelletto resterebbe
inintelligibil all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e in
estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì ferente il delinquente...2
LE La religione deve essere graduata con l’e- = voluzione,
altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB: Es. Chr. pag. 3-4): ;
Il modo, dunque, in cui il maestro di re- : ligione parla a uomini di
grado evolutivo i - . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e
(1 . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per
riuscirvi bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo
della sa- "i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè
que- sto nocciolo deve essere tale da renderlo capace di parlare ad
ognuno secondo la sua comprensione. Perciò chi studia i discorsi
degli Istruttori religiosi dal loro lato este- riore, conosce soltanto un
lato e precisa- mente quello più estrinseco della loro sa- pienza.
Acutamente accenna a questi fatti Edoardo Schuré nel suo libro sui “
Grandi Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri di sapienza:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da
quello investigatore intuitivo, da quel nobile artista dei
pensiero, da quell'anima satura di pro- fondo sentimento religioso ch’
egli è. Così nell'introduzione al libro egli espone il suo. modo di
vedere : “ Tutte le grandi religioni hanno una sto- ria
esteriore ed una interiore; l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria
esteriore sono da intendersi i dogmi & i miti pubblicamente ©
insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono- sciuti nei culti e nelle
superstizioni popolari. Per istoria interiore è da intendersi la
scienza profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire dei grandi
Iniziati, profeti o riformatori che hanno istituite, sorrette e propagate
le reli- gioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si
legge dovunque, si svolge alla vista di tutti, ma non per questo è
meno oscura, complicata, contradittoria. — La se- ‘conda, che io
chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei misteri, è
difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa, organica,
sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata la
storia della religione eterna e universale. In essa le cose
mostrano il loro rovescio e la co- scienza umana il suo diritto, mentre
la sto- ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa
seconda storia cogliamo il punto ge-N netico della religione e della
filosofia , che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8, per
mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T} unto è costituito dalle verità
trascendenti. N vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene
prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della RES 1; RARO
provvidenza mediante i suoi agenti terre- stri. ,, Questi “
messaggeri terreni , lavorano nell'officina Spiritualistica, nel
laboratorio spi- ritualistico della umanità. Ciò che li abilita a
questo lavoro sono le leggi imperiture della chimica spirituale ed i
processi chimici spi- rituali che esse operano: vale a dire i
grandi prodotti intellettuali e morali della storia del mondo. Ma
ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine della
sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro anime,
immagini e simboli proporzio- nati all'intendimento di coloro, che ad
essi porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle
condizioni, che garantiscono la comprensione e il “ reffo uso » della
sa- pienza superiore, questa può venire dischiusa. E allora. nella
Iniziazione mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali
motivi spirituali, con le potenze genitrici della esi-
stenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com- penetrato
di siffatti sentimenti: Clemente Alessandrino, lo scrittore cristiano del
2° e 3° secolo della nostra èra , il quale prima del suo battesimo
fu un “ Misto ,, ossia A EE un
alunno dei Misteri, esalta questi con le seguenti parole : “O
veramente santi Misteri! O puris- sima luce! Una face viene portata
dinnanzi a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono
santificato, allorchè ricevo la consacra- zione. Gli arcani però .me li
rivela lo spi- rito primordiale e suggella in me l’Iniziato con
l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io
vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce- rimonie
iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu pure, e con
le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa carola
attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno spirito dei mondi, e
la favella che a te dal Cosmo viene inspirata intonerà gl'inni di
lode a questo Tutt'Uno ,.. . Si comprende la descrizione che fa
Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini- ziati devono
parlare di sè come lo fa Cle- mente Alessandrino con le parole
suriferite: “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre- cia, i
Misteri di Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente
noti, al- meno di nome, come le parole d'uso fami- liare. Persino
nella forma estremamente at- tenuata dei Misteri eleusini il loro valore
viene altamente magnificato dai più eminenti uomini della Grecia, come
Pindaro, Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E nei
Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento del sapere, alla sola
spiegazione di cose ignorate, ma alla elevazione di tutta la na-
tura umana, di modo ch’ essa si compene- tri di quella “sacra
disposizione iniziatica, che pone in grado di comprendere le fonti
e principi del Cosmo. Il mistico non solo conosce le cose superiori, ina
oltre a ciò la sua propria natura si fonde con esse. Egli deve
quindi essere preparato al fine di po- tere accogliere come si deve le
fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel no- stro
tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò che è
scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere che,
circa le cose supreme, quello, che im- V. Esot. Chr. pag. 21, a
porta veramente è una disposizione d° a- nimo. Per tal modo si fa
della cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è
per il Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'o- recchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore ; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc
di- sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza come un “
Sacramento ,. Solo chi intende ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’
alto della quale discendono certe espressioni del Mistico, come
quelle di Filone: « Sovente, allorchè mi_riscuoto dal sopore della
corpo-4% reità_e rientro in me, distogliendomi dal mondo esteriore,
e penetro dentro me stesso, . scorgo una mirabile bellezza ; allora io
sono certo di essermi internato nella parte mi- gliore di me; metto
in attività la vita vera, sono unito col divino e in lui fondato, e
conseguo la forza di trasferirmi nel mondo trascendentale. Quando, poi,
da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’
elemento spirituale del mondo, discendo nuovamente alla consueta formazione
di pensieri, allora mi domando come potè avvenire che l’ anima mia si
impigliasse nel vivere quotidiano, posto che la sua pa- tria è pur
quella dove testè mi sono sof- fermato ! “ — Chi sa quale grado di
puri- ficazione del sentimento e della funzione intellettiva sia
necessario per arrivare a sen- tire così conosce anche le ragioni per
cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non può essere
oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei di- vini messaggeri e debba costituire,
come dice E. Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in
fratellanze appartate. Ma, quan- tunque questa immediata comprensione
della verità rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo,
pure tutti gli uomini parteci- pano dei benefici della sapienza. Come
i benefici delle ferrovie elettriche ricadono su tutta la
popolazione, pur restando monopolio degli elettrotecnici la
conoscenza delle. leggi Pe così avviene, quanto ai frutti, ella
efficacia e della sapienza dei Misteri, E come il beneficio delle
cognizioni tecni- che si traduce nelle istituzioni esteriori
della civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e
distribuisce nel contenuto spirituale della vita dell'umanità: cioè
nei suoi miti, nei concetti informatori delle sue credenze e delle
sue religioni, nel suo mondo di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì
nelle sue idee di morale e di diritto, e da ultimo anche nella sua
attività artistica, nelle sue scienze e nelle sue filosofie. Il
Mistico mostra «che la sapienza più profonda della umanità è la
radice di tutti questi vari con- tenuti della vita, rendendosi ben conto
che essi tutti possono trovare la loro vera spie- gazione soltanto
in quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che
“ un uomo può avere la fede seriza posse- dere eru Izione ,, ma al tempo
stesso pro- clama essere impossibile che un uomo senza sapienza
comprenda gli oggetti che vengono spiegati nella fede , (v. Besant, Esot.
christ. pag. 84). Ogni Mistico conosce questo vero rapporto
fra Fede re e sa che tra i due non può esistere contraddizione j ma
anche alla Mistica egli può fare riconoscere valore unicamente sulla base
della vera scien- za. Anche di ciò parla Clemente: ... Alcuni
che si ritengono favoriti da na- tura, non desiderano di occuparsi nè di
filosofia, nè di logica; anzi essi non deside- rano di studiare e
imparare la scienza na- turale; essi_ richiedono nuda fede
soltanto... Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui che tutto
mette a contributo per la verità, così che traendo dalla geometria e
dalla mu- sica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa, ciò che
è utile, difende la fede da ogni as- salto..... Quanto è
necessario per chi desidera par- tecipare dei poteri di Dio il trattare
filoso- ficamente soggetti intellettuali !.... ... Lo
gnostico (Mistico) si vale del rami dello scibile vene di esercizi
ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr. Pag. 84). Chi ha colto questo
profondo accordo della Fede col Sapere si trova costretto a rile-
vare sempre di nuovo una caratteristica pe- culiarità della nostra
civiltà moderna, la quale ha invece scavato un abisso tra Fede e
Scienza. E. Schurè accenna a questo abisso fin dai periodi
introduttivi del suo libro : “Il peggior male del nostro tempo è
il mostrarsi la Scienza e la Religione come due forze nemiche e
irreducibili. Infermità intellettuale questa tanto più perniciosa
in quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma
sicuramente, in tutte le mem- bra, come un veleno sottile che si
respiri nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritel- ligenza
diviene a lungo andare infermità dell'anima e in conseguenza un male
so- ciale. “« Fintanto che il Cristianesimo non fece
che affermare ingenuamente la fede cristiana in seno a una Europa ancor
semibarbara, come era nel medio evo, esso fu la più grande delle
forze morali, e ha plasmato l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la
scienza sperimentale , apertamente ricostituitasi nel secolo 16°,
non fece che rivendicare i legit- timi diritti della ragione e l’
illimitata sua libertà, essa fu la più grande tra le forze
intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari
catene, e fornito la mente umana di fondamenta in- crollabili
,,. Non meno energicamente Annie Besant accenna a questa
peculiarità della civiltà spirituale moderna. Per ognuno che studi
l’ultimo imme- diato quarantennio del secolo passato è chiaro che
persone meditative e morali sono in gran numero esulate dalle chiesé
perchè gl’ inse- gnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro
intelligenza e il loro senso morale. E' vano pretendere che
l’agnosticismo così ue. largamente diffuso in questi tempi abbia
ra- : dice solo nella mancanza di moralità o in È; una deliberata
involuzione della mente. Chiun- A que attentamente studi gli esposti
fenomeni, ammetterà che uomini di forte intelletto sono stati
allontanati dal seno del Cristianesimo per via della rude goffaggine
delle idee re- ligiose loro presentate, delle contradizioni negli
insegnamenti delle varie autorità, nelle vedute circa Dio, l'uomo e
l’universo, idee n che nessun intelletto colto e metodicamente ;
disciplinato potrebbe di leggeri accettare ». a (A. B. Cris, esot. pag.
32-38). Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in questa
direzione ? , Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che anche la
radice del Cristianesimo giace in una sapienza oc- culta e che la
Fede deve, quindi, per sus- I sistere risospingersi a questa radice:
“ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi- i co vere, deve
ricuperare il sapere che ha e ria- d | vere la propria Mise € l propri
insegna- sd cculti; deve di nuovo erigersi come. ‘un istruttore
autorevole di verità spirituali, ma rivestito della sola autorità
meritevole .. x * ' Me, ù
Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè,
della conoscenza. Se questi insegna- menti ‘verranno recuperati, la loro
influenza sarà subito constatabile nelle più ampie e più profonde
vedute che si avranno circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci
ed impacci, saranno riconosciuti subito quali parziali presentimenti di
realtà fonda- mentali. In primo luogo il Cristianesimo esoterico
riapparirà nel /uogo santo, nel Tem- pio, così che tutti i capaci di
riceverlo pos- sano seguirne le linee di pensiero palese, e
secondariamente il Cristianesimo occulto ri- discenderà nell'adito celato
dietro la Cortina che custodisce il « Sancta Sanctorum , in cui può
entrare l’ iniziato soltanto. (A. B. Es. Chris. Pag. 40-41).
Mediante il senso della vista l'uomo per- cepisce la natura con
cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della luce
solare che, riverberati dagli oggetti, ne determinano gli aspetti
cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione
della luce solare sia una funzione abituale dell'occhio, tuttavia questo
non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce: Sole; esso viene
accecato dal contatto im- mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò che
‘ 0° néi suoi effetti è adeguato al compito quo-
tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof- ferenza, quando, come causa
in sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giu- sto
modo questa immagine alla vita spiri- tuale dell'uomo, comprende perchè “
coloro che sanno » parlano di “ pericoli » della Iniziazione ai
Misteri. Cotesti pericoli esi- stono innegabilmente; se non che, chi
ne parla non va preso alla lettera, interpretando la parola «
pericoli ,, nel senso usuale. La intelligenza e la ragione umana sono
tanto poco assuefatte a riconoscere le fonti del vero nel complesso
totale del mondo, quanto poco è capace l'occhio di fissare
direttamente il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon- denti gli
effetti delia luce, così intelletto. e ragione sentono a sè rispondenti
gli effetti della sapienza eterna nei fenomeni della na- tura e nel
decorso della storia degli uomini. Ma come l'occhio viene meno.
di.fronte.alla sorgente stessa della luce, così l'intelligenza
umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri- mordiali della sapienza. Questo
umano inten- dimento nel subito arretra, rinuncia. Or bi- sogna
assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’ uomo , al fatto
dell’ ab- bacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3
fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e
nell'attività dello spirito soltanto il riflesso della Verità, e non
questa imme- diatamente , egli viene meno di fronte alla verità
stessa, quando questa gli si presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la
realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo sente le
manifestazioni della sapienza supe- riore come illusioni, come
costruzioni di una fantasiosità irreale: esse non gli possono dire
nulla, sono per lui come forme aeree che svaniscono quando egli le vuole
afferrare, così come è solito afferrare gli oggetti della realtà
consueta. Questa lo avvince a sè con mille lacci; ciò che essa gli può
promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez- zare in mille
modi. Chi qui vede giusta- mente, comprende che cosa intendano dire
le leggende religiose quando parlano del Tentatore, che promette tutte le
magnifi- cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo- gliono
intraprendere il sentiero della illumi- nazione superiore. Se noh è
risvegliata in. loro la forza di resistere a cotesto Tenta- tore,
essi cadono inesorabilmente in sua ba- lia. Con ciò si accenna a quel che
s'intende per “ pericoli della soglia ,, che occorre varcare, se si
vuole calcare il “ sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a
que- sto sentiero se non intende valersi dell’ oc- chio spirituale,
dell'intelletto e della ragione, diversamente da come vengono
adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla
soglia come un trasmutato, come "°° uno, il cni°occhio spirituale è
stato raffor- zato; ed è singolarmente difficile nell’ età nostra
attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto
dalla nostra scienza esso viene rivolto o a.ciò che è concreto li
tangibile. Per compiere le sue conquiste nel campo delle forze naturali
esteriori que- , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco alle
potenze spirituali dell’esistenza. Non si fraintenda tutto ciò,
prendendolo per un rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l
canismo di un orologio non ha certo biso» i} gno di risalire con
l'indagine fino ai pen-/! ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ;
egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla
[RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo stesso
meccanismo. a nessuno può com- preridere come le forze e le cose
che coo- perano nell’ orologio siano state originaria-
mente combinate, se non va in traccia dello | spirito che le
ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così
com- f frze Tmnon © SEXI ma ) fe | fa
meda; meo N el Mm NK ke -- bt re e € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo
fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a È Logan Foe.
SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può
comprendere giu- stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le
cerca anzitutto le forze con cui essa opera. "° Se afferma che
queste si sono combinate | ® cudl da sè, assomiglia a colui che non si
perita Y0Me flat di pensare che un orologio si sia conge- gnato da
sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il
trasferirlo alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è, non
colui che cerca l'inventore dell’ orolo- gio, ma colui che
nell’orologio stesso im- magina ‘uno spirito , il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono
accusati di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono oggi
riguardati come turbapace, perchè compro- mettono i “ benefizi , che la
nostra coltura scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _
velato da. preconcetti saprà a chi si vuol alludere nelle due categorie
citate). Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d accesso alla
visione superiore, se vuole riu i " scire ad avanzare, deve essere
provvisto della 2 sN forza che mena ad avvertire il Reale là
dov@mnn l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x
i T] x > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti
Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in — 54 — x gono
soltanto fantasticaggine ed illusione. . Giacchè il perenne e
l'eterno sono appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al
transi* torio e temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed
illusione. Nessun utile, dunque, risentirà un uomo che venga con-
dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa- pienza colgalo
corredo.della.sua intelligenza rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo
grado d Iniziazione non consiste nell'impartire un nuovo sapere
intellettuale, ma nella com- pleta trasmutazione delle forze
conoscitive dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo Scuré
descrive nei suoi “ Grandi Iniziati , il cammino di chi tende al “ Sapere
, me- diante i Misteri: ALE « L’ iniziazione era a
leaneno r, le di futfo l'essere umano _ad ascen- lere le vette
vertiginose dello spirito , dal- l'alto delle quali si può dominare la
vita..... , E più innanzi egli dice: “«“ Per giungere a
questa padronanza l’uomo ha bisogno di una totale rifusione del
pro- prio essere fisico, morale e intellettuale. Or- bene, questa
rifusione non è possibile se non mediante |’ esercizio simultaneo
della volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè il loro
completo accordo l’ uomo può svi- } ;) I
Fapiecinia TX. iNalonta Ponso ;
I he sli luppare le proprie facoltà fino a limiti
in- definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini- ziazione li
risveglia. Mercè uno studio pro- fondo e un'applicazione costante l’uomo
può _ mettersi in rapporto cosciente con le forze occulte
dell'universo. Con uno sforzo por- entoso egli puo raggiungere la
percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri che portano.
all’olt a, al superfisico, e di- venire capace di regolarvisi. oltanto
allora può dire di aver vinto il destino e di es- Sersi conquistato
fin da quaggiù la propria tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato
può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a dire veggente
e formatore di anime. Infatti soltanto colui, che comanda a se
stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è libero può
liberare ». (Opera cit.). La missione dei Misteri va
intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro primo grado.
‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della produzione di nuove
forze | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,
ivenire un altro, prima di venir condotto al Sole spirituale, alla
sorgente della sa- pienza. Colui, le cui forze non sono temprate allorchè
pone il piede sulla “ Soglia ,,, non sente la realtà dell’eterne. potenze
spirituali, (}. che quivi gli si fanno incontro. In luogo di —
entrare in rapporto con_un mondo supe- riore egli ricade nel mondo
inferiore. À que- sto pericolo trovasi esposto chi va in cerca
delle sorgenti della sapienza. Se egli soc- combe, allora ha
temporaneamente ucciso in sè l'eterno germe. Questo era per l'in-
nanzi dormente in lui, ma, pur così dor- mente, era tuttavia ciò che
nobilitava la passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed
inconsapevole, l' individuo viveva con questo rudimento di
spiritualità superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-
ziazione quel latente rudimento JÉne. di- strutto. All'individuo non
resta che l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere
«Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito
come_illusorio il “ divino spi- rituale , , egli divinizza il «
sensibile_mate- riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può andare
perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte immortale.
Que- sto è il pericolo analogo all’ accecamento dell'occhio nella
similitudine su riferita. E' ovvio che coloro, cui nei misteri
in- combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei |
Rito fonda consapevolezza della propria respon- sabilità,
estremamente esigenti verso i disce- poli, giacchè tali esigenze dovevano
servire a temprare nel senso indicato le loro forze spirituali. E. Schuré
descrive la scala gra- duale della Iniziazion ‘a_praticata I
riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.) e-la sua descrizione
è tutta improntata di geniale senso d’arte e di mistica profondità.
Mi appoggerò appunto ad essa per parlare di quei gradi iniziatici.
Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co- loro che offrivano
sicurezza di riuscita per la costituzione appropriata della loro
natura intellettuale, morale e spirituale. Per costoro cominciava
allora il periodo della « Prepa- razione ,. Per molti anni essi
diventavano itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede
autorizzato a giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche
cosa, 0, torse anche più sovente, quando non ha an- cora imparato
nulla, non è punto facile ren- dere simpatica l’idea" quel lungo
udito- rato. All'uditore era imposto il più assoluto silenzio,
inteso non nel senso esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì
nel senso di | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere
del tutto spregiudicatamente l’istru- due crilica
PESTO, gp zione, senza turbare questa
spregiudicatezza con una prematura analisi critica. Il saggio
sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un certo tempo non_.era loro
Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era appunto ciò
che occorreva per renderli maturi all critica. Come è possibile che
impari vera- [mente chi vuole immediatamente criticare \{ quel che
apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno
reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere i gradini
della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo sa.
Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano intoppi su tale
strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche. Il nostro
tempo è tutto pieno di questo_im- maturo spirito di critica: basta
osservare in- torno a noi ciò che i nostri oratori dicono e ciò che
i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo un pò di
spirito pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove decimi di
quanto vien detto e altret- tanto rimarrebbe non stampato di quanto
vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è
ap- piccicato in testa un paio d'idee, si crede autorizzato a
sputar sentenze e giudizi sui sel RARI TESE, soggetti
più essenziali. Invece un tale di- ritto spetta soltanto a chi abbia
imparato a contenere per anni il suo giudizio e a por- gere ascolto
spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate
tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace norma dell'anima di chi non è
maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale pro- prio nulla,
nulla affatto di fronte alla Ve- rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto
esa- minare dalla verità stessa. Invece di dire: “ Io esamino tutto
e voglio tenermi il meglio » , molti dovrebbero dire : “ Io voglio fare
esaminare me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono
per essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi non si è esercitato per
anni ad adattare, a inal- veare la propria vita in questo illimitato
ab- bandono al giudizio delle sagge guide della umanità, non
arriverà mai a formulare giu- dizi che siano più che fumo e vacua
riso- nanza. Pa Una norma siffatta è certamente invisa
in questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui dominano la pubblica
criticaglia, e lo spi- rito gazzettaio ; invece gli uditori
pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Rag- giunta la
voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena:
acli Neg giunto per lui il “ giorno d'oro ,,, col
quale cominciavano le rivelazioni sull'essenza della natura e dello
spirito umano. A poco a poco i gli si faceva comprendere la “ zomìa »,
le 4 B:, ” leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1
Voglia afferrare questa romia col non raffinato intelletto ordinario non
ne com- prende nulla. Il Goethe una volta accennò a questo.
Allorchè nel suo viaggio per l'I- talia e per la Sicilia si era dato con
tutta lena allo studio delle piante, e si era for- mato quelle sue
vedute tanto citate ma tanto poco comprese sulla_“ pianta archetipa
, scriveva in. Germania che avrebbe voluto fare un viaggio in
India, non per scoprire qualche cosa di nuovo, bensi per guardare
a_Suo..modo_.il già scoperto» Quel che im- porta, appunto, non è il
conoscere le leggi messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi
bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’ intima essenza della
vita vegetale. Si fica essere un erudito professore di botanica e non
capir nulla di questa vita vege- tale. | nostri scienziati hauno
veramente delle strane idee a questo proposito. Essi o cre- dono
che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della natura, o
affermano che la nosira indagine non è ancora fanto avan- Db
zata. Essi non sospettano che con questa indagine mediante i sensi
e l'intelletto pos- sono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico le
nostre cognizioni, ma che per investigare (| « interno ,, è, invece,
necessaria una ma- niera di pensare tutta diversa da quella che
essi mettono in pratica. Non vogliono sa- perne dell’ “ inventore
dell'orologio ,,, men- | tre studiano l'orologio alla stregua dei
prin- cipi della fisica. Poichè non possono tro- vare nell'orologio
nessuno “ spiritello ,, che spinge avanti le lancette, o negano lo
spi- rito, che ha congegnato le ruote, o asseri- scono che esso è
inaccessibile all’umana co- noscenza, 0 del tutto o “ fino ad oggi
,. Chi parla dello spirito della Natura viene accusato di
sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua se gli accusatori non
sen- tono in ciò altro che parole! I discepoli pi- tagorici, al
secondo grado della loro istru- zione, venivano introdotti nelloSpirito
della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo grado,
potevano venir condotti alla “« grande Ini- ziazione ». A questo punto
erano maturi per accogliere in sè i “ Segreti della esistenza »; il
loro occhio spirituale era ormai sufficien- | temente vigoroso;
oramai non apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito delia
na- i tura, ma anche le intenzioni di questo spi- i rito. Da questo
punto in poi non sì può più i parlare dei Misteri col solito linguaggio,
ma soltanto per via d'immagini, giacchè il no- (a stro linguaggio è
tutto adeguato all'intelletto | e non ha parola adatta alla conoscenza
su- È periore, di cui qui ci occupiamo. In questo È senso va inteso
pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-
prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro- pria esistenza personale. Da
ciò traeva l' e- sperienza che quella sua vita era la ripeti- iS .
zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare “ anima , nel giusto
senso della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le
vicende e le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi
come effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti.
Egli si rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita presente
dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire. i ; Su
ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione di parlare in
altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della “
Rincorporazione , e della “ Legge cosmica », ovvero, in altre parole, della “
Rin- carnazione , e del “ Karma ,, (1). Queste verità
potevano divenir convin- zioni per il discepolo dei Misteri, come è
verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; per- chè al terzo grado il
discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un
giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si
è ormai acquistata la capacità di compren- derne giustamente il
significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si
criticano tali concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono
soltanto le arbitrarie , concezioni dei critici stessi, che non
hanno alcuna importanza. Del resto, però, si deve anche pienamente
convenire che pure molti seguaci della idea della rincarnazione non
hanno di essa concetti migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti
coloro che oggi difendono queste dottrine, le comprendono
veramente. Anche tra questi difensori ce ne sono molti che sono troppo
scansafatiche 0 troppo.... « consci di sè » per apprendere in
silenzio prima di far da insegnanti. 0° (1) Cfr. dello stesso
autore gli scritti maggiori Teo- sofia — Scienza occulta — e i
minori Azione del Kar- ma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. LL
NEI Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era, però, in
altri Misteri, dopo la grande « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della
vera “ Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto l'osservare e
il pensare, ma tutto il vivere conscio veniva esteso oltre l'immediata
per- sonalità dello individuo. Per essa il discepolo non diveniva
soltanto un sapiente, soltanto un veggente. Egli ormai non percepiva
l'essenza delle cose, ma la viveva con esse. Molto arduo è dare una
idea di ciò, di cui qui si tratta. Il veggente non ha soltanto la
sen- sazione degli oggetti, bensì sente regoli og- getti stessi,
trasferendosi nel loro interno; egli non pensa circa la natura, bensì
esce di se medesimo e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo
un procedimento noto al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi
dei sensi astrali ») (1). L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi
debbono esser per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha
senso per le loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente
parlare in loro non più una persona umana, bensì la stessa Saggezza
vivente. Essi hanno fatto olocausto delle (1) Cfr. dello stesso
autore: « Come si acquista co- noscenza dei mondi trascendentali
v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni per-
sonali per poter prestare la propria bocca all’eterno Verbo, “« mediante
il quale fu- rono fatte tutte le cose ,. Giacchè dove parla ancora
l'opinione umana, dove cam- _ peggiano ancora inclinazioni’e interessi,
ivi tace la sapienza eterna. E quando questa giunge all'orecchio di
coloro che non ‘hanno ancora sentimento per essa, appare loro
soltanto come personale parola umana, per quanto in essa possa chiudersi
una forza divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero
imparare ad “ ascoltare », giac- chè il veggente fa tacere la sua umana
per- sonalità quando a lui parla la voce della Ve- rità. Il suo
giudizio tace, i suoi interessi, le sue inclinazioni gli stanno dinanzi
altret- tanto insignificanti quanto il tavolino che ha davanti a
sè: egli è tutto assorto nel- | l'ascoltazione interiore. . Solo il
veggente ascenderà al grado suc- cessivo, che gli antichi chiamavano
del " Teurgo » e che nella nostra lingua può venire designato
come quel grado, in cui si opera una “ completa riversione , delle
facoltà umane. Forze che, di solito, afflui- scono nell'individuo da/ di
fuori, ora si ef- fondono da /uîi. In certi campi, nei quali
5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un dominatore
colui, le cui facoltà sono “ tra- smutate ,. E poichè solo il veggente è
in grado di giudicare la portata e la maniera “a d’'agire di
coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in possesso senza aver raggiunta la
purità _ del veggente, ne farà mal uso. E questa do «
sapienza senza purità ,, è possibile a causa w di un cencatenamento di
circostanze, di cui <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla
Ini- ziazione superiore, a proposito dei Pitago- rici, E. Schuré ha
il seguente magnifico passo : 1 i BRANO Abbiamo, seguendo
Pitagora, toc- +. cato la cima della iniziazione antica. Da dr
questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come
un astro morente. \\*® Di lì si schiudono le prospettive sideree e
eri dispiega nel suo meraviglioso complesso | Le * Scegatao ii a n
1 la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4*
scopo dell'insegnamento non era l’assorbire VITA l'individuo nella
contemplazione o nell'estasi. È le regioni incommensurabili del
Cosmo, li UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri
pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti e meglio temprati
pei cimenti della vita. I, Il Maestro aveva condotto i
discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da
quei î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza
doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più
ardua, giacchè ora per il discepolo si trattava di far discendere la
verità nelle pro- fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in
azione nella pratica della vita. Per raggiungere questo scopo
ideale oc- correva secondo Pitagora riunire tre perfe- zioni: avere
realmente la verità nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel
corpo. Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare
al corpo là purezza che si richiedeva non come scopo, ma come
mezzo, | Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e quasi un
imbratto nel corpo astrale, vivente | organismo dell’ anima, e per
conseguenza anche nello spirito... A questa altezza l'individuo diviene
un adepto, e, se possiede bastante energia, entra in possesso di
facoltà e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in- terni
animici, e la volontà si riversa radiosa negli altri sensi.... (vedi E.
Schuré op. cit. Cap. 8). Di tutto ciò che l'uomo compie prima
di raggiungere questo grado, le cause sono da ricercare in regioni a
lui completamente sco- nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece, |
spazia in coteste regioni, e “ in perfetta consapevolezza , egli irradia
da sè quanto nell'uomo dorme di solito “ inconsciamente , nelle più
profonde latebre dell'anima, Egli trovasi a faccia a faccia con la
sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto in- visibilmente da “
tergo ». Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb- bero leggere
periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il
Mundakopanishad: “ Quando il veggente vede l'aureo Creatore, il Signore,
lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che ha gettato
via merito e demerito, raggiunge immacolato l'unione suprema ».
Alle vette, dunque, che vengono così con-. quistate drizza lo sguardo E.
Schuré; e la mistica fede nella fulgida forza di codeste vette gli
conferisce la capacità di trapassare. alcuni dei nebulosi veli che
nascondono la. vera natura delle grandi Guide dell'Umani tà. Ciò lo
rende capace di descriverli, questi “ Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna, Ermete,
Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone e Gesù. A grado a grado da coteste
Guide sono state irraggiate nell'umanità le forze a_ seconda della
maturità raggiunta dal genere umano nelle diverse epoche. Rama
condusse alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero
le chiavi nelle mani di al- «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora
additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta
Sanctorum ,, l'intimo sacro. penetrale. Sarebbe sciupare tutto il
singolare incanto del libro dello Schuré il volerne rac- contare il
contenuto, nel quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè.
Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra- mite del Fondatore del
Cristianesimo le forze della sapienza dei Misteri sono state
riversate nelle vene spirituali dell’ umanità in forma tale, che le
orecchie dell’ umanità hanno potuto udirla. E anche in questo ter-
reno la verità deve essere cercata pei sen- tieri che E. Schurè ci
presenta. La forza . che s' irradia dalla personalità di Gesù, è
forza vivente nei cuori di tutti coloro, che la lasciano fluire in sè
stessi. Comprendere la vivente Parola che in questa forza agi- |
sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave, mercè la comprensione
della sa- pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per — quanto è
possibile, il fondamento A. Besant | col suo “cristianesimo esoterico ,.
E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato delle
parole bibliche si svela al lettore che tutto vi si
abbandona, Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai
no. stri giorni. L'umanità era in condizione del F tutto diversa
dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, “l'annunzio gioioso.”Oggidì l’in-
telletto ha ben altro allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’
uomo ‘può trasmutare in vita propria la forza vivente della “
Parola palese » soltanto se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la
propria facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero
eternamente, anche se il modo come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel
corso i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio- 7555 }cinio
facciano valere i propri diritti è una necessità ; chi conosce
l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà oggi
all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato dato ad altre forze
dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe
scaturire l'attività del vero teosofo , e così vuole essere interpretato
il “« Cristianesimo esoterico , di Besant. Il teosofo sa che nel
Cristianesimo c'è la Verità, e sa al- tresì che Gesù, nel quale s'incarnò
il Cri- ‘sto, non è un “ Duce di morti , bensi un “ Duce di vivi ,.
Il teosofo intende la grande parola del Maestro: “ Io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £
@ÈS te, non a quella dei ragguagli storici, si ri- volge
anzitutto chi, come A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che
la “ Pa- rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al- l'orecchio
che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua luce sul
racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della Parola è
rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo intendere la lettera
dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di- scorsi.
“Le buone novelle » debbono essere intese “ esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è “ Santo ,,. E poichè
l'intelletto e il razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà
d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe- rati dai lacci dell’ intendimento
puramente sensistico , della comprensione meramente “ positiva ,
della realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità , giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le “ illusioni ,
di cui il sentimento religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo
dell'intelletto abbagliato e inceppato dai successi riportati nella
nozione ALI: 000 e nel dominio delle forze puramente
mate- riali della natura. Gli uomini del presente e con essi i
nostri fisici, i nostri biologi e i nostri storici, si credono Ziberi nel
loro mondo intellettuale unicamente edificato sul fatto positivo.
In Verità essi vivono sotto l’azione di una Suggestione dominante
su tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre- ste diventare voi
fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri
concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del mondo, di sforia umana
e di evoluzione della civiltà, non sono altro che « sugge- \stioni
collettive ,. Un giorno vi cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto
speri- meénterete fino a qual punto è verità e non . errore quel
che voi pensate dell'elettricità e della luce, della evoluzione animale
ed umana; giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar- dano le
vostre asserzioni non come errori, ma come verità. Infatti anche la
vostra in- terpretazione della natura è per loro una “ professione
di fede », e quando essi di- cono “ di volere cercare il nucleò della
ve- rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non solo riguardo a
Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed
Hickel, ay ( (A E opere come queile
citate di Schuré e di Besant sono destinate a togliervi la
benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle “ vostre
suggestioni ». Conseguentemente, in libri siffatti quel che importa
non è tanto il loro contenuto let- terale, quanto le occulte forze che
mossero la penna dei loro autori e che si trasfon- dono nelle vene
dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo “
senso della verità ». 1 lettori che subiscono il giu- sto effetto
di tali libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo ,
diremo così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come
alla asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,
invece, qualche cosa di più che una va- cua frase, potrà anche
comprendere, come — libri siffatti gli vengano presentati non già
per allettarlo a fare una delle solite letture, ma con l’altra ben
diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati
scritti, debbono suscitare in lui forze dor- menti, anche se a tutta
prima coteste forze possano essere soltanto quelle dell'arimia in-
tellettiva. Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera Iniziazione,
che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori
, evitando di passare per l' intel- letto, mon capisce nulla dei “ segni
dei | tempi , e non può far altro che porre sug- sa gestioni nuove
al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the
Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure –
we were into initiation!” Giovanni
Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione,
iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia,
il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione
di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione,
iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colazza” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colecchi: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo italiano. Grice: “What I love
about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent
Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte
dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna
alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in
Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a
Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi
italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata
di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini
e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi,
un assertore del criticismo kantiano in Italia.
Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi
colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge
morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla
intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o
l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità
formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in
raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica
e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una
logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un
rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di
filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza
del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia,
Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi
al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici,
Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi
sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura
italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica,
Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura
italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di C. (Tip.
Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della Accademia
Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione
pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo e matematico:
nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile,
Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori,
Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium»,
Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la Calabria e
la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini,
La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della
filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla
tomba della setta italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del
Lazio – la lingua romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello
forse BRUNO ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia,
spezialmente nella scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve
allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se
non che l’uomo di VICO rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA.
Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo
per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la
ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera
mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto.
Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto
universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre
delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma,
si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella
storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del
medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di
tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per
ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia,
tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto,
a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale,
educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione
de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il
senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le
ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia
positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del
poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con
la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO,
pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a
poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle
lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il
dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo
si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a
Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà
de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del
Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala,
va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e
non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo
nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla
virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant
-- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e
Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice
ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione
geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della
giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone.
L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la
quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide,
trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente
ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non
fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco
Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue
da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per
fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza
importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita al
positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne,
inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono
due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è
l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della
legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua.
equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa
vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere
con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono;
il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da
Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al
diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che
tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono
patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero,
e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto
delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo,
si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano,
con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta
risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco
fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore,
conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine
in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il
creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia.
Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede
il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di
Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale
diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in
istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti
questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO,
v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico
diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì,
un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo
contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande,
il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso
il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi
nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in
ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico,
in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da
altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la
familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si
facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO,
chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI,
la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE,
con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo,
la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia
risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio
di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza
de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore,
il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come
vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con
l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento
colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si
può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da
quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli,
altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge
stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è
necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora
che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza
si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello
stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o
secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro
autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i
più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e
che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione
infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si
conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di
perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar
l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà:
nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli
scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non
può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente
con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the
splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy
anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought
DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry.
Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey,
after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where
Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his
daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a
number of small states, independent of each other, and consequntly subject to
frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is
the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia
himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus
sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,
succeeds to the kingdom, and to him Silvius, a
second son,
^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king
of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi
of the kingdom in consequence of his father's
will, had a brpther named Amnlius,
to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As
riches but too generally prev^ against right, Amolins made
use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top
ossess himself of the kingdom, ot content
with the crime of usurpation, he added that of
murder also. Nnmitor's sons first fell
a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being one
day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his
brother's only daughter, to become a vestal
virgin, which office obliging her to perpetual celibacy, made him
less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are
all frustrated in the event; for Rhea
Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring
grove, was met and ravished by a man, whom, pei^tqw to
palliate her offence, she avers to be MARTE, the god of war. Whoever
this lover of hers was, whether some person
had deceived her by assuming so great a name, or
Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain
it is, that, in due time she was broug:lit to bed of two boys, who were
no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is
condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated
their chasti^, and the twins are ordered to be flung into tbe riverTiber.It
happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion,
that the river had more than usually
overflowed its banks, so that the place where the children
are thrown, being at a distance from thei main cnirent, the water is
too shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they
continued without harm; and that no part of
their preservatioD might want its wonders,
we are told, that they were for some time suckled there by
a wolf, until Fanstulos, the king's herdsman,
finding ihem exposed, brought them home to
Acca Laurentia, his wife, who brought
them up as her own. Some, however,
will have it; tiiat tbe nurse's name
was Lnpa, which gaya rise to the
stoijr vt their being nouriihed by a
wolf; but it is needless to vfad
Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba%
fian 'venevntB vbtfe die vkote « omgrowB
with ftUe. Boraoloa and Bemna, Ae
twins thtu strangely prcwcved. Memed eariy
to diacover afai)iti«i uid desiret above
the me«i- noH of thor aapposed
origiiuL The ahepkenl's life be^an to
di^leaae them, aod fnaa tending the
flock, or hantiag wild beasts, they
soon tnmed their strength agsinst the
robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their
feUew-shepherds. In one of these ezcmnons
it was that Remus is taken priaoner by
Nvmttor's berdsmen, who bring him before the
king, and aoensed him of the very
crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^
informed 1^ FaiiBtaliu of his real birth, was not
remisa in assembling ft munber of hia
fbllow^epherds, in order to resooe bis
brother from posoD, and foroe the kingdtmi from
tbe bands of tbe nsnrper. Yet, being too feeble to act
openly, he direcs bis followers to assemUe near the place by different ways,
while Beniiis with eqnal vigilaooe
gm&ed npon tbe dtiuua within. AmalioB,
tfans beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to
thinkof for bit seoiuity, was,daring hia
amasenent and distraotion, taken and daio, while
Numitor who had been deposed forty-two years, recognised bis
grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor being
tints in qvet posiewion of the
kingdom, hot grandaou resolred to bnild
a eify npoo those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda.
The king had too many oUigations to
them not to approve their des^; he
appointed tbem lands, and gave pennisnoB
to .snoh of hia subjects a» thoo
proper to settie in their new colony.
Many of the neil^draariiig shejdierda also,
and sncb as were fond of change,
lepabed to the intended dty, and
prepared to raise. For the more speedy oarrybg on
this work, the people were divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat
what was designed fi» an advantage proved
nearly fatal to this infimt oolony: it gives
birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who
themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To
terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from
the flight of birds; and that be, whose ome should be most
favoorable^ afaonld in all reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both
take their stations npon diffra«nt hilk.
To Remus appear six vultures, to
Romulus, twice that number, to ttwt
each party thongfat itielf viotoriovi, the
one tiaviog the *first* omen, the
other the most nnmeroiu. Tbifl prodnoed
a contest, whitdi ended ui a batde,
wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was
kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over
the city wbU, itrack him dead upon tbe
qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla
withim punity. Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age, b^an
the fonndation of acity, that was one day to give laws
to the woild. It was called Rorne after the
uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was
at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was
near a mile in compass, and commanded a small territory
ranod it of about eight miles over.
However, smallas it appears, it was,
ootwithstandiiy, vone inhabited; and the
first method made uae of to increase
its numbers vaa the opemng a
sanctosry for all male&otors, slaves, aod
snch as wm« desirons of novelty. These came
in great multitudes, and cootibated to
increase the number of our legtslatoi'B new
subjects. To have a just idea ther^re
of Rome in its infant stale, we have only
to iwsgine a coUec- tion o( cottages,
sairotinded by a feeble wall, rather built
to serve as a military retreat, than
for the purposes of civil >o- cie^,
rather filled with a tnmoltuoas and vicious
rabble, thaD with subjects bred to
obedience and control.We have only to conceive men bred to
rapine, Iwing in a place that merelj
seemed calculated for the security of
plonder; and yet, to our astonishment, we
shall soon find this tumulbioas coocouise
unit> ingin the strictest bonds of
sode^; this lawless rabble putting OB the most sincere regard
for religion; end, thouf^ composed of the
dr^s of mankind, setting examples, to all
the worid, of valour and riitne.
Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB mm tbe city
rnsed abore iti &niid«tioB. vhen Hs
rade mhalulsBtB hegaa to tfauik of
gmag some fonn to their. MoslitBtioii.
Their first object was to unite
lifoer^ and em- pire; to fonn a
kiod of mixed monncby, by irfaicfa
all power vw to be dividad between
the prince and the peopte. Bo- nlna,
by an act of great geoeromtf, left
them at liberty to dwose whom they wonld for dieir
king, and tliey in gnrtitiide eoBcmred to
elect their founder; be was accordingly acknowledged as chief
of dieir religion, sovereign magistrate of Rorne, md geoeral
of Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he
should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes
tied op in a bnadle of rods, who were
to serve as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots with an idea of
his authority. Yet stUl tUa aKiboriQr was
ondw very great restriotii»ig, as his whole
power CMisisted in caQing the THE SENATEsenate
togedier, in assembling the peo< pie,
io condoctmg the army, when it was
decreed by the other part of the
constitation that they ahonld go to
war, and in k^ pointing the qnestors,
w neainrers of the pnblk: money,
<^ficers which we may soppose at
that time had but very Ktfle
eni^oyment, as neither the soldiers nor
magistrates recrived any pay. The senate,
wluch was to act as cosnsellors to
the king, was composedof an imndred of
the printnpal cttisens of Bune, oODStsting
of men whose age, wisdom, or valoor, gave them natoral
an^toiitf over titeir feUow-«ab|ect8. The king named
the fint senatw, and appointed him to the
government of &e atj, whenever war reqoired the geoeial's
absence. In dds neqiect^e assembly was transacted
all the important boainesa of the slate, the king himself
presiding, ^thongh every question w'as tO'be determined
by a minority of voices. Ai^ they were supposed to liave a parental
affection for die people, they were called
latbMS, and their descendants patricians. To the
pafericiaits belonged all ttte dignified
oiBees of tlie state, as well
r,o,i,,-cMh,. as of tiie imesfbood. To these
the; were appofaited by the senate and the
people, vhile the lower ranks of citizens,
wlio were thns excluded from all
views of promotion for thenseUes, woe to expect
advantages ou^ from their ntloiir in war,
or their assidiiity in agriculture. The
plebwms, who composed the third part of the
legi»- la^oce, assumed to tbemselTcs the
power of aathorising' those laws iHiicb
were passed b; the kia^ or the
setwle. All tUi^ x^ative to peace or war,
to the electi<Hi of magistiatei, and
even to the choosing a king, were
confirmed by their sufiragea. la their
namMmu aaaomblies. all mterptises against
the enemy were proposed, while the
senate had onij a power of rejeotiog
«r approving their Aemfpit. Thus was
the ststa composed of three orders, each
a check np<»i the other: the
people resolved whedier the proposals of
the king were pleasing to them, the
senate deliberated upon the expediency of
the measure, and the king gave vigour
and spirit by directing the execBtion.
Bat thov^ the pei^le by these
regulations seemed in possession of great
pow«, yet th«re was one cdr-onmstaace
which c<nitiibuted greatly to its dimmntion, nara^,
the rights of patronage which wece
lodged in the smate. I^ king,
sensible that in every state there
must be a 'dependaoee of the poor
upon the powerful, -gave permission to every
|:4e- beian to choose one among the
senators for a patron. Tke bond between them was
of the strongest kind; the patron was
to give [woteotion to his client, to
assist him with lus advice and
fortune, to plead for him before the
judge, and to rescue him from every
oppression. On the other hand, the
climt attached himself to the interests
of his patron, assisted han, if poor,
to portion his daughters, to pay his
debts,, or his rmuom - in case
of being, taken prisoner. He was to
follow him on every service of
danger; whenever he stood candidate for
an office, he was obliged to give
him his sufi&age, and was proUbited from
giving testimony in a court of justioe
whenever his evidence affected the
int^ests of his patron. These reciprocal
dotias were held so sacred, that any
who violated them were ever after
held infamous, and excluded 6x»n all
the pro- tection of the taws : so that
from hence we see the senate in effect
possessed of the snffirages of &ea
clients, nnce all that was left the
people was <Hily the poww of
choonng what patron Ibery should obey.
Amoaf a nRtion m> tMibstont and
fierce as the first Romans, it was
wise to enforce obedience ■t &6
most reqnidte dnty. lie first care
of the new-created king was to attend
to the interests of religion, and to
endeavour to hnmantse his subjects, by the
notion of other rewards and pnnishnients than diose
of hnman law. The precise form of
their worship is nn- known; bat die
greatest part of the religion of that
age con- siMed in a firm relianoe
upon Ae credit of their soothsi^ers,
irito fvetended, from observations on the
flight of birds and the entrails of
beasts, to direct the present, and to
dive into fntmrity. This pioos fhrad, wbich first
uvse from ignorance, soon became a most
usefnl machine in the hands of
government. Romnlns, by an express law,
commanded, that no election should be
made, no enterprise undertaken, witfa- flat
first conaolting die soothsayers. With
equal wisdom he •rdained, that no new
divinities should be introdoced into pnhlic
worship, that the priesthood should
continue for fif, and that Aone shonM
be elected into it before the age of
fifty. ' He fort>ade them to mix
fable witb the masteries of their
reUgion; And, timt they mi^t be
quaKfied to teach others, he ordered
Aat tiiey should be tiie iHstoriographns
of tiie times; so tiia^ while
instructed by priests Bk^ these, the people
cordd never degenerate into total
barbarity. Of his other laws we
have but few fragments remmnii^. In these, however,
we learn, that wives were forbid,
upon any pretext whatsoever, to separate
from tbeir husbands; wUle, on
the contrary, the husbaod was empowered to
repudiate the wife, and even to put her to
death with the consent of hef
retatioQB, in case she was detected in
adultery, in at- tempting to poison, in
making false keys,. or even of having drank
too much vine. His laws between
children and their parents w«'e yet
sdll more severe; the father had
entire power over his offspring, both of
fortune and fife; he conid ■ell them
or imprison them at any time of
their lives, or in any ttations to which they
were arrived. The father might expose
his clnldren, if bom witii any deformities,
having previoasly eommunicated bis intentions
to his five next of kindred. Our
lawgiver seemed moze kind even to his
enemies, for his subjectswere prt^hited from killing
them after they bad surren- dM«d, m
even from sdling them: his ambition
only aiaied at .,Coo<^lc r
of luB ateaaeB i^ mak After M>
many endeaToiiTs to inoraase bia BnbjeotBi
aad m mmy Inra to r^nlate them,
he next gave ordeis to ascertna tbeir
numbers. Tbb whole amoanled bat to
three tbooMnd foot, and about as many
bnndred horsemen, capable of beari^ arms.
These, therdbre were
divided equally into three
tribes, and to each he asiigaed a
different part of the taty. Each of
these tribes were sabdivided into ten
cmin or compame, consiBting of an hundred
men each, with a oentnrioB to command
it, a priest c^ed curio to perform
the sacrifioes, and two of the principal
inhatntants, called duumviri, to distribute jnstioe.
Aocordijigly to the number of ooriv he
dividedthe lands into thirty parts,
reserving one portion for public uses,
and another for religiaus ceremonies. Tbo
«m- ■phaty and fingality of tha times
will be best iindeistood by observing,
that dach citizen had not id>ove two
ictea of ground for his owB subsistence.
Of the horsemen mentioned above, dtere
were chosen ten from eei^ curia;
tfaey were particularly appointed to fi^t
round the person of the king; of
them hU gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or fhuB the
>ame of their first commander, ^ey
were called ceUrat, a word equivalent
to our light horsemen. A goremmcot
thus wisely instituted, it may be
suppoaed, nduced numbers to come and live
under it: each day added to its strength,
maltitudes flocked in from all the
adjacent towns, and it only seemed to
waqt women to ascertain its du- ration.
In this exiaeiatx, Romulus, by the advice
of the se- nate, sent deputies among the
Sabines, his neighbours, en- treatingtheir
alliance, and upon these terms- ofiering
to cement the most strict confederacy
with them. The Sabines, . who
were then considered as the moat
warlike people of Italy, r^ected the
proposition with disdain, and some even
added raillery to the refusal, demanding,
that as he had opened a sanctuary
for fugitive slaves, why he had not also
opened another for prostitute women. Tbis
answer quickly raised the indignation of
the Rpmans; and the king, in order to
gratify their resentaient, while he at
the same time should people hb ci^,
resolved to obtain by force what was
denied to intrea^. For this purpose
he proclaimed a feast, in honour of
N^tane, diron^ut all the nMghboitring
villagea, and made the meet KAPB
OF THK BABINBS. t mmgaiAMat
pnftamtkmi for it Tbets feuta wen
guan^ preceded by sacrifices, and ended
in' shows of wreeden, ^ft- diaton,
and chariot-^onrses. The Salnnes, as he
had expected, were among the foremost who came
to be spectalon^ fannging their wives
and daughters with them to share t^
pkasore of the sight. The inhabitants
also of maaj of tht ueig^hoariDg
to^os came, who were received by the
RomaM with marks of the most cordial
hospitality. lo the mean time ' the
games began, and while the strangers
were most intent upon the spectacle,
a number of the Roman yonth rushed
la mnoag them wiUi drawn swords
seized the yotingedt and meet beaatilid
women, and earned them off by violence. ,
In vain the parents protested against
this bre&cfa of hospitali^; in vain
the virgins themselves at first opposed
the attempts of th^ raviBfaers;
perseverance and caresses obtained those
&• TOWS which timidi^ at firstdenied: so
that the betrayera, frma being objects
of aversion, soon became partners of
their dearest affections. But however the afiront might have been botne by them, it
was not BO easily pnt
up by their parents; a bloody war
ei^ sued. The cities of Cenioa,
Antemna, and Cnutuminm, wen the &at
who resolved to revenge the common
cause, which the Salnses seemed too
dilatory in pursuing. These, by making aeparate
inroads, becamea more easy conquest to
Romulus, who first ovothrew the Ceoinenses,
slew dieir king Acron in sio combat, -and made an offering of the royal spoils to
Jupiter Feretrius, on the spot where the
capitol was afterwards built The Antemnates
and Crustuminians shared the same. fate;
their armies were overthrowu, and their
cities takes. The conqueror, however, made
the most merciful use of las victny;
for instead (rf destroying their towns, or
lessemi^l tbent nnmbeis, he only placed
colonies of Romana in them, to. serve
as a frontier to repress more distant
invasions. Tattos, king of Cures, a
Sabine city, was the last, althou^
the most formidable who undertook to cevuige the
disgrace his country had suffered. He
entered the Roman territoriea at the head
of twenty-five thousand men| and not content
with a superiority of forces, he
added stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the commander of. the
Cajutolme hill, happened to &11 into his hands,
as she went without 4>e walls of
the city to fetch water. Upon her he
prevailed, by meant of hrga
pttuSaet, to bebrajr aae of the
^^ates to his army. Tlie i«<irwd
she eagdgei for was vfaat the
soldiers wore on their atteB, by
vfaich the meaot their bracelets. They,
however, cotber miataking^ her meaning, or
wiUing to panish her peifidy, ttvew
tlieir bncklera upon her as they
entered, and crushed ber to death
beneath them. The Sabines, being thus
possessed of the Capitoline, had the advantage
of continning the War at tbeir
pleasure; and for some time only slight
enconnters passed between them. At length,
however, the tedionsness of this contest
began to weary out both parties, so
that each wished, but neither would stoop to
sue for peace. The desire of peace
ofteii gives vigour to measures in war
; wherefore boUt sides resolving to
terminate their doubts by a detMsive
action, a general engagement ensued, which was
renewed for several days, with almost
equal success. They both fon^t for
all that was vEduable in life, and
neither could think of submitting: it was
in the valley between the Capitoline and
Qui- rinal hills, that the last
engagement was fought between the Romans
and the Sabines. The engem«it became
general, and the slaughter prod^ioua, when
the attention of both sides was suddenly
turned from the scene of horror before
them, to (mother infinitely more striking. The
Sabine women, who h^ been carried off by the
Romans, were seen with their hair loose
and iheir ornaments neglected, fiying in
between tbe combatants, regardless of their own
danger, and with loud outcries only
solicitous for that of their parents,
their husbands, and their cUIdren. "
If," cped ihey, " you are
resolved upon daughter, turn your atma
upon us, since we only are the cause
<tf your animosity. If any must die,
let it be us; since if oar
parents orour husbands faU, we must be
equally miserable in being the surviving
cause." A spectacle so moving could
not be resisted by the combatants;
both sides for a wtiile, as if by
mutual impulse, let fall their weapons, and
beheld the distress - in silent
wnazement The tears and entreaties of
thdr wives and daughters at length
prevaUed; an accommodation ensued, by which
it was' agreed, that Romulus and Tatius
should t«ign jointly in
Rome, with equal power and prerogative;
diat an bailed Sabines should be
admitted into the senate; that the
city should still retain its farmer
name, but that As citizens should
bctdled Qnirites, after Cures, the
principal town of the Sabines; and that both
nations being thus united. 11 •aoh
of the Sabtees u i^ose it shoiM
be sdnAted to Bniad eDJoy all
the privilegea of citizens oi Rome.
llaH erery •torm, vhich seemed to
threateo this growing empire, only served
to increase itvigour. That army, wfaich in
die mondug had resolved upon its
destruction, came in the evetlin^ with
j(^ to be enrolled uiDoag the number
of its ctttzens. RomfoloB saw his
dominions and his sul^ects increased by
more then half in the space of a
few hours; and, as if
fortune meant every way to assist his greatness,
Tatins, his partner in the govem-
ment, was killed about five years
after by the Lavinians, for having
protected some servants of his, who
had plundered them and slain their ambassadors;
so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.
Rome being greatly strengthened by
this new acquisition of power, began
to grow formidable to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts for
war were not wanting, when prompted
by jealousy on their ride, and by
ambition on that of the Romans.
Fidena and Cameria, two oe^hbonring cities,
were stibdoed and tAken. Veii also, one of the most
power Ail states of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey sued
ftM* a peace and a league, which
was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their
salt-pits near the river, and
hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with
those limits which had been wisely fixed to his
power he began to affect absolute sway, and to govern those
laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience.
The senate was particularly displeased at
his conduct, finding themselves only used
as instrom^its to ratify the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get
rid of the tyrant: some say
that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he
disappeared while reviewing his army:
eertain it is, that from the secrecy
of the fact, and the concealment of the body,
tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld
not bear as a king, tbey were contented to
worship as a god: Romnlns reigned tlnrty-seven
yean, and after his death bad a temple
built to turn under the name of Quirinus, one of
the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had
appeared to hm, and desired to be
isTtAed by that tide. We see little
more in the obaraeter of this princ,
than vhat mi^t be expected in andk an a^,
great temperance and great valour, wbich
generally make np the catalt^e of
sar^^e virtues. Howeva, the gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates
in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng'
hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy
enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico,
as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and
perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!”
-- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore,
Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand
knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di
Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in
Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario –
Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove,
etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma,
diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la
passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression
arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di
Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima
universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il
vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione
sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero
arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione,
l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di
equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia,
Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto
sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res
pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato
dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali,
padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di
Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colletti: l’implicatura
conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like
Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum,
not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and
Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista
Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici,
Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel,
Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio
Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su
Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo"
del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari,
Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e
non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle
ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a
oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano,
Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della
filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca
di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza
Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza
Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il
marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero
per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo
contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà,
Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri.
C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana. C.
su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV
legislatura, Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek
Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e
dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista
apparsa sulla “New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana
dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza
tra opposizione reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione
dialettica. Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza
contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den
Widerspruch). La opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella
quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e
per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente
ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro.
Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali,
non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé,
nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e
della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton
genon. L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun
opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La
cosa più importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […]
nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi
sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente)
Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti
reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto
dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria
dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e
identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e
quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno
un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e
cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del
Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione,
contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È
rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove
l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la
divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della
storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx,
accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um
die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in
den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog.
dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit
versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der
Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert:
„Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die
metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen
Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb
Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in
dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das
zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant
widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen
führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke
aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die
dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von
Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das
meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein
dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen
Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der
keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie].
Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode
stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie
selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches
Quadrat Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte
keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen
Aussagentypen verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen
kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr
noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide
unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der
Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für
die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf
die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau
dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein
können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem
Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn
nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der
Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen
den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein
Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches
Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi
figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi
(disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma
antica. Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre
Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno
di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di
rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori
spargimenti di sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli
figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si
sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non
erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana;
propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella
versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono
uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio,
che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà,
pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva
previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra
loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità
differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito
e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da
ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu
facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di
Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella dell'Orazio
superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò
violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla
tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che
da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º
ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le
libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di
Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo
ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì,
secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri
perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase
repubblicana). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente
intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina -
nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia
moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi
e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età
augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero
state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio
della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si
trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi",
ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi. Nella realtà la guerra
fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio,
venne squartato. C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel
territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia. Orazi e
Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che
i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala
degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli
Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di
Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la
cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi
di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano,
eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three
Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici
scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto.
Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi,
film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda
dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie
"L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo
Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per
regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna
delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe
Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei
fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei
Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche
del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe
condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti
Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub
iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana
in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma
Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia
famiglie romane che condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli Orazi
dipinto di Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more
seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s
distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical
contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the
principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian
language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s
the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in
modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario,
l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio,
dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.
Grice e Colizzi: l’implicatura conversazionale
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo italiano.Grice:“By
focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the
stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical
word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and
Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!”
Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso
attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua
filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto,
totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è
emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo
dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che
il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo
concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente
neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi
dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo
principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè
il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of
conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda
l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de
sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con
i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce,
così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il
“de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una
volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica
copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi,
sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica,
cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni
uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De l'infinito, universo
e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia
ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed eresia: il problema
storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia
(CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla
regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici
furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi Edizione di
riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi
filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura
italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion
del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo
Seconda parte de gli Eroici Furori Letteratura italiana Einaudi Al
molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Letteratura
italiana Einaudi Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI
EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa
veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno,
d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero
circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più
vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo
cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo,
or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di
perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di
tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del
cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti,
quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’
faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una
inde- gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto,
dico, degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo
teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto
numerosi suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli,
amanti, coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza,
destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e
gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che
trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super-
bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine,
avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir
veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli
eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to
dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri,
messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un
fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi-
grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite
consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli
antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far
exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel
busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel
dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto,
quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel
sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello;
quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella
carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che
con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo
ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La
quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è
bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente
è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante
sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no- stra madrigna natura;
la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a
paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un
dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti
a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che
fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il
sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse
ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre
paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo
tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo
la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri
predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri
successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi
nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano
possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir
voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi
trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia
degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na
volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio
considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo
d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti
gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e
sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte
istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar
il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or
vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque
voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio
conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato
a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne,
benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli
denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et
amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per
tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non
hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura
italiana Einaudi 4 Giordano Bruno - De gli eroici furori quel
splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente
nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante
oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che
caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo,
perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri,
ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e
raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et
altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come
non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove,
Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii,
sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio
finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto
eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi,
che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li
sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo
pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il
quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini
et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo
(per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de
le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal
ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per
usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come
essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente
che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli
de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio
divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la
nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni.
L’altra Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori per la grande
dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque
medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e
l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse
più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure
sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di
sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe,
quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’
denti che paio- no greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli
che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo
poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et
occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de
similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli
accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime gli usati poeti, son simili
a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia,
a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe
esser persuaso che la fon- damentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata
da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il qua- le appresso per
forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di
convertir qualsivo- glia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transfe-
rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che
piace a chi più comodamente è atto a sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì
tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma
pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per
giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io,
non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente
Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e
potrebbe meglio dichiarar che lui Bruno - De gli eroici furori se fusse
presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che
nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono
absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi
essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi
eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli,
sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto
vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai
delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una
donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a
pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di
quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla
natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti
in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace
pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano
far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella
vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo
che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co-
sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia
fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco
poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e
non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e
forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose
megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno
il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato
amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato
delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie
de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali,
de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del
martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir
altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e
possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore)
qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de-
gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es- sere e sono
particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore
ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in
tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come
sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile, non si deve né può
intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso:
perché non son femine, non son donne, ma (in si- militudine di quelle) son
nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le quali è lecito di contemplar
quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio no- minare.
Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et
ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve
essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e
vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere
attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui.
Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato
amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de maniera che se gli fanno servi
con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’ani-
ma intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et
onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e
farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando
passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente
riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno,
parere e de- terminazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano
et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare
contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non
de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è
divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel
Primo dialogo della prima parte son cinque arti- coli, dove per ordine: nel
primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura
del mon- te, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché
chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte
importunamente si sono offerte: on- de vegna significato che la divina luce è
sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri
sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella
Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum,
respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual spesso per
varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta.
Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti,
instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso
nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in Dio. Nel
terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima ben
informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che
sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde disse
la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres
mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là sono
esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la
Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de
tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et
organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale
contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o
per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni
diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi
d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto
l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione
del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà:
la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde
e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti in se stessi,
non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si con-
tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra
la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel
secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appul-
si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate
contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende:
anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle
diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me, viene
insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de l’intelletto,
che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e
delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di questa Repu- blica cossì
turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore, l’ucellatore, la fiera,
gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento
de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto.
Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è
mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e fortune. Nel primo articolo
per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel
secondo quanto al continuo e non remittente con- corso de gli affetti. Nel
terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al
volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi.
Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di sua fortuna, studio e
stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e
compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque
dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un
seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo
sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo
viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della
angustia e brevità del tempo. Nel terzo ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli
quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto,
questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annu- volato da quelli. Nel
quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima
mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pre-
tende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto
che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un
termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien
messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui
ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la
distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose ester- ne et
interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se
medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita
ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi
conturba il flusso o reflusso della complessione vegetan- te, ma l’anima si trova,
in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui
l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine
delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca
dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso
alto. Nel duo- decimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine
imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso:
ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato
il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli
ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo
confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator
est maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente
espresso quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel
Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello,
specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese
sotto l’amo- roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza,
studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri-
sposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e
modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la
volontà è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla volontade,
procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se
l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza
appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto
quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per
il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo
che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in
gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”;
onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in
prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in
conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la
potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza
vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è
infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en-
te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima
cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le
nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e
potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è
no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo
cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e
concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari-
mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto
che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del
sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla
moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è
designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne
impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co
visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne
indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è
notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza
discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che
proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual
vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e
cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta
la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che
per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata
Letteratura italiana Einaudi 14 Giordano Bruno - De gli eroici
furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a
gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non
possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza,
e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né
favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la
sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli
ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del
giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti
giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de
l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri.
argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono
introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non
sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser
dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e
dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si
trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici
della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di
chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la
fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e
cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra
significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la
volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità
de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra
le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa
similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da
Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve
ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et
in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si
signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso,
il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori
più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e
proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste
intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici
che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano
sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle.
Medesima conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes
ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno:
rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è
significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene
per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione
voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora
è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una
et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende
secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse
raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse
cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de
particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato
appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti
sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura
italiana Einaudi 16 Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella
eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti
teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta.
E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli
Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è
vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da ricalar
a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie,
grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con- fermo per
convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et
instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar
questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni
e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser
divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re-
frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne,
che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar
gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per veni-
re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la
raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi,
or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade,
or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno.
All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la
qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da
quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con
l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza
d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir
ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura
italiana Einaudi 17 Giordano Bruno - De gli eroici furori causa
d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si
bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo:
«Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e
contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or
che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro
mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo
cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe;
perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia
effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma
commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il
firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano:
quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un
tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è
progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da
una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che
sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là
s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario
delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de
l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di
vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto
divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è
quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro
flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine
intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale
è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è
per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a
discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la
sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza
appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui
salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove
intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si
contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra;
perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo dell’inferiore,
perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via
de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più
chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso,
infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi
in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le
sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’
mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion
della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano
l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio-
ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la
divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita
bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose.
Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad
essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non
vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti
altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et
il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale. avertimento
a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui
piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda
parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel
medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi
tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di
me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20 Giordano
Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi,
benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano
gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f
significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2:
correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30:
homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et
inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li
7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se
quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15:
suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio
core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice
quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi
si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21:
XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5,
f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto
infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea
la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2,
li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si
mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1,
li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove
spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De
le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21 Giordano Bruno
- De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre
dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in
schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che
femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive
mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in
ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né
vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole,
dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole.
L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte
faranv’ossequios’il studio e l’arte.
PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23
Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori
Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri-
mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine
a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse
che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole
ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi
mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura,
àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o
fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo,
avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in
vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più
caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come
deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può
trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia,
ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e
difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi
24 Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco,
gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla
contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però
come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con
più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui
rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so.
Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et
alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché
da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta
ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è
avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro,
che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro
ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione.
cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo
Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se
nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re,
dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che
degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia
speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio
exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti
e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di
vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser
determinate certe specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi
25 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti
de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi-
dio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da
colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole
di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e
specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente
poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a
delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi
dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero,
Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver
propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana
Einaudi 26 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han
torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti
alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno
principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano
la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola
con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto
e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per
censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che
essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri
poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son
altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per
rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi
render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a
dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde
l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no
essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti
et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da
tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie.
Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de
pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e
leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali:
e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di
quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da
scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate.
Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in
diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e
potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con
cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel
tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso
dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi
“nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate
profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo
“inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte
sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte”
in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli:
cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di
morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal
cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le
necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la
gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti
gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: [1] In luogo e forma di Parnaso ho
’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a
tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi
fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et
acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi,
Letteratura italiana Einaudi 28 Giordano Bruno - De gli eroici
furori non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi
dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei
pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen-
do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”,
dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno
gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende
l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il
furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno
illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri
per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò
che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha
doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto
del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste
una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon
di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien
che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico
l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì
l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2)
Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola
io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco
m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade
umana che sie- de in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione
governando gli affetti d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli
émpiti naturali. Egli con il “suono de la tromba”, cioè della determinata
elezzio- ne, chiama “tutti gli guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le
quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o
pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri
verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti
“sott’un’insegna” d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna
chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che
procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla
raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non
possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse
bando a questi: pro- cedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri
con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto riguarda”, a cui è volto con l’in-
tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga “ingombra la mente”. “In una sola
beltade” si diletta e compiace; e dicesi “restarvi affiso”, perché l’opra
d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là sola- mente
concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di
perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè dolcemente si consuma in uno amore.
cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre
caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte
Letteratura italiana Einaudi 30 Giordano Bruno - De gli eroici
furori ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivis- simo è
potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada
Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché
paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è
absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e parti-
cipazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno
l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte,
l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional,
la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il
toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il
spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di
guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi
piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la
caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar
il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo-
rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor
de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la
“sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et
indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che
la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31 Giordano Bruno - De gli
eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il
suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la
gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non
biso- gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo
dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e
colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de
referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata
piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso
ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù
d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco
vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e
raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal
diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e
strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna”
per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men
degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di
quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et
impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si
pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce
ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia
dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura
italiana Einaudi 32 Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme,
segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei
si dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per
freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e
niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione
vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono
nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia
sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa
al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che
l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più
bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non
d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te
chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo
senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal
volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso
amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere
talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio
l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre
particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo
Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non perché egli per sé sia
tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso
che in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più
purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto,
promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza,
per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son
la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii
sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito,
anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che
gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di-
spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che
l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo
inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani;
ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E
con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente,
amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella
matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché
cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la
sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de
l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende
ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria,
perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di
lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate,
che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion
o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34 Giordano Bruno - De gli
eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e
più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più
nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud-
dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non
ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi-
ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui
medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte
per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi
mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non
rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto:
qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del
sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa
penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo
il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver
discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e
per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel,
terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col
trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo
vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se
puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché
ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura
italiana Einaudi 35 Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra
dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose
altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie
via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non
concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è
lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché
questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica,
principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non
farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia
bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso
languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per
forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te
intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce
l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser
rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente.
“L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova
oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera-
zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di
guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da
quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le
fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso
continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica
sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte
far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me
l’impenne, lui brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36
Giordano Bruno - De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive
l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e
lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un
vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e
triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol
ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli
altri”, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché
non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten
via fuori del mondo”, tu, Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono
potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei
altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del
medesimo. Reste dum- que lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do-
narmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di
morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una
contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io
d’Amore”? Se questa faccia, questo ogget- to è l’imperio suo, e non par altro
che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima nor- ma;
l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra
impression che la sua: per- ché dumque dopo aver detto “nobil faccia”, replico
dicendo “vago amore”? tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli af-
fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza
o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo,
gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e
sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da
gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e
l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo,
odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al
ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io
chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di
questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna
affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che
nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser
vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è pu- ro
vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde
avviene che gli successi de li no- stri affetti per la composizione ch’è nelle
cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di
più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso
che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura
italiana Einaudi 38 Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è
causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si
trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e
piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo
non, come senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico
poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras
respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la
composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo,
eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel
maggior grado del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla
appren- sion del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro;
gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di
quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è
figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede
che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa
medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi
de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi
aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico
è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del
futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto
e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni:
«Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre
del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada Volete dumque che colui
che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo
Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre
peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo
è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi?
quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No:
ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il
bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto,
mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de
l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette,
né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle
voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente
il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi-
derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le
cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che
vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto
a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal
contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente
confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è
partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non
tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse
veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men
alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non
fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico,
intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi-
nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li
contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii,
perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono
ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini.
cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno
vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude:
perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là
dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la
minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in-
differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più
freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con-
tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella
casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo
forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per
venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente
parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma
come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in
un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo
gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada
Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo
eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è
nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha
l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti
desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core
per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne
l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri
ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella
misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava
la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma
s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue
passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver
letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius
animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum
aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi,
qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto
(ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene
triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan
lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto
e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta
de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto
o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana
Einaudi 42 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con
questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in
stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si
tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli
estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser
virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede
dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove
convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco
dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte
morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è
morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo
di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la
considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza;
è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli
suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e
fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal
contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog-
giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e
confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion
l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente
sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in
nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si
travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è
l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno
Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43 fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché
non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è?
Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con
che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé.
Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal
follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir
tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno,
più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già
perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché
infelicemente ami: men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi,
che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e
graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno.
Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in
effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la
sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen
possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si
compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del
qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore
parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la
già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa
amata. Dice dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa
alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma
d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con
ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più
contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro.
Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento,
che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe
e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico:
perché si propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la
inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina
quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre
spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro
a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie
d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi-
derazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella
delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella
concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo
che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che
con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si
moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso
l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno
e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son
compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal
raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o
speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal
modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano
magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose
divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca
e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a
fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e
grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de
tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della
cui lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che
presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione,
amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46
Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare non
più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da quella
grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del
pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che
quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un
simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi
ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della
bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio
del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e
non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza
del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che
di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali
mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso,
se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio
tormento”. tansillo Poneno, e sono più
specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non
mo- strano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino
insensato; altri consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono
alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie
perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et
operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e
tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima
indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso,
come in una stanza purga- ta, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno
può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de pro- pria raggione e senso,
perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per
pro- prio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino
per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali
degnamen- te ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili
alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da
uno interno sti- molo e fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate,
della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio
dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade
accendo- no il lume razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e
questi non vegnono al fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma
come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi
megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé:
perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et
efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li
sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede
in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si
considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al
proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in
esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son
negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure
farsi perfetto con transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un
raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine
affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intel- lettuale del
buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di
sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et inve- stirsi
de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal
contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de
cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che
comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente
teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero
alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et
atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordi- nata
tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia
vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da
una dissonanza tanto corporale per sedizioni, rui- ne e morbi, quanto
spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze cognoscitive et
appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et im-
peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi- cinandosi al sole
intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato
e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi
pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come
inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in
quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago
or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo,
né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’ar- monia vince e
supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente
ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e
cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili
e cose materiali va compren- dendo divini ordini e consegli. È vero che tal
volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per
occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo sforzo, all’ora come insano
e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può compren- dere: onde
confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna
pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intel-
letto. È vero pure che ordinariamente va spasseggian- do, et or più in una, or
più in un’altra forma del gemi- no Cupido si trasporta; perché la lezzion
principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quan- do non puote in
specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le
fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere,
possete da quel ch’è detto compren- dere qual sia questo furioso di cui
l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor
ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien
meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno
non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio
bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché
quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in
quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali
al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfal-
la, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco,
della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma
vien guida- to da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare
più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più
que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male:
ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio
Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo
male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per
guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le
cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della
superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente
alla pri- ma verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo
e sommo bene. A quel senso io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e
d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù
convien ch’io goda, fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal
ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi
gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo
tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che
nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e
mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio.
Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e
cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno
per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si
comunica all’anime e risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio)
per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli
corpi o la corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del
spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che
veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle
dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in
certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi-
bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che
tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si
disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione,
che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et
espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da
l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà
dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante
non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come
la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel
fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non
creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo
vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di
maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non
ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion
credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore
d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma
non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi
nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’
son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e
tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro
spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla
conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi
facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire
ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia discuoperti
vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima
ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e cortesie, un amor
di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché
toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da
lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà
cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, es- sendo che non per
questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii.
cicada Però è molto propria et a proposito quella di- stinzion che fanno intra
l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè
desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo, perché sono iniqui et
ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non
meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è
d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli
ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè
ch’io son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio male». In contraria
disposizio- ne fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per
suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto,
pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il
petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e
viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio
destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa;
e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta
che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi
sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio
intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni
amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla quale com’è congionto
con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si
crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che degnissima e
nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione
la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per
il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Sti-
minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap- parenza de rio destino,
come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de
ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli gra- zie, perché gli abbia
presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale
in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la car- ne, et avvinto
da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più
altamente la divi- nitade, che se altra specie e similitudine di quella si
fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e vivo oggetto”, ch’ei dice, è la
specie intelligibile più alta che egli s’abbia possu- to formar della divinità;
e non è qualche corporal bel- lezza che gli adombrasse il pensiero come appare
in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né spe-
cie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione
di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità
istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in
questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però
non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa
esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del
senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel
qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra
cosa tanto sensibile quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel
lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae
la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella
divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver
penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla
nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto
umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con
più puri occhi la bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto
a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa
per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia;
ma se av- verà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza
incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è
volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in
questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte
da gli effetti, opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in
quell’altro stato dove sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice
appresso: “Pascomi d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì
l’anima si versa e muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada
Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel
corpo local- mente, ma come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come
quella che fa gli membri, e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo
dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura
italiana Einaudi 56 Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come
disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente
per l’operazione in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera-
zione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque
questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che
l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva
non può apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de
discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui
che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine
dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine,
atteso che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione,
in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il
vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che
possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando
è lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei
suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua,
E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol
dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere
in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto
uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo.
cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender
questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione
per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in
questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior
perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual-
Letteratura italiana Einaudi 57 Giordano Bruno - De gli eroici
furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come
dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio
per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che
possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar
l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai
perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto
l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia
presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua.
cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar
uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo
possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar
degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che
riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una
degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito
feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il
piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo,
e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi,
anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita
pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti,
temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer
(respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì
illustre morte ne destina». cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi
tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non
intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion
della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano
in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi
molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual
cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura
di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali
l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un
raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto
resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come
intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo
non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le
potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche
volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella
formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e
ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle
cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno;
quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son
trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son
figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che
dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone,
Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le
suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de
l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun
delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo
un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella
natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e
soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria
eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però
vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non
solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature,
ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto
fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che
l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle
declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette
verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa occolta
conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla
generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a
quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura
universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la
giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che
vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada
Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e
non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato,
natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate,
tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni
che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli
confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché
la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose
inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel
moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre
vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è
composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il
medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa
conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove
siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e
mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende
da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità
de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse
figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in
forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria
nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico
inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de
l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la
forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un
Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.
tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende
al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si
studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel
primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine
della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i
mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il
dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui
il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et
alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio
ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran
cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento
alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui
slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più
forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade;
ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto
umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che
l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come
lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da
pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane”
poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il
furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi-
gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto
il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la
trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali,
che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non
s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio
de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e
splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui
superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel
busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per
abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina,
d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in
medesimo geno la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere,
il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì
è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella
corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa
l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza,
l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli
Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono, s’inge-
gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è possibile, e
“dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per
l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in sé. (cicada Intendo, perché forma le specie
intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son
ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion
della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada
Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai
bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il
suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la
raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani
che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera
boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di
sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e
s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad
essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era
necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il
regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del
riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come
l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri,
corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più
leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi
più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era
un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e
fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua
finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e
comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et
ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive
la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar
solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto
t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte.
Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero
destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và,
più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede,
è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non
tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che
agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è
inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad
allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli
impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità
subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli-
candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate
quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli
com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco,
cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo
come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere-
grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che
non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e
lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che
da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone
dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire
un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il
Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie
dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come
languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al
core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata
mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte
l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano,
onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il
cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi,
accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi,
refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con
affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli
similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con-
gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può
giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in
vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso
l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso
s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre
quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in-
telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e
la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non
si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene
in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con
l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade.
Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa:
da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore
e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera.
Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può
essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è
l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad
esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a
l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse-
guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente
bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa
prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo
cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi
finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che
l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo
di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto
metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per
gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non
è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al
centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel
considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come
colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel
che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non
voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il
core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una
similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non
si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in
possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna,
perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il
richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti
sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che
hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né
favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68 cicada tansillo cicada
sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser
chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non
san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che
tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or
dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo
Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda;
vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de;
catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de
l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli
“sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali
l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le
quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace
sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente
arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde,
ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita
quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma,
e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto:
in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il
tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di
domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan
compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e
giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la
generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati
pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son
inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare
perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi
sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no
d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è
amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione,
ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il
vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che
quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro
ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio
delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro,
vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli
pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede
dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile
dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o
significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso;
o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa l’occhio
o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque si
consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri-
Letteratura italiana Einaudi 70 Giordano Bruno - De gli eroici
furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente
affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello
ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o
bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere?
Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo
Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere;
perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno:
però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada
Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più
tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e
buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser
bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la
quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se
non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di
quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in
notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco
d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto
né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o
sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o
d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap-
petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender
tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono
intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per
che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi
71 Giordano Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non
meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e
viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e
che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e
fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto
all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in
tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella
intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è
l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a
l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava
dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de
reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è
però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente
detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente o
intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta
mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da
quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più
visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di
cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo
è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri.
Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede;
perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che
tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e
bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo
informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure
desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo
vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però
vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad
attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere,
per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso
illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere,
bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto
del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose
visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque
ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri-
met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel
ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra
gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi
et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core.
Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi
lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi
n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e
guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo
scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e
fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa,
nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core,
abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo
fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po- vertà, infelicità
e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo? perché non mi soccorre
la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze na- turali
prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di specie intelligibili,
come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come
potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che
m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi ele-
mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af- fetti, intenti verso
la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio
rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intel-
ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e
l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione,
non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al
corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho
da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intel-
letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per
il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli proprii e non
secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantener- lo e
bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e vita, non a
l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere vuol
assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove
ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de
cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge
del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si
conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se
non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa
vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove
l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in
propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati
di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove.
Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e
principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de
l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è
nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi
de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non
in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che
non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et
animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la
condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare
avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse
sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu-
ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto
stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l
primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la
causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del
corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella
forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e
forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi
cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di
speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi
riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol
rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà
che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a
l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi
dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre
consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima:
atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì
qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme
col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade.
Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo
mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima-
le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale
supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle
quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi.
tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non
quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può
deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano.
Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad
una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto
séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo
che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra:
questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche
vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono
affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa dalla
material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione
d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da
questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se una bestia
avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e
l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse
impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel
camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere
presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene
introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la
mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con
tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et
ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei
possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi
convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da
lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di
cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine
di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con-
templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde
con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora
vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva
nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et
absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo,
ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate.
cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo,
invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo
corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi
de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il
rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia
corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti”
al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse
Letteratura italiana Einaudi 78 Giordano Bruno - De gli eroici
furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché
rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che
questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna
(dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è
fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei
pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a
l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo
greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada
Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito
della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio-
ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et
intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina
che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi
progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel
ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la
providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de
l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se
tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa
l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura,
viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de
mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali
grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene
appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro,
come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non
ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de
potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con
l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra
gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi,
servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza
sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva
nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal
proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari
diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto
a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et
ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura,
secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come
vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente
Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli
affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu-
ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo
ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto
o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad
essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o
secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede:
non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse
Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo
Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è
promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto mi
sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo
medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte
monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte,
conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte,
né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove
l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto
oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui
convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice
dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io
monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia
toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e
come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che
“for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli
strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et
unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito
insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da
l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi
son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando
aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li-
bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove
forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio
spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista,
non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et
arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza,
dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che
prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se
stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel
“solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che
“dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e
far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”,
cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare
è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et
inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede
da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi.
cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in
questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua
ruota. cicada Fate pure ch’io veda,
perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel
ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo
Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di
considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de
l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma
del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a
dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta
un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto
la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso
vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per
dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si
vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele-
mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza
risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde
se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a
crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi
esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se
risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del
furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco,
accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in
forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi
suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello
“At” ha Letteratura italiana Einaudi 83 II. tansillo Appresso è
designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il
cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è
una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici
furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi
dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che
è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino
lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il
petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal
cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et
ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco
qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio
pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua
si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del
furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che
fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a
l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la favilla o
debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro
essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che
perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il
tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione.
tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete
essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al
rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a
tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come
medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto
de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e
la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro
tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come
quando fia a noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico
del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte,
con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo
la di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li
venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse
in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse
lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere,
io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona
tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte:
cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto
passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de
suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a
l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica
appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni
torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi
85 Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più
si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro
ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e
calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E
benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto:
infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non
tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto
più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite
megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto
esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi-
cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il
terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che
appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie-
lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole,
e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice
Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato
per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti
di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in
aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate-
ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»:
cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua
con la Letteratura italiana Einaudi 86 Giordano Bruno - De gli
eroici furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione
et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non
fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che
non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e
vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra
specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo
della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più
vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con
intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a
l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto
refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin
fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio,
e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e
lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far
cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore,
man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in
fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire
d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal
martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché
voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o
ira de l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87
Giordano Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia
tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la
sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a
l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è
quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma
solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a
la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo
et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella
mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir
quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione
de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica
va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per
l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo-
sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore,
“non hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella
tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non
vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler
quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò
ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può
sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o
vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et
alma, Letteratura italiana Einaudi 88 Giordano Bruno - De gli
eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte.
Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla
affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e
dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mo-
sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la
fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio risolvendosi in quel
fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso
ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore,
sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di voluntade e
disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più
gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che
si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché
dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della
sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta
come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che
significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest?
tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten- dere per quel che è
scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i
tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi
nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la
vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, Letteratura
italiana Einaudi 89 Giordano Bruno - De gli eroici furori le fa
tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le
ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi
governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze
de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico essercito che si trova nel
proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge con- tra il peregrino
adversario che dal monte de la intelli- genza scende a frenar gli popoli de le
valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà
de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse
certa conversione al splen- dor de la specie intelligibile mediante l’atto
della con- templazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi
superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione
son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente
è ne l’ombra; megliormente è ne gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un
contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel
splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella
luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e
principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze ap-
prensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità
con la prossima anteceden- te, e per la conversione a quella che la sulleva,
viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la
conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta dalla notizia o apprensione
et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a do-
Letteratura italiana Einaudi 90 Giordano Bruno - De gli eroici
furori mar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta
con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente
a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita vir- tude,
rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera
intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che
nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le
quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi- litudine divina»,
divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune
alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione
et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et
affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità
la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con
l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade.
cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo
Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar
vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa
accidentale et umbratile e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste
per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che
altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più
vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a
formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato.
Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è
incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non
si per- suade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura
italiana Einaudi 91 Giordano Bruno - De gli eroici furori che non
accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son
savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a
quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono.
Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli
occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi
sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa
dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza.
cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar
quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte
d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più
stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de
gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza,
dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso
veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un
fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma
perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga
Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu
sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma
te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da
Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana
Einaudi 92 Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et
io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né
quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal
senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte
de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar
che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e
l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de
l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu,
essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice,
e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu,
perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo
innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel
che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi
ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al
cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore
muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco;
e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di
lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili
caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende
con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi
che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto
inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il
quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale
è quel che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che
immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto
agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in-
fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie
che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole
che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e
numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi
oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu-
rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo
intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì
secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te
stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura dell’apprensione
et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et
appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor
sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intel- lettivo
il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel
concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto
nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine
del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit?
tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non
fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da sapere che quel
“circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli
vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si
fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti
gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno Letteratura italiana Einaudi
94 Giordano Bruno - De gli eroici furori instante, séguita che
insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo
equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo
ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove
si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima (come disse Salo- mone) e
che la medesima sia stabilissima, come è det- to et inteso da tutti quelli che
intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che
il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la
terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi;
laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello
si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la
eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita)
insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autun- no,
insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli
punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua,
perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi
son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove
per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello.
cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta
che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete
far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; per-
ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada
Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua
significa- zione, significa la cosa quanto può essere significato; Letteratura
italiana Einaudi 95 Giordano Bruno - De gli eroici furori atteso
che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto.
cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la
circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar
la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de
l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati
lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi,
de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col
fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’
accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar
m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il
vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua
nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati non per quattro segni
mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che
chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la
perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di
quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete leggere “mi scaldo,
accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi, avampi”; over “scalda,
accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro
sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano tanti gradi de gli
effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi 96 Giordano
Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo accende, terzo bruggia,
quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son
denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali
in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni?
tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in
laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è
come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da
quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi
sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a
l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e
lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse
in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta.
Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or
l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai
lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli.
La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È
tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto
bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil
face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua
intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè
Letteratura italiana Einaudi 97 Giordano Bruno - De gli eroici
furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene
oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo
speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto
verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come questa è
detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intel- ligenza
illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre
intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a
l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come
“svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua
or piena secondo che dona più o meno lume d’intelli- genza; or ha “l’orbe
oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per ombra, similitudine e vestigio,
tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”, or monta a “Borea”,
cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più s’avvicina. Ma
l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e
condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso, combattuto, invitato,
sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il
suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di
bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se
gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto,
come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero; “sempre è tanto crudele” in
suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi
per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”, perciò che è diviso per
differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è con- gionto
con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. Letteratura
italiana Einaudi 98 Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo
Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto,
me- moria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né
desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e
non m’è di- visa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscu- ra per
difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e
non è necessità di natu- ra qual m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi
semper” dal canto suo, perché la è invariabile in su- stanza, in virtù, in
bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili
verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al rispetto del sole illumi- nator
de quella sempre è ugualmente luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è
volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente
questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia
tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però
dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di
quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra
sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa
superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna
(qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene
che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de
ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa
intelligenza è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo
Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi
d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon-
do participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per
sua natura: ma per risguardo Letteratura italiana Einaudi 99
Giordano Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima
intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto
atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo
atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di
potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la
sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle
potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura
per le po- tenze inferiori, onde è occupata al governo della ma- teria. IX.
cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo
l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia
piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto
Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che
gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli
spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il
vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé
ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai
sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici
grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e
l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furio- so
d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi
100 Giordano Bruno - De gli eroici furori quell’altro, essere
sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente
conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non
assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il sole in quanto
ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del
splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra
gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è
piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa pianta tiene
intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere
in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo
È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto
profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io
ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più
tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non
sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e
comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto
amor di- vino et eroico quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena
per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde
talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a
distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in
questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare
opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi
libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di
color che leggono il corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove
con queste paroli dettò il X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la
fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma
prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la
prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove;
Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne
l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo
con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de
pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal
piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa
manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e
generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua
considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo
che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si
muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto,
là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia
cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo
Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e non è la virtude intiera;
ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La
qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla
cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de
l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila,
Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che
massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate
oltre. Letteratura italiana Einaudi 102 Giordano Bruno - De gli
eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si
smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e
varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e
martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’
l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e
manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le
pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è
al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che
tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il
principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si
trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio
affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi al
meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante.
Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che
noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano:
come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio.
In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì
facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere
che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la
vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene
o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali
e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi
103 Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno
qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno
sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun
vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo-
re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che
ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in
pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi,
riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la
terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che
s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi
gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca
quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre
Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo, summisso, senza
letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento
ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il
spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato
da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni:
onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente
et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve- getativa.
Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue,
copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima
disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania,
stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del
esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va
summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose
basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104 Giordano
Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese. In
conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e
tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di
Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma
signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che
volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E
quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad
essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli,
conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli
mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri
stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di
Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder
che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te,
con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice
Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto-
posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più
specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente.
tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator
d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’
altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è
l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o
Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105
Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per
l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante
appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco
qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le
circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri
che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi
suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le
condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or
qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le
altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come
accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e
viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal
differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per
participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le
perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella
simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e
però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che
fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora
medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non
solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e
larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo
puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi
106 Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la
sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e
latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no
infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra,
atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e
buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più
potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non
infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve
è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe
essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita
bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or
dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de
dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me,
voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la
perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il
grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far
tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio
ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo,
come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in
sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e
l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et
amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì
proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de
gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha
quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son
quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi
107 Giordano Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in
mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna
significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di
quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita
bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af-
fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli
suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo
Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste
dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche
dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel
petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le
tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi
lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi.
Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser
da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle nel petto di questo
furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella
fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di
quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e
ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con
cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché
l’amo- re mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, Letteratura
italiana Einaudi 108 tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De
gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra
formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che
versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il
spirare? che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in
questo stato aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la
vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare.
cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato
l’uno per l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il
Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita
aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è
sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo
innocente, ma e benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il
studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che
chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso
che nella staggione che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente
in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e
travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta,
quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto
nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli
ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto
finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto
infinito, dove l’infinita potenza è positiva per- fezzione. Letteratura
italiana Einaudi 109 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada
Se l’intelletto umano è una natura et atto fini- to, come e perché ha potenza
infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia
fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia
infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et
infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello
infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto “Novae
partae Aeoliae”, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli
antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar
quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et
infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella
face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La
perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo
stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi
da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il
sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e
s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a
continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon
da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal
orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto
core.cicada Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la
figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il
vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son
le rag- gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E
son “focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente
scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che
gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza
illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù
che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti.
L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove
a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de
l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige;
perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son
sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che
procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli
frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio
esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque
colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes
captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non
datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit
frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore
Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec
manibus quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi
111 Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti
corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam
praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus
ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché
dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita
mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde
l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor
volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque
alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim
virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit.
Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena
commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La
parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte,
efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in
principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove
s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme
in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto
Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire
che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene
laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel
che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente,
inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa
impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come
la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più
facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello “instans” non
significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per
l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante?
tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che
l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante?
cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più
instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di
Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se divide
in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo dire che la
linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug- getti
temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come
io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel
tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante
sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il
tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo
baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113
Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la
Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il
tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada
Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non
vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe-
ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest
d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi
interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi
contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso
che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può
essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra
significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et
un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha
triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side:
un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un
occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega
amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio
triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in
rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho
compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi
par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114
Giordano Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a
la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo
acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto
che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro,
però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar
medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete
la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo,
avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova
loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115
Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte.
Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre
teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia
volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le
cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che
in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là
è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel
soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i
frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che
vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun-
Letteratura italiana Einaudi 119 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né
possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che
furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il
possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli
frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il
morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne
ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e
prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo
aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto
che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni, per le
quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza
religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano
succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose presenti non dover
rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando
erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati da lor
profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in
sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e
cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è
bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre
generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per
forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene,
dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da
le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo
comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo
guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con
altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120
Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men
convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et
ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto
son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde,
fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi
piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che
riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira,
ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap-
paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente
è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la
natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi
amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per
veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti- Letteratura
italiana Einaudi 122 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta in
virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia
degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora;
onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma, o sodisfatto
dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar l’altrui che
viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad
aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando
il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina
bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia
possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come
ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono
come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera
che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese:
essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza,
cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se
non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente
offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice
«Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un divino imbasciatore:
«Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la divina bellezza e
splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in
tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se
noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice
“Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce da sé gli pensieri,
che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e
che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da
questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana Einaudi 123
Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come importunato da
pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa
di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo
Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza
gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più
grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico
che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un
prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come
gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace-
ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e
maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un
con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade
sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque
gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor
di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e
animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat
quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque
dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia
non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum,
quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas
frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque
in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore
flammam. Letteratura italiana Einaudi 124 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della
natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento
in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso
che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii
principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è
piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da
l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come
in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia
insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia,
se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il
senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una
fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di
quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile,
nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol
s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo
stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel
ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti
lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin
splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel
pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando,
mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco
infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino
Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole
accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel
fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et
illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli
have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo,
che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui
si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e
compara- zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo
l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un
affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino,
ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani
capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la
terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de
laude, che nell’alta- re del cor de illustri poeti et altri recitatori have
acce- so il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il
sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e
degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de
gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni
essi loro, cossì ve- gnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini
asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli
altri al cielo, sen vanno gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e
la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha
intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in
getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non
gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo
giù: stante che dal suo encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora
propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario
è accaduto alla prudenza di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non
avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor
delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli
dovenessero ossequiosi a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano
cal- pestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore
l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser
gran segreta- rio e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo,
è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse:
Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos
eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque
pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa
epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste:
«Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie
lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e
per le quali ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli
fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia;
perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto
Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal-
li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana
Einaudi 127 Giordano Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea
suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero
d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote
di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi
l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza
di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire
al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si
rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio
che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua
liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men
pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion-
gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di
quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a
magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per
qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove
si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e
non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da
altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono
medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il
fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di
gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma
con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli
animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di
quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e
strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi
128 Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma
procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete
prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con
quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto
de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum?
maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et
occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor
santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier
vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi
alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian
chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual
studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo
et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti
di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma,
o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la
mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira
dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine
di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e sentenze; atteso
che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior periglio, quanto è
maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici spettacoli» disse il
Letteratura italiana Einaudi 129 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori filosofo morale, «mediante il piacere più facilmente gli vizii
s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi quanto può all’unità, contrahasi
quanto è possibi- le in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, per-
ché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia
serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti s’appiglie a quel che gli par
megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli
quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o
da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta
moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è do- venuto a tale che
sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: «Unus mihi pro populo
est, et po- pulus pro uno»; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii
scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum
sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della
moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se
non dove è l’intelli- genza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è,
tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come
intendi che la mente aspira alto? ver- bigrazia con guardar alle stelle? al
cielo empireo? so- pra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al
profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo,
alzar alto le mani, menar i passi al tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri,
onde più si ve- gna exaudito: ma venir al più intimo di sé, conside- rando che
Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa;
come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze:
atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de
gli astri, son corpi, Letteratura italiana Einaudi 130 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi,
e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in
noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla
moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma
spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da
dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e
risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte.
Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e
toleranza de spirito che mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede
dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine
et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che
scrisse a Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli
deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il
camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto
ordinare. Non è» di- ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per-
ché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la
ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo
conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e
tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non
queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma
il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera
costui “Tranquillarà gli sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà
il core” e “darà gli proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo
aspirare e stu- dii non debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente
trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello
absente, Letteratura italiana Einaudi 131 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato
alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali,
considerando d’esser maggio- re che esser debba servo e schiavo del suo corpo:
al quale non deve altrimente riguardare che come carce- re che tien rinchiusa
la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien
strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien
abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, catti- vo, invecchiato,
incatenato, discioperato, saldo e cie- co: perché il corpo non gli può più
tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito
proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta
alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnani-
mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni.
cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel
che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro
proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo
Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete,
atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro- prio mezzo
si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over quiete del
tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si
apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti
montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegno-
no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E
questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel tanto che
s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso
tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa
per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene,
speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor
ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de
l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate
ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in
altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or
ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come
il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera
che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti
posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente
nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de
l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene-
rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico
pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo
stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della
generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio
una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto:
Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri-
soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col
precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si
considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti
assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte,
del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché
chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza,
gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier,
miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi
concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto,
vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e
accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli
precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il
sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente
ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne
(come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli
atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio
intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro
De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali
alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte,
non Letteratura italiana Einaudi 134 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri:
onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal
sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità
è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina
e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o
suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa
dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te,
dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice:
Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man
d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura
italiana Einaudi 135 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu
perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le
palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato
ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua,
per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà
(diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar
indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del
grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il
“volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta
alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti-
tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada
divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove:
«Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso,
l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio
tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la
quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi
conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le
palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via
l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto
quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua
bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la
capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è
uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far
comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che
son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che
“non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che
il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con
cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono
uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con
la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con
que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene
luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che
proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima
è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in
effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di
procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti
rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali
s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una
pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E
certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni
(quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre
invitano a l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137
Giordano Bruno - De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia;
altre allettano, inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie
delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene
far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco,
che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più
presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco;
perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso.
Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio;
necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio
mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa
naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è
convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver
appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per
la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica
o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito,
e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo
universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella
essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che
è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio
d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali
potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti
delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del
furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare
più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese
basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale,
dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si
possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e
secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene
a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto
più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e
conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar
alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque
giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto
verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista
sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde
ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci
penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni
parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale,
tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non)
bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli
proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro-
prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete
comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per
gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe
soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due
saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans.
maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la
maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140
Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et
inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza
e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de
diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha
fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti
innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita
eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o
dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra
materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o
della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della
Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender
ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta
visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato
splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali
e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici della
divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini
dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non
ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal
calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò
che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel
principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di
Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più
cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco
si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto
che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può
introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di
quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel
stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente
furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a
quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie
peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de
l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea
assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a
quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac-
campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie
intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò
l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari
gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare,
rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle
luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli-
genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la
porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza
appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu
“quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più
pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo-
strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato
et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è
detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura,
motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti
da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de
suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in
quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor
mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier
irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi
si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci
penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio
dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e
perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole
tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé
l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più
eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è
il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese
possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte
vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa
più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra
cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è
impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito
cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire
l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser
“fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là “mai cessano
ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”,
che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto
Letteratura italiana Einaudi 143 X. escluso, straniero e peregrino.
È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non
vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde
sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei
dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in
proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano
le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che
è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi
ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di
trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti
gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito
vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali
fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento
muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento.
Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento:
ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi
l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le
regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria.
Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli
prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra
il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et
imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile
alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la
caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de
l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea
nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit
signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit
nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo
procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea
perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto
con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo
in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di
specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre
remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si
presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra?
maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa
presentar megliore o più como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma
per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per
essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua
presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano
assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano
una ventosa tempesta Letteratura italiana Einaudi 145 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie
de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali
inferiori: di sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che
è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in
mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più
eccellente magnani- mità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re
a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo
populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus
medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta
lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”,
Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual
dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a
(come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è
tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è
cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si
vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e
finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia
tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a
lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime
per la vista, la quale è spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito
monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a
tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e
subito. Oltre è da conside- Letteratura italiana Einaudi 146
Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi,
che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che
Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna
cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento
è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella me-
desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze?
Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono, e però non vi
bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma
subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista
al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta
circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo
cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere
l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante
spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua
circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì
triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni
senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual
studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché
né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre,
volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel
dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura
italiana Einaudi 147 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto
questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il
sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono
il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri-
luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne
scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le
raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con-
solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di
co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la
voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che
la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran-
dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura
e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si
possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando
fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque
pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché,
se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti
ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa
altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene
ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che,
avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto
dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi
148 Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco
appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere
assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi.
Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe
che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il
quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento,
e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e
la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la
pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei
repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua,
ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e
gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la
morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun
soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e
curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore
sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia
traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il
seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente;
però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da
studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i
fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più
sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi
furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più
tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso,
e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo
di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido
fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che
significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo
dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica,
vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de
l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio;
non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di
rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e
mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui che molto e
pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il
carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la
qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar
da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne
suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a
gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere
dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cas-
sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza
frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male
istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel
che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del
corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto
ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta
che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste
son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il
proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano
il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato
nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione
vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro,
né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla
d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito che s’attenua perdendo la
propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone
discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo Letteratura
italiana Einaudi mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de
lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor
divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al
fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia libertade.
cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà
e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda
Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e
vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta;
quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra
belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et
egli a me: «O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola
che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il
mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte
sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi
quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato
a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti
rimos- se dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura
italiana Einaudi 152 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son
lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé,
perché con la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi;
e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto
essere. Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie,
forme et idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si
mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese,
quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te-
gna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et
absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo
glorioso e bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore,
che apprende “ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie,
“vile e vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne
porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et
opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto
la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza,
o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a
cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori,
servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché
altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi,
pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano
eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della
natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri
et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et
ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di
sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son
suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana Einaudi
153 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre
comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per
essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali
a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al
fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe
deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute
le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi,
trattar cose naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non
vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le
menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele,
che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo
spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de
filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere
diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de
fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della
fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con
sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della
verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro?
Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore
di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel
tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e
di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum
corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto
più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in-
comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da
quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de
fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a
far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai
studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della
ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì
bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice
delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo
consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e
vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta;
sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi.
Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli
ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in
esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti
camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile,
quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla
divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su
l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver
ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane
spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente
precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il
futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel
ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il
Letteratura italiana Einaudi 155 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la
memoria di genealogie, quello attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta
occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno
di: “Cor” est fons vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba.
Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli
fonti, l’altro vuol rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una
volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar
a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono
sopra altre et altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son
spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono,
qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno
l’àncora del som- mo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo
e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi
pensieri credeno mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il
bel- lo e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il
tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili-
gentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose
superflue, anzi cose vili e vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa
lodabile Ar- chimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava
sottosopra, tutto era in ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli
nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de
quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra
tanto avea perso il senso e proposito di Letteratura italiana Einaudi 156
Giordano Bruno - De gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato
a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diame-
tro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne
d’uno che (se posseva) de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più
degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di
questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il
mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti,
brutti, poveri, indegni e sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba
esse- re altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide,
di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati
sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti,
sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata
ordinata al servizio della gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender
possano e ri- cevere gli frutti della matura età di quelli, come con- viene che
siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano
senza impedimen- to atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del
proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno
studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o
non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mette-
re avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo
de la vita studiano di farsi esqui- siti in que’ studii che convegnono alla
fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto.
mariconda Or assai è detto circa quelli che non pos- sono né debbono ardire
d’aver “ad alt’amor la mente desta”. Venemo ora a considerare della volontaria
cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana
Einaudi 157 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel
giogo, dico, senza il quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza
da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la
fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per
cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che
vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si
pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che
intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento
non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustan- za de chi si
nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si
trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era
sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il
spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era
sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo
se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della
materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un
corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo,
fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o bello
ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi da far
un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio, come
appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale,
discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna
dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab- bracciata, e
volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien
megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in
Letteratura italiana Einaudi 158 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol
spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et
aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per- ché nessuna,
o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel corpo; perché
vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e
muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che
comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e
mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e
come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa
sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente:
atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo
modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to
che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere
per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze
soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il
vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da
considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale
del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la
similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo-
rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la
intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo
e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare
il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima
umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua
soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla
venazione della Letteratura italiana Einaudi 159 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va
lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e
manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli
antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose,
ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti
maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come
noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura,
accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più
ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta.
Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose
naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi
et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure,
e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le
cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et
omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non
volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro-
cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più
magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa-
pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e
sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando,
isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e
secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari:
perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da
le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere
participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura
italiana Einaudi 160 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la
verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala,
nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo
de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al
supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al
puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii
impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol
amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri
ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per
non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in
alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali
specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico
perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son
chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de
le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui
tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come
cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile:
però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce
absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua
Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è
nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De
molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta
selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono
contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte
non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani
piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal
destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla
bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’
doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra-
sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il
fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella
fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi
caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose
particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo
quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et
universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora
compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare,
doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto
quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi
monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da
ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale
aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste,
dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì
gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al
volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene-
stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a
l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più
per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse
rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de
tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura
italiana Einaudi 162 Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade, vera
essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in absoluta
luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché
dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è la natura,
l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, me-
diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze
intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente
che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui
influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è
destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi
medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno
del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della
Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e
suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto,
o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere
ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere
desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete
detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a
casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi
163 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO
interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il
furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa
mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni
e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro
lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che
consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli.
liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe
in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte
mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai
allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta
artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al
men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi
tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son
principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a
quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce-
re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana
Einaudi 164 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli
occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno
oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser
deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che
temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia
conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de
l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso
nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e
nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole?
Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per
il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione
per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o
core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e
muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo
fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi
Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a
questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le
convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa,
el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime
da gli occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi
165 Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo,
quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte
exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a
l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi
all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti,
fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava
distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione
e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la
conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla
propo- sta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima
risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro
non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio
per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma
l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se
non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente
incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli
elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista?
Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio
procedere forza di con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il
Letteratura italiana Einaudi 166 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor
che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi,
inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude,
la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di
vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima
risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai
smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è
semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte
perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare
il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse,
e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone,
che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più
facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono
semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi
167 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente
necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e
cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni:
prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali
oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli
occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza
dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere
per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro,
cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa
sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et
anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del
profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo
geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et
oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la
quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del
so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso
vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un
modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì,
perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante
fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda
proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il
cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al
mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il
glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa
Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma
smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad
inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi?
Dimanda qual potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui,
perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove
son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una
stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma
gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core
Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne
sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio
d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che
soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla
non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o
adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di
fiamma è raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169
Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno
efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se
vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta
del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et
oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito
incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito
l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a
tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far
possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e
l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è
molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se
stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna
che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può
resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar
questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che
sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando
l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino
torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca-
de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana
Einaudi 170 Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o
favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a
l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi:
Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso,
l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso,
acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur
tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il
coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi
con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì
’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale?
Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi
contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e
l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose
naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma
certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o
al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et
etica che vi sta occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi
vuole e puote. Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione
l’affezzion del core è detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi:
perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo
definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito
bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come
è detto commune) il sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della
specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non
possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle,
nella qual ma- niera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo
che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però
non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe-
cie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio
Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per
l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se
questo infinito fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine,
come è per più positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato.
laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può
essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine
del- le quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e
perfezzione, come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione
e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel-
lo, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del
nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase
proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove
può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è
infinitamente fe- condo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio]
Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella
potenza; ma che la potenza Letteratura italiana Einaudi 172
Giordano Bruno - De gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e
beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè
nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore,
dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché
sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto
sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi
del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che
guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo
termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa
similitudine qualmente il sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de
l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal-
volta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo,
viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo,
et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo
d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo
vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a
quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de
eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et
exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in
questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con
il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette
in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile,
l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza
receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è
come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e
l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi
173 Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice
intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si
dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere
a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor
divino, è convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli
avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e
conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può
essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi
ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso
hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere
l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re
l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi
apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare
presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il
fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli,
perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et
appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti,
perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son
turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che
con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà
l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e
cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della
cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge
come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la
felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per
il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo
et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli.
Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e
comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in
certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas
esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran
verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti
inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama
tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de
l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino
per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico)
quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che
aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio
appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi
175 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO
interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove
ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità,
benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo
Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie-
co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può
persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che
quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della
dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma
egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello
che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino
Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina
nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in
fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua
guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre
orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco
Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che
dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana
Einaudi 176 Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve
mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse
torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce,
conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad
esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di
terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la
gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la
gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo
ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo
cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con
sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la
tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì
crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de
sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar
mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né
sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi
sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio
mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per
essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso
che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli
avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli
è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a
l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader
suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga
gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo
e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il
molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale,
et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma nella
pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi
180 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco,
perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto
umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale
era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi;
fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il
spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a
l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso
speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi
pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio
pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio
datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso
vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso
a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra
che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi
181 Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la
cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in
polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi
se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan-
to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in
questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183
Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto
de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata
per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta
il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender
possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci
de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo corpo in cui
gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og- getto.
severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è senza gran
raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto
è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano
(qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in
questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re- gione, perché
aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a
proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo
cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è
la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto, nemico e padre,
cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura italiana Einaudi
184 Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo Questa non mi par
ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che
vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggio- ne proporzionale
a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra
quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare,
corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no trattarla: come son
trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser
ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo
Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la
moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e ti- mido per
la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte co- se
veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo.
minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che
hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma
cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più
alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e questi son gli
inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si trova- no
coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti,
gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità
non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte
lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza,
figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione
sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mo-
Letteratura italiana Einaudi 185 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze
fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo
da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra
cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e
repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un
divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è
richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per
averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume
solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo
Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che
gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non
è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi
senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella
cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è
detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et
bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia
in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e
la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo,
discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e
la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre,
et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito.
Letteratura italiana Einaudi 186 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come
quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo
il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio
de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere,
quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de
grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come
exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color
che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a
tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il
contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma
è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la
qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa
cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il
presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene
veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe
impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per
ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La
quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi
de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di-
vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre
raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per
mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli
effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per
l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti,
Letteratura italiana Einaudi 187 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose
divine sia per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina
beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to:
ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto
“speculator de fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi-
ne speculare et enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere
specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri
de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli
volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno
quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente
si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa,
un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da
l’antro, onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa
riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà
che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra
la potenza visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano
distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però
concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi
aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio
tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e
la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a
quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione
intellet- tuale dove splende il sole dell’intelletto agente me- diante la
specie intelligibile formata e come proce- dente da l’oggetto, viene a
comprendere de la divinità Letteratura italiana Einaudi 188
Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’intelletto nostro o altro
inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve
la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in
qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno
sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in si- militudine; per
cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente divini, rimanendo la
divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi
dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non
ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima
dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella
sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quel-
la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia- fano, o pur corpo al
tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più
e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come
senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e
terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e
sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro principale. La sesta, significata
nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et
insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alte-
razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no la condizione della
sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione della natura et essere.
Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia
compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e sempre fa et è fatto altri
et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star depinto et impresso dove le
pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in Letteratura italiana
Einaudi 189 Giordano Bruno - De gl’eroici furori vapore, il vapore
in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in altro et altro, senza fine
discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in
infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et
altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si porta et opra, per che
il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quel-
lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che
sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et
unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La
settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal
fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et inabili ad
apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son
coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene che tutte le
cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante che chi
vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo
nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de
contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro
prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de
figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e
divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de
inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per
via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde
altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri
grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si
metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana
Einaudi 190 Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte:
onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un
medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto
numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti
molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli
pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato
che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de
cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo
naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo
ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la
presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligi-
bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente sopraposto
sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede Giove in
maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che
chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a
penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il
verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di
coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra
il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de essendo
tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza
che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere
altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria
improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per
inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata
pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi 191
Giordano Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere;
onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece-
re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode
di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di
parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o
per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap-
prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde
gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per
silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie
representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de
Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici
dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace.
fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 192 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia.
laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il
successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi
giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo
speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal
disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della
Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade
giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per
ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si
potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel
vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che
divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor
sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a
veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo
gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi,
del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e
di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti
co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste
paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come
fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante,
minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla
natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur
sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la-
menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta
contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste
paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have
ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura
d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra
volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che
qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato
de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il
morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però
vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli
domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima
sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato
ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap-
parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli
administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e
vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti
insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno,
esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente
trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati
tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure,
per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato
cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe
del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade,
et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi
194 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il
principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento
espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase
si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma
d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase.
Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam
discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete
attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il
vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore;
e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far
giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto
attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto;
raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia
e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti
piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili
forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito
furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira
al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto:
«Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti
punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami
tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer
vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga
pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne
appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase
fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che
discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a
bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor
al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per
remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento
cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto
alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde
Letteratura italiana Einaudi 196 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per
quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui
cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un
gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete
spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il
terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera
sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai
siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a
bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il
manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo
al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai
fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza.
Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh,
per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra
bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in
queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana
Einaudi 197 Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì
rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel
ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare,
offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma
tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano
e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non
tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come
spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto
fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa
esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si
sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli;
e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce,
l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del
sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza
e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non
posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso
di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che
apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del
furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la
citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti,
o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché
mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il
secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva
Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie
divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la
lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han
prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar
il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi.
Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità
degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna
luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto
con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con
condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui
a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi.
Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non
vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando
la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il
settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il
gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi
governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo
con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite
machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa
mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una
rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che
prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari Letteratura
italiana Einaudi 200 Giordano Bruno - De gl’eroici furori de
stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in
questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua
sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa
con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi
verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel
tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre
invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se
tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è la
tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le
insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de
l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui
l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il
sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più
glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri
quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro
ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del
ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»;
Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo
permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue
ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei
vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta.
giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener
alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le
stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e
favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata
in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina.
Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose
fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto
semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere
incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero
possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli
animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla
sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per
mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia
used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND
WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.
Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino
da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords:
implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani,
ortodossi italiani, dell’infinito,
universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come
fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colli: l’implicatura
conversazionale dell’espressione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo italiano. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is
much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only
trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which
got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli
was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre
amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della
marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto
Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica
classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare. Lo
stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si
caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa
dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli
recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che
fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione,
un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di
qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene
che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il
discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la
natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici
Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura.
Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali
quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre
opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi,
Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso,
Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La
sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene,
Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi,
Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano);
“Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama
nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e
Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di
Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano);
“Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano);
“Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza,
Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi,
Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi,
Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi,
Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)
Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La
filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth;
Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così
parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale;
Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra
Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità
e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle
nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia
vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di
fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di
Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il
servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo,
Bari); Dizionario biografico degli italiani,
Implicazioni estetiche in C.; Misura e dismisura. Per una
rappresentazione di C., ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco
in C., in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze
ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune
traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli,
Luca Sossella Editore, Roma. Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della
mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος)
nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di
Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo
e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in
acqua. Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre
Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a
remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo
servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia,
quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era
nel frattempo morto. Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa;
intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere
ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si
posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo,
si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico
tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri
dionisiaci. Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete
fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa.
Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani;
questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo
era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1]. Riti
notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della
palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però
di descriverceli. Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard
Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella
sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo
mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo
fallico all'interno del culto dionisiaco. Igino, Astronomy; Clemente di
Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania,
Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su
geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana
Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos
griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía",
Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby,
The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca
Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di
Alessandria , Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino , Astronomia. Pausania,
Descrizione della Grecia, Plutarco , Iside e Osiride. Portale LGBT
Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei
teatri, della fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia
tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi distinte
dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É sistere della loro
venerabilità, pur tacendo .la vastità É e profondità loro e più ch’ogni
altra cosa, l’orrendo fi mistero del loro essere, provengano da una
particola rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*
lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que sto ciclo:
Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J. Bachhofen in modo
eccellente, trascina irresistibilmente seco. l’eterno femminino di questa
sfera e ne rimane assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa
nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della terra.
Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co- scienza nello
sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi adoratori e agli estasiati
si schiudon i tesori del regno. terrestre. Anche intorno a Dioniso
accorrono i morti, che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori.
Amore e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-
gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi tratti
essenziali della divinità della Terra son in lui accresciuti a
dismisura," ma pure infinitamente ap- profonditi, Questa figura
divina che tutto trascina con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio «
forsennato >, e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle
sue accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che
similitudine, come quando paragona ad una Menade Andromaca, la quale
presa da oscuro presentimento si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade;
cfr. Inno Omer. a Dem.), come pure quando occasional- mente narra
memorabili storie (Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi
non trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi ha
parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio- do, Erga 614) gli è
altrettanto estraneo quanto l’uomo doloroso annunziatore dell’al di là.
L’eccesso, che gli è proprio, non s’accorda con la chiarezza che
contraddi- stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino. Da
questa chiarezza sono assai lontane anche le al- tre figure del ciclo
della Terra. Sian pure intessute. di dolcissimo incanto, e portin sulla
fronte la più sublime gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al
fianco. Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della
sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza è quella
dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la rigidità di tutti i
legami del sangue. Tutte arrivano nella notte della morte, o meglio: la
morte ed il passato risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza
dei viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il
trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore nè una
liberazione del campo di vita e d’azione da ciò che una volta fu. Tutto
ciò che fu rimane per sempre, ed. eleva la sua esigenza, sempre con la
medesima ron. cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è
solo una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha nel
mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi. nile. Nella cerchia
celeste della religione omerica invece sì trae in disparte in modo tale,
che non può essere ca. suale. | I . Gli dèi che dominano
colà, non solo: son di sesso maschile, sibbene rappresentano decisamente
lo spirito virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a
Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente il femmineo e a
farsi genio del mascolino. I -m Dirisioti ^LT^b !-' 0' 25outonV
%tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC
MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO."
" PLOTINTJS," " POEPITIllY," " lAMBLICHCS."
"PEOCI-nS,' * ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED,
WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER. Ev Tats
TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip- pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL,
a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav, (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias
yviJifauiiaTa etaiv. Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I.
AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by BulI TDN. The
DeVinne Press. TO MY OLD FRIEND ^cniarti OSuatitcl)
THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT OR MODERN TIMES CbiB
Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli BY THE PUBLISHER Bacchic
Ceremonies. Bacchus ami Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies.
Eleusinian Prieatesses.
Bacchante and Faun. Faun and Bacchus. Fable is
Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn
to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of Cleanthes Klensiiiiiiii
Mj'steriea. '"Tis not merely The human breing's pride that
peoples space With life and mystical predominance, Since likewise
for the stricken heart of Love This visible nature, and this common
world Is all too narrow ; yea, a deeper import Lurks in the legend
told my infant years That lies upon that truth, we live to learn,
For fable is Love's world, his home, his birthplace ; Delightedly he
dwells 'mong fays and talismans, And spirits, and delightedly
believes Divinities, being himself divine. The intelligible forms
of ancient poets. The fair humanities of Old Religion, The Power,
the Beauty, and the Majesty, That had their haunts in dale or piny
motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or
wat'ry depths; — all these have vanished. They live no longer in the
faith of Eeason, But still the heart doth need a language ; still
Doth the old instinct bring back the old names." Schiller :
The Piccolomini, Act. ii. Scene 4. 9 Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS. In
offering- to the public Taylor's admirable treatise upon the Elensiidan
and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few words of explanation. These
observances once represented the spiritual life of (Ireeee, and were
considered for two thousand years and more the appointed means for
regeneration through an interior union with the Divine Essence. However
absurd, or even offensive they may seem to us, we should therefore
hesitate long before we venture to lay desecrating hands on what others
have esteemed holy. We can learn a valuable lesson in this regard from
the Roman philosophers, who had learned to treat the popular
religious rites with mirth, but always considered the Eleusinian
Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance which leads to
profanation. Men ridicule what they do not properly understand.
Alci- biades was drunk when he ventured to touch what his countrymen
deemed sacred. The undercurrent of this worhl is set toward one goal; and
inside of human credulity — call it human weakness, if you please —
is a power almost infinite, a holy faith capa))le of apprehending the
siipremest truths of all Existence. The veriest dreams of life,
pertaining as they do to " the minor mystery of death," have in
them more than external fact can reach or explain; and Myth, how-
ever much she is proved to be a child of Earth, is also received among
men as the child of Heaven. The Cinder- Wench of the ashes will become
the Cinderella of the Palace, and be wedded to the King's Son. The
instant that we attempt to analyze, the sensible, palpable facts upon
which so many try to build disappear beneath the surface, like a foundation
laid upon quicksand. " In the deepest reflections," says a
dis- tinguished writer, '' all that we call external is only the
material basis upon which our dreams are built ; and the sleep that
surrounds life swallows up life, — all but a dim wreck of matter,
floating this way and that, and forever evanishing from sight. Complete
the anal- ysis, and we lose even the shadow of the external
Present, and only the Past and the Future are left us as our sure inheritance.
This is the first initia- tion, — the vailing [mnesis] of the eyes to the
external. But as epo])fm, by the synthesis of this Past and Future
in a living nature, we obtain a higher, an ideal Present, comprehending
within itself all that can be real for us within us or without. This is
the second initiation in which is uuvailed to us the Present as a new
birth from our own life. Thus the great problem of Idealism is
symbolically solved in the Eleusinia. These were the most celebrated of all the
sacred orgies, and were called, by way of eminence. The Mysteries.
Although exhibiting apparently the fea- tures of an Eastern origin, they
were evidently copied from the rites of Isis in Egypt, an idea of which,
more or less correct, may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO
and The Epicurean by Moore. Every act, rite, and person engaged in them
was symbolical; and the individual revealing them was put to death
without mercy. So also was any uninitiated person who happened to be
present. Persons of all ages and both sexes were initiated ; and neglect
in this respect, as in the case of Socrates, was regarded as impious
and atheistical. It was required of all candidates that they should
be first admitted at the MiJo'a or Lesser Mysteries of Agree, by a
process of fasting called ^j«f/'/- ficafion, after which they were styled
mysfce, or initi- ates. A year later, they might enter the higher
degree. In this they learned the aporrheta, or secret meaning of
the rites, and were thenceforth denominated ephori, or epoptm. To some of
the interior mysteries, however, only a very select number obtained
admission. From these were taken all the ministers of holy rites.
The Hierophant who presided was bound to celibacy, and requii'ed to
devote his entire life to his sacred office. Atlantic Monthly, He had
three assistants, — the torch-bearer, the lierux or crier, and the
minister at the altar. There were also a hasileus or king, who was an
archon of Athens, four curators, elected by suffrage, and ten to offer
sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth year ;
and began on the 15th of the month Boedromiau or September. The first day
was styled the agurmos or assembly, because the worshipers then convened.
The second was the day of purification, called also alacU mystaij
from the proclamation : ''To the sea, initiated ones ! " The third
day was the day of sacrifices ; for which purpose were offered a mullet
and barley from a field in Eleusis. The officiating persons were
for- bidden to taste of either ; the offering was for Achtheia (the
sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth day was a solemn procession.
The JcalafJios or sacred basket was borne, followed by women, ciske or
chests in which were sesamum, carded wool, salt, pomegran- ates,
poppies, — also thyrsi, a serpent, boughs of ivy, cakes, etc. The fifth
day was denominated the day of torches. In the evening were torchlight
processions and much tumult. The sixth was a great occasion.
The statue of lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought
from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was
heard only an uproar of sing- ing and the beating of brazen kettles, as
the votaries danced and ran along. The image was borne " through
the sacred Gate, along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all
sacred, mark you, from Eleiisinian associations), where the procession
rests, and then moves on to the bridge over the Cephissns, where
again it rests, and where the expression of the wildest grief gives
place to the trifling farce, — even as Demeter, in the midst of her
grief, smiled at the levity of lambe in the palace of Celeus. Through the
'mystical en- trance ' we enter Eleusis. On the seventh day games
are celebrated; and to the victor is given a measure of barley, — as it
were a gift direct from the hand of the goddess. The eighth is sacred to
^sculapius, the Divine Physician, who heals all diseases; and in
the evening is performed the initiatory ritual. " Let us
enter the m3\stic temple and be initiated, — though it must be supposed
that, a year ago, we were initiated into the Lesser Mysteries at Agrae.
We must have been mystm (vailed), before we can become epoptce
(seers) ; in plain English, we must have shut our eyes to all else before
we can behold the mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other
initiates into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the
Hierophaut within will soon open our eyes. But first, — for here we must do
nothing rashly,— first we must wash in this holy water; for it is
with pure hands and a pure heart that we are bidden to enter the
most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos]. Then, led
into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the designation
nns Peter (an in- terpreter), appears to have been the title of this
personage ; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia,
petroma]^ tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let
it suffice that they fit the place and the occasion ; and though you
might laugh at them, if they were spokiMi outside, still you seem very
far from that mood now, as you hear the words of the old man (for old
he he always was), and look upon the revealed symbols. And very
far, indeed, are you from ridicule, when Demeter seals, by her own
peculiar utterance and sig- nals, by vivid coruscations of light, and
cloud piled upon cloud, all that we have seen and heard from her
sacred priest; and then, finally, the light of a serene wonder fills the
temple, and we see the pure fields of Elysium, and hear the chorus of the
Blessed; — then, not merely by external seeming or philosophic
inter- pretation, but in real fact, does the Hierophant become the
Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all things; the Sun is
but his torch-bearer, the Moon his attendant at the altar, and Hermes his
mystic herald * [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been
uttered ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are vpoptit
forever ! " Those who are curious to know the myth on which
the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.
There is in these facts some reminder of the peculiar circum- stances of
the Mosaic Law which was so preserved ; and also of the claim of the Pope
to be the successor of Peter, the hierophant or interpreter of the Christian
religion. * Porphyry. Introduction. 19 the
" mystical drama " of the Eleusinia is founded will find it in
any Classical Dictionary, as well as in these pages. It is only pertinent
here to give some idea of the meaning. That it was regarded as profound
is evident from the peculiar rites, and the obligations im- posed
on every initiated person. It was a reproach not to observe them.
Socrates was accused of atheism, or disrespect to the gods, for having
never been initiated.* Any person accidentally guilty of homicide, or of
any crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The secret
doctrines, it is supposed, were the same as are expressed in the
celebrated Hymn of Cleanthes. The philosopher Isocrates thus bears
testimony : " She [Demeter] gave us two gifts that are the most
excellent ; fruits, that we may not live like beasts ; and that
initiation — those who have part in which have sweeter hope, both as
regards the close of life and for all eternity." In like manner,
Pindar also declares : " Happy is he who has beheld them, and
descends into the Under- world: he knows the end, he knows the origin of
life." The Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient
Sijmhol-Worsliip. "Socrates was not initiated, yet after drinking
the hemlock, he addressed Crito : ' We owe a cock to ^sculapius.' This
was the peculiar offering made by initiates (now called kerJcnophori) on
the eve of the last day, and he thus symbolically asserted that he was
about to re- ceive the great apocalypse." See, also,
" Progress of Religious Ideas," by Child; and " Discourses on
the Worship of Priapus," by EiCHARD Payne Knight. or
iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical personage, supposed to
have flourished in Thrace.* The Orphic associations dedicated themselves
to the worship of Bacchus, in which they hoped to find the
gratification of an ardent longing after the worthy and elevating
influences of a religious life. The worshipers did not indulge in
unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but rather aimed at an
ascetic purity of * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth
the rites of the hidden Mysteries." Plato : ProUifforas.
" The art of a sophist or sage is ancient, but tlie men who proposed
it in ancient times, fearing the odium attached to it, sought to conceal
it, and vailed it over, some under the garb of poetry, as Homer, Hesiod,
and Simonides : and others under that of the Mysteries and prophetic
manias, such as Orpheus, Musseus, and their followers."
Herodotus takes a different view — ii. 49. "Melampus, the son
of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of
Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the pro- cession
of the phallus. He did not, however, so completely ap- prehend the whole
doctrine as to be able to communicate it entirely : but various sages,
since his time, have carried out his teaching to greater perfection.
Still it is certain that Melampus introduced the phallus, and that the
Greeks learnt from him the ceremonies which they now practice. I
therefore maintain that Melampus, who was a sage, and had acquired the
art of divina- tion, having become acquainted with the worship of
Dionysus tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into
Greece, with a few slight changes, at the same time rhat he brought
in various other practices. For I can by no means allow that it is
by mere coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so
nearly the same as the Egyptian." y
r^isi Etruscan Kleusiniau Ci-renionies. life
and manners. The worship of Dionysus \yas the center of their ideas, and
the starting-point of all their speculations upon the world and human
nature. They believed that human souls were confined in the body as
in a prison, a condition which was denominated genesis or generation;
from which Dionysus would liberate them. Their sufferings, the stages by
which they passed to a higher form of existence, their lafharsis or
purification, and their enlightenment constituted the themes of the
Orphic writers. All this was represented in the legend which constituted
the groundwork of the mystical rites. Dionysus-Zagreus was
the son of Zeus, whom he had begotten in the form of a dragon or serpent,
upon the person of Kore or Persephoneia, considered by some to have
been identical with Ceres or Demeter, and by others to have been her
daughter. The former idea is more probably the more correct. Ceres or
Demeter was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a
fragment by Psellus, and is also styled a Fury. The divine child, an
avatar or incarnation of Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra
(Sanscrit) as being destined to universal dominion. But at the
instigation of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-
* Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the
definite name of any goddess, but was used by ancient writers as a
designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be of
Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other divinities. cordingly,
one day while he was contemplating a mir- ror,* they set upon him,
disguised under a coating of plaster, and tore him into seven parts.
Athena, how- ever, rescued from them his heart, which was swallowed
by Zeus, and so returned into the paternal substance, to be generated
anew. He was thus destined to be again born, to succeed to universal
rule, establish the reign of happiness, and release all souls from
the dominion of death. The hypothesis of Mi-. Taylor is the
same as was maintained by the philosopher Porphyry, that the
Mysteries constitute an illustration of the Platonic * The mirror
was a part of the symbolism of the Thesmophoria, and was iised in the
search for Atmu, the Hidden One, evidently the same as Tammuz, Adonis,
and Atys. See Exodus xxxviii. 8 ; 1 Samuel ii. 22 ; and Esekiel viii. 14.
But despite the assertion of Herodotus and others that the Bacchic
Mysteries were in reality Egyptian, there exists strong probability that
they came originally from India, and were Sivaic or Buddhistical.
Core-Persephoneia was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the
patroness of the Thugs, called also Goree ; and Zagi'eus is from Chakra,
a country extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar
Story, we can easily recognize the "Horns" as the crescent worn
by lama-priests : and translating god-names as merely sacerdotal
designations, assume the whole legend to be based on a tale of Lama
Succession and transmigration. The Titans would then be the Daityas of
India, who were opposed to the faith of the north- ern tribes ; and the
title Dionysus but signify the god or chief- priest of Nysa, or Mount
Meru. The whole story of Orpheus, the institutor or rather the reformer
of the Bacchic rites, has a Hindu ring all through. FILOSOFIA. At
first sight, this may l)e hard to believe ; but we must know that no
pageant could hold place so long, without an under-meaning. Indeed,
Herodotus asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are
in reality Egyptian and Pythagorean. The influence of the doctrines
of Pythagoras upon the Platonic system is generally acknowledged. It is
only important in that case to understand the great philosopher correctly
; and we have a key to the doctrines and symbolism of the
Mysteries. The first initiations of the Eleusinia were called
Telefce or terminations, as denoting that the imperfect and rudimentary
period of generated life was ended and purged off ; and the candidate was
denominated a mijsfa, a vailed or liberated person. The Greater-
Mysteries completed the work ; the candidate was more fully instructed
and disciplined, becoming an epopta or seer. He was now regarded as
having received the arcane principles of life. This was also the end
sought by philosophy. The soul was believed to be of com- posite
nature, linked on the one side to the eternal world, emanating from God,
and so partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also
allied to the phenomenal or external world, and so liable to be
subjected to passion, lust, and the bondage of evils. This condition is
denominated genemtion ; and is sup- posed to be a kind of death to the
higher form of life. Evil is inherent in this condition ; and the soul
dwells * Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In
this state, and previous to the discipline of education and the
mysti- cal initiation, the rational or intellectual element, which
Paul denominates the spiritual, is asleep. The earth- life is a dream
rather than a reality. Yet it has longings for a higher and nobler form
of life, and its affinities are on high. "All men yearn after
God," says Homer. The object of Plato is to present to us the
fact that there are in the soul certain ideas or princi- ples, innate and
connatural, which are not derived from without, but are anterior to all
experience, and are developed and brought to view, but not produced
by experience. These ideas are the most vital of all truths, and the
purpose of instruction and discipline is to make the individual conscious
of them and willing to be led and inspired b}^ them. The soul is
purified or separated from evils by knowledge, truth, expiations,
sufferings, and prayers. Our life is a discipline and preparation for
another state of being; and resemblance to God is the highest
motive of action.* * Many of the early Christian writers were
deeply imbued with the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of
speech were almost identical. One of the four Gospels, bearing the title
" ac- cording to John,'''' was the evident product of a Platonist,
and hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The
epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclec- tic
philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as well as with
the Mithraic notions that had penetrated and permeated the religious
ideas of the western countries. Proclus does not hesitate to
identify the theological doctrines with the mystical dogmas of the
Orphic system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden
allegories, Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic
Mysteries.; and Plato next received a perfect knowledge of them from the
Orphean and Pythagorean writings." Mr. Taylor's peculiar
style has been the subject of repeated criticism ; and his translations
are not accepted by classical scholars. Yet they have met with favor
at the hands of men capable of profound and recondite thinking ;
and it must be conceded that he was endowed with a superior
qualification, — that of an intuitive per- ception of the interior
meaning of the subjects which he considered. Others may have known more
Greek, but he knew more Plato. He devoted his time and means for
the elucidation and dissemination of the doctrines of the divine philosopher ;
and has rendered into English not only his writings, but also the works
of other authors, who affected the teachings of the great master,
that have escaped destruction at the hand of Moslem and Christian bigots.
For this labor we can- not be too grateful. The present
treatise has all the peculiarities of style which characterize the
translations. The principal diffi- culties of these we have endeavored to
obviate — a labor whicli will, we trust, be not unacceptable to
readers. The book has been for some time out of print ; and no
later writer has endeavored to replace it. There are many who still
cherish a regard, almost amounting to veneration, for the author; and we
hope that this repro- duction of his admirable explanation of the nature
and object of the Mysteries will prove to them a welcome
undertaking. There is an increasing interest in philo- sophical,
mystical, and other antique literature, which will, we believe, render
our labor of some value to a class of readers whose sympathy, good-will,
and fellow- ship we would gladly possess and cherish. If we have
added to their enjoyment, we shall be doubly gratified. A. W.
V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As
there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^ teries of the
ancients, so there is perhaps nothing- which has hitlierto been less
solidly known. Of the trnth of this observation, the liberal reader will,
I per- snade myself, be fully convinced, from au attentive perusal
of the following sheets; in which the secret meaning of the Eleusinian
and Bacchic Mysteries is un- folded, from authority the most respectable,
and from a philosophy of all others the most venerable and august.
The authority, indeed, is principally derived from manuscript writings,
which are, of course, in the possession of but a few; but its
respectability is no more lessened by its concealment, than the value of
a diamond when secluded from the light. And as to the philosophy,
by whose assistance these Mysteries are de- veloped, it is coeval with
the universe itself ; and, how- ever its continuity maybe broken by
opposing systems, it will make its appearance at different periods of
time, as long as the sun himself shall continue to illuminate the world.
It has, indeed, and may hereafter, be violently as- saulted l)y delusiv^e
opinions; but the opposition will be just as imbecile as that of the
waves of the sea against a temple built on a rock, which majestically
pours them back, Broken and A^anquish'd, foaming to the
main. Pallas, Venus, aud Diaua. THE ELEUSINIAN AND
BACCHIC. Dionysus as God of the Sun. a. SECTION I. SJ
WARBURTON, in Ms Divine Legation of Moses, has ingeniously
proved, that the sixth book of Virgil's ^neid represents some of the
dramatic exhibitions of the Eleusinian Mysteries ; but, at the same
time, has utterly failed in attempting to unfold their latent mean-
ing, and obscure though important end. By the assistance, howevei",
of the Pla- tonic philosophy, I have been enabled to correct his
errors, and to vindicate the wisdomof antiquity from his aspersions The
profounder esoteric doctrines of the ancients were denominated wisdom,
and attevwnrd philosophy, and also the [piosis or knowledge. They related
to the human soul, its divine parent- Eleiisinian and by a
genuine account of this sublime institution; of which the foUowing
obser- vations are designed as a comprehensive view. In
the fii'st place, then, I shall present the reader with two superior
authorities, who perfectly demonstrate that a part of the shows (or
dramas) consisted in a representation of the infernal regions; au-
thorities which, though of the last conse- quence, were unknown to Dr.
Warbiu'ton himself. The first of these is no less a person than the
immortal Pindar, in a fragment preserved by Clemens Alexan- drinus
: ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa- acvt {Jiua'CTjpuov Xsycov
STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar, speaking of the Eleusinian
Mysteries, says : Blessed is he who, having age, its supposed
degradation from its high estate by becoming connected with "
generation " or the physical world, its onward progi-ess and
restoration to God by regenerations, popularly sup- posed to be
transmigrations, etc. — A. W. " Stroma la, book iii. Bacchic
Mysteries. seen those common concerns in the underworld, knows both the end of
hfe and its divine origin from Jupiter." The other of these is
from Prochis in his Commentary on Plato's Politicus, who, speaking
concern- ing the sacerdotal and symbolical mythol- ogy, observes,
that from this mythology Plato himseK establishes many of his own
peculiar doctrines, " since in the Phcedo he venerates, mtli a
becoming silence, the assertion delivered in the arcane discourses,
that men are placed in the body as in a prison, secured by a guard, and
testifies^ accordlny to the mystic cerem^onies, the dif- ferent
allotments of purified and unpuri- fied souls in Hades, their severed
conditions, and the three-forJicd path from the pecidiar places
where they tcere ; and this was shown accordiny to traditionary
institutions ; every part of which is full of a symbolical repre-
sentation, as in a dream, and of a descrip- tion which treated of the
ascending and descending ways, of the tragedies of Dio- nysus
(Bacchus or Zagreus), the crimes of the Titans, , the three ways in
Hades, and Eleusinian and the wandering of everything of a
similar hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv
6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai ■:7.c
-csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp- -:'jpo{Ji£voc xcov
^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^ %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic,
o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?
xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai %7.x7. t(ov),
Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a 5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta
^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC,
{)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts
$iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov
onxapiYjixa- -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-
ceed to prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f
were designed by the ancient theologists, their founders, to
signify occultly the condition of the unpurified soul *
Commentary on the Statesman of Plato, page 374. t The Lesser
Mysteries were celebrated at Agrse ; and the persons there initiated were
denominated Mi/sta: Only such could be received at the sacred rites at
Eleusis. Bacchic Mysteries. invested with an earthly body, and
envel- oped in a material and physical nature ; or, in other words,
to signify that such a soul in the present life might be said to die, as
far as it is possible for a soul to die, and that on the
dissolution of the present body, while in this state of impuiity, it
would experience a death still more permanent and profound. That
the soul, indeed, till purified by phi- losophy,* suffers death through
its union with the body was obvious to the philologist Macrobius,
who, not penetrating the secret meaning of the ancients, concluded
from hence that they signified nothing more than the present body,
by their descriptions of the infernal abodes. But this is
manifestly absurd ; since it is universally agreed, that all the
ancient theological poets and philos- ophers inculcated the doctrine of a
future state of rewards and punishments in the most full and
decisive terms ; at the same time occultly intimating that the death
of the soul was nothing more than a profound union with the ruinous
bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the life. Eleusinian
and Indeed, if these wise men believed in a future state of
retribution, and at the same time considered a connection with the
body- as death of the soul, it necessarily follows, that the soul's
punishment and existence hereafter are nothing more than a continu-
ation of its state at present, and a transmi- gration, as it were, from
sleep to sleep, and from dream to dream. But let us attend to the
assertions of these divine men concerning the soul's union with a
material nature. And to begin with the obscure and profound
Heracleitus, speaking of souls imembodied: "We live their death, and
we die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,
TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Em- pedocles, deprecating the
condition termed " generation," beautifully says of her :
The aspect changing with destruction dread, She makes the Uv'okj
pass into the dead. Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi
a|JLj'.j3ojv. And again, lamenting his connection with this
corporeal world, he pathetically exclaims: Bacchic
Mysteries. 37 For this I weep, for this indulge my woe,
That e'er my soul such novel realms should know. KXauaa te
v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. * Plato, too, it is
well known, considered the body as the sepulchre of the soul, and
in the Crcifijlus concurs with the doctrine of Orpheus, that the
soul is x>^niished through its union with body. This was likewise
the opinion of the celebrated Pythagorean, Phi- lolaus, as is
evident from the following re- markable passage in the Doric dialect,
pre- served by Clemens Alexandrinus in Strom at. book iii. "
Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C,
^la ziyac, xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^'' i. e.
" The ancient theologists and priests * also testify that the
soul is united with the body as if for the sake of punishment ; f and so
is buried in body as in a sepulchre." And, lastly, Py- *
Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets, those filled by the
prophetic mania or eutheasm. t More correctly — '* The soul is
yoked to the body as if by way of punishment," as culprits were
fastened to others or even to corpses. See PauVs Epistle to the liomans,
vii, 25. 38 Eleusinian and thagoras himself
confii'ms the above senti- ments, when he beautifully observes,
accord- ing to Clemens in the same book, " that wild fever tee
see when airali'e is death ; and when asleep,- a dreamt brj^rxio;^
sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly signi- fied
this sublime truth, that the soul by being merged in matter resides among
the dead both here and hereafter, though it fol- lows by a
necessary sequence from the preced- ing observations, yet it is
indisputably con- firmed, by the testimony of the great and truly
divine Plotinus, in Ennead I., book viii. ''When the soul," says he,
'*has descended into generation (from its first divine condition)
she partakes of evil, and is carried a great way into a state the
opposite of her first purity and integrity, to he entirely merged
in ivhich, is nothing more than to fall into dark mire.^^ And again, soon
after. The soul therefore dies as much as it is pos- sible for the soul
to die : and the death to her is^ while Mptized or immersed in the
present Bacchic Mysteries. 39 hocly^ to descend
into matter * and he wholly subjected hy it ; and after departing
thence to lie there till it shall arise and turn its face away from
the abhorrent filth. This is what is meant hy the falling asleep in
Ifades, of those who have come there.'''' j * Greek ^^>^'<],
matter supposed to contain all the principles the negative of life,
order, and goodness. tThis passage doubtless alludes to the ancient
and beautiful story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall
asleep in Hades ; and this through rashly attempting to behold corporeal
beauty : and the observation of Plotinus will enable the profoimd and
contemplative reader to unfold the greater part of the mys- teries
contained in this elegant fable. But, prior to Plotinus, Plato, in the
seventh book of his Republic, asserts that such as are unable in the
present life to apprehend the idea of the good, will descend to Hades
after death, and fall asleep in its dark abodes. 'Oq av |n-r] syrj
o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too
a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa Tcavtcov sXsY/tuv
o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo?
eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo
xo cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo
o.-^rj.^-rr^ ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:.,
ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai ; xoci xov vjv fy.vj
ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^
aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi; ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e.
"He who is not able, by the exercise of his reason, to define the
idea of the good, separating it from all other objects, and piercing, as
in a battle, through every kind of argument ; endeavoring to confute, not
according to opinion, but according to essence, and proceeding through
all these dia- lectical energies with an unshaken reason; — he who can
not 40 Bacchic Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj
[i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c
avc/{xoco-Y^T;oc zotzco, evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy
axorstvov SGzrji 'jisacov. — A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i
'^•'^ iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o GOiixazi
p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac, 7C/.C 7tXYjai)"^vac
aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t
rj/^2kr^ tzcoc, xy^v G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to
sv 4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the
aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the
good itself, nor anything which is pi'operly denominated good? And would
you not assert that such a one, when he apprehends any certain image of
reality, apprehends it rather through the medium of opinion than of
science ; that in the present life he is sunk in sleep, and conversant
with the delusion of dreams ; and that before he is roused to a vigilant
state he will descend to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly
profound." Henry Davis ti-anslates this passage more critically: "Is
not the ease the same with i"eference to the good ? Whoever can
not logically define it, abstracting the idea of the good from all
others, and taking, as in a fight, one opposing argument after another,
and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest his ease, not on
the ground of opinion, but of true being, — such a one knows nothing of
the r/ood itself, nor of any good whatever ; and should he have attained
to any knowledge of the (jood, we must say that he has attained it by
opinion, not by science {sKizzfiiirj) ; that he is sleeping and dreaming
away his present life ; and before he is roused will descend to Hades,
and there be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14.
Bacchic Mysteries. 43 reader may observe that the
obsciu'e doc- trine of the Mysteries mentioned by Plato in the
Phcedo^ that the nnpurified soul in a future state lies immerged in mire,
is beauti- fully explained; at the same time that our assertion
concerning their secret meaning is not less substantially confirmed.* In
a similar manner the same divine philosopher, in his book on the
Beautiful, Ennead^ I., book vi., explains the fable of Narcissus as an
em- blem of one who rushes to the contempla- tion of sensible (phenomenal)
forms as if they were perfect realities, when at the same time they
are nothing more than Uke beautiful images appearing in water,
falla- cious and vain. " Hence," says he, " as Nar-
cissus, by catching at the shadow, plunged himself in the stream and
disappeared, so he who is captivated by beautiful bodies, and does
not depart fi'om their embrace, is precipitated, not with his body, but
with * Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us
ap- pear to have intimated that whoever shall arrive in Hades un-
ptirified and not initiated shall lie in mud ; but he who arrives there
purified and initiated' shall dwell with the gods. For there are many
hearers* of the wand or thyrsus, but few who are inspired."
44 Eleusiniari and his soul, into a darkness profound and
repug- nant to intellect (the higher soul),* through which,
remaining bhnd both here and in Hades, he associates with shadows."
Tov T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri
-iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco [5ai)-Tj,
SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv- taoi^a %q:x£t a%iat?
oovsaTL And what still farther confirms our exposition is that mat-
ter was considered by the Egyptians as a certain mire or mud. " The
Egyptians," says Simplicius, " called matter, which they
symbolically denominated water, the dregs or sediment of the first life ;
matter being, as it were, a certain mire or mud.f Aco xat
AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i- |5oAt%(oc
sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXs- yov, oiov ihjv ziya ooaav. So
that fi*om all * Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty
of the mind. It is substantially the same as the pncH))ia, or spirit,
treated of in the New Testament; and hence the term '^
iiifcUectual," as used in Mr. Taylor's translation of the Platonic
writers, may be pretty safely read as spiritual, by those familiar with
the Chris- tian cultus. * A. W. t Physics of Aristotle.
Bacchic Mysteries. 45 tliat has been said we may
safely conclude with Ficinus, whose words are as express to our
purpose as possible. " Lastly," says he, "that I may
comprehend the opinion of the ancient theologists, on the state of the
soul after death, in a few words : tlieij considered^ as we have
elsewhere asserted, things divine as the only realities^ and that all
others were only the images and shadows of truth. Hence they
asserted that prudent men, who earnestly employed themselves in
divine concerns, were above all others in a vigilant state. But that imprudent
[/. e. without foresight] men, who pursued objects of a different
nature, being laid asleep, as it were, were only engaged in the
delusions of dreams ; and that if they happened to die in this
sleep, before they were roused, they would be afflicted with similar
and still more dazzling visions in a future state. And that as he
who in this life pursued realities, would, after death, enjoy the
high- est truth, so he who pursued deceptions would hereafter be
tormented with fallacies and delusions in the extreme : as the one
46 Eleusinian and would be delighted with true objects
of enjoyment, so the other would be tor- mented with delusive
semblances of reali- ty." — Denique ut priscormn theologorum
sententiam de statu animae post mortem paucis comprehendam : sola di\ina
(ut alias diximus) arbitrantur res veras existere, re- hqua esse
rerum verarum imagines atque umbras. Ideo prudentes homines, qui divi-
nis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impm- dentes autem, qui sectantur
alia, insomniis omnino quasi dormientes illudi, ac si in hoc somno
priusquam expergefacti fuerint moriantur similibus post (hscessum et
acri- oribus visionibus angi. Et sicut emn qui in vita veris
incubuit, post mortem summa veritate potiri, sic eum qui falsa
sectatus est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus veris
oblectetur, hie falsis vexetur simu- lachris." * But
notwithstanding this important truth was obscurely hinted by the Lesser
Myster- ies, we must not suppose that it was gen- *FiciNUs:
De ImmortaL Aniin. book xviii. Bacchic Mysteries. 47
erally known even to the initiated persons themselves : for as
individuals of almost all descriptions were admitted to these
rites, it would have been a ridiculous prostitution to disclose to
the multitude a theory so ab- stracted and sublime.* It was sufficient
to instruct these in the doctrine of a future state of rewards and
punishments, and in themeans of returning to the principles from
which they originally fell : for this * We observe in the Netv
Testament a like disposition on the part of Jesns and Paul to classify
their doctrines as esoteric and ex- oteric, ''the Mysteries of the
kingdom of God" for the apostles, and "pai'ables" for the
multitude. "We speak wisdom," says Paul, "among them that
are perfect" (or initiated), etc. 1 Cor- intliians, ii. Also Jesus
declares : "It is given to you to know the Mysteries of the kingdom
of heaven, but to them it is not given; therefore I speak to them in
parables : because they seeing, see not, and hearing, they hear not,
neither do they understand." — Matthew xiii., 11-13. He also
justified the withholding of the higher and interior knowledge from the
untaught and ill-disposed, in the memorable Sermon on the Mount. —
Matthew vii. : Give ye not that which is sacred to the dogs, Neither
cast ye your pearls to the swine ; For the swine will tread them under
their feet And the dogs will turn and rend you." This
same division of the Christians into neophytes and perfect, appears to
have been kept up for centuries ; and Godfrey Higgins asserts that it is
maintained in the Roman Cliurch. — A. W. Eleusinian and last
piece of information was, according to Plato in the PJuedo, the ultimate
design of the Mysteries ; and the former is necessarily infeiTed
from the present discourse. Hence the reason why it was obvious to none
hut the Pythagorean and Platonic philosophers, who derived their
theology from Orpheus himseK,* the original founder of these sacred
institutions; and why we meet with no in- formation in this particular in
any writer prior to Plotinus ; as he was the first who, having
penetrated the profound interior wis- dom of antiquity, delivered it to
posterity without the concealments of mystic symbols and fabulous
narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I think, we may infer,
with the greatest probabihty, that this recondite meaning of the
Mysteries was not known * Herodotus, ii. 51, 81.
"What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras learned
when he was initiated into the Orphic Mysteries ; and Plato next received
a knowledge of them from the Orphic and Pythagorean writings."
Bacchic Mysteries. 49 even to VIRGILIO himself, who
has so elegantly described their external form; for notwithstanding the
traces of Platonism which are to be found in the ENEIDE, nothing of
any great depth occurs throughout the whole, except what a
superficial reading of Plato and the dramas of the Mysteries might
easily afford. But this is not perceived by modern readers, who,
entirely luiskilled themselves in Platonism, and fascinated by the charms
of his poetry, imagine him to be deeply knowing in a subject with
which he was most hkely but slightly acquainted. This opinion is
still farther strengthened by considering that the doctrine
delivered in his Eclogues is perfectly that of THE GARDEN (L’ORTO), which
was the fashionable philosophy of the age of OTTAVIANO; and that there is
no trace of Platonism in any other part of his works but the present
book, which, containing a representation of the Mysteries, was
necessarily obliged to display some of the principal tenets of this FILOSOFIA,
so far as they illustrated and made a part of these mystic
exhibitions. However, on the supposition that this book presents us
with , Eleusinian and a faithful view of some part of
these sacred rites, and this accompanied with the utmost elegance,
harmony, and purity of versifica- tion, it ought to be considered as an
invalu- able rehc of antiquity, and a precious mon- ument of
venerable mysticism, recondite wisdom, and theological information.
This will be sufficiently e\ddent from what has been already
delivered, by considering some of the beautiful descriptions of this book
in their natural order; at the same time that the descriptions
themselves will corroborate the present elucidations. In the
first place, then, when he says, faeilis descensus Averno.
Noetes atque dies patet atra janua ditis : Sed
revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras, Hoe opus, hie labor
est. Pauei quos sequus amavit Jupiter, aut ardens evexit ad sethera
virtus, Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,
Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1 * Ancient
Symhol-Worship, page 11, noie. t Davidson^s Translation. — "
Easy is the path that leads down to hell ; grim Pluto's gate stands open
night and day : but to retrace one's steps, and escape to the upper
regions, this is a work, this is a task. Some few, whom favoring Jove
loved, or illustrious virtue Bacchic Mysteries. 51
is it not obvious, from tlie preceding expla- nation, that by
Avernus, in this place, and the dark gates of Pluto, we mnst
understand a corporeal or external nature, the descent into which
is, indeed, at all times obvious and easy, but to recall our steps, and
ascend' into the upper regions, or, in other words, to separate the
soul from the body by the purifying discipline, is indeed a mighty
work, and a laborious task ? For a few only, the fa- vorites of
heaven, that is, born with the true philosophic genius,^ and whom ardent
virtue has elevated to a disposition and capacity for divine
contemplation, have been enabled to accomplish the arduous design. But
when he says that all the middle regions are covered with woods,
this hkewise plainly in- timates a material nature ; the word silva^
as is well known, being used by ancient writers to signify matter,
and implies nothing more than that the passage leading to the
barafh- advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected
it. Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding
with his black, winding flood, surrounds it." * /. e., a
disposition to investigate for the purpose of eliciting truth, and
reducing it to practice. Meusinian and rum [abyss] of body, /.
e. into profound darkness and oblivion, is throngh the me- dium of
a material nature ; and this medium is surrounded by the black bosom of
Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamenta- tions, the necessary
consequence of the soul's union with a nature entirely foreign to
her own. So that the poet in this particular per- fectly
corresponds with EMPEDOCLE DI GIRGENTI in the line we have cited above,
where he exclaims, alluding to this union. For this I weej),
for this indulge my icoe, That e'er my soul such novel realms
should know. In the next place, he thus describes the cave,
through which ^neas descended to the infernal regions :
Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu, Scrupea, tuta lacu
nigro, raemorumque tenebris : Quam super hand ulla? poterant impune
volantes Tendere iter pennis : talis sese halitus atris Faueicus
effundens supera ad eonvexa fevebat : Unde locum Graii dixerimt nomiue
Aornum 1 * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld. \
Davidson’s Trnnslation. — "There was a cave profound and hideous,
with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,
Bacchic Mysteries. 53 Does it not afford a beautiful
representation of a corporeal nature, of which a cave, de- fended
with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem *? For it
occultly re- minds us of the ever-flowing and obscin*e condition of
such a nature, which may be said To roll incessant with
impetuous speed, Like some dai'k river, into Matter's sea.
Nor is it with less propriety denominated Aornus, i. e. destitute
of birds, or a winged nature ; for on account of its native
sluggish- ness and inactivity, and its merged condi- and the
gloom of woods ; over which none of the flying kind were able to wing
their way unliurt ; such exhalations issuing from its grim jaws ascended
to the vaulted skies ; for w^iich reason the Greeks called the place by
the name of Aornos" (without birds). Jacob Bryant says: "
All fountains were esteemed sacred, but especially those which had any
preternatural quality and abounded with exhalations. It was an universal
notion that a divine energy proceeded from these effluvia ; and that the
persons who resided in their vicinity were gifted with a prophetic quality.
. . . The Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or fountains of
the oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of God.' These
terms the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a nymph." —
Ancient Mythology, vol. i. p. 276. The Delphic oracle was
above a fissure, (jnnnous or hocca infe- riore, of the earth, and the
pythoness inhaled the vapors. — A. W. Eleiisinian and tion,
being situated in the outmost extremity of tilings, it is perfectly
debile and languid, incapable of ascending into the regions of
reality, and exchanging its obscure and de- graded station for one every
way splendid and divine. The propriety too of sacrificing, previous
to his entrance, to Night and Earth, is obvious, as both these are
emblems of a corporeal nature. In the verses which
immediately follow, — Ecee autem, priini sub limina solis et
ortus, Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere Silvarum,
visaque canes ululare per umbram, Adventante dea * we may
perceive an evident allusion to the earthquakes, etc., attending the
descent of the soul into body, mentioned by Plato in the tenth book
of his Republic ;\ since the * " So, now, at the fii-st beams
and rising of tlie sun, the earth under the feet begins to rumble, the
wooded hills to quake, and dogs were seen howling through the shade, as
the goddess came hither " i Republic, x, 16. "After
they were laid asleep, and midnight was approaching, there was thunder
and earthquake ; and they were thence on a sudden carried upward, some
one way, and some another, approaching to the region of generation like
stars." Bacchic Mysteries. 55 lapse of the
soul, as we shall see more fully hereafter, was one of the important
truths which these Mysteries were intended to re- veal. And the
howling dogs are symbols of material * demons, who are thus denomi-
nated by the Magian Oracles of Zoroaster, on account of then"
ferocious and malevolent dispositions, ever baneful to the felicity
of the human soul. And hence Matter herseK is represented by
Synesius in his first Hymn, with great propriety and beauty, as
barking at the soul with devoimng rage : for thus he sings,
addressing himself to the Deity : Maxap 6c x:c popov oImc,
npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc, AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po) lyyoc, £?
t^sov v.xo.vjzi. Which may be thus paraphrased :
Blessed! thrice blessed! who, with winged speed, From Hyle's t
dread voracious bai'kiug flies, * Material demons are a lower grade
of spiritual essences that are capable of assuming forms which make them
perceptible by the physical senses. — A. W. t Hijle or
Matter. All evil incident to human life, as is here shown, was supposed
to originate from the connection of the soul to material substance, the
latter being regarded as the receptacle 56 EleMsinian
and And, leaving Earth's obscnrity behind, By a light leap,
directs his steps to thee. And that material demons actually
ap- peared to the initiated previous to the lucid visions of the
gods themselves, is evident from the following passage of Proclus
in his manuscript Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic
rj.-(iozazaic tcov tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov
/iS'Gvuov £%- poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov
ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. " In the most
interior sanctities of the Mys- teries, before the presence of the god,
the rushing forms of earthly demons appear, and call the attention
from the immaculate good to matter." And Pletho (on the
Oracles), expressly asserts, that these spectres ap- peared in the
shape of dogs. After this, ^neas is described as proceed- ing
to the infernal regions, through profound night and darkness :
Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram, Perque domos Ditis
vaciias, et inania regna. of everything evil. But why the soul is
thus immerged and pun- ished is nowhere explained. — A. W.
Bacchic Mysteries. 57 Quale per ineertam lunam sub luce
maligna Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra Jupiter, et
rebus nox abstulit atra colorem.* And this with the greatest
propriety; for the Mysteries, as is well known, were cele- brated
by night ; and in the Republic of Plato, as cited above, souls are
described as falling into the estate of generation at mid- night ;
this period being peculiarly accom- modated to the darkness and oblivion
of a corporeal nature ; and to tliis circumstance the nocturnal
celebration of the Mysteries doubtless alluded. In the next
place, the following vivid description presents itself to our view
: Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei Luctus,
et ultrices posuere eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi,
tristisque senectus, Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis
egestas; *" They went along, amid the gloom under the solitary
night, through the shade, and through the desolate halls, and empty
realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods beneath
the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter has enveloped the
sky in shade, and the black Night has taken from all objects their
color." Eleiisinian and Terribiles visu forraje ; Lethumque
Laborque ; Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie
adverso in limine bellum Ferreique Eumenidum thalami et Discordia
demons, Vipereum crinem vittis inuexa cruentis. In medio ramos
annosaque braehia pandit Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia
vulgo Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent. Multaque
prseterea variarum monstra f erarum : Centauri in foribus stabiilant,
Scyllseque biforines, Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,
Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et
foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^ And surely it is impossible to draw
a more lively picture of the maladies with wliich a *
"Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief
and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases in- habit
there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess of persuasion,
and unsightly Poverty — forms terrible to contem- plate ! and there, too,
are Death and Toil ; then Sleep, akin to Death, and evil Delights of mind
; and upon the opposite threshold are seen death-bringing War, and the
iron marriage-couches of the Furies, and raving Discord, with her
viper-hair bound with gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge
expands its boughs and aged limbs ; making an abode which vain Dreams
are said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides
all these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts.
The Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the
hun- dred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and
Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and the shades
of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is
connected ; of the sonl's dormant condition tlirougli its union
with body ; and of the various mental diseases to which, through
such a conjunction, it be- comes unavoidably subject ; for this
descrip- tion contains a threefold division ; represent- ing, in
the first place, the external evil with which this material region is
replete ; in the second place, intimating that the life of the soul
when merged in the body is nothing but a dream; and, in the third place,
under the dis- guise of multiform and terrific monsters, ex-
hibiting the various vices of our iiTational and sensuous part. Hence
Empedocles, in perfect conformity w^th the first part of this
descrip- tion, calls this material abode, or the realms of
generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a '^joyless region^
"Where slaiighter, rage, ami countless ills reside; EvO'a
<povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa llYjpWV and into which
those who fall, * This and the other citations from Empedocles are
to be found in the book of Hieroeles on The Golden Verses of
Pythagoras. Bacchic Mysteries. "Through Ate's meads and
dreadful darkness stray." And hence lie justly says to
sncli a soul, that " She flies from deity and heav'nly
light, To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti
ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla
demens of Virgil is an exact translation of the Nsixst {iaivo{j.£vco of
Empeclocles. In the hues, too, which immediately suc-
ceed, the sorrows and mournful miseries attending the soul's union with a
material nature, are beautifully described. Hinc via,
Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas; Turbidus hie caeno vastaque
voragine gurges ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam.*
And when Charon calls out to ^neas to * "Here is the way
whieli leads to the surging billows of Hell [Acheron] ; here an abyss
turbid boils up with loathsome mud and vast whirlpools; and vomits all
its quicksand into Cocytus." IJiaua auct
Calisto. Bacchic Mysteries. 63 desist from
entering any farther, and tells him, " Here to reside
delusive shades delight; ''F.or nought dwells here but sleep and
drowsy night. Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse
nothing can more aptly express the condi- tion of the dark regions
of body, into which the soul, when descending, meets with no- thing
but shadows and drowsy night : and by persisting in her course, is at
length lulled into profound sleep, and becomes a true inhabitant of the
phantom-abodes of the dead. ^neas having now passed over the
Sty- gian lake, meets with the three-headed monster Cerberus,* the
guardian of these infernal abodes : Tandem trans fluvium
incolumis vatemque virumque Informi limo glaueaque exponit in ulva. The
presence of Cerberus in the ROMAN description of the underworld shows
that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from Egypt,
but from the Brahmans of the far East. Yama, the lord of the Underworld,
is attended by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the
three-headed. Meusinian and Cerberus haec ingens latratu regna
trifauci Personat, adverse recubaus immanis in antro. By Cerberus we must
understand the discriminative part of the soul, of which a dog, on
account of its sagacity, is an emblem ; and the three heads signify the
triple distinction of this part, into the intellective [or intui-
tional], cogitative [or rational], and opinion- ative powers. With
respect f to the three kinds of persons described as situated on
the borders of the infernal realms, the poet doubtless intended by
this enumeration to represent to us the three most remarkable At
length across the river safe, the prophetess and the man, he lands upon
the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of
death] resound with barking from his threefold throat, as he lies
stretched at prodigious length in the opposite cave."
tin the second edition these terms are changed to dianoietic and
doxastic, words which we cannot adopt, as they are not accepted English
terms. The nous, intellect or spirit, pertains to the higher or
intuitional part of the mind; the dianoia or understanding to the
reasoning faculty, and the doxa, or opinion- forming power, to the
faculty of investigation. — Plotinus, accept- ing this theory of mind,
says: "Knowledge has three degrees — opinion, science, and
illumination. The means or instrument of the first is reception ; of the
second, dialectic ; of the third, in- tuition."— A. W. Bacchic
Mysteries. characters, wlio, though not apparently de- serving of
punishment, are yet each of them similarly im merged in matter, and
conse- quently require a similar degree of purifica- tion. The
persons described are, as is well known, first, the souls of infants
snatched away by untimely ends ; secondly, such as are condemned to
death unjustly ; and, third- ly, those who, weary of their lives,
become guilty of suicide. And with respect to the first of these,
or infants, their connection with a material nature is obvious. The
sec- ond sort, too, who are condemned to death unjustly, must be
supposed to represent the souls of men who, though innocent of one
crime for which they were wrongfully pun- ished, have, notwithstanding,
been guilty of many crimes, for which they are receiving proper
chastisement in Hades, i. e, through a profoiuid union with a material
nature.* And the third sort, or suicides, though ap- * Hades,
the Underworld, supposed by classical students to be the region or estate
of departed souls, it will have been noticed, is regarded by Taylor and
other Platonists, as the human body, which they consider to be the grave
and place of punishment of the soul. — A. W. Eleusinian and
parently separated from the body, have only exchanged one place for
another of similar nature ; since conduct of this kind, according
to the arcana of divine philosophy, instead of separating the soul from
its body, only restores it to a condition perfectly correspon- dent
to its former inchnations and habits, lamentations and woes. But if we
examine this affair more profoundly, we shall find that these three
characters are justly placed in the same situation, because the reason of
punishment is in each equally obscure. For is it not a just matter of
doubt why the souls of infants should be punished? And is it not
equally dubious and wonderful why those who have been unjustly condemned
to death in one period of existence should be punished in another?
And as to suicides, Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition
of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) * is a profound doctrine,
and not easy to be Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made
to the candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these
were made by the Hierophant, and enforced by him from the Book of
InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of
stone. This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a
rock, Bacchic Mysteries. understood.* Indeed, the true
cause why the two first of these characters are in Hades, can only
be ascertained from the fact of a prior state of existence, in surveying
which, the latent justice of punishment will be mani- festly
revealed ; the apparent inconsistencies in the administration of
Providence fully reconciled; and the doubts concerning the wisdom
of its proceedings entirely dissolved. And as to the last of these, or
suicides, since the reason of their punishment, and why an action of
this kind is in general highly atrocious, is extremely mystical and
obscure, the following solution of this difficulty will, no doubt,
be gratefully received by the Platonic reader, as the whole of it is no
where else to be found but in manuscript. Olym- or possibly
from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians, xii. 6-8.— A.
W. * PJuedo, The instruction in the doctrine given in the
Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and that we
ought not to free ourselves from it or seek to- escape, appears to me
difficult to be understood, and not easy to ap- prehend. The gods take
care of us, and we are theirs." Plotinus, it will be
remembered, perceived by the interior faculty that Porphyry contemplated
suicide, and admonished him accordingly. — A. W. Eleusinian
and piodorus, then, a most learned and excellent commentator
on Plato, in his commentary on that part of the PJuedo where Plato
speaks of the prohibition of suicide in the aporrhefa, observes as
follows: "The argu- ment which Plato employs in this place
against suicide is derived fi^om the Orphic mythology, in which
foui" kingdoms are celebrated; the first of Uranus [Ouranos]
(Heaven), whom Ki'onos or Satm^n as- saulted, cutting off the genitals of
his father. But after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded to the
government of the world, having hurled his father into Tartarus.
And after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to light, who,
according to report, was, through the insidious treachery of Hera or
Juno, torn in pieces by the Titans, by whom he was sur- rounded,
and who afterwards tasted his flesh : but Jupiter,enraged at the deed,
hurled his thunder at the guilty offenders and consumed them to
ashes. Hence a certain matter be- In the Hindu mythology, from which this
symbolism is evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or
phallus, parted with his diviue authority. Bacchic
Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor of the smoke
ascending from their burning bodies, out of this mankind were
produced. It is unlawful, therefore, to destroy ourselves, not as
the words of Plato seem to unport, because we are in the body, as in
prison, secured by a guard (for this is evident, and Plato would
not have called such an assertion arcane), but because our body is
Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are a part of him,
since we are composed from the ashes, or sooty vapor of the Titans
who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful of
disclosing the arcane part of this narra- tion, relates nothing more of
the fable than that we are placed as in a prison secured by a guard
: but the interpreters re- late the fable openly." Koci z^zi zo
{j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.- zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7.
^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc
:r£pi a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl
0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3
a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO
7.7:0p- P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^
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£|(oi)-£v. After this he beautifully ob- serves, " That these four
governments signify the different gradations of virtues, accord-
ing to which oui^ soul contains the symbols of all the qualities, both
contemplative and purifying, social and ethical; for it either
Bacchic Mysteries. 71 operates acoording to the
theoretic or con- templative virtues, the model of which is the
government of Uranus or Heaven^ that we may begin from on high ; and on
this ac- count Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la avco
6pc/.v, from beholding the things above : Or it lives purely, the
exemplar of which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ; and on
this account Kronos is named as Koro-nous, one who perceives through
him- self. Hence he is said to devour his own offspring, signifying
the conversion of him- self into his own substance : or it operates
according to the social virtues, the sym- bol of which is the government
of Jupiter. Hence, Jupiter is styled the Demiurgus, as operating
about secondary things : — or it operates according to both the ethical
and physical virtues, the symbol of which is the kingdom of Bacchus ; and
on this account is fabled to be torn in pieces by the Titans,
because the virtues are not cut off by each other." Aiyozzoyzai
(lege aLVL-c- tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov
aps- xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja Bacchic
Mysteries. iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov,
otat yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.-
^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv ap^a{j.£i)-a, 5io
y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)?
C'^j? '^jC 'irapa- Sstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc
st- p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov 6pav. Aio y,7/w
xaxamveiv ta ocxsia ysw/)- {laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov
sTutatps- cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)
XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;, (0?
TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l- %aC %7C CpDa:7,7.?
7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai
a^apa-Tsrai, 5wti O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.
And thus far Olympiodorus ; in which pas- sages it is necessary to
observe, that as the Titans are the artificers of things, and stand
next in order to their creations, men are said to be composed from their
fragments, because the human soul has a partial life capable of
proceeding to the most extreme division united with its proper natiu'e.
And while the soul is in a state of servitude to
Kleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. the body, she hves
confined, as it were, in bonds, througli the dominion of this
Titan- ical life. We may observe farther concerning these dramatic
shows of the Lesser Mys- teries, that as they were intended to rep-
resent the condition of the soul while subservient to the body, we shall
find that a liberation from this servitude, through the purifying
disciplines, potencies that separate from evil, was what the wisdom of
the an- cients intended to signify by the descent of Hercules,
Ulysses, etc., into Hades, and their speedy return from its dark abodes.
' ' Hence," says Proclus, " Hercules being purified by
sacred initiations^ obtained at length a per- fect estabhshment among the
gods:"* that is, well knowing the dreadful condition of his
soul while in captivity to a corporeal nature, and purifying himself by
practice of the cleansing virtues, of which certain puri- fications
in the mystic ceremonies were symbolical, he at length was freed from the
bondage of matter, and ascended beyond her Commentary on the
Statesman of Plato. Meusinian and reach. On this account, it is
said of him, that He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day; intimating
that by temperance, continence, and the other virtues, he drew upwards
the intuitional, rational, and opinionative part of the soul. And
as to Theseus, who is repre- sented as . suffering eternal punishment in
Hades, we must consider him too as an allegorical character, of which
Proclus, in the above-cited admirable work, gives the fol- lowing
beautiful explanation : " Theseus and Pirithous," says he,
" are fabled to have ab- ducted Helen, and descended to the
infernal regions, i. e. they were lovers both of mental and visible
beauty. Afterward one of these (Theseus), on account of his
magnanimity, was Hberated by Hercules from Hades ; but the other
(Pirithous) remained there, be- cause he could not attain the difficult
height of divine contemplation." This account, in- deed, of
Theseus can by no means be recon- ciled with VIRGILIO’s: sedet,
seternumque sedebit, Infelix Theseus. There sits, and forever shall
sit, the unhappy Theseus. Bacchic Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be
reconciled with himself, who, a httle before this, rep- resents him
as hberated from Hades. The conjecture, therefore, of Hyginus is
most probable, that VIRGILIO in this particular committed an oversight,
which, had he lived, he would doubtless have detected, and amended.
This is at least much more probable than the opinion of Dr. Warbm^ton,
that Theseus was a living character, who once entered into the Eleusinian
Mysteries by force, for which he was imprisoned upon earth, and
afterward punished in the infernal realms. For if this was the
case, why is not Hercules also represented as in punishment? and
this with much greater reason, since he actually dragged Cerberus
from Hades ; whereas the fabulous descent of Theseus was attended
with no real, but only intentional, mischief. Not to mention that Virgil
appears to be the only writer of antiquity who condemns this hero
to an eternity of pain. Nor is the secret meaning of the
fables concernmg the punishment of impure souls 78
Eleusinian and less impressive and profound, as the follow-
ing extract fi'om the manuscript commentary of Olympiodorus on the GORGIA
DI LEONZIO of Plato will abundantly affirm: — "Ulysses," says
he, " descending into Hades, saw, among others, Sisyphus, and
Tityus, and Tantalus. Tityus he saw lying on the earth, and a vulture
de- vouring his liver; the liver signifying that he lived solely
according to the principle of cupidity in his natiu'e, and tln^ough this
was indeed internally prudent ; but the earth signifies that his
disposition was sordid. But Sisyphus, living under the dominion of
ambi- tion and anger, was employed in continually rolling a stone
up an eminence, because it perpetually descended again ; its descent
im- plying the vicious government of himself ; and his rolling the
stone, the hard, refractory, and, as it were, rebounding condition of his
hf e. And, lastly, he saw Tantalus extended by the side of a lake, and
that there was a tree before him, with abundance of fruit on its
branches, which he desired to gather, but it vanished from his view ; and
this indeed indicates, that he lived under the dominion Bacchic
Mysteries.of phantasy ; but his hanging over the lake, and in vain
attempting to drink, imphes the elusive, humid, and rapidly-ghding
condition of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec
cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc xov TavraXov.
Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo
r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct
xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0
cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov a'jxoy
'-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo- xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi;
C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/.
xaxap- p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,
hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC- Tov o£
T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj) %7.l OXt £V 5£v5pOtC
'^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£ xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo
ai o^copat. TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V
Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,
%7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord- ing to the wisdom of
the ancients, and the most sublime philosophy, the misery which a
soul endures in the present life, when giv- ing itself up to the dominion
of the irrational 80 Elensinian and part, is
nothing more than the commence- ment, as it were, of that torment which
it win experience hereafter : a torment the same in kind though
different in degree, as it will be much more di'eadful, vehement,
and extended. And by the above specimen, the reader may perceive how
infinitely supe- rior the explanation which the Platonic philosophy
affords of these fables is to the frigid and trifling interpretations of
Bacon and other modern mythologists ; who are able mdeed to point
out their correspondence to something in the natui'al or moral world,
be- cause such is the wonderful connection of things, that all
things sympathize with all, but are at the same time ignorant that
these fables were composed by men divinely wise, who framed them
after the model of the highest originals, from the contemplation of
real and permanent heing, and not from regarding the delusive and fluctuating
objects of sense. This, indeed, mil be evident to every ingenuous
mind, from reflecting that these wise men universally considered
Hell or death as commencing in the present life Baccldc Mysteries.
81 (as we have already abundantly proved), and that,
consequently, sense is nothing more than the energy of the dormant soul,
and a perception, as it were, of the delusions of di'eams. In
consequence of tliis, it is ab- surd in the highest degree to imagine
that such men would compose fables from the contemplation of
shadows only, without re- garding the splendid originals from which
these dark phantoms were produced : — not to mention that their
harmonizing so much more perfectly with intellectual explications
is an indisputable proof that they were de- rived from an intellectual
[noetic] source. And thus much for the dramatic shows of the
Lesser Mysteries, or the first part of these sacred institutions, which
was properly denominated xsXst-r] [telete^ the closing up] and
[vrrpiz Muesis [the initiation], as con- taining certain perfective
rites, symbolical ex- hibitions and the imparting and reception of
sacred doctrines, previous to the beholding of the most splendid visions,
or ETuoTutsta \epop- teia, seership]. For thus the gradation of Bacchic
Mysteries. the Mysteries is disposed by Proclus in Theology
of Plato, book iv. " The perfective rite [rsXsrrj, telete],^^ says
he, " precedes in or- der the initiation [\xorpiQ, muesis], and
initia- tion, the final apocalypse, epopteiay npoY^yst-
STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to observe that the
whole business of initiation was distributed into five parts, as we
are informed by Theon of Smyrna, in Matliema- tica, who thus
elegantly compares philosophy to these mystic rites : " Again,"
says he, " philosophy may be called the initiation into true
sacred ceremonies, and the instruction in genuine Mysteries ; for there
are five parts of initiation : the first of which is the previous
purification ; for neither are the Mysteries communicated to all who
are wilhng to receive them ; but there are cer- tain persons who
are prevented by the voice of the crier [%Tjpu^, herux^, such as
those who possess impure hands and an inartic- ulate voice ; since
it is necessary that such as are not expelled from the Mysteries
* Theology of Plato. Bacchic Mysteries. 85 should first be
refined by certain purifica- tions : but after purification, the
reception of the sacred rites succeeds. The third part is
denominated epopfeia, or reception.* And the fourth, which is the end and
design of the revelation, is [the investiture] the binding of the
head and fixing of the crowns. The ini- tiated person is, by this means,
authorized to communicate to others the sacred rites in which he
has been instructed ; whether after this he becomes a torch-bearer, or
an hierophant of the Mysteries, or sustains some other part of the
sacerdotal office. But the fifth, which is produced from all these,
is friendship and interior commtmion with God, and the enjoyment of
that felicity which arises from intimate converse with divine
beings. Similar to this is the com- munication of political instruction ;
for, in the first place, a certain purification precedes, *
Theon appears to regard the final apocalypse or epopteia, like E. Poeocke
to whose views allusion is made elsewhere. This writer says : " The
initiated were styled ebaptoi," and adds in a foot-note — "
Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According to this the
epopteia would imply the final reception of the interior doctrines. — A.
W. Eleusinian and or else an exercise in proper
matliematical discipline from early youth. For thus Em- pedocles
asserts, that it is necessary to be purified from sordid concerns, by
drawing from five fountains, with a vessel of indis- soluble brass
: but Plato, that purification is to be derived fi'om the five
mathematical disciplines, namely from arithmetic, geome- try,
stereometry, music, and astronomy ; but the philosophical instruction in
theorems, logical, pohtical, and physical, is similar to
initiation. But he (that is, Plato) denom- inates zTzoizzzirj, [or the
reveahng], a contem- plation of things which are apprehended in-
tuitively, absolute truths, and ideas. But he considers the binding of
the head, and corona- tion, as analogous to the authority w^hich
any one receives from his instructors, of leading others to the
same contemplation. And the fifth gradation is, the most perfect
fehcity arising from hence, and, according to Plato, an
assimilation to divinity^ as far as is pos- sible to mankind." But
though s'jroTrTS'.a, or the rendition of the arcane ideas, princi-
pally characterized the Greater Mysteries, yet Bacchic
Mysteries. 87 this was likewise accompanied with the [j.uyj-
GLc, or initiation, as will be evident in the conrse of this
inquuy. But let US now proceed to the doctrine of the Greater
Mysteries : and here I shall en- deavor to prove that as the dramatic
shows of the Lesser Mysteries occultly signified the miseries of
the soul while in subjection to body, so those of the Grreater obscurely
inti- mated, by mystic and splendid visions, the felicity of the
soul both here and hereafter, when purified from the defilements of
a material nature, and constantly elevated to the realities of
intellectual [spiritual] vision. Hence, as the ultimate design of the
Mys- teries, according to Plato, was to lead us back to the
principles from which we descended, that is, to a perfect enjoyment of
intellectual [spiritual] good, the imparting of these prin- ciples
was doubtless one part of the doctrine contained in the airoppTjia,
aporrheta, or se- cret discourses ; * and the different purifica-
* The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the
Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle to the
Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, — whether in
88 Eleusinian and tions exhibited in these rites, in
conjunction with initiation and the epopteia were symbols of the
gradation of virtues requisite to this reascent of the soul. And hence,
too, if this be the case, a representation of the descent of the
soul [from its former heavenly estate] must certainly form no
inconsiderable part of these mystic shows ; all which the f ollomng
observations will, I do not doubt, abundantly evince. In the
first place, then, that the shows of the Greater Mysteries occultly
signified the felicity of the soul both here and hereafter, when
separated from the contact and influ- ence of the body, is evident from
what has been demonstrated in the former part of this discourse :
for if he who in the present life is in subjection to Ms irrational part
is truly in ITades, he who is superior to its dominion is liheivise
an inhahitayit of a place totally different from Hades* If Hades
therefore body or outside of body, I know not: God knoweth, — who
was rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings
ineffable, which it is not lawful for a man to repeat."
*Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is
in the heavens." Bacchic Mysteries. 89 is
the region or condition of punishment and misery, the purified soul must
reside in the regions of bhss ; in a hf e and condition of purity
and contemplation in the present life, and entheastically,* animated by
the divine * Medical and Surgical Bejiorter, vol. xxxii. p. 195.
"Those who have professed to teach their fellow-mortals new truths
eon- cerning immortality, have based their authority on direct
divine inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all
claimed communication with higher spirits ; they were what the Greeks
called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking word which Byron
introduced into our tongue." Carpenter describes the condition as an
automatic action of the brain. The inspired ideas arise in the mind
suddenly, spontaneously, but very vividly, at some time when tliinhing of
some other topic. Francis Galton defines genius as " the automatic
activity of the mind, as distin- guished from the effort of the will, —
the ideas coming by inspira- tion." This action, says the editor of
the Reporter, is largely favored by a condition approaching mental
disorder — at least by one remote from the ordinary working day habits of
thought. Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual
com- motion of mind, will produce it ; and, indeed, these
extraordinary displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha,
Moham- med, all began their careers by fasting, and visions of devils
fol- lowed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries
also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic orgies.
"We do not, however, accept the materialistic view of this subject.
The cases are enftieasHe ; and although hysteria and other disorders of
the sympathetic system sometimes imitate the phenomena, we believe with
Plato and Plotimis, that the higher faculty, intellect or intuition as we
prefer to call it, the noetic part of our nature, is the faculty actually
at work. "By reflection, 90 Eleusinian and
energy, in the next. This being admitted, let us proceed to
consider the description which Virgil gives us of these fortunate
abodes, and the latent signification which it contains, ^neas and his
guide, then, hav- ing passed tlu^ough Hades, and seen at a dis-
tance Tartarus, or the utmost profundity of a material nature, they next
advance to the Elysian fields : Devenere locus Isetos, et
amaena vireta Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me
campos gether et lumine vestit Purpureo ; solemque suum, sua sidera
norunt. * Now the secret meaning of these joyful places is
thus beautifully unfolded by Olym- piodorus in his manuscript Commentary
on the Gorgias of Plato. "It is necessary to know," says
he, " that the fortunate islands are said to be raised above the sea
; and self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be
raised to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is,
to the vision of God." This is the epopteia. — A. W. *
"They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re-
treats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky
here clothes the fields with a purjile light ; they recog- uize their own
suu, their own stars." Bacchic Mysteries. 91
hence a condition of being, which transcends this corporeal hfe and
generated existence, is denominated the islands of the blessed ;
but these are the same with the Elysian fields. And on this account
Hercules is said to have accomphshed his last labor in the Hes-
perian regions ; signifying bythis, that having vanquished a dark and
earthly life he after- ward hved in day, that is, in truth and
light." Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q
i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav
too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc, {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI.
TaoTC/v $£ saxi ■vcc/.t xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6
'Hpay,- Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv
s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov ■jcai yO-oviov pwv, xai
Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he
who in the present state vanquishes as much as possible a corporeal
life, through the practice of the piu'ifying virtues, passes in
reahty into the Fortunate Islands of the soul, and lives surrounded with
the bright splen- dors of truth and wisdom proceeding from the sun
of good. 92 Bacchic Mysteries. The poet, in
describing the employments of the blessed, says : Pars
in gramineis exereent membra paleestris : Coutendunt ludo, et f ulva
luctantur arena : Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.
Nee non Threicius longa cum veste saeerdos Obloquitur uumeris septem
discrimina vocum: lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.
Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles, Magnanimi heroes, nati
melioribus annis, Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus
auctor. Arma procul, currusque virum miratur inanis. Stant terra
defixse hastse, passimque soluti Per campum pascuntur equi. Quae gratia
curruum Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis Pascere equos,
eadem sequitur tellure repostos. Conspicit, ecee alios, dextra laevaque
per herbam Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis. Inter
odoratum lauri nemus : unde superne Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur
amnis.* * "Some exercise their limbs upon the grassy field,
contend in play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the ground
and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his long robe
[Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven distinguished notes
; and now strikes them with his fingers, now with the ivory quill. Here
are also' the ancient race of Teucer, a most illustrious progeny, noble
heroes, born in happier j-ears, — II, Assarac, and Dardan, the founder of
Troy, ^neas looking from afar, admires the arms and empty war-cars of the
heroes. There stood spears fixed in the ground, and scattered over
the plain horses are feeding. The same taste which when alive
•'i%^^^^_^ ^^^!^mm^ Eleusiuiau
Mj'steries. Bacchic Mysteries. 95 This must not
be understood as if the soul in the regions of fehcity retained any
affec- tion for material concerns, or was engaged in the trifling
pursuits of the everyday cor- poreal life ; but that when separated
from generation, and the world's life, she is con- stantly engaged
in employments proper to the higher spiritual nature ; either in divine
con- tests of the most exalted wisdom ; in forming the responsive
dance of refined imagina- tions; in tuning the sacred lyi'e of
mystic piety to strains of divine fury and ineffable dehght ; in
giving free scope to the splendid and winged powers of the soul; or
in nourishing the higher intellect with the sub- stantial banquets
of intelligible [spiritual] food. Nor is it without reason that the
river Eridanus is represented as flowing through these delightful abodes;
and is at these men had for chariots and arms, the same passion for
rear- ing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth.
Lo! also he views others, on the right and left, feasting on the
grass, and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove
of laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls
through the woods." A peeon was chanted to Apollo at Delphi every
seventh day. 96 Eleusinian and the same time
denominated plurimus (great- est), because a great part of it was
absorbed in the earth without emerging from thence : for a river is
the symbol of hfe, and conse- quently signifies in this place the
intellectual or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that
is, from divinity itself, and gliding with pro- lific energy through the
hidden and profound recesses of the soul. In the following
lines he says : Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,
Riparumque toros, et prata recentia rivis Incolimus.* By the
blessed not being confined to a par- ticular habitation, is implied that
they are perfectly free in all things ; being entirely free from
all material restraint, and purified from all inclination incident to the
dark and cold tenement of the body. The shady groves are symbols of
the retiring of the » li ' No one of us
has a fixed abode. We inhabit the dark groves, and occupy couches on the
river-banks, and meadows fresh with little rivulets."
Bacchic Mysteries. 97 soul to the depth of her essence, and
there, by energy solely divine, establishing herself in the
ineffable principle of things.* And the meadows are syin])ols of that
prolific power of the gods through which all the variety of
reasons, animals, and forms was produced, and which is here the
refresh- ing pastui'e and retreat of the hberated soul.
But that the communication of the knowl- edge of the principles
from which the soul descended formed a part of the sacred Mys-
teries is evident from Yirgil ; and that this was accompanied with a
vision of these prin- ciples or gods, is no less certain, from the
testimony of Plato, Apuleius, and Proclus. The first part of this
assertion is evinced by the following beautiful lines : *
Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true knowledge
is naturally carried in his aspirations to the real prin- ciple of being
; and his love knows no repose till it shall have been united with the
essence of each object through that jiart of the soul, which is akin to
the Permanent and Essential ; and so, the divine conjunction having evolved
interior knowledge and truth, the knowledge of being is won."
98 EleiiHinian and Prineipio cfelum ac tei-ras,
eamposque liquentes Lucentemque globum luuas, Titauiaque
astra Spiritus intus alit, totumque infusa per artus
Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. Inde hominum
peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e marmoreo fert monstra
sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et cselestis origo
Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant, Terrenique
hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt cupiuntque :
dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa tenebris et
carcere csecc* For the sources of the soul's existence are
also the principles from which it fell; and these, as we may learn from
the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane soul, and the
junior or mundane gods.f Now, of * "First of all the interior
spirit sustains the heaven and earth and watery plains, the illuminated
orb of the moon, and the Titan- ian stars ; and the Mind, diffused
through all the members, gives energy to the whole frame, and mingles
with the vast body [of the universe]. Thence proceed the race of men and
beasts, the vital souls of birds and the brutes which the Ocean breeds
beneath its smooth surface. In them all is a potency like fire, and a
celestial origin as to the rudimentary principles, so far as they are not
clogged by noxious bodies. They are deadened by earthly forms and members
subject to death ; hence they fear and desire, grieve and rejoice ; nor
do they, thus enclosed in darkness and the gloomy prison, behold the
heavenly air." \ Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus)
himself formed the divine; and then delivered over to his celestial
offspring [the Bacchic Mysteries. 99 these, the
mundane intellect, which, accord- ing to the ancient theology, is
represented by Bacchus, is principally celebrated by the poet, and
this because the soul is particu- larly distributed into generation,
after the manner of Dionysus or Bacchus, as is evident from the
preceding extracts from Olympio- dorus : and is still more abundantly
confirmed by the following curious passage from the same author, in
his comment on the Plicedo of Plato. " The soul," says he,
" descends Cori- cally [or after the manner of Proserpine]
into generation,* but is distributed into gen- eration Dionysiacally,t
and she is bound in body PrometheiacallyJ and Titanically: she
fi'ees herself therefore from its bonds by ex- ercising the strength of
Hercules ; but she subordinate or generated gods], the task of
creating the mortal. These subordinate deities, copying the example of
their parent, and receiving from his hands the immortal principles of the
human soul, fashioned after this the mortal body, which they
consigned to the soul as a vehicle, and in which they placed also
another kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and
fatal passions." * That is to say, as if dying. Kore was
a name of Proserpina. t /. e. as if divided into pieces.
X I. e. Chained fast. 100 We US in km and
is collected into one through the assistance of Apollo and the
savior Minerva, by phi- losophical discipline of mind and heart
purify- ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv
'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza-
AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L- '^(oc
-(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes
of the soul's exis- tence, when he says, Igneiis est ollis
vigor, et coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes
to the sowing of souls into generation, t mentioned in the Timmus.
And fi'om hence the reader will * "There is then a certain
fiery potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary
principles." /. e. Restored to wholeness and divine life.
tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the
dead. It is sown in corruption [the material body] ; it is raised in
incorruption : it is sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it is
sown in weakness ; it is raised in power : it is sown a psychical body ;
it is raised a spiritual body." Bacchic Mysteries.
101 easily perceive the extreme ridiculousness of Dr.
Warburton's system, that the grand secret of the Mysteries consisted in
exposing the errors of Polytheism, and in teaching the doctrine of
the unity, or the existence of one deity alone. For he might as well have
said, that the great secret consisted in teaching a man how, by
writing notes on the works of a poet, he might become a bishop ! But
it is by no means wonderful that men who have not the smallest
conception of the true nature of the gods ; who have persuaded
themselves that they were only dead men deified ; and who measure the
understand- ings of the ancients by their own, should be led to
fabricate a system so improbable and absurd. But that this
instruction was accompanied with a vision of the source from which
the soul proceeded, is evident from the express testimony, in the
first place, of Apuleius, who thus describes his initiation into
the Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et calcato
Proserpinse limine, per omnia vectus elementa remeavi. Nocte media vidi
solem. 102 Meusinicm and candido coniscantem
kimine, deos inferos, et deos superos. Access! coram, et adoravi de
proximo." * That is, "I approached the confines of death : and
having trodden on the threshold of Proserpina returned, having been
carried through all the elements. In the depths of midnight I saw the sun
glitter- ing with a splendid light, together with the infernal and
supernal gods : and to these divinities approaching near, I paid the
tribute of devout adoration." And this is no less evidently
implied by Plato, who thus de- scribes the fehcity of the holy soul prior
to its descent, in a beautiful allusion to the arcane visions of
the Mysteries. Ka/.Ao? 3s TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV
£UOaL|J,OVt )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot
jjis'La [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov t£
7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a- pKOXW.TYjV
YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^ OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC
%7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£
7,7.1 TLTiXa %7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt
T£ 7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl * The
Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn). Bacchic Mysteries. 103
TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s
d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law- ful to survey the
most splendid beauty, when we obtained, together with that blessed
choir, this happy vision and contemplation. And we indeed enjoyed
this blessed spectacle to- gether with Jupiter ; but others in
conjunc- tion with some other god ; at the same time being
initiated in those Mysteries^ which it is lawful to call the most blessed
of all Mysteries. And these divine Orgies* were celebrated by us,
while we possessed the proper integrity of our nature, we were
freed from the molestations of evil which otherwise await us in a future
period of time. Likewise, in consequence of this divine initiation,
we became spectators of entire, simple, immovable, and blessed visions,
res- ident in a pure hght ; and were ourselves pure and immaculate,
being hberated from this surrounding vestment, which we denom-
inate body, and to which we are now bound * The peculiar rites of
the Mysteries were indifferently termed Orgies or Labors, teletai or
finishings, and initiations. 10-i Bacchic Mysteries.
like an oyster to its shell."* Upon this beautiful passage
Proclus observes, "That the initiation and epopfeia [the vailing and
the reveahng] are symbols of ineffable silence, and of union with
mystical natures, through intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic,
v.ai r^ * Phcedriis, 64. t Proclus : Theology of Plato,
book iv. The following reading is suggested : "The initiation and
final disclosing are a symbol of the Ineffable Silence, and of the
enosis, or being at one and en rapport with the mystical verities through
manifestations in- tuitively comprehended." The
ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as
relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal
happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp- tion
from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there was a
certain welcome to the abodes of the blessed. The term cTTOTrcjioi,
epopteia, applied to the last scene of initiation, he de- rives from the
Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being regarded as having
secured for himself or herself divine bliss. It is more usual,
however, to treat these terms as pure Greek; and to render the mnesis as
initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat. According to this
etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who knows the interior
wisdom. The terms in- spector and superintendent do not, tome, at all
express the idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr.
Pocoeke, that the Mysteries came from the East, and from that to deduce that
the technical words and expressions are other than Greek.
Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual
discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your
soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa
"^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia- xtov svcoascoc;. Now, from all tliis,
it may be inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx
\epoptei(i\ or final revealing, con- sisted in beholding the gods
themselves in- vested with a resplendent hght ; * and that this was
symbohcal of those transporting visions, which the virtuous soul will
con- stantly enjoy in a future state ; and of which it is able to
gain some ravishing glimpses, even while connected with the
cumbrous vestment of the body.f the body, deny self, —
affections as well as appetites, — and the inner eye will begin to
exercise its clear and solemn vision." " In the reduction of
yonr soul to its simplest principles, the divine germ, you attain this
oneness. We stand then in the immediate pres- ence of God, who shines out
from the profound depths of the soul."- A. W. *
Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed by the
hierophant, and permitted to look within the cistn or chest, which
contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains sacred to
Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he now "knew
himself" by the sentiments aroused. Plato and Al- cibiades gazed
with emotions wide apart. — A. W. t Plotinus : Letter to Flaccus. "
It is only now and then that . we can enjoy the elevation made possible
for us, above the limits of the body and the world. I myself have
realized it but three times as yet, and Porphyry hitherto not
once." 108 Bacchic Mysteries. But that this
was actually the case, is evident fi'om the following unequivocal
tes- timony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic
TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^- aXazzoyzzc,
rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizM- zov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc,
xors 5s sec c(v- {J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os
stc dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all the
initiations and Mysteries, the gods ex- hibit many forms of themselves,
and appear in a variety of shapes : and sometimes, in- deed, a
formless light ^ of themselves is held forth to the view ; sometimes this
hght is according to a human form, and sometimes it proceeds into a
different shape." f This assertion of divine visions in the
Mysteries, Porpbyiy afterward declared that he witnessed
four times, when near him, the soul or " intellect " of
Plotiiius thns raised up to the First and Sovereign Good ; also that he
himself was only once so elevated to the enosis or union with God, so as
to have glimpses of the eternal world. This did not occur till he
was sixty-eight years of age. — A. W. * I. e. Si luminous
appearance without any defined form or shape of an object. \
Commentary upon the Republic of Plato, page 380. Cupids,
Satyr, aud statue of Priapua. Bacchic Mysteries. Ill
is clearly confirmed by Plotinus.* And, in short, that magical
evocation formed a part of the sacerdotal office in the Mysteries,
and that this was universally believed by all antiquity, long
before the era of the latter Platonists,t is plain from the testimony
of Hippocrates, or at least Democritus, in his Treatise de Morbo
Sacro.X For speaking of those who attempt to cure this disease by
magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac- Xaaaav arpovov
7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji
sxiataaO-ai, slis 7cac STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq
yvtofj-Tj? {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^so-
oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e. " For if they
profess themselves able to draw down the moon, to obscure the sun, to
pro- duce stormy and pleasant weather, as like- wise showers of
rain, and heats, and to render the sea and earth barren, and to
accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book 9. t
Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their
associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian and every
thing else of this kind ; whether they derive this knowledge from flie
Mysteries^ or from some other mental effort or meditation, they
appear to me to be impious, from the study of such concerns." From
all which is easy to see, how egregiously Dr. Warburton was
mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^ he asserts, "
that the light beheld in the Mysteries, was nothing more than an
illuminated image which the priests had thoroughly purified."
But he is likewise no less mistaken, in transferring the injunction
given in one of the Magic Oracles of Zoroaster, to the busi- ness
of the Eleusinian Mysteries, and in per- verting the meaning of the
Oracle's admoni- tion. For thus the Oracle speaks : Myj
'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw., That is, " Invoke not
the self -revealing image of Nature, for you must not behold these
things before your body has received the initiation." Upon which he
observes, " that Bacchic Mysteries. 113 the
self-revealing image ivas only a diffusive shining light, as the name
partly declares^ * But this is a piece of gross ignorance, from
which he might have been freed by an atten- tive perusal of Proehis on
the Timceus of Plato : for in these truly divine Commenta- ries we
learn, " that the moonf is the cause of nature to mortals, and the self
-rev eating image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv
acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a. o'j37.
xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is desirous of knowing what
we are to under- stand by the fountain of nature of which the moon
is the image, let him attend to the fol- lowing information, derived from
a long and deep study of the ancient theology : for from hence I
have learned, that there are many divine fountains contained in the
essence of the demiurgus of the world ; and that among these there
are three of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, — the fountain of virtues, or Minerva — and * Divine
Legation, p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter,
symbolized as Selene or the Moon, 114 Eleusinian
and the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as neces- sary to the prohfic reproduction
of liimself. And this information will enable us besides to explain
the meaning of the following i3as- sages in Apuleius, which, from not
being- understood, have induced the moderns to believe that
Apuleius acknowledged but one deity alone. The first of these passages
is in the beginning of the eleventh book of his MetamorpJioses, in
which the divinity of the moon is represented as addressing him in
this sublime manner : " En adsum tuis com- mota, Luci, precibus,
rerum Natura parens, elementorum omnium domina, seculorum progenies
initialis, summa numinum, regina Manium, prima cai^litum, Deoruni
Dearum- que facies uniformis : quae cseh luminosa culmina, maris
salubria flamina, inferorum de plorata silentia nutibus meis dispenso :
cu jus numen unicum, multiformi specie, ritu vario, nomine
multijugo totus veneratur orbis. Me primigenii Phryges Pessinunticam
nominant Bacchic Mysteries. 115 Deum matrem.
Hiiic Autochthones Attici Cecropiam Minervam ; ilhiic fluctuantes
Cy- prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri Dictjninam Dianam ;
Sicuh trihngues Sty- giam Proserpinam ; Eleusinii vetustam Deam
Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui
nascen- tis dei Sohs inchoantibus radiis iUustrantur, ^thiopes,
Ariique, priscaque doctrina pol- lentes ^gyptii cserimoniis me prorsus
propriis percolentes appellant vero nomine reginam Isidem."
That is, " Behold, Lucius, moved with thy supphcations, I am present
; I, who am Nature, the parent of things, mis- tress of all the
elements, initial progeny of the ages, the highest of the divinities,
queen of departed spirits, the first of the celes- tials, of gods
and goddesses the sole hkeness of all : who rule by my nod the luminous
heights of the heavens, the salubrious breezes of the sea, and the woful
silences of the in- fernal regions, and whose divinity, in itself
but one, is venerated by all the earth, in many characters, various
rites, and different appellations. Hence the primitive Phry-
116 Bacchic Mysteries. gians call me Pessinuntica, the
motlier of the gods ; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the
wave-siUTOunded Cyprians, Paphian Venus ; the arrow-bearing
Cretans, Dictynnian Diana; the three-tongued Sicil- ians, Stygian
Proserpina ; and the inhabit- ants of Eleusis, the ancient goddess
Ceres. Some, again, have invoked me as Juno, others as Bellona,
others as Hecate, and others as Rhamnusia ; and those who are
enlightened by the emerging rays of the rising sun, the Ethiopians,
and Aryans, and likewise the Egyptians powerful in ancient learning,
who reverence my divinity with cerenioaies per- fectly proper, call
me by my true appellation Queen Isis." And, again, in another place of
the same book, he says of the moon : " Te Superi colunt, observant
Inferi : tu rotas orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas
Tartarum. Tibi respondent sidera, gaudent numina, redeunt tempora,
serviunt elementa, etc." That is, " The supernal gods
reverence thee, and those in the realms beneath at- tentively do
homage to thy divinity. Thou dost make the universe revolve,
illuminate Bacchic Mysteries. 119 the sun,
govern the world, and tread on Tar- tarns. The stars answer thee, the
gods re- joice, the houi's and seasons retui*n by thy appointment,
and the elements serve thee." For all tliis easily follows, if we
consider it as addressed to the fountain-deity of nature,
subsisting in the Demiurgus, and which is the exemplar of that nature
which flourishes in the lunar orb, and throughout the mate- rial
world, and from which the deity itself of the moon originally proceeds.
Hence, as this fountain innnediately depends on the life-giving
goddess Rhea, the reason is ob- vious, why it was formerly worshiped as
the mother of the gods : and as all the mundane are contained in
the super-mundane gods, the other appellations are to be considered
as names of the several mundane divinities pro- duced by this fountain,
and in whose essence they are likewise contained. But to
proceed with our inquiry, I shall, in the next place, prove that the
different purifications exhibited in these rites, in con- junction
with initiation and the epopteia were symbols of the gradation of disciplines
120 Eleusinian and requisite to the reascent of the
soul.* And the fii'st part, indeed, of this proposition respecting
the purifications, immediately fol- lows from the testimony of Plato in
the pas- sage already adduced, in which he asserts that the
ultimate design of the Mysteries was to lead us back to the principles
from which we originally fell. For if the Mysteries were symbohcal,
as is universally acknowledged, this must likewise be true of the
purifica- tions as a part of the Mysteries ; and as in- ward
puiity, of which the external is sym- bolical, can only be obtained by
the exercise of the virtues, it evidently follows that the
purifications were symbols of the pimfying moral virtues. And the latter part
of the proposition may be easily inferred, from the passage ah'eady
cited from the Phmdrus of Plato, in which he compares initiation
and the epopteia to the blessed vision of the higher intelligible
natures ; an employment which can alone belong to the exercise of contemplation.
But the whole of this is rendered indisputable by the following re-
*/. e. to its former divine condition. Bacchic
Mysteries. 121 markable testimony of Olympiodorus, in his
excellent manuscript Commentary on the PJuedo of Plato.* "In the
sacred rites," says he, "popular pui4fications are in the
first place brought forth, and after these such as are more arcane.
But, in the third place, collections of various things into one are
re- ceived ; after which follows inspection. The ethical and
political virtues therefore are analogous to the apparent purifications ;
the cathartic virtues which banish all external impressions,
correspond to the more arcane purifications. The theoretical energies
about intelligibles, are analogous to the collections ; and the contraction
of these energies into an * We have taken the liberty to present
the following version of this passage, as more correctly expressing the
sense of the orig- inal: "At the holy places are first the public
purifications. With these the more arcane exercises follow ; and after
those the obliga- tions [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations
follow, ending with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the
moral and social (political) virtues are analogous to the public
purifications ; the purifying virtues in their turn, which take the place
of all external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines ;
the contemplative exei'cises concerning things to be known intui-
tively to the taking of the obligations ; the including of them as an
undivided whole, to the initiations ; and the simple ocular view of
simple objects to the epoptic revelations." 122
Eleusinian and indivisible nature, corresponds to initiation.
And the simple self-inspection of simple forms, is analogous to epoptic
vision." 'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr
^xszfj, 5s za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai
siri zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/Ao- yooaL
TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i aps- xa^ XGtc s[xcpavsai
y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii- 7,7^ 0371
77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s
xspt ':7 voriza r^scopYpt- %7c TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s
to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co ajispiarov X7cc \vyqGZGiy.
Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C
s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from noticing, with
indignation mingled with pity, the ignorance and arrogance of modern
crit- ics, who pretend that this distribution of the virtues is
entirely the invention of the latter Platonists, and without any
foundation in the writings of Plato.* And among the sup- porters of
such ignorance, I am sovry to find * The writings of Augustin
handed Neo-Platonism down to pos- terity as the original and esoteric
doctrine of the first followers of Plato. He enumerates the causes which
led, in his opinion, to the negative position assumed by the Academics,
and to the con- Bacchic Mysteries. 123 Fabricius,
in his prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing can be more
obvious to every reader of Plato than that in his Laws he treats of
the social and political virtues ; in his Phcedo, and seventh book
of the RepiibUc^ of the purifying; and in his Thceafetus, of the
contemplative and sub- limer virtues. This observation is, indeed,
so obvious, in the Phcedo, with respect to the purifying virtues, that no
one but a verbal critic could read this dialogue and be insen-
sible to its truth : for Socrates in the very beginning expressly asserts
that it is the business of philosophers to study to die, and to be
themselves dead,* and yet at the same time reprobates suicide. What then
can such eealment of their real opinions. He describes Plotinus as
a re- suscitated Plato. — Against the Academics, iii. 17-20.
* Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv op&to?
«t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'.
ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e. For as many
as rightly apply themselves to philosophy seem to have left others
ignorant, that they themselves aim at nothing else than to die and to be
dead. Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we shall
ap- proach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion
with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer
ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from it
until God himself shall release us." 124 Eleusinian
and a death mean but symbolical or philosophical death ? And
what is this but the true ex- ercise of the virtues which purify '?
But these poor men read only superficially, or for the sake of
displaying some critical acumen in verbal emendations ; and yet
with such despicable preparations for philosoph- ical discussion,
they have the impudence to oppose their puerile conceptions to the
de- cisions of men of elevated genius and pro- found investigation,
who, happily freed from the danger and drudgery of learning any
foreign language,* directed all their attention without restraint to the
acquisition of the most exalted truth. It only now remains
that we prove, in the last place, that a representation of the
descent of the soul formed no inconsiderable part of these mystic
shows. This, indeed, is doubt- * It is to be regretted,
nevertheless, that our author had not risked the " danger and
drudgery " of learning Greek, so as to have rendered fuller justice
to his subject, and been of greater service to his readers. We are
conscious that those who are too learned in verbal criticism are prone to
overlook the real purport of the text.— A. W. Bacchic
Mysteries. 125 less occultly intimated by Yirgil, when speak-
ing of the souls of the blessed ui Elysium, he adds, Has
omnes, ubi mille rotam volvere per annos, Lethaeum ad fluviiim deus
evocat agmine magno : Scilicet immemores supera ut convexa
revisant, Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.* But
openly by Apuleius in the following prayer which Psyche addresses to
Ceres : Per ego te frugiferam tuam dextram istam deprecor, per
Isetificas messium cserimonias, per tacita sacra cistarum, et per
famulorum tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae. Siculae
fulcamina, et currum rapacem, et ter- ram tenacem, et illuminarum
Proserpinse nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio tegit
Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse Psyches animse, supplicis fuse,
subsiste.f That is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing
right * " All these, after they have passed away a thousand
years, are summoned by the divine one in great array, to the Lethfean
river. In this way they become forgetful of their former earth-life,
and revisit the vatilted realms of the world, willing again to
return into bodies." t Apuleius : The Golden Ass. (Story
of Cupid and Psyche), book vi. 126 Bacchic
Mysteries. hand, by the joyful ceremonies of harvest, by the
occult sacred rites of thy cistae,* and by the winged car of thy
attending dragons, and the furrows of the Sicilian soil, and the
ra- pacious chariot (or car of the ravisher), and the dark
descending ceremonies attending the marriage of Proserpina^ and the
ascending rites which accompanied the lighted return of thy
daughter^ and l)ij other arcana which Eleusis the Attic sanctuary
conceals in profound silence^ reheve the sorrows of thy wretched
suppliant Psyche." For the abduction of Proserpina signifies the
descent of the soul, as is e^ddent from the passage previously
adduced from Olympiodorus, in which he says the soul descends Corically ;
f and this is confirmed by the authority of the philosopher
Sallust, who observes, " That the abduction of Proserpina is fabled
to have taken place about the opposite equinoctial ; and by this
the descent of souls [into earth- * Chests or baskets, made of
osiers, in which were enclosed the mystical images and utensils which the
uninitiated were not per- mitted to behold. t /• €. as to
death ; analogously to the descent of Kore-Per- sephone to the
Underworld. Ceres lends lier ear to Triptolemus.
Proserpina and Pluto. Jupiter augry. Bacchic
Mysteries. 129 life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav
lo^q- {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as the
abduction of Proserpina was exhibited in the dramatic representations of
the Myste- ries, as is clear from Apuleius, it indisputa- bly
follows, that this represented the descent of the soul, and its union
with the dark tene- ment of the body. Indeed, if the ascent and descent
of the soul, and its condition while connected with a material nature,
were rep- resented in the dramatic shows of the Mys- teries, it is
evident that this was implied by the rape of Proserpina. And the
former part of this assertion is manifest from Apu- leius, when describing
his initiation, he says, in the passage already adduced : "I
ap- proached the confines of death, and having trodden on the
threshold of Proserpina, / returned^ having been carried through
all the elements.^'' And as to the latter part, it has been amply
proved, fi'om the highest authority, in the first division of this
dis- course. * De Diis et Mundo, p. 251.
130 Meusinian and Nor must the reader be distiu^bed on
find- ing that, according to Porphyry, as cited by Eusebius,* the
fable of Proserpina alludes to seed placed in the ground ; for this is
like- wise true of the fable, considered according- to its material
explanation. But it will be proper on this occasion to rise a httle
higher, and consider the various species of fables, according to
their philosophical arrange- ment ; since by this means the present
sub- ject will receive an additional elucidation, and the wisdom of
the ancient authors of fables will be vindicated from the unjust
aspersions of ignorant declaimers. I shall present the reader, therefore,
with the fol- lowing interesting division of fables, fi'om the
elegant book of the Platonic philoso- pher Sallust, on the gods and the
universe. " Of fables," says he, " some are
theological, others physical, others animastic (or relating to
soul), others material, and lastly, others mixed from these. Fables are
theological which relate to nothing corporeal, but contem- plate
the very essences of the gods ; such as * Evang. Prcepui: book iii.
chap. 2. Bacchic Mysteries. 131 the fable which
asserts that Saturn devoured his children : for it insinuates nothing
more than the nature of an intellectual (or intu- itional) god ;
since every such intellect returns into itself. We regard fables
physically when we speak concerning the operations of the gods
about the world ; as when considering Saturn the same as Time, and calhng
the parts of time the children of the universe, we assert that the
children are devoiu'ed by their parent. But we utter fables in a
spiritual mode, when we contemplate the operations of the soul ;
because the intellections of our souls, though by a discursive energy
they go forth into other things, yet abide in their parents.
Lastly, fables are material, such as the Egyptians ignorantly employ,
consider- ing and calling corporeal natures divinities : such as
Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon, heat • or, again, denominating
Saturn water, Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, in- deed, to
assert that these are dedicated to the gods, in the same manner as herbs,
stones, and animals, is the part of wise men ; but to call them
gods is alone the province of fools and 132 Eleusinian
and madmen ; unless we speak in the same man- ner as when,
from estabhshed custom, we call the orb of the sun and its rays the sun
itself. But we may perceive the mixed kind of fables, as well in
many other particulars, as when they relate that Discord, at a
banquet of the gods, tlu'ew a golden apple, and that a dispute about
it arising among the god- desses, they were sent by Jupiter to take
the judgment of Paris, who, charmed with the beauty of Venus, gave
her the apple in pref- erence to the rest. For in this fable the
banquet denotes the super-mundane powers of the gods ; and on this
account they sub- sist in conjunction with each other : but the
golden apple denotes the world, which, on account of its composition from
contrary natures, is not improperly said to be thrown by Discord,
or strife. But again, since dif- ferent gifts are imparted to the world
by dif- ferent gods, they appear to contest with each other for the
apple. And a soul living ac- cording to sense (for this is Paris), not
per- ceiving other powers in the universe, asserts that the apple
is alone the beauty of Venus. Bacchic Mysteries. 133
But of these species of fables, such as are theological belong to
philosophers ; the phys- ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed
to the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ; since the
intention of all mystic ceremonies is to conjoin us with the world and
the gods.^'' Thus far the excellent Sallust : from
whence it is evident, that "the fable of Pro- serpina, as belonging
to the Mysteries, is properly of a mixed nature, or composed from
all the four species of fables, the theo- logical [spiritual or
psychical], and material. But in order to understand this divine
fable, it is requisite to know, that according to the arcana of the
ancient theology, the Coric * order (or the order belonging to
Proserpina) is twofold, one part of which is super-mundane, subsisting
with Jupiter, or the Demiurgus, and thus associated with him
establishing one artificer of divisible natures ; but the other is mundane,
in which Proser- * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina.
The name is derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure.
134 EJeiisinian and pina is said to be ravished by Pluto, and
to animate the extremities of the universe. *' Hence," says
Prockis, "according to the statement of theologists, who dehvered
to us the most holy Mysteries, she [Proserpina] abides on high in
those dwellings of her mother which she prepared for her in inac-
cessible places, exempt from the sensible world. But she likewise dwells
beneath with Pluto, administering terrestrial con- cerns, governing
the recesses of the earth, supplying life to the extremities of the
uni- verse, and imparting soul to beings which are rendered by her
inanimate and dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv
tac aytco- xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G-
xtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^
Yj (J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq.
Katco §£ {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ
ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC
eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y
aj^oyoic, 7.ai V£- xpot?.* Hence we may easily perceive that
* Proclus: TJieology of Plato, p. 371. Bacchic
Mysteries. 135 this fable is of the mixed kind, one part of
which relates to the super-mundane estabhsh- ment of the secondarj^ cause
of life,* and the other to the procession or outgoing of life and
soul to the farthest extremity of things. Let us therefore more
attentively consider the fable, in that part of it which is sym-
bolical of the descent of souls ; in order to which, it will be requisite
to premise an abridgment of the arcane discourse, respecting the
wanderings of Ceres, as preserved by Minutius Felix. "
Proserpina," says he, " the daughter of Ceres by Jupiter, as
she was gathering tender flowers, in the new spring, was ravished
from her dehghtful abodes by Pluto ; and being carried from thence
through thick woods, and over a length of sea, was brought by Pluto into
a cavern, the residence of departed spirits, over whom she
afterward ruled with absolute sway. But * Plotiuus taught the
existence of three hypostases in the Divine Nature. There was the
Demiurge, the God of Creation and Providence ; the Second, the
Intelligible, self-contained and im- mutable Source of life ; and above
all, the One, who like the Zervane Akerene of the Persians, is above all
Being, a pure will, an Absolute Love — " Intellect." — A.
W. 136 Bacchic Mysteries. Ceres, upon
discovering the loss of her daugh- ter, with hghted torches, and begirt
with a serpent, wandered over the whole earth for the purpose of
finding her till she came to Eleusis ; there she found her daughter,
and also taught to the Eleusinians the cultivation of corn."
Now in this fable Ceres represents the evolution of that intuitional part
of our nature which we properly denominate intel- lect'^ (or the
unfolding of the intuitional faculty of the mind from its quiet and
col- lected condition in the world of thought) ; and Proserpina
that living, self -moving, and animating part which we call sonl. But
lest this comparing of unfolded intellect to Ceres should seem
ridiculous to the reader, unac- quainted with the Orphic theology, it is
neces- sary to inform him that this goddess, from her intimate
union with Rhea, in conjunc- tion with whom she produced Jupiter,
is * Also denominated by Kant, Pure reason, and by Prof,
Cocker, Intuitive reason. It was considered by Plato, as " not
amenable to the conditions of time and space, but in a particular sense,
as dwelling in eternity : and therefore capable of beholding eternal
realities, and coming into communion with absolute beauty, and goodness,
and truth — that is, with God, the Absolute Being."
Proserpina.— Greek. Bacclius.— India.
Ceres.— Roman. Demeter.— Ktruscan.
Bacchic Mysteries. 139 evidently of a Saturnian and zoogonic,
or in- tellectual and vivific rank ; and hence, as we are informed
by the philosopher Sallust, among the mundane divinities she is the
deity of the planet Saturn.* So that in con- sequence of this, our
intellect (or intuitive faculty) in a descending state must aptly
symbohze with the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a
material natui'e ; since the empire of this god, accord- ing to
Pythagoras, commences downward from the Gralaxy or milky way. And
the cavern signifies the entrance, as it were, into the
profundities of such a nature, which is accomplished by the soul's union
with this terrestrial body. But in order to under- derstand
perfectly the secret meaning of the other parts of this fable, it will be
necessary to give a more exphcit detail of the particu- lars
attending the abduction, from the beau- tiful poem of Claudian on this
subject. From * Hence we may perceive the reason why Ceres as well
as Sat- urn was denominated a legislative deity; and why illuminations
were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the
Eleusinian Mysteries. 140 Bacchic Mysteries.
this elegant production we learn that Ceres, who was a&aid lest
some violence should be offered to Proserpina, on account of her
in- imitable beauty, conveyed her privately to Sicily, and
concealed her in a house built on purpose by the Cyclopes, while she
herself directs her course to the temple of Cybele, the mother of
the gods. Hej:'e, then, we see the first cause of the soul's descent,
namely, the abandoning of a life wholly according to the higher
intellect, which is occultly signi- fied by, the separation of Proserpina
fi*om Ceres. Afterward, we are told that Jupiter instructs Venus to
go to this abode, and be- tray Proserpina from her retirement, that
Pluto may be enabled to carry her away; and to prevent any suspicion in
the virgin's mind, he commands Diana and Pallas to go in company.
The three goddesses arriving, find Proserpina at work on a scarf for
her mother ; in which she had embroidered the primitive chaos, and
the formation of the world. Now by Venus in this part of the
narration we must understand desire^ which even in the celestial regions
(for such is the Venus, Diana, and Pallas visit
Proserpina* Bacchic Mysteries. 143 residence of
Proserpina till slie is ravished by Pluto), begins silently and
stealthily to creep into the recesses of the soul. By Minerva we
must conceive the rational power of the soul, and by Diana, nature^ or
the merely natural and vegetable part of our composi- tion ; both
which are now ensnared through the allurements of desire. And lastly,
the web in which Proserpina had displayed all the fair variety of
the material world, beau- tifully represents the commencement of the
illusive operations through which the soul becomes ensnared with the
beauty of imagi- native forms. But let us for a while attend to the
poet's elegant description of her em- ployment and abode :
Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant Cyclopum firmata manu.
Stant ardua f erro Msenia ; ferrati postes : immensaqiie nectit
Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon, Nee Steropes, eonstruxit
opus : nee talibus unquam Spiravere uotis animge : nee flumine
tanto Incoctum maduit lassa fornaee metallum. Atria vestit ebur :
trabibus solidatur aenis Culmen, et in eelsas surgunt eleetra
eolumnas. Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu Irrita texebat
rediturje munera matri. Hie elementorum seriem sedesque pateruas
144 Eleusinian and Insignibat aeu : veterem qua lege
tutmiltum Diserevit natiira parens, et semiua jiistis Diseessere
locis : quidquid leve fertiu" iu altum : 111 medium graviora caduut
: incaiiduit tether : Egit flamma polum : fluxit mare •. terra
pependit Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro. Ostro
fundit aquos, attollit litora gemmis, Filaque mentitos jam jam cfelantia
liuctus Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam, Et raucum
bibiilis inserpere murmur arenis. Addit quinqiie plagas : mediam
subtemine rubro Obsessam fervore notat : squalebat adustus Limes,
et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales utrimque duas ; quas mitis
oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine supremo Torpentes
traxit geminas, brumaque perenni Fgedat, et a3terno coiitristat frigore
telas. Nee non et patrui piugit sacraria Ditis, Fatalesque sibi
manes. Nee def nit omen. Prasscia nam subitis maduerimt fletibus
ora. After this, Proserpina, forgetful of her par-
ent's commands, is represented as venturing from her retreat, through the
treacherous persuasions of Venus : Impulit Joiiios pra?misso
lumine fluetus Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis
Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe. Jamque audax animi,
fidseque oblita parentis, Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus
(Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries. 145
And this with the greatest propriety: for obhvion necessarily
follows a remission of intellectnal action, and is as necessarily at-
tended with the allurements of desire.* Nor is her dress less symbolical
of the acting of * When the person turns the back upon his higher
faculties, and disregards the communications which he receives through
them from the world of unseen realities, an oblivion ensues of
their existence, and the person is next brought within the province
and operation of lower and worldly ambitions, such as a love of
power, passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent,
fall, or apostasy of the soul, — a separation from the sources of
divine life and ravishment into the region of moral death. In
the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged Steeds, Plato
represents the lower or inferior part of man's nature as dragging the
soul down to the earth, and subjecting it to the slavery of corporeal
conditions. Out of these conditions there arise numerous evils, that
disorder the mind and becloud the rea- son, for evil is inherent to the
condition of finite and multiform being into which we have "fallen by
our own fault." The pres- ent earthly life is a fall and a
punishment. The soul is now dwelling in ''the gi-ave which we call the
body." In its incorpo- rate state, and previous to the discipline of
education, the rational- element is " asleep." " Life is
more of a dream than a reality." Men are utterly the slaves of
sense, the sport of phantoms and illusions. We now resemble those "
captives chained in a subter- raneous cave," so poetically described
in the seventh book of The Republic ; their backs are turned to the
light, and consequently they see but the shadows of the objects which
pass behind them, and " they attribute to these shadows a perfect
reality." Their sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in
the body, a dreamy exile from their proper home." — CucJcer's Greek
Philosophy, 146 Eleiisinian and the soul in such
a state, principally according to the energies and promptings of
imagina- tion and nature. For thus her garments are beautifully
described by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc
gloria luatris, Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu, Nee
membris nee honore minor ; potuitque Pallas, si clipeum, si ferret
spieula, Phoebe. CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes. Peetinis
ingenio nunquam felicior arti Coutigit eventus. Nullse sic consona
telae Fila, nee in tantum veri duxere figuram. Hie Hyperionis Solem
de semine nasei Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,
Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys Praebet, et infantes gremio
solatur anhelos, Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.
Invalidum dextro portat Titana laeerto Nondum luce gravem, nee
pubescentibus alte Cristatum radiis : prime clementior sevo
Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem. Lseva parte soror vitrei
libaraina potat Uberis, et parvo signatur tempora cornu. In
which description the sun represents the phantasy, and the moon, nature,
as is well known to every tyro in the Platonic philos- ophy. They
are likewise, with great pro- priety, described in their infantine state
: for Bacchic Mysteries. 147 these energies do
not arrive to perfection previous to the sinking of the soul into
the dark receptacle of matter. After this we be- hold her issuing
on the plain with Minerva and Diana, and attended by a beauteous train
of nymphs, who are evident symbols of world of generation,* and are,
therefore, the proper companions of the soul about to fall into its
fluctuating realms. But the design of Proserpina, in
venturing from her retreat, is beautifully significant of her
approaching descent: for she rambles from home for the purpose of
gathering flowers ; and this in a lawn replete with the most
enchanting variety, and exhahng the most dehcious odors. This is a
manifest image of the soul operatmg principally ac- cording to the
natural and external life, and so becoming effeminated and ensnared
through the delusive attractions of sensible form. Minerva (the rational
faculty in this case), likewise gives herself wholly to the *
Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified
a bride. 148 EJeusinian and dangerous
employment, and abandons the proper characteristics of her nature for
the destructive revels of desire. All which is thus described
with the ut- most elegance by the poet : Forma loci siiperat
flores : eurvata tumore Pai'vo planities, et moUibus edita clivis
Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes Roscida mobilibus lambebant
gramina rivis. Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles
Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis
aecomoda eomus, Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex
plena favis, venturi pra?seia lanrus. Fluctuat hie denso crispata cacumine
buxus, Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand proeul
inde laciis (Pergum dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso margine
cinetus Vicinis pallescit aquis : admittit in altum Cernentes
oculos, et late perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub gurgite
visus, Imaque perspicui prodit secreta profundi. Hue elapsa
eohors gaudent per florea rura Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite,
sorores, Dum matutinis prsesudat solibus aer : Dum meus humectat
flaventes Lucifer agros, Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris
Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus Invasere eohors. Credas
examina fundi Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges
Baccliic Mysteries. 149 Castra movent, fagique cava demissus
ab alvo Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis. Pratorum
spoliatur honos. Hac lilia fuseis Iiitexit violis : banc mollis amaraeus
ornat : Heec graditur stellata rosis ; haec alba ligiistris. Te
quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris, Narcissumque metunt, nunc
inclita germina veris, Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :
Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error : Hune fontis decepit amor.
Te fronte retusa Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.
j3^]staat ante alias avido fervore legeudi Frugiferte spes una Dese. Nunc
vimine texto Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet : Nunc
sociat flores, seseque ignara corouat. Augurium fatale tori. Quin ipsa
tubarum Armorumque potens, dextram qua fortia turbat Agmina ; qua
stabiles portas et msenia vellit, Jam levibus laxat studiis, hastamque
reponit, Insolitisque docet galeam mitescere sertis. Ferratus
lascivit apex, horrorque recessit Martins, et cristse pacato fulgure
vernant. Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem, Aspernata
clioros, libertatemque comarum Injecta tantum voluit freuare
corona. But there is a circumstance relative to the narcissus
which must not be passed over in silence : I mean its being, according to
Ovid, the metamorphosis of a youth who fell a victim to the love of
his own corporeal form ; the secret meaning of which most
150 Bacchic Mysteries. admirably accords with the rape of
Proser- pina, which, according to Homer, was the immediate
consequence of gathering this wonderful flower.* For by Narcissus
falling in love with his shadow in the limpid stream we may behold
an exquisitely apt represen- tation of a soul vehemently gazing on
the flowing condition of a material body, and in consequence of
this, becoming enamored with a corporeal life, which is nothing
more than the delusive image of the true man, or the rational and
immortal soul. Hence, by an immoderate attachment to this
unsubstau- tial mockery and gliding semblance of the real soul,
such an one becomes, at length, wholly changed, as far as is possible to
his nature, into a vegetive condition of being, into a beautiful
but transient flower, that is, into a corporeal life, or a life totally
consist- * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the
pleasant flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and
the narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I
was plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out
leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me, grieving
much, beneath the earth in his golden chariot, and I cried
aloud." "v..
Pioseipiua gathering Flowers. Pluto carrj'iiig off
Pioserplna. Bacchic Mysteries, 153 ing in the
mere operations of nature. Pro- serpina, therefore, or the soul, at the
very instant of her descent into matter, is, with the utmost
propriety, represented as eagerly engaged in pkicking this fatal flower ;
for her faculties at this period are entirely oc- cupied with a hf
e divided about the fluctuat- ing condition of body. After
this, Pluto, forcing his passage through the earth, seizes on
Proserpina, and carries her away with him, notwith- standing the
resistance of Minerva and Diana. They, indeed, are forbid by
Jupiter, who in this place signifies Fate, to attempt her
deUverance. By this resistance of Mi- nerva and Diana no more is
signified than that the lapse of the soul into a material nature is
contrary to the genuine wish and proper condition, as well of the
corporeal hfe depending on her essence, as of her true and rational
nature. Well, therefore, may the soul, in such a situation, pathetically
exclaim with Proserpina : 154 Bacchic Mysteries.
O male dileeti flores, despeetaque matris Consilia : O Veneris
deprensse serius artes ! * But, according to Minutius Felix,
Proserpina was carried by Pluto tlu-ough thick woods, and over a
length of sea, and brought into a cavern, the residence of the dead :
where by 'woods a material nature is plainly implied, as we have
already observed in the first part of this discourse ; and where the
reader may likewise observe the agreement of the de- scription in
this particular with that of Yvn- gil in the descent of his hero :
Tenent media omnia silvce Coeytusque sinuque labens, cireumvenit
atro.t In these words the woods are expressly mentioned; and
the ocean has an evident agreement with Cocytus, signifying the
out- flowing condition of a material nature, and the sorrows and
sufferings attending its con- nection with the soul. * Oh
flowers fatally dear, and the mother's cautions despised : Oh cruel arts
of cunning Venus ! t " Woods cover all the middle space and
Cocytus gliding on, surrounds it with his dusky bosom."
Bacchic Mysteries. 157 Pluto hurries Proserpina into the
infernal regions : in other words, the soul is sunk into the
profound depth and darkness of a material nature. A description of her
mar- riage next succeeds, her union with the dark tenement of the
body : Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi Ducitur in
thalamum virgo. Stat pronuba juxta Stellautes Nox pieta sinus, tangensque
cubile Omina perpetuo genitalia federe sancit. Night is with
great beauty and propriety in- troduced as standing by the nuptial
couch, and confirming the oblivious league. For the soul through
her union with a material body becomes an inhabitant of darkness,
and subject to the empire of night ; in conse- quence of which she
dwells wholly with de- lusive phantoms, and till she breaks her
fetters is deprived of the intuitive percep- tion of that which is real
and true. In the next place, we are presented with the
following beautiful and pathetic descrip- tion of Proserpina appearing in
a dream to 158 Eleusinian and Ceres, and
bewailing her captive and miser- able condition : Sed tunc
ipsa, sui jam non ambagibus ullis Nuutia, materna faeies ingesta
sopori. Namque videbatur tenebroso obtecta reeessu Carceris, et
ssevis Proserpina vineta catenis, Non qualem roseis nuper convallibus
^tnae Suspexere Dete. Squalebat pulchrior auro Csesaries, et nox
oculorum infeeerat ignes. Exhaustusque gelu pallet rubor. Die
superbi Flamineus oris honos, et non cessura pruinis Membra
eolorantur pieei caligine regni. Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere
visu Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ? inquit. Unde hsec
infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas In me ssevitisB est? Eigidi cur
vincula ferri Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ? Tu, mea
tu proles I An vana fallimur umbra ? Such, indeed, is the wretched
situation of the soul when profoundly merged in a cor- poreal
nature. She not only becomes captive and fettered, but loses all her
original splen- dor ; she is defiled with the impurity of mat- ter
; and the sharpness of her rational sight is blunted and dunmed through
the thick darkness of a material night. The reader may observe how
Proserpina, being repre- sented as confined in the dark recess of a
Bacchic Mysteries. 159 prison, and bound with fetters,
confirms the explanation of the fable here given as sym- bolical of
the descent of the soul ; for such, as we have ah*eady largely proved, is
the condition of the soul from its union with the body, according
to the uniform testimony of the most ancient philosophers and priests.*
After this, the wanderings of Ceres for the discovery of Proserpina
commence. She is described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth a
serpent, and bearing two hghted torches in her hands ; but by Claudian,
instead of being gu^t with a serpent, she commences her search by
night in a car drawn by dragons. But the meaning of the allegory is the
same in each ; for both a serpent and a di'agon are emblems of a
divisible hfe subject to transi- tions and changes, with which, in this
case, our intellectual (and diviner) part becomes connected : since
as these animals put off their skins, and become young again, so
* Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly trans-
lated prophets, and actually signifies persons gifted with divine
insight, through being in an entheastic condition, called also mania or
divine fury. 160 Bacchic Mysteries. tlie
divisible life of the soul, falling into generation, is rejuvenized in
its subsequent career. But what emblem can more beau- tifully
represent the evolutions and out- goings of an intellectual nature into
the regions of sense than the wanderings of Ceres by the hght of
torches through the darkness of night, and continuing the pursuit
until she proceeds into the depths of Hades itself ? For the intellectual
part of the soul,* when it verges towards body, enkindles, in-
deed, a light in its dark receptacle, but be- comes itself situated in
obscurity : and, as Proclus somewhere divinely observes, the mortal
nature by this means participates of the divme intellect, but the
intellectual part is drawn down to death. The tears and lam-
entations too, of Ceres, in her coiu'se, are sym- bolical both of the
providential operations of * " The soul is a composite nature,
is on one side linked to the eternal world, its essence being generated
of that ineffable ele- ment which constitutes the real, the immutable,
and the perma- nent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the
Divinity, an emanation from God. On the other hand, it is linked to the
phe- nomenal or sensible world, its emotive part being formed of
that which is relative and phenomenal." — Cocker.
Bacchic Mysteries. 163 intellect about a mortal nature, and
the mis- eries with which such operations are (with respect to
imperfect souls like oui's) attended. Nor is it without reason that
lacchus, or Bacchus, is celebrated by Orpheus as the companion of
her search : for Bacchus is the evident symbol of the imperfect energies
of intellect, and its scattering into the obscure and lamentable
dominions of sense. But our explanation will receive
additional strength from considering that these sacred rites
occupied the space of nine days in their celebration; and this,
doubtless, because, according to Homer,* this goddess did not
discover the residence of her daughter till the expu-ation of that
period. For the soul, in falling from her original and divine abode
in the heavens, passed through eight spheres, * Hymn to Ceres.
"For nine days did holy Demeter perambulate the earth . . and when
the ninth shining morn had come, Hecate met her, bringing
news." Apuleius also explains that at the initiation into the
Mysteries of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious
food for ten days, from the flesh of animals, and from wine. — Golden
Ass, book xi. p. 239 (BoJin). 164 Eleusinian and
namely, the fixed or inerratic sphere, and the seven planets,
assuming a different body, and employing different faculties in
each; and becomes connected with the sublunary world and a terrene
body, as the ninth, and most abject gradation of her descent. Hence
the first day of initiation into these mystic rites was called agurmos^ L
e. according to Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an
assembly^ and all collecting fogefher : and this with the greatest
propriety; for, according to Pythagoras, "the people of dreams
are souls collected together in the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za
noO-ayopav Jcav.f And from this part of the heavens souls
first begin to descend. After this, the soul falls from the tropic of
Cancer into the planet Satm'n; and to this the second day of
initiation was consecrated, which they called AXol5s (j-uarai, [" to
the sea, ye initi- ated ones ! "] because, says Meui'sius, on that
* Only persons taking a view solely external will suppose the
galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky. t Cave of the
Xymphs. Bacchic Mysteries. 165 day the crier was
accustomed to admonisli the mystte to betake themselves to the sea.
Now the meaning of this will be easily understood, by considering that,
according to the arcana of the ancient theology, as may be learned
from Proclus, * the whole planetary system is under the dominion of
Neptune; and this too is confirmed by Martianus Capella, who
describes the several planets as so many streams. Hence when the
soul falls into the planet Saturn, which Capella compares to a
river voluminous, sluggish, and cold, she then first merges herself into
fluctuating matter, though purer than that of a sublunary natiu'e, and of
which water is an ancient and significant symbol. Besides, the sea
is an emblem of purity, as is evident from the Orphic hymn to Ocean, in
which that deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon agnisma
megiston^ i. e. the greatest purifier of the gods : and Saturn, as we
have already observed, is pure [intuitive] intellect. And what
still more confirms this observation is, that Pythagoras, as we are
informed by Por- * Theology of Plato, book vi.
166 Bacchic Mysteries. pliyry, in his life of that
philosopher, symbol- ically called the sea a tear of Saturn. But
the eighth day of initiation, which is symbohcal of the falhng of
the soul into the lunar orb,* was celebrated by the candidates by a
repeated initiation and second sacred rites ; because the soul in this
situation is about to bid adieu to every thing of a celestial natui'e
; to sink into a perfect obhvion of her divine origin and pristine
felicity ; and to rush pro- foundly into the region of dissimilitude,!
ignorance, and error. And lastly, on the ninth day, when the soul falls
into the sub- lunary world and becomes united with a ter- restrial
body, a hbation was performed, such as is usual in sacred rites. Here the
initiates, filling two earthen vessels of broad and spa- cious
bottoms, which were called irX'^fj-o/oat, plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL,
JcotuIusJioi, the former of these words denoting vessels of a
conical shape, and the latter small bowls or * The Moon typified
the mother of gods and men. The soul descending into the lunar orb thus
came near the scenes of earthly existence, where the life which is
transmitted by generation has opportunity to involve it about.
t The condition most unlike the former divine estate.
Goddess Night. Three Graces. Bacchic
Mysteries. 169 cups sacred to Bacchus, they placed one
towards the east, and the other towards the west. And the first of these
was doubtless, according to the interpretation of Proclus, sacred
to the earth, and symbolical of the soul proceeding from an orbicular
figure, or divine form, into a conical defluxion and ter- rene
situation : * but the other was sacred to the soul, and symbolical of its
celestial origin ; since our intellect is the legitimate progeny of
Bacchus. And this too was occultly sig- nified by the position of the
earthen ves- sels ; for, according to a mundane distribu- tion of
the divinities, the eastern center of the universe, which is analogous to
fire, belongs to Jupiter, who likewise governs the fixed and
inerratic sphere ; and the western to Pluto, who governs the earth,
because the west is allied to earth on account of its dark
and nocturnal nature. f Again, according to Clemens Alexandri-
nus, the following confession was made by * An orbicular figure
symbolized the maternal, and a cone the masculine divine Energy. t
Proclus: Theology of Plato, book vi. c. 10. 170 Eleusinian
and tlie new initiate in these sacred rites, in an- swer to
the interrogations of the Hierophant : "I have fasted; I have drank
the Cyceon;* I have taken out of the Cista, and placed what I have
taken ont into the Calathns; and alternately I have taken out of the
Ca- lathus and put into the Cista." Kcj^a-cc xo a'jv^r^{xa
EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa* xtatY^v. But as this pertains
to a circum- stance attending the wanderings of Ceres, which formed
the most mystic and emblem- atical part of the ceremonies, it is
necessary to adduce the following arcane narration, summarily collected
from the writings of Arnobius : " The goddess Ceres, when
search- ing through the earth for her daughter, in the course of
her wanderings arrived at the boundaries of Eleusis, in the Attic region,
a place which was then inhabited by a people called Autochthones,
or descended fi'om the * Homer: Hymn to Ceres. "To her
Metaneira gave a cup of sweet wine, but slie refused it ; but bade her to
mix wheat and water with pounded pennyroyal. Having made the mixture,
she gave it to the goddess." Bacchic Mysteries.
171 earth, whose names were as follows : Baubo and
Triptolemus ; Dysaules, a goatherd ; Eu- bulus, a keeper of swme ; and
Eumolpus, a shepherd, from whom the race of the Eumol- pidse descended,
and the illustrious name of Cecropidse was derived ; and who
afterward flourished as bearers of the caduceus, hiero- phants, and
criers belonging to the sacred rites. Baubo, therefore, who was of
the female sex, received Ceres, wearied with complicated evils, as
her guest, and endea- vored to soothe her sorrows by obsequious and
flattering attendance. For this purpose she entreated her to pay
attention to the re- freshment of her body, and placed before her a
mixed potion to assuage the vehemence of her thirst. But the sorrowful
goddess was averse from her solicitations, and rejected the
friendly officiousness of the hospitable dame. The matron, however, who
was not easily re- pulsed, still continued her entreaties, which
were as obstinately resisted by Ceres, who persevered in her refusal with
unshaken per- sistency and invincible firmness. But when Baubo had
thus often exerted her endeavors Bacchic Mysteries. to
appease the sorrows of Ceres, but without any effect, she, at length,
changed her arts, and determined to try if she could not exhil-
arate, by prodigies (or out-of-the-way expe- dients), a mind which she
was not able to allure by earnest endeavors. For this pur- pose she
uncovered that part of her body by which the female sex produces children
and derives the appellation of woman.* This she caused to assume a
purer appearance, and a smoothness such as is found in the private
parts of a stripling child. She then returns to the afflicted goddess,
and, in the midst of those attempts which are usually employed to
alleviate distress, she uncovers herself, and exhibits her secret parts ;
upon which the goddess fixed her eyes, and was diverted with the
novel method of mitigating the an- guish of soiTow; and afterward,
becoming more cheerful through laughter, she assuages her thirst
with the mingled potion which she had before despised." Thus far
Arnobius ; and the same narration is epitomized by Clemens
Alexandrinus, who is very indignant * FuvT), (June, woman, from
y^juvo;, gounos, Latin ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr
and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs. Bacchic Mysteries.
175 at the indecency as he conceives, in the stoiy, and
because it composed the arcana of the Eleusinian rites. Indeed as the
simple father, with the usual ignorance * of a Christian priest,
considered the fable literally, and as designed to promote indecency and
lust, we can not wonder at his ill-timed abuse. But the fact is,
this narration belonged to the aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane
discourses, on account of its mystical meaning, and to pre- vent it
from becoming the object of ignorant declamation, licentious perversion,
and im- pious contempt. For the purity and excel- lence of these
institutions is perpetually acknowledged even by Dr. Warburton him-
seK, who, in this instance, has dispersed, for a moment, the mists of
delusion and intolerant zeaLf Besides, as lamblichus beautifully
ob- serves, t "exhibitions of this kind in the Mysteries were
designed to free us from hcen- * Uneandidness was more probably the
fault of which Clement was guilty. t Divine Legation of
Moses, book ii. I "The wisest and best men in the Pagan world
are unanimous in this, that the Mysteries were instituted pure, and
proposed the noblest ends by the worthiest means. Bacchic
Mysteries. tioiis passions, by gratifying the sight, and at
the same time vanquisliing desire, through the awful sanctity with which
these rites were accompanied : for," says he, " the proper
way of freeing ourselves from the passions is, first, to indulge them mth
moderation, by which means they become satisfied ; hsten, as it
were, to persuasion, and may thus be en- tirely removed."* This
doctrine is indeed so rational, that it can never be objected to by
any but quacks in philosophy and rehgion. For as he is nothing more than
a quack in medicine who endeavors to remove a latent bodily disease
before he has called it forth externally, and by this means diminished
its fuiy ; so he is nothing more than a pretender in philosophy who
attempts to remove the passions by violent repression, instead of
moderate comphance and gentle persuasion. But to return from this
disgression, the fol- lowing appears to be the secret meaning of
this mystic discourse : The matron Baubo may be considered as a symbol of
that pas- * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and
Assyrians. Bacchic Mysteries. 177 sive,
womanish, and corporeal life tlirongh whicli the soul becomes united with
this earthly body, and through which, being at first ensnared, it
descended, and, as it were, was born into the world of generation,
pass- ing, by this means, from mature perfection, splendor and
reality, into infancy, darkness, and error. Ceres, therefore, or the
intel- lectual soul, in the course of her wanderings, that is, of
her evolutions and goings-f orth into matter, is at length captivated
with the arts of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her
sorrows, that is, imbibes oblivion of her wretched state in the mingled
potion which she prepares : the mingled hquor being an obvious
symbol of such a life, mixed and im- pure, and, on this account, liable
to cor- ruption and death ; since every thing pure and unmixed is
incorruptible and divine. And here it is necessary to caution the
reader from imagining, that because, accord- ing to the fable, the
wanderings of Ceres commence after the rape of Proserpina, hence
the intuitive intellect descends sub- sequently to the soul, and separate
from it. Eleusinimi and Notliing more is meant by this
circumstance than that the diviner intellect, from the su- perior
excellence of its nature, has in cause, though not in time, a priority to
soul, and that on this account a defection and revolt (and descent
earthward from the heavenly condition) commences, from the soul,
and afterward takes place in the intellect, yet so that the former
descends with the latter in inseparable attendance. From this
explanation, then, of the fable, we may easily perceive the meaning of
the mystic confession, / have fasted; I have drank a mingled
potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more is
meant than that the higher intellect, previous to imbibing of oblivion through
the decep- tive arts of a corporeal life, abstains from all
material concerns, and does not mingle itself (as far as its nature is
capable of such abasement) with even the necessary delights of the
body. And as to the latter part, it doubtless alludes to the descent of
Proser- pina to Hades, and her re-ascent to the
Bacchic Mysteries. 179 abodes of her mother Ceres : that is,
to the outgoing and return of the soul, alternately falhng into
generation, and ascending thence into the intelhgible world, and becoming
per- fectly restored to her divine and intellec- tual nature. For
the Cista contained the most arcane symbols of the Mysteries, into
which it was unlawful for the profane to look : and whatever were its
contents,* we learn from the hymn of Callimachus to Ceres, that
they were formed from gold, which, from its incorruptibihty, is an
evi- dent symbol of an immaterial nature. And as to the Calathus,
or basket, this, as we are told by Claudian, was filled with spoliis
agres- tibus^ the spoils or fruits of the field, which are manifest
symbols of a life corporeal and earthly. So that the candidate, by
confess- ing that he had taken from the Cista, and placed what he
had taken into the Calathus, *A golden serpent, an egg, and the
phallus. The epopt look- ing upon these, was rapt with awe as
contemplating in the»sym- bols the deeper mysteries of all life, or being
of a grosser temper, took a lascivious impression. Thus as a seer, he
beheld with the eyes of sense or sentiment ; and the real apocalypse was
therefore that made to himself of his own moral life and character. — A.
W. 180 Eleusinian and and tlie contrary,
occultly acknowledged the descent of his soul from a condition of
being super-material and immortal, into one mate- rial and mortal ;
and that, on the contrary, by hving according to the purity which
the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that perfection of
his nature, from which he had unhappily fallen.* * "Exiled
from the true home of the spirit, imprisoned in the body, disordered by
passion, and becloixded by sense, the soul has yet longings after that
state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in which it was first
created. Its affinities are still on high. It yearns for a higher and
nobler form of life. It essays to rise, but its eye is darkened by sense,
its wings are besmeared by pas- sion and lust ; it is ' borne downward
until it falls upon and attaches itself to that which is material and
sensual,' and it floun- ders and grovels still amid the objects of sense.
And now, Plato asks: How may the soul be delivered from the illusions of
sense, the distempering influence of the body, and the disturbances
of passion, which becloud its vision of the real, the good, and the
true?" " Plato believed and hoped that this could be
accomplished by philosophy. This he regarded as a grand intellectual
discipline for the purification of the soul. By this it was to be
disenthralled from the bondage of sense, and raised into the empyrean of
pure thought, 'where truth and reality shine forth.' All souls have
the faculty of knowing, but it is only by reflection and
self-knowledge, and intellectual discipline, that the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to
the vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy,
x. pp. 351-2. Bacchic Mysteries. 181 It
only now remains that we consider the last part of this fabulous
narration, or arcane discourse. It is said, that after the goddess
Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered her daughter, she
instructed the Eleusinians in the planting of corn : or, according
to Claudian, the search of Ceres for her daugh- ter, through the
goddess, instructing in the art of tillage as she went, proved the
occasion of a universal benefit to mankind. Now the secret meaning
of this will be obvious, by considering that the descent of the
superior intellect into the realms of generated exis- tence
becomes, indeed, the greatest benefit and ornament which a material
nature is capable of receiving : for without this parti- cipation
of intellect in the lowest department of corporeal life, nothing but the
irrational soul* and a brutal life would subsist in its dark and
fluctuating abode, the body. As the art of tillage, therefore, and
particularly the growing of corn, becomes the greatest possi-
* " It is linked to the phenomenal or sensible world, its
emotive part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and
phe- nomenal." 182 Elensinian and ble
benefit to our sensible life, no symbol can more aptly represent the
unparalleled ad- vantages arising from the evolution and pro-
cession of intellect with its divine natui^e into a corporeal life, than
the good resulting from agriculture and corn : for whatever of
horrid and dismal can be conceived in night, sup- posing it to be
perpetually destitute of the friendly illuminations of the moon and
stars, such, and infinitely more dreadful, would be the condition
of an earthly nature, if de- prived of the beneficent irradiations
[irfio- o5o J and supervening benefits of the diviner hfe.
And this much for an explanation of the Eleusinian Mysteries, or
the history of Ceres and Proserpina ; in which it must be remem- bered
that as this fable, according to the excellent observation of Sallust
already ad- duced, is of the mixed kind, though the descent of the
soul was doubtless principally alluded to by these sacred rites, yet
they hkewise occultly signified, agreeable to the nature of the
fable, the descending of divinity Bacchic Mysteries.
183 into the sublunary world. But when we view the fable in
this part of its meaning, we must 'be careful not to confound the
nature of a partial inteUect like ours with the one uni- versal and
divine. As everything subsisting about the gods is divine, therefore
intellect in the highest degree, and next to this soul, and hence
wanderings and abductions, lam- entations and tears, can here only
signify the participations and providential opera- tions of these
in inferior natures ; and this in such a manner as not to derogate
from the dignity, or impair the perfection, of the divine principle
thus imparted. I only add, that the preceding exposition will
enable us to perceive the meaning and beauty of the following
representation of the rape of Proserpina, from the Heliacan tables of
Hi- eronymus Aleander.* Here, first of all, we behold Ceres in a
car drawn by two drag- ons, and afterwards, Diana and Minerva, with
an inverted calathus at their feet, and pointing out to Ceres her
daughter Proser- pina, who is hurried away by Pluto in his *
KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page 227. 184 Meusinian
and car, and is in the attitude of one struggling to be free.
Hercules is likewise represented with his club, in the attitude of
opposing the violence of Pluto : and last of all, Jupiter is
represented extending his hand, as if wilhng to assist Proserpina in
escaping from the embraces of Pluto. I shall therefore con- clude
this section with the following remark- able passage from Plutarch, which
will not only confirm, but be itself corroborated by the preceding
exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ Tza- Xata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai
Bappa- Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj-
Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX- Xoic syovza.
Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart,
pergit, £v tolc Opcpt- Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai
(j^prrfirjiQ XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt-
aa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ cspoapycaie, xyjv
tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $ia- voirjy.^ i. e. " The ancient
physiology,! both * Plutarch : Euseh. i I. e. Exposition
of the laws and oi^erations of Nature. Bacchic Mysteries.
185 of the Greeks and the Barbarians^ was noth- ing else than
a discoiu'se on natiu^al subjects, involved or veiled in fables,
conceahng many things through enigmas and under -meanings, and also
a theology taught, in which, after the manner of the Mysteries,* the
things spoken were clearer to the multitude than those dehvered in
silence, and the things delivered in silence were more subject to
investigation than what was spoken. This is manifest from the Orphic
verses^ and the Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of
initiations^ and the sumbolical cere- monies of sacred rites especiallij,
exhibit the understanding had of them by the ancients,'''' *
MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like. A.IB^
Psyche Asleep in Hades. River Gortrtesses.
O. SECTION 11. 4:::? THE Dionysiacal sacred rites
instituted by Orpheus,* depended on the follow- ing arcane
narration, part of which has been already related in the preceding
section, and the rest may be found in a variety of authors.
"Dionysus, or Bacchus [Zagreus], while he was yet a boy, w^s engaged
by the Titans, through the stratagems of Juno, in a variety of sports,
with which that period of * Whethei' Orpheus was an actual living
person has been ques- tioned by Aristotle ; but Herodotus, Pindar, and
other writers, mention him. Although the Orphic system is asserted to
have come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that
it was derived from India, and that its basis is the Buddhistic
phi- losophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, con-
trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the
popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs. The name Kox-e
is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His visit to the
chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a dragon or
na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are Tartar or
Buddhistic. The 187 188 Eleusinian and
life is so vehemently allured ; and among the rest, he was
particularly captivated with beholding his image in a mirror ; during
his admiration of which, he was miserably torn in pieces by the
Titans; who, not content with this cruelty, first boiled his members
in water, and afterwards roasted them by the fire. But while they
were tasting his flesh thus dressed, Jupiter, roused by the odor,
and perceiving the cruelty of the deed, hurled his thunder at the Titans
; but com- mitted the members of Bacchus to Apollo, his brother,
that they might be properly in- terred. And this being performed,
Diony- sus (whose heart during his laceration was snatched away by
Pallas and preserved), by a new regeneration again emerged, and
being restored to his pristine life and integ- name Zagreus is
evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who compassed his death
is Aira, the wife of Buddha ; and the Titans are the Daityas, or apostate
tribes of India. The doc- trine of metempsychosis is expressed by the
swallowing of the heart of the murdered child, so as to reabsorb his
soul, and bring him anew into existence as the son of Semele. Indeed, all
the stories of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a
part of the serpent worship of the ancients. The evidence appears
to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries. 189
rity, he afterwards filled up the number of the gods. But m the
mean time, from the exhalations arising from the ashes of the
burning bodies of the Titans, mankind were produced." Now, in order
to understand properly the secret of this naiTation, it is
necessary to repeat the observation already made in the preceding
chapter, "that all fables belonging to mystic ceremonies are
of the mixed kind " : and consequently the present fable, as well as
that of Proserpina, must in one part have reference to the gods,
and in the other to the human soul, as the following exposition will
abundantly evince : In the first place, then, by Dionysus, or
Bacchus, according to the highest concep- tion of this deity, we
understand the spiritual part of the mundane soul ; for there are
Various processions or avatars of this god, or Bacchuses, derived from
his essence. But by the Titans we must understand the mun- dane
gods, of whom Bacchus is the highest ; by Jupiter, the Demiurgus,* or
artificer of * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the
god of providence, thought, essence, and power. Above him was the
190 Eleusinian and the universe ; by Apollo, the deity
of the Sun, who has both a mundane and super- mundane
establishment, and by whom the universe is bound in symmetry and
consent, through splendid reasons and harmonizing power ; and,
lastly, by Minerva we must un- derstand that original, intellectual,
ruhng, and providential deity, who guards and pre- serves all
middle lives* in an immutable condition, through intelhgence and a
self- supporting life, and by this means sustains them from the
depredations and inroads of matter. Again, by the infancy of Bac-
chus at the period of his laceration, the condition of the intellectual
natui^e is im- phed; since, according to the Orphic theol- ogy,
souls, under the government of Saturn, or Kronos, who is pure intellect
or spiritual- ity, instead of proceeding, as now, from youth to
age, advance in a retrograde progression from age to youth.t The arts
employed by deity of " pure intellect," aud still higher
The One. These three were the hypostases. * Lives which are not
conjoined with material bodies, nor yet elevated to the lofty state which
is the true divine condition. t Emanuel Swedenborg says: "They
who are in heaven are Bacchic Mysteries. 191 the
Titans, in order to ensnare Dionysus, are symbolical of those apparent
and divisible operations of the mundane gods, through which the
participated intellect of Bacchus becomes, as it were, torn in pieces ;
and by the mirror we must understand, in the lan- guage of Proclus,
the inaptitude of the uni- verse to receive the plenitude of
intellectual or spiritual perfection ; but the symbolical meaning
of his laceration, through the strat- agems of Juno, and the consequent
punish- ment of the Titans, is thus beautifully unfolded by
Olympiodorus, in his manuscript Commentary on the PJi(edo of Plato :
" The form," says he, " of that which is universal
is plucked off, torn in pieces, and scattered into generation ; and
Dionysus is the monad of the Titans. But his laceration is said to
take place through the stratagems of Juno, continually advancing to
the spring of life, and the more thou- sands of years they live, so much
the more delightful and happy is the spring to which they attain, and
this to eternity with increments according to the progresses and degrees
of love, of charity, and of faith. Women who have died old and worn out
with age, yet have lived in faith on the Lord, in charity toward their
neighbor, and in happy conjugal love with a husband, after a succession
of years, come more and more into the flower of youth and
adolescence." 192 Eleusinian and because
this goddess is the supervising guardian of motion and progression ; *
and on this account, in the Iliad, she perpetually rouses and
excites Jupiter to providential action about secondary concerns ; and,
in another respect, Dionysus is the epJiof^us or supervising
guardian of generation, because he presides over life and death ; for he
is the guardian or epliorus of life because of genera- tion, and
also of death because wine produces an enthusiastic condition. We become
more enthusiastic at the period of dying, as Proc- lus indicates in
the example of Homer who became prophetic [[xavxcxoc] at the time of
his death.f They likewise assert, that tragedy and comedy are
assigned to Dionysus : com- edy being the play or ludicrous
representation of life ; and tragedy having relation to the
'By progression [7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or
issuing forth of the soul ; having left the divine or pre -existent life,
and come forth toward the human. t See also Plato : Phcedrus, 43.
" When I was about to cross the river, the divine and wonted signal
was given me — it always deters me from what I am about to do — and I
seemed to hear a voice from this very spot, which would not suffer me
to depart before I had purified myself, as if I had committed some
Bacchic Mysteries. 193 passions and death. The comic
writers, therefore, do not rightly call in question the tragedians
as not rightly representing Bac- chus, saying that such things did not
happen to Bacchus. But Jupiter is said to have hurled his thunder
at the Titans ; the thun- der signifying a conversion or changing :
for fire naturally ascends ; and hence Jupiter, by this means,
converts the Titans to his own essence." ^TzapazzEzai §£ to
xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-
aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i- vrpetoc,
et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi
si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV
SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,
5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?, STTsid'^ .7,at
z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt
xyjv TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;
offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very
good one : for the soul is in some measure prophetic." See also
Shakspere : Henry IV. part 1. " Oh I could prophesy, But
that the earthy and cold hand of death Lies on my tongue."
194 Eleiisinian and StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco
UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys- T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav
to'j [3tov TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j-
I'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv, (o:;
\rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov.
Kspau- VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05
X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL
O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by the members of Dionysus being first
boiled in water by the Titans, and afterward roasted by the fire,
the outgoing or distribution of intellect into matter, and its subsequent
re- turning from thence, is evidently implied: for water was
considered by the Egyptians, as we have ah*eady observed, as the
symbol of matter ; and fire is the natural symbol of ascending. The
heart of Dionysus too, is, with the greatest propriety, said to be
pre- served by Minerva ; for this goddess is the guardian of hfe,
of which the heart is a sym- bol. So that this part of the fable
plainly signifies, that while intellectual or spiritual
Bacchic Mysteries. 195 life is distributed into the universe,
its prin- ciple is preserved entire by the guardian power and
providence of the Divine intel- ligence. And as Apollo is the source of
all union and harmony, and as he is called by Proclus, " the
key-keeper of the fountain of life," * the reason is obvious why the
mem- bers of Dionysus, which were buried by this deity, again
emerged by a new generation, and were restored to their pristine
integrity and life. But let it here be carefidly ob- served, that
renovation, when apphed to the gods, is to be considered as secretly
implying the rising of their proper hght, and its con- sequent
appearance to subordinate natures. And that punishment, when considered
as taking place about beings of a nature superior to mankind,
signifies nothing more than a secondary providence over such beings
which is of a punishing character, and which sub- sists about souls
that deteriorate. Hence, then, from what has been said, we may
easily collect the ultimate design of the first part of this mystic fable
; for it appears to be * Hymn to the Sun. 196
Bacchic Mysteries. no other than to represent the manner in
which the form of the mundane intellect is divided through the universe ;
— that such an intellect (and every one which is total) re- mains
entire during its division into parts, and that the divided parts
themselves are continually turned again to their source, with which
they become finally united. So that illumination from the liigher
reason, while it proceeds into the dark and rebound- ing receptacle
of matter, and invests its ob- scurity with the supervening ornaments
of divine light, returns at the same time with- out interruption to
the source or principle of its descent. Let us now consider
the latter part of the fable, in which it is said that our souls
were formed from the vapors emanating from the ashes of the burning
bodies of the Titans; at the same time connecting it with the
former part of the fable, which is also appli- cable in a certain degree
to the condition of a partial intellect * hke ours. In the first
* Partial, as being parted from the Supreme Mind.
Etruscan Kleusiuiaus. Bacchic Mysteries. 199
place, then, we are made up from frag- ments (says Olympiodorus),
because, through faUing into generation, our hf e has proceeded
into the most distant and extreme division ; and from Titanic fragments^
because the Titans are the ultimate artificers of things,* and
stand immediately next to whatever is constituted from them. But further,
our irrational life is Titanic, by which the rational and higher
life is torn in pieces. Hence, when we disperse the Dionysus, or
intuitive intellect contained in the secret recesses of our nature,
breaking in pieces the kindred and divine form of our essence, and
which communicates, as it were, both with things subordinate and
supreme, then we become Titans (or apostates) ; but when we
establish ourselves in union with this Dionysiacal or kindred form,
then we become Bacchuses, or perfect guardians and keepers of our
irra- tional life : for Dionysus, whom in this re- spect we
resemble, is himself an epJiorus or * The Demiurge or Creator being
superior to matter in which is concupiscence and all evil, the Titans who
are not thus superior are made the actual artificers. 200
Meusinian and guardian deity, dissolving at his pleasure the
bonds by which the soul is united to the body, since he is the cause of a
parted hfe. But it is necessary that the passive or femi- nine
nature of our UTational part, through which we are bound in body, and
which is nothing more than the resounding echo, as it were, of
soul, should suffer the punishment incurred by descent ; for when the
soul casts aside the [divine] peculiarity of her nature, she
requires her own, but at the same time a multiform body, that she may
again become in need of a common form, which she has lost through
Titanic dispersion into matter. But in order to see the perfect
resem- blance between the manner in which our souls descend and the
dividing of the intui- tive intellect by mundane natures, let the
reader attend to the following admirable citation from the manuscript
Commentary of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : "It is
necessary, first of all, for the soul to place a hkeness of herself in
the body. This is to ensoul the body. Secondly, it is neces-
Baccliic Mysteries. 201 sary for her to sympathize with the
image, as being of hke idea. For every external form or substance
is wrought into an identity with its interior substance, through an
ingenerated tendency thereto. In the third place, being situated in
a divided nature, it is necessary that she should be torn in pieces, and
fall into a last separation, till, through the action of a life of
puiification, she shall raise herself from the dispersion, loose the bond
of sym- pathy, and act as of herself without the external image,
having become established according to the first-created life. The
like things are fabled in the example. For Dio- nysus or Bacchus
because his image was formed in a mirror, pursued it, and thus
became distributed into everything. But Apollo collected him and brought
him up ; being a deity of puiification, and the true savior of
Dionysus ; and on this account he is styled in the sacred hymns, Dionusites."
sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yyco- oai TO awjjict.
Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o- Xcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav
yap stSoc sTust- 202 Eleusinian and xcti £Lc Tov
ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco? av oat TT^i;
7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv eaoTTjv aiTo xou
avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa- jj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac,
xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav
iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp
Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco- Xov svsO-'^xs T(o
saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj.
""0 5s AttoXXwv aov- aystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc
(ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?. Kat 5l7. xodto
AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the same author beautifully observes,
the soul revolves according to a mystic and mundane revolution :
for flying from an in- divisible and Dionysiacal hfe, and operating
according to a Titanic and revolting energy, she becomes bound in the
body as in a prison. Hence, too, she abides in punishment and takes
care of her partial and secondary concerns; and being purified from
Titanic defilements, and collected into one, she be-
Bacchic Mysteries. 203 comes a Bacchus ; that is, she passes
into the proper integrity of her nature according to the divine
principle ruhng on high. From all which it evidently fohows, that he who
hves Dionysiacally rests from labors and is freed from his bonds ;
* that he leaves his prison, or rather his apostatizing life ; and that
he who does this is a philosopher purifying him- seK from the
contaminations of his earthly life. But farther fi'om this account of
Dio- nysus, we may perceive the truth of Plato's observation,
" that the design of the Myste- ries is to lead us back to the
perfection from which, as our beginning, we first made our de-
scent." For in this perfection Dionysus him- self subsists,
establishing perfect souls in the throne of his father ; that is, in the
in- tegrity of a life according to Jupiter. So that he who is
perfect necessarily resides with the gods, according to the design
of those deities, who are the sources of con- summate perfection to
the soul. And lastly, *"We strive toward virtue by a strenuous
use of the gifts which God communicates ; but when God communicates
himself, then we can be only passive — we repose, we enjoy, but all
opera- tion ceases." 204 Bacchic Mysteries.
the Thyrsus itself, which was used in the Bacchic procession, as it
was a reed full of knots, is an apt symbol of the diffusion of the
higher nature into the sensible world. And agreeable to this,
Olympiodorus on the Pluedo observes, " that the Thyrsus * is a
symbol of a forming anew of the material and parted substance from
its scattered condition ; and that on this account it is a Titanic
plant. This it was customary to extend before Bac- chus instead of
his paternal scepter; and through this they called him down into
our partial nature. Indeed, the Titans are Thyr- sus-bearers ; and
Prometheus concealed fire in a Thyi'sus or reed ; after which he is
con- sidered as bringing celestial light into genera- tion, or
leading the soul into the body, or calling forth the divine illumination,
the whole being ungenerated, into generated ex- istence. Hence
Socrates calls the multitude Thyrsus-bearers Orphically, as hving
accord- ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov ZQZi
zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta * The word
thyrsus, it will be seen, is here translated from vapd'Yj^, a rod or
ferula. Bacchic Mysteries. 207 TY]v [laXtaxa
StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p
Aiovoacp Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj. Kai
xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov. Kat {isvcoi, 'jcc/.i
vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g ITpGIJLTjiJ'SaC, £V
VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO oupaviov cp(oc see x'A^v
ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv
o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvs- atv
TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -co- y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc
"JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op- cpt7,(oc, co^ C^'^vxac
Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning of the
fable, which formed a principal part of these mystic rites. Let us now
proceed to consider the signification of the symbols, which,
according to Clemens Alexandrinus, belonged to the Bacchic ceremonies ;
and which are comprehended in the following- Orphic verses :
M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov. That
is, A wheel, a pine-nut, and the wanton plays, Which move and
bend the limbs in various ways : 208 Eleusinian and
With these th' Hesperian golden-fruit combine, Which beauteous
nymphs defend of voice divine. To all which Clemens adds saoTU'pov,
esop- troii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool, and
aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone. In the first place, then, wdth
respect to the wheel, since Dionysus, as we have already explained,
is the mimdane intellect, and in- tellect is of an elevating and
convertive na- ture, nothing can be a more apt symbol of
intellectual action than a w^heel or sphere : besides, as the laceration
and dismemberment of Dionysus signifies the going-forth of in-
tellectual illumination into matter, and its returning at the same time
to its source, this too will be aptly symbolized by a wheel. In the
second place, a pine-nut, from its conical shape, is a perspicuous symbol
of the manner in which intellectual or spiritual illmnination
proceeds from its source and beginning into a material nature. " For
the soul," says Ma- crobius,* "proceeding from a round
figure, which is the only divine form, is extended into the form of
a cone in going forth." * In Somnid Scijnonis, xii.
Bacchic Mysteries. 209 And the same is true
sjrmbolically of the higher intellect. And as to the wanton sports
which bend the limbs, this evidently alludes to the Titanic arts, by
which Dionysus was allured, and occultly signifies the facul- ties
of the mundane intellect, considered as subsisting according to an
apparent and divisible condition. But the Hesperian golden-apples
signify the pure and incorrupt- ible nature of that intellect or
Dionysus, which is possessed by the world ; for a golden-apple,
according to Sallust, is a symbol of the world ; and this doubtless, both
on account of its ex- ternal figui'e, and the incorruptible intellect
which it contains, and with the illuminations of which it is externally
adorned ; since gold, on account of never being subject to rust,
aptly denotes an incorruptible and immaterial na- ture. The mirror,
which is the next symbol, we have already explained. And as to the
fleece of wool, this is a symbol of laceration, or distri])ution of
intellect, or Dionysus, into matter; for the verb o'jrapattco,
sparaffOy diJanio, which is used in the relation of the Bacchic
discerption, signifies to tear in pieces 210 Bacchic
Mysteries. like wool : and hence Isidoinis derives the Latin
word laua, wool, from Janiando, as velliis from vellendo. Nor must it
pass un- observed, that Xq^jz^ in Greek, signifies wool, and
Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the pressing of grapes is as evident
a symbol of dispersion as the tearing of wool; and this
circumstance was doubtless one principal reason why grapes were
consecrated to Bac- chus : for a grape, previous to its pressure,
aptly represents that which is collected into one ; and when it is
pressed into juice, it no less aptly represents the diffusion of
that which was before collected and entu'e. And lastly, the
aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe- hone, as it is principally
subser\dent to the progressive motion of animals, so it belongs,
with great propriety, to the mystic symbols of Bacchus; since it
doubtless signifies the going forth of that deity into the
department of physical existence : for nature, or that divisible
life which subsists about the body, * The practice of punning, so
common in all the old rites, is here forcibly exhibited. It aided to
conceal the symbolism and mislead uninitiated persons who might seek to
ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic
Mysteries. 213 and whicli is productive of seeds, imme-
diately depends on Bacchus. And hence we are informed by Proclus, that
the sexual parts of this god are denominated by theologists, Diana,
who, says he, presides over the whole of the generation into natural
existence, leads forth into light all natural reasons, and extends
a prolific power from on high even to the subterranean reahns.* And hence
we may perceive the reason why, in the Orphic Hjjmn to Nature, that
goddess is described as " turning round silent traces with the
ankle- bones of her feet. ^^ And it is highly worthy our
observation that in this verse of the hymn Nature is cele- brated
as Fortune, according to that descrip- tion of the goddess in which she
is repre- sented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round ; as the following verse from the same hymn
abun- dantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa
o'.vsooooa.. * Commentary upon the Timceus. 214
Meusinian and The sense of which is, "moving with rapid
motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem wonderful that
Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in the Orphic
h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon, as we have
observed in the preceding section, is the aoro'iriov ayaXjia
rpyasto?, fJie self-revealing emblem of Nature ; and indeed the apparent
incon- stancy of Fortune has an evident agreement with the
fluctuating condition in which the dominions of nature are perpetually
involved. It only now remains that we explain the secret meaning of
the sacred dress with which the initiated in the Dionysiacal Myste-
ries were invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning)
taking place ; or sitting in a solemn manner on a throne, about
which it was customary for the other initiates to dance. But the
particulars of this habit are thus described in the Orphic verses
preserved by Macrobius : * Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v
s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q. * Satunialia, i. 18. Bacchic
Mysteries. 215 flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov
«xTtvsaa:v IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov
a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu
xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,
Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o. Eka r
6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa
irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv
Tac-r]? (paja-wv avopouaiov Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov
Oxsavow, Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj
a;jLcpt;xtYE:aa Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj.
xoxXov, Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv
a/ji£xp7]xu>v <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq, iityx Oau^'
ecowsa^ac. That is, He who desires in pomp of sacred
dress The sun's resplendent body to express, Should
first a vail assume of purple bright, Like fair white beams
combin'd with fiery light : On his right shoulder, next, a mule's
broad hide Widely diversified with spotted pride Should
hang, an image of the pole divine, And dfBdal stars, whose orbs
eternal shine. A golden splendid zone, then, o'er the vest
He next should throw, and bind it round his breast; In mighty
token, how with golden light. The rising sun, from earth's last
bounds and night Sudden emerges, and, with matchless force,
Darts through old Ocean's billows in his course. A boundless
splendor hence, enshrin'd in dew, Plays on his whirlpools, glorious
to the view ; While his circumfluent waters spread abroad,
Full in the presence of the radiant god : 216
Eleusinian and But Ocean's circle, like a zone of light,
The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.
lu the first place, then, let us consider why this mystic dress
belonging to Bacchus is to represent the sun. Now the reason of
this will be evident from the following ob- servations : according to the
Orphic theol- ogy, the divine intellect of every planet is
denominated a Bacchus, who is characterized in each by a different
appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trie- tericus Bacchus. And in the second place, since the divinity
of the sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establish- ment, and is wholly of an
exalting or intel- lectual nature ; hence considered as super-
mundane he must both produce and contain the mundane intellect, or
Dionysus, in his essence ; for all the mimdane are contained in the
super-mundane deities, by whom also they are produced. Hence Proclus, in
his elegant Hijmn to the Sun, says : Bacchic
Mysteries. 217 That is, " they celebrate thee in hymns as
the illustrious parent of Dionysus." And thirdly, it is
through the subsistence of Dionysus in the sun that that luminary derives
its circular motion, as is evident from the following Or- phic
verse, in which, speaking of the sun, it is said of him, that
" He is called Dionysus, because he is carried with a
circular motion through the immense- ly-extended heavens." And this
with the greatest propriety, since intellect, as we have already
observed, is entirely of a transforming and elevating nature : so that
from all this, it is sufficiently evident why the dress of Diony-
sus is represented as belonging to the sun. In the second place, the
vail, resembling a mixture of fiery light, is an obvious image of
the solar fire. And as to the spotted mule- skin,* which is to represent
the starry heav- ens, this is nothing more than an image of *
Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at the great
festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible. In India
the robe of Indra is spotted. 218 Bacchic Mysteries.
tlie moon ; tMs luminary, according to Proc- lus on Hesiod,
resembling the mixed nature of a mule ; " becoming dark through her
par- ticipation of earth, and deriving her proper light from the
sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o- So that the spotted hide
signifies the moon attended with a multitude of stars : and hence,
in the Oi'phic Hymn to the Moon, that deity is celebrated "as
shining surrounded with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi
ppy- ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as- trarche, or
" queen of the starsy In the next place, the golden zone is
the circle of the Ocean, as the last verses plainly evince. But,
you will ask, what has the rising of the sun through the ocean, from
the boundaries of earth and night, to do with the adventures of
Bacchus ? I answer, that it is inpossible to devise a symbol more
beauti- fully accommodated to the purpose : for, in the first
place, is not the ocean a proper emblem of an earthly nature, whirling
and Bacchic Mysteries. 221 stormy, and perpetually
rolling without ad- mitting any periods of repose ? And is not the
sun emerging from its boisterous deeps a perspicuous symbol of the higher
spiritual nature, apparently rising from the dark and fluctuating
material receptacle, and confer- ring form and beauty on the sensible
uni- verse through its light ? I say apparently rising, for though
the spiritual nature always diffuses its splendor with invariable
energy, yet it is not always perceived by the subjects of its
illuminations : besides, as psychical na- tures can only receive
partially and at inter- vals the benefits of the divine irradiation
; hence fables regarding this temporal partici- pation transfer,
for the purpose of conceal- ment and in conformity to the phenomena,
the imperfection of subordinate natures to such as are supreme. This
description, there- fore, of the rising sun, is a most beautiful
symbol of the new birth of Bacchus, which, as we have already observed,
implies nothing more than the rising of intellectual light, and its
consequent manifestation to subordinate orders of existence.
222 Eleusinian and And thus much for the mysteries of
Bac- chus, which, as well as those of Ceres, relate in one part to
the descent of a partial in- tellect into matter, and its condition
while united with the dark tenement of the body : but there appears
to be this difference be- tween the two, that in the fable of Ceres
and Proserpine the descent of the whole rational soul is considered
; and in that of Bacchus the scattering and going forth of tliat
su- preme part alone of our nature which we properly characterize
hy the appellation of. intellect* In the composition of each we may
discern the same traces of exalted wis- dom and recondite theology; of a
theology the most venerable for its antiquity, and the most
admirable for its excellence and reahtyo I shall conclude this
treatise by presenting the reader with a valuable and most elegant
hymn of Proclusf to Minerva, which I have * Greek, wn;;, nous, the
Intuitive Eeasoii, that faculty of the mind that apprehends the Ineffable
Truth. t That the following hymn was composed by Proclus, can
not be doubted by any one who is conversant with those already ex-
tant of this incomparable man, since the spirit and manner in both is
perfectly the same. Bacchic Mysteries. 223
discovered in the British Museum ; and the existence of which
appears to have been hitherto utterly unknown. This hymn is to be
found among the Harleian Manuscripts, in a volume containing several of
the OrpJiic liymns^ with which, through the ignorance of
transcriber, it is indiscriminately ranked, as well as the other four
hymns of Proclus, already printed in the Bihliotlieca Grmca of
Fabricius. Unfortunately too, it is tran- scribed in a character so obscure,
and with such great inaccuracy, that, notwithstanding the pains I
have taken to restore the text to its original purity, I have been obUged
to omit two hues, and part of a third, as beyond my abilities to
read or amend ; however, the greatest, and doubtless the most
important part, is fortunately intelhgible, which I now present to
the reader's inspection, accompa- nied with some corrections, and an
Enghsh paraphrased translation. The original is highly elegant and
pious, and contains one mythological particular, which is no where
else to be found. It has likewise an evident connection with the
preceding fable of Bac- 224 EJeusinian and chus,
as will be obvious from the perusal; and on tins account principally it
was in- serted in the present discoui'se. Ek aohnan.
KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(; IlTjYf]?
oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa? Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf
jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f
pov: Tioxvia i)'U^uj 'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,]
TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya
(p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^* '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J
rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou
l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi;
^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?, Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov
avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va
%apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H
v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov
v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv ||
'{^'j'/at-t ^aXXouaa* 'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.
So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' *
Lege oPptjULOTraxpT), t Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'.
Xuxoo. § Lege tceXexu?. II Lege Op;jL-r]v.
BaccJiic Mysteries. 225 'H x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa?
fxvjtjpa? p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa
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iitCu^yiv 00a? 6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of
aegis-bearing Jove, divine, Propitious to thy votaries' prayer
incline ; From thy great father's fount supremely bright,
Like fire resounding, leaping into light. Shield-bearing
goddess, hear, to whom belong A manly mind, and power to tame the
strong! Oh, sprung from matchless might, with joyful mind
Accept this hymn ; benevolent and kind ! The holy gates of wisdom,
by thy hand Are wide unfolded ; and the daring band Of
earth-born giants, that in impious fight Strove with thy fire, were
vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred poets
sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, *
Lege a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^. 226
Eleusinian and Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,
Tlie Titans fell against his life conspired ; And with
relentless rage and thirst for gore, Their hands his members into
fragments tore : But ever watchful of thy father's will,
Thy power preserv'd him from succeeding ill. Till from the
secret counsels of his fire, And born from Semele through heavenly
sire, Great Dionysus to the world at length Again
appeared with renovated strength. Once, too, thy warlike ax, with
matchless sway, Lopped from their savage necks the heads away
Of furious beasts, and thus the pests destroyed Which long
all-seeing Hecate annoyed. By thee benevolent great Juno's
might Was roused, to furnish mortals with delight. And
thro' life's wide and various range, 't is thine Each part to beautify
with art divine : Invigorated hence by thee, we find A
demiurgic impulse in the mind. Towers proudly raised, and for
protection strong. To thee, dread guardian deity, belong.
As proper symbols of th' exalted height Thy series claims
amidst the courts of light. Lands are beloved by thee, to learning
prone. And Athens, Oh Athena, is thy own ! Great
goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure light in
measure unconfined ; — That sacred light, Oh all-protecting
queen. Which beams eternal from thy face serene. My
soul, while wand'ring on the earth, inspire With thy own blessed
and impulsive fire : And from thy fables, mystic and divine.
Give all her powers with holy light to shine. Bacchic
Mysteries. 227 Give love, give wisdom, and a power to love,
Incessant tending to the realms above ; Such as unconscious of base
earth's control Gently attracts the vice-subduing soul : From
night's dark region aids her to retire, And once moi'e gain the palace of
her sire. O all-propitious to my prayer incline ! Nor let those
horrid punishments be mine Which guilty souls in Tartarus confine,
With fetters fast'ned to its brazen floors. And lock'd by hell's
tremendous iron doors. Hear me, and save (for power is all thine
own) A soul desirous to be thine alone.* It is very
remarkable in this hymn, that the exploits of Minerva relative to
cutting off the heads of wild beasts with an ax, etc., is mentioned
by no writer whatever; nor can I find the least trace of a circumstance
either in the history of Minerva or Hecate to which it alludes.f And from
hence, I * If I should ever be able to publish a second edition of
my translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a translation
of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant ; but which
are nothing more than the wreck of a great multitude which he
composed. t If Mr. Taylor had been conversant with Hindu
literature, he would have perceived that these exploits of Minerva-Athene
were taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani. The
whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and
Buddhistic legends into a Grecian dress. — ^A. W.
228 Bacchic Mysteries. think, we
may reasonably conclude that it belonged to the arcane Orphic
narrations concerning these goddesses, which were con- sequently
but rarely mentioned, and this but by a few, whose works, which might
afford us some clearer information, are unfortu- nately lost.
Musical Couference. Venus Kisiiig troni the
Sea. APPENDIX. SINCE writing the above
Dissertation, I have met with a curious Greek manu- script
entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^* according to the opinion
of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov So^aCooacv
'EXXtjvs? : In the course of which he describes the machinery of the
Eleusinian Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo- T(ov,
oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov
xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/j- x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]?
Ospas^axxTj xt] xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot
sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj
airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs- * Daemons, divinities,
spirits ; a term formerly applied to all rational beings, good or bad,
other than mortals. 229 230 Appendix,
(ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat
s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl- Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov
sttiov, sxtpvo'fo- p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov
siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL
Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt- {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi?
^l^'jjxo^c' otc xsp TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov,
to) x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou. Etc^
xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa
TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa- CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^
{XC{J-aA(OV£C, %at zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M
A(o5(ovctcov yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£-
poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo
xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat 6 yovaixo? %x£ic> oozio yap
ovo{xaCoDaL xy^v ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v
x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries of these demons, such
as the Eleusinia, con- sisted in representing the mythical narra-
tion of Jupiter mingling mth Ceres and her daughter Proserpina
(Phersephatte). But as Appendix. 231 venereal
connections are in the initiation,* a Venus is represented rising from
the sea, from certain moving sexual parts : afterwards the
celebrated marriage of Proserpina (with Pluto) takes place ; and those
who are initiated sing : " 'Out of the drum I have
eaten, Out of the cymbal I have drank, The mystic vase I have
sustained, The bed I have entered.' The pregnant throes
likewise of Ceres [Deo] are represented : hence the supphcations of
Deo are exhibited; the drinking of bile, and the heart-aches. After this,
an effigy with the thighs of a goat makes its appear- ance, which
is represented as suffering vehe- mently about the testicles : because
Jupiter, as if to expiate the violence which he had offered to
Ceres, is represented as cutting off the testicles of a goat, and placing
them on her bosom, as if they were his own. But after all this, the
rites of Bacchus suc- ceed; the Cista, and the cakes with many bosses,
Uke those of a shield. Likewise the * /. e. a representation of
them. 232 Appendix. mysteries of Sabazius,
divinations, and the mimalons or Bacchants ; a certain sound of the
Thesprotian bason ; the Dodonsean brass ; another Corybas, and another
Proserpina, — representations of Demons. After these suc- ceed the
uncovering of the thighs of Baubo, and a woman's comb (lie is), for thus,
through a sense of shame, they denominate the sexual parts of a
woman. And thus, with scanda- lous exhibitions, they finish the
initiation." From this curious passage, it appears that
the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost all the gods ; and
this account will not only throw hght on the relation of the
Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be elucidated by it
in several particulars. I would willingly unfold to the reader the
mystic meaning of the whole of this machinery, but this can not be
accom- phshed by any one, without at least the pos- session of all
the Platonic manuscripts which are extant. This acquisition, which I
would infinitely prize above the wealth of the In- dies, will, I
hope, speedily and fortunately k'^■
Jupiter disguised as Diana, and Calisto. ~-_ ;^ ^ C\r
I ■■■■ mt^
Hercules, Deianeira and Nessus. Appendix. 235
be mine, and then I shall be no less anxious to communicate this
arcane infoiTQation, than the liberal reader will be to receive it.
I shall only therefore observe, that the mu- tual communication of
energies among the gods was called by ancient theologists c'spo^
yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage ; concerning which Proclus, in
the second book of his manuscript Commentary on the Parmenides,
admirably remarks as follows: TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV,
TTOrS {1£V £V ZOIQ GO- Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at
vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpo- voo
v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ xa xpsLtto), %ai
v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj- Tpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov
xpsiTiKovcov xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?
Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af irpoc X7. GDGZoiya
7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi; xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa
|X£X7. xa^)xa. Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C
{j.£- XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V
dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time considered this
communion of the gods in divinities co-ordinate with each other ; and
236 Appendix. then tliey called it the mamage of Jupiter
and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and Gre], of Saturn and Rhea : but
at another time, they considered it as svibsisting be- tween
subordinate and superior divinities; and then they called it the marriage
of Jupi- ter and Ceres ; but at another time, on the contrary, they
beheld it as subsisting be- tween superior and subordinate
divinities; and then they called it the marriage of Jupi- ter and
Kore. For in the gods there is one kind of communion between such as are
of a co-ordinate nature ; another between the subordinate and
supreme ; and another again between the supreme and subordinate.
And it is necessary to understand the peculiarity of each, and to
transfer a conjunction of this kind froin the gods to the communion
of ideas with each other." And in Tim (mis ^ book i., he
observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple /. e. '' And that the same
goddess is conjoined with other gods, or the same god with many
goddesses, may be collected fi'om the mystic Appendix.
237 discourses, and those marriages which
are called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the
divine Proclus ; from the first of which passages the reader may
perceive how adultery and rapes, as represented in the machinery of
the Mysteries, are to be under- stood when apphed to the gods; and
that they mean nothing more than a communica- tion of divine
energies, either between a su- perior and subordinate, or subordinate
and superior, divinity. I only add that the ap- parent indecency of
these exhibitions was, as I have already observed, exclusive of its
mystic meaning, designed as a remedy for the passions of the soul :
and hence mystic ceremonies were very properly called a%£7., akea,
medicines, by the obscure and noble Heracleitus.'^ *
Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig.
Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS.
I shall utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed,
Nevertheless, against all the profane. But do thou hear, Oh Musseus, for
I will declare what is true. . . . He is the One, self -proceeding
; and from him all things proceed, And in them he himself exerts his
activity ; no mortal Beholds Him, but he beholds all. There
is one royal body in which all things are enwombed, Fire and Water,
Earth, ^ther, Night and Day, And Counsel [Metis'], the first producer,
and delightful Love, — For all these are contained in the great body of
Zeus. Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last
; Zeus is the head, Zeus the middle of all things ; From Zeus were
all things produced. He is male, he is female ; Zeus is the depth of the
earth, the height of the starry heavens ; 238
Appendix. 239 He is the breath of all things, the force of untamed
fire ; The bottom of the sea ; Sun, Moon, and Stars ; Origin of all
; King of all ; One Power, one God, one Great Ruler. HYMN OF
CLEANTHES. Greatest of the gods, God with many names,
God ever-ruling, and ruling all things ! Zeus, origin of Nature,
governing the universe by law, All hail ! For it is right for mortals to
address thee ; For we are thy offspring, and we alone of all <
That live and creep on earth have the power of imitative speech.
Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power. Thee the wide
heaven, which surrounds the earth, obeys : Following where thou wilt,
willingly obeying thy law. Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty
hands, The two-edged, flaming, immortal thunderbolt. Before whose
flash all nature trembles. Thou rulest in the common reason, which goes
through all. And appears mingled in all things, great or small,
Which filling all nature, is king of all existences. Nor without thee. Oh
Deity,* does anything happen in the world. From the divine ethereal pole
to the great ocean, Except only the evil preferred by the senseless
wicked. But thou also art able to bring to order that which is
chaotic. Giving form to what is formless, and making the discordant
friendly ; So reducing all variety to imity, and even making good
out of evil. Thus throughout nature is one great law Which only the
wicked seek to disobey. Poor fools ! who long for happiness. But
will not see nor hear the divine commands. * Greek, Aaifxov,
Demon, 240 Appendix.
[In frenzy blind they stray a\v;iy from good, By thii'st of
glory tempted, or sordid avarice, Or pleasures sensual and joys
that fall.] But do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller!
Ruler of thunder ! guard men from sad error. Father ! dispel
the clouds of the soul, and let us follow The laws of thy great and
just reign ! That we may be honored, let us honor thee again,
Chanting thy great deeds, as is proper for mortals, For
nothing can be better for gods or men Than to adore with hymns the
Universal King.* * Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here
copied, renders this phrase "the law common to all." The Greek
text reads: " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv," — the
term vojj.oc:, nomos, or Law, being used for King, as Love is for God. —
A. W. Proserpina Enthroned in Hades.
Nymphs and Centaurs. AporrJieta, Greek aiioppTjTa — The instructions
given by the hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not
to be disclosed on pain of death. There was said to be a syn- opsis
of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it is said, were
bound together in the form of a book. Apostatise — To fall or
descend, as the spiritual part of the soul is said to descend from its
divine home to the world of nature. Cathartic — Purifying. The term
was used by the Platonists and others in connection with the ceremonies
of purification be- fore initiation, also to the corresponding
performance of rites and duties which renewed the moral life. The
cathartic virtues were the duties and mode of living, which
conduced to that end. The phrase is used but once or twice in this
edition. Cause — The agent by which things are generated or
produced. Circulation — The peculiar spiral motion or progress by
which the spiritual nature or "intellect" descended from the
divine region of the universe into the world of sense.
Cogitative — Relating to the understanding: dianoetic.
Conjecture, or Opinion — A mental conception that can be changed by
argument. Core — A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic
and later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She was
supposed to typify the spiritual nature which was ab- 241
242 Glossary, Core — con tinned. ducted by Hades
or Pluto into the Underworld, the figure signifying the apostasy or
descent of the soul from the higher life to the material body.
CoricaUy — After the manner of Proserpina, i. e., as if descending
into death from the supernal world. D(emoii — A designation of a certain
class of divinities. Different authors employ the term differently.
Hesiod regards them as the souls of the men who lived in the Golden Age,
now act- ing as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the
CratyJus, says " that daemon is a term denoting wisdom, and that
every good man is dsemonian, both while living and when dead, and
is rightly called a daemon." His own attendant spirit that checked
him whenever he endeavored to do what he might not, was styled his
Daemon. lamblichus places Daemons in the second order of spiritual
existence. — Cleanthes, in his celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov
(daimon). Demiurgiis — The creator. It was the title of the;
chief-magistrate in several Grecian States, and in this work is applied
to Zeus or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla-
tdnists, and more especially the Gnostics, who regarded matter as
constituting or containing the principle of Evil, sometimes applied this
term to the Evil Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew
God. Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and
scattered. The spiritual nature or intellect in its higher estate was
regarded as a whole, but in descending to worldly conditions became
divided into parts or perhaps characteristics. Divisible — Made
into parts or attributes, as the mind, intellect, or spiritual, first a
whole, became thus distinguished in its de- scent. This division was
regarded as a fall into a lower plane of life. Energise,
Greek z^z^^-^zw — Ho operate or work, especially to undergo discipline of
the heart and character. Glossary. 243 Energy —
Operation, activity. Eternal — Existing through all past time, and
still continuing. Faith — The correct conception of a thing as it
seems, — fidelity. Freedom — The ruling power of one's life ; a
power over what per- tains to one's self in life. Friendship
— Union of sentiment; a communion in doing well. Fury — The
peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired and actuated
prophets, poets, intei'preters of oracles, and others ; also a title of
the goddesses Demeter and Persephone as the chastisers of the wicked, —
also of the Eumenides. Generation, Greek Y^^'^t? — Generated
existence, the mode of life peculiar to this world, but which is
equivalent to death, so far as the pure intellect or spiritual nature is
concerned ; the process by which the soul is separated from the
higher form of existence, and brought into the conditions of life
upon the earth. It was regarded as a punishment, and ac- cording to Mr.
Taylor, was prefigured by the abduction of Proserpina. The soul is
supposed to have pre-existed with God as a pure intellect like him, but
not actually identical — at one but not absolutely the same.
Good — That which is desired on its own account. Hades — A name
of Pluto; the Underworld, the state or region of departed souls, as
understood by classic writers ; the physical nature, the corporeal
existence, the condition of the soul while in the bodily life.
Herald, Greek y.7]po4 — The crier at the Mysteries.
Hierophant — The interpreter who explained the purport of the
mystic doctrines and dramas to the candidates. Holiness, Greek
ooioty]? — Attention to the honor due to God. Idea — A principle in
all minds underlying our cognitions of the sensible world.
Imprudent — Without foresight ; deprived of sagacity.
Infernal regions — Hades, the Underworld. Instruction — A
power to cure the soul. 244 Glossary. Intellect,
Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and by Professor Cocker,
intuitive reason, and the rational soul; the spiritual nature. " The
organ of self-evident, necessary, and universal truth. In an immediate,
direct, and intuitive manner, it takes hold on truth with absolute
certainty. The reason, through the medium of ideas, holds communion with
the world of real Being. These ideas are the light y^\\\(^\i reveals the
world of unseen realities, as the sun reveals the world of sensible
forms. ' The Idea of the good is the Sun of the Intelligible World ;
it sheds on objects the light of truth, and gives to the soul that knows
the power of knowing.' Under this light the eye of reason apprehends the
eternal world of being as truly, yet more truly, than the eye of sense
appi'ehends the world of phenomena. This power the rational soul
possesses by virtue of its having a nature kindred, or even homogeneous
with the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,' and
like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we are to
understand Plato as teaching that the rational soul had an independent
and underived existence ; it was created or 'generated' in eternity, and
even now, in its incorporate state, is not amenable to the condition of
time and space, but, in a peculiar sense, dwells in eternity : and
therefore is capable of beholding eternal realities, and coming into
communion with absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with
God, the Absolute Being." — Christianity and Greek Philosophy,
x. pp. 349, 350, Intellective — Intuitive ; perceivable by
spiritual insight. Ititelligihle — Eelating to the higher
reason. Interpreter — The hierophant or sacerdotal teacher who, on
the last day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book
to the candidates, and unfolded the final meaning of the repre-
sentations and symbols. In the Phoenician language he was called ins,
peter. Hence the petroma, consisting of two tablets of stone, was a pun
on the designation, to imply the Glossary. 245
Interpreter — continued. wisdom to be uiit'olcled. It has
been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim,
as the successor of Peter, from his succession to the rank and function
of the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated
Apostle, who probably was never in Rome. Just — Productive of
Justice. Justice — The harmony or perfect proportional action of
all the powers of the soul, and comprising equity, veracity,
fidelity, usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.
Judgment — A. peremptory decision covering a disputed matter; also
o'.avoLa, dianoia, or understanding. Knowledge — A comprehension by
the mind of fact not to be over- thrown or modified by argument. o Legislative
— Regulating. Lesser Mysteries — The TsXeia:, teletai, or
ceremonies of purifica- tion, which were celebrated at Agrae, prior to
full initiation at Eleusis. Those initiated on this occasion were
styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ; and their
initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of
being vailed from the former life. Magic — Persian mag,
Sanscrit maha, great. Relating to the order of the Magi of Persia and
Assyria. Material do'mons — Spirits of a nature so gross as to be
able to assume visible bodies like individuals still living on the
Earth. Matter — The elements of the world, and especially of the
human body, in which the idea of evil is contained and the soul
incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle. Muesis, Greek iinrioiq,
from ixotn, to vail — The last act in the Lesser Mysteries, or rsXtza:,
teletai, denoting the separating of the initiate from the former exotic
life. Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods.
The most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and
Eleusis. 246 Glossary. Mystic — Relating to the
Mysteries: a person initiated in the Lesser Mysteries — Greek
jj.u3Totu Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical
sense. Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic
Mysteries. Opinion — A hypothesis or conjecture.
Partial — Divided, in parts, and not a whole. Philologist —
One pursuing literature. Philosopher — One skilled in philosophy;
one disciplined in a right life. Philosophise — To
investigate final causes; to undergo discipline of the life.
Philosophy — The aspiration of the soul after wisdom and truth,
" Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned
being, and asserted that this was known to the soul by its intuitive
reason (intellect or spiritual instinct) which is the organ of all
philosophic insight. The reason perceives sub- stance ; the
understanding, only phenomena. Being (xo ov), which is the reality in all
actuality, is in the ideas or thoughts of God; and nothing exists (or
appears outwardly), except by the force of this indwelling idea. The word
is the true expression of the nature of every object : for each has its
divine and natural name, besides its accidental human appellation.
Philosophy is the recollection of what the soul has seen of things and
their names." (J. Freeman Clarke.) Plotinus — A philosopher
who lived in the Third Century, and re- vived the doctrines of
Plato. Prudent — Having foresight. Purgation,
purification — The introduction into the Teletce or Lesser Mysteries ; a
separation of the external principles from the soul. Punishment —
The curing of the soul of its errors. Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, —
One possessing the prophetic mania, or inspiration. Priest —
Greek \xrjyz'.c, — A prophet or inspired person, ispjuc — a sacerdotal
person. Glossary. 247
Revolt — A rolling away, the career of the soul in its descent from
the pristine divine condition. Science — The knowledge of
universal, necessary, unchangeable, and eternal ideas. Shows
— The peculiar dramatic representations of the Mysteries. Telete,
Greek tjXext] — The finishing or consummation ; the Lesser
Mysteries. Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to
the gods. Theoretical — Perceptive. Torch bearer — A
priest who bore a torch at the Mysteries. Titans — The beings who
made war against Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with the
Daittjas of India, who resisted the Brahmans. In the Orphic legend, they
are described as slaying the child Bacchus-Zagreus. Titanic —
Eelating to the nature of Titans. Transmigration — The passage of
the soul from one condition of being to another. This has not any
necessary reference to any rehabilitation in a corporeal nature, or body
of flesh and blood. See I Corinthians, XV. Virtue — A good
mental condition; a stable disposition. Virtues — Agencies, rites,
inflluences. Cathartic Virtues — Purify- ing rites or influences.
Wisdom — The knowledge of things as they exist ; " the
approach to God as the substance of goodness in truth."
World — The cosmos, the universe, as distinguished from the earth
and human existence upon it. /■ ('§
Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the
Three Fates. LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm
from the antique. A. L. RAWSON. A DESCRIPTION of tlie
illustrations to this volume properly includes the two or three theories
of human life held by the ancient Greeks, and the beautiful myth of
Demeter and Pro- serpina, the most charming of all mythological fancies,
and the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives to
the artists of the originals from which these drawings were made.
From them* we learn that it was believed»that the soul is a part
of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Cen- tral Sun of
the intellectual universe, and therefore immortal ; has lived before, and
will continue to hve after this '' body prison " is dissolved ; that
the river Styx is between us and the unseen world, and hence we have no
recollection of any former state of existence ; and that the body is
Hades, in which the soul is made to suffer for past misdeeds done in
the unseen world. Poets and philosophers, tragedians and
comedians, embel- lished the myth with a thousand fine fancies which
were 248 List of Illustrations. 249
woven into the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters
during the Bacchic festivals. The pictures include, beside the
costumes of priests, jiriest- esses, and their attendants, and of the
fauns and satjrrs, many of the sacred vessels and implements used in
celebrating the Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of
which were drawn by the ancient artists from the objects
represented, and their work has been carefully followed here.
Page. 1. Frontispiece. Sacrifice to Ceres. —
Denhndler, sculptur. The goddess stands near a serpent-guarded altar, on
which a sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter
approves. (See page 17.) 2. Decoratinq a Statue of Bacchus 4
— Bom. Campana. The priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is
a natural vine with grape clusters, and there are fruit and wine
bearers. 3. Bacchantes with Thyrsus and Flute 4 Two
fragments. —Bom. Camp. 4. Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4
Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page 208
for reference to pine nut. 5. Bacchus and Nymphs 5 6.
Pluto, Proserpina, and Furies 5 — Galerie des Peintres. The
Furies were said to be children of Pluto and Proserpina ; other accounts
say of Nox and Acheron, and Acheron was a son of Ceres Avithout a father.
(See page 65.) 7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6
8. Priestess with Musical Instruments 6 9. Faun Kissing
Bacchante. — Bourbon Mus 6 10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus
6 250 List of Ilhistrations. Page.
11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen 7 See drawings on page
lOG. 12. Mercury Presenting a Soul to Pluto 8 — Pict.
Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8. 13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav.
17 8 14. Eleusinian Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8
8 15. Bacchic Festival.— JSarto?*, Admiranda, 43 9
Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who was an
archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and fruit bearers,
dancers, and Pluto and Proserpina. A boy re- moves the king's sandal.
(See page 35.) 16. Apollo and the Muses. — Florentine Museum
10 The muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne ;
that is, of the god of the present instant, and of memory. Their office
was, in part, to give information to any inquiring soul, and to preside
over the various arts and sciences. They were called by various names
derived from the places where they were worshiped : Aganippides, Aonides,
Castalides, HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo
was called Musagetes, as their leader and conductor. The palm tree,
laurel, fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and other sacred
mountains, were sacred to the muses. 17. Prometheus Forms a Woman
11 — Visconti, Mus. Fio. Clem., IV., 34. Mercury, the
messenger of the gods, brings a soul from Jupiter for the body made by
Prometheus, and the three Fates attend. The Athenians built an altar for
the worship of Pro- metheus in the grove of the Academy. 18.
Procession of Iacchus and Phallus 16 — Montfaucon. From
Athens to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia. The statue is made
to play its part in a mystic ceremony, typi- fying the union of the sexes
in generation. Attendant priest- esses bear a basket of dried flgs and a
phallus, baskets of fruit, vases of wine, with clematis, and musical and
sacrificial instni- ments. None but women and children were permitted to
take part in this ceremony. The wooden emblem of fecundity was an
object of supreme veneration, and the ceremony of placing and hooding it.
was assigned to the most highly respected woman in Athens, as a mark of
honor. Lucian and Plutarch List of Illustrations. 251
Pagk. say the phallus bearers at Rome carried images
(phalloi) at the top of long poles, and their bodies were stained with
wine lees, and partly covered with a lamb-skin, their heads crowned
with a wreath of ivy. (See page 14.) 19, 20, 21. From
Etruscan Vases — Florentine Museum. 22 Human sacrifice may be
indicated in the lower group. 22. Venus and Proserpina in Hades
28 — Galerie des Peintres. The myth relates that Venus gave
Proserpina a pomegranate to eat in Hades, and so made her subject to the
law which re- quired her to remain four months of each year with Pluto
in the Underworld, for Venus is the goddess who presides over birth
and growth in all cases. Cerberus (see page 65) keeps guard, and one of
the heads holds her garment, signifying that his master is entitled to
one-third of her time. 23. Rape of Proserpina. Carried Down to
Hades (Invisibility) — Flor. Mus 29 See note, p.
152. 24. Pallas, Venus, and Diana Consulting 30 — Gal.
des Peint. Jupiter ordered these divinities to excite desire in the heart
of Proserpina as a means of leading her into the power of the
richest of all monarchs, the one who most abounds in treasures. (See page
140.) 25. Dionysus as God op the Sun 31 — Pit. Ant.
Ercolmio. Dionysus — Bacchus — symbolizes the sun as god of the
sea- sons ; rides on a panther, pours wine into a drinking-horn
held by a satyr, who also carries a wine skin bottle. The winged
genii of the seasons attend. Winter carries two geese and a cornu-
copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in the other the
mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf of grain ; and Autumn has
a hare and a horn-of-plenty full of fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the
usual attendants of Bacchus, play with goats and panthers between the
legs of the larger figures. 26. Herse and Mercury 42
— Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match between the god and a
daughter of Cecrops, the Egyptian who founded Athens, supplied the ritual
for the festivals Hersephoria, in which young girls of seven to
eleven years, from the most noted families, dressed in 252
List of Illustrations. Page. white, carried the sacred
vessels and implements used in the Mysteries in procession. Cakes of a
peculiar form were made for the occasion. 27. Narcissus Sees
His Image in Water 42 — P. Ovid. Naso. The son of Cephissus
and Liriope, an Oceanid, was said to be very beautiful. He sought to win
the favor of the nymph of the fountain where he saw his face reflected,
and failing, he drowned himself in chagrin. The gods, unwilling to lose
so much beauty, changed him into the flower now known by his name.
(See page 150.) 28. Jupiter as Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso
. . 62 The supreme deity of the ancients, beside numerous
marriages, was credited with many amours with both divinities and
mor- tals. In some of those adventures he succeeded by using a
disguise, as here in the form of the Queen of the Starry Heavens, when he
surprised Calisto (Helice), a daughter of Lycaon, king of Arcadia, an
attendant on Diana. The com- panions of that goddess were pledged to
celibacy. Jupiter, in the form of a swan, surprised Leda, who became
mother of the Dioscuri (twins). 29. Diana and Calisto. —
Ovid. Naso, Neder 62 The fable says that when Diana and her nymphs
were bathing the swelling form of Calisto attracted attention. It
was re- ported to the goddess, when she punished the maid by chang-
ing her into the form of a bear. She would have been torn in pieces by
the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and trans- lated her to the
heavens, where she forms the constellation The Great Bear. Juno was
jealous of Jupiter, and requested Thetis to refuse the Great Bear
permission to descend at night beneath the waves of ocean, and she, being
also jealous of Poseidon, complied, and therefore the dipper does not
dip, but revolves close around the pole star. 30. Bacchantes
and Fauns Dancing 74 A stage ballet. — Bom. Campana, 37.
31. Hercules, Bull, and Priestess. — Bom. Camp 74 Bacchic
orgies. 32. Fruit and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm 84
33. Torch-Bearer as Apollo. — Bourbon Mits 84 34. Eleusinian
Mysteries. — Florence 3Ius 94 List of Illustrations.
253 r>- T-, Page, 60. Etruscan Mystic
Ceremony.— i?oH«. Camp 94 36. Etruscan Altar Group.— JPtor. Mus
106 The mystic cist with serpent coiled around, the sacred
oaks, baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and
flowers, make very pretty and impressive accessories to two
handsome priestesses. 37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en
106 These two groups were drawn from a vase (page 7) which is
a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols, accessories,
and all the details of implements used in the cele- bration of the
Mysteries are very carefully drawn on the vase, which is well preserved.
This vase is a strong proof of the antiquity of the orgies, for the
Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the Romans began to
build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m
106 39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre . 110
Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real animal, but
science has dissipated that belief, and the monster has been classed
among the artificial attractions of the theater where it belongs, and
where it did a large share of duty in the Mysteries. They were invented
by the poets as an impersona- tion of the life that animates the branches
of trees when the wind sweeps through them, meaning, whistling, or
shrieking in the gale. They were said to be the chief attendants on
Bacchus, and to delight in revel and wine. 40. Cupids, Satyr, and
Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110 The many suggestive emblems in
this picture form an instruc- tive group, symbolic of Nature's
life-renewing power. The ancients adored this power under the emblems of
the organs of generation. Many passages in the Bible denounce that
wor- ship, which is called " the grove," and usually was an
iipright stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,
where it became a statue to the waist, as seen in the engrav- ing. The
Palladium at Athens was a Greek form. The Druzes of Mount Lebanon in
Syria now dispense with em- blems of wood and stone, and use the natural
objects in their mystic rites and ceremonies. 41. Apollo and
Daphne,— Galerie des Peint 118 The rising sun shines on the
dew-drops, and warming them as they hang on the leaves of the laurel
tree, they disappear, 254 List of lUiisfrations.
Page. leaving the tree ; and it is said by the poet that
Apollo loves and seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies
and is transformed into a laurel tree at the instant she is embraced
by the sun-god. 42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius
118 Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting
sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever prevents
them from enjoying each other's society. The fair huntress sometimes is
permitted, as when she is the new moon, or in the first quarter, to
approach near the place where her beloved one lingers near the Hesperian
gardens, and to follow him even to the Pillars of Hercules, but never to
embrace him. The new moon, as soon as visible, sets near but not with the
sun. Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and
would linger until the loved one can be folded in his arms, but his duty
calls and he must turn his steps toward the Elysian Fields to cheer the
noble and good souls who await his presence, ever cheerful and benign.
Diana follows closely after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants
of the Peaceful Islands, but while receiving their homage her lover
hastens on toward the eastern gates, where the golden fleece makes the
morning sky resplendent. 43. Ceres and the Car op Treptolemus
127 P. Ovid. Naso, Neder. Triptolemus (the word means three
plowings) was the founder of the Eleusinian Mysteries, and was presented
by Ceres with her car drawn by winged dragons, in which he distributed
seed grain all over the world. 44. Pluto Marries Proserpina
127 — P. Ovid. Naso, Neder. Jupiter is said to have consented
to request of Pluto that Proser- pina might revisit her mother's
dwelling, and the picture repre- sents him as very earnest in his appeal
to his brother. Since then the seed of grain has remained in the ground
no longer than four months ; the other eight it is above, in the regions
of light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.
This seems conclusive that it was a representation of a dra- matic scene.
(See pp. 159, 186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. —
Heck... 138 46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138
A Roman Figure of Geres.— Heck 138 Demeter, from
Etruscan Vase.— IfecZ; 138 49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting
the Needlework of Proserpina.— Galerie des Peini . 142
50. Proserpina Exposed to Pluto 152 — Ovid. Naso,
Neder. There may have been a mild sarcasm in this artist's mind
when he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest mon-
arch in all the earth in the distance, hastening toward her. He
succeeded, as is shown in the next engraving. 51. Pluto Carrying
Off Proserpina 152 — P. Ovid. Naso, Neder. Eternal change is
the universal law. Proserpina must go down into the Underworld that she
may rise again into light and life. The seed must be planted under or
into the soil that it may have a new birth and growth. 52.
Proserpina in Pluto's Court. — Montfaucon 156 As a personation she
was the "Apparent Brilliance" of all fruits and flowers.
53. Ceres in Hades. — Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and
Wine Jars. — Montfaucon .... 168 55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum
168 56. A Group of Deities. — Heck 168 Pan and
Dionysus, Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus, and Silenus.
57. Night with Her Starry Canopy. — Heck 168 58. The Three
Graces. — Heck 168 59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174
— Galerie des Peint. 60. Prize Dance between a Satyr and a
Goat 174 — Anticld. 61. Baubo and Ceres at Eleusis. —
Galerie des Peint. 174 See page 232. 256 List of Illustrations.
Page. 62. Psyche Asleep in Hades 186 — From the
ruins of the Bath of Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of
the Four Rivers in Hades 187 — Tomb of the Nasons. "It was
easy for poets and mythographers, when they had once started the idea of
a gloomy land watered with the rivers of woe, to place Styx, the stream
which mates men shudder, as the boundary which separates it from the
world of Uving men, and to lead through it the channels of Lethe, in
which all things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with
shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."
Acheron, in the early myths, was the only river of Hades. 64.
Etruscan Vase Group. — MilUngen 198 65. Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?,
1 pJ. 27 198 66. Greek Convivial Scene. — Millin, 1 ^9^ 38
198 67. Faun and Bacchante. — Bour. Mus 206 68.
Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum 206 69. Bacchante and Faun.— 5o«r.
Mus 206 These three verj' graceful pictures were drawn from
paintings on walls in Herculaneum. 70. KiN<T, Torch,
Fruit, and Thyrsus Bearer 212 71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«,
Bassirilievi, 70 212 Here is an actual ceremony in which many
actors took parts ; with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux
(crier), bac- chantes, fauns, and other attendants on the celebration of
the Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings.
72. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220 —
Montfaucon. See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at
the Bacchic theaters, those dramas must have been very popular, and
justly so. To those theaters, which were supported by the government in
Athens and in many other cities througliout Greece, we owe the immortal
works of ^schylus and Soph- ocles. Page. 73,
Musical Conference (Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi.
62, Written music was evidently used, for one of the company is
writing as if correcting the score, and writing with the left hand.
74. Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229 This
goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said she rose from the
sea — the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the
island Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored
place for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cy- thera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings 22,
39, and 49, and page 230.) 75, Jupiter Disguised as Diana, and
Calisto 234 — Ovid. Naso, Neder. The gods were said to have
the power, and to practice as- suming the form of any other of their
train, or of any animal. In these disguises they are supposed to play
tricks on each other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto
is one of her attendants, and many white clouds float over the blue
ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs). 76.
Hercules, Deianeira, and Nessus 234 — Ovid. Naso, Neder. The
sun nears the end of the day's journey; he is aged and weary ; dark clouds
obscure his face and obstruct his way, but stUl Hercules loves beautiful
things, and Deianeira, the fair daughter of the king of ^tolia, retires
with him into exile. At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the
Centaur, to carry across the river. The ferryman made love to the lady,
and Hercules resented the indiscretion, and wounded him by an arrow.
Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as a love charm in case
her husband should love another woman. Hercules did love another, named
lole, and Deianeira dipped his shirt in the blood of Nessus — the
crimson' and scarlet clouds of a splendid sunset are made glorious by the
blood of Nessus, and Hercules is burnt on the funeral pyre of
scarlet and crimson sunset clouds. 258 List of
Illustrations. Page. 77. The Sacrifice. — Herculaneum,
IV., 13 237 78. Hercules Drunk. — Zoegciy BassirilievU tav. 67
238 79. Proserpina Enthroned in Hades- — Archdol. Zeit. 240
The principle of growth rules the Underworld. 80. Bacchante
and Centaur. — Bourbon Mus .Bacchante and Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241
82. Eleusinian Priest and Assistants 247 83. The Fates. —
Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248 84. Supper Scene 258
85. Bacchic Bull. — Antichi Ou cover. Suppei- Scene. The
Eleusinian and Bacchic mysteries. Princeton Theological
Semmary-Speer Library PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP A
DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF THE
ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE
CROSS AN ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW
PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF
THE ANCIENT FAITHS LONDON PRIVATELY PRINTED. The
present somewhat slight sketch of a most interesting subject, whilst not
claiming entire originality, yet embraces the cream, so to speak, of
various learned works of great cost, some of which being issued for private
circulation only, are almost unobtainable. During the past few
years several philophical have been
written upon ancient Roman Phallicism in conjunction with other kindred
matters f but not devoting themselves entirely to one ancient mystery
y the writers have only partially ventilated the subject. The
present work seeks to obviate this failing by confining its attention
entirely to the Sex Worship or Phallicism of the ancient world.
Many of the topics have received only slight treatmenty being
little more than indicated ; but the work will enable the reader to
understand and possess the truth concerning the Phallic Worship of the
Ancients . Those who desire to know more, or to authenticate
the statements and facts given in this book , should consult the
large and important works of Payne Knight , Higgins , Dulaure,
Rolky Inman , and other writers . It was intended to give with this
volume a list of works and miscellaneous pieces written on the subject ,
but the length of the list prevented its being added. Sex Worship has
prevailed among all peoples of ancient times, sometimes contemporaneous
and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of
nature were sexualised and endowed with the same feelings,
passions, and performing the same functions as human beings. Among
the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was
worshipped, the idea was the same — the veneration of the generative
principle. Thus we find a close relationship between the various
mythologies of the ancient nations, and by a comparison of the creeds,
ideas, and symbols, can see that they spring from the same source,
namely, the worship of the forces and operations of nature, the original
of which was doubt- less Sun worship. It is not necessary to prove that
in primitive times the Sun must have been worshipped under various
names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life, and the Giver
of Food. In the earliest times the worship of the generative
power was of the most simple and pure character, rude in manner,
primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme power,
the Author of life. Afterwards the worship became more depraved,
a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were
not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated with
it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prosti- tution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and became
licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved
ceremonies at the worship of BACCO, who became, not only the
representative of the creative power, but the god of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing
to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical bliss, as
was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme
and governing deity, enthroned as the ruling God over all ; dissent
therefrom was impious and punished. The priests of the worship compelled
obedience. Monarchs complied to the prevailing faith and became willing
devotees to the shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO and
PRIAPO on the other, by appealing to the most animating passion of
nature. This is the worship of the reproductive powers, the sexual
appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male,
the active creative power ; the other the female or passive power ; ideas
which were represented by various emblems in different countries.These
emblems were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people ; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the
priests and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on the
“ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,” the writer
traces the superstition westward, and gives an account of its prevalence
through- out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains ; and many of our
ancient customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to
Britain,” says the writer, “ we find this worship established no less
firmly and extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic
bronzes. io Phallic Worship pottery covered with
obscene pictures, are found wherever there are any extensive remains of
Roman occupation, as our antiquaries know well. The numerous
Phallic figures in bronze found in England are perfectly identical
in character with those that occur in France and Italy.” All
antiquaries of any experience know the great number of obscene subjects
which are met with among the fine red pottery which is termed Samian
ware, found so abundantly in all Roman sites in our island. “ They
represent erotic scenes, in every sense of the word, with figures of
Priapus and Phallic emblems.” PHALLUS The Phallus, or
Lingam, which stood for the image of the male organ, or emblem of
creation, has been worshipped from time immemorial. Payne Knight
describes it as of the greatest antiquity, and as having prevailed in
Egypt and all over Asia. The women of the former country carried in
their re- ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the Greeks
represented the Phallus alone, and changed the personified attribute into
a distinct deity, called Priapus. Phallus, or privy member (
membrum virile ), signifies, “ he breaks through, or passes into.” This
word survives in German pfabl, and pole in English. Phallus is
supposed Phallic Worship ii to be
of Phoenician origin, the Greek word pallo> or phallo , “ to brandish
preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance and meaning
to Phallus, that one is quite likely to be parent of the other. In
Sanskrit it can be traced to phal> “ to burst,” “ to produce,” “
to be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and is
also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then,
was the ancient emblem of creation : a divinity who was companion to
Bacchus. The Indian designation of this idol was Lingam, and
those who dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “ that they had in any
way departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” SYMBOLS OR EMBLEMS The Phallus and its emblems
were representative of the gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris,
Baal, and Asher, who were all Phallic deities. The symbols were
used as signs of the great creative energy or operating power of God from
no sense of mere animal appetite, but in the highest reverence. Payne
Knight, describing the emblems, says : — “ Forms and
ceremonials of a religion are not always to be understood in their direct
and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations
of some hidden meaning extremely wise and just, though the symbols
themselves, to those who know not their true signification, may appear in
the highest degree absurd and extravagant. It has often happened that
avarice and superstition have continued these symbolical repre-
sentations for ages after their original meaning has been lost and
forgotten; they must, of course, appear nonsensical and ridiculous, if
not impious and extravagant. Such is the case with the rite now under
consideration, than which nothing can be more monstrous and
indecent, if considered in its plain and obvious meaning, or as
part of the Christian worship ; but which will be found to be a
very natural symbol of a very natural and philosophical system of
religion, if considered according to its original use and
intention.” The natural emblems were those which from their
character were most suitable representatives ; such as poles, pillars,
stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish
divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone,
to be found at Narmada and other places, which is sacred to the
Hindu deity Siva ; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
‘ pillars ’ set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.” Phallic Worship
*5 THE POLE The Pole was an emblem of the Phallus, and
with the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom
and symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character,
both are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or
Phallus with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that
the raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious- ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the licentious
character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan writer in the
reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England : “ Every
parishe, towne, and village assemble themselves together, bothe
men, women, and children, olde and younge even indiffer- ently ; and
either goyng all together, or devidyng themselves into companies, they go
some to the woods and groves, some to one place, some to another,
where thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in the
14 Phallic Worship mornyng they returne, bryngyng with
them birch bowes and branches of trees, to deck their assemblies
withall. . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence is
their Maie pole, whiche thei bryng home with great veneration, as thus :
thei have twentie or fortie yoke of oxen, every oxe havyng a sweet
nosegaie of flowers placed on the tippe of his homes, and these oxen
drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which is
covered all over with flowers and hearbes, bound rounde aboute with
strynges from the top to the bottome, and sometyme painted with variable
colours, with two or three hundred men, women, and children, folio
wyng it with great devotion. And thus beyng reared up, with
handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe the grounde
aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer haules, bowers,
and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and feast, to leape
and daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication
of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather the thyng
itself.” The ceremony was almost identical with the Roman
festival, where the Phallus was introduced with garlands. Both were
attended with the same licentiousness, for Stubbes gives a further
account of the depravity attending the festivities.
PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains
of which still exist in the British Isles. These pillars or so
called crosses generally consist of a shaft of granite with Phallic
Worship iJ a carved head. In the West of England
crosses are very common, standing in the market and receiving the
name of “ The Cross.” These stone pillars were first erected
in honour of the Phallic deity, and on the introduction of
Christianity were not destroyed, but consecrated to the new faith,
doubtless to honour the prejudices of the people. These monolisks abound
in the Highlands, they are stones set up on end, some twenty-four or
thirty feet high, others higher or lower and this sometimes where no such
stones are to be quarried. We learn that the Bacchus of the
Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain
pillar, consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an account
of this practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as a custom
for a superstitious man, when he passed by these anointed stones in the
streets to take out a phial of oil and pour it upon them and having
fallen on his knees to make his adorations, and so depart. In
various parts of the Bible the Pillar is referred to as of a sacred
character, as in Isaiah xix. 19, 20, “ In that day shall there be an
altar to Jehovah in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the
border thereof to Jehovah, and it should be for a sign and a witness to
the Lord.” The Orphic Temples were doubtless emblems of the
same principle of the mystic faiths of the ancients, the same as the
Round Towers of Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who
describes the Towers as “ Temples constructed by the early Indian
colonists of the country in honour of the Fructifying principle of
nature, emanating as was supposed from the Sun, or the deity of desire
instrumental in that principle of universal generativeness diffused
throughout all nature.” 16 Phallic Worship
According to the same author these towers were very ancient, and of
Phoenician origin, as similar towers have been found in Phoenicia. “ The
Irish themselves,” says O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is
the tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the
priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superin- tendent of Baal
tower.” This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went, and was
represented by a pillar or stone or similar objects. The stone that
Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship, became
afterwards an object of worship to the Phoenicians. The earliest
navigators of the world were the Phoenicians, they founded colonies and
extended their commerce first to the isles of the Mediterranean, from
thence to Spain, and then to the British Isles. Historians have
accorded to them the settlements of the most remote localities. They
formed settlements in Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the
principal settle- ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s
testimony is, that the Phoenicians, even before Homer, had
possessed themselves of the best part of Spain. Where the
Phoenicians settled, there they introduced their religion, and it is in
these countries we find the remains of ancient stone and pillar
worship. LOGGIN STONES, ETC. Loggin stones are by
Payne Knight considered as Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “
are still extant, and appear to have been composed of a crone set
into the ground, and another placed upon the point of it and so nicely
balanced that the wind could move it, though so ponderous that no human
force, unaided by machinery, can displace it; whence they are
called * logging rocks * and * pendre stones/ as they were
anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles which differ very
little in meaning from that on the Tyrian coins. Damascius saw several of
them in the neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,
particularly one which was then moved by the wind ; and they are equally
found in the Western extremities of Europe and the Eastern extremities of
Asia, in Britain, and in China.” Bryant mentions it as very
usual among the Egyptians to place with much labour one vast stone upon
another for a religious memorial. Such immense masses, being
moved by causes seeming so inadequate, must naturally have conveyed the
idea of spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded
them that they were animated by an emanation of the vital spirit, whence
they were consulted as oracles, the responses of which could always be
easily obtained by interpreting the different oscillatory movements
into nods of approbation or dissent. Phallic emblems abounded
at Heliopolis in Syria, and many other places, even in modern times. A
physician, writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last
winter (1865-66), and there certainly are numerous figures of gods
and kings, on the walls of the temple at Thebes, depicted with the male
genital erect. The great temple at Karnak is, in particular, full of such
figures, and the temple of Danclesa likewise, though that is of much
later date, and built merely in imitation of old Egyptian art. The
same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek. B
1 8 Phallic Worship xxiii. 14. I remember one scene of a king
(Rameses II) returning in triumph with captives, many of whom were
undergoing the process of castration.” Obelisks were also
representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. TRIADS The Triune idea is to be found in
the system of almost every nation. All have their Trinity in Unity, three
in one, which can be distinctly recognised in the cross. The Triad
is the male or triple, the constitution of the three persons of most
sacred Trinity forming the Triune system. In the analysis of the subject
by Rawlinson, we find the Trinity consisted of Asshur or Asher,
associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of the
Assyrians, represents the Phallus or central organ or the Linga, the
membrum virile . The cognomen Anu was given to the right testis, while
that of Hea designated the left. It was only natural that
Asshur being deified, his appendages should be deified also. “ Beltus,”
says Inman, “ was the goddess associated with them, the four
together made up Arba or Arba-il, the four great gods,” the Trinity in
Unity. The idea thus broached receives Phallic Worship
*9 great confirmation when we examine the particular
stress laid in ancient times respecting the right and left side of
the body in connection with the Triad names given to offspring mentioned
in the scriptures with the titles given to Anu and Hea. The male or
active principle was typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,”
and the females or passive by the principles of “ water,” “ soft-
ness,” and other feminine principles. Thus the goddess Hea was associated
with water, and according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the
Abyss, was sometimes repre- sented to be the great Hea, without whom
there was no creation or life, and whose godhead embraced also the
female element water. Rawlinson also gives a similar conclusion,
and states as far as he could determine the third divinity or left
side was named Hea, and he considered this deity to correspond to
Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the abyss,
and king of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach, mankind, in
common with all animal life, originally sprung from the sea ; so
physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring ; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the
supreme god of the Assyrians, 20 Phallic
Worship the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It is
remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which
properly should be called the symbol of symbols. One of the most
remarkable of these is a cross, in the form of the letter (T), which thus
served as the emblem of creation and generation before the Church adopted
it as a sign of salvation.” Another writer says, “ Reverse
the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the
figure of the ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the
cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original
Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of
the * tau ’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright — the stump of a tree, a
block, a tower, spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree,
while eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like
represented the remaining two portions, altogether called Phallic
emblems. Baal-Shalisha is a name which seems designed to perpetuate the
triad, since it signifies c my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’
” We must not omit to mention other Phallic emblems, such as
the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed
stick, the crozier ; and still further per- sonified, as Bacchus,
Priapus, Dionysius, Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter,
Moloch, Baal, Asher, and others. If Ezekiel is to be
credited, the triad, T, as Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and
silver, and was in his day not symbolically used, but actually
employed; 22 Phallic Worship for
he bluntly says “ whoredom was committed with the images of men/’ or, as
the marginal note has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was
with this god-mark — a cross in the form of the letter T — that Ezekiel
was directed to stamp the foreheads of the men of Judaea who feared
the Lord (Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual
origin we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality — worship of the generative principle of man and nature, male
and female. The cross became the emblem of the male feature, under
the term of the triad — three in one. The female was the unit ; and,
joined to the male triad, con- stituted a sacred four. Rites and
adoration were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to
the two in one. So great was the veneration of the cross
among the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the
Egyptians as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held Phallic Worship 2 3 it as a
sacred emblem. In Egypt it stood for the significa- tion of eternal life.
Schedeus describes it as customary for the Druids “ to seek studiously
for an oak tree, large and handsome, growing up with two principal arms
in the form of a cross , besides the main stem upright. If the two
horizontal arms are not sufficiently adapted to the figure, they fasten a
cross-beam to it. This tree they consecrate in this manner : Upon the
right branch they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’
; upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9 ; upon
the left branch * Belenus * ; over this, above the going off of the arms,
they cut the name of the god Thau ; under all, the same repeated, Thau
” YONI There is in Hindostan an emblem of great
sanctity, which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of a
simple pillar in the centre of a figure resembling the outline of a
conical ear-ring. It is expressive of the female genital organ both in
shape and idea. The Greek letter “ Delta ” is also expressive of it,
signifying the door of a house. Yoni is of Sanskrit origin.
Yanna, or Yoni, means (i) the vulva, (2) the womb, (3) the place of
birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur
and Jupiter were the representatives of the male potency, so Juno and
Venus were representatives of the female attribute. Moore, in his “
Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers have generally spelled the
word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen of the male
organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : “
The female organs of generation were revered as symbols of the
generative powers of nature or of matter, as those of the male were of
the generative powers of God. They are usually represented emblematically
by the shell Concha Veneris , which was therefore worn by devout
persons of antiquity, as it still continues to be by the pilgrims of many
of the common people of Italy ” (“ On the worship of Priapus,” p.
28). If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,
is supplied with types and representative figures of himself, so the
female feature is furnished with substitutes and typical imagery of
herself. One of these is technically known as the sistrum of
Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the fenestrum> or
opening, are bent so that they cannot be taken out, and indicate that the
door is closed. It signifies that the mother is still virgo intacta — a
truly immaculate female — if the truth can be strained to so denominate
a mother . The pure virginity of the Celestial Mother was a tenet of
faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now adored was
born. We might infer that Solomon was acquainted with the figure of
the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse, a
spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12). The sistrum ,
we are told, was only used in the worship of Isis, to drive away Typhon
(evil). The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or
plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte, Isis, and Venus.
Its shape portrays its own significance. The Argha and crux ansata were
often seen on Egyptian monuments, and yet more frequently on
bas-reliefs. Phallic Worship *3
Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father, the Trinity ;
Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for
Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva,
Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ; the cross,
tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ; while the
Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus, Diana, Artemis,
Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of
Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark, the ship,
the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,
and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian, and visited the
temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are two Phalli
standing in the porch with this inscription on them, “ These Phalli I,
Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The Papal religion
is essentially the feminine, and built on the ancient Chaldean basis. It
clings to the female element in the person of the Virgin Mary. Naphtali
(Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers, if there be any
meaning in a concrete name. Bear in mind, names and pictures perpetuate
the faith of many peoples. Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or
El being God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is “the
Yoni is my God,” or “I worship the Celestial Virgin.” The Philistine
towns generally had names strongly connected with sexual ideas. Ashdod,
aisb or esby means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,” “
boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the heat of love,” or
“ the fire which impels to union.” Could not those people exclaim, Our
" God is love ” ? (i John iv. 8). The amatory drift of
Solomon’s song is undisguised. 26 Phallic Worship
though the language is dressed in the habiliments of seem- ing
decency. The burden of thought of most of it bears direct reference to
the Linga-Yoni. He makes a woman say, “ He shall lie all night betwixt my
breasts ” (S. of S. i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “
I will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof
” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms of the male
genitals. The nations surrounding the Jews practising the Phallic
rites and worshipping the Phallic deities, it is not to be supposed that
the Jews escaped their influence. It is indeed certain that the worship
of the Phallics was a great and important part of the Hebrew
worship. This will be the more plainly seen when we bear in
mind the importance given to circumcision as a covenant between God and
man. Another equally suggestive custom among the Patriarchs was the act
of taking the oath, or making a sacred promise, which is commented
upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says : “ Another
primitive custom which obtained in the patriarchal age was, that the one
who took the oath put his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv.
2, and xlvii. 29). This practice evidendy arose from the fact that
the genital member, which is meant by the euphe- mistic expression thigh
, was regarded as the most sacred part of the body, being the symbol of
union in the tenderest relation of matrimonial life, and the seat whence
all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the
ancients. Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ; Judges vii. 30. Hence the
creative organ became the symbol of the Creator , and the object of
worship among all nations of antiquity. It is for this reason that
God claimed it as a sign of the covenant between himself and his
chosen people in the rite of circumcision. Nothing therefore could render
the oath more solemn in those days than touching the symbol of creation,
the sign of the covenant, and the source of that issue who may at any
future period avenge the breaking a compact made with their progenitor.”
From this we learn that Abraham, himself a Chaldee, had reverence for the
Phallus as an emblem of the Creator. We also learn that the rite of
circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From Herodotus we are
informed that the Syrians learned circumcision from the Egyptians, as did
the Hebrews. Says Dr. Inman : “I do not know anything which
illustrates the difference between ancient and modern times more than the
frequency with which circumcision is spoken of in the sacred books, and
the carefulness with which the subject is avoided now.” The
mutilation of male captives, as practised by Saul and David, was another
custom among the worshippers of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The
practice was to debase the victims and render them unfit to take
part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be formed of the
esteem in which people in former times cherished the male or Phallic
emblems of creative power when we note the sway that power exercised over
them. If these organs were lost or disabled, the unfortunate one
was unfitted to meet in the congregation of the Lord, and disqualified to
minister in the holy temples. Excessive 28
Phallic Worship punishment was inflicted upon the person who had
the temerity to injure the sacred structure. If a woman were guilty
of inflicting injury, her hand was cut off without pity (Deut. xxv. 12).
The great object of veneration in the Ark of the Covenant was doubtless a
Phallic emblem, a symbol of the preservation of the germ of
life. In the historical and prophetic books of the Old
Testament we have repeated evidence that the Hebrew worship was a mixture
of Paganism and Judaism, and that Jehovah was worshipped in connection
with other deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to
have “ removed the high places, and broken the images, and cut down the
groves (Ashera), and broken in pieces the brazen serpent that Moses had
made, for unto those days the children of Israel did burn incense to it.”
The Ashera, or sacred groves here alluded to are named from the
goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes as the proper name of the
goddess ; while Ashera is the name of the image of the goddess.
Rawlinson, in his Five Great Monarchies of the Ancient World,
describes Ashera to imply something that stood straight up, and
probably its essential element was the stem of a tree, an analogy
suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of Life of the Scriptures.
This stem, which stood for the emblem of life, was probably a pillar, or
Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove
or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We read in 2 Kings xxi.
7, that Manasseh “ set up a graven image in the grove,” and, according to
Dr. Oort, the older reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an
image or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the worship
of Baal, the Priapus of the Romans, was extensively practised by the
Jews. Pillars and groves were reared in his name. In front of
the Temple of Baal, in Samaria, was erected an Ashera (i Kings xvi. 31,
32) which e ven survived the temple itself, for although Jehu
destroyed the Temple of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings
x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on the origin
of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob, undoubtedly proves that
during the monarchial period of Israel, the sanguinary wars and violent
conflicts between the two kingdoms of Judah and Israel were between
the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the priesthood at the
chief places of worship, concerning the true patriarch, and each party
manufacturing and inserting legends to give a more ancient and important
part to its own faith. It is not at all improbable that the
conflict was between the two portions of the Phallic faith, the Lingam
and Yoni parties. The cause of this conflict was the erection of
the consecrated stones or pillars which were put up by the Hebrews as
objects of Divine worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a
pillar, for according to Bernstein the word altar can only be used for
the erection of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or
pillar of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the tomb
of Rachel. A great portion of the facts have been suppressed
by the translators, who have given to the world histories which
have glossed over the ancient rites and practices of the Jews.
An instance is given by Forlong on the important word “ Rock or
Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their devotions. He
says, “It should 30 Phallic Worship
not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English
readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur was the real old
god of all Arabs , Jews, and Phoenicians, that this would be clear to
Christians were the Jewish writings translated according to the first
ideas of the people and Rock used as it ought to be, instead of ‘
God/ * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .
Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship of Baal in
Israel, where praises, addresses, and adorations are addressed to the
Rock , instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars were also used by the
Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we find Jacob setting up
a pillar as a witness, that he would not pass over it. Connected
with this pillar worship is the ceremony of anointing by pouring oil upon
the pillar, as practised by Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes,
in his Oriental Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is
practised at this day upon many a shapeless stone throughout
Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as
practising the same rite, and describes many of the stones found in
England as having a cavity at the top made to receive the offering. The
worship of Baal like the worship of Priapus was attended with
prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work : “ The women of every rank and condition held it to be an
indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which,
whether little or much, was accepted, and applied to a sacred
purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of
the stranger, who had the liberty of choosing whom Phallic
Worship 51 he liked. A woman once seated must remain until
she has been selected by a piece of silver being cast into her lap,
and the rite performed outside the temple.” Similar customs existed
in Armenia, Phrygia, and even in Palestine, and were a feature of the
worship of Baal Peor. The Hebrew prophets described and denounced
these excesses which had the same characteristics as the rites of the
Babylonian priesthood. The identical custom is referred to in 1 Sam. ii.
22, where “ the sons of Eli lay with the women that assembled at the door
of the tabernacle of the congregation.” Words and history
corroborate each other, or are apt to do so if contemporaneous. Thus
kadesh , or kaesb , designate in Hebrew “ a consecrated one,” and
history tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will
be shown in the sequel. That the religion was dominating and
imperative is determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous
refusal to listen to the priest was death to the offender. To us it is
inconceivable that the indulgence of passion could be associated with
religion, but so it was. Much as it is covered over by altered words and
substituted expressions in the Bible — an example of which see men
for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively bold. The
words expressive of “ sanctuary,” “ conse- crated,” and “ Sodomite,” are
in the Hebrew essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times ; and we find that “ holy women ” is a title given
to those who devote their bodies to be used for hire, the price of which
hire goes to the service of the temple. As a general rule, we
may assume that priests who make Phallic Worship
3 * or expound the laws, which they declare to be from
God, are men, and, consequently, through all time, have thought,
and do think, of the gratification of the masculine half of humanity. The
ancient and modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore ; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their establishments.
They had bands of consecrated dancing-girls called the Women of the Ido/,
selected in their infancy by the priests for the beauty of their persons,
and trained up with every elegant accomplishment that could render
them attractive. We also find David and the daughters of Shiloh
per- forming a wild and enticing dance ; likewise we have the
leaping of the prophets of Baal. It is again significant that a
great proportion of Bible names relate to “ divine,” sexual, generative,
or creative power ; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the
strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher, <c the male ” or “
the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah ” ; Eliab, “ the strong father
” ; Elisha, iC El is upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ;
Aram, " high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my
Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett, M son of firmness
” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan, Phallic Worship
33 “ he stands upright ” ; these are only a few of the
many names of a similar signification. It will be seen, from
what has been given, that the Jews, like the Phoenicians (if they were
not the same), had the same ceremonies, rites, and gods as the
surrounding nations, but enough has been said to show that Phallic
worship was much practised by the Jews. It was very doubtful whether the
Jehovah-worship was not of a monotheistic character, but those who desire
to have a further insight into the mysteries of the wars between
the tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH
MOTHER The following interesting chapter is taken from a
valuable book issued a few years ago anonymously : “ Mother Earth ”
is a legitimate expression, only of the most general type. Religious
genius gave the female quality to the earth with a special meaning. When
once the idea obtained that our world was feminine , it was easy to
induce the faithful to believe that natural chasms were typical of that
part which characterises woman. As at birth the new being emerges from
the mother, so it was supposed that emergence from a terrestrial
cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion to the
resemblance between the sign and the thing signified was the sacredness of
the chink, and the amount of virtue which was imparted by passing through
it. From natural caverns being considered holy, the veneration for
apertures in stones, as being equally symbolical, was a
natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen
in those structures which are called Druidical, both in the British Isles
and in India. It is impossible to say when these first arose ; it is
certain that they survive in India to this day. We recognise the
existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge
to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We have
also an indication that chasms were symbolical among the same people in
Isaiah lvii. 5 , where the wicked among the Jews were described as “
inflaming themselves with idols under every green tree, and slaying the
children in the valleys under the clefts of the rocks.” It is
possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated stone
, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed their
hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh — that
is the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says : “
These stones are so placed as to have a hole under them, through which
devotees passed for religious purposes. There is one of the same kind in
Ireland, called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham
Crags there is a place made for the devotees to pass through. We read in
the accounts of Hindostan that there is a very celebrated place in Upper
India, to which immense numbers of pilgrims go, to pass through a
place in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of
Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there
is a natural crevice, which communicates with a cavity opening below.
This place is used by the Gentoos as a purification of their sins.
Phallic Worship 35 which they say is effected by their
going in at the opening below, and emerging at the cavity above — “ born
again.” The ceremony is in such high repute in the neighbouring
countries that the famous Conajee Angria ventured by stealth, one night,
upon the Island, on purpose to perform the ceremony, and got off
undiscovered. The early Christians gave them a bad name, as if from envy
; they called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p.
346) BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans
called the feasts of Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus
and Liber were the names for the same god, although the festivals were
celebrated at different times and in a somewhat different manner.
The latter, according to Payne Knight, was celebrated on the 17th of
March, with the most licentious gaiety, when an image of the Phallus was
carried openly in triumph. These festivities were more particularly
cele- brated among the rural or agricultural population, who, when
the preparatory labour of the agriculturist was over, celebrated with
joyful activity Nature’s reproductive powers, which in due time was to
bring forth the fruits. During the festival a car containing a huge
Phallus was drawn along accompanied by its worshippers, who in-
dulged in obscene songs and dances of wild and extrava- gant character.
The gravest and proudest matrons suddenly laid aside their decency and
ran screaming among the woods and hills half-naked, with
dishevelled hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.
}6 Phallic Worship The Bacchanalian
feasts were celebrated in the latter part of October when the harvest was
completed. Wine and figs were carried in the procession of the Bacchants,
and lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called
canephora , who carried baskets of fruit. These were followed by a
company of men who carried poles, at the end of which were figures
representing the organ of generation. The men sung the Phallica and were
crowned with violets and ivy, and had their faces covered with
other kinds of herbs. These were followed by some dressed in women’s
apparel, striped with white, reaching to their ancles, with garlands on
their heads, and wreaths of flowers in their hands, imitating by their
gestures the state of inebriety. The priestesses ran in every
direction shouting and screaming, each with a thyrsus in their
hands. Men and women all intermingled, dancing and frolicking with
suggestive gesticulations. Deodorus says the festivals were carried into
the night, and it was then frenzy reached its height. He says, “ In
performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about frantic,
halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god ; then the women in a body offer
the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus in song as if he were
present, in imitation of the ancient Maenades, who accompanied him.”
These festivities were carried into the night, and as the celebrators
became heated with wine, they degenerated into extreme
licentiousness. Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the
Luper- calian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the
shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his Worship of Serpents
, on the morning of the Feast ran naked through the streets, striking the
married women they met on the hands and belly, which was held as an omen
promising fruitfulness. The nymphs performing the same ostentatious
display as the Bacchants at the festival of Bacchanalia. The
festival of Venus was celebrated towards the begin- ning of April, and
the Phallus was again drawn in a car, followed by a procession of Roman
women to the temple of Venus. Says a writer, “ The loose women of the
town and its neighbourhood, called together by the sounding of
horns, mixed with the multitude in perfect nakedness, and excited their
passions with obscene motions and language until the festival ended in a
scene of mad revelry, in which all restraint was laid aside.”
It is said that these festivals took their rise from Egypt, from
whence they were brought into Greece by Metampus, where the triumph of
Osiris was celebrated with secret rites, and from thence the Bacchanals
drew their original ; and from the feasts instituted by Isis came the
orgies of Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS It
seems not at all improbable that the deities wor- shipped by the ancient
Britons and the Irish, were no other then the Phallic deities of the
ancient Syrians and Greeks, and also the Baal of the Hebrews.
Dionysius Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,
states that the rites of Bacchus were celebrated in the British Isles ;
while Strabo, who lived in the time of Augustus and Tiberius, asserts
that a much earlier writer described the worship of the Cabiri to have
come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the
Druids, says, the supreme god above the rest was called Seodhoc and
Baal. The name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is
the same as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien,
was the chief deity of the Irish, in whose honour the round towers
were erected, which structures the ancient Irish themselves
designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be
found a mention of a similar pillar consecrated to Baal. Many of the same
customs and superstitions that existed among the Druids and ancient
Irish, will likewise be found among the Israelites. On the first
day of May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise
offering him sacrifices. A similar account is given of a custom of the
Druids by Toland, in an account of the festival of the fires ; he says :
— “ on May-day eve the Druids made prodigious fires on these earns,
which being everyone in sight of some other, could not but afford a
glorious show over a whole nation.” These fires are said to be lit even
to the present day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called
by them Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as
given them in the Highlands of Scotland. A similar practice to this
will be noticed as mentioned in the II Book of Kings, where the
Canaanites in their worship of Baal, are said to have passed their
children through the fire of Baal, which seems to have been a common
practice, as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the
same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this super- stitious custom
still continues, and that on “ particular days great fires are lighted,
and the fathers taking the children in their arms, jump or run through
them, and thus pass their children through them ; they also
light two fires at a little distance from each other, and drive
their cattle between them.” It will be found on reference to Deuteronomy,
that this very practice is specially for- bidden. In the rites of Numa,
we have also the sacred fire of the Irish ; of St. Bridget, of Moses, of
Mithra, and of India, accompanied with an establishment of nuns or
vestal virgins. A sacred fire is said to have been kept burning by the
nuns of Kildare, which was established by St. Bridget. This fire was
never blown with the mouth, that it might not be polluted, but only
with bellows ; this fire was similar to that of the Jews, kept
burning only with peeled wood, and never blown with the mouth. Hyde
describes a similar fire which was kept burning in the same way by the
ancient Persians, who kept their sacred fire fed with a certain tree
called Hawm Mogorum ; and Colonel Vallancey says the sacred fire of
the Irish was fed with the wood of the tree called Hawm. Ware, the Romish
priest, relates that at Kildare, the glorious Bridget was rendered
illustrious by many miracles, amongst which was the sacred fire, which
had been kept burning by nuns ever since the time of the
Virgin. The earliest sacred places of the Jews were evidently
sacred stones, or stone circles, succeeded in time by temples. These
early rude stones, emblems of the Creator, were erected by the
Israelites, which in no way differed from the erections of the Gentiles.
It will be found that the Jews to commemorate a great victory, or
to bear witness of the Lord, were all signified by stones : thus, Joshua
erected a stone to bear witness ; Jacob put up a stone to make a place
sacred ; Abel set up the same for a place of worship ; Samuel erected a
stone as a boundary, which was to be the token of an agreement made
in the name of God. Even Maundrel in his travels names several that he
saw in Palestine. It is curious that where a pillar was erected there,
sometime after, a temple was put up in the same manner that the Round
Towers of Ireland were, — always near a church, but never formed
part of it. We find many instances in the Scriptures of the erection of a
number of stones among the early Israelites, which would lead us to
conclude that it was not at all unlikely that the early places of worship
among them, were similar to the temples found in various parts of Great
Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up
early in the morning, and builded an altar under the hill, and twelve
pillars, according to the twelve tribes of Israel, were erected. It is
also given out that when the children of Israel should pass over
the Jordan, unto the land which the Lord giveth them, they should set up
great stones, and plaster them with plaster, and also the words of the
law were to be written thereon. In many other places stones were
ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated instances are
given that the stones should be twelve in number and unhewn.
Stone temples seem to have been erected in all countries of the
world, and even in America, where, among the early American races are to
be found customs, superstitions, and religious objects of veneration,
similar to the Phoenicians. An American writer says : — “ There is
sufficient evidence that the religious customs of the Mexicans, Peruvians
and other American races, are nearly identical with those of the ancient
Phoenicians. . . . We moreover discover that many of their religious
terms have, etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his
Worship of Priapus, devotes much of his work to Phallic
Worship 4i show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was
simply a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF
BACCHUS Of all the nations of antiquity the Persians were the
most simple and direct in the worship of the Creator. They were the
puritans of the heathen world, and not only rejected all images of God
and his agents, but also temples and altars, according to Herodotus,
whose authority we prefer to any other, because he had an
opportunity of conversing with them before they had adopted any foreign
superstitions. As they worshipped the ethereal fire without any medium of
personification or allegory, they thought it unworthy of the dignity
of the god to be represented by any definite form, or cir-
cumscribed to any particular place. The universe was his temple, and the
all-pervading element of fire his only symbol. The Greeks appear
originally to have held similar opinions, for they were long without
statues and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by
Adrastus — who lived in an age before the Trojan war — which consisted of
columns only, without wall or roof, like the Celtic temples of our
northern ancestors, or the Phyrcetheia of the Persians, which were
circles of stones in the centre of which was kindled the sacred fire,
the symbol of the god. Homer frequently speaks of places of worship
consisting of an area and altar only, which were probably enclosures like
those of the Persians, with an altar in the centre. The temples dedicated
to the creator Bacchus, which the Greek architects called hypathral
, seem to have been anciently of this kind, whence probably came
the title (“ surround with columns ”) attributed to that god in the
Orphic litanies. The remains of one of these are still extant at
Puzznoli, near Naples, which the inhabitants call the temple of Serapis ;
but the ornaments of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove
it to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same deity
worshipped under another form, being usually a personification of the
sun. The architecture is of the Roman times ; but the ground plan is
probably that of a very ancient one, which this was made to replace —
for it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,
published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which
enclose it are not properly parts of the temple, but apartments of the
priests, places for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to
the sub- ordinate deities, introduced by a more complicated and
corrupt worship and probably unknown to the founder of the original
edifice. The portico, which runs parallel with these buildings, encloses
the temenss , or area of sacred ground, which in the pyratheia of the
Persians was circular, but is here quadrangular, as in the Celtic
temple in Zeeland, and the Indian pagoda before described. In the
centre was the holy of holies, the seat of the god, consisting of a
circle of columns raised upon a basement, without roof or walls, in the
middle of which was probably the sacred fire or some other symbol of the
deity. The square area in which it stood was sunk below the natural
level of the ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have
been occasionally floated with water; the drains and conduits being still
to be seen, as also several fragments of sculpture representing waves,
serpents, and various aquatic animals, which once adorned the
basement. The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the
Orphic hymn above cited, the sun in his character of extinguisher of the
fires which once pervaded the earth. He is supposed to have done this by
exhaling the waters of the ocean and scattering them over the land, which
was thus supposed to have acquired its proper temperature and
fertility. For this reason the sacred fire, the essential image of the
god, was surrounded by the element which was principally employed in
giving effect to the beneficial exertion* of the great attribute.
From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it
seems evident that Stonehenge and all the monu- ments of the same kind
found in the north, belong to the same religion which appears at some
remote period to have prevailed over the whole northern hemisphere.
According to that ancient historian, the Hyperboreans inhabited an island
beyond Gaul , as large as Sicily , in which Apollo was worshipped in a
circular temple considerable for its si^e and riches. Apollo, we know, in
the language of the Greeks of that age, can mean no other than the
sun, which according to Caesar was worshipped by the Germans, when
they knew of no other deities except fire and the moon. The island can
evidently be no other than Britain, which at that time was only known to the
Greeks by the vague reports of the Phoenician mariners ; and so
uncertain and obscure that Herodotus, the most inquisitive and
credulous of historians, doubts of its existence. The circular temple of
the sun being noticed in such slight and imperfect accounts, proves that
it must have been some- thing singular and important ; for if it had been
an inconsiderable structure, it would not have been mentioned
44 Phallic Worship at all ; and if there
had been many such in the country, the historian would not have employed
the singular number. Stonehenge has certainly been a circular
temple, nearly the same as that already described of the Bacchus at
Puzznoli, except that in the latter the nice execution and beautiful
symmetry of the parts are in every respect the reverse of the rude but
majestic simplicity of the former. In the original design they differ but
in the form of the area. It may therefore be reasonably supposed that
we have still the ruins of the identical temple described by
Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have received his
information from Phoenician merchants, who had visited the interior parts
of Britain when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of
the same kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated
to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of
stone found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and
near Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name . — Payne Knight* s Worship of
Priapus. BUNS AND RELIGIOUS CAKES Says Hyslop : — “
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter
Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of the
Phallic Worship 45 Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says : — “ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual
organs, but that they were so in ancient times we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated ; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)
says : — “ When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses,
they offered cakes called mullot , shaped like the female organ, and in
some temples where the priestesses were probably ventriloquists, they so
far imposed on the credulous multitude who came to adore the Vulva as
to make them believe that it spoke and gave oracles.” We can
understand how such things were allowed in licentious Rome, but we can
scarcely comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to
all innocent surprise we find they were, from the second part of
the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in
the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in
46 Phallic Worship the form of the Phallus are
made as offerings at Easter, carried and presented from house to house.
Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in the
town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the privy
members — and that during its continuance the women and children carried
in the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne, at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at B
rives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and
other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of
the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews, and
like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of
construction the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the
Egyptians were Phallic Worship 47 exactly
alike, and were carried in processions in a similar manner The
ark or chest of Osiris was attended by the priests, and was borne on the
shoulders of men by means of staves. The ark when taken from the temple
was placed upon a table, or stand, made expressly for the purpose,
and was attended by a procession similar to that which followed the
Jewish ark. According to Faber, the ark was a symbol of the earth or
female principle, containing the germ of all animated nature, and
regarded as the great mother whence all things sprung. Thus the
ark, earth, and goddess, were represented by common symbols, and
spoken of in the old Testament as the “ ashera.” The sacred emblems
carried in the ark of the Egyptians were the Phallus, the Egg, and the
Serpent ; the first representing the sun, fire, and male or generative
principle — the Creator ; the second, the passive or female, the
germ of all animated things — the Preserver ; and the last the Destroyer
: the Three of the sacred Trinity. The Hindu women, according to Payne
Knight, still carry the lingam, or consecrated symbol of the
generative attribute of the deity, in solemn procession between two
serpents ; and in a sacred casket, which held the Egg and the Phallus in
the mystic processions of the Greeks, was also a Serpent. “
The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the ancient religions.” It
was often represented in the form of a boat, or ship, as well as an
oblong chest. The rites of the Druids, with those of Phoenicia and
Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important
place in their mysteries. In the story of Osiris, like that of the Siva,
will be found the reason for the emblem being carried in the sacred
chest, and the explanation of one of 4 «
Phallic Worship the mysteries of the Egyptian priests. It is said
that Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who after
cutting up the body, distributed the parts over the earth. Isis recovered
the scattered limbs, and brought them back to Egypt ; but, being unable
to find the part which distinguished his sex, she had an image made
of wood, which was enshrined in an ark, and ordered to be solemnly
carried about in the festivals she had instituted in his honour, and
celebrated with certain secret rites. The Egg, which accompanied
the Phallus in the ark was a very common symbol of the ancient faiths,
which was considered as containing the generation of life. The
image of that which generated all things in itself. Jacob Bryant says : —
“ The Egg, as it contained the principles of life was thought no improper
emblem of the ark, in which were preserved the future world. Hence in
the Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal
ceremony consisted in the consecration of an egg.” This egg was called
the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of salvation, the
place of safety, the secret receptacle of the divine wisdom. Hence
we find the ark of the Jews containing the tables of the law ; we find
too that the Jews were ordered to place in the ark Aaron’s rod, which budded,
conveying the idea of symbolised fertility : showing that the ark
was considered as the receptacle of the life principle — as an emblem of
the Creator. With the Egyptians Osiris was supposed to be buried
in the ark, which represented the disappearance of the deity. His
loss, or death, constituted the first part of the mysteries, which
consisted of lamentations for his decease. After the third day from his
death, a procession went down to the seaside in the night, carrying the
ark with them. During Phallic Worship 49
the passage they poured drink offerings from the river, and when
the ceremony had been duly performed, they raised a shout that Osiris had
again risen — that the dead had been restored to life. After this
followed the second or joyful part of the mysteries. The similarity of
this custom with the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and
the rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,
will be at once observed. It is further said that the missing part of
Osiris was eaten by a fish, which made the fish a sacred symbol. Thus we
have the Ark, Fish, and Good Friday brought together, also the Egg, for
the origin of the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as
breaking an egg with his horn, which signified the liberating of
imprisoned life at the opening or spring of the year, 'which had been
destroyed by Typhon. The opening of the year at that time commenced in
the spring, pot according to our present reckoning ; thus, the Egg
was a symbol of the resurrection of life at the spring, or our Easter
time. The author of the “ Worship of the Generative Powers,” describes
the origin of the hot cross- bun at Easter, which is a further
parallelism of the Christian and Pagan festivals. The author also draws a
further conclusion — that the cakes or buns have in reality a
Phallic origin, for in France and other parts, the Easter cakes were
called after the membrun virile. The writer says : — “ In the primitive
Teutonic mythology, there was a female deity named in old German, Ostara,
and in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her is
the simple statement of our father of history, Bede, that her festival
was celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eoster- mona, and that the name of the goddess had been frequently
50 Phallic Worship given to the Paschal
time, with which it was identical. The name of this goddess was given to
the same month by the old Germans and by the Franks, so that she must
have been one of the most highly honoured of the Teutonic deities,
and her festival must have been a very important one and deeply implanted
in the popular feelings, or the Church would not have sought to identify
it with one of the greatest Christian festivals of the year. It is
under- stood that the Romans considered this month as dedicated to
Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of nature
began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted by the
Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to the
month of April. Among other objects offered to the goddess at this time
were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we are
ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival, gave
them the form of a bun, which indeed was at that time the ordinary
form of bread ; and to protect themselves and those who ate them from any
enchantment — or other evil influences which might arise from their
former heathen character — they marked them with the Christian symbol —
the cross. Hence we derived the cakes we still eat at Easter under
the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings attached to
them ; for multitudes of people still believe that if they failed to eat
a hot cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all the rest of the
year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE
LOTUS The earliest capital seems to have been the bell or
seed vessel, simply copied without alteration, except a little expansion
at the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were
then added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit,
being fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo ; its capital being the same •eed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and Phallic Worship 5
Z dry — the only state probably in which it had been seen in
Europe. The flutes in the shaft were made to hold spears and staves,
whence a spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ” as part of a
column. The triglyphs and blocks of the cornice were also derived from
utility, they having been intended to represent the projecting ends
of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic capital
has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which have
the same symbolical meaning. To them is frequently added the ornament
which architects call a honeysuckle, but which seems to be meant
for the young petals of the same flower viewed horizontally, before they
are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars . — Payne Knight . BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP
Stripped, however, of all this splendour and magnifi- cence it was
probably nothing more than a symbolical instrument, signifying originally
the motion of the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of
Cybele, the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have
overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her
sistrum, and the ringing of the bells and clatter of metals were almost
universally employed as a means of consecration, and a charm against
the Phallic Worship 53 destroying
and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon with such noises,
which the simplicity of the early ages employed almost everywhere to
relieve her during eclipses, supposed then to be morbid affections
brought on by the influence of an adverse power. The title Priapus y by
which the generative attribute is dis- tinguished, seems to be merely a
corruption of Briapuos (clamorous) ; the beta and pi being commutable
letters, and epithets of similar meaning, being continually applied
both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too,
still extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are ; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the phalli,
lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the high
priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments ; and the Brahmins still continue to ring a small bell at
the interval of their prayers, ablutions, and other acts of devotion
; which custom is still preserved in the Roman Catholic Church at the
elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or
pan, on the death of their kings, and we still retain the custom of
tolling a bell on such occasions, though the reason of it is not
generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing . 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight's "Symbolical Language of ancient
Art and Mythology." Phallic Worship
54 monks for over 2,000 years. Tinkling bells were suspended
before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the gods were
invited to descend upon the altars by the ringing of bells ; they were
likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,
and were worn on the garments of the Bacchantes, much in the same manner
as they are used at our carnivals and masquerades. HINDU
PHALLICISM The following curious fable is given by Sir
William Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin
of Phallic devotion : — “ Certain devotees in a remote time had
acquired great renown and respect, but the purity of the art was wanting,
nor did their motives and secret thoughts correspond with their
professions and exterior conduct. They affected poverty, but were
attached to the things of this world, and the princes and nobles were
constantly sending their offerings. They seemed to sequester them-
selves from this world ; they lived retired from the towns ; but their
dwellings were commodious, and their women numerous and handsome. But
nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to
shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him ; and assumed
the appearance of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a
damsel of matchless worth. She went before the devotees who were
assembled with their disciples, awaiting the rising of the sun, to
perform their ablutions and religious ceremonies. As she advanced
Phallic Worship 55 the refreshing breeze
moved her flowing robe, showed the exquisite shape which it seemed
intended to conceal. With eyes cast down, though sometimes opening with
a timid but tender look, she approached them, and with a low
enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice. The devotees
gazed on her with astonishment. The sun appeared, but the purifications
were forgotten ; the things of the Poo j ah (worship) lay neglected ;
nor was any worship thought of but that of her. Quitting the
gravity of their manners, they gathered round her as flies round the lamp
at night — attracted by its splendour, but consumed by its flame. They
asked from whence she came ; whither she was going. ‘ Be not
offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves ; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight ; the vow was forgotten, and the policy
of years destroyed. “ Whilst the devotees were lost in their
passions, and absent from their homes, Sheevah entered their
village with a musical instrument in his hand, playing and singing
like some of those who solicit charity. At the sound of his voice, the
women immediately quitted their occupation ; they ran to see from whom it
came. He was as beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped
their jewels without turning to look for them ; others let fall
their garments without perceiving that they discovered those abodes of
pleasure which jealousy as well as decency had ordered to
be concealed. All pressed forward with their offerings, all wished to
speak, all wished to be taken notice of, and bringing flowers and
scattering them before him, said — ‘ Askest thou alms ! thou who are made
to govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as the
morning, whose voice is the voice of pleasure, and they breath like that
of Vassant (Spring) in the opening of the rose I Stay with us and we will
serve thee ; nor will we trouble thy repose, but only be zealous how
to please thee/ The Pandaram continued to play, and sung the loves
of Kama (God of Love), of Krishen and the Gopia, and smiling the gentle
smiles of fond desire. . . . “ But the desire of repose succeeds
the waste of pleasure. Sleep closed the eyes and lulled the senses. In
the morning the Pandaram was gone. When they awoke they looked
round with astonishment, and again cast their eyes on the ground. Some
directed to those who had formerly been remarked for their scrupulous
manners, but their faces were covered with their veils. After
sitting awhile in silence they arose and went back to their houses, with
slow and troubled steps. The devotees returned about the same time from
their wanderings after Prakeety. The days that followed were days of
embarrass- ment and shame. If the women had failed in their
modesty, the devotees had broken their vows. They were vexed at their
weakness, they were sorry for what they had done ; yet the tender sigh
sometimes broke forth, and the eyes often turned to where the men
first saw the maid — the women, the Pandaram. “But the women
began to perceive that what the devotees foretold came not to pass. Their
disciples, in consequence, neglected to attend them, and the
offerings from the princes and nobles became less frequent than
Phallic Worship 57 before. They then
performed various penances ; they sought for secret places among the
woods unfrequented by man ; and having at last shut their eyes from
the things of this world, retired within themselves in deep
meditation, that Sheevah was the author of their misfortunes. Their
understanding being imperfect, instead of bowing the head with humility,
they were inflamed with anger ; instead of contrition for their
hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new sacrifices and
incantations, which were only allowed to have effect in the end, to show
the extreme folly of man in not submitting to the will of heaven.
“ Their incantations produced a tiger, whose mouth was like a
cavern and his voice like thunder among the mountains. They sent him
against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the vale. He
smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow with
his club, he covered himself with his skin. Seeing them- selves
frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another, and
sent serpents against him of the most deadly kind ; but on approaching
him they became harmless, and he twisted them round his neck. They
then sent their curses and imprecations against him, but they all
recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire with indignation against the human race ; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties
JS Phallic Worship Sheevah relented ; but it
was ordained that in his temples those parts should be worshipped \ which
the false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country implies.
Of the same kind, too, appears to have been the cross in the form of the
letter tau> attached to a circle, which many of the figures of
Egyptian deities, both male and female, carry in their left hand ; and by
the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,
representing the planet Venus, worshipped by them as the emblem or image
of that goddess. The cross in this form is sometimes observable on coins,
and several of them were found in a temple of Serapis, demolished at
the general destruction of those edifices by the Emperor
Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of that time to
signify the future life. In solemn sacrifices, all the Lapland idols were
marked with it from the blood of the victims ; and it occurs on many
Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of an age
long anterior to the approach of Christianity to those countries, and
probably to its appearance in the world. On some of the early coins of
the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads placed in a
circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. BEADS Beads were anciently
used to reckon time, and a circle, being a line without termination, was
the natural emblem of its perpetual continuity ; whence we often find
circles of beads upon the heads of deities, and enclosing the
sacred symbols upon coins and other monuments. Perforated beads are also
frequently found in tombs, both in the northern and southern parts of
Europe and Asia, whence are fragments of the chaplets of
consecration buried with the deceased. The simple diadem, or
fillet, worn round the head as a mark of sovereignty, had a similar
meaning, and was originally confined to the statues of deities and
deified personages, as we find it upon the most ancient coins. Chryses,
the priest of Apollo, in the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred
fillet, of the god upon his sceptre, as the most imposing and invocable
emblem of sanctity ; but no mention is made of its being worn by kings in
either of the Homeric poems, nor of any other ensign of temporal power
and command, except the royal staff or sceptre. THE
LOTUS The double sex typified by the Argha and its contents
is by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or Lotus, floating
like a boat on the boundless ocean, where the whole plant signifies both
the earth and the two principles of its fecundation. The germ is both
Meru and the Linga ; the petals and filaments are the mountains
6o Phallic Worship which encircle Meru,
and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx are the four
vast regions to the cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant
are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this plant or
lily was probably the most celebrated of all the vegetable creation among
the mystics of the ancient world, and is to be found in thousands of the
most beautiful and sacred paintings of the Christians of this day — I
detain my reader with a few observations respecting it. This is the
more necessary as it appears that the priests have now lost the meaning
of it ; at least this is the case with everyone of whom I have made
enquiry ; but it is like many other very odd things, probably understood
in the Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among
the different plants which ornament our globe, there is not one
which has received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : — “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This
plant grows in the water, among its broad leaves puts forth a
flower, in the centre of which is formed the seed vessel.
Phallic Worship 6x shaped like a bell or
inverted cone, and perforated on the top with little cavities or cells,
in which the seeds grow. The orifices of these cells being too small to
let the seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants
in the places where they are formed : the bulb of the vessel
serving as a matrix to nourish them, until they acquire such a degree of
magnitude as to burst it open and release themselves, after which, like
other aquatic weeds, they take root wherever the current deposits them.
This plant, therefore, being thus productive of itself, and
vegetating from its own matrix, without being fostered in the earth, was
naturally adopted as the symbol of the productive power of the waters,
upon which the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry , does or ever did prevail. The sacred images
of ihe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other ; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says : — “ The Lotus is a well-known
allegory, of which the expansive calyx represents the ship of the
gods floating on the surface of the water ; and the erect flower arising
out of it, the mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the
other the mast of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the
female principle, and the mast in it the male deity, these parts of
62 Phallic Worship the flower came to
have certain other significations, which seem to have been as well known
at Samosata as at Benares. This plant was also used in the sacred offices
of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of Solomon,
the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis is frequently
represented holding the stem of the plant in one hand, and the cross and
circle in the other. Columns and capitals resembling the plant are
still existing among the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of
Philce. The Chinese goddess, Pussa, is represented sitting upon the
Lotus, called in that country Lin, with many arms, having symbols
signifying the various operations of nature, while similar attributes are
expressed in the Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus
is also a prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant
appears to have the same tendency with the Sphinx, of marking the
connection between that which produces and that which is produced.
The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant
is acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients : — “ We find Brahma emerging from
the Lotus. The whole universe was dark and covered with water. On
this primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose
for the space of one Calpho (a thousand years) ; after which period the
intention of creating other beings for his own wise purposes became
pre- dominant in the mind of the Great Creator . In the first
Phallic Worship 65 place, by his
sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the
same will, was brought to light the form of Brahma from the said flower ;
Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the
four sides, and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable
expanse of water. Observing the whole world thus involved in darkness and
submerged in water, he was stricken with prodigious amazement, and
began to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? * *
whence came I ? 9 ' and where ami?’ “ Brahma, thus kept two hundred
years in contem- plation, prayers, and devotions, and having pondered
in his mind that without connection of male and female an abundant
generation could not be effected — again entered into profound meditation
on the power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest
me from nonentity into existence for a particular purpose,
accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small
white boar appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now
felt God in all, and that all is from Him, and all in Him. At length
the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began
to use the instinct of that animal. Having divided the water, he saw the
earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous
globe (freed from the water) and spread the earth like a carpet on
the face of the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed
due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling 6 4 Phallic Worship the
renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first land said to have
appeared, but with the Brahmins it is a disputed point, for many affirm that
Cast or Benares was the sacred ground. MERU The
learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten hours a
day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and Abraham, is
the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon
built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which because mounts
of Venus, mons veneris — Meru and Mount Calvary — each a slightly
skull-shaped mount, that might be represented by a bare head. The Bible
translators perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.
Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name from its being the
place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in earlier times
for the bare calvaria, we find among Oriental women, the Mount of Venus,
mons veneris > through motives of neatness or religious sentiment,
deprived of all hirsute appendage. We see Mount Calvary imitated in the
shaved poll of the head of a priest. The priests of China, says Mr. J. M.
Peebles, continue to shave the head. To make a place holy, among
the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it was necessary to have a
mount Meru, also a Linga-Yoni, or Arba. Phallic
Worship 65 LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA This
marvellous work of excavation by the slow process of the chisel, was
visited by Capt. Seeley, who afterwards published a volume describing the
temple and its vast statues. The beauty of its architectural ornaments,
the innumerable statues or emblems, all hewn out of solid rock,
dispute with the Pyramids for the first place among the works undertaken
to display power and embody feeling. The stupendous temple is detached
from the neighbouring mountain by a spacious area all round, and is
nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the height of 100
feet and in length about 145 feet. It has well-formed doorways, windows,
staircases, upper floors, containing fine large rooms of a smooth and
polished surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole
bulk of this immense block of isolated excavation being upwards of 500
feet in circumference, and having beyond its areas three handsome figure
galleries or verandas supported by regular pillars. Outside the temple
are two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular form,
eleven feet square, prettily and variously carved, and are estimated at
forty-one feet high ; the shaft above the pedestal is seven feet two
inches, being larger at the base than Cleopatra’s Needle.” In
one of the smaller temples was an image of Lingam, “ covered with oil and
red ochre, and flowers were daily strewed on its circular top. This
Lingam is larger than usual, occupying with the altar, a great part of
the room. In most Ling rooms a sufficient space is left for the
votaries to walk round whilst making the usual invocations to the deity
(Maha Deo). This deity is much frequented by female votaries, who take
especial care to keep it clean E 66
Phallic Worship washed, and often perfume it with oderiferous oils
and flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment and
attend the five oil lights and bell ringing.” This oil vessel resembled
the Yoni (circular frame), into which the light itself was placed. No
symbol was more venerated or more frequently met with than the altar and
Ling, Siva, or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to
supplicate for children,” says Seeley. The mysteries attended upon them
is not described, but doubtless they were of a very similar character to
those described by the author of the “ Worship of the Generative Powers
of the Western Nations,” showing again the similarity of the custom
with those practised by the Catholics in France. The writer says : — “
Women sought a remedy for barren- ness by kissing the end of the Phallus
; sometimes they appear to have placed a part of their body, naked,
against the image of the saint, or to have sat upon it. This latter
trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies of Pagan
worship to last long, or to be practised openly ; but it appears to have
been innocently represented by lying upon the body of the saint, or
sitting upon a stone, understood to represent him without the presence of
the energetic member. In a corner in the church of the village of
St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a stone called the chair
of St. Fiacre, which confers fecundity upon women who sit upon it ; but
it is necessary nothing should intervene between their bare skin and the
stone. In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar
which barren women kissed for the same purpose and which had perhaps
replaced some less equivocal object.” The principal object of
worship at Elora is the stone, so frequently spoken of ; “ the Lingam,”
says Seeley, and he apologises for using the word so often, but asks to
be Phallic Worship 67 excused, “
is an emblem not generally known, but as frequently met with as the Cross
in Catholic worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative
character, the base of which is usually inserted in the Yoni. The
stone is of a conical shape, often black stone, covered with flowers (the
Bella and Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the
Ling stone to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the
same as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in
the worship at the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is
often seen on the top of the Ling. VENUS-URANIA. — THE MOTHER
GODDESS The characteristic attribute of the passive generative
power was expressed in symbolical writing, by different enigmatical
representations of the most distinguished characteristic of the female
sex : such as the shell or Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn,
and the letter Delta, all of which occur very frequently upon coins and
other ancient monuments in this sense. The same attribute personified as
the goddess of Love, or desire, is usually represented under the
voluptuous form of a beautiful woman, frequently distinguished by one of
these symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of
rather uncertain mythology. She is said to be the daughter of Jupiter and
Dione, that is of the male and female personifications of the
all-pervading Spirit of the Universe ; Dione being the female Dis or
Zeus, and there- fore associated with him in the most ancient
oracular 68 Phallic Worship temple
of Greece at Dodona. No other genealogy appears to have been known in the
Homeric times ; though a different one is employed to account for the
name of Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.
The Genelullides or Genoidai were the original and appropriate
ministers or companions of Venus, who was however, afterwards attended by
the Graces, the proper and original attendants of Juno ; but as both
these goddesses were occasionally united and represented in one
image, the personifications of their respective sub- ordinate attributes
were on other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at
Paphos had a beard, and other appearances of virility, which seems
to have been the most ancient mode of representing the celestial as
distinguished from the popular goddess of that name — the one being a
personification of a general procreative power, and the other only of
animal desire or concupiscence. The refinement of Grecian art,
however, when advanced to maturity, contrived more elegant modes of
distinguishing them ; and, in a celebrated work of Phidias, we find the
former represented with her foot upon a tortoise ; and in a no less
celebrated one of Scopas, the latter sitting upon a goat. The tortoise,
being an androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of the
double power ; and the goat was equally appropriate to what was meant to
be expressed in the other. The same attribute was on other
occasions signified by a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by
the polypus, which often appears upon coins with the head of the
goddess, and which was accounted an aphrodisiac, though it is likewise of
the androgynous class. The fig was a still more common symbol, the statue
of Priapus being made of the tree, and the fruit being carried with
the Phallic Worship 69 Phallus in
the ancient processions in honour of Bacchus, and still continuing among
the common people of Italy to be an emblem of what it anciently meant :
whence we often see portraits of persons of that country painted
with it in one hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex.
Hence, also arose the Italian expression far la fica , which was done by
putting the thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in
many Priapic orna- ments extant ; or by putting the finger or thumb into
the corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF
THE WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still
prevails among those nations whose religion is founded on the same
principles. “ The Siamese,” says a traveller of the seventeenth century,
“ shun disputes and believe that almost all religions are good ” (“
Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he
replied, “ that it was strange that the king of France should interest
himself so much in an affair which concerns only God, whilst He, whom it
did concern, seemed to leave it wholly to our discretion. Had it been
agreeable to the Creator that all nations should have had the same
form of worship, would it not have been as easy to His omnipotence to
have created all men with the same send- 7 °
Phallic Worship merits and dispositions, and to have inspired them
with the same notions of the True Religion, as to endow them with
such different tempers and inclinations ? Ought they not rather to
believe that the true God has as much pleasure in being honoured by a
variety of forms and ceremonies, as in being praised and glorified by a
number of different creatures ? Or why should that beauty and
variety, so admirable in the natural order of things, be less
admirable or less worthy of the wisdom of God in the supernatural ?
” The Hindus profess exactly the same opinion. “ They would
readily admit the truth of the Gospel,” says a very learned writer long
resident among them, “ but they contend that it is perfectly consistent
with their Shastras. The Deity, they say, has appeared innumerable times
in many parts of this world and in all worlds, for the salvation of
his creatures ; and we adore, they say, the same God, to whom our several
worships, though different in form, are equally acceptable if they be
sincere in substance.” The Chinese sacrifice to the spirits of the
air the mountains and the rivers ; while the Emperor himself
sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all these spirits are
subordinate, and from whom they are derived. The sectaries of Fohi have,
indeed, surcharged this primitive elementary worship with some of
the allegorical fables of their neighbours ; but still as their
creed — like that of the Greeks and Romans — remains undefined, it admits
of no dogmatical theology, and of course no persecution for opinion.
Obscure and sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed
on many occasions ; but still as actions and not as opinions.
Atheism is said to have been punished with death at Athens ; but
nevertheless it may be reasonably doubted Phallic
Worship 7i whether the atheism, against which the
citizens of that republic expressed such fury, consisted in a denial of
the existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly
for this crime, was accused of revealing and calum- niating the doctrines
taught in the Mysteries ; and from the opinions ascribed to Socrates,
there is reason to believe that his offence was of the same kind, though
he had not been initiated. These were the only two martyrs to
religion among the ancient Greeks, such as were punished for actively
violating or insulting the Mysteries, the only part of their
worship which seems to have possessed any vitality ; for as to the
popular deities, they were publicly ridiculed and censured with impunity
by those who dared not utter a word against the populace that worshipped
them ; and as to the forms and ceremonies of devotion, they were
held to be no otherwise important, then as they were constituted a part
of civil government of the state ; the Phythian priestess having
pronounced from the tripod, that whoever performed the rites of his
religion according to the laws of his country , performed them in a
manner pleasing to the Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in
the religious institutions of any of the conquered countries ; but
allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased,
and to enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. 7* Phallic
Worship The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist ot
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. <c
Even they who worship other gods , says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they
know it not. Knight. Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione, L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La
mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche,
Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno,
l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli:
l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig
tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even
with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus
eromenon , the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the
role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of
the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.
Grice e Collini: l’implicatura
conversazionale del naturismo -- naturalismo e naturismo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “If you love
birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice
drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile
famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come
scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus,
un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante
le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the
conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of
the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends
(Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no
choice!”. Altro Italiano non ricordato dal
Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è C. Narra il
Denina che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile
di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette
fuggirsene. Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una
signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di
famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei,
con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne
a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la
Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si
raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il
tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della
ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di
segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e
leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento
dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin,
très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie
della Crusca. È compagno al FILOSOFO poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e
nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la
Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da
Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e
sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che
lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi
sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia.
È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a
Mannheim, cui un altro dove seguirne sulla letteratura tedesca. E là dove aveva
trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806.
All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre
quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3),
si riferisce questo brano di lettera del [C. stesso nel suo Mon séjour auprès
de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme
célèbre,ecc.,Paris,Collin, confessa la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a
ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini.
L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come
Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e
il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu
descritto dallo scienziato italiano C., sulla base di un scheletro fossile,
portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. C. è il curatore della Naturalien
Kabinett, o camera delle meraviglie -- l'antenato del moderno concetto di Museo
di Storia Naturale -- nel palazzo di
Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim. Il campione è stato affidato
alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, dopo essere stato
recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt, La data effettiva
della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è
stato menzionato in nessun catalogo della collezione, quindi deve essere stato
acquistato nell’anno della descrizione di C.. Ciò potrebbe rendere il fossile
il primissimo pterosauro descritto. È descritto una seconda specie chiamata
Pterodactylus micronyx -- oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx --- che
però è stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo. Ricostruzione
di Wagler su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus C., nella sua prima
descrizione del campione di Mannheim, conclude che si tratta di un animale
volante. In realtà, C. non riusciva a capire di che tipo di animale si tratta,
ma lo accosta ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche.
Più avanti lo stesso C. ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di C. che pensa che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti. L'idea che gli pterosauri sono animali marini
persiste ancora in una minoranza di scienziati tra cui Wagler, che pubblica nel
suo "Anfibi", un articolo che vede gli pterosauri come animali marini
con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse
fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici
(come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe “Gryphi”, tra uccelli
e mammiferi. Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann.
È Hermann che per primo dichiara che il lungo quarto dito della mano dello
Pterodactylus vienne usato per sostenere una membrana alare. Hermann è allertato
da Cuvier dell'esistenza del fossile di C., che è stato catturato dagl’eserciti
di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come
bottino di guerra. In seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono
i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito invia
una lettera a Cuvier, dove vi è scritta la sua interpretazione del fossile
(anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale
dove trattarsi di un mammifero, e invia anche una bozza di come doveva apparire
in vita l'animale. È la prima ricostruzione per uno pterosauro. Hermann disegna
l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita
fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia -- all'epoca il fossile non
presenta ne segni di membrana alare ne di pelliccia. Hermann nel suo schizzo
aggiunge anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi
nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento
di Hermann, pubblica questa nuova descrizione. In uno scritto Cuvier dichiara
che non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito serve a sostenere un
membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, forma una
buona ala. Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier è convinto che l'animale
fosse un rettile. In realtà l'esemplare non è stato sequestrato dai
francesi. Infatti, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile è portato a
Monaco di Baviera, dove Moll ottene un'esenzione generale della confisca per le
collezioni bavaresi. Cuvier chiede a Moll il permesso di studiare il fossile,
ma è informato che il pezzo non è trovato. Cuvier pubblicò una descrizione un
po' più a lunga, in cui l'animale vienne chiamato "Ptero-dactyle" e
confuta l'ipotesi di Blumenbach, che sostene che l'animale è un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring. Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata;
fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una
conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del
1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era
da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua
conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura
il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un
mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in
disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione
nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu
rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen.
Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von
Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo
tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che
questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un
Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che
in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring
aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio
inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una
scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello
Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un
pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che
l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale
rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a
sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In
epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni
smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.
Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane di P. antiquus Come molti
altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari
di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le
proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio
e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età
appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a
credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche
differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per
misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in
realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P.
antiquus.[6] Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni
interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus
kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente
ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e
numerosi (fino a 90).[6] Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere
suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli
esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45
millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari
i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di
lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano
a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a
che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano
"adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente
appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da
esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari
isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per
dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni
di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus
esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati
erroneamente classificati come un genere diverso.[4] Crescita e
riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia
specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus
mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri,
probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano
costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente
allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in
ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano
già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione.
Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli,
piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4] Stile di vita
Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni
uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita
diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come
un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con
altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati
giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]
Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago
asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli
scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite
delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono
stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le
spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare
Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx
lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus
muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e
Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i
metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati
ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche
diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e
molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme
biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che
quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili
nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von Waldheim, J. G.
1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae
Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd edition, volume 1. 466
pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper
Jurassic lithographic limestones from South Germany – first results and open
questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, Bennett,
S. Christopher, New information on body size and cranial display structures of
Pterodactylus antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische
Zeitschrift. Bennett, S.C., Year-classes of pterosaurs from the Solnhofen
Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic Implications, in Journal of
Vertebrate Paleontology, Bennett, S.C., [Soft tissue preservation of the
cranial crest of the pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of
Vertebrate Paleontology, Jouve, S., Description of the skull of a Ctenochasma
(Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic
revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate
Paleontology,Frey, E., and Martill, D.M., Soft tissue preservation in a
specimen of Pterodactylus kochi (Wagner) from the Upper Jurassic of Germany, in
Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie, Abhandlungen, Cuvier, G.,
Mémoire sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt,
que quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un
genre de Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national
d'Histoire Naturelle, Paris, Taquet, P., and Padian, K., The earliest known
restoration of a pterosaur and the philosophical origins of Cuvier's Ossemens
Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, Cuvier, (Pterodactylus longirostris) in
Isis von Oken, Jena; Kellner,"Pterosaur phylogeny and comments on the
evolutionary history of the group", in Buffetaut, E. and Mazin, J.-M., Evolution
and Palaeobiology of Pterosaurs. Geological Society of London, Special
Publications, London; Unwin, On the
phylogeny and evolutionary history of pterosaurs", in Buffetaut, E. &
Mazin, J.-M., Evolution and Palaeobiology of Pterosaurs. Geological Society of
London, Special Publications, London, 1–347. S. Christopher Bennett,
[872:JSOTPG2.0.CO;2 Juvenile specimens of the pterosaur Germanodactylus
cristatus, with a review of the genus], in Journal of Vertebrate Paleontology,Vidovic
e D. M. Martill, Pterodactylus scolopaciceps Meyer, 1860 (Pterosauria,
Pterodactyloidea) from the Upper Jurassic of Bavaria, Germany: The Problem of
Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, Vidovic e David M.
Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner) and
‘Germanodactylus rhamphastinus’ (Wagner, 1851), in Geological Society, London,
Special Publications, Unwin, The Pterosaurs: From Deep Time, New York, Pi
Press, Brougham, Dialogues on instinct; with analytical view of the researches
on fossil osteology. Volume 19 of Knight's weekly vol. ^ Ősi, A., Prondvai, E.,
& Géczy, B. The history of Late Jurassic pterosaurs housed in Hungarian
collections and the revision of the holotype of Pterodactylus micronyx Meyer
1856 (a ‘Pester Exemplar’). Geological Society, London, Special Publications,
343(1), 277-286. ^ Collini, C A. (1784). "Sur quelques Zoolithes du
Cabinet d'Histoire naturelle de S. A. S. E. Palatine & de Bavière, à
Mannheim." Acta Theodoro-Palatinae Mannheim 5 Pars Physica, Wagler, J.
(1830). Natürliches System der Amphibien Munich, Cuvier, G., [Reptile volant].
In: Extrait d'un ouvrage sur les espèces de quadrupèdes dont on a trouvé les
ossemens dans l'intérieur de la terre, in Journal de Physique, de Chimie et
d'Histoire Naturelle, vol. 52, 1801, pp. 253–267. ^ von Sömmerring, S. T.
(1812). "Über einen Ornithocephalus oder über das unbekannten Thier der
Vorwelt, dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. Bande der Actorum Academiae
Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher Grösse im Jahre 1784
beschrieb, und welches Gerippe sich gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der
königlichen Akademie der Wissenschaften zu München befindet",
Denkschriften der königlichen bayerischen Akademie der Wissenschaften, München:
mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur
les ossemens fossiles. I ed. p. 24, tab. 31 ^ Sömmering, T. v., Über einen
Ornithocephalus brevirostris der Vorwelt, in Denkschr. Kgl. Bayer Akad. Wiss.,
math.phys. Cl., vol. 6, 1817, pp. 89–104. ^ Padian, K. (1987). "The case of
the bat-winged pterosaur. Typological taxonomy and the influence of pictorial
representation on scientific perception", pp. 65–81 in: Czerkas, S. J. and
Olson, E. C., eds. Dinosaurs past and present. An exhibition and symposium
organized by the Natural History Museum of Los Angeles County. Volume 2.
Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington
Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970). Die Pterodactyloidea
(Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie
der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, 141:
133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from
Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030, 2011, pp.
705–8, DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson,
P., Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University of California
Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature
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Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria:
Pterosauri. Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the
Italian Renaissance Garden. Most of the history of Western philosophy and
theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent
contradictions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'.
However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this
quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art
and ideas. This study— promenade through the landscapes and gardens, paintings
and poems that have inspired me—proposes a sketch of the implications of such
poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of
landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture
vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the
early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Burckhardt
describes this paradigm shift in the perception of the external world, the
moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first valorized:
But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe human spirit
began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous lines the
sense of the morning airs and the trembling light on the distant ocean, or of
the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent of k)fty
peaks, with the only possible obfect of en^vying the view—the first man,
peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of natural
beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated in the
work of PETRARCA, often cited as the first humanist, indeed the first
"mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and
manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of
med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in
one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade,
appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes
down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be reached
by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in the
middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a vaulted
grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles that small
room where CICERONE some- times went to recite; it is an invitation to study,
to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his temperament,
inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each extreme of
nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two gardens, one
leading towards the empirical, the other towards the spiritual. For PETRARCA,
as for CICERONE, his predecessor in literature and garden- ing, the landscape
was a major source of inspiration, both literary and empirical; for while these
gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also constituted a
rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch experimented
with different varieties of plants according to meteorological and astrological
conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth. He also used
these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel
demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret gardens,
"appertain to the double register of the fictive and the real, the
physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the paradigmatic
place and origin from which gardens draw their spiritual energy."^ It is
precisely for this reason that the study of gardens necessitates formal,
cultural, and psychological analyses: the symbolic significance of any garden
is derived from, yet surpasses, its formal characteristics, and can only be
grasped in relation to the artistic works that both inspired and were inspired
by the site. Petrarch's most celebrated consideration of the landscape is the
description of his ascent of Mont Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da
Borgo San Sepolcro, written in 1336. In this text, he explains the reason for
this difficult ascent: "My only motive was the wish to see what so great
an elevation had to offer."4 Though inspired by literary
motives—specifically, the tale in Livy's History of Rome^zx recounts Philip of
Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with its attendant views—the
experience shifted from the literary to the sensory, where revelation becomes
visual. Indeed, the subsequent history of landscape architecture often reveals
mythical tales, literary inspirations, and pictorial models behind the creation
of gardens; here, Petrarch's visionis already predisposed to concep- tual
density by being couched in myth and history. "At first, owing to the
unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep ofviewspread
out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and
what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself
witnessed the same things from a mountain of less fame."^ The force of the
poet's vision surpasses all previous literary descriptions. Is it the poet's
unique, hyperbolic sensibility, or the inherent magnificence of nature, that is
at work here? Or is there a third term that mediates the poetic imagination and
the natural world? The letter continues with a detailed appreciation of the
mul- tiplicity and uniqueness of the natural world Petrarch witnessed, until
the moment he realizes, in a flash of intuition, that the ascent of the body
must be accompanied by a concomitant ascent of the soul. Thus, opening a copy
of Augustine's Confessions he had with him, he felicitously chanced upon the
following passage: "And men go about to wonder at the heights of the
mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of the rivers,
and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves
they consider not."^ This is the ironic moment of revelation, where
experience becomes allegory and visibility becomes a metaphor for spirituality:
I dosed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly
things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that
nothing is wonderftil but the soul, which, when great itself, finds noth- ing
great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of
the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a
syllable fell from my lips until we reached the bottom again. The three major
realms that informed early humanist sensibility were thus interwoven in an
allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity, sensitivity to
nature, and salvation within Christianity. Certain technical, mathematical, and
financial consider- ations would be added to these preconditions to localize
and system- atize such apperceptions in the creation of the Italian Renaissance
garden. The consequent transmigration and intercommunication of symbols and
allegories would henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of
them towards their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on
the Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized
as follows. The theological revolution of Francis of Assisi redeemed nature's
state of grace. His "Canticle of Creatures"—indeed, every act of his
life—expressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all nature was a
reflection of God; thus nature itself was the foundation of spiritual values.
As Cassirer explains in The Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy,
a book that will serve as a metaphysical guide to the current study: With his
new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke through and rose above
that dogmatic and rigid barrier between "nature" and
"spirit." Mystical sentiment tries to permeate the entirety of
existence; before it, barriers of par- ticularity and individualization
dissolve. Love no longer turns only to God, the source and the transcendent
origin of being; nor does it remain confined to the relationship between man
and man, as an immanent ethical relation- ship. It overflows to all creatures,
to the animals and plants, to the sun and the moon, to the elements and the
natural forces. In this unscholastic "nature mysticism" we find one
of the origins of Western ecological and environmental thought. (Indeed, in
1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis the patron saint of ecologists.) Yet,
more immediately, he not only redeemed the state of nature in a postlapsarian
world, but praised nature—specifically the picturesque and fertile central
Italian landscape of Umbria—with a glorious and beatific lyricism that has
inspired those who would transform nature according to human desire and
volition into a new form that would become the "humanist" garden. Yet
the major paradigm at work in establishing new ways of experiencing and
re-creating the landscape did not stem from theo- logical transformations;
rather, they arose from the rediscovery of antiquity and the consequent
valorization and appropriation of pagan mythology. This is especially the
case insofar as such myths express a profound connection to the natural world,
as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis, Apuleius's The Golden Ass,
Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of Pliny, Cicero, and Horace,
with the latter's crucial notion of ut pictura poesis. The rise of a new
literary scenarization accounted for the expression of a spe- cific sense of
place within nature such that the genius A?a would once again have a voice, as
in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron (describing the Villa Palmieri near
Florence), Erasmus's Convivium religiosum, and especially in Petrarch, for
whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood does not see in nature the
opposite of physical reality; rather it feels everywhere in nature the traces
and the echo of the soul. For Petrarch, landscape becomes the living mirror of
the Ego."^° If one were to formulate this sensibility in relation to the
his- tory of landscape architecture, it might be said that the new form of
garden is no longer delimited by either cloister walls or restricted
cosmological symbolism (the latter allegorically corresponding to the medieval
hortus conclusus, or closed garden), but rather by the limits of the
imagination responding to the very act of human per- ception. Rather than
serving as a static allegorical form, the garden reveals the dynamic, creative
relation between humanity and nature. The view shifts from the interior (the
cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not only the ambient scene,
but also distant views; space is no longer treated as metaphoric, but is
revealed in its localized and particularized reality. Nature incarnate, in its
vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder, terror and
awe—prefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the picturesque, the
beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new sensibility was the
development of a system of pictorial representation—the quattrocento rediscovery
and refinement of linear perspective—that both drew upon and informed the
multifarious Renaissance modes of appreciating the landscape." The
intersection of mathematics, technology, and aes- thetics in perspectival
representations constitutes a major structure that articulates the reciprocal
influences between landscape, garden, literature, and painting, one that marlcs
the subsequent history of landscape architecture. Here, the varied and often
incompatible beauties (ancient and modern) of nature and painting interacted
and enriched each other's iconographies. Specifically, three works of Leon
Battista Alberti (1404-72) codified the intricate interrelations between
perspective and vision, pictorial representation and landscape architecture:
Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life that celebrated
the advan- tages of country living, thus instilling a taste for gardens and the
landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of linear
perspective; and De re aedificatoria (1452), which, in establishing
"rational" architectural rules based on ancient models (notably
Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a
particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For Alberti,
the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping terrain
with open perspectives from which the countryside could be seen. Though the
view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain
established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was
conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of
the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the
cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic
continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both
structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the
constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric,
organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the
characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use
of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the
"secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted
plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho-
logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by
both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of
water—fountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and
theaters, hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes
{giochi d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion
were introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of
instability, surprise, and evanescence that would become central to the baroque
sensibility, with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and
contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was
well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK)
Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined
with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,'
to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well
be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden
may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the
desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature),
its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the
notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will
be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is
never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical
and narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land-
scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the
intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy,
painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order
to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities,
as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a
synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence,
found- ed by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The
principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were
expressed by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic
philosophical study that began to modify the relatively rigid and often
dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to
medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great
chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and
religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology
was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's
writings never called the theological foundation of this system into question,
they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation
between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as
dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations.
This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical
implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key
princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no
possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the
bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous
system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative
from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and
metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and
mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal
systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian
mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component
of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that
inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical
theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the-
ological domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the
hidden god—the ftiture development of the worldly sciences would not be
impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet
complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the docta
ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical con-
templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable nature
of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis.
This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal
ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a
quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all
intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper-
ates according to finite determinations, generating predicable and measurable
differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be
postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and
the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a
metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The
infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the
necessity of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein
the mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned,
indeterminable realm of the divine and the empirical, con- ditioned,
determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of mathematics
fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative theology
begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards its
incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental
ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia
oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such
ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing
the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and
transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable
yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno-
rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human
cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the
thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The
fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia
establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological
speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical
infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an
active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble
universal to the sensible particular, with its attendant concrete
symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science
and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new,
"rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta
ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as
measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the
concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the possibility
of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis uteris.
But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a basic
concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the
technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in
the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one
of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most
apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and
Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus,
utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was
mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers
of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of
beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms.
Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure,
proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but
it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before
his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Ficino. "Yesterday I
arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul.
"'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in reciprocal
symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical temperament,
as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his
famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration,
meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of
the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would
suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a
major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his
philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and
develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an
expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino
demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the
soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible
world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the
universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the
means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as
opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new
status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite
schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the
higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and
the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this
hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of
Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from
Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and
somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore
interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm
of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and
the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I
fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not
penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not
contained, because I myself am the faculty of containing." But all these
predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human
soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through
the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts,
objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not
merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in
Plato's Symposium and Phaedrus, Ficino places mystical love (in a manner very
differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu-
itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a
psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power
which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence
into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion
with Him. According to Ficino, amor is only another name for that
self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from
the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical
circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love,
"Platonic love," that "divine madness" which is the source
of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus,
Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino.
Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate
goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and
oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and
natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial,
intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in
the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible:
amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love,
ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love,
which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher
and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception.
Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This
contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the
Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni-
verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply
opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for
the idea.^' Love is both psychological and theological, human and divine, con-
templative and active, intellectual and passional; it achieves a central
epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is
ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical
nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the
subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas
Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context,
the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature
is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm
of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine
influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of
sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and
distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial
world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not
quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and
oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a
fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky
terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and
cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and
perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a
supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of
"perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous
symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and
objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of
vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for
landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now
theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later
be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of
contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance
found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably
that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed
through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the
spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in
all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer
delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the
artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant
reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through
this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the
world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the
true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros,
is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the "invisible"
in the "visible," the "intelligible" in the
"sensible." Although his intuition and his art are determined by his
vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he succeeds
in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar opposition
of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new metaphysics
of art was in great part based upon the notion of the representable order of
nature. The subsequent imaging of the world became a function of the profound
affinities between mathe- matical research and aesthetic production, insofar as
they both share a sense of form, based on the newly representable order of the
cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a priori' of pro-
portion and of harmony, constitutes the common principle of empirical reality
and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists, regarding the primacy
of form in the Renaissance poetry of writers such as Dante and Petrarch, such
lyricism does not express a preex- istent reality with a standard form, but
creates a new inner reality by giving it a new form: "stylistics becomes
the model and guide for the theory of categories."^'' This claim may be
generalized for the textu- al arts (philosophy, rhetoric, and dialectics) and
extrapolated for the visual arts. It was, indeed, a model for the new nature of
thought, where style is not a formal effect bounded by the limitations of sheer
representation, but rather where representation itself is a creative act.
Within this context, the garden would no longer be conceived as merely a
microcosmic or Edenic symbol, nor as a theological alle- gory of the body of
the Virgin. In a sense, every theory of the micro- cosm is a theory of mimesis,
of levels of representation. Henceforth, there would be a reciprocal
relationship between the mimetic activ- ity of art and the perception of
nature, such that, concurrently, art would attempt to represent nature, and
nature would be seen according to the work of art. Consequently, mimesis would
play a decreasing metaphysical role in the light of the new theories of human
creativity and productivity. Mediating this reciprocity, the garden would be a
"third nature," simultaneously patterned upon the idealizations of
art and reinventing the way that the landscape was experienced. This aes-
thetic was summed up by Giordano Bruno in Eroicifuroi: "Rules are not the
source of poetry, but poetry is the source of rules, and there are as many
rules as there are real poets. "^^ "Nature" had always been, and
would always be, invented. But now, the verity of this perpetual reinvention,
its cultural inexorability, was recognized and thematized as a function of
artistic creativity. The ultimate extrapolation of this mode of philosophical
specula- tion was achieved by Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a
disciple of Ficino who joined the Florentine Academy a quarter of a century
after its inception. ^9 Xhe radical aspect of Pico's thought was the reversal
of the relation between being and becoming or acting in the cosmic hierarchy,
aproblem predicated on the role of freedom. In the scholastic universe, every
being, including the human being, had a fixed place in the cosmic hierarchy;
the sphere of human voli- tion and cognition was strictly delimited and
conditioned. For Ficino, to the contrary, though man's role in the universe was
to rec- ognize and celebrate the entirety of creation, human difference and
dignity consisted in man's role as a metaphysical mediator between the higher
and lower realms. Pico radicalized and potentialized this mediative role by
positing the entirety of the cosmic hierarchy as man's proper place. Thus man,
endowed with no essential particu- larities, no longer had a fixed place in the
cosmic hierarchy: the placement of each person within the cosmos was a function
of indi- vidual activity, so that man could degenerate towards the beasts or
ascend towards God, according to the value of his acts. Human nature consisted
precisely in not having a predefined nature or form. In this
proto-existentialist philosophy, man's being is defined as becoming; man's
essence is constituted by the unique trajectory of each individual existence.
In this system, where existence precedes essence, coincide the roots of both
Pascalian anguish and existential optimism; the origins of both a theological
anxiety at the eclipse of God and the joys of a radical liberation of the human
soul. Though the system still operated within a Christian ethos, it established
the preconditions for a secular realm of thought. This openness towards the
world implied that human volition and knowledge must traverse the entire cosmos
in order to achieve individual spiritual fiilfillment. As Pico wrote,
concerning the creation of man, in his Oration on the Dignity ofMan, At last
the best of artisans ordained that that creature to whom He had been able to
give nothing proper to himself should have joint possession of what- ever had
been peculiar to each of the different kinds of being. He therefore took man as
a creature of indeterminate nature and, assigning him a place in the middle of
the world, addressed him thus: "Neither a fixed abode nor a form that is
thine alone nor any function peculiar to thyself have we given thee, Adam, to
the end that according to thy longing and according to thy judgment thou mayest
have and possess what abode, what form, and what functions thou thyself shalt
desire. The nature of all other beings is limited and constrained within the
bounds of the laws prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in
accordance with thine own free will, in whose hand We have placed thee, shall
ordain for thyself the limits of thy nature. We have set thee at the worlds
center that thou mayest from thence more easily observe whatever is in the
world. We have made thee neither of heaven nor of earth, neither mortal nor
immortal, so that with freedom of choice and with honor, as though the maker
and molder of thyself, thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt
prefer. Thou shalt have the power to degenerate into the lower forms of life,
which are brutish. Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be
reborn into the higher forms, which "'° This self-transforming,
metamorphosing nature is ever-changing, establishing no fixed form. In the
aesthetic realm, Pico's theory of total potentiality and mutability justified a
renaissance of artistic cre- ativity, with a newfound juxtaposition and
inmixing of forms, styles, and symbols. This metaphysics of action and
creativity is at the ori- gin of an aesthetic lineage leading to the baroque
and culminating in romanticism. It is interesting to note that Pico's
philosophy was dramatized by the Spanish humanist Juan Luis Vives (1492-540) in
Fabula de homine (c. 1518), where the full mimetic powers of protean man are
acted out on the stage of the Roman gods. After imitating the gamut of natural
forms, man achieves a quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to
see him in more shapes when, behold, he was made into one of their own race,
surpassing the nature of man and relying entirely upon a very wise mind Man,
just as he had watched the plays with the highest gods, now reclined with them
at the banquet."^' But this theatricality did not end with the allegori-
cal staging of theology in a mythical setting; Vives also considered the
implications of this apotheosis, entailing newfound powers of human creativity
in relation to the observation of the natural world, claiming, all that is
wanted is a certain power of observation. So he will observe the nature of
things in the heavens in cloudy and clear weather, in the plains, in the
mountains, in the woods. Hence he will seek out and get to know many things
about those who inhabit such spots. Let him have recourse to garden- ers,
husbandmen, shepherds and hunters ... for no man can possibly make all
observations without help in such a multitude and variety of directions.'^ This
protean ontology was not lost on the natural sciences. The specificity of
landscape would be determined with increasing preci- sion following the development
of the new sciences of geography, astronomy, meteorology, botany, zoology,
etcetera; furthermore, the physical sciences would increasingly serve the arts,
with all their the- ological and metaphysical symbolism, however archaic or
obscure. Already in this epoch, the hortus conclusus, the enclosed clois- ter
gardens of the medieval monasteries, gave way to the secret gar- dens of the
Renaissance, and later to the more systematically orga- nized botanic gardens,
initiated in Venice in the fifteenth and sixteenth centuries, with their
increasingly open collections of in- digenous and exotic plants. When the first
public botanic garden was created in Padua in 1545, the secret garden gave way
to the pub- lic garden. As explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret
garden henceforth became a laboratory of minutious observations of all the
states of plants' growth, of their reactions to the seasons, climates, and
adoptive soils. Petrarch already gave himself over to such scrupulous
experimentations and annotations in his gardens at Vaucluse, The attempts at
transplanting pursued a century later accelerated and changed in scale: the ''
exchanges were no longer local but intercontinental. Unknown roots from the New
World arrived to be planted in the ancient earth of the Old World; new names of
plants abounded; exotic herbs, spices, and produce transformed cuisine; old
maladies found cures; the eye received novel pleasures. What arrived to incite
mystery and wonder slowly gave way to knowledge and order: the notion of the
world as a closed microcosm was replaced by the con- cept of an infinite
universe, open to sensory observation and increas- ingly rational
classification. Each new botanical discovery demand- ed a place on the cosmic
great chain of being; as the examples became more and more numerous, and less
and less coherent with the previously contrived system of botanic knowledge,
the old cate- gories became insufficient to the task, forcing both a new system
of classification and ultimately an entirely new conception of the cos- mos
(coherent with analogous discoveries in the other sciences, notably those of
the great Copernican and Galilean astronomical revolutions). Under the stress
of an increasingly heterogeneous empirical field of objects collected, beginning
in the fifteenth centu- ry, from the corners of the earth—including all the
orders: animal, vegetable, mineral—the old system of classes was subverted and
transformed. These objects decorated both cabinets of curiosity and gardens
(living, outdoor cabinets of curiosity), radically transform- ing the order of
nature—including the aestheticized reordering of nature that is the garden—in a
scenario of hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid
species gave rise to hybrid thoughts. However, as this process of
demythification was a slow one (evolving over the centuries), each epoch bore a
particular ratio of the inmixing of myth and science—a ratio that would remain
crucial to all aesthetic representations and transformations of the landscape.
Ficino's notion that all of creation is divine and beautiful opened the way for
the historicizing of knowledge, which is one of the key tenets of humanist
thought, no longer restricted to the Christian limitations of scholastic
scholarship. For if all cosmologi- cal levels of the universe participate in
divine goodness and beauty, then by extension all historical moments of thought
participate, albeit partially, in universal truth. The result was a new
syncretism, most immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic
and Aristotelian systems, but also extending to the positive recon- sideration
of such thinkers as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus,
Pythagoras, Virgil, and Plotinus. Further- more, the implications of this
intellectual openness and mobility were vast for both philosophical historicism
and a theory of natural religion: the fact that consciousness must survey the
entirety of the universe implied the necessity of discerning the truth value of
every system of thought. Christian or otherwise, insofar as they all partake of
a vaster universal truth. Pico's syncretism was even greater than that of
Ficino, including not only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and
Arabic commentators of Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore,
and crucial for modern hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of
interpreting scripture at four different levels—literal, allegorical, moral,
and anagogical according to a hermeneutic centered on the master narrative of
the Bible. Rather, he argued for a multiplicity of meanings to scripture, as
heterogeneous and polyvalent as the complexity of the universe to which they
pertained. In Pagan Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the
implications of Pico's conceptual revolution for art and aesthetics. The notion
of the deus absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization
of God can be adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness
Cusanus's discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan
gods: All these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in
so far as the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable
such names derived from particular perfections. Hence the unfolding of the
divine name is multiple, and always capable of increase, and each single name
is related to the true and ineffable name as the finite is related to the
infinite.^'* As Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary
corollary to the radical mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at
least poly- morphic, vision of the deity achieved the reconciliation of
theologi- cal opposites in the hidden God, necessitating an application of the
intellectual syncretisms of Ficino and Pico. Yet those irreconcilable
opposites, w^hich previously could only have been united within God, could now
be provisionally reconciled in human conscious- ness. But insofar as this
central theological doctrine could only be stated in the form of a paradox, its
manifold expressions, whether conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental,
needed to share the conceptual and ontologicaJ equivocation of its foundation.
This would be the source of a new iconographic richness in the arts. Pico was
intimately familiar with the ancient pagan mystery religions being rediscovered
during his time, as well as with the role of initiation in the acquisition of
knowledge; indeed, he had planned to write a book on the subject entitled
Poetica theobgia. He discerned the various formal levels of these
mysteries—ritualistic, figurative, and magical—all of which were continuously
intermin- gled during the Renaissance. Within these systems, truth was always
hidden, to be revealed only to the initiated through hieroglyphs, fables, and myths.
The dissimulation of truth was a protection against profanation; revelation was
thus a function of disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and
ambiguity. Wind's analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina
lente (make haste slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae
(Attic Nights), is a concrete case in point. This oxy- moron simultaneously
sums up, at a poetic level of understanding, the metaphysical principle of
divine totalization, the epistemological principle of the limits of human
comprehension, and a certain eth- ical principle for regulating one's earthly
existence. Here, the meta- physical is reduced to representable (and thus
apparently compre- hensible) oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin
around an anchor, a butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless
others—all intended, "to signify the rule of life that ripeness is
achieved by a grovi^ih of strength in which quickness and "^*^ steadiness
are equally developed. Metaphysics is thus expressed in the realm of popular
imagery by reducing philosophy to the emblematic. The result of this reduction
of the cognitive to imagery is that while aesthetics always implies a
metaphysics, metaphysics is no longer the prime guarantor of aesthetics. This
is apparent, for example, in a seminal^'' book in the his- tory of Western
gardens, Francesco Colonna's Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a
Dream). Here numerous versions oifestina lente are illustrated; each one
provides a unique nuance to the idea, specifically attuned to the demands of
the narrative. As Wind explains, these emblems in fact serve as part of the
initiatory mechanism of the allegory. The plan of the novel, so often quoted
and so little read, is to "initiate" the soul into its own secret
destiny—the final union of Love and Death, for which Hypneros (the sleeping
i,rosfuneraire) served as a poetic image. The way leads through a series of
bitter-sweet progressions where the very first steps already foreshadow the ultimate
mystery oi Adonia, which is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The
coincidence of opposites is revealed through sundry conjunc- tions, such that
not only the marvels and miracles of the world, but also its most commonplace
objects, reveal human destiny. Needless to say, if basic imagery is thus
manipulated, the most complex forms of expression—the arts, including landscape
architecture—^will bear witness to similar metaphysical formations and
deformations. These techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds
us, Goethe referred to as an "exact sensible fantasy,"^^ where
science, nature, and art coalesce in an empirical realm that utilizes its own
standards, paradigms, and forms; where abstraction and vision merge; and where
fantasy and theory, literature and metaphysics, share a com- mon ground of
expression. If poetry and images were but a veil upon the truth, they nev-
ertheless offered an alternate entry into the theological system, a means of
circumventing the obvious social restrictions of a more the- ological approach.
This syncretism was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted
to classical myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^°
Thus there obtained a hybridization of elements within imagery; theological
connotations were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes
evinced secular and contemporary truths. What Wind termed a "transference
of types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance
art; it estab- lished an epistemological overture that indicated the
metaphysical foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics.
This syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were
evident in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk
proper, in the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the
end of the sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in
Florence in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi
utilized all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion
between old and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus
on every page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of
writing and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics,
and chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the
rhythmics of declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his
knowledge of gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to
create a moving and animated work with great lyrical inspiration."*^
Beginning with Orfeo, Monteverdi established a musical synthesis of court airs,
madrigals, recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding
scenographic synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis
universalis sought the synthesis of the sciences in a unified theory, so would
the opera syncretize the arts on the spatially homogeneous, but stylistically
heterogeneous, stage of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might
be argued that the humanist garden of the Italian Renaissance is the major
precursor of the totalizing artwork, insofar as it already served as the
ground, synthesis, and scenarization of all the other arts. “Hypnerotomachia
Poliphili” of Colonna was published in Venice in 1499."^^ The tale
consists of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory
erotic drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe-
riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the
anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by
invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute
perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces,
containing enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins
representing the arts of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such
as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con-
temporary epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The
allegory then thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards
love and truth, encountering five girls representing the five senses, a queen
symbolizing free will, and final- ly two young women symbolizing reason and
volition. After visiting the palace, guided by the latter two women, he is
taken to the three palace gardens, which are ultimate expressions of human
artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at
length, as the descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of
inestimable importance in the subsequent history, imaginary and practical, of
landscape architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees,
Logistic said to me: "Poliphilus, you have already seen many singular
things, but there are four more no less singular that you must see." Then
she led me to the left of the palace, to a beautiful orchard as large in
circumference as the entire dwelling where the queen made her residence. Around
it, all along the walls, there were parterres planted in cases, intermixing
box-trees and cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with
trunks and branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated
that they could have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with
spheres one foot high, and the cypress- es with points twice as high. There
were also plants and flowers imitated in glass, in many colors, forms and
types, all resembling natural ones. The planks of the cases were, as an
enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and painted with
beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with gold molding
on top and bottom, and the corners were cov- ered with small bevels of golden
leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made of glass
imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory with
white flowers similar to small bells, all in relief and of the same colored glass
modeled after nature. These columns rested against squared and ribbed pillars
of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same material.
Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed between two
moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed the
architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as well as
the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered foliage,
such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the vaulting.
The ground plan and the parterre of the garden were made of compartments
composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with plants and
flowers of glass with the luster of precious stones. For there was nothing nat-
ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant, fresh and
fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to some
compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of
gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this
pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent
artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in
its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements
have served as models for both details and major elements throughout the his-
tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry
making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial
wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less
delectable than the one which we just showed him." This garden was on the
other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass,
and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and
plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees
and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and
branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so
truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had
artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds,
just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular
skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size
and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches
and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its
fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared
pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal,
resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of
silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so
surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre
was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of
the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a
golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned
towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures,
square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient
Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion,
signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The
square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity,
and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or
beginning, as is God. Around its circumference are contained these three
hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which,
by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The
helm or rudder which signifies the wise government of the universal through
infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to
understand a "4° participation of love and charity communicated to us by
divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his
quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths
of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders
of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's
extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera,
residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of
Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for
the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The
description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise
visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western
imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of nature
combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is
reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is
circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of
the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice
of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of
perfection later to become stereotypical. The island is circular, with
crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is
defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to
perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed
with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees.
The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by
porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed
with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of
planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of
Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry
and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate,
chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube,
sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what
appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese
encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters
empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to
maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow
leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does,
gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those
that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry
orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall
become the standard features of Western landscape architecture: trellises,
bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural
features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of
medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including
absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony,
calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and
edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes,
chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers.
chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description
evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn
cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely
complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have
become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable
"source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus
(which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground
plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal
and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an
allegory for the "third nature" that characterizes the art of
gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like
an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and
massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer
than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as
nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however
flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and
mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however
imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As
Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not
always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a
perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of
those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for
this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*?
The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and
preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an
epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation
is like a sparkling dart."^° No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili
can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its
quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and
evocations of each object, and the symbolic interrelations between these
objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing
sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects
of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination.
Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual
expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic
schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they
create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of
botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek,
Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil,
Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith
the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent
with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism
is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to
contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the
allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and
ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that
recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and
refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and
general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent
history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity,
contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and
unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and
characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and
Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both
sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational-
ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and
geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven.
Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent,
revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space
parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes
the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such
is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its
subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the
experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes
it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact
that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in
establishing the structure and significance of gardens in general. For not only
is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is
based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative,
dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and
mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions.
Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions,
the "third nature" realized from combining artifice and nature, are
instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who
created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter
them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real
gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated
plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical
system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic
relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory
manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art
include not only the material and spiritual traditions of the period, but also
all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the
paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are
foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are
fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern
landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too
often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence,
heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The
organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric,
static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the
Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative,
fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change,
growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic,
syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1
Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans.
S. G. C. Middlemore; New York: Harper & Row), PETRARCA, Lettres familihes
et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins
secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et desprodiges (Paris:
L'Harmattan, 1997), 48. This book is an excellent study of the secret garden, from
the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance giardino segreto
to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco
Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in Introduction to
Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia University Press,
1965), 557. 5 Ibid., 560. 6 Cited in ibid., 562. 7 Petrarch,
"Ascent," 562. 8
Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis
Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art
gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and
the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson). 9 Ernst Cassirer, The
Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi
(1927; Philadelphia: University of Pennsylvania)
Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would
here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider
several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space
(London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le lieu:
L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y. Edgerton,
The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper & Row,
1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion,
1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On the Art
ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow
(Cambridge, MA: MIT). 13 Forexample,theVillaLante (Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli
Gardens of the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome,
Castello, Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most
typical and famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is
vast. For a fine introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des
jardins (Paris: Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist
Garden," in Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture
ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt,
Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press, 1986), especially
42-58 ("Ovid in the Garden") and 59-72 ("Garden and
Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil
is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15
Cited in Lionello Puppi,"Nature and Artifice in the Sixteenth-Century Italian
Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16
This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the
great chain of being, see Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New
York: Harper & Row, i960). 17 KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans.
RalphMannheim(NewYork: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say,
the present essay presents only the broadest schematization of these complex
philosophical issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in
relation to the development of the Italian Renaissance garden, and thus to
inspire the reader to further investigations. 18 Cassirer, Individual and
Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to aesthetics in
the seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see
Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century
Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in
Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20
Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also
Paul Oskar Kristeller, Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton
University Press, 1980), 89-110, 163-227. 21
ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies
in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky,
Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky,
Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky
rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was
effected in both direct and indirect manners, much in the manner that
psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even
when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the
relations between theoretical systems and artistic production, where partial
readings and misreadings in no way obviate the efficacy of
"influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety
ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle analysis
of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the experience
of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242, n.3),
astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia Lazzaro-Bruno
of an allegory of art and nature in the Villa Lante: "Iconographical
studies usually consider, as does this, only meanings inscribed in artworks,
rarely how such meanings were read by later visitors." The great value of
Hunt's book is that it accomplishes both feats. 26 Cassirer, Individual and
Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in Arnold Hauser, The Social History
ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951; New York: Vintage Books, n.d.),
129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos, 83-7, 115-9 and Paul Oskar
Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance (Stanford, CA:
Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni Pico della Mirandola,
Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. Elizabeth Livermore Forbes, in
Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller, and John Herman Randall, Jr., eds.. The
Renaissance Philosophy ofMan (Chicago: University of Chicago Press, 1948),
224-5. Juan Luis Vives, Tabula de homine (c. 1518), trans. Nancy Lenkeith, in
Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy, 389. Juan Luis Vives,
cited in John Hale, The Civilization ofEurope in the Renaissance (New York:
Athenaeum, 1994), 510. Lamarche-Vadel, Jardins secrets, 94. On the
transformations of epistemology, natural classes, and botanic knowledge, see
79—121 of this work. The locus classicus of the subject remains Michel
Foucault, The Order of Things, n.t. (1966; New York: Vintage, 1973). Cited in
Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958; New York: Norton, 1968),
2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218. Ibid., 99. Perhaps the most familiar
contemporary example of this dictum is Mohammed Alls "float like a
butterfly, sting like a bee." The erotic poetics of the Hypnerotomachia
Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Wind, Pagan Mysteries,
104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos, 158. Wind, Pagan Mysteries, 21.
Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice Roche, Monteverdi (Paris: Le
Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity of the author of
Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always
attributed to Francesco Colonna, a Dominican Friar of the monastery of SS.
Giovanni e Paolo in Venice. There is one theory that the book was written by
Alberti, which, whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived
between the two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was pub- lished, with
illustrations, in a mixture of Italian, Latin, and Greek, in Venice by Aldus
Manutius in 1499. An abbreviated French translation by Jean Martin appeared in
Paris in 1546, published by Kerver under the title Discours du songe de
Poliphilr, the English translation, entitled The Strife ofLove in a Dreame,
appeared in London in 1592; the contemporary Italian edition of Hypnerotomachia
Polophili was edited by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi (Padua, 1964).
Translations in the current study are by the author, from the recent French
edition (based on the 1546 Jean Martin translation), Le Songe de PoliphiU
(Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and
transliterated into modern French by Gilles Polizzi. On the influence of this
book in France, see Anthony Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in
lyth-Century France," Journal ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37;
this is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary
comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in
the Hypnerotomachia Polophili for considerations of the landscape are briefly
discussed in a book that is, in its breadth and depth, a model of scholarship
on gardens and landscape, Simon Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred
A. Knopf 1995), 268-79. For an idiosyncratic and su^estive allegorical read-
ing, see Alberto Perez-Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited
(Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44 Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45
Ibid., 125. We find here the origins of Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276.
48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel, Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de
Poliphile, 325. 51 Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in
The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989),
77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was
directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian
inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis
Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de
Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and
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dying from it is not! Dahl’s daughter died from complications of measles –
unnaturally so – poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo
Alessandro Collini. Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia,
pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio
Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una
nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s
daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colombe: l’implicatura
conversazionale di Galilei – Aristotele e la stella nuova -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any
philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea
that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto
per essere stato uno strenuo avversario di Galilei. Non si sa quasi nulla della sua vita, ma
restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un
particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza
logica. Scrisse un discorso sulla nuova
stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente
da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra. Per conciliare le osservazioni di Galilei
sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della
perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i
monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario
all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico,
sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro
forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria,
affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili
vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele,
per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono
rimaste anche lettere tra C. e GALILEI che stima pochissimo il suo avversario,
che soprannominato “Pippione”. Vari accenni a questo personaggio sono nella
corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degl’Italiani,
Amici e nemici di Galilei, Milano, Bompiani. Aristotelismo. by Drake DIALOGO DE CECCO DI
RONCHITTI Da Brvzene. IN PERPVO Sir O De La Stella
Nvova. Al Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo
Calonego de Paua, so Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte, per la
medejlma Stella, centra Arjlotel^ . ls3 *9 «3 te te te In
Padova, g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v. H ikSk tk^s
skfjh «^EsS*«JbJU (?X:§(s P AL LOSTRIC.
EREBELENDOPÀUO::. EL SEGNOR Antuogno fquerergo Dennett fimo
Calone o de Vjua, Vedifleo, RebelédoSegnor Paròn , s'a vee&è on
voftro puouero feruiore,que no fé me altro , che la boaria,
e'1 mefticro de pertegar le cam pagne, ade-fio, que el la to-
leflfe co* vn Dottore de quiggi da Paua, per via de desbuta ? no ve
pareraela na botta da ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a
mentre fé conto c'hò fatto con fèquellù, che le mef fé la vefta,
que n'iera foa,per parer elio dottore . L'è vera , que inchinda da tofatto ,
ci A 2 me nuTnfaua el me {naturale a~guardare in
cito, e fi a g'haea gran piafere desfeguranto la boa ra, le falce,
i biron, la chiocca, e'1 carro,con tutto ; mo gnan per quefto a no ghe
n'harae iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil- le,
emilliantabotteadire mona confa , mò n'altra a ftoperpuofito • E fi de
fta Stella nuoua, que dà tanta fmcrauegia a tutto el roeflb mondo ;
per conto de dire on la fea, a ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia
j faellanto, edesbutanto co quanti difea, che la n'iera in Cielo que
fé ben a no ve n'ada- ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi,
efia vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio fpelucatiuo,com 5 hà de gì
akri)a tegnia mcn te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef
foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg gi , fé conto cha m'ho mettù el
voftro gab- ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha- nore. ma
fé, pre mala defgratia, el ghe foef- fé qualche fcagarello(cha no'l
crezo) que o- lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche a darme
alturio,fipiato che l'è voftro. Caro Paron habbieme per recomadò,cha
prieghe lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da* ghe vita longa,
e fanitè . Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie
cento, ecinque^. Seruiore della voftra Segnorra
Cecco di Ronchitti, Quiggi , che Rafona . Matthio. Nale.
Ootta de chi me fé 5 mo que feccura , que brufa- mento e que
fio ? a sè> che no vuolpiouere mi , bon ctt aqua . Mo no difegi
, que a le Vegniefìe l'è a man a manfute le lagune? Penfeue^elfe
ven ape inchin da a slarilafofina . <td pojfon ajpiettar de
belo, que i fromintinafcira. i nafcìra condife zJldafchio . N A. a dio, a
dio, Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl sì fora de ti an\
MA. ben ve gnu Na- ie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'anda-
fé a lambì canto el celtbrio, per que no pio uè mi , que fin parfefire de
Ht timpt? gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé rompa
% rompa , per le pine ? NA. Ver canto de quello , l'è ongrétn
dire y que tant ciòtte el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò
ba da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare el fabbton gnan tanto
co harae fatto on pijfar de rana . <*// evèrtè < que fé l
<và drto così a feron al finimondo mi I p> è e tutti brusè y
le campagne fecebe a muo noffo \ tanto que a longo andare, nu elbe
Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne tre. MA. Tirate on può fottofla
voga- ra 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a fera, da quecrito mo
cheU fprociedafo fccume an ? NA. mo nheto vezju quel la Stella,
chesberlufea la fera \k tn mi- fi, que laparea nogio de z^ostta) e fi
a- dello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*. fare, que la
fa on [pianare belettfèmcì no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre-
(co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o d adejfo ? mo tè ella cafon
de Hefmera uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori \ dottore da
Paua. AIA. Cu in feto ti, que la no shablne me pi ve&ua ? NA,<*si
fen- % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on certo
slibraT^uolo.efiel dì fé a , que la fé fornente a desfegurare lomè a gì
otto del me fé d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^ zjtolo el l' haea
fatto on lettran da Pa- nai chel contatta , pò afe con fé . MA.
*Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta , faosfìy per che cjuefììt no l'ha
ve&ua ello > il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi la
noghefuppifta ? -Guari mi a n ho mi *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe .
NA. Jidopre conto de quello , el me par pure aria mi , che la fé a
nuoua . AIA. qlA no dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò
de fae Ilare ne ben \fe miga elfoejfeper gramego , NA. ^4 fé confagòn
tonca, que te nuoua. AIA. Sì, mofeando tan- to lunz^i el no pò faere
&g que lafippia , per dire, che la xe ella, que no laga pione
re . NA. ^liedio, lim^i , la n'è gnan fora a la Luna, per quanto dfea
quelli- _ braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù , e' ha O] fatto l
ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? NA. Nò, che te Filuonco . <&1A.
Lì Filuo- Fituorico ? e ha da far e lasoflluorìa
col mefurarc ? No feto , que on z>auattin no pòfaellar de fibbie
? El he fogna crerc a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de t
aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a pagne, e fi a pofjò dire, a
rafion 3 quanta le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA. El
dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9 che ì Smetamaticht ere, que
lafippia elta de bebi ma che i no l'intende . A4 A. mo per que no
l'intendegi? me truognelo, o me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i
Si- *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele , e
z^enderabele in quato a onpuoco a la hot taf e mtga elno poeffe gender ar
fi, e fior romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ? MA. On
faellegt de fiere fon tfmet ama fichi an ? S'i Ftà
lomefulmefurare>quc ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi
le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo- m raegi ne pi , ne manco
tuorlo definirà ? mo el tne fa ben da rire, con Hefuò sba-
*~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi- fi confi de Ha fatta in
pur afise luoghi de quel quel libra^ZjUolo.sZMÀ.
Que vnctu mì> ^*jj cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p
" u s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que fé lafoejfe sbenderà
da nuouo in lo C/c lo, el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o
qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in so fc ambio liueluondena, h
vefinaqueL la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco . Ai A. TV
parfeche'l faelle con gifmeta rnatichi ? tamentre l'è tanto
fcapu^ZjUa, cha no poffot afere, mettamofegura>que onpuoco de
Cielo chiue, e n altro puoco li uè, s'habbi combino a vno^ el
s'acuorz^e- ra elio on el manche ? quando fé fa le nu noie, e le
piozje, onfevèelfegnale , que le fé a He tolte per mettrele
wfembrefmo digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie re, perche
el "vuole, che lafappi incende ra line elltk? Epos'imaghinelo (la
ferae ben da dire al preue ) que tutte le felle che xè in Cielo fé
pofia vere r el ne pos fi- bule . Eperz^uontena>> chi me tèn, cha
no pvjfa dire* que trè>o quattro, e ari pi [iel- le de quelle
menore , che no fé <vea,fe xe B amucchìh e sì gi ha fatto Ha
bei) a <iran~ de? No porae an efifere ,que la fé foejfe penderà
in Papere, e pò , chefempre pi lashaejje alz^a ì tamentre a no
vubdi^ refie con/e, per que la ne me firefesfion, no me ri mudatomi-,
bafia > que gnan elo noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche
quefiofea el neruo de la rafon de Stote- ne . ^MA. Toncafipiando così me
fero el neruojutto el so Zjenderamento.e fcor rompimento ander a in
broetto. NA. S'i nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL la .
Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare in Cielo de le ftekenuoue, el
befognerae y que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor rotta
qualcuna de quelle >che fempre me xe Ha vez^ue : que gì è : a no m
arecuor- do quante : bafagt eparegie\£ fmoghin manca gnegima, que
el lo difettatene . MA. Pìivh , mo queHa firen%s benfen l^a penale,
chi diambarne ghkndttto* che Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ?
Ce ben on fpianXare , mo no na [iella. E fi mt a thè wchtndamo
chiama [itila > per que que la in par e, fé
ben la rì e, corri e le altre. NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì
mi ? bafa.che la riè na [iella purpiamen. e file altre fi elle no fé xè
me ftorrotte,per que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe- fogne
dt f Atti fuo : mo no de quefìa , che fipìanto vegnua, l'è anche ti
deuere,quc la vaghe via . E per conio de dire , que no s'ha me
ve&uHelle afeorromperfe^ re [pundime on può. La terra ( che xè
me- noredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta in fona botta ? NA.
Mo, copeforinfe la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf fangi tutti a
fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a
può coel fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe anche de le [ielle,
que xè [ielle. Pure > a domanderae enti era a queliti dal librai
z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella no fé fa mèfeorrotta de fatto,
che per di re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab- li ado, e
(jue el Cha ditto Stoterte $ le me par noellemi . NA. el
dife>cjuefefia [lei T „ rf t x làfoefje m Cielo>tutta la fluori**
fnatu- cap ' r * C 2 tale raleferae na bagia $ E que Statene
ten \ que arZjOnz^antofe na Bella in Cielo.no l porae muouerfe .
AIzA* Cancaro, l'ha bìo torto Bd Bella, a deroinare così la fi-
luorìa de que fioro . s'afoefiè in iggi a fa- rae e et aria denanz^o al
Poe fio mi , e fi a ghe darae na quarela depujfefsion tmba t a, e
fi a torrae na cedola reale >e per fona le incontra de ella, per que
te casòn, que f ?&c ni " e ^ Cielo nofemuoue^ tamentre
quello Te manco male^ che el ghe nepancchiie an di buoni) que
cricche* Ino fé muoua.lSlA. ^j; Mo rì altra, con que re fon
(difelo) quei Cielo de fora xelo da manco de gì altri ? que
elvegniraea ejfer da manco fipian- dofcorrottibele,e naffan doghe de le
(leU lenuoue , e no in gi altri , eh* è pi baffi . IAA. Cancabaro,
da quello a zi altri, el gtie defenientia, per conto de macre , pt
% che né dal monte deB.ua a on gran de me gio ; ep?rz*>ontena
elio fipianto sì grande^ el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo
nò fi altri , que gì ha afse dcvnaperv- no>e phfclghe nafajje anche in
iggi quàl che che flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti
la verde defatto f 'o te cottora. NA. Eldi fé, que per fare el
mondo Fptefetto , bo- gna> che ghefuppì qualconfa incenderà-
bete , e incorrottibele , e fi la no pò e [fere altro, chel Cielo.
<z7l y fA. El Cielo ? per que mò cosi el Cielo ? E mi a divenne
el Parafo, che xe defora dal Cielo , xe elio così puro, co 3 ldife
7 Ho dottore. JSfA. La ghepar na confa imposfibole^que na biel- la
così gran de tifj^e ma poffa de fatto borir fuor a in tvna preuifta . MA.
E a mi nò. Quando na Vacca fa on Veello, alt» hora % che te
lomenafìi, te maored'vn ^Agnello que fé a crefsu inchinda in cao .
per que mo? per que la mare delVeello, don belpeXzjatto, tè maore, que
riè na Piegora . Fa mo tò conto , che Uà Stella despetto a tutto el
Cielo, no ven a ejfere gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan te
defletto ala terra, te parfe mò , que tè nagranfmerauegia ? N<tA.
zslAofe tè così, a comuò calelajn pè de crefcere, la Bella adejjo?
AIA, ^dcherXo.quela e p. 4. qjavhe maghe dagnora
pi in su mix, e que % l para] che la cale, per que la ne <va
lun&i.NA. Pian, che el libraÌQUolo df>que i primi di, che la
fé vele la crejcè on btlpuocofe l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare
$ per que fempre la ferae cala. MA. &4l l'hora quella dal
libraz^z^uolo difea ef fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que
la prima botta eh a la <vitila me par [egra denijjema , e que fempre
la xè cala , per muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie refon no
me per du fé ami >e fi afaello,per che quellu dal libral^uolo va
majfafuo ra del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin carezza. Orbentena>fìnti
an que- lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente in lo Cielo, per
que {di feto) el befognerae, che'l ghe foeffe di contragi, e che ino
ghe pò e fere, f piando que tè ria quinta /una ^t, òfoHantta\
quefegi mi? A1 A Mo sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere
quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i feaviui,e fi 1 1 noi fat
Ilare de Culo. §A cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai
do > •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an
chi- ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f fo,e del
chiarore dei Inferitele dei feuro? che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a
l'inco tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha [iella ghe poca
cffere,e fi no glfiera , e fi adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo
? moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora quel , che 7 vuole . E
pò elio el fa conto de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar lega
de He re fon ? on fita halo catto , que onmefuraore vaghe Jfelucato
sufìenoel le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo cane aro , el gti
arz^onz^e , que fé in Cielo ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo
elno fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el doenterae tyejfo, e
f curo. AIA. Si fé qui leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo
gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na botta adire al mèparon.que el
difea.che Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que a fio muo,el
Cielo noporae anar a cerca <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti
in sii, in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi a
diejfe Io di C nico eap. 7-
a àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe attorno ? El gh' amanca i
sletranique di pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa
na ^! pe " muoia da molin . penfate mo ti de gi al* tri con la
va a faellare , tutti sa fretta- re > NA Eldife pò, que la fi ella xe
ape la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no che pò efserfuovo.
^1 A. .L'ha fatto ben adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon. NA.
E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quel- lo, che lecca ci culo (a
vuos/idire, el Cie- lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea
ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el u Cielo no pò e fi ere de
fuogo,per que fan to così grande el bruferae tutti gì altri le-
minti . MA. <z5fy'lo me vegna e l morbo , che queTiufeanto dottore
fe'l fé caejfe la yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na fa! tua
fola no bajìeraela a tmpigiare on paviaro, e pò anche a brufare quanto
le- vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì mi. MA. E fi quante
fornafexe atmen do, le no porae brufare on Cecchin , che foefje
d'oro, per que mò ? feto per quei mo per per que
loro no fé pò brufarc . e così an* che fé gì altri lemintipoejfe
brufarfe, ba- Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet- to-,
fenXa tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe va la , quanto de quello 5 mo crito
pò ù fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA. oA no dt eh e così mi .Uè
che'l dottore ci- ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife
fenz^a metreghe su volto, gnefale. NA. aPklo finti ti altra , que la ne
miga da manco no. El difè ì que i fmetamatichi ha de boni ordigni ,
e de le re fon freme y ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co-
mito fé ri elo adb elio ? feraelo me fr elo de la t or dal Bo? aldime mi.
fé on fmetama fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà : Naie, mi a
<vub faerte dire quanto gh 'è per aire da lì a nogara a l'arare; e fi
el lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo- uerfe 5 e col l* babbi
me furo , e quelite /'- babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì co'vnfi
lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi que tè così 5 no che r de
reto , che Vvouere ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi , que C
cade ? cip. r . p.l
C^>. tap.f. cade ? MA. Perche
toncaquandoel me fura na Bella (per muo de dire ) ogiongi dire y
quel no sa fare ? e pò fé 7 falla , chel falle de millanta, e de milion
de me giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a dire, quattro dea, b
na fpana,a taferae. mo de tanto ? l'è maffagnoca. N A. Se- topo,
querefon de i fmetamatichi^el ven a contare? MA. T>ì mo. NA.
Vnaxè de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer cene, e que la
Stella, così a no la pofsan vere, per pi de mezjhora. E n altra de
anarghe fottoapiombm , caminantoghe al ver fa vinti dìt me gì ari. e fi
ti dife.que le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è amo frare ,
que la fella fea pi in su de diefe amegia-y e fan elio di fé, che l'è on
belpez* ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è aguti*- Zj>o dal cao
groffo 5 mofelcrè,floChri- Bian, que la Bella vaghe pi in su de
die- fe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè fegnale que le riha
da far con elio 5 per- che tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e pò
dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re* fori jfo# Ufo fatte
(per quanto ì dìfea a Vaua 7^k buoni di) con tra on inasprente di
fi- luorichi de S tot e ne , que althora tegnta duro, e fremo, che
la rìiera pi alta de die fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dalli-
braZj^uolo die a lagarle Ilare > que le no ghe daea fall ilio . NA.
orbentena, ghe ne pi? diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg gi.
an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on brut to intrigo de Prealajfe , e
de <vere , e de Luna . que fegimt ? p rifate, che quellù, che
le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de tre botle.efi gneguno no
l'intende. Ad A. £1 die haerla intriga a polla elio, perpa vere n
homo da 2^0, e da palo, e fi la fera pò a n altro muo, perche a se ben
mt,que de la Prealajfe el no pò haèr rafon. che l'è on muo de me
furar e per agiere,maffa feguro. NA. Lagame mo vere sa me rì-
arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9 che no fé pò guardare de meXpfuora
a na lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji , el nèposfibole e
aitar ghe elme%p,masfima- mentre ,per que t 'è na confa, (ondale
que. e 2 ma. cap, *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe
ne ditto pareggie in fon groppo . chi è quel lu, che cherZja de
poerfmirare de me%o via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof
fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio a imaghinare ? gh' in falò de pi
belle ? que Ha fera lacrima. V altra, a comuo e at- tenevo miegio
el mez^o d*vn criuello j mettantoghe gi voce hi ape >
ostarganto^ iTb" d & te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan
toghe E b uctc & t' ^ a lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin,
a no porae gna desfegurarlo que flejfe ben. MA, Guarda mo toncafe
tè el vera 9 que no fé pofa cattar el melo^ de le Ftel* le \ per
che gièlun^i ? %A l'altra . in che dariflo pifremamen in lo mez^o % con
na occhia Jn quel d*ona ballalo d'on gamie* ro? NA. CancabxrOi aona
balla iper que co a l'effe giti fi a infdhverfò , la fé- rae giù
fra in tutti . M A>E pure elio el dt fé a l tn con tr agio . NA. Mo
elgh'ar- ZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa pècchemneyper
cattargheel meZj0.MA. sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca,
in ) t on t'onboccon.
dime onpuotì. a comuòpo* rtfto fallar pi > a dar in mez^o
Confondo da ttnaz^ZjO , o d*on taglerò ? a dighe de mofìrarlo. NA.
Fotta , a por ae fallar don belpuocopì in f ti fondo da tinaXr z^o
, che in t el tagiero . A4 A . Efielbon dottore dal libraz^z^uolo dife a
l'incontra, gio . Va modriOy de fa Trealaffe. NA. Aio no fé podanto
fmirare de mtXof r uo* ra a le. fi elle , no fé pò [aere on le
fìppia ( dif lo) perche no fé ve elluogade drio* ghe . esPI<*A.
Ste mettisfi elto gabban fu ngraile de la me fiala da manie chel lo
f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn
granfa re . a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e tr)> inchinda
> chafoeffe Ime , e quando heffè ditto , con far a e a dire 9
nuoue> e e ha veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el gabban
, a dirae , que l'è fui die fé mi . no vaia così ? AdoA Mo la no pò
efsere altramen ella , e così anche fi vena far e in lo CielOifeben
quel letr anello non s'in sa adare . Uè benpìgrofso, che né elto-
raT^Q cap. tf. «ap Cip. 6 razzo de Cremona vè$ che
ì dtfie> que l'è ****• s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar
don in la Luna, el noflro vere fé ghe fic- ca entro (dtfielo) e
perz^uontena ho fé pò fare la prealafiftLJ . <&dA. Chel me
fio che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn te Belle de fora
, chelfiarae on pia/ere , fé lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo*
rae fallare, el me par pure , che'l diga , que no fé pò vere mela la
Luna, negna mele le He Ile , filanto , che le xe grande % e'I
noflro desfegurameto tira mafifaftret to , fie ben elfie va pò slargamo .
<&14A. ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela da che cao te
vuofi , l'impegola . che me fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere
tut ta la Luna , ne gnan tutta na Bella? no bafla eh a la vegga on
puoco , e cha la me fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò> te na
bagia la que fi a . doh mal drean$ el fie fafiea pò bello , d'haer catto
na fpe- lucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta mattchi . IMA.
Seto que le na confia > che no gtìì me fio penso ? mo per la ma-
re cap. 6 re ib. T- ' re di can,
que inchinda on Veelo thàfk pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a
[X. dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££ riha te
gnu tanto in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i ctì andagamo inanXp ? <^/aA.
Sì y di \ 28 ° Fr ' NA. F rello te te fari s fi fcompifso da ri- fo
y Whaisfi fentio vn batibugio , que ghe *•«*• Xèy de <lA> By
Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^ , 1? »» talea offerire , che la
Prealaffe e bona , mo i fwetamatichi no la sa vouerare ; que flaghe
ben . <&14A. Elnodie inten- dere gnan elio zj> y cheldifi^ .
Tirate on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y che apèfiofofsà ? NA.
Sì mi . MA. *Uito mo quell'albaray che xe lialuon de- tta vefin a
tar&erz_j ? N<tA. Quale? la grande , la pigola ? MA. Lapec
chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo . MqA. Orbentena , guarda mo
bender- to $ qual te pare , che fea a bo da man * de Ho falgaretto
, e de queltalbara ì NA. Staganto così , el me pare mu que talbara egnirae
a ejfere a bb da man . M$A» Tirate mo da ft altro lo . NA.
ave- a njegno . M<tA* F remate chine, e ade/
fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el fato aretto farae elio a bo da
man , e l' ai- bara a bo da fuor a . zsllzA. ^rue te fa mo a ti 3
fé miga te no <vi de meZjOfuora el falgaro, ne l'albaraf e que danno
te da, -per che te nopuofivere anche elio de drìo , de tutti du ?
N$A. ^Mo gnente , per que afmirofegondogi *vri de le fior- z^e mi,
e no figondo a quello, cha no veg* go . <&dA. Elfi fa così anche
in agiere <ve , e que Ha xè na forte de Prealajfe . Torna mo
chiue on a fon mi . NA <±A ghe fon <vegnu mi . a^kttA.
Cjuardanto de cima via aflo falgaretto.puotuvere queltalbara , cha
te difia , fi ben la ghe xè per mie ? N<tA. Lagame mo guarda*
re.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl mo tanto lunl^, che guardanto de
cima fuor a alfalgaretto, te credlsfi definirà- re derto a
mez^alama.e te t o facuorz^tf fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot
fi fi pi elto de /li du . N<t/1. $A fi ietta cha ghepenfe on
puOco : %A dirae defatto, que que t albata
foejfe pi baffa> t*l falgaret io pi etto mi 5 per que el me parerae
co- sì* anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori può ri altra con fa.
va su fi a nogara,cha fagiere mi . NA. One vuotufare ? zZl'IA.
vaghe , e Po te fenttnefi . NA. <td gtiandere , fda che te vttò così
. Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male . NA. Ta de mi ; mo a
mefongifquafo fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio. Ai A. G
hefìto ancora ben fremo? N A. Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a
fmtrare quell'albara , che te guardaci an chi de [otto . NA* E pò ?
<&dA. S mirato a quella dertamen,puotu vere ftofalgaretto
> co te fafìui flpiato de fot to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da
lu Xi. così a telta> a dirae, queelfalgaret tofoefepì bajfo mi.
Ad A. Vie tonca lo* cha te contere de belo . NA. E l gif è
puocafatga a f aitar z^ofo . Al A. S in- time mò.per que quando te gì eri
ab affo, elfalgaretto tepareapì elto delialbara\ e ftpianto su la
nogara , el te parea a T> l'in- 'tincontragìo
j perXuontena àn queHo xe ri altro muo de Prealaffe^j . que
Prealaffe ven a dire, con far ae a dire , defenientiadeguardamento . Fa
moto conto, che fé t'andiesfìsìt quel moravo, che xe Ime, elfalgar
elio tepareraepì baf fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor- niesfipo
da IV altro lo,elfalgaretto te ve gnirae a parere pi elto de l* albata. ,
e & bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo de Prealaffe
^fegondo, che me defchia- rlna botta el meparon. ttntindito mo? NA.
Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè on gratto da vacche, a me
fmerave- gìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha fapio faellay e
lome d'ona forte de Prea laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa
•rae Ho anmafa , fel , ri keffe fatilo con fé die . Orbentena ?fa mo to
conto, que fé la He Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe ve sin co
èflofalgaretto,a por non, le fisi le de fora nefarae don bel
peXzjOpilim ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popi- bolo
>que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h ci cap.
y. e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de
guardamento ? e pure tutti la *ve in lo rftèdìerno luògo, api k quelle
[ielle, che i ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe fita
del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo el tòfaellamento rièbon,perque
nepof Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $ che elio di fé
anquellu dal libralz^uolo a AIA. Nò al so muò de elio , el no fé pò
faere . mo i fmetamatichi chela catta, beri gì. NA. oA no fé qui d'irte
mi ,fe lome, che the refon da vendere . MA. Crito mò,chequellu d al
libr aiuolo di rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa raeben 5
tamentre elporae efjere tanto depinion , queeltegniffe duro .
cinque in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo , e chel metta a me
conto . NsA. ^A no se miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l di- ga
(l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m dtfelo, che in gnegìm luogo
,fe tome , on el ghe xè fora dertamhì > e apiombw ,na fepòfare
lafcoridaruola del Sole? a thò purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu
2) 2 brio, cap . 6. IfrOTCII,
«ap. 7- èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna
gi vogi) el fé por a chiarir e,che, per yuan to a he fentìt a dire, la fé
farà. Aio con que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La Luna fé va
volz^anto (difelo) e filano fé pò vere dert amen dome quando la xe
in Z aneto . <&14A. Tornami) adire . NA. El dife elo , che
nofipianto la Ltt na in Z aneto, no la pò fondere tutto et Sole .
^MA. c Doh giandujfa , fio può- uerhomocrhque la Lunafea nafritag
già elio . Con cane arOychefìanto ella reo da 5 quiggi , che Ha in Zaneto
, gtitnpò "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl Sì. que vuol
dire Grafalta? &WA. eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé elio,
que l'ina nuuola a muo latte , ve- sin a la Luna , e que la ne altramen
in Cielo . <£WA. Oò , a tendendo adejjò. l'è laflrà de %flwa .
NA. <*An sì sì, la fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue la ni in
Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo. MA. Con cane abaro ghe dijjangi
tonca nù P Hra de Roma, che vuol dire , Hrk del Par
affo, fé la no foefse ti fufof ] NA '. Cjuarda ti . e sì elfapo delle
sbraofarì contra onFUuorico(eben an divieggi) che no
crea,quelafoeJfe in Cielo , per che ellodifea Stotene > che la gh'iera
. Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que te fera, in f agno muo a pò
fon benfael larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha ve gnomi, pooh, el
ghe ne que Ut puoche ancora . el di fé , che la ftella nuoua la
trema>per que la fé va suentolato,quan do la va a cerca . ^lA.
Ghe'lcritotì? JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef fé paregte
delle flette, que va a cerca , e fi no trema mi. e fi el trema tome
quelle* chexe elle, elte>perque a nopofsonfre- marle de vifta,
che paghe ben. e anque fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd:
Àdò va , che te sì on Rolando . NaA. Tamentre que, nofapianto queHù,
on la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere co- muo la flpia
incenderà 5 e sì le venaej fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé
a \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala el
ni cap. U cap. 19. elle fogna
ben > que la fea così. NA. Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo dt
Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ?
NzA* El dìft , que la Beila durerà afte s afte, /e s'im-
batte j, che L Sole no la desfaghe , elio . At^sL El poca an dire, que la
durerà inchinda , que elio va a romprela 5 in t* avno rnub , con la
(e a anda via, el pa- ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà
rotta . N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal drean $ quejìa farae ben de
porca ! El *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno
confa, e que l'è na Bella de quelle bone. J\d<zÀ. Inchindamb la va ben
, quanto de quello, mofe la tegmffe mo fremo con Bi ficchi 9 a que
ftjfangi ? crila purea tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel le
puoche con fé . M<t4. Con farae a di ^; re ? NtA. Con far a a
dire^ quei doen* tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te- stura a
la verite . AisA. Vete> che'l se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no
vito a comno te agnino \ el ne amposfibolo % chel cup.
li. chel viua , habbìanto tanto e dibrio da Xoene^j . N^4. T^e me
sbertez^à nero ? dì pìprefto , que el fprenuoUuo è Ho ve ro in nìi,
que a s'haon tegnu a la veri- te, fé ben elio voi e a archiaparneght^j
. zTkfo/l. T'irà , che f he vento. iVW. El dife pò anche * que Ha
Bella ca7z, \ - ra via le giottonarì , le rabbie 5 quf /i- gi mi ?
oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle in perorare , le nuollre carte >
mo ano me fmerauegio difuofprenuoHichi,que tutto el so libr alinolo
me pare onfpre nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a indiuinare^ .
N^4. El dife ben , che el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F
' [lampare^ . zsì4<iA. Che l foghe pre- flo,per que feanto vesjn
Li ^Marefèma-, e l farà bon da qual confa an etto.ftgon do, che que
fio n ha fatto rire adejjò y que l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt
, che le&ea diffe , che'l creapurpiamen , que el l'haefje fatto
flambare per ven- derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo M$A>
Che'l U&re tene* a tfazy Zjargi,
Lorerc* cap. f. 6. sgargi, e fé ghe
nauanZjeffe qualchuno, chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel
caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3 che l farà ben meffo in conerà
. N<tA. Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare a cena con mi
? a fin dare ontiera ve . Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe
nega rri afptetta 5 tamentre a fin def grati . AV/. $A T>io tonca
. MzA. sA 'Dio . IL FINE IIMII asS
a£$5 * 1^/7 >" r» * 1 "- ; <r* li u TU
■ 1 JL ■ ■a ■ Grice: “If I had
to choose between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” --
Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the
irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth
does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies
float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because
they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool
Library. Colombe.
Grice e Colombo: l’implicatura
conversazionale dell’idealismo toscano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor
of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’
be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between
theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and
I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the
‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and
anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e
la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere:
“Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra
angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona);
“Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La
correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in L’origine del linguaggio (Celestian Milani),
Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter",
“Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero,
Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni
ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del pensiero filosofico. Introdurre
alla comprensione e uso dei linguaggi e degli strumenti
specifici della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;-
all’acquisizione di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche
del vissuto, della società edella storia contemporanea dell’uomo occidentale.
Salute e salvezza dell’uomo. Il senso della cura e dell’educazione.
Una sfida per la ragione e per la fede.Valutazione critica del rapporto
metafisica-antropologia-soteriologia in tre momenti della storia
dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo
Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno. C., I Greci e l’amore incerto:
grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica
del Sacro Cuore, Milano, Kierkegaard, La malattia mortale (qualsiasi edizione,
purché completa): ai fini della prova d’esameè
richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la
disperazione; J. p. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Armando, Roma (o altra edizione, purché completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni
in aula, ricerche e percorsi personalizzati. METODO DI VALUTAZIONE. valutazione
di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. AVVERTENZEIl docente è a
disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico,
per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro
elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio, Cap.
I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI iov jtw&avtt 1ft$ ovx d(is- 17i kiztjTos
slvca. xcd y«Q lxvy%av ov tcqcoijv sis u6zv o foco- 4 oh <s3 poi*
Stallb. ad b. 1. Facit, inquit, Plato Apollodorum inter epulas versantem et
convivis narrantem ea, quae hoc libro continentur. Sed neque
epulae commemorantur, nec convivae Apollodori, ut sane mireris,
Stallbaumium in re dubia et incerta certum iudicium exhibuisse. Platonis
voluntatem declarant verba p. 173. C., quae primus Sydenh.
corrupit. Eius couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent
ceceutiores, ad unum omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio
vulgata est: “ovxoa 8rj iovreS apa xovS AoyovS itepl avt&v
lizoiovpE$a y dkxs,oitEp dpxopevoS EtnoVy ovh ape- AextjxodS d ovv 6 «
nai vptv 6i7]yij<5a6$ai , xavxa XPV 7toutv”. Apollodorus nimirum
cum domo relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio
habitos ei repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post
redeuntem, ut videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis
repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui
vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere,
h. e. inter eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS
AoyovZ TtEpi avroov ItcoiovpeScx”) TtvvScivEd Se. Vulgo
additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINO
in conversione agnoscit, neque vero sententiae ratio exigit,
merito omiserunt Belck., Stallb., alii. Praeter codd. optimorum fidem “notheias”
suspicionem movet ipsa sedes “nun” particulae , qua sede effcitur,
ut nescias, ad antecedentia pertineat, an ad sequentia temporalis particula.
Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula verba convertit: Ich
glaube anf das, wonach ihr ietzt fragt, nicht unvorbereitet zu
sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis,
quod praesenti tempori opponatur, otiosam particulam ietzt censebis
rectissime. Nam priori tempore non exegisse viae comites sermonum [“Sttv
avicbv (frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv xatiduiv fis
xotftfa&sv ly.uX.t6B , xal xaLfcav a (ice ry xXy- 6tt, '0
<PaX.ijQtvg , k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor
disertis verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum
Wolfio: letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid
euim? Tempore aliquo non praemeditatum Apollodorum fuisse ut per se
intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum,
ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores
abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si
lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus
contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis,
optime instructus. $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium
fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat Schol. ad h. 1. $d\7jpoy
6ijpoS AlavriSoS, IB, ov AnoWo&GopoS, Quia autem, inquit
Hiickertus, ad mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de
eo, qui in urbem tendebat, uti ex urbe Piraeeum petens xccxapaiyeiv
dicitur, cf. Plat, de rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry
xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus, addito
itaigcov participio declaratur. Variae autem doctorum hominum
sententiae sunt dubitantium, ubi iocus lateat. Wolfius in festiva
(paXypevS vocis pronuntiatione iocum deprehendisse sibi
videtur, Schiitzius de formula judiciali cogitandum censet, quae addito pagi
nomine conspicua allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non
efficitur nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c,
^ypod^EYTfS JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad
Plat. Gorg. p.451. B. Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’ 6
xoipaS tt/v Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpe- if)id8?fS,
KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat huius loci interpres in
Scbilleri Nova Thalia T. II., p. 170. # quem Stallb. laudat: Ile
da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida haec
sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus
est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, praepositum;
scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset
^TroAAodeapoS" ovzoS o $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit,
ut, qui Apollodorus vocandus esset proprie, idem a7roAAodc*>pot;
epitheto, quod hominis opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum
igitur est: 6 <Pa\7jpEvS, Eqxrj , ovros, obroA- A od&pof, commate
p6at ovrof posito, ut nominis per iocum dati potestas elficacius eluceat.
OvroS enim in allocutione cum nomine proprio coniungi solet, ut in
Protag. p. 193. D. , quem locum Stallbaumii industriae debeo, scribitur: onat
lyco ttjv tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv , OVTOf, pi)
n vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I more Homerico nunc disputamus, r
STEpov npoTEpov, Quin statim revertimur ad explicandum, qui in ficto
nomine proprio latet. /isviig; Kayu bntixag niQii^uva. Kal og,
'AitolXo- dcoQS, S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as Itfpcow,
fioviofie- vos 8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog Igvvovoiav
xal Za- E iocnm lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi rectissime ut
cpaXijpiS pronuntiandum censet Astius, non, ut calvitium carpatur
Apollodori, quod nullum fuisse pari iure contendimus nos, atque luisse
Astius suspicatur, sed ut vana Socraticorum morum imitatio
notetur. Consentaneum nimirum est, et verbis probatur ov
XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis modum festinasse, corporis habitu
pedumque positu e longinquo ( [nopfico - Sey') conspicuum. Ut igitur
Socrates ob incessum (IpivSov in-star fipEvSvedSai dicitur Aristoph. iN
ubb. v* 361, et Syrap. p. 221. B., ita Apollodorus $aXrfpis appellatur,
quae vox eiusdem fere significatus atque fipivSoS, avem aquatilem
denotat altissimis pedibus superbam. Sine dubio autem multo iucuudior
erat, quam Astianum illud calvitium, Apollodoro anoXXo^oapov epitheton,
quando quidem ipse Socrates, cui ille aimilliuius videri gestiebat,
datum se donatumque civitati a deo praedicare solebat, cfr. Apol.
Socr, p.30. E., iav yap .ipk ano- XTEivrfZE, or> jup&UoS
aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei xal yshoioTEpov einely,
npoSxeLpevov xy noXei vno tov Zeov x.t.X. ov X E p l fl£V ElS. Ilaec
est Stephanianae lectio editionis, quam Stallb. in textum
recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS ediderunt ex auctoritate
codicum. Utraque lectio bona eat i utra verior sit, alii videant. Unum hoc
certum esse puto: in interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse
aut nullam. Futurum tempus in textum recepi sensu quodam veri
ductus, non ratione. Ad idem fortasse recurrit, futurum an
praesens tempus probuveris, neque est, uisi pronuntiatio verborum,
quae alterutro recepto tempore iminntatur. xal prjv xal £v ayx 0 ^ ^post
pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum est e codicibus. De
voculae veritate consentiunt viri docti, de eius explicatione non
item. Riickert. xal ErayxoS esse censet neu 1 i c h sch n, xal prjY
autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio positum, non esse
moneo in principio, sed respicere praecedens membrum ov itEpiplvetS, hoc
sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam te quaesivi. Quid? Tu
non recte explicas, Riickerte , hanc particulam? Et tamen ego cius
significatum ium diu quaero. Satis est, exemplum laudasse unum e multis,
quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur. Protag. 310. A., 22.
navv plv ovy . xal XapiY ye siti opan, lav axovi/re. Et. xal pijv
xal rj/ieis daX, iav XiyyS. Stallb. xal pijv xal ad notissimum
comparandi genus revocat, quo utrnmque comparationis membrum
addito xal augetur, e. g. xal ivayxof de i&jtovv, c osnep xal
yvv de %7]TG). Dubito, num recte. Ut exemplo utar Protag. supra
laudato, certum est, amici non hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg xal
'AlxifittxSov xal zwv nV.ov tav toti Iv r a Owditxva auQaysvojiivav jrfpl
zav Iqcouxuv 16- yav , rivis z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo, «xijxo
ag •bolvixos zov 0Mx aov‘ £<pij di xal Os lidivai. cllkcc yaq
ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak' bis, ita nos tibi,
si dicas, gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam suam
mutasse Stallb. ad Protag. 309. B. , 2. ev Vpotye ido&v ( sc.
SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi vvv
7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp ipov ehte, ftorjSaov i pol , xal
ovv xal apxi an baivov £p- XO/iai f convertit enim rectis- sime:
und duher komme ich aoch eben erst von ihm. Videtor igi- tor xal
ZvayxoS, xal qpels, xal apri cett. in hoc genere loquendi cum
gravitate quadam dici , quae cum affirmatione coniuncta sit. Prius
xal autem in initio posi- tum particulis pr/v, pev t dr/, ovv , xoi
ita inservit, ut easdem ia initio enuntiatiouis ponendas, quoniam per
se non possunt euapte vi exordium enuntiatorum esse, suffulciat atque
quodammodo in principem locum orationis in - ducat. Exempla
permulta huius xal expletivi reperiuntur , cfr, Symp. C. xal p7fy 9
eo 3 Epv~ £>ipaxe, ehteiv x ov 3 ApiSroq>dv7j t aXXy yh tctj
iv vqj 2xgo Xeyeiv x. r. A. Ibid. p. 199. C. xalpjjv t o o (piX e
UydBoav, xolXgA poi £$o£,a$ xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde 220. D.
xal ydp SipoS xoxe rjv y quo loco cum gravitate caussae indicium in
prima sede enuntiatiouis positum est;< die Ur- sache vnr, es war
damals Soromer. Contra in verbis 220. A. beivol ydp avroSi x ei M c
»vif. vis epitheti quoniam caussae gravitatem superat, ab initio
Setvol positum est. Cratyl.. B. itaXaid itapoipia , oti x d
xaXa Isxiv dity $X £t paSelv • xal 8j} xal xo itepl x tav ovo-
patGDv ov dptxpur xvyxavei ov pa$ypa. Iam nostri loci verba
convertenda sunt; Und er sagtet Apollodorus, in Wahrheit, bucIi
neulich schon suchte ich dich. a\\oS ydp xis poi 8trj- yeixo.
H. e. Alius mihi iam fuit harum rerum narrator, quem Phoenix edocuit,
Philippi filius; te quoque rem compertam habere dixit; verum euimvero
nihil certi narrare potuit; iam tu igitur narra. Proprie ita
disposita singula membra exspectaveris: drAAo? ydp xis poi fterjyeixo
— aXXa ydp ov6lv elxe 6a<pls Xi- yeiy — t<pr\ de
xal 6h eiSivai — tfv ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato
ordinem enuntiatorum, ut Glauconis audiendi studium et festinationem vividius
exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINO:
te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit
convertens; te eniih maxime decet, amici h. e. Socratis, magistri
tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in
primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg
anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov tjj
evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov , ori II uve a- C nctoiv Iones eoi
ovdev diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav
ytyovivai tairtjv; tis, amici tui, sermone» referas. Ceteram ut
snpra <pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS
2 ah xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur;
non male. Aptius fortasse est f/6o$, de quo Schol. ad Piat.
Phaedon, a.v. 17 6* 'Eav plv, inquit, # dvo piprj A oyov, Hsxai
£<p?j oSy xovxiSxiv £<pi] 81 ovxof. oi Sb Xeyovdxv , ort auro
pavor drjpaivei xo £<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot
f aif f ASrjvatoi t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus
e contraria ratione p. 205. C. oAA* opd>S 7/6?/ scribendum vidit
pro oAA* opcoS 7} 6* ip oddkv diijyet 6$ai. Ficin.:
Revera, inquam, certi ni- hil retulisse tibi ille vi- detur. Cum
emphasi dicitur diijyeid^ai ac non sine acerba irrisione eius , de
qno supra di- citur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura Glauco dixisset:
oAAo? yap xiS pot dujytixo t Apollodorus ovSlr St ijyetxo dacptS
satis malitiose responsurus erat, quod in orat, obliq. conversum
audit: £oix£ 6ot od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infi- nitivum
praesentis dtr/yetd^ai censet, malim imperfecti iuter- pretari.
Exempla si requiris in- finitivi imperf. , cf. p. 176. A. l<prf
— da 'avddt xe 6<pds Ttovrf - 6a6$at xal $6 arx as xdv $eov xal
xaXXa xct vopiZopeva z pi- ne 6$ oct npds xov notor, quo loco quae
momentaneae actiones eunt, aoristo, durantes imperfecto tempore
descriptae sunt. Adde p. 174. D. xoiavx* axxa 6<paS £<prj dia
AexSirra? Uva* et q. seqq. Ceterum addito 6a<p&S ad- verbio
indicatur, Phoenicem nar- rasse quidem , sed narrationem non ita
instituisse, ut res narrata penitus ab auditore percipi pos- set.
Ilinc paullo supra dicitur fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$ b. e. cupiens
rem omnem, quomodo gesta ait, accurate de- scriptam audire. De
praepo- sitione did cum verbo composito vid. p. 174. A. jpks yap
avxov diifpvyov h. e. heri fugi ipsum ac vitavi feliciter, p. SIS.
C* aAAa diepijxocvifda), onatS ..., sondern du setztest es
durch, dafs Phaed. p. 97. C. oot apa vovS Isxiv 6 diaxodpcov
xe xal navxw alxioS t ubi diaxo - tipdov est: omnia excepta re
nulla exornans. iyroye drj . Bekk. in textum recepit
£y& drj annotans, in quinque codd, iyaye S 1 ) repe- riri*
Videtur igitur vir doctis- simus codd. auctoritate motus esse
plurimorum, ut lyco di) re- ciperet. In servanda lectione vul- gata
nobiscum consentit Riicker- tus, in explicanda non itera. Ph dij
enim, inqoit, quod caute et cum restrictione affirmat, ut Phaedr.
p. 242. D, Theact. p* 145. D. cum maxime h. 1, aptum esso censeo. E
Ruckerti een- ijv IqukJ. 3 , togrs xal Ifii xagaytved&ai. Eyeyys
fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft , on xoA,- icov
iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov d’ iya 2 .'oxqutei
GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat ixdattjs rjptQas tldzvai 8 n ctv
Xiyy y nQcctry, ovSeneo 173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e utQirQt%uv oxy
Tv%oifu, ‘ 1*1 • tentia scriptam esse debebat rfyov
- fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt 6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum
gra- vitate quadam , quam vocare in- dignationem possis, affirmat:
Nun freilich dachte ich, aucb da seist dabei gewesen.
7Xo5ev — cd rXavxcov ; Stallb. distinguendum esse docet
a Glaucone, fratre Platonis, Glaucouem hunc, de quo Apollodorus p. 173.
A. ita iudicat, ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiae
studio alienissimum recte coniicias. ixoScv cum vi negandi ita semper
ad- hibetur, ut ad praecedens verbum finitum referatur. Dixisset
igitur, explicatius si loqui voluisset, Apollodorus: TCoStEV r/yst
6v , rjv 6* iyco f eo rXavHcov , atque sic, li. e. explicatins,
Plato locutus est ia Cratyl. p. 398. fin.: 6v ix^S elneiv; EPM. it
o$ev, do 9 yo&b, Uxoo; Adde Menex. p. 235. C. M. vvv fibreoi
ol/iai iyoo xov alpeSsvxa ov itavv evitoprj- Ceiv — 2. zoZev sc.
olet . . . do ’ya$E ; iitid e Sr/pr/xev. Scbol. s. v.
*Ay<&<ovoS — xal npoS lApx&aov xdv fja6iXea gj*£to,
coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile est, ut Stallb. ad h. 1.
annotat, Agathonis in Macedoniam pere- grinationem hic tangi.
Quoniam apud Archelaum tyrannum tam laute vivebatur, ut qui cum eo
essent, lautitiis quasi sepelirentur, tectius quidem, sed iocosius
, ut solet, Aristoph. in Ranis v. 83. idem poetae apud Archelaum
di- verticulum notat: *H. UyaSaoy dbxov 'fxtv; d* oaco- Tancdv
p anoixexoci. 'H. 7Coi yfjS 6 xXrjpoov; J. is fiaxapoov
evaoxfxcS. Errarem quod attinet Glauconis, qui rEGoSxi celebratum
Agathonis convivium arbitrabatur: facillime potuit, cum multos iam
annos Agatho abesset, vel obiter facta temporis computatio meliora
do- cere. Sed non curasse videtur homo Xpyp<xn£ TIMOS virorum illustrium
sive absentiam sive praesentiam, nequo studiose secutus osse nisi quae
divitias manifesto augerent. iiei pe\\s it eitoirj pai.
Sensus est: Seit ich aber mit Socrates verkehre, und es roir zum
Gesetz gemacht habe, jeden Tag zu wissen, was er irgeud spricht
oder tlint,' sind noch nicht drei Jahre verlaufen. OTCXf
xvxotpt. Scriptam ex- stat in aliquot codicibus otcoi t. Sermo est
de eo, qui, quo veniat errando, nqn curat. Hinc con- vertenda verba
sunt: temere, ubicunque versarer, ober- rans. Minus recte, ut
videtor, Ficinus, ad cuius conversionem Stallbaumiana comparata est
: antea vero, quocunqua continge- i xa\ olnfitvig rt itoniv,
a&luoligos 17 orovovv, ol>x rjctov y <Sv vvvl, olofuvog Sslv
navia. (t/Mov xqut- thv ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi] /Sxibjct,
tqitj ' uXX’ ilxe (to i, nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj. Kayixt thtov ,
ore JlaiSav ovtcov Tftiav Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq ivi-
Ktfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq y y r a hnvUux. &!vtv bat, oberrans,
cfr. Piat. Pbaed. p. 82. D. toiyapioi rovroiS ptv — \alpnv
clxovres avtois, coi ovx eiSodiv, 0X7} gpxortat. aSXicor e
pos r\ orovovv. Schol, ad Gorg. ap. Bekk. p. 847 s, t. a^t]\arovi
— aSAiof — o xdSt6iv dvtjxistoiiivujxopcvoi. Pro 7jv volgato o
codd. auctori- tate 7/ Platoni restituerunt re- centiores editores.
Eam lectio- nem scholion Bodl, cod. compro- bat s. t. 7 / :
'Attlxov roveo, axo tov ta (Swypypirov • dj/paivt i 81 rd (a rd
vxf/pxov ' Iu ydp axo tov TfV Tiara SiceAvtiiv ‘ico- yixjjy *
"OpTjpoS • rj rore xovpoS la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet. Do
7/ et ijv discrimino Herm. egit ia praef. adS. Oed. T. p. VII* jt a
id cov ovx cov rj pcov it i. Inverso ordine vulgo haec edi «olent
rtoddeov r)pcov orreov hi* Recte fortasse. Ceteram ambigue haec
verba dicta sunt, , ac non «ine magna Socraticae disciplinae laudatione.
Nimirum itoudctS vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus
cos, qui Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba
igitur TCaidojv ovxcov j}pcov hi de eo tetnpore intelliguntur, quo expers
fuit Socraticae disciplinae Apollodorus. Et quoniam tertius annus erat, ex
quo Socrati «ese ndiunxerat, tempus convivii definit ita, ut qui his
proximis annis tribus convivium Agathonis celebratum neget.
Definitione hac non sufficiente neque accurata Apollodorus pergit: ore
ry 7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd- %cov ry vSrtpaUr, rj y rd
imvt- raot l^vev avtuS ts xal ol x°~ pevraL. ore t y rt pcdxy
r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed prima e
tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor
existeret. Recte. De tempore, quo prima tragoedia Agatho victoriam
reportavit, vid. Alhen. Deipn. V. p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y
IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov 6 p\v ydp litt d pxovzoS Evtprj
fiov S ecp ccv ovtcii Arj- vaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo temporis
indicium perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis
inquirant et in historiam rerum, quod solertissime fecit Fr.
Ritscbl in Comm. de Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis
Sax.: frustra eo utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro
scripti sui cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev.
Solebant poetae victoria reportata festum diem parare iis, qui
susceptis chori partibus, ut populo fabula placeret magis,
effecerant. Quo die quoniam diis sacra fiebant ob victoriam, factam
est, ut ad euni significandam Graeci formula uterentur td iitivixia
Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw , i<pt], aga naXai, wg 1
'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog Zkaxgdrrjg ; Ov (icc xbv Ala,
i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’ ’Agi- &c6di](iog r\v rig,
Kvda&rjvcaBvg , Cfuxgog, dwxoSrjros de l' itagayeyovec 6’ iv ry
Ovvovela 2k<axgdxovg tgu- CTijg wv iv zolg (idhora tav zort, tog i(ioi
doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat, ?/, quam lectionem merito
reie- cerunt editores. Schleiermacberus 7/ part. potestatem non
satis asse- cutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem
vox manet, sive y sive ? f scripseris, tamen hae formae inter se
discrepant vehementer, y posito omissum cogitatur alterum enun-
tiati membrum a Ttorepov parti- cula instituendum v. c. notEpov
dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS; et quoniam in huiusmodi enuntiato bimembri,
ubi ab indefiuito ad definitum transitor, loquentia ludicium simul
involvitur, consentaneum est, omisso quidem, sed subintelligendo
membro priori quaestionis alterum vi quadam augeri, quam verisimilitudinem
vocari licebit. Igitur y non tam corrigendi vim habet , ut Stallb.
et Hiickert. iudicare video, quam probabilitatis. Contra quando 7/
exhibetur, prius illud interrogationis membrum prorsus evanescit,
ut, quoniam neque huc neque illuc interrogationis momentum declinare
possit, inter- rogatio admodum temperetur. Igitur 7/ particula qui
utitor, suum iudicium ab interrogatione seclu- dit, et sive negarit
sive affirmarit, qui rogatur, ad utrumvis audiendum paratissimus est.
Exemplum ut afferam, fiunt enim leges linguae luculeutiores exemplis,
legitur vulgo in Platonis Menon. p. 71. B. 3 py oiSa, itais&v,
oitoiov yi xi , el&dyv; y Sonet 6oi olov te eIvcu, oStiS
Mkvcovct py yiyrcStixEi , xonaparcav osxis isti, tovtov eldivai,
eUte xaXoS 7 i. t. A.* Viderunt interpp. scriben- dum esse y Somei,
eorumqne iu- dicium codd, aucto/itate probatur. Nihil enim certius
est, quam Socratem ita instituere interro- gationem, ut simul
indicet, Menonem non posse negare rem in- terrogatam. Ad nostra verba
ut revertar, Glauco, cum Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indi-
cavisset 6upra, y avxoS 2ao xpaxys dixit
admixta probabili- tatis notione: am Endo doch wohl Socrates
selbst. Iam patet, opinor, cur tanta gravitate, quanta potuisset,
Apollodorus responde- rit: ov pd xov Jia. Graviora enim negatione
opus est in re- sponsis, ubi ita instituta prae- cedens
interrogatio est, ut quae vera non sunt, ea vera putare, qui
interrogat, videatur. Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo legebatur KvdaSyvsvS ,
quod Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.: KvdaSyvatov.
Sfj- poS ryS riaydioridoS <pvXyS' o dypoxyS KvSa&yvatevS.
Eandem formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1. laudat
Riicker- tus, Vesp. v. 895 et 902. tiptxpoS,
arvicoSytoS a ei* Haec epitheta commemorantur eo consilio, ut
quibus ov fiEvtoi alka xai ZkoxQartj y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv
m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i (ofioloyu xa&axtQ Iscei- vog
dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco (tot; sravrog tj odog V £t’s
atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat Asystv stat dxoveiv. Orna
di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt avtav Aristodemus tanqnam homo So-
cratis amantisaimus indicetur* Nempe solent ita iudicare impe-
ritiores, ut ab externo habita corporis ad ingenia concludant* 2
pvxpoS est , quod nos dicimus : untersetzt. Apud Xenophontem
Aristodemus pixpoS audit M* I. 4. 2. , ibique deos esse negat.
Festis diebus blautis Socrates usus, est, ut videre licet e p. 174.
A. , Aristodemus ut semper ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, ad- dito
atl edicitur , quod in ahi ex plurimorum codd. auctoritate Ruckert.
mutavit. Utrum recte fecerit, nec ne, alii videant. iv zois
pdXisra rc ov Ture. h. e. Convivarum illorum, qui Socratem maxime
amaverint, acerrimus amator. Latiore significatu verba tuiv rore
Schleierra. accepit* der war bei der Gesellschaft zugegen gewesen und
einer der eifrigsteu Verehrer des So- crates damaliger Zeit, wie
mich dunkt. ov yievtot aXXa. xai, Adhiberi haec dicendi
formula solet, ubi commemoratum est, quod iam satis videri possit
ad rem, quae paratur. Apprime respondet LATINORUM: nihilo minus
tamen. Interdum xai omittitur, quo omisso edicitor, ut id, quod
ante commemoratum sit, minus probari iodicetur aliudque addatur illo
multo probabilius, cfr* Piat» Meuen. p. 86. B, n dw ptv ovv*
ov pkvxoi, gj 2&>Hpa- teS, aXX’ iyooye ixelvo av r/dLSta,
Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV , Hai Cxetpaijxijv xcti
dxovdcujn. — Eodem plane modo xai omittitur in formula dicendi ov
fiovov — dXXitj de qua vide sis, quae an- notata sunt ad p* 180*
A. ovdiyyr/cco poi. Ut Graeci, ita nos: erziihltest du mir
das nicbt? quod ita dictum est, ut explicandum sit: scio te
nolle narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane ratione Stallb*
hanc dicendi figuram explicat: Ilaec interrogatio , inquit ,
alacritatem qtiandam animi et aviditatem sciendi indicat, fere ut LATINORUM:
quin tu mihi — narres? Alia ratio est Verborum p. 2 12. D.
rtaiStf, $<py t ov tixeipetiSe, ubi ad lectionem codd. trium
(SxeifsadSe Riickertus annotavit: Aoristum ut non admittendum, ita
non omni ex parte spernendum duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum T i
ovv ab inseqncntibus verbis maiore interpunctione disiunxi, nam non
possunt, ut videtur, in una cademqne interrogatione ri ovv ov
couiungi. - - itdvxoot 7 } J 6 o f. parti- culam, veritus Bekkeri
auctoritatem, e textu semovi, quam- quam Riickerti exemplis
edicitur, ut certum iudicium de eadem edere dubites. Laudat enim
ille Piat, de Legg. I* p. 625.^ A. ftposdoxdi ovx av dt}8&>
rjpd? C irtoiov(ie&cc , i vgte, otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx
dfiste- zrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv dirjyytiacfftac ,
ravra ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag , otav [Uv twag % egi
<ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov axovcoy flebis tov 0
ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg %ccIq(j' otav 6 s aXXovg
zivag , aXXag te xal tovg vfie- tBQovg tovg tav itXovtilcov xal
xqtjimxxlGxlxcov, avxog te a r&oiiat, vpag te tovg ixaigovg l?.eco,
on oceG&e n D Ttoielv ovdev % OLOvvteg. xal icspt re
xoXireiaS xd vvv xal vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv XiyovxaS re xal
axovovxas apa nara Trjv nopdav rfonjdetiScti. 7tav- tgX 6 9 rj ye
ix KvooGov odds — oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde Apol. S. p. 33.
D. xi ptj avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xi- vds tqjv ixsivcov ,
itaxipaS xal adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoS- T/xovraZ , eiitep vn
ipov xi xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol olxslot, vvv pEpvijdSaz.
TcdvtooS Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lv- xavSoi, ovS iyco opta x.
x. A* Ce- terum convertenda verba DOstra sunt: Wie nun? sagte er, woll-
tcst du mir nicht erzahlen? je- * dcnfalls ist der Weg in die Stadt
gecignet fiir eine gcgenseitige Unterhaltung wiihrcnd dea Geliens.
Picinus habet: apta quidem via est, quae ducit iu urbem, et ad audiendum
pariter et ad dicendum. xovSXoyovSrtEpl ClvxgSy, Nota vim articuli
, quo absente ecnsus existeret hic: Sic igitur inter eundum de his
collocuti eumus. cfr. p. 207* A. xavxa X8 ovv Ttdvta iSldadxi p£ ,
oxoxs nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf nounxo x . A. Addito
articulo sententia haec est: Sic inter eun- dum, quae verba
fecimus, de his Icag av v[ie lg i[ie yyeiti&e
fecimus, cfr. p. 216« C* aAAa di pov dxovdzxxe t aoi opoioS
xi iStiv ols iyco eixa6a avxov xal xrjv Svvapzv , Savpadiav
lx?i h, e. et vim , quae ipsi est, quam admirabilem habet.
ei ovv Sei — xcqieiv . De his verbis vide quae annotata sunt
ad p. 172. A. Docet autem hic locus, qui dilferaut Sei et Xpi}, de
qua differentia verborum jam a Ruckerto est ad h. 1. 'an- notatum.
dei necessitatem ex- primit, XP 1 ? voluntatem necessitati inservientem,
cfr, Aesch. Or. c. Tim. p. 29. 6 vopo^ixijS — aTtadsi^Ev, ovZ XPV
6rjp7jyoptiv xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa dijpoo h. e. Manifesto
legislator declaravit, qui velle debeant coram populo verba facere
et quibus orationem habere non li- ceat. v iC8p
cpv&S co S xalpv* Orta est haec dicendi formula ex
vitEp<pvGjf x a ip°° & Xatptof quod cum non intelligerent ,
qni describendis libris occupati essent, factum est, ut coS saepius
omitteretur. Seusus est totius loci : lam si etiam vobis narran-
dum est, volo equidem, quod feci nuper , idem nunc facere
lubentissime. Namque aeque nunc atque alias sive ipse
instituam, xccxodaifiova slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ
' iyco [dvtot vfiug ovx olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH
ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail yag 6ctv- tov rs xaxt]yoQUs xal rovg
dXl.ovg, xal Soxng fioi aTE%v wg ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv EaxQccrovg,
ano (Savrov aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv tfjv vive
narratos audiam philosophi- cos sermones, praeter quod augeri me
scientia puto» impense etiam laetor» Xprj paxi^x ix gjv.
Stallb.ad h. 1, a Vulgo XPWonrti&v- Illud aptius hoc loco recte
indicavit Fischerns. Praecedit enim n\ov- 61gov.» Recte xpVf £0LTt
StixtaY receperunt editores non satis recta de caussa» Licuisse enim
con- tendo Graecia dicere: ol it\ov- dioi xal XPV paziSxad, ut
Latinis licuit fures ^et malefici dicere , neque dubito , quin lectio
vulgata B. xovS q>i\ov$ xal x ovS itoXtpiovS recipienda sit»
Nostro contra loco, quoniam non de certo quodam hominum genere
sermo est, h. e. de foene- ratoribus, sed homines indicantur quovis
modo lucro inhiantes, XpTJpocTtftiXGov unice verum est. l6ooS
av vpeiZ, Schleierm» convertit: Vielleicht nuo haltet ihr
wieder eurerseits (lafiir, dafs ich iibel daran bin , und ich
glaube, ihr mogt ganz richtig glauben, ich aber glaube es nicht von
euch, sondern weifs es. Oh6Sai> aXtjSf} . o letiSat ( opSd SoZdctsiv)
eldivai, vocabula Socratica sunt, quibus Apollodorus uti videtur
li. 1», ut Socratis discipulum se probet. Ceterum laudaro Plauti
versus lubet petitos c Cas. initio: Clcostr» Face, Chaline,
certiorem me, quid meus me vir velit» Chal. Ille edepol videre
ardentem te extra Portam Metiam, Clcostr. Credo ecastor velle.
Chal, At pol' ego haud credo, sed terto scio. dei o fio io S —
it\r)v 2? X p dtx O v?» Vario modo haec verba ab
interpretibus explicantor. Wolfius Iv pbv yap xoiS XoyotS dictam esse
censuit pro aX \d yap iv xotS \6yoiS . Frustra. Astius convertit:
unde tandem nomen pavixoS acceperis, non perspicio: namque in
dmnibus tuis sermonibus tantum abest, ut pavixoS sis h, e. nimius
et vehemens in laudando, ut et te et alios praeter Socratem
cum acerbitate quadam reprehen- das. Apoll. Et merito pavtxoS a
vobis audio, de me et vobis ita sentiens. Hanc conversionem nemo
probabit. Nam neque usu qno- dam loquendi probatur, pavtxoS
inprimis de laudatorum studiis valere, neque ex kxaipov ver- bis
colligitur satis, pavixov ni- mium in laudando significare. Quid
dicam de responso Apollo- dori , quod ex Astii conversione iit
languidissimum? Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog
xaXiUs&ai, ovx oida sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi'
tiav roi T6 xai zolg aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg. ATIO
A. * Si q>lXzccz£, xai dfjXov ys dij , on ovtw diavoov(iBvog xai xeqi
Ifuctrcov xai x£qI vfuav (ictCvo- (icu xdt xaQaxcaOi nostro loco
meritu. est Ruckertus, qui, cum non posset, quid kratpoS sibi voluerit
his verbis, intelligere, scilicet e codd. ya- haxoS pro jxavixo? in
textum re- cepit. gUnde tandem mollis ap- pellatus sis, equidem non
intel- ligo; in sermonibus enim semper talem te exhibes : et tibi
et aliis succenses praeter Socratem.» Haec ut pugnant cum
sequentibus, ita ut ne pugnare videantur, Riickertus , in verbis Gqlvxqj
re xai roiS aWoif dypicdveiS insaniae la- tentem notionem
deprehendit, ad quam respiciens, quamque augens in maius per
indignationem Apol- lodorus dixerit: o5 <piXtave , xai dfjXoy ye
6rj x. r, A. Artificiosa haec suut, non vera, Neque Plauti
auctoritate nunc movemur, qua uti Riickcrtus potuisset in re sua.
Legitur nimirum in Me- nuechra. Both. Insanit hic quidem, qui
ipse maledicit sibi. Nam tu quidem berclo certo nou sanus
satis, Menaechme, qui nunc ipsns maledicas tibi. 8tallb.,
quoniam Apollodori inge- nium ad morositatem proclive fuerit, etiam
pavixoS de ingepii * tristitia et morositate intelligendum indicat.
Deinde supplendum ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv avTjjy ante
verba iv plv yap totS XoyoiS ael roiovroS ei. Tot- ovroS autem
interpretator /um- xof> tristis et morosus. Ut libere
dicam, quid mihi videatur, Apollodorus et ad tristitiam et ad
hilaritatem propensissimus erat ita, ut sive tristis sive hilaris
suarum rerum modum ha- beret nullum. Nimium ia tristitia
Apollodorum icperimus Pbaed. p, 117. D. in risu atque in maerore
Phaed, p. 59* A. in vitnperio Symp. p. 178* C.etD.» et quo animo
hominem in ma- gistri laude fuisse censes, qui praeter Socratem
omnes mortales infelices indicabat? Ia quo indicio ut ro fjLcrvixov
eluceret magis, Plato dypiaiveiv verbo usus est, quo verbo animi
summa commotio exprimitur. Idem cadit in uvccfipvxqGduevoS parti-
cipium, quod quo exquisitius, eo aptius est ad turbas animi ex-
primendas. Iam patere arbitror, fxavixoS h. 1. neque de immodica
laudo neque de nimia morositate dici , sed de laudis vituperiique
immoderatione. Rectissime autem Stallb, vidit, ante verba iv y\v
yctp roiS A. aliquid supplendum esse. Solet enim yap particula ita
adhiberi , ut sententia quae- dam , quum facile e cogitationum
serie supplere possis, omissa in- dicetur. Stallb. supplendum
censet op^djS 81 doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei /i?} lx rcov
A o- ycov. Totius loci conversio haec est: Immer bist du derselbe,
o Apollodorus, Immer klagst do ET. Ovx a£iov xig l r ovtcav, a
'AxoiioSags, vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov, (itj &iiag
xoi-q- ffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. • AIIOA. r
IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidi- iov d’ UdQZVS v/uv, dff
ixeivog diijyeito, xcd lyw xu- . gadofiat dirjyrjdaa&au , 'dich and die
andern an, and scheinst mir ohne weiteres, aufser Socrates, alie
fur ungliickselig za halten , indem da mit dir selbst den Anfang
maclist. Und woher da in aller Wclt den Beinamen da hast, dafs man
dich den Toll- kopf netfnt, das weifs ich nicht, Ermufstedenn aut
deinen Aeufse- rungeu herstammcn. In diesen zeigst da dich wirklich
so; da ziirnst dir and den andern, und zollst allein dem Socrates
ein unmafsiges Lob. o3 (piXtate — 7tapa • naico. His
verbis, quae de f ia - vi xoS nomine annotavimus, con- firmari
videntur perpulere. 'Ezcu~ poS nimirum cum non nisi to jaclyihoS
xaXiitiSai commemoras se t, consueta vehementia usus Apollodorus paivopat xal
7ta- paitaioa dixit. Haec verba optime transtnlit summus Schleierm.
: 0 Liebster, so ist es jaklar, wenn ich so denke von mir und
euch, dafs ich toll bin and von Sumen. Inest tamen aliqaid his verbis,
quod male me habet. Nimirum amicas dixit: E dictis tuis illud
cognomen ortum est, aut eius originem et caussam ignoro. Ad haec
verba nnm quadrare tibi videtor Apollodori responsum? Quid quaeris
? res acta est scilicet, saevio et mente captus sum. Si quid
vi- deo, ol pavixoi at exaggerant res, ita rixari amant, ad utrum-
que nutura ducente. Ad rixas autem se compos^js se Apollodorum etiam
verba amici docent: ovx a£>iov nepl tovtgdv, 'AtcoXXo- ScopE,
vvv ipi&iv. Quid mul- tis? Posito post napaitaico signo
interrogandi verba convertenda sunt: O Liebster, ist es denn
nqn schon so ausgemacht, da fs ich toll bin und von Sinnen,
wenn ich so denke uber mich and euch? toioiSs rivi?,
Additur indefinitum pronomen, ut indi- cetur, sermones non verbo
tenus ab Apollodoro referri. Recte Stallb. ferehuinsmodi convertit.
Sic paullo infra p. 174. D. roiavt arra <5q>dS i(p7j
SioXexSev- ra? Uvau Schleierm.: so ohn- geflihr ... Adde A.
Ad- yov roiovtov rivo? xatdpxEtv. p. 180. C. &ai8pov fikv roiov
- rov riva Xoyov £q>rj eItceIv . MaXXov 8i eius est, qui
ipse se corrigit. Habet Ficinus ; immo vero a principio eodem
ordine, quo Aristodemus retulit, vobis ipse nunc recensere conabor,
cfr. p. 188. D. ovra. ) jroAA?/V xal fiiEyctXrjv , fi.aXXov 8h
nd6av Svva/nv x. t . A. adde p. 193. E. Vva xal rd>v X oixcov
dxov- dajjiev ti ExaCroS ipely pdXXov 8h rt kxdtspo ? * UydSGor
yap xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. p. 194. A. si 8h yivoio , ov vvv
iyoo tlpiy yaXXov 81 i'8a>? ov Stio/iai x t r. A.*Eqsr) yuQ of
ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts xal tag (Skavrag vxoSeSefdvov , a
Ixtivog bliydxig biolti, Mul iQt6%cu avrov, onoi fot ovta xcdbg
yByEvrjiiivog. xai rbv datlv , oti 'Em, delavov dg 'Aya&covog.
yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig , ipofirj^ilg rbv Zyhov'
6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,. tavta $ij $q>7)
yup ol Scoxpatif, E nostra cogitandi ratione verba si spectas,
scriptam exspectaveris : lepr) yap 2cDxpdt£i Ivtvx&v. Illud
genus dicendi ex objectivitate enatum est, qua pro ingenio suo Graeci
utebantur in narratione. Eo autem efficitur dicendi genere, ut
Socratis loti calceisque ornati imago oculis obversans lectorum, ut
Apollodoro , ita quaestionem moveat lectori l oitoi tot ovtgj xaXoi
yeyevTjplvoS. Sexcenties hoc dicendi genus reperias apud Graecos
scriptores, unum exem- plum ut laudem, cfr. p. 174. E. ol phy yap
evSvf nalSa riva SvdoSev ditavzr\6avta ayetv n. t .A.
taS fiXavt a£. Schol. ha- bet : v4t o 8r} par a.ol fiXav-
tia, 6av8dXuz l6xvd. Satis no- tura est, Socratem perraro cal- ceis
usum esse, id quod nostro loeo colligitur e verbis a ix£i- voS
oXiyaxiS iitoiet. Quod raro fecit Socrates, ut calceis uteretur,
idem Aristodemus nunquam fe- cisse perhibetur p. 173. B. *Api-
StoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i dpixpof, dvvxo Srjt oS a e i. X^^S
yap avrov 8 iir tpvyov . De 8iacp£vy£iv verbi potestate vide quae
annotata sunt ad p. 7* Ceterum brevius qui- dem Socrates loquitar,
non item obscurius. Sententiarum ordo haec est: Iam
heriAgatho me vocavit, sed non im- petravit a me,
utfaoe- rem, quod juberet. Odiosa enim erat concitatiorum
hominum turba strepens. Promisi autem ei hodie ad coenam,
tavta 8i } ixaXXcon rt- daprjv. Rostius V. Cl. %d verba
ixaXXoDTtiddprjv , Iva — £g a an- notat: ornavi me (et nunc orna
tns sura) ut accedam. Vide Stallb. ad Piat de rep. V. p. 472. C.,
qui laudat Rost. Gramm. §. 122. not 4. b. Herm. ad Viger. p 850.
Buttra. 126. i. Tavta 8ij interpretes positum esse censent pro 8ia
tavta 8 t} } de quo usu loqueudi vid. Matth. Gramm. pl. §. 470. 7.
p. 873* Rectius opinor, tavta de ornatu intelli- gitar, ut verba
convertenda sint: Hoc igitur, quem miraris {ovta» xaXof
y£y£vr/p£vo$), ornata or- navi me et nunc ornatus sum, ut pulcher
ad pulcrum accedam, Si dictam esset supra ortoi for VJ/- pepov
ovteo xctXoS ysyevTjp^- voS, unice probaremus iuncturam hanc:
promisi autem ei hodie ad coenam, atque eius rei gratia ornavi mo
cet. TtpoS t 6 i$&\eiv dv livai a Stephani hanc
emendationem, inquit Riickertns, li- brorum lectionis aviivai a
Bek- kero, Dindorho, Astio, Sommero, Stallbanmio receptam,
admodnm dubitanter retinui. Quod enim in sequentibus simpl, Uvat po-
9 ixaXAaxiodfitjv, ivu xaXog xaga xakov ia. t?A<la Ov, tj
6’ og, ntUs H £l S XQog t 6 l&iXuv dv livai axhytog Ixl B Sslnvov}
Kciyco, Itpr}, th tov, ori Ovrag, Sxwg dv Ov xtfav]jg. "Ex ov rolvw,
fqpi?, Ivu jc «1 rtjV xagoifilav Siarp&dgafttv (itra^dXXovrtg , ag
aga xal dya&iov liti Saltas laOiv avtoparoi aya&ot.
"0(irjgog (itv ydg xiv- sitom *st, «t eo non «equitor, ut
etiam h* 1. debeat. Imino si locus, e quo Socrates cum Arislo- demo
profecturus erat, inferior fuit quam is, ubi Agatho habitabat, nonne tum
primo loco poni licuit aviivai , sufficiebat in seqq, simplex
verbum?» , Hia verbis contra eos dispotatum est rectissime, qui e
sequentibus { a6iv et Urat de dv levat iu- dicarunt. Atqpe sic Stallb.
iu- dicasse miror annotantem: Codd. et vett. editiones omnes £$i\eiv
aviivai, quod de Stepbani contectura mutavimus praeeunte Astio et
Bekkcro, JSimirum sequitur deinde la6iv et livai de ea- dem re
dictum . Caecutiisse videntur interpretes, ubi scriptor verborum
positu studiose fecit, nt clare videre potuissent, *Enl deinvov et
ad livai pertinet et ad axXrjXot) nam ut xaXeiv ini deinvov recte
dicitur, ita axXrj- tot ini deinvov he ne habet; rursum livai arctius cum
dxXrjxot coniungendum est, et est in hac coniunctione enuntiati
acumen. Verba convertenda sunt: Konn- test du dich wohl
entschliessen, obgleich uneingeladen, doch zu kommen zum
Gast- tnahl. lam concedamus necesse est Riickerto , aviivai ini
deinvov recte dici, si in altiore loco Aga- thonis domicilium fuisse
constaret, non recte dici aviivai axXrj- xot Ruckerti aequitas
concedet nobis, cfr. p. 174.C. axXrjxov inoirjdev i X 5 d v
x a tov Mevi- Xeoav ini xrjv Soivrjv, ubi rur- sum indicare licet e
posito ver- borum de scriptoris voluntate. Adde p. 174. D. iyoo
plv ovx dpoXoyrj6cn axXrjxot tj x e i v , aXX' vno 6ov
xexXr^- pivot. Ceterum ndot Mystt npdt x 6 iSiXeiv dv verba
respondent nostratium: Wie steht es bei dir mit der Lust ... pro
Hattest du wohl Lust .... cfr. p. 176. B. diopat vpcov dxovdai ,
nd)S fet npds td ipfi&dSai niveiv 'AyaS gjv. Iva xal tijv
napoipiav pex aftaXXovx et» Socra- tes haud raro poetarum
versus immutabat, ut mutati contrariam sententiam funderent.
Tangit liuuc morem Appulei. Flor, p. 6. ed. I. Bosschae: Nec ista
re cum Plautino milite congruebat, qui ita ait: Pluris
est oculatus testis unus, quam auriti decem. Itnmo enimvero hunc
versum ille (sc. Socrates) ad examinan- dum homines
converteret: Pluris est auritus testis unus, quam oculati
decem. Editores fere omnes e codd plurimorum auctoritate
pexaftaXov- tet receperunt. Praetulit pexa- paXXovxet Bastius, quod
et codd, nonnulli iique melioris notae ex- hibent. Couveitit Stallb.
mutatione corrumpamus , participio in 2 dvvivst ov (iovov duttp&eipcu
9 aXXa scccl vpQldat e!$ tavvfjv rijv rcaqoiplav. noirjdccg rov
'Aytqdpvova C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa substantivum
converso, quo sub- stantivo temporum discrimen ve- latur. Unice
rectum est pxxctfiaX- XovteS. Nam qui mutat, eo ipso, quod mutat,
proverbium corrumpit. Vides igitur, 'eiusdem actionis esse et
6ia<p$sipe iv et fterapdXXetv, cuius actionis et obiectum et ef-
fectus h.l. commemorantur. Hoc autem videtur doctis viris' fraudi
fuisse, ut putarent, de duplice actione, quae temporis discrimen in
se susciperet, Platonem egisse, eo £ dpa xal dyaScvv. Schol. ad
hnnc locnm : avtopa- rot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini dcn- raS la6iv.
xavxtjv 81 X iyovdir tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$ ott kfStidovto ro3
Kj/vxi £,lvoi iniCxrj* KpaxtvoS 81 iv IJvXcda jiEtaX* Xti%a$ avTtjv
ypdtpti ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6 itaXaioS A J- yot, avxopdxovS
aya&ovS Uvai xoptpdjv ini douxa 3 eaxav . xal EvnoXiS iv
Xpvtitk 3 yivtu E schol. verbis facile colligitur, vario modo hoc
proverbium im- mutatum fuisse a Graecis, vid, Athen. Cal, De
primaria autem proverbii forma, quam Schol. indicat, Schleierm. haec
disputat in den Anmerk. zur Uebers. Eiu sonderbarer Gedanke ist es
von* dem Scho- liasten, dass er uns an das zweite Spriichwort des
Athenaeos ver- weiset, welches von Tapfern und Feigherzigen handelt
(aya$ol SeiXgov), wahrscheinlich in dem kriegerischen oder
feindseligen Sinn, dass dic Tapfern ungeladen erscheinen und, die
Feigherzigen vertreibend, sich selbst an die ra
scoXffUxa , xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern So- crates meint
aya$o\ dyaSajv ini Scuraf, und aagt nor acherz- vreise, sic wollten
es durch eias Umdrehung eiumal verderben, iu- dem sie niimlich den
Agathon und seine Gnate ayc&ovf nann- ten. .... Der Homerische
Fall lrisst sich auf das ayaSot ini 8 e iXoHv gar nicht anwenden,
weil, wenn nur eine Anwendung uber- haupt da sein soli,
Agamemnon rousste ein 8nXoS sein. Sondern «ras Socrates dem Homer
vor- wirft, ist, dass er auf das Spruch- wort, ais sei es alter,
anspielend den Menelaus einen ayaSoG nenn». Haec subtilius, quam
verius disputata sunt. Primaria proverbii forma ea est, quam Scholiasta laudat,
quae quomodo mutata sit et ab Homero et a Platone, iam videamus. Nam
etiam ii interpretes, qui Schol. formam ut primariam proverbii agnoscunt, de
mutationis et corruptionis ratione male indicarunt. Legitur apud
Homer. II. /5, 408. ctvxoparoS di oi ?/A3« floTjv ayaSoZ MtviXaoS,
de quibus verbis Plato ita videtur iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce
non virtute fortem interpretaretur, idqne verbis ayaSov ra jCoXejxixa ac.
ipya opponeret. Assumto deinde Apollinis iudicio, quod legitor II. p f
588., aperte eloquitur! ignavum ad fortem accessisse &xX rjxov
h. e. invocatum. Proverbii primitiva forma si est, nt diximus,
avxopocxot 8 9 ciya - 3oI8£iAcJt' ini daitai iadtv, facillime
agnoscas licet homcricae hov fia}.9axov alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov
xret tOruov- rog tov 'styafisfivovos axhjxov ixolrjatv IX&ovxu rbv
Mt- veltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov « yeivovog.
poeaeoa superbiam , qaae iisdem verbis eodemqne usa verborum ordine
sententiae innocentiam ita pervertit , nt proverbium audiat :
avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi ini Saltat ladiv* Iam quod Homerus
fecit, idem licere sibi, ut proverbium corrumperet, Socrates putabat,
Neqae tamen pro SeiXdiv, quod in primitiva pro- verbii forma
legitur, ad Agatho- nis nomen alludens dyaSdir scripsit, ut Stallbauraium
judi- cantem video, — r forma enim proverbii elficeretur haec:
avto- patoi 6* ayaSoi dya^av, qui verborum ordo non reperitur
nostro loco, neqae xai part., ut Riickert. censet, hoins muta-
tionis indicium facit, — pertinet enim vocula ad totam enuntiatio-
nem, eoius exemplum habes Symp. p. 193, C, ei Se rotiro ctpt6tov t
dvayxalov xai zcov vvv nap- orroor ro xovxov iyyvtdtca dptdxov
elvai. Adde p. 206, A. dtp ovr, iq>rj , xai ov povor elvai ,
aXXa xai dei elvat , — sed Homericum SetXoi in ayaSoi mutavit,
minus, ut videtur, Aga- thonis nomen (dyaSdiv), quam Aristodemi
laudem (ayaSol ) respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv dyaSol 'ini Saltat
fadtr. Comprobatur haec explicatio no- stra perpulere Aristodemi
mo- destissimo responso : IdoDt pivrot xirdi ryevdod xai iy o>
ovx tiv Xiytit , <w 2oSxpaxet, aXXa xa%’ "Oprfpov cpavXo t
oSv ini dotpov avSpot Urat SoirrjY dxXrjto t, Ceterum ad Homericam
illam proverbii corruptionem, non ad primariam formam eius Socratem a.
Platonem respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est apud
Pla- touem. Homerum enim ex avro- paxoi 6’ ayaSoi SeiXcov
fecisse consentaneum est: avxopaxot 5* dyaSdiv SeiXoL nihil
mutata verborum sede, et tamen mntata sede subiecti. Iam servato,
qni apud Homerum est, verborum or- dine Plato scripsit:
dyaSwr avxopaxot aya~ fiaXZaxov alxjiTfTijr. Fortem et
strenuum bellatorem Menelaum fuisse, e multis Homeri locis colligitur.
Semel apud eundem vocatur paXSaxot alxprjr/fS II. p f v. 588., ad quem
locum Platonem respexisse multi fuere, qui annotarunt. Utitor autem
il- lis verbis deus Graecis infestus atque rerum bellicarum
minus peritus, Apollo, non, ut ignaviam Menelai notaret , sed
Hectoris euimurn nt excitaret et augeret. Si displicet igitar, quam
supra commemoravimus, malitiosa fiotjY aya$ot verborum
interpretatio, (licere autem interdum poetarum versiculos psr iocum
falso interpretari, quis negabit}: quibas tamen displiceat, iis dictum
esto: Menelaum paXSctXOY appellari, ut Agamemnone inferior, non
ut' ignavus ffcisse indicetur Quid, quod Aristodemus paullo infra
dicit p. 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~ yevdco — cpavXot axv ini
6o<pov dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot, num revera hominem
nequam 2 • Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]' *I<Stas pivtot
xivSwivOu xal iyd ov% ag 6v Xtynq , a ZdxQare g, aXla xo&’
" OfiijQOV , tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai tooivrjv D
KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev ox>x
b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd- foisse
putas, aot ita moratum, ut qui ipse tpavXov se esse confi- teretur?
Si quid video, nihil aliud indicare Aristodemus voluit addita
tpavXoS vocula, quara se cum Agathonis sapientia comparatum Agathene
inferiorem esse. ovv aytov pe naxo- Xoyrjdei; Verba
difficillima sunt ad explicandum. Faciendum igitur est, ut,
antequam senten- tiam qualemcunque nostram ape- riamus, quid alii
de hoc loco consuerint, videamus. Levissima accentus mutatione
Astius scribendam coniecit : dp* ovv aytov pe ti aitoXoyjfdei. Sed
duplex interrogatio ab hoc loco alienissima videtur. Creuzer. Leet.
Piat, ad Plotin. de pulcritud. p. 5l8. ay aytov coniecit, quod
saepis- sime scribarum incuria in ayccv mutatum reperies. Ea
coniectura Stallbaumio probatur, qui verba convertit: Nam igitur aliqua
ra- tione excusare poteris, quod me adduxeris? Addit autem,
non quaerere Aristodemum, ecquam h abiturus sit excusatio-
nem, dum ipsum adducat, sed num futurum sit, ut possit excusari
aliquo modo, quum ipsum ad epulas secura duxerit* Non male. Nihil
coniectura opus est. Ut rectius verba intelligantur, ab Aristodemi
responso exordiendum est, quod legitor p. 174. B. ovttoS ( sc.
2x?> ) OTttoS av Cv neXevys h, e. ibo, manebo, prout iusseris.
Haee eo consilio di- cuntur, ut Aristodemus, quod in- vocatus
veuisset, a nemine pos- set, utpote qui vocatus esset a Socrate,
rusticitatis accusari. Socrates contra, ut. hominem ad suscipiendum
iter dulcedine quadam pelliceret simulque itineris suscepti excusationem
a se amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si placet, Agathoui , quod
Homerus fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6* dyaSok o
6eiX<uv ln\ daitaS iadiv, idem te experiri voluisse, atque eius
rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas venisse avto patov d y a- 3 6 v.
Aristodemus autem quum vereretur, ne q>ax>XoS potius ad
normam Homerici proverbii, quam dyc&oS ad Agothonem profectu-
rus sit, a Socratica proverbii mu- tatione adventus excusationem
petitum iri negat, atque iturum se fastidit, nisi a Socrate vocatus esse
dicatur. Iam quo faci- lius hominis animam obfirmatum perspicias,
aytov scriptum est non ay aytov in interrogatione, quam nunc
interpretaturi sumus. Nimirum praesentis temporis participium eam vim
habet, ut de Socratis actione intelligendom simul Aristodemi voluntatem
in- volvat manifesto: ei ayoiS pe. Sensus est : Wenn i c h
mich von dir fiihren lasse d wollte. Spreta autem dulcedine illa,
quae in Socratica pro- verbii mutatione continetur, et vog. £vv te dv
, iq)tj y Iq%ou.Ivg3 , tcqo 6 tov fiovXev- dujlt&u 0 XI
iQOVptV. ctiX t&piV. Toiavx arra (Upccg Itptj dtalex^tvvccg
livai. tov ovv ZkoxQUxrj iatrup it&g stQogtyovzct tov vovv
xccra ti/v o6ov itoQEvsti&cci VTtoteizopevov , xal
stEg^aivovtog qua dicitur ad bonam accedere invocatus
ayaSof, aliam iam exigit excusationem uon sibi, quod accesserit
invocatus, sed Socrati, quod se vocaverit* Haec verborum explicatio
sequentibus verbis perpulere probari videtur. Schleierm. convertit:
Wirst da inich also uuch etwas entschul- digeu, weun du mich
einfiihrst? Rectior verborum conversio haec est ; Num ig>tur, si
duci me a te patiar , aliud quid habes , quo possis to, quod me
vocave- ris, excusare? Quod ad me, ovx dpo\oyi} 6 a) anArjxoi
?jxttr, aXX viro 6 ov H&HXrjfJL&voS. — Tl pro rl aXXo
positum reperies haud *aro upud scriptores Graecos, cfr. Piat, de
rep. I. p. 8S2. C. atXXd t i oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu
censes Mallem tamen b. 1. legere olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit.
p. 50. C. cap. XI. fin., ad quem locum Stallb. laudat Lanib. Dos.
de Ellips, p. 27. ed. Schaef. Ut unum locum o Latinis scriptoribus
laudem, apud Terent, legitor Heuut. Act. I. 8c. L v. 17« Nunquam
tam mane egredior, neque tam vesperi domum revertor^ quin to in fundo
conspicer fo- dere aut arare ant aliquid fa- cere denique,
<jvr tl 8 v, seqq. An- notat Stallb. ad h. 1.2 a
Alludit ad II. X. v* 224.," unde suum hausit Ruckertus
scribens satis negligenter: Hom. II. x • 224. Pro Xpo o tov ,
qua^iFischeri confectura est, libri exhibent ad unum omnes itpo ddov
, 'O tov antiquitus disiunctim scriptum cui% seriore tempore
coniunctim, ut lit, ederetur, ad mutationem aapte figura pellexit.
Ceterum Xpo o tov nou debebat Stallb. convertere alter altero
me- lius. Socrates controversiae per- taesus, et sibi et Aristodemo
ex- cusatione opus esse concedit. 'Sibi, quod invitaverit, illi,
quod audiens luerit vocauti. Sensbs est: In- ter eundum tu milii,
ego tibi, quid otrique dicen- dum sit, prospiciamus.
naxa xijv o 8 o'v iro- ptvEoSai. Habet Ficinus: Socratem
cogitabundum lento nimis passu gra- die ntem exspectasse sae-
pius, tandem iussisse So- cratem, ut praeiret. Enar- ratio haec
est, non conversio verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit,
mecumj& ^a\ suspicabitur fortasse, Graecira po -3 verbis oliro
infuisse, quod O r/J ce uti orum cura sublatum, magna»? ;&
££ molestias Ficino excitaverit. i it e 181 } Sh y evs 6
$ Stephanus iyiveto scribendum coniecit, Wolf. do ellipsi 6
vvi{Stt verbi cogitavit. Ut irttidr? — yevidSai, ita panllo infra
ei&vf 8 * ovr &>> I 6 etv. Haec structura virtus
admirabilis est Graecae orationis, qna efticitur h. 1., ut et de
prioris narratoris vivaci- ^ tato, et de alterius narratoris
• >* ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds yt-
vlo&ai hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xata- E Xafi flavetv
xrjv &vqciv , xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov na- ftuv. ol (llv yag
tvdvg naiSa uva IvSo&cv dzavti/- fide, aliena, non sun,
exhibentis, lector admoneatur. Exempla huius structurae plurima
iuterpp. ad li I. laudant v. c. Piat, de rep. X. p. 617 . D. d (paS
ovv , iiteidi/ d<prx£d^ai , ev$vS 6elv ikrai itpds ttjv Aaxtdiv.
p. 619. C., p. 620. D , p. 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione
infinitivi imperfecti 'et aoristi al- ternant ita, ut aoristicum
tempus actiones momentaneas , imperfectum durantes actiones
denotet. ol p$v ydp. lloc legitur in Bodl. aliisque codd. non
paucis. Inceptae stmeturae potestatem, de qua modo dictum est
ad ijteidt } — yivkdScti , misere tur- bant rov plv verba , quae
olitn pro ol yiev edebantm. Facere autem non potnit Apollodorus,
ut, cum Aristodemum paullo ante lo- quentem induxisset, nunc
desub- Ito ipse in sc reciperet illius orationem, id qnod X 6 V
piv scriptura efficitor. Recte igitur editores ol piv Platoui
vindicarunt, quod et Photius praebet in Lex. s. v. ol. Habet enim:
ol itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr dZvTuvcoZ di ouroz*
dvpTtodiov ol plv ydp ev S vS itaibd riva luv ivSor (?)
ujTocvtijdetvta. xal xaxaXapfidvetv. tToc loco ne quis cum
Ruckerto arbitretur, quod in antecedente orationis membro obiectum
sit, Sn hoc subiectum esse yiaraXap- ftdvsiv verbi : aytiv abso1ute
positum eat. Structura verborum haec est. ?.<prj — ol ditavxj)-
riavTa — «ruida dytiv , h. e : dixit, puerum, qui obviam
venis- set sibi, ducem fuisse udeurn locum, ubi ceteri
cousedissent, et £<prj xaTaXapfidveiv t/Stj p. — Ceterum
solebant Graeci verbi transitivi infinitivo, qui idem snblectum
habeat, atque verbum fiu tum, e quo peudet, subiectum nou addere ea
fortasse de caussa, nc dupliciter posito accusativo (subiecti et obiecti)
ambiguitas oriretur sententiae, atque ut facilius obiectum aguosceretur.
cfr. Enrip. Piioeu. v. SI. TCudiv ittUtoi TEhiir, ubi non addi
potest pro- nomen personale, quiu ambigui- tatem sententiae
efficiat. Huius loquendi normae adeo severi ar- bitri Graeci eraut,
ut ne in in- transitivis quidem verbis, quae e dicendi verbis
penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo oddi paterentur. Ubi
autem pro- nomen ponendam erat necessario, ut in Piat. Parra, p.
127. 1). nominativum posuerunt, nou ac- cusativum : .at>roV re
ETteifeXStir $<prj o IloSodupoS xal rov ILxppevlSrfy.
evSvS 6* ovv. Mtv et 6e particulae ita plerumque adhiberi
soleut, ut duorum verborum, qui- bus apponantur, mutuum relatio-
nem iudiccnt. Relatio haec esse liequit nisi inter verba, quae
suapte natura possont alterum ad alterum referri. Adhibentur
itaqne, ubi nomen nomini, verbum verbo, particula particulae
respondet. Igitur nostro loco scriptum ex- spectaveris , quoniam ol
vocuU nominis» proprii locum obtinet xrMnozioM.
23 ilavxa cfyuv au xaxixuvxa oi aMoi, xai xutakaujia vuw
y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’ ovv tog Iduv tov
’Jya&a)va , tpctvcu, '^iQiaxuSyfis , elg xa/.ov yxeig, Zlxeog
evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa yX&ig, ei ulv — xur Si 'AyaSava. De- Ilex isse
autem scriptor a consueto harum particularum usu videtur, quod
enuntiatio itu conformanda «rut, ut non solum ol responde- ret
sequenti xdv 'AyaSuvct , sed «tiam evSvS ad sequens tv$vS referretur.
Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scri- ptor potuit, revera
exprimere non potuit. Scripsit itaque ol pkv — U'3 vS 6£. Sed
quoniam hac di- «endi ratione nou sublata quidem et prorsus deleta
, sed turbata tamen atque imminuta est vis relationis utriusque ol
pty — roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr r— tvZvS 6£l ne singula
totius «•nuntiati membra dissoluta vide- rentur, OVY particulam
scriptor adiecit, quae ut contiouandi par- t cula est, ita
membrorum hiatum explet commodissime. Simili ra- tione scriptum
reperies Apol. 8ocr. init, ott p\v vpeif , oj avSpeS ’A$7/vatoi ,
xexovSaxs vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh ol6a * £ y o> 6’ ovv
xat avxo$ xnt auioov oXiyov ipaviov £xe- AxxSopJfy. Qno loco non
vptlS ptr — £yoj 8£ Plato scripsit, quod inceptae enuntiationis
ratio «tiam o xt ptv — dsivotaxor 8t flagitabat. OvY priori
particulae additum reperies Symp. p. 176. B. £y co plv ovy \£yoo
vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfAe- *rcJf 1'xo* vxo x ov xoxov y*
a$ 6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS «roAAoirf, quo loco
chiasmi ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis reperitur, iyoo non
ad A iyes docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj re- ferendum esse. interdum
ovy particula omittitur in hoo dicendi genere de industria, ut re-
pugnantia quaedam voluutatis ex- primatur, verboruraque relatio
minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst Ixc Jy atxovxl
ye Sv/igj. E.g. Piat. Ep. VII. p. $25. A. TtaXiv 61 fi p a 8 v x ep
ov plv,El\x8 8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv xd xoiva
>t<x\ noXixixd txiSv- pla. Adde Soph. Oed. C. v. 521.
i/YEyxoY xax6xax\ (u B,ivot, ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo,
xovxgjy 6 * avSaipETOv ovStr , quo loco Reisig. axojy pav scri-
bendum couiccit, Dubito, unm rect'. Pessime autem alii docuerunt,
supplendam esse post ukgov ptr — IxaJy 6k oi/. Ceterum huius
structurae exempla permulta rc- periuntur, quibus ellectura est, ut
scribae interdum 8 * ovy pone- rent, ubi y ovy a Platone exhi-
bitum est. E is xaXov 7/ X EI S , d X G0> 6vy 6et7tY i/
6y$. Fortasse e Dawesiana illa lege , quae cum couiunctivo aor. I.
vetat oXgjS couiungi , Bekk. v* tivvSet- XYt/dEiS coi
rexerunt. Frustra. Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulga- tum dx
coS 6vv8ti7tvrj6ff> mutari, non quo coniunctivum aoristi primi
soloecum putaverim, quae fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed
quod luturum rei ipsi m a g i s accommodatum •sso videbAter.
Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov ' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va
xctAa- dccifu , oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc IkaxQcctr] 7j(iiv icdig
ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj fisra<5TQEq)6pEvog , — ovdafiov uqcS
UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv , ott xal avtog Utra UcoTCQatovg
ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq Ini cohortationem
Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque indi- cat, Agathonem
persuasum habere, hoc ab eo factum iri. Nam in invitandi formulis
Qraeci sempcr post O7CG0S iuferuut futurum tempus, nunquam
coniunctivum aoristi. — Scripsit autem V, D. elS xaXov fjxetS*
oxqjS 6vr- &£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac verborum
disjunctione, ut Agatho, ceteroquiu homo elegantissimus, parum
honeste nunc egisse vi- deatur. E Stullb. sententia con- vertenda
sunt Agathonis verba: Schon, dass du gekommen bistj •peise nun mit!
Hoc non tam est vocare aliquem ad coenum, quam exprobrare alicui
tecte ad- ventus temeritatem; quasi non per se intelligatur, eum,
qui ad- venerit, una couvivari. Rectior explicatio haec est : Du
kdmmst gerade noch zur rechteu Zeit, um mit uua zu essen: hoo
modo praeposterae invitationis odiosa commemoratio vitatur
fe- liciter et rectius simul verba explicantur : Hi xaXov rjxeiS. Sci-
das habet: ds xaXov ' evxaipaS. Recte, cjS xal
Urbanitatem Agathonia ex his verbis coguoscas licet. Sensus eat: Si
alius, rei gratia huc profectu» es, in posterum di f fer;
idem enim et ego facere coactus eram heri, cum te quaereiem, ad
epulas ut‘lnvitarera, te nusquam terrarum conspiciens.
ovx olo S t ij 18 eir. Stallb. addito verbo nullo f\Y edidit,
quae vulgata lectio est , pro rf . Acute Ruckertus: confirmare V
lectionem videntur etiam libri i»» qui plane omittunt verbum,
quod fieri non potuisset, nisi v abes- set, ut interire rf in
sequente r posset. Vide quae annotata sunt ad p. 9.
dXXa Swxpdtij — &yeiS, Rogat propterea, quod scit, eum
semper cum Socrate esse, R iickert Vide ad p. 173. B. quae annotata sunt.
Ut illic ex epi- thetis, ita h. 1. ex Agathonis interrogatione colligere
licet, Aristodemum Socrati amicissimum fuisse, xal
lyv,l<prj fieradt pe- <pu pevoS, X, t. A. Comma po- tu i mas
post peraCfpetpoperoS , delevimus, quod in omnibus edi* tionibus
exstat, post i<prf , quo deleto sententiae vigorem auctum
habebis, et errorem Aristodemi descriptum vividius. Sensus est :
uud ich , sagte er sich mndre- hend, / — sehe nirgends den So-
crates mir folgen. Si qui snnt, qui post Hqtff interpurfetionem
flagiteut , /iiprjpacToS gratissimi severi osores , non
repugnabimus quidem: hoc certam est tameu, nostra interpunctione
lepidiorem Ari»todemi orationem fieri. Ce- teium lineolam post pe%adtpe<po-
ETMI10EI0N. 25 dst Jtvov. Kctliog y' , %<p?l
, nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv ovzog ; — “Om6&bv ifiov &q
n dgyu. alXa ticcuud^a xal avxbg xov av eti]. — Ov axitpu, H<pr),
itai, cpcivai 175 zbv 'Ayaftava , xal tlga^BiS Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’
os, 'AQiazvdrftis , 7ta(j 'Eov&tiaxov xaxaxllvov. peroS
ponendam cnra?imns, nam per aposiopeain xal iyco verba posita sunt.
Dicturus nimirum' Aristodemus erat: xal iyoo ijxco avxoS pera
ScaxpdxovS , converso autem ipsi inter loquendum, quoniam Socrates nusquam
comparebat, prae stupore lingua hae- sit* Paullo post animo
resumto, ut orationem interruptam expleret , xal iyco repetit ita :
ehtov ovv , oxi. xal avxoS //era 2co~ xpaxovS rjxoipi h e. :
ich sagte nun, dass ich ja anch gekouimen ware, ich
rait Socrates* Male Stallb,, quem Riickertus secutus est, xal
avxoS verba arctius coniun- genda censet atque convertenda : dass
ich j a e b e n mit dem So- trates gekommen ware. Ceterum aikxo-S
pexa 2arxpaxovS h. 1. dicitur, ut sexcenties alias v* c. in Xeuoph.
H* Gr. 2. 2. 17. scriptum legitur: psxaxavxa ypi$Tf npedfievxtjs is
Aaxedatpova avxoxpdxcapfd exaxoS avxoS. Numerus ordinalis, quem
vocant, StvxEpoS nou additus est nostro )oco , quod addito Socratis
no- mine plane otiosus erat atque inutilis. xXijSelS
vit ixeivov . Facit Aristodemus, quod facturum se esse indicaver.it
p. 174. D. ooS iyoj phv ovy opoXoyijdta dxXrjxoS ijxeiv dXXd
vito do v xexXrj pkv oS. xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov dv
* aXXa x. r. A. Octo Bekkeri codd. yi omittunt; qnf qno sunt
melioris notae, co studiosiores editores in expungenda purticula
fuerunt. Fi particulam Platoni restituit doctissimus Stallb., quem
Riickertus secutus est, motus Uterqne constanti usu yi parti- culae
in hac dicendi formula apud Platonem. Lundat Stallb. ad h. 1.
Charmid. p. 156. A. xa- AcSff ye dv , ipr 8* iyoS , ir otior.
Hipp. M. iuit. xaXcoS ye dv — voplZoov. Lnchet. p. 192. B.
op-\ &<oS ye dv X iyajv. Theaet. p. 181 . , D. o
p$coS ye XeycjY. Lysid, p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f itoiovrxeS
, quibus adde si pla- cet exemplorum congeriem, quam addidit
Riickertus in edit. Symp, p. 17* Convertenda verba sunt: Bene
quidem, inquit, fa- ctam a te, sed abigentium est ille? xal
avtoS. Addito xal iu- dicatur, magnopere mirari etiam Agathonem (
aXXd nov edxtr OVXOS ;") absentiam Socratis, Mi- nus igitur
placet, quod in uno cod. Paris, legitur aAAa xal $avpd$a>, neqne
videre possum, cur id in textum receperint Astius et Reyuders. .
Ficinus habet . * quare ipse qnoque miror, nt eundem legisse
suspiceris < aXXd xal avxoS SabpaZ co-, quod cum correxisset ,
serior manna xal avxoS ponendo post Sav- paZa> f factum est
fortasse, ut 4 xal remaneret ante $avpd?,ca. ov dxllf>€l.
Futurum cum Cap. III. Ka\ 2 fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa , T va
xaxa- xloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv dyyUkovta,
negatione iu interrogationibus ad- hiberi solet liaud raro pro im-
perativo, Potest adiuncta esse huic dicendi formulae indignatio-
liis* irae, clementiae notio, prout verba pronuntiaveris.
Servitutem clementem apnd Agathonem fuisse servis, verba docent p,
175» B. itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov - XrfOSe, iytstdctr ns
vuir MV ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs iirobj6a et q. sqq. Verba
con- vertenda sunt igitur nostri loci: Wil 1 s t du nicbt einmal
nachseheu, •agte er , habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren
? xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii cprrectio praeclara
scriptnrae Vul- gatae xa\ ifif, quam hodie nemo explicabilem indicabit.
Probatur his verbis , quod supra annota- vimus p. 22., ad evitandam
ambiguitatem Graecos per- sonale pronomen omittere solere In
transitivorum verborum infi- nitivis, qui e dicendi verbis peu-
deant idemque, atque illa, sub- lectum habeant. Efficitur autem hae
loquendi norma h, 1. , ut puer Aristodemum abluisse dica- tur, non
vice versa puerum Ari- stodemus, quod Graece audiret; xal leprj
axorifieir ?ov Konda. Puerum li e. servum quod attinet ; fitallb.
toV itaidct videlicet, inquit, quem antea compellaverat. Riickert. : 6
itaiS est h. 1. is 6errus , a quo supra Aristodemum introduci
vidimus. Neuter satis recte h. 1. articuli vim rnlerprtUtar. 'O
raif «t petius servus, cui pedum lavanda- rum officium mandatum
erat. SVa xax axioix o. Modus optativus cum particulu finali
couiuuctus satis demonstrat, duoruteir non praesentis tempuris, sed
praeteriti infinitivum esse. Vide ud p/ 7. quae annotata sunt.
Imperfecti participium ha- bes p. 174. E. &•£oxal t ur (>£
iva xaXcdtxifji x. r. A. In vett. editionibus scriptum exstat ira
7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo lcrri potest. Depravatiouia fontem
felicissime Stallb. inda- gavit. Cod. nimirum Flor., lit- tera a
apud Stallb. insignitus, 0 7 tov. habet ty a
xaxaxeotxo. i r x gJ t cor ysixor o»r npoSvpu). Vitruv. Arcli.
libr* VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit, Graeco dicuntur, quae sunt ante
ianuam vestibula. Addendum est, itpd- Svpcc non nisi privatarum
aedium vestibula esse, publicarum aedium vestibula TtponvXaia
Graece vo- cari, Minus apte igitur Schlcieriu. npdSvpor con vertit
: Vorhof, quo verbo npoTtvXaia indicantur. Narrationem quod attinet
Aristodemi: Socrates inter proficiscen- dum meditatus, cum prius
itiucris, quam cogitationum fiuem reperis— •et, ad vestibulum
vicinae domus deverterat. xapov xaXovvxoi. Ilacc est
vulgata lectio. Codd. non pauci xal 6ov habent, Eekk. ex optimorum
auctoritate codicum edidit xen or>j caiot patt«eini«na ot*
SmxQcttTjs ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov yutovav ZQofrvQip tOtrjxe ,
xaftov xukovvxog ovx i&tte tlsi&vtu. "Atoxov y' , s<pi],
kiyug ' ovxovv nutes uvtov xul (tri utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv,
MijSufica s, ukX iuts uvtov. B suscepit !n Epliem. Litt.
Ienens. Jul. 1852, N. 1SS. censor Riik- kert. editionis : a Fragt
es sicli, ob hier g er ad e Red e odor abhan- £ i g o besscr sei ,
so ziemt die Jelztere mehr darum , weil sie das i 11 den Vorder-
und das iu den Ilintergruud der Uuterhaltung Gebdrige schon
abstuiend die das Gesprach der lJuuptpei*- soueu unterbrecheude
Meldung des Sclaven glcichsum episodisch zuriickstcllt. Und gleichwie
diese Form auch iu dem Uebrigeu her- vortritt , indein 'kein
H<pjj ein- fiilirt , so sprechen fur xa\ ov, aul' welches wir
schon durch innere Griinde hiugewiesen wer- deu (?) i auch enlscliieden
dio besteu llandschriiten , welcben llekker mit Ilecht gefolgt ist.
Dcnn auch das Einzige, woran cin Vertheidiger des xdfiov sich
konute halten wollen, das ovxoS bei ^LtDxpdcxrfS vertragt sicli
auch mit ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe stehe.w
llaec speciosius sunt, quam verius dis- putata. Quid, si ipsa
pueri verba scriptor exhibuit, ut, ad quae omnes convivae aures
ar- rexisse consentaneum est, eadem jm»e ceteris etiam
emineant? Non dispiciendum est autem, quid obstet, quominus
xa/iov scribatur, praesertim cum hac scriptura totius loci vigor
augea- tur incredibiliter. Iluc accedit, quod Agatbonis verba
atOTtov y\ &<pr} , Xkyttt et q. seqq. ipsis nuntii verbis
apprimo eoaveniant. Verba conrertenda sunt: Eiu anderer aber von
Aga- thon's Sclaven sei gekommen und habe berichtet: Socrates der
* steht beiseit am Hofraum des Nachbarn, und ich rief ilin
mehr- mals, aber er will nicbt heroin- kommen. ato*or
y, £<PV> XeyttS* Suut fortasse, qui scribi iubeant axoitov yk
xt, E<prj , XkyuS. Utrumque geuus dicendi in usu erat Graecis.
Iu formula axo- xov yk xi y l<pT), XkyuS, XkytiS verbum
transitivum est, ex ecquo xl pronomen exaptatur, cui aro- Xoy est
additum. Omisso t\ pronomiue atoxov adiectivum adverbii vices
obtinet, XLytii absolute pouitur ut nostratium sprechen; exempla si
quaeris huius usus, vide sis Indices. Ea- dem dicendi formula
explicatius perscripta audiret: axoitov y, 2<p V , Xuyov Xiyetf,
Felicissimo Si hleierm verba convertit : Wun- dorlicher Bericht!
habe Agathon gesagr. ovxovv xaXetS aifrov * xal fu)
a(pi/ <$iiS ; Vulgo male xotXel legitur, paoci r.odd. etiam
soloece exhibent u<pi]6yi pro aqtijOEiS* Ovxovv vocem quod
attinet, usu loquendi factam est, ut iu interrogatione non ovxow , qnod
ratio exigit, eed ovxovv scriberetur. Igitur interrogationi
conclusionem addi- tam habes, quae voluntatem iubentis certissimo
describit. Ceterum non possa- I fdos y&Q ti tovx'
X%u‘ Ivioth dnoOtag , Znoi, 3v rvffl, itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu.
fir) ow nivtite, aAA’ lare. ’AkX ovxco %VV mas huius
dictionis nisi hac ra- tione assequi potestatem, ut con- vertamus:
Du rufst ilio aiso uud lasseat uicht ctwu von ihm ab. Mi/
particula quopiam non ea , quae revera fiunt, sed rei alicuius
nonnisi possibilitatem, veuia sit verbo, cogitatam negat, additis
nicht etwa verbis commode redditur. Recte Hermauuus ad Soph.
Aiae, v. 75. /at/ sic positum dubita- tivdm esse docuit.
l$o? yap xt tovx* Cave otiosum censeas x\ prono- men.
Priscian. XVIII. p. 1208. costro loco exemplo utitur, quo demonstret,
Atticos scriptores interdum x\ pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon.
Hipp. M. V* 287. B. , quem locum Stallb. laudat, eandem
enuntia- tionem reperies verbo immutato nullo. Facit inprimis ad
agno- scendam xt additi potestatem Thuc. 1. 132. *ApyiXio? —
Xvet x ds inidxoXa? — vnovof/da? xt x oiovx ov TtposeitedraXSat
x. r. X % h. e. Argilius cum suspi- caretur, harum rerum aliquid
imperatum esse et q seqq. Adde Pl. Syrop. p. 191. A. fX<AY
XI TOlOVtOY OpyUYpY , olor vl dnvxoxopoi. p. 194. E. onoio?
di xi? av roV oav xavra id&pi/- daro. Gorg. 472 ,C. idxi pbv
ovv ovxoS xt? tpoito $ iXiyxov, ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi .
Hom. II. 9. . 11. xovxo xl /tot xaXXidxav M <ppedlv eldexat
tlvat. Verba nostra convertenda sunt: dat ist «o teiue Art; okoliIv
, il <Joi Soxu, (pavas ort ot av rv XV H. e. d«- • istens interdum,
ubicun- que locorum est, ibi con- sistere solet. Quando iu-
delinite loquuntur Graeci, cum' verbo finito quietem significante,
non quietis sed motus uotiouem coniungere amant. Ut igitur de certo
loco dictum supra est Sdfij- 7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y
7CpO- St Logo, ita nunc, quoniam certus locus Aristodemi animo non
obversatur, Znoi non Znx/ rectissime scribitur. Illud meliorum
codd. auctoritnte confirmatur, haec vul- gata lectio est, quae
etiam rvxp habet pro rvxot. Ali. ratio eat verborum c, I. p. 173.
A, X po rov Se xeptrpexuv oxy rvxpipt («c.. xepirpixuv ) ubi posito
rv- XOipi sc. xeptrpexuv, verbo mo- tum significanti admugitur
notio quietia. Adde Piat. Phaed. p. 113. B. — ov hcA oi fivotxf s
ano- OxdSparadvacpvSuSiv, ot iy av rvxarfi rrjs yyS, quo loco
ad Tvxatdtv supplendum est e prae- cedente verbo finito
participium motum in aliqnem locum sigivJA ficans ararpv Purus.
Aiioch. p. 365 C. artioxet 61 SioS :n — ti otfpypopai roSSe rov
<pu- roi xai ruv dyaSur, aetSti/S te xa l axvPtoS dxoixote
xeioo- pai Orproftevos, eis evids nat xruSa.la perafiaMuv. de
repi IX. p. 589. A. uste t^xeOSai oxy dv ixdvuv oxorepor dyp.
Ibid, VI. p. 492. C. qtepopivtjv nata (Sovv, y av ovro s <pepy.
prj ovv xivelxe, aAA’ iaxe avrd v. Valgo xivffte exhibetur,
quod Grammaticorum tov
'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg aM.ovg £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas
xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s , Ixudav t ig v/iiv fifj hpte
vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv , praeceptis repugnat.
Aristodemo* autem cum supra dixisset aAA* idxe ccvxov, eadem verba
nimo repetit cuqj vi maiore, quod ser- vos Agathonis, dicto heri
audien- tes paratos adhuc ad vocandum Socratem animadvertebat.
Ce- terum e xtrnr verbo facili ne- gotio Socratis meditabundi
ima- ginem lingere tibi possis. Aft- reidScn nimirum dicitur,
quod ipsum se non movet. Ad Socra- tem adhibitum , hominem
osten- dit sine motu dantem atque re- rum externaruimoblitum,
qualem, descriptum legimus infra p. 220. C. cfr. p. 218. C. xal
eheov xtrt/daf aVxcrr, quae verba de eo dicuntor, qui sine motu
iacet atque somno quasi sepnltns. Adde Pl. de rep. I. p. 829. D.
xal iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS ravxa, fiovXo piros hi
Xkytir avxor ixirovr xal ditor x.x.X. Consentaneum est, Cephalum^
fi- nita oratione, rem, de qua dixis- set, secum reputantem, sine
motu sedisse, qua propter ixivow avxor Socrates ait. a
XX ovrct) XPV • v *d. 9 ,, ac annotata sunt p. 12. Addendum est h.
1., discrimen, quod ad p.* 178. C. inter XPV et cx ” stare
annotavimus , non dbique apud Platonem exemplis probari.
Reperiuntur enim loci, obi Sii pro XPV et vice versa XPV pro 6sl
adhibetor. Ne igitur Pro- dici sophistae instar nimia se- dulitate
usi esse videamur in in- dagando verborum discrimine: hoc
certissimum est: nusquam reperiri in una eademque enuntiatione verbnm
ntrumqne, quin alterum necessitatem ex- primat, alterum
inservientem ne- cessitati voluntatem denotet.' navtcoS it
apaxiSets. * IlapaxiSedSai dicitur de cibis et mensis, ut Lat.
apponere monente Stallbaumio in annot. ad Piat. Pol. p. 854. B. In
ali- quot codd. reperitur xovS aXXovS idxiaxe ndvxaS xal
itapaxi$ixc % * quod, Thierschio, Reyudeisio, Ruckerto, probatur.
Male. Nihil enim languidius xovt aXXovf — ndvxaS verbis }
correxerunt autem olim ita, qui de narxoaS vocis explicatione
desperarent. IJdrxaiS 9 inquit Riickerlos, habet, quod offendat.
Quid enim sibi vult ly 1. omnino, iiberhaupt? Cogitatione arctius
couiungendum est izarxwS cum oxi ar fiov- Xv6$£ f ut respondeat
nostratium; Thut ganz, wie ibr wcllt, setxt vdlJig vor, V.U3 euch
beliebt. iieeiddv xi s vp.tr pif iipedxtjxy . Satis
colligitur e lectiouis varietate, doctos homines iam antiquitus do
huius loci explicatione admodum du- bitavisse. Vix
commemorandum est vpir , quod in aliquot codd. reperitur pro vpir:
gravior va- rietas est in verbo i<pEdxt}xy. Pauci sed optimae
notae codd. iq>idtrjxei exhibent, tres atpe- 6xtfX7f, unus
itpetdxijxu , alius itpidtrpiE commendant. Stallb. convertenda
verba censet; quum nemo vobis praepositus sit, id quod ego
nunquam feci, In Scliieierm, conversione 30
ijaatqnoz ovv vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl
dtZ- C xvov, *«l rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag
httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj oepcic; (iiv dunvtlv, rov di ZcoxQocnj ovx
slgdvau xov ovv 'Aya&ava ita/j.uxiq xilivetv aaaxlii^ttOdM xov
ZtoxQtxit] , X di ovx iav. legitor p. 889.; trogt aof, was
ihr wollt, wenn euch doch Niemand Befehl er- thcilt, was ich noch n
i e • mnis g e t h a n habe. Riicker- tus verba convertit :
Apponito quaecu nque vultis, quam nemo vobis est praeposi-
tus. Ficinus , cuius maxime conversio probabilis: Ceterum vos, o
pueri, aliis epulas afferte, et, quodcunque lubet, apponite: vobis
si quidem nullus praesidet. Sed nmn credibile est, herum, qui
revera neminem servis suis praeposuerit, dixisse: si qui- dem nemo
vobis praesi- det? Plato scripsit fortasse iitt i, 'r av, x\S i '
ptv MV t*P E ’ tSrjjxp h. e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit
praepo- situs. Atque ne cui maior videatur huius s'cripturae
audacia: scriptum exstat in omnibus codicibns p. 174. D. itpo odov,
ubi manifestum est, Platonem vtpo 6 xov exhibuisse. Ceterum pro
ppdtii cum vi ponitur h. 1. r\S — jJ7j ita, ut r is per euphenismum
dicatur. Sententia est: diros aliquis homo vobis ne sit
praepositus. vvv ovv vopi£ovteS seqq. Laborat hic locus ex
in- terpunctione mala, quam ut ce- teri editores, ita huius libri
ia- terpres celeb. Schleierm. immu- tatam retinuit: Denkt also,
auch ich wiire von euch tum Gastmahl geladen, so wie (?) die
Andern, uud bedient uus so. Commate post xovS aXXovS deleto et
posl ini Selnvcv posito sententia verborum haec est : nunc igitur
me quoque ad coensm vocatum exi- stimantes , m e et ceteros ,
voa ut laudare possimus, curate. Ac ne cui mira videatur ijti
prono- minis omissio, dicturus Agatho erat: vvv ovv vofiigovxsS xal
ipk v <p vpavV%KexXrj6$ai ini Setnvov Sepanewxe sc. ijifc Sed
quonium non tam se, quam convivas servis commendaturus erat, ea
dicendi ligurii utebatur, quae omisso ipi pronomine in- prirois
convivas curandos osten- det et. Haud dissimilis est nostro loco
Piat, Pol. I. p. 329. D. xal iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~ yeiv avx 6 v
ixivow xal tutov x. x. X.£ 61 ovx iav. Bekk. ex aliquot codd. d
intextum recepit, qua lectione oppositionis ratio turbatur, vid,
Malth. Gramm. pl. f. 536. p. 1054. annot. Ut hoc, ita t spernendum
est, quod non recepisse in textam frustra Bekkerum piguit. Equidem
Ru- ckerti iudicio subscribo, qui in aunotatione ad h. 1,; Egit,
in- quit, de hoc ignoto nominativo pron. pers, Buttm. Gr. pl.
I. p. 291. T. II. p. 413. seqq. al- latis testimoniis
grammaticorum, quibus id quidem edicitur, ut vix liceat dubitare,
quin exstite- rit ea forma apud Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov
nokvv xqovo v, cag da&n , HuccqI- ipctvtcc , dlka (iah6xa 8(pa$
peOovv dHitvovvtag* xov ovv 'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov
xazaxei[iBvov t (io- voVy sdtvQ , %(pij q)uvcu> ZaxQccreg , 7tag ips
xatdxBuJo, tvu xal tov fSotpov [ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot
D ptores, Ternra nt recipere liceat alio loco, ubi
codd. desit auctoritas, non ef- ficitur. Quare cum in tot
scriptis Platonis ne uno quidem loco, quod sciam , ullo in codice
haec forma occurrat, haud scio, an recte inde colligatur, ab hoc
certe scriptore eam prorsus alie- nam esse. Ad verba izoWaxiS
xeXtvetv annotatum est ia Sym- posii ediiione Wolfiana Lips. 1828,
p. 13.2 TtoXXdxtf xeXevur xnuss vom bJossen Wollcn ge- nommen
werden , wie das Fol- gende zeigt. Male, Sensas est: Agathoa habe
wirklich oftcr den Befehl gegeben , den Socrates herbei zu scbaifen
, er aber habe es nicht gestottet. xov ovv’AydS<avct,
rvy- Xceveiv ydp x. r. A. Haud raro apud Graecos scriptores
ea pars orationis*, quae caussam continet alicuius rei, ei orationis
parti praefigitur, qua res ipsa continetur. Huius usus exempla ai
quaeris, adi Mattii. Gramm. pl, $. 615. p. 1242. Exemplo est etiam
hic Jocus, quo prius commemoratum est, cur Agatho Socratem vocaverit, quam id
ipsum dictum sit, Agathonem ad se Socratem vocasse. Nollem
tamen huius loquendi usus severior ar- t biter exstitisset
Riickertus,* qui ad h. 1. haec annotat: c Quod nemo, cui
vehementiorem dederit natura animum, non, ut ego opi* nor,
experitur, scribendo exprimere omnes verentur, Graeci, quorum nondum
regulis esset adscriptas stilus, licere sibi putabant, nt inchoatae
sententiae aliam insererent mediam , qua illam vel explicarent vel
proba- rent priusquam totam legisset audivissetqne, ad quem
dirigere- tur. Quamquam apud Herodotum, apud quem exsurgens prosa
ora- tio nullodum freno tenetur, fre- quentior hic usus , quam
apud seriores prosarios scriptores. » Quem, quaeso, nostratium
offen- det Platonicorum verborum con- versio haec : • Agathon nun denn
zufal liger Weise habe et allein am letzten Tische seinea Platz
gehabt — hatte gerufen: Hierher , o Socrates u. s. w . Hdxatov xat
OLxtiptv ov 9 pQYOV, Interpunctionem ponen- dam curavimus post
xatocxttps.- yoy, ut, qui ultimae mensae ac- cubuisse dicitur, idem
significantius* solus fuisse perhibeatur. Festis diebus pluribus
mensis utebantur Graeci, singulis autem non nisi ties convivae
accumbere solebant. Hinc nomen tricli- nium ortum. Iva. xal
tov 6o<pov [aitto pevoS Oov] aito - A pcv 6ao, Ia paucis sed
melioris notae codd. v, c. in Bodl. omit- tuntur verba ctittoptvds
6ov , quibus negari nequit, orationem paullo rigidiorem fieri atque
in- comiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig.
djjAov yap ott tvpsg auro KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov
EcJXQiaij xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m
’Aya- &cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov
lis tw xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav, tivis
divertas relationis inita positis facile fiet i possit» ut verba
falso construantur: tov do<pov dntdpEvoS dov ano • Xavdoo.
Omuia bene haberent, ai scriptum exstaret: tva anxo- pevoS 6ov tov
dotpov ano- Xavdco, o doi nposidxy x. r. A. Videlicet Agatho
dnxEdSai xivoS tropico sensu h. e. de sedis vi- cinitate
intelligeret , Socrates autem verbum premeret pro more suo satis
festive, atque de con- tactu materiali intelligeret. For- tasse
anxopevoS dov verba e Socratis responso huc translata sunt , atque
in sede minus apta posita. Uncis eadem compegi- mus, ut quibus
deletis Agathouis sententia plane non mntetur, et flumen orationis
minus retarde- tur. — Verba convertenda sunt: Hierher, Socrates, zu
mir lege dich nieder, damit ich zugleich der W e i • -heit froh
werde, welche vor dem Hofr&um ‘der N a ch b a rs chaf t dir
bei- kam. Iam quo sapientiae lau- dem in Agathonem
converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai napct xiv a verbo
dnrsd^ai ri- vos , respondit, ut Fiemus qui- dem verba convertit:
Bene se res nostrae haberent, Agatho a si sapientia talis
esset, ut in va- cuum hominem ex pleniore ipso contactu proflueret,
quemadmodum «qua ex pleno calice io vacuum per lanam influens.
Si enim sapientia ita se habet, permolli facio, quod apud te
se* dto, repleri quippe abs tc uber- rima et praeclara sapientia
puto. oti yap npo anedxyS. Sensus est; non enim ah eo
investigando abstinuis- ses prius, quam id repe- ris se 3 .^
Supplendum igitur est: y EvpeS avxo , non ut Stall- baumio visum.
est, ei py EvpES avxo . Negari nequit, interdum npo praepositionem
comt veibis consociatam temporis ratio- nem eum indicare, qua
aliquid prius fiat, quam aliud quid evenerit, cfr. Piat. Gorg. p.
454. C. onep yap Xiyco y tov k%yS Ivixa nspaiysGSat tov
\6yov i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva py ZSiZojptSa
vnovoovvxeS npo apnaZeiv dXX.yX.cov td Xtyopeya x. r. A. Possis
hoc modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a, $.
noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi npotaipev ?}poocov ,
quo loco npoidnxeiv significet aliquem prius, quam exigat na-
tura, in Orcum demittere, vali- dum florentemque aetate necare.
Vides, quam bene huic notioni conveniat Z(p$ipoS epitheton, quod
proprie ad ypcooov refe- rendum est. Adde II. XI. , 55. f noXXaS
ltp$ipovS xe<paX.aS a£6t vpoidipeir- Priore versu usos es,t
Luciun. in epigr. 24» Anthol. Gr, lacobs. T, II, p. 25»
medicis :w $ &SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi
(5«? zov IqLov Qtov lx ttjs irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ
ovzcog fyu xal tj Gotpla, nollou ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E
X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli fjs xal xabjg Go~ tpiag
nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri tpavltj ztg av illudens
adeo festive, ut mihi non obtemperem, quin totum epi- gramma hic
perscribam: 9 Iijtrjp xi i i pol xov lov tplXov v\6v
IrCEjnpEV, coite pa$elv nap' i pol xccvxa x d ypapparixd. c
oS Sfc to pijviv aei8e noti aXy&a pvpi HSrjxev lyvco , xal xo
xpitov xoi68 9 axoXovSov Inoi , noXXai 6 * ItpSipovi ipv- X a
S & 'i 6 i n potarfi ev , ovnhi piv nipnei npoi pe
paSrjdopevov. aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv Xapiij einev, hraipe
• avxap 6 notii nap e pol xavxct paSeiv dvvarai • xalyap iyoo
noXXai rpvxdi didi npoYantaj xal npoi xovt ovdev ypap-
patixov 8iopai . e ii xov xev ojxepov. Hano Wolfii
coniecturam nonnullis co- dicibus probatam editores rece- perunt ad
unum omnes excepto Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov retinuit,
annotans : Platonem non de homine, sed de hominis mente cogitasse ,
ut eli xo x % ifpGov esset id, quod inanius est in alterutro nostrum
Artificiosior est quam verior haec explicandi ratio, qua nemo non
videt nativam orationis pulcri- tudinem corrumpi» 8ia xov
ipiov fi io v. Horum verborum explicatio recta Geelio debetur, qui haec
anno- tat in Bibi. Crit, Nov. T. H. p, 274.: a 8ocratcs filum
laneum significat» Nam verum hoc eat, quum duo pocula sibi
proximo adiunguntur , quorum alterum aqua repletum sit, alterum
va- cuum, ac filum laneum made- factum contiguis horum margi-
nibus ita impouitur, ut pars im- mergatur aquae, pars in vacuum
fundum immittatur, fore, ut ali- quid liquoris tanquam per cana-
lem transeat. Hic lusus institui non potest nisi cum poculis» Hinc
apta eius mentio inter convivas. Eundem
lusum scriptor noster in animo habuisse videtur Menon, p. 70. B. J
fl Mivcov t npd xov plv QextaXbl evduxipot jjtiav iv xoii n E7iXv6i
xal i$av- pagovxo icp * \nnixy xe ?cal nXovxcp , vvv 81, coi ipol
Soxei, xal ini docpia. — iv$d8e 8e 9 co tplXe Mivooy , xo
ivavxioy nepiidrrjxev • doin e p avxpoS xts xiji dotplai yiyove
, xal xiv 8vv evei ixtdov8e tgov xoncov nap 9 vpai oixedSai
tj 6o<pia. X 7fv napd 6ol xataxXi - <$tv. Pro
xaxaxXi6ii alio nomino scriptor usus esset, eoque quidem a
xaxatxeidSai verbo derivato, si id in liogua Graeca exstitisset»
Comparata enim nostra verba sunt ad Agathonis adhortationem nap 9
ipe xataxeido , quae, quo- niam contrario seusu Socrates %
l tYt] xctl , tjg xl 9 ovaQ ovda' t] de <Srj
X auTtQti *£ y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«, rj ye naga dov viov
ovtrog ovtcj GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg iyeveto TtQtonv Iv (i£.qtxhH
tcSv 'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig. 'rfctdTrjs li, a<pq, m
ZaxQtnes, 6 'Aya%av. dXXcc ravta fitv xul dXiyov vcStiqov
diadixadofie&a lyio ts xai 6v xsqi rrjs dcxpiag dixadrtj %Qtxi(itvoi
rep Aiovvdta • vvv 17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa xgizov.
ntinc cxliibet, ippiitr/i vocator putillo infra p. 175« E. oluat
ydp pe itapa dov — nXtf pcaSy <fed$ ai* Scri- ptum exspectaveris
ex lege gram- matica, de qua supra dictum est p. 22. olpai
nXijpcD^yded^ai 'itapa. dov. Interdum tamen ad- ditur personale
pronomen oppo- sitionis gratia , quae nostro loco manifesta
reperitur. Socrates enim ad Agathonis adhortationem respiciens,
quae p, 175. D. le- gitur, dicturas erat: ut ego a tc, non tu a me
accipias ad- inirabileni quandam sapientiae abundantiam, cfr. Symp.
p. 175. fi. xov ovv *Ayd5a>va icoWiimS xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz
xov 2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx iav, Adde p. 220. E. fin. avxoS
izpoSvpo- xepoi iyivov xcov dxpaxyydov iph Xafielv y davxov,
qoo loco avxoS pro davxov scribi etiam praecedens avtoS non
pa- titor. p. 223. B. xov plv ovv 3 Epv&ipaxov —o
*Apidxo- ftyuoS oixed^ai diciovxaS , e Ztcvqv Aafieiv xoii
xaxadapSeiY x. r. A. 6oq>laS. Wolfium audi ad hoc
verbum laudantem Sydenh. an- notationem: Den Ausdruck docpla
braucht Platon sehr oft, und in »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen
, lOTOn die eino znr pliilosopbischen Sprache ge— hnrtj und da
bedeutet docpla dio Wissenschaft von der Natur und den ersten
Grundursachen der Dinge. Io der andern gemeinera heisst es iede
Vortrefllichkeit in irgend einer besonderen Wisaen- schaft oder
Kunat, irgend eia vorziigliches Talent, Kenntnisa,
Geschicklichkeit, wie es hier vom Agathon dem Dichter gesagt wird.
S* Piat. Theag. vom herein und Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7*
iv papxvdi xcov *EWy- YcoY.y h, e. coram specta- toribus. Satis
nota est haec signikcalio iv praepositionis, quae unde orta sit ,
facile intelligi- tur. Ut Latini dicunt in oculis versari, esse in
con- spectu alicuius, ita etiam Grae- cos arbitror primitus
dixisse: iv oppadi papxvpoov, deinde cogi- tasse tontumraodo ita,
scripsisse autem iv papxvdiv . Sic reperiea sexcenties iv orjpoo,
iv dixadxai iv 3 eoiS , alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevi- mus
comma , qnod post docpla? in omnibus editionibus reperitur, non ut
verba arctius coniungan- tur nepl trjS docpla? dixadxy Xpcopevoi
diovvdu), sed ut XP°^~ pevoi 8. d. ad praecedens 8ia8i- xadopeSa
pertinere clarius in- Cap. IV. Mera zctvra, Sq>t),
xaraxhvlvrog tov EaxQaroyg xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te
G<pug nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu vo-
ptgofiEva, TQtnsGftai XQog tov Ttorov- Tov ovv ITav- Cuvlav £tpij loyov
xoiovrov tivbg xuraQxsiv. Eltv } uv- dicetar. Tlepl rr/S dotplaf
autem verba explicando xavxa prono- mini inserviant* Sensas est
.* Hieriiber wollen wir nach einer kleinen Weile entscheiden,
ich tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd Dionysos soli Ricbter
sein. Continetur his verbis festiva adhortatio ad bibendam , quod
quo fiat iucundius, rerum seria- rum, curae Bacchi indicio subii-
ciendae esse censentor» xai x 66v aXXav ac. d«- 7tV7]6avTG)V , nam
ad alterum participium xaxaxXtvkvxoS haec verba non referenda sunt.
Habet Ficinus; Post haec, inquit Aristodemus, Socrate simul et
aliis discumbentibus, libare invicem et degustare vina
sacrificantium ritu. xal xaXXa x a vopiZo- fjLBva .
Magna est horum ver- borum difficultas. Sive spectas structuram ,
nescias , quid id sit, ad quod verba referas xal xaXXa tol
vojiiZopEva , sive ad significatum animum advertis, voluntatem scriptoris
explicata diffi- cillimam reperias. Astius scri- bendum coniecit
Marce xa vopi- gopsva. Censor in Ephem» Lit- tcr. Ien, Iuli 1832.
N. 52. xal &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva commendat.
Audacias uterque, ut videtur. Stallb. absolute po- sita verba ceoset
hoc sensu: et quae alia suat usitata. Non male. Melius
Riickertus participium aCavxaS ad accusa- tivum utrumque pertinere
con- tendit, nt convivae et hymnum in deum et quae praeterea
cani soleant, cecinisse di- cantur. Restat, ut explicemus, quid sit
id , quod praeter hymnum in deum cecinisse convivae perhi- bentur.
Pro adsiv alind verbum ponitur in Sympos. Xenoph. II, 1. G oS 6’
dep%peS?j(jav ai xpa - xtEZai xal idTCeitjavxo xal in aiavitiar,
kpxexai ns h. x . A. Adde Athen., qui ad no- strum locum respexit
V. 7. p. 214. &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et ieaxd x 6
dvjixodiov pexa ydp xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i itoirjtiui xal
xov Seov xaicovi- 6avx aS xois vopiZojikvoiS yk - padiv. Colligi ex
his locis pot- est , verba xal xaXXa xa voju- Zopeva addita esse a
scriptore, ut a8eiv vocis simplicitatem ex- plerent atque notionem
efficerent itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra legitur p. 177. A.
aXXoiS pkv Xi6i Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS tivat X. T, A., ad
quae verba schol. haec annotat: xaiavaS * tj xovS XEyojikvovS
7taidvaS f vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa- 3
* SQtg, <puvcu, riva tQoitov
qu<Stu xiofiefra ; iya jisv ovv Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas
£z a vito tov ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de
xal B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.
ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora tdv tcov Sediv iatpov * rj
nauo- vaS t coi vvv, cJSaS ini evtvxip xal vlxy, 8id tov gj, iB,
ov xal nauovl^Eiv. Est in hoc scholio , alienam manam quod prodat,
hoc tara^n certum esse reor, naiGovigeiv significare et hymnum in
laudem Apol- linis aliusve dei canere, et carmen canere ini
£vtv~ Xia xal vixy. cfr. Xenoph, Hell. IV* 7. Bdetder 6 $eof
xal 61 jJ.lv Aaxedaijiovioiy ap- ZapivGOV toov ano dajiotiaS,
navtsS vjuvrjdoev tov nepl tov IlodEidco naiava. Alterum ver- his
expressum est adavtaS tov Seov, alterum in verbis contine- tur xal
taXXa ta vopi^djiEra. In conviviis igitur primam libatio fiebat poculis ,
ut Schol. lluhnk. habet, tribus: ixipvdovto yap iv avtcdS ( tais
dvvov- diaiS') xpatypeZ tpeiS * xal tov plv npGDtov Jids 9
OXvjiniov xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov • tov 51 Sevtspov 'Hpcooov'
tov 61 tpitov 2a)t?jpo£. Libatione oblata illud facere solebant,
quod naUkJvL2,£iv vocatur. Hoc rite per- acto vino se
invitabant» tpinedSai npoS tov notov . Praecedente
tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut esset, quo possent
momentaneae, quas vocamus, actiones , a duraturis discerni»
Tphcsd&ai enim npoS notov ipsam bibendi actionem exprimit, quae
ad multam usque noctem extenditur. Ceterum articulus additas est, ut
certa quaedam potatio, ad quam convivas poeta invitaverat ,
denotetur. bIev , av8p£S, (parat. Schol. ad Politic. annotat:
eJbv ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv tcov ElprjfiivGQVj 6wa<p?)
6'e npos ta piWovta , rj ava<panrt]jia ofioiov tov aWa. Utnntur
hac voce ii, qui aliis facile aliquid concedunt, quo facilius
possent, illis pacatis, quid ipsi sentiant, aperire» Iam qui
assentituc, is habeat necesse est, cui assentia- tur» Igitur dicta
alicuius prae- cedant necesse est elsv voci; quae quoniam non
comparent, supplenda sunt. Videtnr autem Agatho dixisse : aWa
tpenGQjieSa vvv npoS tov notov , quae ad- hortatio Agathonis .facile
eruitur e verbis dcpaS tpinedSai npoS tov notov. Agathonis dictum
Pausanias cum audisset , bene hoc quidem, inquit, o viri, hoc
dictum ab Agathone, - sed qua ratione bibemus suavissime? Ut nostro
loco, ita etiam in Phaedon» p. 117. A» supplemento quodam opus est
ante eiev. Verba haec sunt : xal 6 nais iHeASojv xal dvyvov xpuvor
diarptyaS yxev dyajv tov jiiXXovta dcodeiv td epappaxov , iv xvXixi
epipovta tEtpijifj&vov. I8z>v 61 d 2?coxpa- tyS tov
avSpcjnov elev f Utprj, d> f SeXrtdte , dv yap rovrojv
inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet, hominem cum poculum afferret,
virus a se parati vim laudasse ita , ut eius haustui celerrimam
mortem adseriberet. Respondit tlvt tQoTtcp kv c5g QaCta xtvoiusv.
'tov ovv 'AqiGzo- tpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus , ca FlavGavla ,
zo xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs Jto Oecus-
sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es @E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o
Bester, das xnasst da ja wissen. Was muss ich non thua? vide quae
annotata sunt ad p. 204. C. cap. XXIV. init, . fi a 6 x a
itio /ie$ a. Haec est optimorum codd. lectio, quam in textum
receperunt Bekk. , Stallb., alii. Vulgo 7/8i6ra ntoo- fie$a
exhibetur. Bene Riickertus od h. 1, Futurum, inquibj propter- ea h.
1. praeferendam est, quod non, quid debeat neri, Pausanias rogat,
sed quomodo, quod futu- rum sit , fieri possit commodis- sime.
Indicativum habes etiam infra p. 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l- /iaxov ,
Uc 5? ovv f cpavaij <J * A7oafiid8r\ , Koiovfiiv ; ovtcof ovte
ti Xeyofiev ini tf/ xvXixt ovt indSofiev , » a\\* atexv doSrtep ol
8n}>d)vtES itiofie^a ; Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta r 6 ?j
diota ivtavSa dTjpalvet, quae verba laudo, nt facilius in-
telligatur, unde vulgata lectio rjdidta fluxerit* lydo fi sv
ovv \eyao. Pro- prie dicendum erat: Xiyco fiev tjjjIv — olfiet i
6i. De addita ovv particula , qua Jliv et 66 particularum positara
excusatur, qnaeque minus sibi respondentia orationis membra, quoad
eius fieri potest, inter se conciliat, vide quae annotata sunt ad
p. 22. vfi&v tov S noWovS sc. S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus
eo- dem modo cap. IV* initio neti t6jv dWoov positum
reperies. Laudat Stallb. ad h. 1. V). Apol* Socr, p. £5. E. tavra
iyco doi ndSoficn , oj Ml\r}te f olfica 81 ovde aX\ov
dySpooitcov ovdiva ac. iteidedSai Coi. Eutyphr. p. S. E. a) Wa Cv
re vara vovv dya- viei rr)v 8lxr\v , olfiat 81 xal ifik tijv i/irjv
ac. dycov induat. 7ta padxeva dad ^ai.Belk., quem Riickertus
secutus est , e codd. non paucis in textum re- cepit
itapadxevdB,ed^ai. Recte fortasse, quamquam etiam aoristi
infinitivus habet, quo se commen- det. Ceterum ne quis forte seri-
, •bendum censeat itapadxevada- d$at 8eiv atque cum Riickerto
convertcudum : Hoc recte dicis, omni modo esso parandam
commoditatem : Aristophanis vo- luntas hacc est: Das erachtest
du in der That ganz recht fiir nothwendig , dass man namlich
sich auf allc Wcise das Trinken angenehm zu machen suche, Ni- mirum
in huiusmodi enuntiatis verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv, dB,iovv,
vo/ii^etv al. significant: aequum ceosere , suadere alieni,
necessarium putare, vid. Ilcind* ad Piat. Prot. p* 346, Stallb. ad
Phaed. p. 95. B« et ad Polit. VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom. II.
IX. 626. ov yap fiot 8oxiei j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y
npaviedSat, xal yap avtoS. Valgo le- gitur xal yap xal avtoS.
Bodl. uliique codd. non paoci alterum tcai omittunt, omiserunt
Bekk. Stallb. alii. Ac Stallb. qoidem, Videtur, iuquit, 7tal
additum esse ab iis, qui nat yap non solum 'AxoviSavra ovv ttvrav
£<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfit- vov, *H xafaos, tpavai , ilyftt. xal
t'n hos Siofiai vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6 t§§&09ca ittvsiv
’Aya- C 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat.
"Egfiaiov av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai
'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et, nam etiam significare
ignorarent* Non repugnandam est co- dicum auctoritati, minus tamen
Stallbaumii sententia placet exi- stimantis xal yap h* 1. esse nam
et. Id nimirum si expri- mere voluisset Plato, scripsisset, opinor,
tuxi yap iyco el/n, uti scriptum exstat apud Homerum lliad.IV, 58.
xal yap iyoo tlfu h. e., denn auch ich biu eine Gottin. Nostro loco
malim xai putare expletivum , cuius exemplum infra habes p. 198.
C. xal yap pe ropyiov 6 XoyoS drepipyyjdxev , ofere x. x. A.
Eodem modo interpretor verba Pl. Pol. V. p. 468* D. ’JAXct pijv xal
xa$* r/ Oprjpov xolS xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv yLcov 0601 ayaSoi
. xal yap "OpilpoS x . r. A., quo loco, quo- niam praecedit
Homeri comme- moratio, xal yap^OpjjpoS verba significant: nam
Homerus. fiefi anxi6 pkv Conve- nit perfecti temporis
participium cum praecedente Pausaniae dicto: tcolyv ^aAfTrooS*
Ex& vito xov tzotov. Beftanxi6pevodv verbi significatum
explicat Iacobs* ad Eueni Epigr. XV* v. 6., ubi legitur :
ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi tgj Savaxo ) . tt Clem. Alex. Paed,
II. p. 1 82. 29. , V7CO p&ijs (5a - TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY.
fia7CTi<>£- (5$at enim et ii dicuutur, qui se largius
invitarunt vino.* Lu- cian. a Iacobsio laudatus habet T.
III. p. 8t. 41. xaptjfiapovYTi xal fteftanti6pivcp loixev . Apud
Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar: madide madere* xal Exi IvoV*
Ficinus in conversione exhibet: Probe dici- tis , atque hoc insuper
a vobis audire desidero. Rectius Schleier- znach. : Nur von e in em
nuter euch xnochte ich noch horen, wie er bei Kraften ist zura
trin- ken. Ceterum idveiv hoc loco idem videtur esse atque
tcoXvv niveiv olvov , quod paullo infra positum reperitur;
respondet igi- tur nostratium zecheo* " E ppatov dv eZrj
yj piv — ei vpets — yvv aTcei- prjxaxe . Ein unverhoflter Ge-
winn wiire es uns , wenn ihr, die tapfersten Zecher, dieses Mal das
Trinken im Ernst aufgae- bet. Nescit nimirum Eryximachus, utrum
ioci caussa, au serio Agatho ante locatus sit. Indicat autem illatus
post optativum cum el part. coniunctum indicativus , de obiectira
alicuius rei veritate agi, quam verbis exprimere so- lemus: im
Ernste, wirklich, in Wahrheit. Exempla si requiris huius
structurae, vide Stallb. ad Apol. Socr. c. 12, annotationem. Adde
Symp. p. 177* D. el ovv Zwdoxei xal vpiv , ykvoix dv i)piv iv A
oyoiS IxavtJ Siaxptftif Apol. S. p. 35. A. ei ovr xjpcHv ol
Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe tiocpLqi etx8 avdput ei'xe dAAp xal
&al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it Lieiv vvv
diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi. StaxQttttj 8’ lt,aiQC3
Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQ- xetisi avrta qxoxeq av
itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei ovSeig rmv itaQovxcov itQodvnag %%eiv
xgog ro itokvv tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ov- rat, al6xpoy
av sfrf. b, e. Wenn nun die anter ench , welche fiir weise, tapfer
oder soust tugend- begabt gehalten werden , wirk- lich s o sich
zeigen sollten , so ware daa aller Verachtnng werth. iB,aipw
Xoyov, Vulgo i^cdpoj rov Xoyov legitur. Ar- ticulum plurimi codd.
omittunt, quem ut minus desideremus, exempla faciunt Phaedr. p.
242. B., de Rep, VI. p. 492. E. alia, et similium locutionum
analogia. Legitor v. c. in Rep. PJat. L. II. p. 357. A. o oprjv
Xoyov dnrjWdxScLi, quo loco arti- culas in uno tantummodo Paris,
cod. comparet. Neque seriorum scriptorum auctoritatem nunc curamus, qui
articulum addiderunt; hoc fecisse constat, qui nostrum locum
imitatus est, Aristidem Orat. II. Tom. II. p, 269. TlXa- tcjva 8*
lt,aif)oo rov Xoyov ixecvoS yap apupotepa. Articulum addidit, quem non
abesse posse putaret, xcd omisit, quod non intelligeret. Kal autem
ita positum est, ut indicium primi- tivae conformationis
verborum ait: ixavoS xalrovro xal ixava, pro quibus verbis cum per
compendium loquendi dixisset Plato dp<p6TEj}a , xcd remansit.
dist ££> apx e6 ei avT(p. Stallb. rectissime : ut satis
habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcun- que
faciamus, ovSelf rcor xaportcor . H. e. Nemo eorum, qui hio
adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c.
7., quem hucusque nemo videtur recte interpretatus esse.
oXiyov avr cov anavTES ol icapovisS av fttXnov UXeyov xepl gjv
avrol inenoripiEtiar. Convertit haec ver- ba Stallb.: omnes, qui
ad- erant, melius istis de car- minibus solebant indicare,
quae illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi repetitum esse
pronomen avtol , quo graviter significetur poeta» ipsos de suis
ipsorum carminibus peius iudicasse., quam alios ho- mines, qui
illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis versatus
est WoIUus: a Nam prope dixerim omnes paene, qui hic
adsunt, istis meiins dicerent Ue iis, quae isti composuerant; «
quamquam ne hic quidem Platonis voluntatem agnovit. Non verisimile
euiin, homines fiavavoovS , qui nuuc arbitri sunt iu iudicio,
melius potuisse de carminibus iudicare, quam poetas. Sensus est
totius loci: Ich schame mich nnn, ilir Miinner, ench die Wahrlieit
zu sageu, Dennoch muss es heraus. Alie, die hier anwesend
sind, wurden fast besser, ais jeue uber ihre Werke, uber das
sprechen, vas sife irgend selbst gemacht hiitten (h.e. si qui ex
sua qnis- f itlvuv qIvov , l'dog av lym tcbqI tov
(U&vtixeQftai , olov D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg.
ifiol yccg di] tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg
Icctql- xijg, ott %ateitbv tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai
ovre ctvxbg bxcqv rivca xoqqqj l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs
akkco qtxt arto aliquid fecissent, vid. Matth. Gr. pl,
{.599. p. 119S.) idcjS av ifri ~ 7/ xx ov Av eiijv. Repetita
est av particula in eadem enuutiatione non negligentia scriptoris,
at olim multi arbitrabantur, nequo explendae orationis caussa ,
sed at loquentia modestia elaceat ma- gis, qui sperat fore, ut
de ebrietatis natura quae sit, si ve- rum dixerit, minus
fortasse molestus convivis videatur. Tari cuuctatiouo et
modestia, quae tum io verborum modesto significatu, tam ia
singularum orationis partium dispositione cernitur, Cie. de
oificiis loquitur L. I. c. 1. §. 2. Nam pkilosophaudi scientiam concedens
multis, quod est orationis propriam, apte, distincte ornateque
dicere, quoniam in eo studio aetatem consumsi , si id mihi
assumo, videor id meo iare quodam modo vindicare. ort
xaXeirov — 7 / JIES 7 / idxty . Adiectivom haud ruro neutro genere
poni seqoente substantivo, ad quod pertinet, femini masculinive generis ,
satis hodie notum est. vid. Matth. Gr. plen. §, 437. p. 815. Sed
non perinde esse, utrum genus nominis in se suscipiat necne, nd-
iectivum, Rdckertu» ad h. 1. docuit. Puto autem, inquit, nd- 7 4oetiva
sabiccti genus tum sequi, quum res aliqua, qualis sit, quae que
attributa habeat, describatur, omnino quum do certa re certi
quid pronuntietur} contra neu- trum locum habere, quoties vel de
certa re, cui generi adnumeranda sit, praedicetur, vel de re in
universum cogitata aliquid pronuntietur. Equidem sic statuo!
Adiectivum substantivi genus in se suscipiens substantivo subiungi
ita, ut, qnod singulae alicui rei conve- niat, significet, contra
nentro genere positum , substantivo non subiunctum esse, sed ad
idem aequiparatnm. cfr, Lach. p. 192. ovh dpa zi)v ys roiavtyv
xaprepiav drdpiocv opoXoyi)- otis elvat, bceidfptep ov xccXij idttv
, 7/ avdpia xaXov idttv . Adde Ilipp. Mai. p. 288. B. StjXsia imtoS
xaXr) ov xa- A ov; Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf ov xaXov; xvrpa
xaXi) ov xaXov ; kxcov elvai , Addito infi- nitivo
hominis alicuius liberrima voluntas significatur ita, ut simul
coerceri posse atque minui liber- tas illa indicetur, cfr. Phaedon,
p. 80. E. idv phv xaSapa (sc„ V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai p?/6lv Tov
doopatoS i(peXxov6a dre ovdtv xoivGjvovda avxai iv rea fiUp kxovda
elvat; utpote quae nullam suscipiat, quoad eius fieri potest,
quan- tum in eius potestate est, cum corpore cdmmercium. Addendam
hoc est atque beue te- nendum , non adhiberi Ixojv
GvfifiovXivScani aXXag te xal XQcuTCaXaivra tzi hi rijg
TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai vTtoXa^itvta (bal- Sqov tov
MvQQivovelov , eyays Ooi sia&a xti&eodca aXXcog te xai cczz’ av
mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’ av fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj
axovSavzag Ovy- E I tlvai nisi in iis
enuntiationibns, quae actionem quandam conti- neant sive revera
additaxn, sive mente supplendam. Idem cudit iu omnes figuras
dicendi, quae nostrae consimiles sunt, v. c. to vvv elvai. cfr.
Lach. cap, SI* fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv - ovdiav SiaXvdGJjuev
h. e. wir vrollcn aber fiir jetzt, d. b. vas nns fiir jetzt uur zu
th uu iibrig bleibt, nns treuneu, Finitus nimirum dies erat,
noctisque adventas in proximum diem differri disputationem
iubebat;' quare Socrates aXXct Ttoir/doo, inquit, gj Avdtpaxe,
tama, xal tf £<0 Ttapd. dl aypiovj iav Seo* i&4 Xy. Male
autem Mutth. in Gramm. plen. $. 546. p. 1071. g liuc trahit Piat,
Protag. p, 317. A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa rovro elvai ov
B,vji<pkpojiai , neque recte, opinor, Stallb. verba convertit in
Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus, quantum quidem ad
hoo attinet, non convenit. Kata tovro eodem prorsus modo h.
1. positum est, quo in Apol. Socr. p. 17. B. legitur: el jtev
yap tovto A eyovdiv , opoXoyoiyv av lycoye ov x at a rovro vs
elvai fitjzcap. Itaque certum esse reor, Protagorara dicere 1.1. i
mihi vero cum his omnibus hac ratione sophistae esse non conducit*
Explica- tius paullo infra p. S17* B. eandem sententiam Protagoras
pro- t fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivav- xiav aitadav
oSov iAh/XvSa, xal o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai 7ial xaideveiv
av$pGJ7tovS* x. r. A. dXXcoS xe xal xpanta- X&vxa £xi.
Exspectaveris XpantaXojvxi, Infertur interdum post dativum casum
accusativas augendae gravitatis caussa. Nam vis quaedam est in anomalia
ha- betque, quod praeter exspectatio- nem fit, proprium suum
acumen. Ceterum nou poni solet dativo praecedente accusativus, nisi
infi- nitivus adsit ut nostro loco Ttieiv y cura qno arctius
coniungatur. Si- militer iu Pl, Criton. p, 51. D, ofiojS
Tcpoayopevopev xgj i£ov- Oiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v xco
povXojikvcp ,\ . . igeivai Xa- fiovxa xd avrov aitievai OTioi av
ftovXr/rar. Lex nimi- rum Attica, quae cum gravitate h. 1. laudatur
— ajti$i Xapojv xd ddvrov x. X. A. audisse vi- detur. Symp. p, 188.
I). ovroS (sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8v- vajuv kxei xal
nadav y/dv evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal dXXyXoiS dvvapkvovS
oj.uA.elv xal <pi\o elvai x. x. A., ad quae verba vide
annotationem. lyooys do l el&Sa xel- $ed$ai.
Interpunctionem post 'XefaedSai vulgo positam expun- gendam
curavimus ; verborum enim dXXojS xe xai ea ratio est, ut
antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant. Eodem %toQtZv
mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm itaif- ovri
OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv. Cap. V.
’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov , tovto fiiv deSoxtai,
xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg modo in superioribus
comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et post itielv, ut ne esset ,,
quod obstaret, quominus xpainaXarvxa participium ad infinitivum
prae- cedentem referatur. Ceterum recte Stallb. monet, art * av
Xi- yrjS cum gravitate dictum esse pro iav rl XiyyS.
vvv 8 * av fiovXovxai xal ol A oixzol, Vulgo post av legitur
ev , idque probant codd. plcriquc. Pro av noa paucis in codicibus
av reperitur; tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt. lia.stius cum
intelligeret, ol Aor- J rol non de iis intelligi posse, qui
assensum suum declarassent in praecedentibus, neque vero ad ceteros
convivas relatum, com- mode cum insequentibus verbis conciliari :
xavxa 87} axovSar- xaS tivyxcoptlv navxas x. r, A., scribendum
coniecit Spec. erit, p. 12.: vvv 8’ av iv fiovXevGov- xai xal ol
Xontoi, hoc ut esset : modo ceteri quoque bene sibi consulant.
Eodem fere modo Ficinus in coiit. : nunc- si militer , modo
ceteri quoque consentiant. Tliierscli. in Spcc. edit. Symp. Piat.
p. 8. vvv 8 * av ftovXotvx * av xal ol X olito i verbis locnm
sanare studnit. Astius vvv avxa (iovXovxai xal ol X ontoi exhibuit.
Orell. ad Isecr. de Antidos. maluit p. 324. : vvv 8* el ftovXovrai
xal ol Xontoi. Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel vvv 8' av et
fiovXovxai , quod Reyndera. In textum recepit. Riickertus
Platonem scripsisse su- spicatur : xal vvv 8* av , iav fiovXovxai
xal ol Xontoi: Con- sueri in omnibus tibi obtempe- rare, quae dicis
de arte medica, et nunc quoque (sc. tibi pbtemperabo) modo
velint etiam reliqui, Stkllb. verbis nihil mutatis nisi quod ev
post av positum omitteret, haec ex- quisita, inquit, brevitate
dicta sunt hoc sensu: uunc vero rursus idem fiet,
quando quidem etiam ceteri^con- vivae volunt. Quam exqui-
sitam boc loco Stallb. laudat di- cendi brevitatem, equidem licen-
tiosam appellare malim atque in- solentem. Sed pone, verba vvv 8*
av jiovXovXat significare posse nunc vero rursus idem fiet, quando
q ni dem — volunt, num verisimile est, Phaedrum dixisse : Soleo
tibi credere cum alias, tum potissimum disserenti su- per rebus e medica
arte depromtis, nunc vero rur- sum tibi credam? — Nihil
coniectura opus est, ut rectissime Stallb. censet, neque quicquanx
praeter ev vnlgo post av posi • tum expungendum. Indicat autem av
praegressae alicuius rei actio- nisve repetitionem, manifestoque
declarat hoc loon, ftovXovrat per prolepsin pro itei&ovxai positum
esse. Verba convertenda sunt: Nunc vero rursus etiam ce- Si yrjSiv iivut,
ro fi era rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri tlgeX&ovSav avlyrgtSa
%algeiv tav, «vlovaav lavry -rj, lav /JouAijt at, raig yvvai^l raig
tvSov, yyag 8's Sue Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro ryyegov. xal Si oiav A
o- yav, tl (iovAca&E, l&tXa vy.lv slgyyySaS&ca.
&avca teris (fidem habentibus tibi) li- bitara est (sc.
quaerere potatio-* uis qu and ara moderationem.) Hoc dictum ut
intelligatur, quam bene cum insequentibus verbis conve- niat :
Phaedrus verba vvv 6 * av fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse
cogitandus est vultu ad con- vivas converso quasi ro- gitaturus:
Rectene loquor atque de sententia vestra? fi 1 } did Nota
huno usum dia praepositionis. Optime Scliieierip* convertit:
Ilier au f also waren alie iiberein- gekommen, es bei ihrem
diesmaligen Zusammeu- sein nichtauf den Rausch anzulegen. Paullo
infra p.176. E. eodem modo 8ia Xoyav d/ 1- XijXoiS dvveivai.
Apposite Stallb. laudat Piat, de Legg. I, p. 640. B. 1.6X1 8£ ys
xoiavxrj <Swov6ia, tbttp tdxai Sia 2r}$ , ovx dSopvfioS.
Plura exempla si quaeris huius dicendi usus, adi Klattli. Gramm.
plen. $. 580. c. p. 1149. ♦ d XX* bvx a , 7t lv o y x
ai jxpos ijSovrjv. ctXX* ovxa sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa
accuratius definitur verbis inse- qoentibus itivovxaS 7tpoS
ySovrjv, Male Stallb. coniungenda censet ovxa itpoS TfdovTfy. nur
so zum Vergniigen. cfr. Symp. p. 193- C, oxi ovtodS av rjpav
ro ykvoS evSaipov yivoiro, tl £xx eX& tiatpev rov £ pa-
ra x. x. X. Adde p. 215. A. 2 coxpaxTj 6* iya htaivetv , cJ avdpes
y ovxcoS ticixtipytia. Si bIxqy av . Exempla huius dicendi usus
plurima reperiuntur, quibus possis adnumerare quale reperitur in
Alcib. I. p. 105. cap. 4. oxi avxov 6£ Sei dt>- Vadxevsiv £v ry
Evpdiry, quo loco indefinitum avxov praefigi- tur accuratiori
indicio £v xy Evpany • Ad nostrum locum ut revertar, Ttpo S'
?}5ovijv apprime respondet nostratium : nach Wohl-# gefallen.
Probatur haec verbi notio verbis sequentibus : nlvtiv o6ov dv
txa6xoS ftovXi/xai, bca- vayxeS 6 e prjdlv elvai. £tz dv
ayxeZ pySlr tlvai. Solebaiit regem (tftyi- 7C06iapxov') eligere
convivae, qui bibendi leges daret, quibus convivae ad bibendum
coge- rentur. cfr. Symp. p. 213. E. apxovza ovv alpovpai zijs
no 6egqS y taC dv vpuS IxavaS Tityre, ipavxov *ro perci rovro
yovpai. Tope ra rovro cum gravitate dietnm significat: quod attinet
ad id, quod post haec sequitur. Recte autem annota- tum est a Riickerto:
verba haec nunquam temporis solam conse- quentiam denotare, sed
ubique internum aliquem nexura inter praecedentia et sequentia
desi- gnare. ElSrfyovpai verbum quod 177 bt] itavtuq xcd flovXiaft
ai xat xsltvuv airov elgijytL- 6&cu. Elnslv ovv zbv ’Egv!;ltitt%ov ,
on 'H (ih> ftot aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v EvqmISov
MtXavlitittjV ov yaQ ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs, ov
fitiZa attinet, Hcsycli. interjpretator elft]- yeldSai •
dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere, censere , aliquid faciendum esse. Apprime
verbo respondere videtur nostratium : etwas zum Vorschlag bringen,
x i)v yev — • av Xrj x p iS a Xaipeiv lav, Tibicinam di-
mitti Eryximachus iubet, ut 8id Xdycov aXX?jXoiS dvveivai con-
vivae possint. Notari autem h. 1. Xenophontem, qui in convivio suo
tibicinae locum dedisset, ho- minum quoruudam liodie satis explosa
opinio fuit, vid, Boeckh, de simultate, quae Platoni cum Xenophonte
intercessisse dicitur 8, seqq. cfr. Protug. 347. C, Tiocl ydp 8oxei
poi xo 7Cepl 7Coir]decoS diaXtyeCSai opoiuxa- rov dvai xoiS
dvpitodloiS xoi$ xgjv q>avXa>Y TtctL ayopaicDV dvSrpGJTtGDY.
xal ydp ovxoi, 8ia ro pj) SvrctdSai aXXj}XoiS 8i iavxcZv
tivv&Lvai iv tg5 itoxco pr}8\ 8id xijs kavxcov (pcovijs ■holi
xoov Xoycov xcoy kavxcov vito ditaiSsvtiiaS, xipiaS noiovdt xds avXrjxpidaZ
, rcoAAov pi- OSoiytEvoi aAXorpiav cpcovifY xijv xqjy avXaiv , 7ia\
8id xifi ixeivaov qxxvifi aXXijXoiS dvv- eidtv. onov 8e xaXol xayaS
ol dvurcoxai xal TCuraihtvpirui elo \v , ovh dv l SotS ovt avXr r
xpidai ovxe opx*/dxpi8aS ovza ipaXrpias , «AA* avcovZ avxolS
\xavovS ovxaS dvvtivai dvtv xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV xovxcov
dia xijs avx&v (pwpS, A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv pipet
lavxojy xodplooS , nav 7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi
hunc locum, quo non Pla- tonis sententia Socrati adseripta
contineri videtur, sed ipsius So- cratis iudicium exprimi, ut cla-
rius intelligatur, etiam in minu- tioribus rebus Platonem ad So-
craticos mores scriptionem suam accommodavisse. xait yvyaiZi
talZ Ev- 8ov, cfr, Corn. Nep. praef. $. 7. Neque sedet (ac.
mulier) nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconi- tis
appellatur. Ceterum ut paullo supra 8ia pi$TjS, fla nunc 8ta Xdyojv
positum est adhae- rente, ni fallor, notione temporis, quasi dicere
voluerit Eryximachus: 8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv tj ylpav .
ei p ovXe 0% e , i^iXoo. Differre inter se videntur haeo
verba eodem modo, quo inter se differaut verba et XPV* Nimirum eam
voluntatem i$£- A eiv verbum denotat, quae cou- silio nititur atque
intelligentia , PovXedSai contra adhiberi se- let , ubi aliquis
impetu quo- dam animi fortuito abripitur, cf. 174). D. avAovday
kavtij , rj , lav PovXrjxai , xaiS yvvat - £,Lv h • r, A. h. e.,'
oder wenu sie Lust liat. Adde p. 179. B. xa\ p?/v
vjrEpaito$V7}dx£iv ye povoi ESlXovdiy ol ipaov- xeS. Symp. p. 190.
A. lito- pEVETO 8t> Op$6v , GjSTZEp YVYf uTtorlpcjdf
povXjfSeitj h. e. nach welchcr Seite es ihn hintrieb, cr Lust
liattc. Igitur con- Mysiv. OaiSpog yuQ sxaetots xqus (t£ aynvaxztSv
Xe- yzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv ruti &iav
vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv ke- jcoirjjiivovg , ta di
'Eqciu, rijXixovtcj ovu xal xoGovtto vertenda snnt verUo nostra :
Mit welchen Reden wir non den Tag hinbringen wollen , bin icb, so
ihr Lust habt, each vorati - schlagen entschlossen. Prorsus eoden#
modo Syrap. p. 199. A, a\Xd rd ye aXrj$i} % el fiov X b6$e, iSiXoj
linetv xar ipavrdv. cpavai drj rtdvra? seqq. h. e. Es hatten
nun alie ja ge- sagt und sie urollten es and hat- ten in ihn
gedrungeft, er mochte ihnen die Eroflnung machen. Coacervatis
verborum infinitivis satis vivide turba describitur' convivarum
strepenti clamore ser- monum materiam exigentium. Ttard r?}v Ev
ptniS ov MsXav innyv. Versus Euri- pideus est: ovx
i/ioS 6 pv$oS, aXX’ ipij? pi/rpo? Ttdpa , ad quem alludens
Eryximachus dicit ov ydp ipoS o' pv$o?, aXXd $ai8pov rovSe. cfr.
Alcib. I, p. 113. C. rd r ov EvpiniSov apa ZvpftaivEi , co
AXxifiiddtj, dov rade xiv8vv ev ei? , aXX 3 ovx ipov axrjxoevai,
ov8* tya/ eij.il d ravra Xkycov, aXXd 6v. Adde Apol. Socr. p. 20.
E. xal poi , a> avSpe? ’A5?jvaioi , jn) Sopv- firfirjrE, prj8\
dv dd%Go n vplv /xkya Xeyeiv, ov ydp ip dv ipcd rov Xoyov x. r. A.
Ad amoven- dam dictorum invidiam hoc Euripidis versu veteres usos esse
saepenumero, et ab interpretibus passim annotatum est et exempla
docent, quorum ex numero Apol. Socr. p. 20. E. Nostro
loco Eryximachus versum Euripideum laudat, non quo dicti
magnificen- tiam excuset, aut sententiae in- solentiam, qoibus
invidia auditorum interdum excitotur , sed suum cuique tribuendi
studio. Initium orationis, inquit, ad Euripidis Melanippen
accommodandum est, nam non mcasant, quae dictu- ras sum, sed
Phaedrus, qui hic assidet, eadem excogitavit. vpvovS xal Ttai
co v a Tlaidva? codd. nonnulli habent et scliol. Verba schol.
laudata p. 35. in hunc modum restituenda sunt fortasse: rraidiv aS'
ij rovS Xeyopkvov? naiavas, vpvovS Ei? 'JnoXXava htl xara-
navdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv tcov $£gov iarpdv •] 7} naicova?
00? vvv, cddds ini evrvxia xal vtxy, 8rd rov &j, i% ov xal
natcoviSjEtv. Verba rj Tlanjova rdv rcov Seiuv larpov uucis inclusimus,
quod aut abaliena raauu addita sunt, aut casu quodam a sede sua in
alienam translata. rrjXtxovrtp ovrt xal ro6ovrcj J Ficinus
habet: tantum talem ve deum, Ast. verba convertit talem tan-
tum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori et tam potenti. Exhibet in
con- versione Schleicrm.: dem Eros aber, eiuem so grossen und
herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ? essa tam vetustus
annotavit. Ad- dit idem, Eryximachum querelam B &£a, firjSh £W
ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv jttTKnrjxivca (irjdiv iyxco/uov; tl d£
fiovlu uv axi$a6&ai tovg ZQijGrovs tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd
uklav Phaedri referre, qtil in oratione sua hoc ipso nomiue
vel maximo honore dignam amorem praedicet, quod omnium deorum sit
vetu- stissimus. Iloc igitur ei indignum videri , quod Hercules
quidem, recens donatus immortalitate, lau- datores repererit, Amor
autem, omnibus ipse prior, suis laudibus careat. prjSlv
iyxwpi ov. Val- ckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq. p. 157. scribendum
coniecit prjSk iyxooptov 9 quam scripturam ut ardori loquentia
apprimo conve- nientem probaremus , si lyxco- piov verbum latiore
potestate careret. Complectitur autem iu se vfivovj xal TtaidSvaS ,
ut Ilgen. ad Scolia p. XXXVII* docuit. Queritur igitur
Phaedrus, quod , cum in ceteros eosdemque Erote multo inferiores
deos poetae hymnos composuissent et carmina pro salute et
felicitate suscepta, e tanto eorum numero ne unus quidem in Erotem
carmen con- scripserit. sl SI ftov\et av tixlipa- 65ai
— dvyyp d <pei v. Fi- ciuus habet : atqui, si vis, inquit, o
Eryximache, quaerere, inve- nies profecto Sophistas disertos soluta
oratione Herculem alios- qne laudasse, quemadmodum pe- ritissimus
Prodicus , quamquam hoc minus alicui mirum videri debet, sed etc.
Hac conversione motus Stallb. Platonem scripsisse censet :
EvprjdetS 'HpaxXeovS plv xai aXXxay — i ivyypdtpeiv (sc. avt ovS.)
Dubito, num recte. Nam illud invenies addita- mentum est, ut
videtur, Ficini, qui concitatioris hominis verba apta brevitate
reddere desperaret, Riickert. interpunctione post do- xpxdxaS
deleta et posito post 6x&- rpadSai commate sensum vetfborum ait
esse; porro optimos so- phistas. Etenim formula, in- quit, ei Se
ftovXst, cui plerumque non ndditor infinitivus, quem h. 1. appositum
videmus, ita ad- hiberi solet, ut novum inducat vel exemplum vel
argumentum. Accusat. rovS <So<px<$xds propter hanc, quam
indicavimus, formulae vim nou putem obiecti casum esse ad
tixhpatiSau , quamquam supplendus hic ipse erit ad hunc infiuit.,
sed subiecti ad seq. dvy- ypdtpeiv. Inde patet, usque ad
SvyypacpEiv omnia pendere e verbis ov Seiyov. — Displicet haec
interpretatio tribus de caus- sis. Primum tl Se ftovXet nus- quam
reperitur cum infinitivis verborum coniunctum, ut no- vum exemplum
commemorari denotet; deinde mireris post 6xtif)a6Sai
interpunctionem, qua efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~ xpidtds non
cum dXEiftadSoct con- jungatur, ad quod verba illa supplenda sint
tamen. Postremo verba tovS xpijdtovS — dotpxdxds e praecedente ov
Seiyov apta tortuosam atque hiulcam senten- tiam efficiunt. Si quid
video, Phaedrus diettirus erat: si 8h ftovXei av
<5xiif>a6$ax rovf XPV~ 6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv
xaldXXa>y iizaivovS (sc, avTovf) xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y>
tZs- xoxahoyaSriv tivyyQacpEiv , 6 pUufStog Tlgodixos — xai
tovto fisv ytrov xai ftavfiad rov — alX kyaye ?jdrj nvi lvttv%ov (hpttcd
ccvdQog Cocpov , Iv (p ivrjdav ateg i iCEp O fttXtltftOS
Tlp6SlX0S?E p G>- t oS 8h ov , tovz ov 5 a vy fiadx (Sx axov ;
Facit nobis* cum in hac reFiciuus, qui paullo infra addit in
conversione: cui non gravissimum videa- tur? — Sed cum nondum
ad finem enuntiationis pervenisset loquendo Phaedrus , . in
mentem ipsi venit salis quaedam laudatio» qua minus etiam mira
Herculis aliornmque encomium indicari debeat. Igitur suppressis
verbis "Epc&ti dfc ov, xovx ov Savfioc dTGnaxoY , statim
pergit; xai tovto puv ytTOY xai Savfia- (Stoy , aAA’ fycoys x. r.
A._ xovS XP ydTovS. Ironice hoc dictum esse y ut mox 6 /JeA-
xtdtoS ITpodtxoS , Stallb. docet. Sohleicrm. verba convertit: und
willst du dicli auch untcr den edlen Sophisten umsehen, dass sie
auf den Herakles und Andero in ungebundener Rede Lobschrif- ten
verfertigen, vie der vortrelf- liche Prodicus. Riickert. ad h. 1.:
XpydToi , inquit, sunt boni, optimi, die guten. Adhibe- tur enim
haec vox iq derisione. TovS xpyfaovS 6o<pi6raS nou So- cratis
verba sunt Sophistis in- festissimi, sed Phaedri, hominis a studio
sophistarum non alieni, ut laudatio Erotis docet sophia stica arte
composita p. 178. seqq. Vehementius autem quam iu poe- tas, Phaedrus
in sophistas inve- hitur, utpote qui, cum siot re- rum utilium
laudatores strenui, inprimis Erotem lau- dare debuerint. Sententia
est totius loci ♦ Ist es nicht achreck- licii, dass andere
Gotter von den Dichtern gefeiert werden, dem Eros abfcr, dem
altesten und segenreichsten Gotte auch vou koi- nem der vielen Dichter
ein L«ed dargebracht worden ist? Willst du nuu aber die
praktischeu Sophisten ins Auge fassen : dass sie uber Hercules uod
andere Lobschriften abfassen , wie der tuchtigate uuter ihnen,
Prodicas — und das ist weniger noch xu bewundern, — aber mir
kam sogar eiumal ein Ruch zu Han- den, in dem der Nutzen des
Sal- zes auf bewundernswerthe Art erhoben war. xa\
tovto filv yTTOY xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod. Vindob. et Vatican,
liber alterum hoc xai omittunt probantibus Bastio atque Thierschio.
Sed recte servant illud ceteri codices. Pertinet autem ad ?/ttoy,
ut sen- sas hic sit: atque hoc minus etiam mirum est, quam
hoc, quod in librum qu*u- dam incidi etc. Nec mirum est 7/ttoy
praemitti voculae, quum t ovcodtY habeat. Quam* quam non in promtu
sunt alia huius collocationis exempla, Stallb. Iy cj ivrjdav
aA,£f, Apto comparari iubet Stallb. Isocr. Helen. Laud. p. 304. tvy
fily yap TovS /5oppv\tovS xa\ xovS aXaS' xai xd xoiavxa
floyXy- SivTtoY iitaiveiv ovdeis 7too7fore XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic.
Brut* $. 47. Singularum rerum lau- dationes vituperationesque
cou* scripsit, quod iudicaret hoc lora* C titaivov davfiuGiov
i'xovres xqos w(fi/.uav • y.at aXXa Toiavta (5v %va XSoie Sv
iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv xoiov- rcov fiev ittQi noXXrjV GxovStjv
itoirjOaG&cu , "Egma Se Hijdtva Tta av&Q dxav ter otyiyxivca
tls ravxrjvl xrjv tjpi- toris esse propriom, rem angere
posse laudando viluperandoque rursus affligere. Vid. Wolf, Prolegg,
ad Demostii. Lept. p. XXXV* Restat, ut indicemus, cur Prodicus Ceus
hoc loco fiii l- r idxoC audiat. Multam operam posuisse perhibetur
in verborum discrimine explicando, quae 8iai- pfdtff rcov ovopdxcov
vocator Prolog, p. 358. A. Iloc studium acerrime perstringitur
Prot. 337. A., D. et C , laudatur Piat. Lach* p. 197. §• 26. Haec
StalpedtS quamquam summopere a Prodico exculta, tamen Phaedro tanti
esse nou potuit, ut fiiXtidrofi Pro- dicum appellandum esse
putaret. Satis notum est, Prodicum lucri caussa Epicharmi versum in
ore gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a viP,£i. 8oS n xal Xapi
n. vid, Axibch. 366. C. Sed ne hoc quidem satis caussae est,
cur fiiA XidxoS appelletur. Videtur potius, ut ita piAxiCxoS de
eo valere, qui rerum laudem non nisi ex earum utilitate ex- aptat.
Prodicus autem ne a diis quidem rationem utilitatis cohi- bere
solebat, ut videre Jicet e dicto eius servato apud Sext. Empir,
adv. Mathcm. 9. 18. i/Aiov xai defajnjr na\ Ttoxa- povf xal xpTjvaS
xat xaSoAov itdvta r d cocpsXovvxa xov ftiov rjpwv ol itaAaiol Seov
S ivo - puSctv 8ia X7}v ait avxcOv coepi- Anav f KciSditEp ol
AlyiJitxioi xov NeiAov t xa\ 8id xovxorov Mtv dpxov Ji/prjxpav
vopidSij- vat xov 8h oivor Jiovvdov nal x d 8h vSaop
Ilodsidcova , to 6h TXu p n Ilepaidxov xal ehee rcov evxprjdovxcov
ditavxa. Addo Cic, de N. D* I, 42. m Quid Pro- dicus Ceus, qui ea,
quae pro- dessent hominum vitae, deorum ia numero habita esso
dixit , quam tandem religiouem reliquit?» Iam quod Prodicus fe-
cit, ut iu deorum laudatione non deos, sed rerum utilitatem
laudaret divino nomine insignitam, idem fero iu Erotis eocomio a
Phaedro factum. Nou in indolem inquirit atque iu naturam dei, sed rerum,
quarum auctor Eroa esse perhibetur, utilitatem expo- nit j quo
maiorem illam videt, eo maiore honore deum exornat nullo veritatis
respectu habito* Non mirum igitur, si Prodicum maxime laudandum
Phaedrus cen- suit, ad cuius exemplar ipse laudationem Erotis composuit.
Ceterum quod Herculis laudationem attinet, Riickertum audi ad h. 1.
annotantem: Herculis laudationem scripserat (sc, Prodicus) in
libro, coi oopai titulus, ex quo notissimam de Hercule in trivio
fa- bulam mqtuatus est Xcnoph* Mem* II* , 20. Prodici quippe
admirator usque adeo, ut, quum in Boeotia vinctus esset, quo
tempore ibi sophista versabatur, vade dato ad audiendum eum o
carcere prodiret auctore PJiilostr. vit. soph. I, 12. ro ovv
x oiovtov seqq* Vulgo post -dpvij<5<xi comma positum
reperitur, pun- ctum post Wyttenbach* Qttv a^ltog
i(twj<Sai — - ukX ornag tffilbftcu toGovtos S-eos ! Tavxa 8tj poi
SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui ow Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov
elgeveyxeZv xal ^txQiSao&cu , afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov
jioi 8oxeZ Bibi. Crit.^T. I. YoL, ra. p. 10. oti ante ovxcoS
inferciendam cenanit ; Steplianus coniecit a\\’ ovxcaS TjpsAijdSai
xodovxoy Seov. Non mirum, lumines doctos in verborum
structura admodum haesisse , in qua com- ponenda ipse, qui
loquitor, impe- ditum se atque implicitum sentiebat, Addita ovv particula
ma- nifesto indicatur, verba superiori- bus annectenda esse; sed
quoniam omissa sunt illic, e quibus haec exaptari potuissent, xovx
vv SavpadxaSxaxoy; factum est, ut quaedam structurae ambigui- tas
oriretur, et dicenti, et audi- enti molestissima. Ex hac stru-
cturae difficultate ut se extrica- ret Eryximachus, dissecto
inceptae structurae filo pro infinitivo in- dicativum posuit. Hinc
bene habet exclamandi * signum , quod post &eoS positam est ab
interpretibus, minus probem post vpvijdai, Verba convertenda sunt:
Dass, sage ich, an solche Dinge viele Miihe verschwendet wird, den
Eros aber Iceiner noch wiirdig zu feiern versucht hat, sondern so
vernachlassigt wird ein so segenreicher Gott! a^icoS v pvrf
dat. Wolfiu» ad verba tc3 6b "Epooxi — ptj- 6bv iyxoopioy
annotavit: Man muss annehmen, und dies scheint mir das wahrste ,
dass Platon vorsatzlich seinen Phaedrus et- was sagen lasst, das
nicht ge- grundet war. Viro doetissimo concedimus, Eroti laudatores
vix deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phaedro aliquid
imputemus, quod nec cogitavit nec dixit. Negat tantummodo reper-
tum esse adhuc, qui laudem deo dignam ediderit, non ne- gat,
prorsus neglectum iacerc atque contemtum a poetis sophistis- que deum,
Iam quid sit laudem deo dignam edere s. dB,iooS vpvijdai (roV
Seoy), infra paullo explicabitur. ipavov elfey eyxetv
h, e.' symbolam dare. Non caret lepore in symposio philosophico haec
dictio , de cuins tror pico usu conferri iubet Stal». Casaub. ad
Theophr. Charact, c. XV. xo dpijdai xov Seov. Mi- nus
qusfcrendum h. 1. est , quid omnino xodpEiv significet et aB,iooS
v/ivelv, quod paullo su- pra legitur, quam qua significatione haec
verba adhibuerit Phaedrus. Socratem ipsum interpretem sume p. 198.
E. x 6 dk apa (sc. ro iyxcopia^Eiv') ov xovxo jjy xd xa\co$
ixaivEHy oxiovv, aAAcz xo aZs pkytdxa av axt$ i- v at x ai
itpaypaxi xal co S xdWidx a iav x e y ovxgdS iav xe prf'
el dfc TfiEvdrj , ovdbv ap yv izpayjxa x. x. A. Atque eodem
fere modo ipse Eryximachus p. 177. D. Soxei yap poi t inquit,
Xpijyai txadxov ypoSv Adyov eItzeiv Inaivov *EpooxoS — cJ S av
Svvyxat xaWidx ov. v rj ptv iy \6yoiS . Wolf* convertit :
eine reichhaltige, weit- 4 tlvui rjuiv toig xuqovOi
xoOfiijtiai rov &tov. tl ow D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’ civ rjfiiv
iv koyoig ixavi) dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca Zy.utirov i^fiwv
kbyov tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av Svvtjrai xak-
kidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog xaraxuzai xai
1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg Coi, o3 ’EQv£lntt%£, (favea zbv
Eoxqcizi) , ivavzla iprjcpiti- lauftige Materio zum Reden. ypiv iv
X oyotS idem fero est, atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sen- sus est.*
Wenn nun auch euch wirklich so diinkt, so hatten wir in aasern
Reden sattsame Unterhaltung» De structura huius enuntiati vide ad
p. 176. C. Minus probabilis Stallb. ratio explicandi est haec: tl
ovv %vv- - xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv yevoiro yap av ypiv iv
Ao- yoi$ ixavy biarpifty. i tz\ btB,ia. Sic Bekk»
Stallb* alii; Riickertns veterum editionum lectionem imbLB,ia in
tettum re- cepit usu Homerico nixus, quem Plato haud raro imitatus
sit* Vid. F»uttm. Lexil. p. 173» seqq. For- tasse recte habet
iitibiByia^ ubi narratur, quo ordine aliquid factum sit; contra quo
ordine aliqnid fieri debeat, ubi indicator, rectius ini 6e%id
exhibetur, v. c. in Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai rovS xtpapia?
xaxaxXlvavraS t inibi%ia Ttpoi ro itvp bta- nivovrds Tt xai
tvcDXovpivovS H . T. A. De xPV y Cct verbi potestate J es miisse wolleu ,
vide annot. ad p. 176. E. narrjp rov Xoyov . J7a- nyp
vocis insolentiam Stallbaum* leniri posse arbitratus est addito
exemplo Phaedri p. 257* B* &aidp6s re xai iyco Avdiav rov rov
Xoyov nazipa alxioo- pevoS. Fortasse EryxtfBachus rursus ad
Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o javSoS, aXX* ipffS jirjrpo S
napa , at- que a se quidem profectum ser- monem negat: patrem eius Phaedram
esse contendit* y ra i p anxa. De his verbis vide Commentat. de Piat»
Symp, Certissimum autem esse existimo, Platonem his verbis le-
ctoris animum ad futuram So- cratis orationem tanquam ad caput libelli
dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur, cum Socrates ra ipoxixa
initizatiSat dicatur, Aristophanes Bacchi Venerisque cultor nomiuetur,
Agatho et Pausanias indicio addito nullo ad Erotis laudem
celebrandam promti perhibeantur: Schoi. ha- bet s. v, f Aya$QDVoS
.... rpa - yaSt . ... ini paXaxia . . . zaby . yv b* ovtoS ...
itaiSj 'ASyvaioS .... naibixa JJavbaviov rov r pay ixov , x. r. A.
Qui mutuo amore se complectebantur, iis nihil iucundius contingere
po- tuisse consentaneum est, quam laudationem Erotis. Non
com- memoratur autem h. 1. Pausaniae et Agathonis amor mutuus
diser- tis verbis , quod tum temporis notissimus erat.
ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS. ovbh fiyv illatam post ovre ap-
t rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui , og ovdiv
gtijyt alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa , ovts xov Aya&av xal e
ITavUuviag , ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g , a xsqI AwvvGov xal
'AtpQoSktjv xdoct tj diatQcjli) , ovds allog ovdelg tovtavl av lya oQa.
xal r oi ovx l| iGov ylyvstai 7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’
Idv oi xqogQsv txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia tvxu
prime respondet Latinorum ne- que vero etiam, quibus verbis
res quaedam induci solet , quae maioris momenti est, quam res
paullo ante per simplex neque commemorata. Igitur cum gravitate
Aristophanes totus perhi- betur cura Baccho et Venere oc- cupatus
esse. De Baccho liquet, nam res scenica, inquit Stallb., Baccho
erat sacra, vid. Casaub. de Satyr. poesi p. 9. ed. llamb. Venerem
autem commemoratam h. 1. censet Riickertus, quod plenae sint ve n
eris Aristophanis comoediae. Wolfius ad h. 1. an- notat : In
wiefern er mit der Ve- nus zu thun gehabt habe, bezieht sich
vielleicht auf einen Um- stand , der der Gesellschaft be- kaunt
sein konnte, fiir uus aber verloren gegangen ist, vielleicht auf
die Sitten ' des Dichters. Aliter nobis videtnr de hoc loco statuendum
esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare vi- dere se audeat
dicere? Ilaud raro Socrates nomina propria facili quadam litterarum
mutatione cor- rumpere solebat atque ita immu- tare, nt nomen
existeret, quod aive laudem sive vituperium ex- primeret. Exemplo
est p. 198, C., quo loco Gorgiae Gorgnsque nomina inter se
conferuntur le- pidissime. Adhibita accentus mutatione in ’Ayd$oov
et dya~ Scov nominibus ludit p.
174. B. Quid, si etiam hoc loco in Aristophanis nomine lusit?
Significat 9 Api6xo<pd.V7}S cum, qni opti- mum prodit.
Optimam autem, veteri proverbio, vinum et venus est, quod Graece
audit: dptdxov diovvdoS xal *A(ppo~ dlXTf . x ai x oi
ovx i B, Id ov —<*AA. Magnopere se torquent in huius loci
explicatione, qui xal xoi conianctim exhibuerunt. Ut gravior esset
xoi port. affir- matio, vocula ex scriptoris sen- tentia initio
enuntiationis ponenda erat. Id quoniam vetant fieri linguae leges ,
xai expletivum praepositum est, do quo p. 6. diximus. Latine
reddenda sunt verba: Pol non aequa cou- ditione, qui ultimi
con- sedimus, utimur. Quae se- quitur aWa particula, ita com-
mode explicatur, nt omissum co- gitetur, quod facillime suppleri
potest: 7 j/ieiS ovv ovx ipovfiev^ «AA* idv — iBiapxidei Locus
nostro simillimus est Par- menid. p. 128. C. xai xoi GJSnep ye ael
Adxatvai dxvXaxeS ev pexaSeiS xe xal IxveveiS td \£X$ivx a. aXXd
npuxov fiev Ce xovxo Aay$dvet, oxi x. x. A,, quo loco ante aWd
facillimo suppletur ovx zvpeZ xrjv afa/Seiav. 4 *
! aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu lpta[HCc£ha rov "Egona.
Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £ we<p«<Sav t e xal 178
helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a exadros tfotev , ovre navv 6
'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto « helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal
av l<5o£e fioc d^ioyvrjfiovevtav sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov
xov loyov. tffiiv to iS v6tdx 01 $ xa- x an eipkv o
tS. Dictam supra est p. 175. C. xov ovv 3 'Ayd - Saova, x vyxdveiv
yap kdxotxov naTaxalpevov , povov * Jevp cpctvai, oo 2ooxpaxeS f
nap iul xaxaxeido. Sunt igitur ol vdxaxoi xataxeipevot
Socrates ct Agatho. xv XV dyaSy. Formula erat, qua
feliciter succlamare Graeci so- lebant iis, qui aut navem conscendebant,
ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud negotium suscipiebant, cuius
incertus even- tus esset, cfr. Griton. p. 43. D, dW\ gj Kpitcov ,
xvxy aya$y. navxeS dpa £vvk<pa- 6 av. Wyttenb. scribendum
con- iecit dpa pro dpa t qua con- tectura efficitur, ut omnes
uno ore consensisse dicantur. Hoc consentaneum est convivas
fecisse. Sed quoniam non sine turba et clamore hoc fieri poterat •*
nt quietius convivae egisse viderentur, dpa non dpa Plato scripsit.
De hi^ius particulae significatu vide Heisigii annot. ad Oed. Coi.
Enarr. p. CCVIH. Ortum dpa est ab apeo , soletque adhiberi , ubi ab
argumentorum enarratione ora- tio ad finem tendit, h. e. ad
conclusionem. Et cum singulos convivas Socrates nominasset ita, ut
simul, cur ad laudem Erotis praedicandam parati essent, caus-
sam adderet: ' om nes igitur consensisse perhibentur. Minus apte
Schleierm. in conversione: Hierrait nun stimmten dann anch die
Uebrigen alie uberein, ovre navv 6 *Api6t o & 1 J' poS.
De horam verborum fine^ vide quae dicta sunt in Com- mentat. de
Piat. Sympos. Minut placet, quod Stallb. attulit ad ad hunc locum:
Caute, inquit, haec interposuit, ne legentes in eam inciderent
opinionem, ut has orationes revera habitas , non ab ipso cuiusque
ingenio convenienter fictas esse putarent. a^topvypovevtcov
elvai. Codd. plerique a£,io - pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai
00 habet dZtopvrjpovevxov; in Pa- ris, uno, Vindob. duobus
pancis- que aliis d&iopvijp6v£vta ex- stat, quod Bekk. in
textum re- cepit, quem Stallb, Riickert. alii secuti sunt.
Videlicet docti viri negant, a^topvripovevxovS ora- tores vocari
posse , atque non nisi orationes illo epitheto recte Insigniri.
Aliter nobis de hoc loco statuendum videtur. Verba xovxoov vpiv
ipoo kxadtoy xov Xoyov ad praecedentia referan- tur drv UoB,k poi
dZiopvypo- vevxcov elvai: verba a pa- \idra nihil habent, quod
ipsis 9 I Cap. VI. Flgarov (ih>
y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^d- ftivov tv&ivdt xo&tv
ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs xal fravfiaatos Iv av&Qthitoig
re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv xal aXXy , ov% rpiMtd de xatd rtjv
yivEdiv. rd 'yuQ Iv tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov, tlyuov, ij 8’
os' tex/iq- B respondeat. Igitur dubitari ne- quit de xai
voculae potestate, Kctl nimirum auget corrigendo sigoificatque
atque potius. Exempla si requiris huius usus, vide Stallb. ad Apol.
Socr. p. 23. A. Convertenda autem verba sunt: Was mir nun am
meisten — oder besser, welche Redner mir am wichtigsten und
merkwiirdig- sten zu scin schienen, deren Ke- den will ich euch
einzelu dar- stellen. Proprie dicendum erat oi E8o£dv poi p
<x\i6xa a.B,io- pvjjpovevxoi elvai , xovxarv .... Genitivi e
praecedente d exapta ta sunt, quod xai addito quoaiam paene
evanescit, infra positum habes xovxgov vplv ipdb kxa- 6tov xov
Xoyov. Ceterum ex his verbis iodicnri licet de Apol- lodori
ingenio, qui orationes non tam ex orationum rationibus, quam ex
auctoritate et celebri- tate oratorum indicabat. Simili ratione
paullo infra p. 180, C. non orationum, sed oratorum obli- tus esse
dicitur Apollodorus his verbis: $al8pov p\v xoiovzov riva \6yov
Z<pij tinuv , pera $at8pov aAAovS’ tivaf, (li. e. oratores non
orationes,) elvat, ojy ov jtavv dispvt]- liovev ev.
icp&xov p\v yap. Phae- drus demonstrare studet, Erotem
deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum bohorum,
virtutis atque felicitatis benignissimum auctorem. Vide Comment. de
Piat. Sympos. Ce- terum de Phaedro, Pythoclis fi- lio, quem
Socratis aequalem fuisse negat Athenaeus XI, p, 505. F., et qui in
Protag. p. 315. C. in- ter Calliae convivas memoratur, rectissime
Stallb, m Erat inquit, homo mollis ac delicatus, <Soq>oS T a
ipGDZixd vid, Phaedr. p. 227* A, Sectatus autem rhetores Sicu- los,
iuprimis Tisiam et Lysiam, mirifice sibi placebat in oratione comenda
et calamistris ornanda» vid. Phaedr, p, 227.» p. 273** al. Itaque
oratio, quam Tlato hic ab eo habitam facit, habet nescio quid
fucati coloris et or- namenti, ut facile appareat, ho- minis
ingenium et mores ut ce- terorum convivatum, q Platone ad ipsam
veritatem esse ex- pressos. rd yap iv xoiS iep£6fivr
xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS Ttpetipvtd- XoiS sequente
elrat xc ov Segov. Non dubium est, quin dixerint antiquitus Graeci
iv xoiS itps- tipvtdtoiS Tipedftvtarov et iv raiS nps6pvrdxaiS
itpstipvta- xr\v\ sed usu loquendi factum paullatim est, ut non
solum iv xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed qiov de tovtov' yovijg
yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre kt- yovrcu vtc ovdevog ovre ISiutov
ovre TCoitjzov, aAA’ 'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca (ptjOlv ,
' avtdp inerra etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet ea
amplitudine verba £ v toi? esse voluerunt, ut quae gene- ris
discrimen non suscipiant, quasi dicas, omnium rerum, quae cogitari
possint, antiquissimam, maximum, pulcherrimum. Exemplum huius structurae
est p. 173. B. napayeyovei 8* iv ry dvvovdine 2ooxpdrov?
ipet- Crrj? cov iv toi? paXidra tcor rore. Adde Symp, p. 178.
C. iv xoiS 7tpedftvraro? elvai. tifiiov, i / 5* o? . In
upo Vindob. exstat eido? pro y 8’ d?, ex qua scriptura, dupliciter
po- sita rifiiov vocis syllaba finali, rijiiov ovetSo? effinxit
Creuzerus ad Plotin, de Pulcritud. p, 146. Consentire videtur
nobiscum vir doctissimus, tlpior verbum hoc loco "admodum
frigere, neque nilo modo praecedentibus dei epithetis ^avpadro? et
piya? respondere. Exspectaveris potius superlativum, qui exstat
apud Aristot. Metuph. 1. 3. rifUQora* rov yap rd Ttpedftvrarov,
Non mutandum est y 8 1 5?, quibus verbis ipsissima Phaedri
verba premi manifesto indicatur. Phae- drum nutem dixisse reor: r o
yap iv rot? nptdfivrarov eivat rdr 3coV ov rifuov . Addita
nega- tione et interrogatione instituta efficitur, ut"
orationis vigore vis superlativi compensetur. Ceterum eo facilius
scribae passi sunt ne- gationem a praecedentis verbi syllaba finali
absorberi, quo mi- nus iotelligerent , interrogandi signo forte, ut
fit, oblitterato, qui possit non honorifica esse laus
antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV. Hacc verba si abessent, a
nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet.
Cui euim non arrideat, enuntiatorum iunctura haec : rd yap iv t 61?
7fp£(jpvraxov elvai rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?, yovy? 8e,”Eporo?
x, r.A. Cave tamen otiosum additamentum T exuypiov tovtov verba
cen- seas. Nimirum orationis conti- nuitatem ita intercidunt
h. J., ut gravior fiat caussae comme- moratio; simulque indicant,
quoniam oratorum, ut videtur, pro- pria sunt, Phaedri orationem
verbo tenus referri,# Huius rei, h. e. accuratissimae repetionis,
iudicium sunt etiam ?/ 8 ds verba, quae Apollodorus posuit, ut cla-
rius indicetur, iuitium orationis non nisi Phaedri sententias, Ari-
stodemi, non ipsius Phaedri verbis descriptas ( ap^dpevov iv- $£v6e
itoSiv') contiuere, nunc autem ita pergi in repetenda oratioue
Phaedri, ut etiam ipsa eius verba repetantur. Ceterum perraro
xexpypiov 8i, paprv- piov 8i , similia ponuntur, quia in
subsequentihus yap part. repe- riatur, v. c. Plat, de Legg. VII. p.
821. E. r expypiov 8i, iycd tovtov ovre vio? ovre itaXat axyxoa
depov. ovx eld\v ovte i.iyov- taiy II. e. neque sunt
revera parentes Erotis, neque esse a Vat £vpv6xspvo? , Ttdvtcoy e8o?
a<5(paX\? aiei f ’H8’ "EpoS. &rj(Sl {ietcc ro
%aog 6vo rovta yeviti&cu, yrpv re 'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr (
g 8e trjv ttvttiiv liyzi, quoquam perhibentur. Non esse revera
parentes Erotis, non pro- bator; non dici a quoquam ita tantummodo
confirmatum liabes, ut allatis versibus quibusdam, quid Hesiodus et
Parmeuides de Erotis ortu tradiderint, edoceare. Notabis igitur,
quam Plato car- pit, levitatem argumentandi. ovxe i 8 1 cozov
. ’l8iarr?]f latissimi significatus verbum est, quod plerumque ex
opposito ac- curatius definitur. Igitur non placet Ficini
conversio: Id autem ex eo c o 11 s t at, q u o d parentes
Erotis a nullo vel poeta vel alio quo- vis descripti sunt.
Nec prosarium scriptorem cum Stallb. interpretari velim Idiooxi]?
vocem. Antiquiores enim philosophi, ut Parmenidis exemplo
docemur, prosa oratione non usi sunt, cfr. Olympiod. ad Phaedon» p,
65« E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd - ro ov) llapjiEvL8?fv f
'EpTttdoxXiot, *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A. Consentaneum est
autem, philoso- phos et poetas ibi tangi, non poetas et prosarios
scriptores, tibi in Erotis originem inquiritur» Convertit
Schleierm.: von irgend cinem Dichter oder andern Erzahler» Exempla
si quaeris IduaXTj? vocis ex opposito ex- plicandae, legitur infra
p. 178. D. ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e* vreder ein ganzer Staat
nocli ein einxelner Biirger. Prot. p. 322. *C» ei? Ixooy laxpixijv
itoXXoiS IxctvoS l8icoxatS x* x. A. tprjdl pexa ro x^oS
— x a i ”E p m r a. Haec verba quo- niam cum autecedentibus
nullo modo consociari possunt, Ilein- dorf. , quem Schleierm»
secutus est, post Iloio8oS pronomen re- lativum o? ponendam
ceusuit, Wolfins <pij6\ 67 scribendum existimavit. Ileynius,
Astins , alii, verba glossema censent, quod iudfcium Riickertus
probaret, si Socratis haec verba essent, non Phaedri hominis
inepti* (?) Sed ipsum audi Kiickcrtum: In Phaedri, inquit,
oratione nihil decerno , quae tota tam inepta ei/, ut ii tollere
velis omnia t quae displiceant , haud scio , an nullum versiculum
sis incolumem habiturus . (!?) — Plato poeta- rum versus laudare
solet duplici modo» Aut nudos versus afiert, aut commemorat
aliquid, quod idem in sequentibus versibus continetor iisque
comprobatur. Atque huius quidem rationis exemplum occurrit p, 195.
D. n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v'
xovt yovv 71 6 8 a S avxij? dita~ Aou? Etv at , XlycoY
Tij? piv$' djraXol TiddeS* ov ydp iit ov6eoS niXvatai y aXX’
apa 1 ) ye xax* dv8poav xpdaxa fiaivei. Prioris rationis exemplum
est p. 197. C. Nusquam, quantum scio, poetarum versus laudat ita,
ut prolatis ipsis eorum prosariam explicationem addat. Fortasse cum
Riickerto foedidam quandam Phaedri sedulitatem Platonem no- taturum
fuisse contendis. Audio, / f
» npoitititov pkv * Epcora Itetur pijritSato xavrojv. C
Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv neque
probo tamen. Nam hoc certe negari nequit , Phaedrum recte loqui potuisse,
ut non cre- dibile sit, eundem hoc loco bal- butientium instar
locutum esse. Scribendum videtur esse: dAA’ 'Hdlodof xpturov plv
xdoS tp?j6l yevidSat avtap Ixeixa tpj]6l
yai’ ev pv 6t epv oS, nav - tcov 28oS adqxxMs alsi rj 8 *
"EpoS. Repetitum tprjdlv est, quo magis pateret, ab
obliqua oratione ad ipsa poetae verba trausiri. Factum autem
videtur esse casu quodam, ut tprjdiv a sede sua in eo loco, quo id
codd. exhibent, colloca- retur, ubi ansam dedit nescio cui sciolo
Hesiodeos versus prosaria oratione explicandi. De tprjdi verba ipsa
poetae indicante cfr. p. 177. A. $al8poS yap b«x- QTore itpoS pe
dyctvcottoov Ai- yet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A. Adde p, 202. C.
Tcal iyco eluor , TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Al- cib. II, p,
142. c. 8. A iyei 8i xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv a,
<prj6i, xai evxopivoiS Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov , rcc di
8eiva xa\ evxopivoiS axa- A dB,eiv yteXe-vei. Tlap pevidrjS
81 — tcov, Haec quoque verba sunt, qui expungenda censeant.
Omisit ea cum superioribus tprfdl pera ro xdoi 8vo zovzgo '
yevidSai, yrjv re xal " Epcora , Stob. in Kclog, phys. I. p.
154. Verba sanissima esse iam colligere possis e praecedentibus verbis
ov8l idtturov ovre icotrjtov , Quibus !
commemoratis et poetarum et philosophorum certe unum exem- plum
laudari debebat ; si Hesiodum solum Phaedrus laudare volebat,
philosophorum mentionem facere non debebat. Verba sanissima esse
etiam e rectius explicato TevidecoS verbo patebit. Sic statuo: Duae
sunt in Mythologia Graecorum Veneres, quarnm altera maior, altera minor
aetate, Atqne minor quidem dea, *Aq>po- SirrjS nomine insignita
, a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea, quam numen
rectius voces , iis tan- tummodo nota erat, qui omne studium in
coguo&cendis rerum caussis ponebant, b. e. viris phi-
losophicis, Factum autem vide- tur philosophorum inter se dissen-
tientium industria, ut plus minus divinae dignitatis dea maior nata
particeps haberetur, et cum vario modo spectaretur, ne certo qui-
dem nomine insigniretur. Ti- vediv eam vocarunt, et $i\lav f et
XaoS ; aeque, qui fons est magnae confusionis, ab A<ppo8l - r
rjS nomine abstinuerant, quin maiori illi deae interdum attri-
buerent. Sic Plutarch. Erot, p. 756. F. UtppoSityv posuit pro
Tevedet, sed addita Ipycav voce, qua nominis mutatio satis excusatur: 8io
IIappevl8ijS plv axo- tpcdvei r ov "Eptura rtuv ’Acppo- SirrjS
ipycov xpetifivrocrov iv zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoS- zitirov
plv * Epoota h. r. A. ri- ve 6iv autem Parmenidei versas subiectum
esse, etiam Aristotelis verbis probatur Mctaph. 1. 4. xal ydp ovroS
(sc. fla p pe - opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai.
XQtaflv- torros ol tw ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou
viSrfS) xctxadxEvdZoov rrjv tov navxoS yivediv' npcvxidxov
p&v, tprjdiv f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo ndvxcov. Notasset
enim, si revera abesset, sabiecti absentiam philosophus. Satis notus
autem Graecismus est» quo dicitur trjv Ovediv Xiyei *
nptoxidxov x. r. X, pro Akytt * npoSxidxov ptv rj rivEdiS *Epooxa
Segqy pTjxidctxo ndvxoov. Iam patere opinor, Hesiodeos versus
cum Parmenidis testimonio optime convenire. Nam quod Xaos
apud illum est, ttyedis Parmenidi vo - catur, Igitur nullo modo
pro- banda est ea evplicandi ratio, qua Phaedrus callide dicitur
sub- iectum versiculi reticuisse, ne quod testimonium pro sua
sen- tentia afferat, quod idem contra ipsum testari nimis
manifestum sit. Verendum nimirum erat, ne quis convivarum, qui
Parmenidis versum memoria teneret, erroris atque fraudis loquentem
accusa- ret, aut, si non teneret, e ve- stigio subiectum rogaret.
Ceterum quod terram simul Hesiodus commemorat, (videlicet ut esset,
quo incedere Eros posset), id ei non officit, qui deorum
antiquissi- mum Erotem probaturus est. Ad- dere placet Simplicii ad
Arist» Phys. p. 9. revidecaS definitionem. Indicat nimirum, Parme-
nidem habuisse $eg5y alxiav Scri- povct iv pido» ndvxarv , T]
navxct Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv s. xrjy xAydovyov Stallb.
minus accommodate interpretatur, xal *Axov diXe uf o
/io- do y e 2. Suidas habet; *Axov~ diAaoS, Kafia vlof 9 ‘
'ApyeioS ano KepxdSoS noAeaS , ovdtfi AvAiSoS nXrjdiov ,
IdxopixoS npedftvxaxoi * iypanpe <5£ ye- veaAoyiaS ix 6iXx
oov ds XoyoS evpelv tov naxipa avxov opv&avxd riva xonov
xrjS oixiaS avxov . Hinc de Clem, Alex, testimonio iudicabis, qui
Strqm. VI, p. 629. A. Acusilanm nihil nisi Theogoniam Hesiodeam in prosam
orationem con- vertisse docet. Phaedrum Acu- silai auctoritate
temere usum esse contendit Stallb. Habet, inquit, hominis oratio ,
ut iam supra dictum est , nonnihil sophistici acuminis et tumoris. Aliter
nos, atque fecit Stallb,, de Acusilai testimonio indicamus.
Videtur Acusilaus Argivus non Hesiodi solum mythos collegisse
atque in prosam orationem convertisse, sed etiam aliorum poetarum
narrationes addidisse, ut fecisse constat omnes eos, qui Logogra-
phorum nomine insigniuntur. Iu tanta autem, quanta erat antiqui-
tatis farrago mythorum, critica abhibita sedulo caverunt, no
discordia etinter se pugnantia col- ligerent. Fieri igitur poterat,
nt Acusilaus interdum ab Hesiodo discreparet; igitur illius
testimonio Phaedrus uti potoit satis commode, cfr. Otfried Mulier
ia den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie p. 13.:
Iudcssen hatten sie (die Logo- graphen) zugleich die Absicht, die
Mythen zu ordnen und io Zusammenhang zu briugen, woriu ihnen auch
schon die kyklischeu und geueslogischen Epiker voran- gegangen
wareo. Bel diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov louv
ccya&otUtov&vs vtco uvzt, ij iQaetijS * Kt tQCKSzi] ncadixu «
yag Ordnen mussten natiirlich oft Mythen vorgezogen und
aufge- nommen, andere zuriickgestellt und iibergangen, es mnsstc
eiue gewis.se Kritik geubt werden. — ovtcj 7t oWaxoSev opo-
Xoy eiTai. Parmenidis Tersum delere dubitarunt interpretes non
pauci ideo, quod ridiculum e&set, solo Hesiodi et Acusilai testimonio
laudato ita pergi : ovzca xoXXaxfaty opioXoyEitau Haec verba
num excusabiliora censes testimoniis allatis tribus? Spe- ciosius
quam verius annotat ad h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi er nur
drei Gcwahrsmanner on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV , weil em jeder von
diesen das Haupt einerSekte war, au deren Gruud- satzen sich eine
Menge anderer bekannten. Quid tandem? Num ad Phaedri confugiendum
est sophisticum illum tumorem? Non, placet. Ovtgd seiungendum est
a tfoXXaxb$EY verbo, non arctius cum eodem coniungendum, quod
interpretes ad unum omnes fecisse video. Ovtcj est, ut alias saepissime,
hac, qua dixi, ra- tione, hoc modo. Scbleierm, verba convertit: Von
so vielen Seiten her wird dem Eros zuge- standen, unter die
altesten zu gehdren» Phaedri haec potius mens est: Auf diese
Weiao wird noch von vielen an- dern zugestanden, dass Eros
der alleralteste i st. Ovtcj vocis sic positae si exempla quaeris, cf.
Piat. Menex. p. 240. A., ubi commemorata Per- sarum regum
felicitate haec le- guntur: ai di yvwpai dedov- i
Xcjpivai a7tocvtcov dv&pujecay ?]dav • ovtcj noXAd xal pe- yaXa
xal pdxipa ykvij narot- dEdovXojpkyrf t/v Tf TJtpdcoy dpxrf t h. e
* hac ratione factam est, ut multae et magnae atque fortissimae
olim nationes Persa- 4, rum potestati subiicerentur. Adde Symp. p.
188. D. ovtcj KoXXr t y nat piydX?jy, paXXov 6£ itdtiav dvvapiv ix
Et HvXXt/PSrjr p\y 6 7CaS "EpojS , quo loco e» sen- tentiarum
nexu patet , ovtcj esse hac ratione, hoc modo.
itpEdftvTaToSdecjy pe- yidTcoy ct y a $ gj y ijplv aftloS IdtlY,
Ficini, ut videtur, horum verborum conversione motus: Cum vero talis
sit, maximorum bonorum no- bis est caussa, Bastius scri-
bendum coniecit: irpoS dfcrouro» tmr % peyidtcov h. t. A. Frustra.
Transitur his verbis ab altera oratiouis parte ad alteram, h. e. ab
aetatis ad beneficiorum com- memorationem. Non omni ex parte
Graecis verbis respondet conversio Stallb. ; Quemad- modum autem
est deorum antiquissimus, ita idem nobis est auctor maximo-
rum bonorum. Est enim, quam ille non reddidit conver- tendo ,
species argumentationis verbis admixta, quam sophistarum sectatores
captare solebant. ov yap iycoy — noti ipadxjj tc aiStxd.
Riickertna ad h. 1. annotat: Non accurate haec disposita sunt; quum
enim esiet dicendum: nullum est maius bonum homini, XQrj
ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros rov (Uov toTg t-dlhivGt, Aul cos
(hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola re tfinotuv quam A PRIMA
IUVENTUTE probus AMATOR, et postea AMANTI PUER similis, sic
eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico ovxi esset re-
ferendum, Quod fieri non potest, nec voluit cogitari orator. Notandum hoc
duxi , sicut alia multa in hac oratione, quo magis fiat perspicuum,
quam multis ea vitiis laboret in omnibus, quae ad sententias earumque
cohaerentiam pertineut. Quod quum perspectum fuerit , qua cautione
in textu talium locorum casti- gando utendum sit, plane iotel-
ligetur. Cur de uno eodemqne homine accipienda sint hoc loco, non DE
DUOBUS HOMINIBUS MUTUO AMORE se amplectentibus, vioS et ipatitijs verba,
equidem caussam nou video. Ruckerto non rectius Sdfileierm, verba
interpretatas est: Dean ich meiues Theiles weiss nicht zu ssgen ,
was ein grosscres Gut ware fur eiuen Iiingling, ais gleich ein
wohlmein en der Liebhaber oder dem Liebhaber ein Liebling. Ad
xaiStxa repetendum interpretes censent jf/aj/dta. Minus apte, ut videtur.
Nam nihil melius esse iuveni quam probum amatorem, Phaedrus ita
profert, ut iureni opus esse indicet homine aliquo, cuius praeceptis
et exemplo melior fiat. Non potest autem is, qui melior
reddendus est, eius, qui meliotem reddit, h. e. AMATORIS epitheto
ornari. Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad ipadty referendum
est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de structurae molestia
querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba non referri non
possint: ev$vS vico ovrt , de lectionis veritate non assentimur;
sedulo enim cavendum est, ut nimio studio servandae alicuius
lectionis ne iniusti simus atque vitia v alicui imputemus, qui
nulla commisit. Ne multis, scripsisse Plato videtur: o v yap iyooy &X&
sIxeiy, oxi pst£ov itixiv dyaSov ev$vf vico ovxi, Tjipadrrjs
xal ipadtjj, (sc. XPV&&) V ^ou6txei 0 Sententia
verborum haec est: Denn ich kenne kein Gut, das eiuem gleich von
dea friihesten Iahren an dienlicher ware, ais ein verstiindiger
Liebhaber, und das diesem ( dem verstaiidigen Liebhaber} dienlicher
ware, ais ein Liebling. avSp cotcoiZ rjyzi6$ ail De
jjyEidSai verbi structura vide sis Indices. Ceterum interpositis
verbis pluribus a verbo, ad quod pertinet, seiunctum est xoiS piX-
Xovdi xaXdoS fttQo6E62ou , ut vis maior esset enuntiati. Sen- sus
est: deno was den Menscheu ein Leitstern sein muss des gan- zen
Lebens , nam licii denen, welche recht zu lebeu wunschen, cfr. p»
198. E. ro 81 apa , (gJs’ Hoixey , ov tovto rjv x 6 xa~ XcoS iit
ot.iv eiv otiovv x. T. X. f ad quem locum vid. ann.ad p. 202. C. tj
xoXprj6aiS dv tiva. pij <pavai xaXov x e xal svdai- pova $ Eooy
elvca ; tovto ovtE Hvyyivsia x, t. X. Pro Hvyyiviia Wyt-
tenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui D ovta jeaAros ovts tifial ovts nlovtog
oi W «AAo ovSiv (o S £qo S . tiya 8's 8rj il tovto ; rijv iarl fisv totg
cdaxQocs al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig tpiXoufilav. ov yuQ Zauv
avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc xal xcda %Qya
QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc, scribendam coniecit, quod
fue- runt, quibus magnopere placeret* Stallb. gvyykvEiav gratiam
esse contendit et auctoritatem, qua quis propter hominum
potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris explicationis
gloriolam mihi praereptam vides a Riickerto, qui B,vyykvEiav de ipsis
necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime autem de pudore ,
quo horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim, Riickertus ait,
in se- quentibus, nec matris nec patris tantopere, si quid peccet,
pudere, quam eius, quem amet, pariter* que amatum amatoris.
Conferri iubet praeterea Legg, I. p. 627. C, nxeo vtgjv jj.Iv xoor
itovif- pdjv {j te olxia xal 7} B,vyyk- reia avrij 7ta6a ytrcov
havtfjS Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv te xal <pi\ovZ xal
B,vyykvEiav, Adde Alcib. I. p. 105. cap. V, xal ov t inixponoS ovte
dvy- ysvijf ovte aAAoS' ovdels Ixa- voS rtapaSovvai ttjv
dvvapiv x. , T. A. Restat, ut de verbis dicamus ovtco naAoiS , quae
a viris quibusdam impugnata sunt ac permutata, Reyndersius
nimi- rum pro ovtcj xa\<jj£ scribendum censuit ovte xaWoS
infarcto ante IpitoiEiv verbo ovtcjS. Iacobsius legendum proposuit
: ifutottiv ovtcjS 9 ovte xaXAoS x . r, A. Ovtcj xaAcjS verba
Phaedrus addidit, ut indicaret, aliquid con- ferre ad corrigendos
mores tara pa- rentum admonitiones tum honorum divitiarnmque faturam
possessionem : sed his maiorem esse atque validiorem amorem. Igitur mutationi
non locus est, neque satis- facit Stallb, dicens.; quamquam
pulcritudinis mentio in talibus frequens est, tamen non ita necessaria
videtor, ut libris invitis aliquid inferciendum sit y praesertim quum
addantar haec: ov t aKKo ovSkv, quibus verbis cetera | quae vulgo
bona habentur, significari manifestum est. Verbis ov x aAAa ovdkv
amicorum favor, gloriolae dulcedo, alia hoc genus subin- telligi
possunt, pulcritudo non potest. Patet enim, non nisi de bonis
sermonem esse, quae recto vitae modo servantur augentur- qne, cadunt
malo. Polcritudo autem non metuendam est, ne malefactis imminuatur;
igitnr ea non movetur, qui pulcher est et malus , malos mores ut
corrigat. Igitur ab hoc loco pulcritudinis commemoratio alienissima
est. Bene FICINO: haec natem nobis neque genus neque divitiae neque
honores praestare citius ac me- lius quam amor possunt.
\kyta 81 81} ti tovto; Scriptum 'est in aliqnot codicibus: A kyo 81
6jj ti tovto \ quod Bastius recepit. Iniuria. Sententia enim foret
nostro loco minime conveniens: Num est aliquid id, quod dico?
& ti al<S%Qov itouov xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito tov , di
avavdQiav (irj iqivvoyitvog , ovt av vito itaxgog offntivxa ovrag
dlyijiScci ovts vnb halpuv ovts vit ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv.
xavtov Ss tovto xal E xov iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg
tQu6tag aut demto interrogandi signo j Est autem revera
aliquid, quod dico. Sexcenties apud Platonem rcperies mediae
orationi interrogationes interseminatas , quibus efficitur, ut ad
rem, quae proferatur, lectores attentiores reddantur. Vid. A st. ad
Piat, de P* 29. Heusd. spec. erit, p. 87. cfr. Sympos. p. 206.
E. itavv pkv ovv, £<pj / • xi 8 ?) ovv TTjS yevvtjdeooS; Ceterum
Stallb. haec verba explicat: zi de 8?} tovto idxiv, o XiycD,
Commo- dior videtur explicatio haec, ut, cum primitus dicatur A
iyco di) tovto, interposito interrogandi verbo ti , verba illa
immutata maneant Xiyco 8?) — - ti — tovto. Ad huius dictionis
exemplar verba Phaedon, p, 73. C. emendanda sunt: ap ovv xal to8e 0
// 0 A 0 - yov/iev , dzav ixidn/pr/ itapa - yiyvr/rai rpoxeo
toiovto), ava- /ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva Tpoxov tovtov . In
codd. ali- quot bonae notae riva pro tiva reperitnr. Stallb,
scribendum vidit esse Xeyco dfc riva Tpoxov; Tovtov*, neque tamen ipse
sibi satisfecit. In verbis, ^juae in- terrogationi praecedunt,
cave credas, Tpoxov verbum ita posi- tum esse, ut quod in
sequente interrogatione qxplicandum pro- ponatur. Scripsisset enim
Plato, hoc si, edicere voluisset, A iyco 6h Tpoxov tiva tovtov;
Scri- psisse videtur autem: A iyco 6} riva rpoxov tovto; sc, t 6
dva~ pvr/dw eivai zo Ixidn/pr/v i tot- payiyvEdSca.
<prip\ toivvv iy<o . h. e. Meino Meinuug ist also nun.
Quae brevius ante dicta erant, ea nunc a Phaedro re- feruntur
explicatius. In sequentibus cum Astio et Riickerto comma ponendum
curavimus post vxo tov , ut 8i avavSpiav ar- tius cum pi/
apvvopevoS cou- iungendum esse indicetur. Verba ovt av vxo xarpoS
o<p$evTct Ruckerti explicationem £,vyyi~ vtiav praecedentis
confirmant. MV a fivv opev of , Nam viri fortis esse
potabatur iniu- riam acceptam ulcisci et punire. Stallb.
zavtov 81 tovto. Du- plicem structuram haec verba ad-
mittunt. Aut enim absolute posita cogitari possunt, aut ab
in- equente opaopev apta. Prior explicandi ratio rectior. Sed
audi Stallb. annotantem ad hunc locum: In his, inquit, tavtdv Tovto
absolute positum est. Cf. Phileb. p. 37. IX pdov ovx op- $rjv ptv
do£av ipovpev , av dpSoTrjxa itixXh tovtov 81 7/8 o- vr/v; ubi
Tavrov 8i absolute accipiendum: pariterque vo- luptatem. Cratyl. p.
404. E, tavrov 6h xal xspl tov 'AxoAAgq. Protagor. p. 344. D. xal
yscop- yov x&tenv &pa ixeXSovdat dpr/xavov av Seir/ xal
laxpdv zavzd tocvta. Menon, p. 90. D, «2
ai<fywET«i , otav 6(p&y iv cdtixQV tLVl & v - d ®w %avrj rtg
yivoLto, cagre noXiv yeveg&ai xj axgccxoxeSov tQaOxav Ti xal
nui8ucdv, ovx k'<Sxiv oitag av cc/iavov olxfcsiav xxjv sccvtdv jj
axE^uficvoi xiavxav xdv aia%gdv xccl xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul
(iccxoftivoi y av ovxovv xoc\ 7txp\ CCVfofySeOOf xal ruv
aWaov ravxa xavxa icoWi / avoict ItiTiv , ftovXajiivovS x. x.X.
Demosth. Midian. p. 526. extr. cd. Reisk. faeiS* 6 nXrjyeif
ht&voS vito xov TIo\v$i/\ov ravto xovxo iStoe dtocXvodye- roS —
ovd’ elSijyays tov IIoXv- ZijXov. Loquendi genus tum alibi, tum hoc
loco viros doctos fefellit. iv aidxpfi ttvt cov. * Ev a
. X. eIvoci est defixum ^sse in re turpi, versuuken scin im B6-
sen, im Argen seinj hoc dicendi genus breviloquentia quaedam est,
supplendumque mente ver- bum est, quod cum iv praepo- sitione
commode consocietur. Pro iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur
Craeev iv al6xp<fi rivi xtijuevoS , ut iv fiopfiopu) xeidExoci
legitur Pl. Phaed. p. 69. C« De similibus dicendi formis : iv
olva> £ivai t iv xy x iyyy elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai.
vide Matth. Gramm. pien. J. 577, p. 1140. el ovv p7jx av V Xl
* Y&- voixo . Sensus est: Wenn es sichnuumachen
1iesse, dass ein Staat entstunde oder eine Kriegsgesellenscliaft
aus Liebhabern und Lieblingen, so konn- ten sie ihren Staat
nicht besser verwaltea, ais owenn sie sich alles Hiisslicheu
enthielten und ei ner dea an dem zam Best cn aufmunterte. His verbis
aliquid iuesse videtur, quod minus cum sententiae ratione conveuiat.
Etenim civitatem non melius administrari posse, quam si a turpibus
abstineant chrcs, bo- nis studeant, hoc non tam in amantes et
amasios cadit, quam in homines universos. Debebat potius ita loqui
Phaedrus: neminem, si civitas existerct aman- tium , melius civitatem
admini- straturura esse, quam amantes. Non dubium est, quin
vitium verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis audeat, codicibus tacentibus,
fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox tanquam scioli additamentum
expungenda esse, qua deleta verba convertenda sint: Wenn nun ein
Staat von Liebenden und Geliebten entstunde: so konnten dies
e deuselben gar nicht an-» ders verwaltea, ais so, dass sie
das Hassliche ver abscheueten und das Gute rait
gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam
admireris licet MVTVI AMORIS utilitatem. Ut enim nunc in civitatibus
multa pessime geruutur, turpia laudantur, honesta expelluntur, ita
in civitate cx amantibus composita Eros efficeret, ut cives ne
pos- sent quidem male aliquid agere, sed nt optime h. e. malarum
rerum fuga, bonarum studio, civi- tatem administrarent. (itr aXXyXmv
o l xovovxoi vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog &rog BfouZv, itavxag
dv&Qcort ovg. bqcjv ydg dvr/g vnb TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv
xa%iv q OTtXa a7tof}(tffl>v r\ t- xov av dtjrtov Si^acxo rj V7to
Ttavrcov xcov aXXcov , xal 7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo
* xai (irjv ly • 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITaec propter antecedens
?/ 6xpar6ize- 8ov adiiciontur, quo effectum etiam est, ut in
praecedentibus additum habeas xijv tavTGov; nam verbis his uou opus
erat, si alio loco posuisset aut prorsus omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov
verba scriptor. Ceterum certam 'quan- dam txcnpiav Phaedrum in
mente habuisse, v. c. sacram Thebano- rum cohortem, haud credibile
est propterea, quod antecedit el ovv pi 1X av V tl y yivotto.
Significant autem haec verba, poni, aliquid fieri posse, quod revera
aut nequeat fieri aut quod adhuc factum non sit dtS litof Etieeiv.
Phaedrus ne nimius in laudando videatur esse dicens, paucos facile
su- peraturos esse homines omnes, cdS titoS eItceiv addit, quibus
ver- bis vis iudicii paullisper immi- nutur. Pertinent autem non
so- lum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS , ut Stallb. iudicantam video,
sed etiam ad d X.iyovf, ut alteri verbo addatur aliquid, alteri
de- matur. Vide quae de £icoS eiiceiY verbis annotata sunt ad
p. 215. I). Xiitriv — ait o ftaXoov
. Nam \EiitOTa£,ict turpissima .ha- bebatur. , Lex Attica, cuius
me- minit Lysias Or. xaxd <Pl\covoS Compadia? T, V. p. 887.
ed. Rcisk, et Demosth. adv. Neaer. T. II. p. 1353. roy kiicovxa
tijv td&iv d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe dxecpctvovdScn prjt
eISiIvcu sl$ t d Ispd ra St/poxEXtj. Nec mi- nor erat infamia
eorum, qui arma turpiter nbiecissent: de qua re fuse disputavit
Klotz. ad Tyrt* 10, 27. cfr. ’de Rep. V. p. 468. B., de Legg. XII.
p. 945. Stallb. Adde Arist. de Morib. V. 3. TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS ,
Xal ra rov dvdpeiov Ipyct icouly, olov pi} XeiitEiY t i/y rdt,iv
, /irjSk tpevyELY, pr/61 filxtnv xd oitXa .1 } vico 7t d yt oo v
rcov aA- Xcjy. IIctYTES ol dXXoi inpri- mis parentes suut, fratres,
amici, vide ann. ad p. 178. C. tovto ovtE ZvyyivEia ola te
ipnotEiv ovv oo xaXdoS ovte xipai ovte nXovxos — eqS ZpvS. —
JJpd xovxov sc. 7t po rov 6<p$fjvai V7CO iroadixdov.
t e$ v dv at dtv TtoXXdmS, Schleierm. convertit: und dafiir
wiirde er lieber oftmals sterbeu wollen. Graeci ut nos : und da-
fiir wiirde cr lieber hundert Mal todt sein wollen. Videlicet adeo
invisum omnibus est ro oraro- $vr}dxEiv, ut pro eo Graeci te -
Svavai dixerint, nostrates di- cant todt sein. Huius tempo- ris
usus ita iuvaluit, ut id adhi- berent Graeci etiam, ubi proprio
praesens tempus ponendum erat. Sic Criton. init, legitur: if t d
icXmoY a<pixtai, ov 8 eI aq>t - 4 xopkvov Te$vdvai ps, Vide
Stallb, anaot* ad Apol. Socr, p. Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij
porj&rjOai xivSvvevovu — oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6
"Epag Iv&iov xotrjaeio itQog uQitijv , ugtB ofiowv dvai tu
B fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog ift-
jcvivaca Ivioxg tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg IquOi naQijtt,
yiyvofitvov xaQ avtov. SO. B. Igitur non asseutiendum
Buttmanno ia Gramm. pleo. j, 114. p. 161. «D«* Streben
nach Nachdruck hat deo Perfekt- begriff ale entechiedener uod
ge- wisscr Jautcnd au dia Stella des Praesens gebracht.»
xal pt/v iyxaraXixeiv y e. Non sine magna animi com- motione
haec a Phaedro profe- runtor, qui vix cogitari nedum fieri posse
contendit, nt AMATOR aut deserat amasinm, aut periclitanti auxilium non ferat.
Hac commotione animi, quam indignationem vocare possis, factum est,
ut aposiopesis orta sit, quam oculis legentium addita lineoia
indicavimus. Non nliter Astios in «nuet, ad Convers. Symposii p.
279.: Der Text ist unver- derbt; xal yt/v — yt ist ja auch, d. h.
in diesem Zusam- xnenhange v o 1 i e n d s , und die ubgebrochene
Rede, die mit einem allgemeinen Satze endet ( OVOllS ovia xaxoS x.
r. X . ) charakte- risirt treffend deu Phaedros ais leidenschaftlichen
Erotiker , den der Gedanke, dass der Liebhaber den Geliebten verlassen
und ihm in der Gefahr nicbt beisteben solite, empdrt und fast
ausser sich setzt. Ceterum xal pr/Y — yt particula» Astius, ut modo
indicavimus, vo lien da, Schleierm. gar converterunt. Apta oobis
visa est »d Phaedri exprimendum ardorem utriuaqua vocis coni unctio, nt
verba convertenda sint: \ olleuds gar den Liebling im Stiche
lasseu , oder ihm nichl bcispringen in der Noth. — cfr. Symp, p
196. C. xal fitjv eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi “jtprjS avSioxaxai.
Alia ratio est particularum p. 202. B. xal pi}v, T)V S tyoo,
opoXuytirai ye napa xdvxooy peyaS StoS tivcct, ad quaa verba vide
annot. xtvSvvevovti »c. av reo. Nimirum xaiStxd verbum
non nisi unum amasium significat. Laudat Ruckert. Phaedr. p.
2S9. A. ovre 657 xpeixxa ovtc ItSov- ptvov Ixtuv ipadxrjS
xat&ixu aveSexai , rjxxa> 61 xal V7IO- StiiSxtpov ad
dxepydderat. Phaedr. p. 240. A. • Ixi roiwr ayapoY , axatSa, aotxov
on xXtitSxov xp°yov xaiStxa ipa- dxrjs evSatxo av ytvtaSot.
Vide sis de generis mutatione Theaet. p. 146. B. a\Ad xwy
fittpaodcov xwa xtXevt dos dxoxplredUca. Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy
iSear xdvv xaXoS, ubi papdxtov praecedit, avxo S <%E
P gj S. Phaedrus neminem adeo mala indole cen- ' set esse, quin ab
ipso Erote ad virtutem propelli possit. Quae- ritor, quid sibi
velit avroS pro- nomen hoe loco? Fischerns com- mode explicari
censet, si oppo- sita existimentur praecepta vir- tutis, leges,
educatio atque quae Cap. m Kai fftjv viriQcoto&vrjaxuv yi
fiovoi l&iXovGw ol tQavreg, ov (lovov ou &vdQsg y dUa xal cd
ywaTxeg. praeterea ad virtutem adducere possint. Hac explicandi
ratione num minas otiosum pronomen censes $ Stallbaumio visum
est ita frigere, nt corruptam cense- ret atque in ovxgdZ
immutandum; verba convertit idem : Nemo adeo malus est,
quem AMOR non possit tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo
nihil cedat. Sed ipsi huic sententiae inest, quod admodum
displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem deserere posse Phaedrus
praefracte negavit. Eius rei argumeutum nura credibile est eundem
Phaedrum hoc addidisse: Nemo adeo malus est, quem non possit AMOR
tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo nihil ce- dat ?
Dicendam potias erat: neminem adeo malum esse, quem AMOR non revera
incendat. Nihil mutandum est, et omnia beno habent. Abstractum pro concreto
positum est, h. e. , dei nomen pro re, cui ille praepositus est. Sensus
est verborum. Nemo, QVI AMAT, adeo mala in- dole praeditus est , quin
IPSO AMORE suo fortissimus fiat atque iis simillimas, qui optima
indole gaudent fortissimique sunt non amore, sed natura ad
virtutem docente. Annotat Riickertus ad h. 1.: ttvtoS
o"Ep<oS f ipse Amor, h. e, hoc ipsum , quod amat, etiamsi
sit alio- quin ignavus. Virum doctiss. in huius loci rectiore
explicatione nobiscum consentire magno cum gaudio vidimus. Ceterum
monemur hoc loco de verbis Alcib. II. p. 1 88. B. : Ovxovy doxei
<5ot sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti- 65ai y uncos pjj XrjtSet
xis avtov eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov 6 ayaSa ; oi £fol
tvxgoGiy iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y diSoadiv avxol a xif
evxope- voS xvyxdvei; Frustra Buttra. ad h. 1. libenter, inquit,
care- rem voce avxoi . Sensus est: Nonne igitur magna cautione
tibi opus esse videtur, ne forte aliquis bona precari opinatus, maxima
mala sibi expetat? diique ita morati sint, ut qui ipsi, h. e.,
nullis precibus moti, faciles, mit- tant, quod quis sibi expetat?
o Uqnj "OprjpoS* Laudavit Fisch. ad h. 1. Hom. II. x.
482. r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>- *A5Tjv7j. et II. o ,
262. cj $ tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya. itoipkvt A ocoSy. Iu
sequentibus Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS. . p. 825. ob
praecedens ivioiS xqjy yptooav scribendum coniecit toiS ipcodi
ita6i i tap£x et * Frustra, Non enim quaeritur, utrum omnibus an paucis
quibusdam hoc praestet Eros, ut fortes fiant, sed de ratione agi-
tur, qua ad virtutem AMANTES impellantur. Neque verum est, omnes AMATORES
ad VIRTUTEM [andreia] impelli AMORE etiam ii amant, qui natura fortissimi
sunt, 5 tovtov 6's -mu tj lltXiov dvyarrjQ
"JXxtjUne Lxavriv fiaQ- ut illo Erotis impetu lucile
indigeant. y ty v apev ov rcap avtov. Omisit haec verba
Schleierm. in conversione: Ia gewisa was Ho- meros sagt, dass c
inige der Hel- den eiu Gott mit Muth beseelte, das leistet Eros den
Liebenden. Neque aliter FICINO: hoc AMOR AMANTIBUS efficit. Verba
non otiosa sunt, indicant euim, eam vim esse atque potestatem
avxov tov ipdv, ut ignavos virtute augeat. Pertinent uutem ad
praecedens Tovto, a qua voce scri- ptor eadem seiunxit, ut eorum
vim augeret, vid. ad. p.,178,- C* d yap Xprf av 5 peon 01S ?}yeb 6Scn
navroS xov (iiov xolS piXXo vtil xaXaiS (iicStie- 6$ai> Adde Pl.
Cratyl. p. 423« fin. el xiS avxo xovto pipeitfSai Svvaito, kxaCxov
t^v ovdiav h. e. venn jemand es selbst nachabmen konnte, ich
mei ne, die Wesenheit von ie- dem. Convertenda verba nostra sunt :
Das gewahrt Eros den Liebenden, and zwar unmittelbar aus sich.
xal pyv vn epan o%vy - 6xeiv ye. De nat pyv — yk particularum
potestate supra dictam est ad p. 64. Solent eaedem adhiberi, ubi
commemoratur, quod aut praeter exspectationem accidit, aut qnod
fidem superat hominum, aut in rebus summae gravitatis* Apprime
igitur commotiori animo conveniant Phaedri, qui has maluit, quam consequentiae
particnlas adhibere, quarum usum orationis conformatio flagitare videtur.
Debebat nimirum Phaedrus, laudata Erotis vi, sic pergere proprie;
Hinc £eri solet plerumque, ut soli AMANTES. clXXcl xal ai yvv
atxeS . Hanc lectionem, quam verissimam ducimus, Clark, exhibet
aliique codd. non pauci. Satis notum est, Graecos substantivis
duobus, quae pariter definita atque per ov povov — a\\d xal , ovx
oti — aXXa xal sim. coniuncta sunt, aut addere articulum duplicem, aut
demere. Sic in Protag. p. 342. D. legitor! eidi iv zavxaiS xaiS noXediv
ov po- vov avdpef ini naidevdet peya tppovovvxes, aXXa xal
ywatxtS h. e. ut viri, ita mulieres «... scribere etiam potuisset
Plato nullo sententiae discrimine ov povov ol avSpeS — aXXa
xal ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II, 9. 8. ovx^oti povoS 6
Kpixcjv iv 7/dvxia rjv , aXXa xal ol qjiXoi avxov. Ad
huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens, cum legeret aXXa xal al
yv- vaixeSy nostrum locum hoc modo emendandum censuit: ov
povov oi avSpeS, aXXa xal ai yvvai- xtS , qua coniectura
sanissimus locus corrumpitur manifesto. Sive addis sive demis in
huiusmodi locutionibus duplicem articulum, eiusdem dignitatis,
pretii, pon- deris substantiva esse indican- tur, quae per ov povov
, ovx oxi — aXXa xal coniunguntur. Sed quoniam feminae viris multo
debiliores sunt, Phaedrus, quo gravius vim Erotis extollelet, feminarum
nomen pondere praevalere hic voluit ita, ut non viri solum, sed
quod mirere magis, feminae quoque dicantur voluntariam mortem
oppetere. Hoc efficitur addito ai articulo. Eodem fere modo alteri
substan- tvqiclv inlg rovds tov A oyov etg xovg "EX-
tivo articulas additus est, omis- sus in altero Alcib. I. p. 104.
B. cap. IV. iav 6* ivSdde pi- yi6xoS y ? , xal iv xols dXXoiS n
EXX7/6iv * xal ov pdvov iv "EXX 7 / 61 V , aWa. xal iv x 01 S
fiapfidpoiS , 0601 iv xy avxy 7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas
terras barbaros habitare, satis notum erat eo tem- pore, quo Alcib. I.
conscriptus est. Ut igitur regnandi cupido, qua Alcibiades
teneretur, validius emineret, praecedentibus iv "EA- \r\6iv
verbis barbarorum nomini articulum scriptor adiunxit. Sen- sus est:
Wenn da aber in Attica der grdsste warest, meintest du es auch uuter den
iibrigen Griechen zu werden, und nicht allein unter Griechen ,
sondern was noch viel mehr sagen will, auch unter deu
Barbare», rfb viel deren mit uns dasselbe Festland bewohnen. Adde
Aelian. Var. H. II, 41. p. 181. ed. Abr. Gronov. KXeigo , cpa6iv ,
eis dpiXXav lov6a ov yvvaiBX po- vaiSy aXXa xai xois dvSpadi
ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/ itiziv 7/v xai ixpdzei itdvxcov h. e.
Kleio, wird erzahlt, konnte aus- serordeiitlich trinken und wetteiferte
hierin nicht blos mitWei- bern , sondern , was weit mehr sagen
will^ mit Mannern , die mit ihr dem Zechen ergeben waren, und
ubertraf sie. xovxov — vitip xovde xov A oyov, Schleierm.
convertit : und dessen giebt una schon Alkestis». die Tochter
des Pelias, hinlanglichen Beweis fur diese Wahrheit ... Recte V.
D. verba servavit, quae frustra sunt, qui expungenda censent.
Heind. ad Protag, p.471* locum sic interpretatur: ut huic dicto
fidem faciam. Heindorfio Stallbaumius assentitur. Riicker-
tus ad h. 1. Nos sic, inquit, sta- tuimus, si Socratis haec oratio esset,
intolerabile hoc additamentum nobis appariturum; quam Phaedri sit,
ineptum quidem esse et lan- guidissimum , attamen consulto posse a
PJatone adiectum esse. Si scriptum exstaret xovxo di xai 7 } TleXiov
Svydxr/p x. r. A., sedulo interpretes tantum non omnes annotarent:
inceptae stru cturae Phaedrum oblitum esse/ liuiusmodi confusionis
exempla plura reperirij Platonem h. J. satis eleganter non
praemeditatae orationis indicium edidisse. Ao possit sane commodius
rotrro explicari, quam xovxov l sed etiam xovxov bene habet.
Revocandum nimirum hoc dicendi genus est ad oratorum consuetudinem post
apodosin praegres- sam protasin repetendi. Vide quae annotata sunt
ad p, 186. B. Ut v. c. in Apol. Socr, p. 20. C.
dicitur: ov ydp di/nov tiovye ovdiv xcov aXX&v —
itepixxoxepov itpaypa- x ev opiv ov , inetxa xoCavxrj tpt/pr/ xc
xolI XdyoS yiyovEv> e I xi £ 7cpaxteS aXXoiov fj oi
TtoXXoiy ita nostro looo quidni liceat oratori xovxov praecedens
verbis interpositis plu- ribus ita repetere, ut simul ac- curatius
definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda sunt: Hiervon giebt auch
des Pelias Tocher, Alkestis, einen hinlanglichen Beweis liber das
eben Gesagte. Ceterum non nisi oratoribus, quorum
interdum oratio altius exsurgit, neque vulgaribus prosae dictionis re-
5 • JLijvasi i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg <xv8qo
s ano- C &uviiv , ovxav ccvta nccrgog te xal firjtQog' ovg
ixrfvt) toOovtov vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia tov "Equxcc, iSgre
anodilgai avtoi/g allotQlovg ovtag tgj viti xal ovognlis tenetur, hoc loquendi
genu» largiendum, a ceteris scriptoribus prorsus seiungeudum
est. *AXxif6ttf* Schol. ad h. 1. ?} nepl rrjs * A\xrjdxi8oS
vnoSediS TOUXVTTf T is idttv • 'AxoXXgoy pxrjdaxo napa xcov
Motp&v, onatS d' v A8ppxoS xeXevxav peX- Xcjv napadxp tov V7ilp
tavxov 1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira idoy xgj npoxipa) xp6vov
&i6Q' xal St) v AXxijdxiS 7] yvn) xov x ov ineScoxer kavxt/r ,
ov8e xe- pov tcor yoricov SeXpdavioS vix ep xov naiSoS
dnoSavelv. Stalibaumius laudat Senec. ad Hei 7. c. 17. Nobilitatur
carmi- nibus omnium, quae se pro con- ioge vicariam dedit»
eis xovS "EXArjvaS. Vulgo ad sequentia haec verba
trahuntur» Male. Pertinent ad praecedens papxvpiav . Ceterum non
assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv dictum
putari debet, sed cum vi pro dativo positum est, ut Latine reddi
possit coram. Nimirum eis praepositio quoniam motum indicat ad finem
qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit, uth.l,
actionem simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic inidffpoS
elS Stjpov eum denotat, qui se clarum insiguemque coram populo
fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat is est, quem clarum populus
existimat atque laude dignum. Hinc intelliges, h. 1. de actione
Aleestis sermonem esse, quae dou tam populi laudibus incla-
ruerit , quam voluutaria morte immortale virtutis testimonium ipsa
populo dederit» Exempla si quaeris huius usus, e Stallbaumii penu
depromam haec Menex, p 239. A. noAXa 81 xal xaXd ipya
dne<pt)vavxo elS navxaS drSpainovS xal idiot xal Srjpodiqt, ad
quem locum vid. Engelh. anuot» ed. p. 260. Protag. p. 312. A, dv 8±
— ovx dv aidxvvoio eiS rovS "EX- XrjvaS avxov dotptdxpr
nape- X&v i Gorg» p. 526. C. eis 81 xat navv iXX oytpoS
ytyore xal eis xovS a\XovS "EXXrfvaS ’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov
, quo loco yiyove cum eiS praeposi- tione coniunctum est
eodem modo, quo 8id praepositio cum dvveivat verbo coniungitur
p. 176. D, ijpaS 81 8ici Xoyatv aXXrjXoiS dvreirai pro rjpaS 8
i 8ia Xoyatv Siatpifirjv noieid^ai. vid. ad p. 43. aunot*
l&eXjj dada povrj . De ISeXeir potestate verbi dictum
supra est ad p. 44. De re ipsa cf. Eurip. Alc. v. 15. narras 8*
iXeyZaS xal 8ie£,e A- Sgdy tpiXovS naxipa yepaiar 7 } dtp
irixxe prjxtpa, ovx evpe nXrjr ywaixoS , yriS
7/$eXe Saveir npd xeivov . » rp tptXiqe, 8ia w Epoora.
Perperam minuscula littera exhi- beri solet ipeoxa. Hoc enim AMANTIBUS
Eros praebet idque Bigitizdd bfCjodgFe : pati povov
itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x 6 Zoyov ovxu xctkov i'So£ sv
IpyatSati&ai ov fiovov av&Qcbjtoig, akku xal Qeois , Se t£
itokkSv nokka xal xaku tQyaCa- pivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv
tdoGav xovxo ytQU g oi quidem ex «e profectam, ut soli mortalium
alter pro altero volun- tariam mortem oppetant, quod ne- que
%vyy£veicc efficere potest, ut Admeti exemplo docemur, neque honos
et divitiae, quarum summam facultatem regi fuisse, quis negabit? Restat,
ut de <piXiqt dicamus, quae vox non nisi feminis convenit et amasiis.
Epav di- cuntnr omnes non feminae, sed VIRI, qui amant. Feminae
contra, ut alias, ita in amore viris debiliores habitae, et amasii, aetate
iuniores, quam AMATORES, tpiXovdt tantummodo , capi se ac teneri
patiuntur. Sic Antig. Sophocl. t. 523. ov x oi Gxxvki&eiY
aXXa dvpqn- Xeiv itpvr • Amasii qnXlaS si requiris exem-
plum, p. 182, C. legitur oyap jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap -
/xoSLov <piXla /UficaoS yeropivTj TtareXvdey avr&v xr\y apxV v
* Adde p. 183. C. xal xu ipav ■xal x 6 q>lXov$ yiyvedSai
xolS ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav patet e verbis p. 180. A, Al6x
v A oS 61 (pXvapei qxxdxaoY faiX- A ia UaxpoxXov ipar , 0 * r\y
xaXXicoy x, x. A. oj$xe artodeiZai avxovt dXXoxpiavS, Ut
ostenderet, illos n fflio alienos esse et no- mine tantum cogn atos
, h. e, ut efficeret, ut flHftiderentur tan- tum esse cogtlJPPfacta
comparatione eius umorft, quem ipsa illi probavisset , et cognatorum,
qui noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare Scolion
incerti auctoris, quod in lacobsii Anthol. Gr. T. I. p. 90.
reperitar et quo iuvenis admonetur, ut non nisi forti amatori sese
tradat: \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv [tovS]aya$ovS
<p(X.ei, [teUv] 8ei- iA 6’ dxexov yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P
lSt xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus,
Wolfius, Astins. Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS praedicatum,
cfr. Apol. Socrat. p. 18. A. 5x- xadxov plv, yap avxrj aperi},
ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat, de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj
xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif, ei 81 fiovXetiZe, &voS ?/xei
xa- xoixiZdperoy. Ib, VIII. p. 829. D. rovro aTio8i8dvxQov
avtois yepaS. de rep. I. p. 331* U» ovx dpa ovtoS o poS Idxl
dixaiodvvris x. x. A, (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x, r.A. Rursum
habes oratoriae di- ctionis exemplum, quod^ prosae orationis leges h. e.
ad logicen examinatum summopere displiceat. Scriptum enim
exspectaveris: Atque hoc facinus cum patrasset, adeo pulcrum visum est
non solum hominibus. sed etiam diis, ut, quod alias npu uisi
paucissimis, qui praeclaras res gessissent, tribuerent honoris loco, idem
admiratione' com- moti facinoris huic concederent, # Sed si
sententiae Otol , ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v , aXX.a
zqv Ixti- 0 vr/s aveiUav dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v
xcsgl x ov "Egena Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv.
exprimendae ratio, quae Phaedro placuit, cum lodicis regulis minas
convenit, habet contra, e rhetorica arte rem si iudicas, quo se
vehementer commendet audi- toribus, Cave igitur, hoc loco quicquam
mutandum censeas. Pro alpyadpEvtoY, quae vulgata lectio est, codd.
melioris notae ipya - Capkvtov habent, quod a Bek- kero,
Stallbaumio, aliis receptum est. Recte, Aoristicum enim tempus
perfecto tempore multo aptius hoc loco. dWa xrjv ixeivrjS
avet- 6av, Vulgo post aAAa legeba- tur xal, quam voculam ex
XXII, codd. auctoritate recentiores edi- tores omiserunt. Addidit
autem eandem aliquis olim, ut loco mederetur, quem uos quoque
corruptissimum censemus. Quid enim? Censent dixisse Phaedrum: X)eos
paucas quasdam animas ex Orco remisisse honoris loco, sed
Alcestidem remisisse cum admirati o affari n oris ? Quid diiferuut inter
onoris loco et eam admiratione facinoris, re- misisse et remisisse?
Neque satisfacit Stallb, ad h. 1, annotans: Ipondus huic sententia
a addunt verba ay a6$ £vxeS xp Epyto, ut tota verborum
comprehensio possit explicari sic: Hoc facinus eius diis adeo '.
probatum est, ut cum non nisi paucis quibusdam cx inferis redire
concesse- rint, huic non solam tri- buerint hoc beneficiam,
sed cum admiratione tan- tae animi magnitudinis concesserint. E
duplice vitio locus laborat, sed facillima mutatione utramque
emendatur. Alterum vitium in avewai latet, pro quo dvikvat
scribendam est. Sensas est: Paucas animas passi sunt dii ex Orco
redire, sed Alcestidem ex Orco remiserunt, Alteram iu dya6$ivreS
participio reperitur, quod, verissime annotante Ruhnkenio ad Tim. L. V.
Pl. p, 9, si nostrum locum excipias, nusquam apud Platonem cum dativo
coniunctum reperitur. Scriptum antiquitus erat aveitiavavayxatiSivTeS,
Syllaba nltima aveitiav verbi cum sequens av absorbuisset, editum
esse vi- detur: aveldav ayxaCS&vxeS, ex quo enatum est
aveidav aya - CSlvxeS. Haud absimili ratione Phaedon, p. 78, A.
cum'scripsis- set Plato 5xt av svxatpdxEpov dvaXldxoixe, scribarum
incuria exhibitum est dveyxaipoxepov et dvayxaipdxepov. Serior
manus ut uostro loco x, in hac forma p expunxit , habentqne Bas. 2.
Bodl, Tub: Venet. avay- xaiQxepov, Ad nostrum locum ut revertar,
sensas est verborum : Wenigen, die viel Scho- nes vollbracht
hatteu, ge- statteten dieGotter, um sic za ehren, das, dass
sie wieder insLeben % zuriick- k e h r e n konn t e n, a b e
r diese sendjjfepn sie, gezwangen d^Rn ihre herr- liche That,
an das Licht zuriick. * Avayxa65kvx& con- firmari videtur
schol. verbis! 'HpaxXiovS lni8r}pr]6avxoS Er ?1
OQ<pla di tbv Olayoov ArtXrj aitintpiiav Zrfitiou, <p<x(S[icc
dellzccvteg zrjg yirvaixog, l(p ijv ipav> ccvzijv 61 ov dovztg, o ti
iKtXftaKi&dftcn tdoxei , ars av xi^agadbg, rg GertaXla
SiaGcS&rat fiia- 6 ap iv ov xovS jfioviovS $e- ovs ned
depeXofievov xi)v yv~ vaina. Nimirum Phaedrus hunc mythum pro
consilii sui ratione interpretatus est ita, nt Alcesti- dis
virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque al- teri
substitueret* ov t o nal Seol. Convertit Schleierm, : So
wollen auch die Uotter den Eifer und die Tiich- tigkeit in der
Liebe vorziiglich ehren. lloc foret ovt cd nal ol $£oi, sed nusquam
articulus re- peritur. Sensus est potius: Sic etiam ipsi dii summo
honore virile studium amantium dignum censent. 1 Optpia
81 xor Oldy pov. Stallb. annotat ad h. 1.: Etiam iu hac
narratione de Orpheo quaedam insunt a vulgari fabula discrepantia ,
quae Phaedrus aut ipse pro consilii sui ratione im- mutavit aut
repetiit ab iis , qui rem ita memoriae tradideraut, ut facile omnia
possent accoih- modari praesenti disputationi. ndXitir a T ifioS 6 iv ,
nam^ ut cum Terentio loquar, quod habuerunt summum, pretium persolveruut
illi. (p u6 fi a 6 el&avT£$ xijS yvv aixoS. Ovid.
Metomorph. X. 50. Hanc simul et legem Rhodopeius accipit
heros Ne flectat retro sua lumina, donec Avernas Exierit valles,
aut irrita doua fu- tura Carpitur ucclirus per muta
silen- tia trames, Ardnus, obscurus, caligine
densos opaca Nec procul abfuerunt telluris margine summae. Hic,
ne deficeret, metaens, avi- dusque videndi Flexit amans oculos: et
protinus illa relapsa est Bracliiaque intendens, prendique et
prendele captans Nil nisi cedentes infelix arripit auras.
i q> tjv f/nev. Abest a co- dicibus longe plurimis , c^uod
vulgo legitur hxoov post dtp i/v positum. Qui factum sit, ut iu
textum irrepserit hoc verbum, aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$
apa>8 6 S. Ci- thara non paucarum chordarum instrumentum nativa
hormonia- ram varietate aures audientium permulcere quidem
putabatur, sed animorum robur paullatim infringere atque quasi colli
quefacere. Igitur quod de arte tibicinum dicitur iu Piat, Gorg. p.
501. E, xijv ijSovtfV — porov Sidtneiv, aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv
, idem io citharam cadit. Qua cum usus esset in Orco Orpheus,
Nasone teste Metamorph. 10, 41, Exsangues flebant animae, nec
Tantalns undam Captavit refugam, stupuitque Ixio- nis orbis ,
IJec carpsere iecur volucres, urnisquo vacarunt Belides, ioque tuo
sedisti, Sisyphe, saxo. 1 xcd ov roAfuev Evtxu xov "Egenos
djto9vrjOxuv , ogafp Alxt]<SXig, ulla 6iu[iTi%av&6&(H £<»v
tlgiivcu elg "Aidov. xotyagtoi 8uc xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul
InoiTjaav xov ftavurov avxov vxb yvvaix wv ytvt(S&cu , ov%
d>gmg Tum primam lacrymi* victarum carmine fama est fcumenidum
maduisse genas , nec regia coniux Sustinet oranti , nec qui
regit ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge- 6$at visum
esse eum , qui citharae adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse
fortis animi specimen edere atque Zvtxa x ov "EparcoS mortem
oppetere. Ceteram maiuscula littera Erotis nomen scribendam
curavimus, nam ut supra p. 179* A. ovziret ovx av avroS 6
"EpcoS ZvSeov XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum
est, ita non intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum cadat.
xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se conferunt, e
superiore loco in inferiorem descendunt, pro eisitvai positum
exspectaveris eundi verbum cum xata praepositione coniunctum. Sed
miuus h, 1. 1 regionis ratio habetur, quam versus proficiscun- tur,
qui Orcum appetant, quam xei, quaeuxn veteres Orcum com- parare
solebant. Petita nimirum a sepulcris imagine, quae aedes sunt
mortuorum, Zv " 'Aidov sc. Sopois et eis r Aidov sc. dopovS
dixerunt. Aedium autem notioni tiSikvai et ZS,ikvai verba ap- prime
conveniunt. Igitur nostro loco nulla ratioue habita regionis subterraneae
tisikvoa dicitur fis Aidov sc. dopovS. Simili ratione paullo supra
legitur areXrj ait Zite pip av Aidov sc. 66- pcov ; contra
p. 179. C. Z& a Atdov dviivai reperitur et dvei- tiav sc, ZB, n
Aidov. Adde Piat, de rep. I. p. 527. xaxkfiijr aiS Ileipaid , et
paullo in- fra 7tpoSEv%dpevot — anypey itpoS zq a6rv.
xoiyapxot dia xavxa. Haec verba ita posita sunt, ut sive
xotyapxoi sive dia ravra omiseris, sententiae ratio prorsus non
mutetur. Cave tamen pror- sus otiosum alterutrum verbum existimes.
Nimirum Graeci ac- curatiori alicuius rei indicio prae- mittere
amant verbum latioris significationis, tum orationem ut expleant
grata quadam ubertate verborum, tum, ut adsit, cui fa- cilius
sequentia annectantur. Verba convertenda sunt: Dahcr legten
sie ihm denn also wegen dieser Schwache eine Strafe auf. Idem
dicendi genas paullo infra repe- ritur p. 184. A. ovrcj df/ vito
xavtijS xrjS xtixiaS , . xai Zitoirjdav xov $d- vaxov. Nota
vim xov articuli, de qua supra dictum est ad p. 12. ovxgj Srj
iovxeS dpa xovS Xo- yovS itepl avxdjv ZitoiovptSa. Noluit dicere
Phaedrus , deos morte poetam puniisse, sed tan- tummodo effecisse,
ut eo tempore, quo tempore Orpheo moriendum esset , poeta a
mulieribus inter- ficeretur. Rectissime Schleierm.: Deshalb haben
sie ihm Strafe aufgelegt, nnd veranstaltet, dass sein Tod durch
Wtiber cr- £itif e a£y ^CTu *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov
ItlprjfSav xal elg fiaxagav E i rijtiovg aitETtEprpccv , ort
jtETivtipEvog itaga tijg {irjtgog , cog ttttofta.voZto aTtoxTELvag
"Extoga , (irj %ou]6ag di xovxo o”xccd’ iX&cov yiiQcuog
xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv Elt<5&ai folgte. Addo Symp. p. 195.
E. iv ydp 7 }$e6iy xtjy oixrjdiv ZSpvxau ovx
<vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y . Hauc brevilo- quentiam, quam
vernaculo ser- mone assequimur , Schleiermach. aspernatus est in
couversione : 9 Deshalb anch habeo, sie ihra Strate aofgelegt
— nicht ihu, wie den Achilleus, deo Sohn der The- tis, geehrt und
in der Seligen Inselu gescbickt. Recte Stallb. orationem hoo modo
explendam esse censuit : aAA* ovx ixtprjdccY avtoY £>S7tEp
^zAA^or , dv xal ei f paxapcov vijdovS dnirrepipav, ori x. r. A.
Legitur paullo in- fra p, 189. C. ipol 8 oxov6iy avSpooitoi —
SvtiLaS dv rtoiEiv pEyidxaS , ovx coSnep yvy rov - tqjy ovSey
yiyvsxai itepl avxov. Exempla plura huius structurae Stallb.
collegit ad h. 1., Heind, ad Gorg. p. 592. A. et ad Frotag. p. 841.
A. eis paxdpGov vydovf* De insulis beatorum vide
Hesiod. "Epy. xal 7/. v. 170. xai xo\ piv valovOiv
axrjSia Svpov UxOYTtS iv paxapoov vi]6o%6i rtap 'Elxia-
YOY fta^vSivTfY oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi tjdiat
XCLpTtOY rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet SiDpoS
apovpa Multi fuerunt, qui in insulis bea- torum Achillem
versari narrarent. Aliter Hom. Od. XI, 487., obi Ulysi felicitatem
Pelidae praedicanti respondet Achilles: pr} 6rj poi Solyccxov
ysrtapavSa, <pai8ip 'O6v0dev, fioyXotprjv x indpovpos Igov
STfXEVEpEY aXXcp ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo* xoZ izohvS
eItj i} itadiv yexve66i xaxacpSipi- voi6i olv&6<$eiy %
Ad hos versus aetate Phaedri haud dubie notissimos ille nunc non
respexit, sed aliorum testi- monia praetulit, quae rem suam melius
probarent. rtsitvdpivoS 7tapd x rjS prjXpoS. Haec cum
Homero conveniunt, vel ex eodem potius depromta sunt^ cfr. II.
XVIIl.v.94. ojxvpopoS 8rj jxaiy xixoS, iddeai.
oj^dyopEveis* ocvxtxa ydp xoi Actito. peS* n 'Europa 7tdxpoS
hxolpoS. p?} rtoirjdax 8b xovxo. Haec est lectio vulgata,
quam ex VIII. codicum auctoritate in pif artoursivaS Sb xovxoy
im- mutarunt Bekkerus, Astius, Stall- baumius. Hoc certum est,
veri- similius esse, ad explicandum p?) noir/daS dk xovxo margini
ad- scriptum, post in textum rece- ptum esse pr} drcoxXElvaS
8b Xpvxov f quam vice versa ad hoc explicandam glossema fuisse
pr} itoirjdaS dfe xovxo. Fidenter igi- tur vulgatam lectionem in
textum recepimus. fiprjSr)<$a$ fw ipadxy Jlax po
x\<jp xal Xtpaprj - 180 (SoqQqiSas no tQaOTij TlarQoxkw
xal rifiUQTjaces ou! fto- vov vxEQUxo&aveCv , ulXa [xal] inaxoftavuv
titeAevtij- jtor i. o9ev St] ) ud vxtQayttO&Evug oi frsol
St-atpiQotncog 6 aS, Wolfias ad h. 1. annota- vit: Es kann
fioySydaS nicht vou einer wirklichen Hulfe in der Schlacht
verstandeu werden : deim da Patroclus umkam , war seiu Freund noch
nicht wieder ira 8chlachtfelde , uud er erfuhr die Nachricht davon
erst durch den Antilochus. Recte. Kai igitur ante xipOJpljdaS
explicativum est, cuius exemplum paullo supra reperitur p. 179. D.
xoiydpxoi Sia xavra 8ixyv~ avxcp ineSe- vav na\ ixoiydctv n. X. A.
Adde p, 179. E. ovx doSxep *Axi AA«x tov xyS GixtdoS vldv
ixipydav na i eis pandpcov vrjdovS aniittpipav. Nostra verba
conver- tenda sunt: indem er dem Patroclus beistand, d.
h. ihn rachte. Argutius quam verius de his verbis Riickcrtus
iudicavit exsulto Phaedrum (ioy- $EtV verbo usum esse censens. Quum
enim, inquit, non tulisset opem Achilles , quamvis prope abesset a
certaminis loco , ne quid probri iude videretur in ' eum, quem
laudaret, redundare, abducendi erant ab hac cogita- tioue quantum
heri posset audi- tores , id quod hoc ipso verbo factum esse
puto. dXXd na\ iitcritoSccvetY» Vitii aliquid haec verba
contra- xerunt nat addito, quod nullo modo explicari potest.
Titepa- noSaveiv adhibetur, ubi aliquis pro aliquo eoque
vivente moritor, ut Alceste mortua esse dicitur pro Admeto p. 179.
C. &$e\y6a6a povy vitep tov avxyS dvdp6*i dnoSav ilv .
'ETtaico^aveiv est : mori pro ali- quo, qui iam mortuu*, est.
Fici- nus verba convertit: nec pro illo mori solum, sed et
peremto illo interfici. — Igitur utrnmquc fecit , et mor- tuus est
pro Patroclo super- stito Achilles, et mortuo illo morti se
dedicavit. Phaedrum aliud quid dicere voluisse certis- simum est.
Expungendum est nat, quod uncis includendum curavimus nimiae
audaciae crimen fugientes. Est autem ov povov • — aXXd eius , qui
alterum mem- brum orationis, quod per ov juo- vov commemoratur,
negat, al- terum probat se ipsum corrigendo. Sensus est: non dicam
vitepa - itoSavetv, sed potius Inarto - Savelv. Vide p. 11. de ov
pev- roi — aXXd et ov pivxot — aXXa nat .cfr. Alcib. II. p.
142. A. 61 61 apidxa 6onovv - xeS avxoov rtpdxxeiv , 6ia 7roA- Xqjv
mvdvvoov iXSuvxeS ncA yjoficjy , ov pov ov iy xavry xy Cxpuxyyict ,
a A A* , iitei eis xyv tavzajv naryXS ov , varo xgjv (SvnocpavxGbv
rtoXiopnovpe- vot itoXiopniav ovSiv iXaxx a> xyS vrto xdov
rtoXepiaav 6ie.xe- Xetiav, vSre n. x. A. o2e v 6?} na l —
iitoielto. Haec verba si abessent , nemo opinor desideraret. Nihil
enim coutineut aliud, quam praecedeu- tium verborum meram
repetitio- nem. Sed de industria haec re- petiit orator, ut quanti
a diis aestimetur virtus amatoris , durius eluceret» Eadem de
caussa, atque ut exemplo demonstretur, avtov Irliitjcsccv , oti xov
lQaOtr\v ovtbj xbqI itoXXov ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav
’A%Mtcc JJoxqo- xAou iquv, fig r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov ,
aXkce amasiorum quam amatorum vir- tutem maioris aestimari,
paullo infra dicitur p. 180. B. : dia. xctvxct xcti tov
*AxiMict xrjS 'jJbtrjtiTiSoS paWov ixLptjOav, eis paxccpav vrjtiovS
dnonep- iltavxeS , ovtco itepl rtoXAov. Du- pliciter
ovzcj vocula in huius- modi euuntiatis adhiberi solet, atque aut
praefigi praepositioni aut eidem postponi. Nou perinde est, utram
sedem occupet. Praepositioni ubi praemittitur, aut ad praecedens dictum
respici significat, quod eandem rem, quae nunc commemoretur,
enarratam contineat, aut hominum opinio- nem tangit memoriamve
audito- rum, qui bene/ teneant id, da quo nunc agatur. Sic nostro
loco ovxcd nepl noXXov explicandum est: quod amatorem, ut
supra dictum est, tanti fecisset. Adde Piat, de rep. III. p. 391.
D. fiy toivw , 7 / v 6* £ya), p^re rade neiSaopeSa , pyx' idjpev
Xiyeir, qjS QrjtievS Uo6ei6wYoS vlds IletplSovS te JioS (Sppij- Gav
ovzcoS ini deivcis apita- yaS x. r. A., quo loco ovxaoS manifesto
significat: ut homi- num opiuio est, ut vulgo putant. Minus recte
igitur Stallbaumius ad h. 1. annotasse videtur: ovzcoS ini 6eivds
ap- itayaS h. e. i<p ovxco detrds apnayds. Non aliter
explican- dus est tovus Xeuoph. Cyrop. II. 2. 13» fin. opcoS ovzcoS
iv TtoWii dzipia ijpdS ixeiS, ubi ovzgoS convertendum est:
ita, ut nunc facis, ut facientem te videmus, cet. Contra
praepositioni postposita ovzcoS vocula proximum verbum ita extollit , ut
additamento opus sit, qno illud accuratius definiatur.AitixvXoS cpXvapei
. Phaedri oratio ad eum finem ten- dit, ut Achillis allato exemplo
probetur, deos amasii amore ma- gis delectari, quam amatoris fide.
Factum autem tragicorum fabulis erat , ut homines illo tempore
Achillem amatorem non amasioui Patrocli putarent. Priusquam igitur
eo, quo tendebat, Fhacdri oratio pervenire pot- erat, illa hominum opinio
corrigenda erat et emendanda. Hino verba Aidx^XoS. 6e —
"OprjpoS necessaria ad rem censenda sunt, /ruslraque fuerunt ,
qui ea ex- pungenda censuerunt,Valckenarius ad Euripidis Rell. p.
13., Wol- fius, Beckius, alii. xal iri ayivetoS. Pulcherrimum
omnium Achillem fuisse discas ex Iliad. p , 673. NipevSy ds
xaXXiGzoS avijp vno "IXiov tjASe Z(2v aXXcov docvaoov, per
dpv- pova IhjXelcova, Patroclo iuniorem verba indicaut Iliad.
A, 787. x ixvov ipoy , yevey p\v vn ap- te poS idziv
'AxiXXavS, TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, ' Adde Od. A, 469.
AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos re Sipas re rcov dXXcov
davadiv, pex apv- povcz IbjXeloova . Imberbem adhuc fuisse
"nusquam apud Homerum indicatam repe- M xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos ,
Ixtita vtta- TEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj
ovxi (iu- kiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI
B xbv "Eqara , fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal ries.
Hinc factnra est, opinor, ut Riickertus lectionem vulgatam
revocaret atque in textum reci- peret d\ X dpa xai. Colligebatur enim,
inquit, magis ex Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque
adhuc imberbem) quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile
dpa voce caremus, quam optimae notae libri non agnoscant. Efficitur enim
verbis (*>S <pr\6iv "OfirjpoS, quae cum prae- cedentibus
htEixa vearcepoS itoXv arctius coniungenda sunt, ut Phaedrus non
nisi de aetate Achillis poetae testimonio usus esse videatur,
pulcrum autem im- berbemqne eum vocet ©x artili- cum statuis
indicium capiens. Hae statuae imberbem, ut constat, Achillem
repraesentabant, barba- tos heroes ceteros, v. c. Hectorem, Agamemnouem,
Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas xal Ixt dyivEiof;
ama- sius non nisi imberbis pulcher habebatur. Verba
convertenda sunt: Aeschylus aber faseft, wenn er sagt, dass
Achilles der Liebhaber des Patroclus sei. Er war nicht blos schoner,
ais Patroclus, sondern auch schoner, ais alie Helden, und
noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Ho- mer es ausdrucklich
bezeugt. % aWa yap rcu ovxi. Re- ctissime Stallb. monet,
verbis de- letis Aldxvtos , di — "Owpof, non aXXa yap ,
sed xal yap ponendum fuisse. Indicatur autem aAAtr yap particulis,
Aeschylum ne ita quidem Homericam narrationem pervertisse , ot
Achillis laudem augeret facinusque eius clarius redderet. Nam deos
lau- dare quidem et admirari virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et
laudare amasios, qui pro AMATORIBUS mortem voluntariam
oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w EpGoxa. Haud raro accuratiores
definitio*- ues verborum a verbis, quae de- finiunt, seiunguntur
plurimis in- terpositis verbis augendae gra- vitatis caussa. Vide
quae ad p. 66. annotata suut. Conver- tenda verba sunt : Dic
Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz ausserordentlich , ich
meine die, welche der Liebhaber zu haben pflegt ; cf. Piat. Hipp.
M. p. 294. A. 7/pEiS yap nov ixuro igrjxovjxev , go n dvxa xa
xaXa. Ttpdypaxa xa\a t itixiv , ooSTtep c5 jectvxa ta peyaXa itixl
px- yaka> xqo v7C£pix oyr u $av paZovd i x al dy ar-
tat xal ev itoiov 6iv sc. xav- r rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor
"Epwxa. Ceterum ayadSai ita a SavpaZEiv verbo differt, ut
admi- rationem cum laude coniunctam exprimat. Bene
Schleierraacherus in conversione verba t reddidit • weit mehr
jedocb bewundern und loben und vcrgelten sit es dyarttji . Quoniam
in sup«~ zr Ninos ion. 77 IV xoiovdiv, orav 6
inwatvog tov iQa<St)]v uyanu i} OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt.
&SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS Ttca- dixmv ‘ iv&eog yaQ ion. dia xavta
xal tov 'AydXia tijs 'AXxrjOndos palXov itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an
o- rioribus de significata verborum diximus ipav et
<pi\tiv , iam videamus etiam de notione aya - rtav verbi. Mediae
est autem, quod vocant, significationis ver- bum, maiorem quam
(piXEiv, mi- norem , quam ipav potestatem habens. Hinc raro
adhibetur, ubi de vero amore sermo est. Legitor autem apud
Xenoph. Mem. I, 5. 4. x a S” TtopvaS dyanoovxa pdXXov t) xovS
kxaipovS. Piat. Dion. 4. p. 175. itpiXt/daXE CtVXOY <*)$
TCCttEpOC xal i/ y a 7Cij doct e gjS ev e p - yijxrjv. Symp. p.
181. C, ro <pv6ei ipficopEYEdXEpoY xal vovv paXXov %x ov
dyan&vTE?* Videtur ayaitav verbum circum- scriptum esse iu
Simonidis dicto, quod legitur Piat. Protag. p. 345* D. mxvT aS 81
Inalvrjti i xal tpi\hx> irtwv oSTtS f.pSy /vjSlv al^xpov. Nostro
loco Phaedrus hoc verbo usus est , quia neque <pi\eiv neque ipav
ad ntruraque enuntiati membrum h. e. ad AMATOREM et ad amasium referri
poterat. $ siot e pov ydp ipa- 6tyj S itai8txd>v. De
neutro genere StiotEpov verbi vide quae annotota sunt ad p. 176. D.
ott XaXEito v xoiS dvSpcoiroiS 7/ idxlv. Sententiam quod attinet,
cfr. p. 179. A. ov8e\S ovxod xaxoS , ovxiva ovx dv avtoS d
"EpoaS ivSeov itoirj6Ete xpoS dpETtjv , dpoiov slvai tc5
dpidxcp <pv6ei , quae verba in amatores tantummodo , non item in
amasios dicuntur. Ce- terum otium nobis fecit Riickerti
unnotatio ad h. 1. , ed. p. 46. : Phaedrus sic est ratiocinatus :
qui amat , non suo , sed divino impulsu agit , est enim ZySeoS;
contra qui amatur, eo caret, Iam qui alieno et quidem divino im-
pulsu agit , ei facilius est , magna perpetrare , praesertim amanti ,
qui non potest non subvenire amdto , quam ei , qui huiusmodi
incitamento caret . Atqui quo difficilius cuique est praeclare
agere , eo maior virtus est , si fe- cerit i igitur qui non amat , maiore
dignus est admiratione , quam qui artiat * Sola enim caritate
facit id, quod amatorem ut fa- ciat , vis divina impellit , —
tov 'AxtXXea xrjs 'AXxi]- 6xi8o$. Interdum ipsas femi- nas
Erotis auxilio gaudere, cap. VII. initio Phaedrus docuit. Recto
igitur scripsisse nobis videmur p. 179. C. ovS ixElvtf xo6ovxov
vnepEffdXexo xy ipiXint 8id xov w Epoora, c oSXE x. X. A. Alcestis
enim et ipsa UvSeoS. Minoris autem a diis Alcestis habebatur, quam
Achilles , nam illa Erote ad mortem ducente mortua est, hic pietate
erga Patroclum motus, mortem oppetiit. ovxoo Srf HyatyE. Aliquot
codd» habent ovxui 81 ) xal fyooye Mple. Iu sequentibus ter posi-
tum est xal, ut epitheta Erotis, quae dei laudem efficiunt, signi-
ficantius extollantur. Comparari potest cum nostris verbis p. 180.
B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7 jr
i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu *EQ(oza %mv xccl ttqe- C^vtcctov xal
r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg aQETrjg xa l Bvdatjioviag xr rjow
av&QaTtotg xal £c5oi xal zeAev- %r}<Sa(Siv. xal
ayavxcn xal ev iroiovdiv . Sensas est: Hac igitnr, qua dixi» ratione
equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum esse ct honoratissimum
et ad vir- tutis felicitatisque assequendam frugem et viventibus et
mortuis auctorem potentissimum. Sed ipsa haec verba mirum est,
quam male cum praecedentibus conve- niant. Etenim Phaedrus
cum dixisset : maioris aestimandam esse virtutem eorum, qui
nullo Erotis auxilio adiuti fortes se praebuerint, quam quorum
virtus non nisi divino quodam instinctu quasi excanduerit, num
recte ita perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi n Epcoxa $£gov xal
npedfvxazov — xal xvp iGoratov elvai eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x.
A. roiovroV xiva Xoyov. Vide ann. ad p. 15. Sequentia
verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phaedrus wiiren
einige andere an der R e i h e gewesen. Pactum nimi- rum erat, ut
eodem ordine, quo sederent, convivae placita sua proferrent, cfr.
p. 177. D. 80- xel poi xPV vat exadxov \6yov etostr inauror
"EpcoxoS ini 8e- Btiu — apxeir 8\ <Pai8por npco- T or. Sed
non verisimile est, in- ter Phaedrum Pausaniamque lo- cum habuisse
omnes eos, quorum orationes ab Aristodemo praeter- missae sunt, vel
quas Apollodo- rus, quippe memoria non dignas, oblitus erat. (cfr.
p. 178. A. nav Tcav pkr ovr , a ZxacdxoS elnev, ovxe navv 6
*Apidxo8ij- fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o IxeivoS iXeye,
Ttavxa). Igitur Riickertus in uberiore expositione convivii p. §61.
quaesivi , inquit, doctus videlicet nihil negligere zn Eia tonis
libris , in quibus haud raro res gravissimae ad perspiciendum
scriptionis consi- lium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendae sunt,
cur hoc loco omissionem Aristodemus indicas- set , ceteris
reticuisset . Et olim quidem mihi risus sum reperisse , aliter tum
etiam statuens de ipsis orationibus , in quibus tem- poris quendam
ordinem observari putabam , quo singulae, quarum placita proferret,
sectae sese excepissent philosophorum . Post, mutata sententia rursus eo
de- ductus sum , ut nescirem . Com- mode possis hac ratione
hanc rem tibi explicare, ut Aristode- mus quidem, qui Symposio
inter- fuit, accurate locos indicaverit, quibus locis et aliorum et
suam ipsius orationem omiserit, ut Apollodorus autem satis
habuerit memoriae mandare, quid convivae dixissent, nou item mente
te- nuerit, quo loco quorum oratio- nes ab Aristodemo non
repete- rentur. Ut tamen aliqno modo commemorandarum
orationum paucitatem excusaret , Phaedri relata oratione alios
quosdam fuisse nniversim narrat, quorum orationes Aristodemus non
retu- lerit. De sua ipsius memoria tacet, quamquam panllo
supra p. 178. A. in minatis rebus de- biliorem confessas. Cap.
VIU. #>«[(5(301' fiiv toiovtuv riva Ivyov hfn) tlxuv, fi Era
c Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca, uv ov nciw die^vtj^i- tuv
ov itavv 8 1 tfivi; fi 6- vevev. Comparari cum his pot- est Piat.
Lacii, p, 189. C. iav 81 fiitaB,v dXXoi Xoyot yiv cov- xaiyOv ndvv
jiiyvTjycn, ad quem locum Engelhardtus de oi3 itayv vocularum
potestate disserens h. e., inquit, plane non recordor. Sic ov ndvv
saepissime} cfr. Theaet. p. 156. C. , Phaedr. p. 228. E,, ul,, nec
non in respon- sis, v. c. Xeooph. Mem. S. III' i , 12. Eodem modo
latinum non sane saepe idem siguificat, quod ov ndvv i. e.
plane noni de quo vide Heindorfium ad Horat. sat. II. 3. 138., p.
S04* Ov ndvv xi autem non satis, non sane multum explican-
dum esse videtur, cfr. Locian» Contempl» I, p. 506. elni pot,
Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ; ov ndvv xi i. e. non sane mul- tum.
Piat. Eutyphr. init, ovd avxoS ndvv x i yzyvcodxco, to EvSveppov, r
ov av8pa i. e. ne- que ipse hominem satis novi. Pronomen indefinitum quod
attinet, certum equidem esse reor, xi in huiusmodi enuntiatis non
ad ov ndvv pertinere, sed ad verbum finitura. Quis enim ne- get, ut
ad Eutyphronis locum modo laudatum revertar, Graece dici
yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa , ut rectius Platonis verba convertenda sint:
ne ipse quidem ma- gnopere usquam hominem novi. Luciani verba ov
ndvv x t converterim : non sane usquam sc* reperitur. Rectissime autem
Stallbaumius io annotat, ad verba ApoL Soc^ p. 41. D. p. 95.
ed.: 8id rovxo xal £ph ovSapov dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal
Hyaoye xoiS xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal r oiS xaxtjyopoiS
ov ndvv X a ^~ natvcd h. e. haud sane, non magnopere, nicht
eben, qua formula nos qooque cum Elpcoviict loquentes gravius
ne- gare solemus. Haec, quam Stallbaumius laudat, ov ndvv
vocularum uotio apprime ad no- strum locum quadrat. Apollodo- rus
nimirum alios quosdam fuisse narrat, qui Erotis laudationem
edidissent, factum autem esse il- larum laudatiounm mediocritate,
ut earum non magnopere recordaretur, Earum autem pror- sus oblitum ne
fingere qui- dem tibi Aristodemum possis, qui Phaedri, Pausaniae,
aliorum orationes memoriter recitarit. Restat , ut dicamus de
Lachetis loco supra laudato, qui sane do- cere videtur, ov ndvv
significare prorsus non. Verba sunt haec : iycj ptv yap xal
iniXav- Sdvopai 7/6 tj xd noXXa 8ia xrjv rjXvtlar (Zv dv
8ictvo7j^d> £p£- 6$aij xal av d dv axov6a). iav 81 ptxat,v aXXoi
Xoyot yi - * vgoyxoci , ov ndvv pipvrjpau Nonne frigidissimam
conversio- nem censes hanc: Ich pflege namlich Alters halber
immer das meiste zn vergessen, was ich im Sinne habe, sie zu fragen
, and so auch , was ich hore (h. e., was sie antworten)* Falleq aber
noch qndere Erdrterungen da- zwischen, so erinnere ich mich
vevev * ovg TtccQELQ tov Jlavdavlov Ao yov dirjyeixo. slitelv d’ av
toVy ot l Ov fcaktog f 101 6oxtl y o5 <&ai$QE,
XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6 nicht eben leicht des Vorigen? Multo nptins
lectores censebunt Lysimachi verba converti: Fallen aber noch andere
Erdr- terungen dazwischen , so ist es mit mei nem Gedachtniss g a n
z- lich aus. Sed neque Haec con- versio recta est, neque omni
ex parte Platonis verba recte exhi- bentur. Maior interpunctio
post axovdco poni solet, pro qua si comma posueris, optime sibi
re- spondentia verba habebis irti- Xav^dvopai ra itoWa et ov
itavv fiipytffiat . Lysimachi sententia haec est: Denn ich
vcr- gesse Alters halber das Meiste von dem, was ich im Sinne
habe sie zu fragen, und erinnere mich wicderom nicht an das, was
ich hore, d. h. was sie auf meine Fragen antworten, besonders
wenn anderweitige Gesprache dazwi- schen fallen» tov
JJavdaviov Xoyov. Phaedrum , qui iracrj/p tov A o- ; yov vocatur p,
177. D. , Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore definitione usus
Erotem laudandum proposuerit. Etenim ut duplicem Aphroditen, ita
Erotem duplicem esse, ut Phaedrus, si recte atque ordine habendarum
orationum materiam edere voluis- set, anto indicasset, uter Eros
laudandus sit. His praemissis Pausanias in utriusque dei natu- ram
inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat, contra
summis laudibus extollendum Uraniam existimat. Idem iudicium
opti- marum civitatium legibus, quae sint de AMORE, probari
censet. Athenienses enim et Lacedaemonios Erotem per se spectatam
ne- que laudandum censere nequo contemnendum, sed accurate
sem- per cognoscere studere, virtuti» an voluptatis studio AMATOR AMASIUM
AMET, AMASIUS AMATORI se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et
probare et laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania
paucissima sunt, quae scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam
e Protag. p.S15. E. colligas. Adde Xenoph. Symp. c. VIII. §.
32. Scholiasta, cuius verba laudavi- mus p. 50., Agathonem
amasium fuisse tradit Pausaniae tra- gici. Aelian. Var. Hist. II.
cap. 21. narrat, Pausaniam una cum Agathone apud Archelaum
regem vixisse : tls *Apx £ Aaou icotk ctcpi- xovto o te ipadtrjs
xoci 6 ipri- fiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo vide annot. p. 8.
Dixit autem Aelianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov eodem dicendi
compendio, quo eif *Ai6 Ov dici solet, quae ra- tio dicendi
Aristophanis aetate ^ fortasse usitatissima ansam dedit comico
diverticulum illud elu- dendi Ran, v. 83- Ceterum non minus, quam
Agathonem, Pausa- niam mollitiei atque luxuriae de- ditum fuisse,
ex eius apud Ar- chelaum tyrannum diverticulo coniicere
possis* r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A. b. e. definitione addita
nulla, tam simpliciter, sine ulla explicatione accuratiore. Quaeritur,
stru- loyos, ro ecxAag ovra xceQyyyel&ai lyxmfuaguv
“Egcora! fl filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g, xaXug av sl%s. vvv SI —
ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog, 6q&6z£qov Ioti ctnram verborum
quod attinet, utrum nominativo an accusativo casu posita haec verba
rectius accipiantur. Ut verba vulgo ex- hibento?) nihil certius
esse reor, quam nominativum casum unice probari posse. Efficiunt
enim X 6 anXcoZ ovtcoS verba praece- dentium verborum
appositionem: Nicht gut scheiut mir, o Phaedrus, die Aufgabe gestellt zu
sein, namlich so schlechthin aufzuge- 1 ben, den Eros zu loben.
Neque probaverim accusativum casum, qui Riickerto placet»
Caussam enim, inquit, proponit, cor non recte proposita dicendi
materia sit, quatenus cet. Nimirum hac structurae ratione
frigidiorem orationem effici censemus atque sedatiorem , quam quae
Pausaniae, homini inprimis ipco- xixfi , conveniat. Fortasse hoc
modo Pausaniae verba scribenda snnt, ov xaXc jS poi Soxei , gj
$alSp £ , 7tpofi£ft\f/6$cti ijjiiv 6 XoyoS • ro anXoaS ovtoo
napr\y- yiXScci iyxcopia^eiv " Epcoxa ! qua verborum
distinctione quan- topere vi augeatur totum enun- tiatum, sponte
apparet. Habes enim vituperationem Phaedri coniunctam illam cum
indigna- tione summa, quam per me licet etiam irrisionem
interpretari: Wie kann man nur so schlechthin die Aufgabe stellen,
den Eros zu lo- ben ! Atque, si quid video , haec natis malitiose a
Pausania pro- feruntur ita , ut ad praecedens Phaedri dictum
comparentur p. 177, C. io ovv xoiovtov phr itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv
noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k pT}8ha ita> av - SpQOItCDV
TEToXflTjxlvai tfe XCCV- Ttfvl xrjv rjpkpav aZlooS vjuvtj - Coa!
Ceterum iu aliquot codd* non malae notae ovtgo? exhibetur, quam formam h.
1, unice probamus» Sed fusius de ovrvt et ovtgdS formis infra
disputaturi sumus. vvv 8h — ov yap l6xiv sis* Haec verba
sunt, qui nno tenore pronuntianda censeant; v» c. Engelhardtus ad
Apol» Socr* p. 83* B. p. 221. ita iudicat, nt nullam prorsus
omissionem verborum Graecos sensisse statuat» Sed neque hoc indicium
proba- verim, neque vero iis accesserim, qui vvv dh — ov yap verba
li- neola apposita disiungunt, vide- licet ut esset, quo
legen- tium oculis «aposiopesis* indicaretur. Aposiopesis
enim non nisi in iis locis reperitur, in quibus aliquis ita commoto
animo loquitur, nt pauca verbis expri- mat, cetera legentibus
divinanda relinquat. Non igitur aposiope- sin agnosces in verbis :
Hoc vidi, neque vero illud, aed omissionem praecedentis verbi
fi- niti, quod, quoniam facillime e praecedentibus suppletur, ne
nimia abundantia oratio laboret, lectoribus supplendum relinqui-
tur, Idem in nostrum locum cadit, ubi, cum praecedat xaXcoS av £?££,
facillime post vvv da suppletur ov xaXcoS $X ei - I an * quid
differat aposiopesis ab omissione verborum, quam 'ellipsin vocari
licet, statim ap- paret. Aposiopesis reticentia P •xaotEQOv
xgo^QTj&rjvai vxolov det Ixcavuv . lya ovv nu- » p«(Jof(«t tovto
ixavoQ&uOaO&aL , xqutov fiiv "Egara eorum est, quae aliquis
additurus rebatur potius, uter eorum laucrat , sed propter ammi comraodandus
esset, quam qualis esset tionem disertis verbis non ex- is, quem laudari
oporteret. R ii Im- pressit; ellipsis contra elegantem kert.
verborum omissionem indicat, inavopSudatiSat. Hu- quae in
praecedentibus leguntor, ius yerbi potestatem Ficiui conet quorum repetitio
foedam quau- versio non satis assequitur: hoc dam abundantiam dictionis
eifi- itaque emendare conabor, ceret. Ad nostrum locum ut re- Ea nimirum
ini praepositionis vertar, lineolam post vvv 8e cum verbis compositae vis
est, verba ponendam curavimus, ut ut aliquid post aliquid fieri e
praecedentibus verbis aliquid significet, cfr. p. 180. A. oti supplendum
esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS prjxpoS Simillimus nostro
loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo — ixoXprf- p. 200. E. el fikv ovv iv
xols tfev •— ov jiovov vnepanoSa- SiaXoyoiS xols apxi iyco plv veiv aXXa
inanoS av elv, Itpdvqv elSooS , xooSe 81 p?) quo loco quid differant
ano- elSoxe , Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv
, Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.
paxaXeiv' vvv 81 — opoicof p. 328. E. vvv 81 nbteidpai * ydp itavxeS iv
ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv, pe$a, quo loco post vvv Se
o 8f/Xov oxt TlponayopaS (ict- supplendum esse ratio loci docet: 8la>S
in ex 8 18 dB,ei , ineiSi} ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa
xavxa it,e8l- 7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS
vai . Haec. verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv
quadam posita sunt, quam etiam xdiv Srpirjyopoiv , xa% dv xal Latini
adamarunt dicentes : prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij praefari. Simili
modo supra IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov p* 177. D. dicitur: apx £ ^v
8h Ixavcov elneiv * el inave- 4?al8pov n pdixov , neque no- poixo xiva
xi, Gjfi tep (iifiXia strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv
ovxe dnoxpiva- nere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai,
aAA* fendat conversio haec: Phaedrus iav rtS xal dpixpov inepta -
hahe zuerst den Anfang gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep Nostra
verba Schl ei erm ac heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov convertit: dasi
zuvor bestiramt rfx £ 1 xdl anoxeivei, iav prj werde. Graecis verbis
magis re- imXdfirfxai xiS , xal ol fiijxopeS spondet: dass zuvor
vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS ivxes 8o- stimmt werde. Xixdv
xaxaxelvov6i x ov Xoyov. 6 nolo v 8 el in aiv £iv ., Perscripsi
totum hunc locum, ut Nondum licebat oitoxepov dici, lectores e vestigio
de Stallbaumii s quia quot Amores essent, nondum sententia iudicare
possent. Jn erat definitum ; accedit v quod, his, inquit, vereor,
ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quae- quod lateat. Quum enim in av
t- i ' i (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv , insita Inaivioai a^tcag
tov &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv "Egazos
p £ 6% a i sit interrogare aliquid praeter illa , quae ipsi
oratores dixerunt, haud scio an deinde parum accurate dicatur In e
p cj - Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim av EpGDtrj dp, h , e .
interrogando denuo attingat, Quamquam codices veterem lectionem tuentur
omnes. -Nihil mutandum est, et omnia bene habent. f Enav£pid%ai est
ali- enius rei , de qaa paollo ante dictam sit, caussam et rationem
sciscitari. Enepcoxdv contra eius est, qni audita qua- dam oratione
alicuius sententiae sire repetitionem sive enarratio- nem flagitat.
Sensus verborum est: lefzt aber glaube ich es, Nur eine Kleinigkeit
ht mir noch im Wege, die Protagoras ^ gewiss nachtraglich recht gut
beseitigen wird, da er iiber so Vieles mir Belehruug gab. Wenn
freilich Iemaud iiber denselben Gegen- stand mit eiuem der
gewdhnlichen lledner sich bespriiche, so mdchte er leicht solclie
Reden horen, sci es von Pericles oder von irgend einem andern, der
zu reden versteht. Fruge dagegen Iemand nachtraglich nach Grund und
Ursache irgend eines Satzes , so haben sie, wie die Biicher, keine
Antwort und bleiben stnmm ; biito Iemand aber um die Wiederho- luug
nur eines kleinen Satzes, so sind diese Redner vrie Erz , das lange
klingt und tont, wenn man es nicht anfasst, und geben ia solcher
Weise (vide ann. p. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco
ovxco dpixpa positam est) auf eine kleine Frage einen unendlichen Sermoo»
Ad nostrum locum ut revertar, verba convertenda snnt : ich
will nun versuchen, diesen Fehler nach- traglich zu
berichtigen. npootov 'jtlv " E p coxa. <p p a 6 cci .
Ne quis forte xoci particulam desideret, qua haeo verba
praecedentibus commodius annectantur: Sol ent Graeci, verissime
notante Stallbaumio ad Apol. Socr. p. 22. A., eas sententias, quae aliis
sub — iiciuutur explicationis causia, ita addere, ut particularum
et conjunctio- num vincula omittant. Effici autem videtnr hoc asyn-
deto, ut gravitate quadam oratio augeatur, quae addita xai par-
ticula prorsus evanescat. Hoc di- cendi genus tam simplex est at-
que omnis expers artis , ut non mirum, idem iam apud Homerum
reperiri, cf. II. a, 504. seqq. coS zco y dvxifiioidi pax^dda-
peveo inktddiv dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v napa vsvdlv
Axaiar. IJqXeiSqS psv ini xXidiaS xal vijaS ildaS rfie, dvv
re Mtvoixiu.br) 7ca\ oli Ixcepoidiv * 9 Atptibr)i 6 * upa
vija $or)v aXabe npoipvddtv , is 6* ipirai i-xpivsv x. r. A.
Adde Phaedon, p. 91. B. Xoyi- B,opai ydp, oo <piXe Ixcfipe.
xal Sioedoa gjS nXeovexTixtiS • tl pev tvyxdret dXrjSrj ov xa
cc Xiyoo , xaXcoS 6t { xo nei- dSrjvai* eI bl prjbbr idxi xe-
Xttrxijdavxiy dXX ovv rovxov yt x ov xpovov avxdv tov itpd tov
Savatov ijxxoY xoiS na- -6 * . ’Aq>Qo6ltt]. (tiag (ilv
ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt 8q 8vo Igtov, 8vo dvayxrj xal
"Eqqhb tlvav. xag 8' ov povdiv u7j6i} 5 Idopoa. odvpo-
ptVOf. c tB,loo S tov 5eov. Haec verba vario modo
interpretari li- cet. Possunt de elegantia lau- dationis intelligi
, de sinceritate laudatoris» de laudationis veritate cett. Sed
horum nihil Pausanias in mente habuisse videtur. ’A£UgjS tovSbov
esse: ita deum laudare, ut nihil omittas eorum, qnae deo conveniant
atque ad praedicandam eius laudem pertineant, ver- bis indicatur p. 180.
E. a 8 ’ ovv huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov Elireiv.
TtdvTsS ydp tdpEV* Omne s, inquit, s c i m u s, Aphrodite n' non
esse sine Erote. Sed quod omnes scire dicuntor, idem fieri interdum
potest , ut scire se opinentur tantummodo, revera non sciant.
Eandem igi- tur argumentandi sive levitatem sive audaciam habes hoc
loco, qua Phaedrus in oratione sua usus est p. 178. B. yovijs
ydp KpcDToS ovt sidlv ovte Xiyov- xai vit* ovSevoS ovte
iSicorov ovte noirjTov f ad quae verba vide ann. p. 55. Cur
Aphrodite sine Erote non sit quaerentibus variae caussae se
offerunt, quarum aut una vera est aut nulla. Eas nunc recensere eo
facilins omit- tere possumus , quo minas ipse ^Pausanias de caussis
rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat.
Ceterum ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A. Pausanias dicit, ita
Socrates dissimulato ingenii acumine p. 202. B. neti jnjv, inquit,
?jv 6* iycd 9 opoAoyeirai ye napd ndvxoov pty/US etvai.
« ptciS p\v ovv ovdtj S*. Ve- teres editt. habent
TavrrjZ 8\ pia* phr ovdrjS , quod fuerunt, qui probarent. Sed non
dubium est, verissime notante Stallbau- tnio, quin id grammatico
alieni debeatur. Bekkerns e codd. non pancis piaS p\v ovdtjS
edidit, quod sane habet, quo magnopere se commendet. Tantnm
enim ponderis enuntiationi, quae quasi fundamentum eat totius
disputa- tionis, infert, qnantnm eidem ap- prime convenire videtor.
Sed codd. optimorom auctoritas re- spicienda est, qui
coniunetivam particulam exhibent. Probatur eadem nobis etiam
propter du- plicem relationem, quae hoc loco manifesta est, et de
qua fusins disputavimus p, 22. et 2$. Pro- prie dicendum erat: pia?
p\y ovdrjSf sii av ijv^Epwg' Svolv 8^ 8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj
xal EpcoTe slvaiy sed eandem enun- tiationem etiam hoc modo
cogi- tari Pausanias voluit, E i p\v pia Tfv , eU dv t/v^EpcoS-
insl <$?/ 8vo idTov , 8vo dvdyxrf v.a\ "Epare elvai. Duplicem
hanc et nominum et particularum relationem mutuam indicare Pausanias tantummodo
potuit, non item disertis verbis exprimere* Indicatur autem ea, pkv
vocnla ad prius nomen apposita, 8s autem cura posteriore
particula coniuucta ptaS p\y — iitEi dL Sed hac scribendi ratione
repugnantia quaedam exoritur singu- larum orationis partiam , quae
addita alterutri sive nomini sive particulae ovv particula mitigatur
atque lenitur. Riickertus ad h, I* ita disputat, ut Pausaniae 6vo
Tio &ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l afi^rap, OvQavov
&vyutr]Q, tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv ' Teri) a
corruptissima ceuseat atque non nisi verborum mutatione sa- nanda.
Videtur enim , inquit, haec ipsa varietas , quod alii tavTTjS 8 i,
alii ovv addide- runt, argumento esse , antiquius hic vitium latere
, quod variis modis sarcire stpduerint librarii. Itaque in mentem mihi
venit olim, essetne Platonis manus haec ; *Aq>po8ixrf % j]S
ytiaS plv ovdTjS, Cui si quando acci- disset, ut negligens
librarius pro *Aq> poSitjj ?fS scriberet *Acppo~ 6 It rj S ,
Jieri postea non potuit, quin ~6 abiiceretur, quo facto alias
coniungendi verba rationes iniri oportebat, quarum ad nos duae
pervenerunt. Perscripsijhaec verba, ne deesset, quibus nostra
displicerent, quo commodius Pau- saniae verba explicarent. 7t
65 i 8 * ov 8 vo x oo $ ea. Vulgo xa $ed; sed miuus usi- tatum hoc
apud Atticos ex prae- cepto Grammaticorum. Eodem xnodo reperitur
rcJ 68 co in Piat, Gorg. p. 524. A» Plura huius loquendi usus
exempla Matth. congessit Gramm. ampl. $. 456. 1. p. 812. Ceterum
haec interrogatio ex eo genere est, de quo diximus ad verba c.VI. p. 60.
Xkya 8tf xi xovxo; Mediae orationi interrogationes immisceri
haud raro, ut vigor orationis structurae mutatione augeatur, satis
notum est. Hoc vigore, quem oratorium vocare licet, Pausanias ita
utitur, ut argumentorum absentiam obtegat, quibus duplex deae numen
probandum erat, ?} pkv yk itov Ttptd flv- tkpat, Riickerto yk
particula videtur non argumentationi, sed expositioni ante
dictorum inservire. Frustra. Quod modo annotatum est ad praecedentem in-
terrogationem, optime cum huius particulae vi, quae est vis
argumentationis, convenit. Rectissime Buttmanni praeceptum ad Dem,
Mid. p. 46. laudavit Stallbaum: Quum quis uno argumento ,vel
exemplo aliquid probat, potest hoc ut suiliciens afferre : quod fit
particqla ydp ; potest etiam significare, plura quidem posse
desiderari , sed hoc unum satis grave esse : quod fit addito yk,
certe, saltem. Restat, ut de tcov particula dicamus, cuius po-
testatem non satis recte Riicker- tus interpretatus est. Annotat
nimirum ad h. 1.; Addita part. itov urbanitatis declaratio est , '
qua speciem exhibet qui dicit ' etiam de re certissima dubitatio-
nis atque ad lectoris assensum provocationis . ' Non aliter Butt-
mannus de eadem vocula indicat in Indic, ad Piat, Dial. IV. Be-
rol. MDCCCXXII, Sed quam hi urbanitatem dicunt, equidem in
Pausaniae oratione arrogantiam interpretari malim. Nimirum 7tov
vocula e dicendi genere ov xl Tt ov depromta est, atque iu in-
terrogatione positum significat, mirari atque indignari eum , qui
interroget, si quis aliter atque ipso de aliqua re indicaturus sit»
IIov vocula igitur non tam wol con- vertenda est, quam doch
wol, doch sicher, doch gewiss. Usu loquendi factum paullatim
est," ut nov particula significet, notissimum aliquid esse ita ,
ut de eo dubitari nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy
yv 8% ITavdrjfiov xa- E Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty
hijpqc jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac , zov di Ovq&vlov. Alcib.
I* p. 129. C. 'O di XP°^~ pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ; — TIgoS A
eyeiS ; — "fhSTtEp tixv- toxojioS xipvei itov tojjeI xai
d/it\y xai aXkoiS opydvoiS. Adde Criton. p. 44. A. IIuSey rovro
TExpatipg ; — EyoS Coi ipaj. x\f yttp ttov vCxspaia Sei pe
ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to tcKoiov h. e. den Tag darauf mus»
ich, wie du weisst, sterben, wenn das SchifF zuriickgekommen sein
wird, xai Ov p avia. De Venere Urania atque Vulgivaga
secun- dum Platonis sententiam dispu- tarunt Apulei. Apolog, p.
281* cd. Oudend., Io. Lydus de men- tibus p. 89. seqq. Alios
lauda- vit Astius ad h. 1. Qudd autem illa dicitur dprjxcap 7 pro
magna deorum laude haberi solere, quod alterutro parente careant,
docte demonstravit Wesseling, Obserr. II, 10, p, 177. seqq.
De Venere Vulgivaga ex Iove et Dione nata v. interpp. ad Cic. de
Nat. Deor. III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei, p. 328. seqq. et
quos laudat Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19. Ceterum vix est, quod
moneam, totum hoc argumentum a Pausania ita tractari , ut fabulas
de Amore et Venere pro consilio ano mutaverit eique accommodaverit.
Stallb. iit aiv eiv piv ovv det itavtaS SeovS. Vario
modo sollicitarunt haec verba interpre- tes. Bastius scribendum
couiecit inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc. w EpGDxa ). Orsilius ad
Isocr. de Antidos. p.326. iitaiveiv juv — 3cod 5* expungenda
censuit. Riickertus Astio assentitur, qui vel superstitionis caussa vel
propter metum verba addita esse iudicat, videlicet ne Pausanias
deos con- temnere videretur. Stallbaumius, ne Pausanias sibi
contradicere rideatur, facto inter litaiveiv et iyxajpidpEiv
discrimine verba convertit ; Omnes deos cum honoris
significatione commemorate pietatis est; non autem omnes en-
comio digni haberi pos- sunt, Hanc verborum interpretationem cave
probandam censeas. Non yerum est enim, quod Stallbaumius inter
hcaiveiv et iyxwpidpEiv discrimen sta- tuit, neque idem scriptorum
locis probatur, cfr. Piat. Menex. p. 235. A. yorjxevovdiv T\pdtv
ras ipvxaS xai xrjv ito\iv iyxoopidpovxeS xaxd itav- r aS xpoxovS
xai xovi texeXev- TTjxoxaS iv x<p noXipw xai TovS TtpoyovovS
?}pcjv dnavxaS tov f ipitpoCSsv xai avxovf TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS
Ijtai- vovvxss x. r. A., ad quem locum Engelbardtus verissime
annotavit p. 241. ed.: irtaiv ovvr e$ ni- hil est nisi
repetitio quaedam praecedentis iyxcopidP,ovx eS ob enun-
tiati longitudinem ad- iecta. FICINI conversio, ne verbo tenus
quidem facta, audit : laudare quidem deos omnes decet, sed utriusque AMORIS
opera distinguenda Pausaniae mens haec estx Male ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' «
& ovv txattQog *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv. Uda a yag
ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phaedra» nihil definitione
nccuratiore usus Erotem laudandam proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo
igitur (ovv) nunc Erotes laudandi sunt, quoniam omnes dii, ut dii,
non possunt non laudari. Ea laudatio ut recte fiat atque digne
deis, quid utri** que Eroti datum sit muneris, iam dicendum est.
Pausanias igitur , quod in laudatione Erotis a Phaedro proposita duos E
rotes commemoret, alterum Ovpdviov , alterum ndvSypov , eius rei
excusationem petitum iri putat et a negligentia Phae- dri, qui
Erotem laudandum propovicrit dei naturam duplicem non respiciens,
et a pietate quam diis omnibus mortales praestare debeant. Restat, ut de
ovv particula dicamus, quae h. 1. dupliciter posita est. Prior part. con-
tinuandae orationi inservit, de ulterius potestate dictam supra est
p. 22. et p, 84, o(vt fj i<p avtyS itpat- ropivy.
HpatTopevy parti- cipium adeo suspectum visum est hominibus
quibnsdum doctis, ut tanquam inutile additamentum expungendum
censerent. Neque his assentimur , nec Stallbaumio credimus, quod
annotat ad h. 1.: Poterat omitti participium, fateor: et omisissent
fortasse alii, qui non haberent Pausaniae in- genium, Ficinus in
convers.parti- cipium non expressit, cuius tamen parva in huiosmodi
rebus auctoritas. Quid? quod Gellius, verba graeca laudans N. A, XVII,
20. participium edidit, idem in latina conversione omisit.
Participii vis haec est: itatict yap itpct%iS c o6 9 ix*f avty
avtrjS TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit • aller Handlung
verhiilt es sich so: so fern sie an und'fiir sich Handlung
ist,ist sie weder gut uocli^ schlecht. Haud raro Graeci scriptores
verbis transitivis utun- tur ita, ut addito obiecto nullo, non
aliquam actionem denotent, sed meram verbi notionem ex- primant.
cfr. Symp. p, 184 . B, av t eu epyetovpevoS eis XPV- para. — p y
nata<p povij 6y h. e,, wenn er in Beziehung auf Geldgeschenke
oder auf Befdrde- rungen im Staatsdienste s e i n e Verachtung
niclit zeigt. Pl. Gorg. p, 489 , D. y olei pe Xeyeiv, idv CvpqtetoS
6v\ Xepy 6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V av- SpcoitGQV pySevoS
d£,ia>v rtXyv iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai, xal ovroi
<pd>6 iY t avia tavuc elvat vojptpa; in his verbis, cum
praegnantem , quam vocant, g>dvai verbi siguifteationem non
perspicerent, Heindoriius, Butt- mannus, lleusdius, ad conie-
cturas ingenii confugerunt, xal ovtoi <poo6iv est: und (wenn)
diese das Wort nelimen, ihre Stimme erheben. Pro- tag. 384. D,
coSicep ovv dv el ItvyXOLVOV VltOXGDtyOS cov, <5ov av xP 7
} yai t tlnep epeXXis /tot diaXkZetiBai, pelP t ov cp$ty- yeCSai y
itpoS tovS dXXouS, ubi pei2,ov positum est pro pdA- 181 TOfiivtj
ovzs xcdrj ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov ■ ptv, nlvsiv Tj aSuv rj
duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, > avzo xafr’ ccbzb xaXov
ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ; av nqayfiy , tocovtov «jrifJij* xcdas
(itv yaq nqaxzb ■ fiivov xal oq&w s xcdbv ylyvszai , prj OQftas de
alctyQOv . ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov nas eOn xaXbi;
ovdi agto<; lyxujiui&<5%at, , aiX b xaXw$ nQOZQtnuv
Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oy- yov itapexeiv (b. e. tpSiyye
- 6Sai) conveniret. Adde Apol. S. p. 80. D. — idv ipl
ditantei- vrjxe — ovx ijj.1 pel^QD fiXa- ifrete rj vpaS avzov$ t
quo loco ad utrumque dicendi genus re- spicitur. Hac significatione
verborum praegnanti factum est, ut multa verba cum genitivo couiungi
soleant, ubi quartum casum exspectaveris cfr. Protag. 851. E*
itorepov ovv , rjv 5* iyc & , tfti fiovXei ijyepovevEiv (h. e.
7jys- jj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj iyco ijydopai ; JixaioS,
£<prj f 6v Tjyei- G$ai' 6v yap xal xaxdpx xov Xoyov. Ne
praeteritum pro xorcdpXEtf exigas, sensus est; da bist ia auch der
Urheber der Rede. Menex* p. 237* cap. 6* xijS 8* Evyereiaf icpcoxov
vxrjp^e toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^ 6i$ tu T, A. h. e. war die
Ur- sache* Adde e latinis scriptori- bus, apud quos rarior hic
usus, Plaut. Asia. v. 256. Both. Aeta- tem ego velim servire (h. e.
servus esse), Liburnum ut conveniam modo. roiovrov ditiftTj*
Tropum aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse
proverbium erat, ad quem allu- sit: talem farinam prodire solere , qualis
in mola parata sit* ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla
interpunctio reperitur neque in codicibus uequ s in libris editis ;
graviorem posui- mus nos, qualem sententiarum ratio exigit.
Pausaniae mem haec est: ut quaevis actio per se spectata neque
tur- pis est nec pulchra: sola ratioue agendi cogno- mentum
accipit: ita nitiii in se habet % Q ipay per se spectatum, qnod
veli vituperes vel laudes: ex sola amandi ratione indicatur. Quod
sequitur xai non mera copula est, sed fortiorem significatum habet,
quo apud La- tinos poni constat adhaerento consequentiae notione
atque pro atque igitur* Verba con- vertenda sunt: So verhalt
es sieh auch mit dem hieben, Und ist also nichtieder Eros
schon und eines b e- sonderen Lobes wiirdig, sonderu nur der,
welclier auf eiue schone Weise zur Liebe treibt. ooS dXySooS
Ttav 8 rj jio Quid sibi velit goS «A?;3o3s' , a nemine demonstratum
video. Si- gnificat autem , propria potestate adhiberi, h. e. adieotivum
esso non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte igitur aliis in locis mihi
videor K t Cap. IX. 'O (Tsv ovv Ttjg HavSy/iov
'AcpQoStzrjg eos aArj&cog JtavSrifiog eOzc xul itiegya&tai o xi
av xv%y xal ovxog B lozt/v, ov ot tpavAoi xmv dv&Qtltxcov igatiiv.
£ga( H 6s ol xoiovxoi ngdhov (iiv o&% fjxxov yvitcaxav i}
itaiSav, IWf hxa, eoi/ jcal tQcoGi , zov Gufiuzav puAA ov xj zav
m«inscnla littera UdvSyfioS «eri- psisae. iZepyagexat
3 xt «Y xvxy^ Vett. edd. pro xvXQ exhibent xvyoi, Male. Ad
xvxy •imple* verbum e praecedentibus repetendam est, uon
compositam i&pya$Qp£YQf, ut visum est Stalibaumio, Sensos est:
und was irgend noter seine Hande Itomnrt, das henutzt er oh
ne vr e i ter es fur seinen Zweck. Huius structurae exempla
per- multa reperiuntur. cfr. Phaedon. P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St},
<J dyaSl, £av apa xal dol %w8oxy, aixep Xal £fio\ (ac. doHtl,')
Pari modo affirmativum verbum repetendum est praecedente verbo
negativo Platon. Gorg. 457. D. — <ft A' iav Ttepi zov
dfupidftnxtjdatdi xal prf <pfj o exepos x ov Sxe- (>ov opS/wS
Aiyuv fj fit } o'a- tptaS JC. tpy, Sententiam ipsam quod attinet
cfr. Piat. Pro- t*g- P- 353. A. xi SI, o! 2aS~ HpccxcS, §ei ?)
licis 0xoixei6$ca T?jy tgm* 7toXXcov Sdfcctv ctv~ Spomtaiv, o'{ oxt
av xvxoodi, xovxo Uyovdiv, Adde Piat, Criton. p, 44, O. xal
ovxoS idxxv, ov x. X, A. Pausanias si brevius loqui voluisset,
verba audirent xal tovzov — ipwdtv, Illam oratoriam dicendi figuram etiam
in- fra reperies p. 182. A. ovxot yap cldiv ol x. x. A,, p. 186.
C. xal xovxo idxxv , fi ovofia %o iaxpiHov et alias sexcenties.
Ceterum ipdv coniunctum cum quarta essu verbum transitivum esse, cum
genitivo, praegnanti, quae vocatur, potestate adhiberi, ut idem
sit, atque amatorem esse alicuius, supra annotatum est p. 88. Hinc
nostra verba con- vertenda sunt; und das ist der, welchen die
minder Gebildeten unter den Menschen lieben. Liebhaber aber «ind
solebo zuerst, nicht minder von Wei- bern ais von Knaben,
cos av Svvatvxai avotj- xoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,
annotatio haec est: Tribus par- tibus ait constare diiferentiam
inter asseclas Amoris coelestia atque vulgivagi, primum sexu, qui
ametur, deinde parte, quae ametur, postremo amandi modo. Itaquo
mutavimus lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio obsecuti, cuius
coniecturam fir- mant codd. aliquot non malae notae (Paris, et duo
Vindobb.) Satis speciosa est, neutiquam ta- men vera haec verborum
interpretatio. Tantum euim abest, ut temeritate tanquam argumento
Pausanias utatur, quo tpavAovS il'v%ibv , htuxu m g av Svvavtai'
avorjxoxazmv , jrpog ro ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel
ovvteg de xov xa- AcJg ij [trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av
xvfjaGi, xovxo ngdxxuv, opotcos pev ccya&i>v , opoias Si
xovvav- C riov. laxi yag xal ano xijs &eov vecoxega g xe ov6t]S
nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv rjj yeviaei xal I
• tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro quam pueros, deinde corpus magis
probet, ut potius allatis argumen- quam animum amant, postremo tis
tribas Pandemi amatores te- natu minores» mernrios esse doceat intempe-
icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai. raritesque atque eorum, in quos* Ut paullo
supra i^epya^ed^at, cunque inciderint, ineptissimos ita hoc loco
dianpaB,ad%ai verbi corruptores. Nullo enim, inquit, di- latissimo
significata turpissimae scrimine facto etmulierum etpue* rei notio
obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire in conversione
habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf die Befriedigung
sehen, poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob auf sebdne
gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum per- fieri
maxime potest — uum i ne- pulcre hoc additamento explicatio p tis simo m
od o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi pro- xisse censes? — quid
ineptius in bari videtur. Aetate enim pro amore cogitari potest, quam cor-
vectiores cordatique homines haud pore magis quam animo delectari? facile
ab iis corrumpi possunt, K evocanda lectio vulgata est avorj- quos
temerarios libidinososque ToxarcDYy quam Riickertus quoque amatores esse
intelligOnt. Contra, in textum recepit, minas tamen quorum aetas
prudentia caret, recte verbom interpretatus. Avorj- quo facilius fraudi
obnoxia est, j oraro i enim h» 1. non stuleo cupidius ab illis
tissimi sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai ris aetatis. Hinc verba ex- 5
eov. Cave Riickerto crcda» plicabis p. 181. D. xp V v dk xal annotanti ad
Jianc locam, da- vo/iov tdvctt pyj ipay it a i 8 cov t riorem omissionem
verborum esse fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj dirovdi/ o "EpGOS ovtoS ,
nulla videlicet arrjAitixero ' x. r. A., ad quae in proximis praecedente
Erotis verba vide annot» Quid? qivH, mentione. Brevior Pausanias
esse quae his verbis praecedunt, no- maluit atque, quae facillime sup-
etram explicationem apertissime pleri possint, eadem -audientibus
probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda relinquere, quam ora- xe£ , iy
aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia verbositate x eS cis*
viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim dt- niae igitur voluntas
haec est: cendum erati eidi ydp xal and Pandemi amatores non nisi e
ge- xovxov rov "EpaxoS , oS idxtv nere temerariorum hominum sunt;
and xi/S Seov x . T» A. Similiter quorumcunque ipsis potestas est,
Pausanias brevitatis studio dixit eos Amant, non miuus feminas p. 181. C.
ol ix tovxov xov oppetitur. and x ii s ahjtaos
xal aQQtvog. o 61 tijg OvQccvtag tcqStov ftlv ou (izxzyovdijg
&t]A.sog, a A A’ ctQQBvog ftovov — xal Igxlv ovtog o tojv italdav
Eqco g — 1'sr utk itQEGfivttQcig, yfigcag CC(lolQOV. 0&BV 6tj
iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x XOVtOV rov “Ego rog Mxvoi, ro
<pv6e i iggauBvzdtzgov xal vovv fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av
yvotrj xal tv avry EpGDToS hnnvoi pro ol ix tov- TOV
TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xav- TtjS rijS iitiitvoi. Cetcrnm
ne mireris itoXv voculae post comparativum posituram, ita lo-
quuntur interdum Graeci, ut se- dis insolentia verborum potestas
augeatur» Exempla huius locu- tionis non rara • supra reperitur p.
180. A. xal itt aykvEioS, hcEira VEooTEpoS 7to\v, <2s <prj-
div "OprjpoS. Adde Piat. Gorg. p» 488. E. ol yap xpEixxovf
fisAxiovS itoXv xaxa rov dov 4 \ 6 yov. Plura exempla Stallbuu-
mius laudavit ad h. 1. ed. p. 50. xal ^rfX^os xal a?/3/5e-
YOf, Ilis verbis explicatur, qui fiat, ut TlarSjJpov asseclae et
femineo et masculo sexu dele- ctentur. Hoc quamquam disertis verbis
non commemoratum est a Pausanid, tamen colligere licet ex iis, quae
paullo infra legun- tur: aW afifisvof povov — xal idxir ovxos
6 xwv itaiScjv "EponS — quae verba immerito tanquam glossema
expungenda censuerunt Wolfius, Schiitzius, Astios. Sensus est: und
dar- auf beruht das W e s e n der Knabenlicbe. OvxoS autem
pronomen positum est e generis haud rara assimilatione prorotiro.
vfipscoS a/ioipov . In his asyndeton improbantes Astios et
Orellios alter xk inseruit, alter apoipoS scribendum existimavit.
Frustra. Solent addita eopola nulla ens partes orationis
enu- merare Graeci , quarum suam quaeque pondus habet, cf.
Symp. P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS 7/y xiS, KvSaSijvauis , apixpoS
, dv v- noSijroS dei. p. 175. C. rov ovv AyaScava, xvy x dvctv ydp
?d X a- rov xaxaxclperor, yiivov. Ce- terum vfiptaS d/ioipos
Urania dicitnr ita, ut simj| ,* 0 P a „de- mon Aphroditen oratio
dirigatur, cuius Swepyos perfidos et cavillatores asseclas reddit, cf. p.
181. D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS, iv dtppo6vvy XapoVTtS cjV
viov, xaxayeXddavxes oi x ji d £ d $ ct i ije \ccX\oy
djzo — xpi X ovx£S x. x. A. oSev 8xf — trixinvoi. Haec
accuratiori explicationi in- serviunt praecedentium xal Hdxiv ovxos
o xtiv itaiSov *Epa>s. quae verba quoniam ita exhibita snnt, ut
pro concreto, quod vo- cant grammatici, abstractum po- situm sit,
nostro loco concretum ha^es h. e. masculi generis ama- tores in
abstracti nomiuis locum substitutos. Cave igitur h. 1. de inutili
praecedentis «licti re- petitione cogites, "Exixvoi vo- cem
qnod attinet, cfr. Piat. Me- non.^p. 99. D. cpaipiv civ Seiovs xe
tLvai xal IvSovtiidZetv, inl- TtvovS ovxaS xal xar£ X opevovS ix xov
Seov. Adde etiam Phae- dri verba p. 179. Br xal dxe- XvdiS , S
£<pi) ” Opi/pof , pivoS Ttj muSigatitla tovg tUtxgivcSs vno
xovtou tov * 'Egatog D oQiirjfdvovs. ov yag igmat nalfa iv t «M* ix$Ldav
rjdq i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv TOV jSfoV, TOVTO 6
"EpGOS T OlS i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy itap
avxovx tq cp vdet ififxu/isyidTe- pov x. r. 'A. cfr. Piat, de
rep. V. p. 455. D. ovdb' dpa idxir , c 5 <pi\s, imxtfSevpa tgov
noXiv dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv - vy) , ov8 * avdpoS 616x1
dvtjp , aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai cpvdtiS iv a/jypoiv xoiv
Z&oiv, xai icdvroov plv pexexsi yvvrj faixjfdevpdtGrv naxa
cpvdiv , irarxGJY 6 l ayijp , in\ icadi 6h adSevidxepw yvvjj
avdpoS. Ceteram came h. 1. Pausanias dyanwvxeS participium
exhibuit, tie forte aliquis, si ipcovXES di- xisset, rei
iutelligentiam perver- teret explendae voluptatis notio* nem simul
adiungenx. nat tiS av yvoiij xal iv avxy xy icai8 spadxia
» Inest his verbis , quod male me habet. Nullum in codicibus
vestigium est deprationis, igitur commendanda tantummodo lectoribus , non
item in textum inferenda scriptura haeo est: xai tiS av xai yvotrj iv
avxf/ ty izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud scriptores
Graecos dicendi genere xai T\S xal, xal Tivef xal , similibus. Unum
hu- ius dictionis exemplum nt com- memorem, in Piat. Criton.
p,4$. A. legitur; ZvvrjSrjS. JjSrj jaoI idxtv, <y 2 &lx
parces t 6id xo jr oXXaxiX Sevpa q>oixdv’ xal ti xai
evepyeretxai vk i/iov, quo loro Stallhnumia rectius Buttniauuuf
edidit evepyexelxat, ille evepyhrjxca in textum re- cepit.
Sensus est; Er kennt mich scliou , o Socrates, da ich oft hierher
komme \ dann uud wann bekommt er aufch etwas von mir. Ad nostram
locum ut revertar, certissimum esse reor, Platonem non scripsisse
xai far aruxy xy ica\8epadxla. Satia enim erat dixisse far* avxy
xy itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy TCcaSepadxla.
elXixpiy dt X k Etymol. M. p. 298, 56. Sylb.. elXixpivrjS' 6
xaSapoS hqi\ d/Mtfifc kxepov. icapd xo eXv, 1 } Sep/iadia, xal xo
xpivGOy q iv xy £Xtf xexpi- /aevoS. Alii aliter hanc vocem
explicare studuerant; nobis, unde haec vox depromta sit, quaeren-
tibus sponte se obtulit salia comparatio , quod coquendo purius fit et clarius.
Salinatoribus igitur vox antiquitus propria fuisse videtur; deinde,
ut fit, ia quotidiauao vitae consuetudinem ita abiit, ut propria
eius signi- ficatio prorsus evanesceret, cfr* Symp. p. 211. E* xi
8rjxct , iqrq, olopeSa , el xoo ykvQixo avxo xo xaXov 18eiy
elXixpivls, xa$ a pov , a/iixxov , dXXd. /xi} avaicXecov dapxcov xe
av- $ p coTziv-ojv xal xpGopdxGov xal aXXyS itoXXi}? <pXvaplaS
$vrj- xrjS , aAA* avxo xo, Seiov xa- Xov 6vvaixo jaov o$i8hS
xa- xi8e\v ; Adde Piat. Menex. p. 245. cap. 17^ 8ia xo
eiXixpi- vdoS elvca h £X\7/yeS xal dpiy&ls fiapfidfiGJY. Sunt
igitur, Riicker- tus inquit, ol eiXixpivcaS vico Xovxov xov
"EpooxoS capptjpivoi, qui pure, sincere, ab hoc Amore aguntur,
nec admistum habent agxavtcn vovv ”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3
yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ, olfiat, tlalv ol ivrev&tv
agxu/iE- qnicquam de viliore illo et vul- ga ri.^
ov ydp i p oj 61 it ai8 cov , «AA* ineiSav x. x. A. Haec est
librorum omnium lectio, quam H. Stephaniis primus ita immutavit, ut
aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea scriptio tum aliis tum
Stallbso- mio adeo probabilis visa est, ut eam in textum reciperet.
Con- stat autem , aAA* ?/ voculis du- plicem rationem, quae
proprie non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una
euuntiatione coniunctam indicari. Sic nostro loco dicere possis ov
ydp (npoxepov) ipcodt naidcov 7 iiteidav jjSrj apx&vxai
vovv $6X £lv t dicere possis etiam ov ydp ipcooi izaldGov, aAA’
(ipu>~ 6iv avtoov) insidar 7/67 ap- X<&vt ai vovv 1 l6x £
iv ’ His enun- tiatis in unum couflatis dicendi genus efficitur hoc
: ov ydp ipdodi nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv X. t. A. Hoc per
se spectatum, cur reprehendas , non habebis. Nam quod Riickertus ad
h. 1, dubitare se ait, num recte jral- 8tS dici possiut ii, qui iam
pu- bescant, eo quidem argumento lectores non admodum movebuntur.
Quaeritur autem, an Pausa- nias ita locutus sit. Certi quid equidem
statuere non ausim, ve- risimile tamen mihi videtor, Pausaniam, cum
paullo ante AMATORES nominasset, qui eo delectentur, quod validius natura sit
atque intelligentia emineat, nostro loco non nisi oppositionis rationem
habuisse , Ttald&v nomen autem ita posuisse, ut idem sit atque
dvorjxoxdxav , quod p, 1 8 1 . B. reperitur. Eodem significatu
paullo infra dicit: XPV y ^ vopov elvat jn) ipav naiS 00 v ( h. e.
pueros immaturos ) , ivct p7) elS dd?jAov iroAAr) freovSt/
dv7]At6xEro. xo ydp xdov n aci- da) v xiAoS aSr/Aov, ol xeAevtcc
xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum ellipticam enuntiationem habes, quam
cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior enuntiatio audit: ov
ydp ipcodt icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp - Xcovxai vovv l6x £iv
y r dxe ipdj- 6iv avxGJV. Sensus est: Sio sind nicht
Liebhaber von noch unausgebildeten Knaben, sondern zeigeu sich ihnen
erst dann ais selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn.
Schleiermacheri conversio: Dean sic He- ben nicht Kinder et q.
seqq., ea -de caussa minus nobis pro- batur, quod illud nomen
de utroque sexu intelligitur , h, 1, antem non nisi de masculo
sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA* 7/67 vovv
{(Sxovxcov, quia significantius indicatura» erat, amato ies id
agere, ut ea aetate, qAMASIOSua
intelligentia efflorescere posset , omni studio excolerent,
consilio adiuvarent, exemplo meliores reddereut. Hinc apx £
<S$ctt verbum appositum habes temporis momentum significans , quo tempore
amasiorum ingenia excoli possint, atque 7toXAy 6itov8y amatorum,
quae<, p. 181. E. commemoratur, eru- diri, porro iireiddv finali
parti- cula Pausanias usus est, tardum maturitatis proventum
depingens, x g 5 yeveidtixeiv. Ne hoc quidem, inquit Stallb.,
Pausaniae roi igav cog tov filov Szavra gvvetfofitvoi xal xoivy
OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig , iv dtpQotivvr/ J.ajiovzig
wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’ aliov ingenio indignam
est, quod aeta- tem illam adolescentium diligen- tias indicat, qua
perveniant ad maturitatem quandam rationis, et qua iam liceat veris
illis, quos dicit, amatoribus eorum uti consuetudine, Nimirum pubertas
est {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom. Od. X. 279. De hoc loco vid.
Comm. de Symp. Platonis. itape6xEvct6 pivoi ydp, olpat,
Eidiv seqq. Verba haec Stallbnumius convertit: Nam qui inde ab hoc
tempore amare incipiunt, ii se ita comparave- runt, ut velint per
totam vitam cum amasio suo versari, non quum eum, quippe quem
depre- henderint iuvenem, imperitum et imprudentem fefellerint ac
dece- perint, cum risu et contcmtu ad alium aufugere. — Participia
igi- tur ita posita censet Stallbaumius, ut ad praecedentis
participii ex- plicatiouem sequens fucer® exi- stimet. Sic iv
dfppotivvy A a- fidvTEf toS viov. quae verba Orellius in £zr'
dtppo6vvy Xa- fidvttS mutanda censuit , ovx iB,anati}6avTES verbis
explicau- dis inservire arbitratur. Nostro arbitratu non dubium
est, quin i^axarrj(javTcS participium ver- bis supra lectis tcov
datpdtcav fiaXXov v T&jy rpvx&v, iv drppo - 6vvr? XafiovtES
o oS viov, intifbc cjS dv dvvGovtai dvoTjzoTarajv respondeat.
Igitur hoc loco participia propriam ac suam potestatem habent, id quod
Orellius Eix pro iv scribendo indicaturus erat. Verba convertenda
sunt: Deno entschlossen sind, meino ich, die, welche das
mannliche Gesclilecht von diesem Alter aa zu lieben beginnen , die
gauze Lebenszeit mit ihm zusammen zu sein nud ein gemeinsames
Leben zu fuhren, nicht Betrug an ihm zu dben, nicht es in
seinem Iugendunverstan- de zu iiberlisten, nicht mit Hohn davon zu
gehen, indem sie zu einem andern ab- springen. Ceterum participia
cu mulari solent vinculis nullis col- ligata, quando loquens
inducitur, qui est animo commotiore, cfr» Gorg. p. 471. B. favidaS
xal xarapESvdaS avrov re xal tov viov avrov ’A\i%av6pov , dve-
ifnov avrov , cfredoV r/A ixigjttjv, i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av 7
vvxrcop i^ayaycjv ani- 6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp. p. 2 1 0 . D
. xal fiXiiearv 7tpo$ noXi) 7/677 ro xaXov , prjxin r 6 itap Ivi —
dyanuv x. r, A. i 71 dXXov dxor p i x° y T E S. Aliquo
modo hoc loquendi genus vernaculo sermone assequimur quidem, sed
repugnante plerumque dicendi usu. Aliena enim a nostrae linguae
indole illa facilitas est, quam felicita- tem vocare possis , qua
scripto- res Graeci complurium actionum rationes in una
enuntiatione con- iunctas exhibuerunt. Schleicr- macherus habet in
convers.: und von ihm zu einem cmdern zu entlaufeu. XPV
v ^ xal vdpov tlvat x . r.A. De XPVVU 1 verbi notione supra dictum
est p. 12 . dncrtQiyovtu;. XQ , 1 V vofiov ilvai firj igdv mxiScav,
ivcc fitj tls aSrjkov xolfo) Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e
Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza xaxiag xal ctgctqs Significat
autem: Debere aliqnem aliquid facere ita, ut, si id omi- serit ,
officio suo defuisse censeatur. Imperfecto eiusdem tempo- ris exprimitur:
Debuisse aliquem aliquid facere, quod revera non fecerit olTicium
suum male exse- cutus. Iam nostro loco quoniam non comparet, cui
male servati officii crimen imputare possis, verba hoe modo
convertere li- cet ; Eigentlich hiitte , wenn es nach Fug und Recht
gehen solite, ein Gesetz da^seiu miissen etc. Ceterum cave av
particulam XP*j y verbo adiungendam censeas. Ea enim si adderetur,
particulae potestas esset , ut, quod olim fieri oportuisse dictam sit,
idem nunc non opportere fieri indicetur. Sed oflicii quovis tempore
eadem conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse,
quod idem alio tempore non officium ait. Alia ratio est Selv
verbi, quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e.
cer- tis quibusdam de caussis ortam, £8ei dv commode dicere
possis ita, ut cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus
cessisse cogitetur; 18 ei dv autem significat, olim necessa- rium
fuisse, nunc autem non amplios necessarium esse. Et quoniam
saepissime contittgit; ut non amplius necessarium videatur
praesenti hora , quod olim ma- xime necessarium fait , non mi- rum
est, $8ei av crebro opud veteres scriptores reperiri ; con- tra XPV
V nusquam, quantum scio* occurrit apud veteres, coitis rei
argumentum est, quam supra commemoravi, officii constantia.
tva ut) eis aSrjXov — avTj XioxET o. Codices aliquot
dvaMoxoixo exhibent, quae le- ctio bene haberet hoc loco, si
Pausanias non nisi de possibili- tate, quam vocant, xov dvaXi -'
tiHEdSca ageret. Indicaturus autem ille aperte erat, saepe iam fa-
ctum esse, ut AMATORES AMASIOS frustra ad virtutem propellere
studerent , ut unice rectum censendum sit avtjXLoHETO . Optativi modi
exemplum est Alcib. I. p„ 105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl doi xal
itplv xodavxrjS iXxidoS yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia. 6 5eoS
diaXayeoSai , iva prj fxaTTjv StaXey oiprj v. Opta- tivo autem modo
Socrates hic utitur, quod revera non expertus erat, ut in erudiendo
Alcibiade frustra operam consumeret. Adde Menon, p. 89. B. ouff
TjptiS dv TtapaXaftovxEf ixtivoov djzoepij- vdvxcDV icpvXaxTopEV Iv
dxpo- tcoXei — ivot pij8 eis avxovS 8lE<p$EipEV, aXX
ETtElS)} dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*j- Cipoi ylyvoivxo xals
itoXtdiv. Plat. Criton. p. 44. D. ti yap dxpEXov f cJ KpitcQV,
oIoIxe eivat ol noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~ yd&CSau tv u
oloixs i)6av xal aya$d xd pkytdxa. vid r Rostii Gramm. §. 122.
12. to yap x&v 7tai8wv xk- XoS x. x.'X. Duplici
significata TtaiSajv nomine Pausanias utitur, ut id aut masculum
genus deno- tet cfr. p. 181. C. xal idxiv 4’vxrj s te jrtot
xal 6ca(iaros. ot (uv ovv ccya9ol rov vopov tovtov avtol avrolg exovteg
ri&Evraf x9V v ^ ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS — oSev 8
rj ini to afifiev tpinov- tat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut
hoc loco. Schleier- macheriis haec verba convertit: Denn bei den
Kinderji ist der Ausgang ungewiss, wo es hineus will, ob zur
Schlechtigkeit oder Tugend der Seele und des Lei- bes. Ut V. D.
convertendum censuit, h. e. virtutem a vitiosi- tate disjungendam ,
non conjungendam cum eadem, ita Graeca verba scribenda sunt; nullo
enim modo ferri potest, quod in omni- bus editionibus exstat
xccxlaS xal apErrjS . Constat autem saepissime xal pro r/ et 7}
pro xal exhiberi in libris, ut non audacias agere censeri queat,
qui sensu flagitante verborum alteram vocem in alterius locum
substi- tuat. Scribendum igitur h. 1. puto esse xaxiaS r/ apEtijs.
Ge- nitivos quod attinet xaxiaS et apEtrjSy qui e praecedente
loci adverbio pendent, vide Matth. ampl. $. 324. p. 632.
avtol avtols %xovxeS tiSEVtai» Media forma Pau- sanias usus
est TtSivat verbi, quod qui legem scribunt, iidem illi legi sese
subiiciunt. Eodem modo apud Xenoph. Oecon. 9. 14. scriptum
reperitur iv tatS EvvopovpivaiS noXsdtv ovx ap- * XEIY SoXEt TOtS
XoXltaiS , 7 JY vopovS xaXovS ypa~ if> cjy t at , quo loco
Pausaniae verba abundantia quadam exhi- bita esse doceare. Satis
erat dixisSe r ol plv ovv dya$ol tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tl-
Sevtai. Addidit autem avtol avtolS 9 ut aequitas illorum ama-
torum clarius eluceret, qui ipsi nulla necessitate nrgente, sed
li- berrima voluntate {biovtES') il- lam legem scribant.
tovtovS tovS itavStf- povS ipadtaS, OvtoS pro- nomen
nominibus praeponi solet ita, ut significet, de aliqua re sermonem
esse sive landanda sive turpi, quae alias iam innotuerit* Igitur et
laudis et ignominiae exprimenda* notioni inservit. Ac nostro quidem
loco non obscu- ram esse potest, quo significatu pronomen
accipiendum sit, et recte Stallbaumius annotat, ovtoS cum contemtu
dici. Exempla huius usus ubivis obvia sunt. Laudat Stallbaumius
Piat. Criton. p. 45. A. ovx opacS tovtovS x ovS
6vxog>dvtaS coS EvTeXeiS, quilus verbis occasionem datam video,
de Sycophantarum nomine quid mihi videatur, aperiendi. Ad- modum
enim displicet, quod Schol. annotat, ad Piat, de rep. I. apud Bekk.
Comment. Crit. T. II. p. 397* dvxotpavTTjS XkyEtat d iffEvSddS ti
xtv oS xatTjyopdiv. XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/- vaiotS
TCpdrtov EvpESivtoS rov t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto
xgoXvoytcjy iZayeiv ta dvxa, tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£d- yovtaS
dvxoq>avtcoY xXr]^h'-~ TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr
xarrjyopovvtaS ttvurv tptXane - X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j -
$ijvai % Duplex schnl. eat ad Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim
Platonico convenit, alteram haec habet : Xipov yEvopivov iv r y 9
Attixy tivls Xa$pp taS dvxxS taS atpiEpcopivaS toiS SeoiS
ixapicovvtOy pera 8h rav:at xui rovtovg tovg navdrjfiovg tgatixag
itQogavayxa&iv to roiovrov , wgittQ xal tc5v EvSrjviaS
' yevope vtjS xanjyo- povv TOVZGDV rivis, xcti £xel- $ev
dvxocpctvrai Xiyovzai, Mae narrationes non dubium est , quin fictae
sint, qnibus 6vxo- qxxvr&v nomen explicetur. Per- cit schol.
Aristopli, evpijrai 61 itepl tovto v xcd hvepct Idro- pia itavv
ipvxpd, Sed ipsa illa schol, explicatio admodum friget,
2vxo<pavTcov nomen a 6axxv- <pavT7jS descendit, dc qua voce
Pollux habet X. 192. otav drj- jLiodS&vrjS Eiitrf
GaxxvcpdvTaS, rovS itXixovraS rctiS ywcnBX XEXpvcpaXovS axovovdiv,
Hoc genus hominum consentaneum est loquacissimum fuisse et
cu- riosissimum nequitiaque refertis- simum, atque in omni re
tonso- ribus, obstetricibus, aliis similli- mum, Factum est autem
usa „ loquendi atque, ut in Piat, Cra- tyl. est p, 421. C. dia —
ro navraxy GrpicpedSai ra ovo - para, ut nomen
6vxxo<pdvnjS audiret, ex quo 6vxo<pdvTi\S enatum, it
poSav ay xd2,tiv to roiovrov . Pauci libri pro t d roiovrov habpnt
rdHv roiov- roov. Exspectabas, inquit Stall- baumius, oldyitep idrl
tovto, ori xal ro ov iXEv^Epoav y . it . avtovS p?) ipav. Sed nihil
mutandum. Annotat Riickertus ad h. 1,: Spe- ctat pronomen ad snpra
lecta verba pyj ipav itaidoov. Neque habet duplex accusativus
huic verbo iunctus quicquam , quod offendat. Alia ratione
nobis hic locus explicandus videtur, Pausanias nimirum cum
praedi- casset eorum amatorum iustitiam et aequitatem, qui^ipsi
tibi lu- ite v&igav ywaixav xqos- beatissime illam
legem imponant, nunc id agit, ut non cogendos Pandemi amatores
censeat, ut eandem legem sibi scribant, at- que ab immaturis pueris
absti- neant , sed statim ad rationem cogendi abit, modumque
indicat, quo modo viles isti amatores ab immaturis retineri
possint. Sen- tentia igitur verborum haec est: Die guten Liebhaber
legen sich dieses Gesetz aus eigenem An- triebe aufj non muss man
eigent- liph auch deo Anhiingern des Pandemos dieses Gesetz
aufdrin- gen, g an z in der Weise, wie wir sie nach Kraften nothi—
gen , freigebornen Frauen ihro Liebe nicbt zu widmeu. Prono- mina
generis neutrius cum arti- culo coniuncta haud raro sic ad-
hibentur , ut absolute ponantur atque adverbii vices obtineant,
. Sic in Piat. Phaedone legitur p. 65. B. olov ro roiovde
XeycD, quo loco to towv6e absoluto positam est, vehementerque
dif- fert a verbis, quae leguntur Eutyphr. p. 13. B. olov
toiovds se, Xiyco. Symp, p. 178. E., ad qnem locum vide annotat, p.
61., t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo - pevov op&fiEV , on x. T.
A. ubi T avrov tovto est : ganz auf die- sflbe Weise. Adde Piat, de
Tep„ X. p. 605. B. t avrdv xal rdv piprjrixov itotfjrr/v (pyjdopev
— ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem modo ro roiovrov positum
est nostro loco. De plv ov v — Si particulis vide aunot. p,
22» r qoy £Xev$& pcov ywai - xgjv — prj ipav. Liberae
mulieres ex hominum conspecta quam heri potuit maxime remo-
7 182 avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a, fiif
igav. ovroi yag tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg , ujtftt rivas
toAj iiav kiytw , co$ aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg. X iyovai 5a sl$
rovrovg unofiXbiovns , ogwvrig avrdv rrjv axuigiav xai ddixlav' htd ov
Sr/ xov xo6(Uas yi vehantur, cfr. Symp. p. 176. E. tals
yvvailA raiS IvSov, ad qnera locum Nepotis praefat. $. 7.
laudavimus p. 44. Mens Pausaniae hic esse videtor: De- bete, si
heri posset, pueros immatoros domi manere abscon- ditos, ut liberae
mulieres domi maneant, hominum adspectum fu- gientes , ne amatorum
prava se- dulitate corrumpantur. ovxoi ydp eidiv oi xai
x* t. A. Pronomen sequente ar- ticulo cum contemtu positum est, ut
supra tovrovS r ovf TtavSif- pouS. Sic p. 181. B. non sine
adhaerente ignominiae notione dicitur xai ovtoS idtiv , ov ob
cpavXoi rcov dv^pcditcov ipdodiv,, Kal vocula hoc modo explicanda
est: Isti enim cum aliorum ma- lorum, tum etiam auctores illius
rumoris sunt, quoad quidem non- nulli dicere non dubitant, torpe •
esse amatoribus gratificari. Pro < Sire TivdSf quae optimorum
co- dicum lectio est, vulgo tuSre rtvd legitur. Sed singularis
numerus minus aptus hoc loco, non quod sequitur pluralis numerus
Xiyovdi 81 x. r. A. , sed ne forte lateat lectorem, non certi cuiusdam
viri, sed populi rumorem hic tangi. Ad to oreiSoS Riickertns
anno- tavit: Graeci, quamvis frequen- tissimus usus sanxisset
quodam- modo hunc amorem , tamen ut probarent eum , nunquam
indu- xerunt animum, immo turpitudi- nis nota erat, non quidem
amasse pueros amatoribus , sed pueris amori eorum
satisjecisse . Aliter, atque Riickerto visum est, super puerorum
amore iudicarunt Grae- ci. Vide Commentat. de Symp. Platonis.
avrcov tTjy axaipiav xai aSixiav. cf. p. 181. D.
i&aKazrjdavreS , iv dtppodvvy XafiovreS coS viov , xatayeXa-
davtts olxytfedScu iit aXXov dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS to
8ianpd£>ct65ai pdvov fiXe- itovTtS, dpeXovvteS 61 tov xa- Acuff
?/ firj et q. seqq, i x el ot) Srjxov — yi . Haec est
optimorum codicum le- ctio; vulgo male ov Srjitov — re exhibetur,
ri ad verba perti- net , quibus appositum est, et conditionem
indicat ita, ut ap- prime Latinorum si quidem respondeat. 8tjxov
voculam quod attinet, supra de itov particulae significatu dictum
est ad p. 180. D. Eius significatus vis 8tf ac- cedente, cui
ironica potestas est, ut in Piat. Menone p. 86. D. iireiSij 6h dv
davxov pkv ov8' imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXev- SepoS tjS ,
maximopere augetur. Ficiuus verba convertit satis fri- gide, ut
videtnr: nihil autem, quod n\odeste etlegitime fit, vituperare
decet. Verba convertenda sunt potius: Dena es ktnn doch
offenbar wol ir- gend eine Handlung, wenn an- ders sie mit Maass
und Fug un- xai vofilfiag orwvv Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av
Si- xaiag tptQoi. Kul 8rj xal 6 xcgl tov tgcoza vvfiog iv
fiiv ra is ctM.cug itoktGt, vorjecu gudiog' anXag yag SquStcu ' o
6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi TtoixUog. iv "HXiSi B
ternommen wird, tiicht mit Recht getadelt werden. Prorsas eodem
modo dicitor in Apol. Socr. no- tissimo loco p. 20* C. o v ydp
djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov nepixxoxepov npaypaxevopivov,
t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal AoyoS yiyovev x. r. A.., quo loco
interpunctionem post dovye delendan^ curavimus» Sensus est: Denn es
hatte doch offcnbar wol, vvenn auders du nichts weiteres gethan
hiittest , ais die andern, eia solches Gerede und Geschwatz nicht
entstelien kdnnen» xal 8?) xal . Harum parti- cularum
notionem Sehleiermache- rus in conversione non reddidit, neque
Ficinus easdem convertendo expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE
et q, seqq. Biickertus ad h. 1. haec annotat - Particulae coniunctae
xal 6r} xai ibi locum habeut, ubi a genera- raliore sententia ad
specialem transitur , h. e. , quum id , quod in universum
disputavimus, etiam de certa aliqua re valere dici- mus, quo in
nexu semper aliquid conclusionis est. Habet igitur harum vocum
quaevis vim suam nativam; quarum prima copulat cum prioribus,
altera vel conclusionem indicat, vel rem pro certa ponit, quam particulae
8rj vim velim ostensivam appellare, ter- tia adiungit, fierique
subsumtio- riera docet» — Negari nequit, xal 8rj xai particulas
interdum ita a scriptoribus adhibitas esse, ut iis transiri
significent ail ea, quibus, quae antea in universum dispntata essent,
proben- tur. Cave tamen , omuibus in locis hanc particularum
significationem veram habeas. Ac no- stro quidem Joco Pausanias ad
novam rem , b. e. ad civitatium leges transit ita, ut, cum cora-
memorusset p 182. A. duplex de AMORE iudicium Atheniensium, quorum
alii ipsum laudent, alii vituperent, aliorum civitatium iudicia
annectat, et quomodo in- ter se differant, exponat. Ad eum rem
commemorandam adi- tum patefacit 8rj particula, quae quo magis
emineat, initio enuntiati ponenda erat, atque eidem xai expletivum
, quo suf- fulciatur, praefigendum, vide annot, p. 5* an
ydp <2 pitixa i. E recta ditA&S vocis explicatione sequentis
verbi itoixiAoS recta explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive
alfeuius sim- plicissimam conditionem, qua ef- ficitur, ut facile
possis et quasi primo obtutu, quid sit actio sivo res inspecta,
cognoscere. Jlot- . xi\oS contra de plurimarum re- rum inprimisque
de colorum compositione valet, quae ita comparata est, ut nequeas
dicere statim, cuius coloris sit id, quod noixiXov vocatur. Hinc ad
ho- minem relatum noixiXoS eum significat, quem non tam ver-
sicolorem, quam varium appella- fiev yaQ kcc I Iv Boiorolg , xal ov firj
docpol Alysiv> ca tAiJg vEvqfio&itrjtai xalov eo %aQl£E6ftcci
Ipatiraig, xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts itcdcuog d>g al-
ti iQQVy iva , olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»- rnnt et versipellem
Romani. No - //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao ex
ambiguitate sententiae labo- rat. Eius ambiguitatis in Athe-
niensium et Lacedaemoniorum lege Erotica exemplum explica- tius
enarratam habes p. 182* D. seqq. iv "IIAiS i plv yap\
seqq. Triplex apud Graecos de AMORE lex obvaluit. In Elide et in
Rocotia atque in iis civitatibus omnibus, quae eloquentia carebant,
obsequi amatoribus pulcrum habebatur. Apud Iones eosque, qui barbaris
subiecti erant, ut philosophicae gymoasticaeque exercitationes, ita
obsequium erga AMATORES dedecori erat. Ambigua lex erat apud
Athenienses et Lacedaemonios, ambiguumque indicium. Nimirum ro
xapl<Sa<$$ai ipadralS et pul- crum et turpe habebatur.
vEvopo^irrjrai. Sydenh. annotat, ad h, 1, laudatus u Wolfio
:• Dies Wort, wie das vor- hin nnd mehrmals gebrauchte vo- poS,
muss man nicht von einem geschriebenen Gesetz, von einer positiven
Satzung in ausdriick- lichen Worten verstehen , son- dern von Gcwohnheit
und Gebrauch , der nach und nach das Ansehn eines Gesetzes gewiunt.
cfr. p. 183* D. rjyrjdair av •xaXiv altixtdrov ro roiovrov ivSaSe v
o pi^ed^ai. In Piat. Cratyl. p. 384. v. 16. Bekk. ov ydp tpvtiei
kxddrca necpvxivat dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v o- pep xal
rc ov iSitidrtarv te xal xaAovvtcDV, Ib. p. 388, Hermogenes
interrogatus a So- crate, quis nominum usum sup- peditaverit, cum
id nescire se confiteretur, ille ap ovxl , inquit, d vopoS doxei
doi tlvat 6 xol- padidovS av ia i Iva prj Ttpaypar x.
r. A. His verbis Pausaniae indicium continetur demonstrantis , qui factum
sit , ut cautione adhibita nulla paederastia in Boeotia et in Elide
pulcra indi- caretur, Sed ex ambiguitate qua- dam hoc indicium
laborat, de qua interpretes nihil annotarunt. Aut enim licere
obsequi amatoribns dicit, ut impetrent amatores, quod lege
prohibente iuvenibus nunquam persuadere possint, ut ipsis
concedant, aut propterea legem illam latam censet, ut iu- venes, quos
Boeoti atque Elidenses admonitione non possent, AMORIS vi ad virtutem
impellerentur. Utra explicatio rectior sit, in Commcnt* de Symp. Platonis
explicatum habes. r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «A- XoSt n
oAAaxov. Quid Pau- sanias dicere voluerit, ut facil- lime
intelligitur , ita difficillima structurae ratio est, quam nemodum sati3
explicavit. Plerique interpretes ad coniecturas inge- nii
confugerant, quarum numero pon minus turbatum te senties, quam ipsa
difficultate Platonici loci, H. Stephanus scribendum coniecit rrjs
81 IooviaS jroAAa- fitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$
di 'I avias xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai ,
cicJot vito fiaQfiuQoig olxovGi. rotg yag fiaefidQOi s Sicc rag
TVQawidus aloxQo v tovxo ys, xal % yt <pdo<Soq>la r.al C '
x°v xal aAAoSz x. r. A.; Thier- «chias ty 6i luriae, Astius rois 6
h 'iGDviaS conieceruut. Ut elios silentio praeteream, ingeniose
Riickertns scribendam duxit rijS * IcarlaS xal aAAoSt #oAAa- Xov
al6xpov vevopidzat , pa- \i6xcl 6 * o6ql vno fiapfidpois olxov6iv.
Stallbaumius , vide, inquit , ne genitivas pendeat e pronomine vdoi
vel potius e pro- nomine demonstrativo ante 0601 intelligendo. Nemo
enim olTen- deret in his TrjS 61 'iooviaS xal dXXuv noXkuv x^pdjy
0601 vno fiapfidpois oixovdt , napd t ovroiS ai6xpov
vevopidrat. Quum autem orator post r 7/S 61 'iuvlaS posuisset
adverbia <*A~ Ao.9i noXXaxov, addidit statim aldxpovvevopidTcti,
quae sic non poterant commode alio Joco collocari, atque deinde demum ad
inchoatam structuram , quam in mente habuit, reverti putandas est. Haec
explicatio impeditissimae structnrae et ipsa impeditior est. Riickerti
ingeniosa quidem sed audacior coniectnra est, atque cura veritate rei
non satis conveniens. Ceterae coniecturae omnes ita comparatae
sunt, ut intelligere sane non possis, qui factam sit, ut lectio ad
sensum facilior in difficiliorem sit mutata. Ut meam, qualiscunque est,
sententiam proferam,' cum in praecedentibus Pausanias iv*H\i8i pev
yap xal iv Boiu- totS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv dixisset, pev
particula adhibita, verba secutura esse indicavit, quae illis verbis
opponerentur, Ilaec oppositio ut validius emineret, ita instituta est, ut
altero membro oppositionis ad ulterios exemplar comparato
adhibitoque chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum proprie
dicere debuisset Pausanias iv 61 zy 'ioDviot , ut supra legitur iv
v H\i6i — xal iv BoiuzoiS, di- xit rif 'luvlat, nomen ad praecedens ov
comparans; pro aXXoov TtoXXuv x<* opuv , quod optime cum
sequente otioi — olxovdiv conciliaretur , «AAo3t ^roAAa^ov posuit ,
ut esset , quod praece- dentibus dativis cum iv praepo- sitione
coniunctis respouderet. Iam certam est, genitivum r rjS *Iuvia5 per
se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si
ad prius oppositionis membrum respexeris. xal i} ye tpiXodo
epia. Gymnasia philosophorumque scho- las matres fuisse et altrices
pae- derastiae , a multis vantiquitatis scriptoribus traditum Cst.
Unum ut laudem, cfr, Cic, Tuse, Q, IV. 53. Mihi quidem haec
in Graecorum gymnasiis nata consuetudo videtur l in quibus isti
liberi et concessi sunt AMORES. Bene ergo Ennius: Flagitii prin-
cipium est nudare inter cives corpora , Persecuti autem esse
barbari dicuntur pari vehementia et filiam et matres , quia elatio-
res animos hominibus ingignerent, novarumque rerum studio pectora
incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat, <Sv/uplgsi roig Sq-
XOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav ag%ofievcov, o«(5e tpiltag
loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpt- hi tu re ulla narra xai 6
"Egcog ifinoieiv. igya 6h tovto Pfia&ov xai oi tv&uSe
xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo- ov y <x p , olfiat. Olfiat
rerbam haud raro modestiae in- dicium est, indicatque, qui eo utitur se
nnimi iudicium pro opinione haberi velle. Nostro loco non sine
acerba ironia adhibitum est , cu- ius usus exemplum est Piat, de
rep. I. p. 337. A., ad quem lo- cum vide Stallbaumii annot.
<p po vrj pax a peydXa — fc 5 v upxopiroor. Minus apte
Sdileierroacherus convertit: grosse Einsichten. Amore efficiuntur
potius atque procrean- tur elatiores animi h. e. grossartige, kiihue
Gedanken. cfr. Me- jaex.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&- XoS, KvpoS
, l\£v$FpGo6aS Tllp- tiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj avrov <p
povr)fLaTi cepa xai rot)? diuitoTaS MifiovS idov - Xoodaxo x. r. A.
Pro tgjv ap- XOpivoov io aliquot codd. repe- ritur r diS apxopirotS
, quo casu Plato non usus est , ut dupli- cis dativi vel
ambiguitatem vel simplicitatem vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai
verbum siae dativo positum esse: paullo infra legitur o 81} paXiOxa
cpi- Xu — 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde, quem locum lluckertus
laudat Piat, de rep. V. p. 464. D. tjSo- vdt re xai aX yijBovas
ipzoiouv- taS }$la>v ovxoov idlaS. o 8 1 } pdXi6x a
epiXei, Adhiberi solet singularis numerus pronominis relativi,
quando ad plura nomina refertur, quae plurali numero posita sunt.
Ultra pluralem numerum egredi non licuit , igitur singularis
repertus est generis neutrius, quo prae- cedentia
comprehenderentur, ra re dXXa narra. Annotat ad haec verba
Schleier- roacherus: Dieses andere al — les kann doch nur
Philosophia tmd Gymnastik sein , uud fur diese wenigeu Falle ist
der Ausdruck etwas zu reich. Allein, wo so viele Biicher alie
schwei- gen , und die Nothweudigkeit nicht sehr dringend ist, da
ist andern vorwitzig. Eine solche Nothwendigkeit scheint
aberwobl vorhunden zu scin. Igitur pro narra V. O. scribendum
censuit xavxa, quam couiecturam Riik- kertus vulgatae scripturae
praefert. Monet contra Astius : sensum esse verborum: prae ceteris
omnibus maxime amor. Hoc ex- plicandi genus et Stallbaumio placet,
et nobis probatur. Pausaniae mens haec est: nihil esse, quod non odium
moveat tyrannorum, philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin alia
hoc genus: nihil autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo
iuprimis elatiores animi , firmae amicitiae atque contubernia
efficerentur. xax iXv6 ev avrcov rrjv dpx V v ' Pausaoiam h,
1. in historia Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Grono-
ytltovog Hq<os xcu tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/ xctttXvOtv
avrdv xfjv KQ%i)v. ovuog, ov fiiv al6%Qov tte&i] xaQi&e&ai
£Qct<Staig > naula rdv ftipivav xuxcu, xdv fitv aQxovxov it
Xtovd-ia , rdv Si ciQxofiivav avav- W 8(/ia' ov dg xaXov aitldg
Ivouia&rj , Sia xyv rdv 9e- vins rectissime docuit in annotat,
ad Aelian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit, at interfecto Hipparcho
libertas civibus Athe- niensibus redderetur , ut potias Hippiae
tyrannis durissima secuta sit. cfr, Thucyd. VI. 54. Neque hic error
solius Pausaniae fuit, sed Atheniensium fere omninra, qui ob
libertatem restitutam Har- modium et Aristogitonem summopere colebant.
Sic in spolio no- bilissimo, quod apud Athenaeum exstat XV. p. 695.
B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS (pOf)lf Ogj
&SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav , ore rov xvpavvov
xxavlxj/v ItiovopovS r *A$ tjvaS licoi- rj6dxrjv. Nihil igitur
mutandum , neque interpretatione xataAveiv verbi potestas mitiganda
est, qua aperte indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam
esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quae
opposita esse videntur xaxeAvOev verbo. Minus placet Schlcier-
macheri conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer festen
Freundschaft gedieliene Liebe zerstorte ibre Herrschaft.
Converterim equidem potias : Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and
die Neigung des Harmodius Halt und Festigkeit gcwonneu hatte,
stiirzten sie die Herrschaft der Tyrannen. Ka- xeAvdev autem
dictam est, non xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos,
sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas aucto-
rem fuisse. xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol Siperotf ut sequentia
docent, et tyranni sunt, et ii , qui tyrannis sublecti sunt.
KetdSai, de tabulis solenne, quibus leges inscribebantur, de more
dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque quasi
innatus. rijs i>vxy S apyiav. Sa- pra dictum habes: tva f
oipai, pr) npaypax ixatit A oya> nei - pcopevoi TCeiSnv xovS
viovS. Recte igitur apyiav xijS tyvxijS converteris: Tragheit,
Stumpfheit des Geistes. 'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia
verbis quid respondeat in proximis, non reperies. Igitur Pausaniam inceptae
verborum structurae oblitum recte existimave- ris, ut Stallbaumias
censet, qui Ex hoo loco , inquit, Pausa- niae ingenium plane
cognoscas, qui plurimis sententiis coacervatis magooque cnm studio
collectis deinde inchoatae structurae adeo obliviscitur, ut videatur
ia alia omnia abiisse, donec ad ex- tremum in memoriam eorum
re- deat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio
clementiores oratori nou praemeditato largiendum esse ceu-
I fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav.
Iv&ude Sl itokv tovxcav xctk- Xlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ
tlxov, ov {tudiov xata- voijCui. Cap. X.
'Ev&vfirj&Evu yccQ, ott Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE- * ptag
Iq&v rov lu%Qa, xal fuxfooxa vav yEwmotatav semus hoc, at
interdata, senten- tiarum accedente mole, quae me- ditatione in
ordinem non digesta sit, ab incepta structura oratio deflectat.
Aestu sententiarum refrigerato Pausanias ad oratio- nem suam
revertit p, 183. C. rauxy plv ovv otySeirt av xi$ x, T. A. ut eum
dicturum fuisse colligas : <pi\odo<pla$ xd piyidta xapnotx dv
oveldrj, ndyxaXov 6 o£eiev av vopigedSai iv xy8e xy ndXei xal xd
ipdv xal rd <pi\ov$ yiyvedSai xois ipa- dxcaS. rd
q>avEp&$ ipdv rov XdSpa. Aperte amare pulcriua esse, quam
tecte amare nusquam, si lionc locum exceperis , apud Platonem
commemoratur. Con- sentaneum, est autem, Athenien- ses sic
consuisse, ut ab improbo bonus amator facilius discerne- retur.
Convenit cum nostris verbis, quod infra legitur p. 184. A, rovrovs
87} ftovXexai o ypi- tepoS vopos eu xal xaAdoS fiat- davi^Eiv x, r.
A. In sequenti- bus yervaidraroi iuvenes intel- liguntnr
nobilissimo loco orti ; aptdxoi sunt, qui optima indole gaudent,
aldxlovS autem epithe- ton de corporis, non item de animi habitu
accipiendum est. Sententia verborum est; Dicitur h, e. censetur (
nara Xiytxai eiusdem h. 1. significationis est atque
vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam tan- gatur, quod
vopoS a Pausania vocatur, vid. annot* p. 100.), dicitur igitur pulcrius
esse aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR AMARE quam maxime fieri
potest, nobilissimos atque optima indole praebitos, etiamsi minus for-
mositate excellant. ovx &S tl aidxpdv 7Coi- O vvxi. Stallbanmius
haec verba arctius cum praecedentibus coniungenda censet, quae hanc in se .
» h sententiam contineant: xal oxt 7) napaxtXzvdiS rrJ
ipdUvxi napdt itctvx&Y ylyvtxai ok $ av p a - dxov xi
itoiovvxi, Displicet haec explicatio duabus de caussis } primum aliud
quid sensisse Pausanias perhibetnr, quam qaod verbis expressit,
deinde si ponas, cum ita sensisse, admodum frigent sequentia xal itpoS xo
ini - XEipelv — i^ovdiav 6 vopoS 6 £8 coxe rej ipadxy Savpa-
dxa Ipya ipyaZopevcp iitat - VEitiSaif de quorum verborum sensu mox
dicetur. ' Verba ovx <yf xi aidxpov 7Xoiovvxi ad rc3 ipwrxi
pertinent, apposita autem sunt propter napaxeXevdiX padxtf verborum
ambiguitatem. JJapaxiXsvdiS enim et iis fit, qui aliquid facere
jubentur , et iis , qui aliquid ut ne faciant, admonentur. Possit
igitur li. 1. xal agldtav, xav al6%iov g cUrav wGi, xal ori au tj
xagaxblevG ig ta igairu maga jcavtav davfiaGz!] — ov% ag %i al6%gov
itowvvxi — xal eXovti te xculor Soxtl ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov,
xal ngog ro etii^uqhv e tkuv i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty
&av(ia6ta %gya Igyaifiiiiva tnaivEiG&ai , a ei ng roXfup//
tcoleiv aXti Iruovv diaxav xal povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y
183 re» ipiUvTi xapaxiAevdiS etiam ita intelligi, at uoa
amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne haec verba sic intelligerentar ,
Pausa- nias ovx fifr xi aldxpdv noiovvxi verba apposuit* Sententia
totius loci haec est: Si quis reputat apud se, — ingentem ab
omni- bus cohortationem fieri amapti non quasi turpe aliquid
faceret et q. seqq, xal kXovxi xe xaXov, K venatione
repetuutur verba in re amatoria usurpari solita; qui amat , duaxei
, si res succedit, alpel XOV ipcopevov, AMATUS aXtdxexai. Riickert*
N 011 sine caussa iisdem venatoriis verbis Plato etiam de vero
indagando utitur, cuius usus exempla non rara sunt. cf.
Stallbaumium ad Piat, Phaedon, p. C6. A. Cete- rum cum eodem
Stallbaumio e praecedentibus verbis dxi parti- culam repetere
nolumus; etenim iam his verbis Pausanias ab incepta structura verborum
defle- xisse videtur. xal 7tpoS x 6 iittxei pstv ZitaiveidSai,
Non caret hic locus difficultate. Stallbaumius verba convertenda
censet: et quod attinet ad studium amasii capiendi etiam
laudari licere quamvis AMATOREM mira lacientem. Quae conversio e
duplici vitio laborat, quorum alterum est in male intellecta 7CpoS
praepo- sitione, de altero paullo iufra di- cetur. Certissimum hoc
est, at- que xal ante — „ xe — xal vocula posita probatur,
verba kXovxi xe xaXov 8oxel elvat, xal p?} kXovxt aldxpoy
posita essp, ut confirmentur praeceden- tia ovx ri aldxpoy
Ttoiovvxi. Interdum enim Graeci, qnae ad- dita caussali particula
proferenda sunt, praecedentibus copula ad- hibita annectunt. Possis
igitur verba convertere: nicht, ais vena er etwas hassliclies
tbate, denu wer Beute fing, dem wird Lob zu Theil, dem
beutcloseu folgt Sclimach. Recte igitur post Savpadxri et post
aldxpoy li- neolas posuisse nobis videmur, quippe quibus legentium
ocu- lis , quae enuntiationes arctius coniungendae sint, indicetQr.
Iam non dubium est, quin verba ori av rj TzapaxtXivdi? rw
tpajpxi napa ndvxQjv Savpecdxij de studio amasii dicantur, quod
in- fra vocatur xo imxsipEiv kXetv. Non verisimile igitur,
Pansaniam cum cohortationem amatoris commemorasset h. e. cius , qui
cupiendi amasii cupidus est, itu perrexisse: xal itpd? xd iiti -
Xeiptir kXetv et quod attiuct ad studium amasii capiendi» Desideratur
nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra (ityiata kccqi rott av ovsidrj. tl
yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd rov lafieiv fj ccQxr/v ag^ai i j tlv
akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg ol yi particula, qua respici
indicetur ad id t de qno iarn sapra dictnra sit: xai TtpoS ye x 6
Imxetpety ?(. x. A. Non parvi aestimandum Astii evpTjftat, quo
illud deside- rium mitigatur: xal npoS x<p tjnxnpuy kXeiv
x. x. A. Cave, tamen coniecturam aliquam pro- bes , ubi codd.
lectio commode explicatur. Rectissime autem Ficinus verba convertit
: Ad AMATUM sibi conciliandum; codcmque modo Schleierm icherns: u m
den Versuch z 0 ' m a - i- heu, ob er i'lin gewinnen konue. Quod
verba attinet t&ovtitay — 6f.6g.ixf — lucuveraSctij mira
Stallbaumiana ex- plicandi ratio, qua lex permit- tere dicitur
amatori, ut laudetur. Quamquam satis intelligitur quidem, quid sit, quod
dicitur permittere alicui, ut laudetur, tamen non lau- dabilem hanc
dictionem merito censeas. Non autem id agit h\x ad augendum amasii
capieudi studium, ut, quamvis mira faciat amator, tamen eundem Inudandum
censeat, sed ea sine dedecore facere permittit, quae si quis alius
h. e. non amans facere auderet, summopere vituperaretur. Posi- tura
igitur participium pro' infinitivo est, infinitivus participii Jocum
obtinet notissimo Graecorum usu, qui iam apud Home- rum haud infrequens,
cfr. II. IX. 540. oS xenia rroAA* Ip6e6xtv t'5ci)v pro oS itoAAa
xaxd ip- Guv Proprie igitur Pausanias dicturus erat: xal TtpoS x 6
litixtipcty kXely iZovdlccv 6 YopoS SlSwce xg> lpa6xy $av-
pa<$td Mpya i py agetiS ai xai ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai
lit\ xovtcj . Ad 816coxf e praecedentibus ne l£,6v6iay nomen ad-
dendum censeas, videunnot. p. 89. [ip i\o 6 oq>iaS] x a
plyi~ 6ta xapitotx’ dv oyeidtj. Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS
nomen, quod nullo modo ferri potest. Idem Bekkerns fecit rectissime.
Stallbaumius, ut veritatem illius nominis probaret» verba convertenda
censuit; quae si quis faceret alias, eruditorum maxima acciperet
opprobria. Sed agitur hoc loco non tam de eruditorum indicio , quam
de totius populi existhnatioue, neque aliud tangit Pausanias , nisi
roV TtEpl XOY "EpeJta vdpor , ad quem con- •titiieuduin
eruditorum iudicia aliquid conferunt tantummodo, non omnem
constituunt. Iam quaeritur, quo modo haec vocula iu textam
irrepserit. Diximus de haere in Commentat. de Syra- pos. Platonis,
ad quam lectores ablegamus. 7 / t iv* aX \ tj v &v vapiv.
Uniusmodi zeugmata non rara sunt apud scriptores Graecos,
quotidiani sermonis indicia, non praemeditatae orationis orna-
menta. Idem dicendi genus ROMANIS in usu fuit, siquidem apud Terent,
exstat in Andr. I. 1. 28 « Quod plerique omnes faciunt adu- '
lesccntuli ; tQtttiTtti ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd
dvTifioXriOug iv Tcclg dirjdiCt noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg,
xal xoifu/O sig in i frvQtug, xal i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv
Ut animam ad aliquod studium udiungaut, aut equos Alere, aut
canes ad renandum, aut ad philosophos, Horum ille nihil egregie
praeter cetera Studebat. Idem dicendi genus patillo infra
recurrit: xal xoipr)6etS ini 5v- pai$, quo loco frustra xotpGopE-
voS Bastius addendum, Riickertus transponenda verba esse censuerunt. Alia
ratio est Piat. Apol. S. p. 23. D. xccvxa Xlyovdiv, oxi x a
/.UTc&pa xal ra vno jniS , xal SeqvS /«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo
0 A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus verbis variae hominum
susurra** tiones ielicissime depinguntur adiuncta simul temporis,
quo edebantur, diversitate. Ac temporis quidem diversitatem mutatio
structurae indicat, fiuitorum verborum omissiones hominum
opinantium, haesitan- tium, aliquid aut nihil scientium sermones
depiugunt. Brevius de eadem re et signifi- cantius, adde sis
lepidius, Socrates loquitur Apol. S. p. 18, B. ipov yap ttoAAoi
xaxrjyopot ytyo- radi npo 1 » vpds, xal naXai itoXXa 7/drj Hxtj xal
ovSlv aXe- A eyovTES7 quibus verbis et multos iam annos
accusatores exstitisse dicuntor nihilqoe veri dixisse; his tertium
additur, quod verborum sono Socrates assecutas est. Dixit nimirum itaXai
- jcoXXayjSijecrj, quod sonat ut natJcdXtj , atque vanos
accusatorum susurrationes rumoresque lepidissime describit.
xal o p no vi d j-ivvvte?. Num iureinrando non nisi amanti uti
licuit? Quid, si quis pecu- niam ab aliquo sumsit, non debere censendus
est ad reddendum se inreiorando obstringere ? Aut qui rei publicae
administrandae praeponendus est, eine cives se iniurato subiicient?
Non dubium est, quin upxovS dpvvvtES de periurio inteliigendum sit
, quod iu quavis alia re turpissimum, in amore, e Pausaniae certe
senten- t a, maxime excusabile est. Quaeritur autem , qui possit
opxovS o/.ivuvteS periurare signifi- care, Pluralis numerus
upxovS indicat, ut videtur, iusiuran- dum semper in ore gerere, at,
quicquid dixeris, eodem confirmes. Hoc qni faciunt, iurmuraudi
sanctitatem non magui aestimare solent, eo- demque haud raro
confirmare, quod est fulsissimnm. Iliuc fa- ctum, ut upxovf
oprvvrfS haud raro peri uros significet. xal xoipijdeis ini
3*J- paiS. Amatores pernoctare so- lebaut ante fores amasiorum ,
ut severitatem eorum misericordia adhibita/ infringerent.
Notum Nasonis praeceptura est: Auto fores iaceat; crudelis
ianua! clamet» xal eXoyt af 5oij- A eiaS 8 ovXevetr ,
Vulgo l$£\ovtdS legitur, quod imme- rito Astius in iSeXorxai
immu- tandum cenauit, Recentiores edi* tores ad unum omnes
/SeXoi'T£S probaverunt , quod plurimorum ”3*. olag ot56’ av
dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it pat- ii thv ovtci tjjv XQcrhv xal
vito (pD.av xal vtcd effipav, t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo kaxdas xal
KveAev&epias , tav de vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep avtcaV
ra 6’ fpuvn navta tuita noiovvu %a.Qi s iitedti , xal dtdotai
codicum auctoritate confirmatur, u Stullbaumio autem ita
expli- catur, quasi positum sit pro xal iSeXovzl SovAeiaS
8ov~ AevovxaS. Eius videlicet loquendi normae memor est, de qila
diximus p 106. Praeplacet nobis i%eAov~ xaS, quod arctius cum
dovXevetv iuhnitivo coniunctum notionem c ilicit iSeAoSovAeUtS,
quae infra commemoratur p* 1S4. C. avtjf av i/ i5tAo8ovAela ovx
ai6xpd tlvai ov8s xoAaxda. Adde prae- terea p. i84. B. c Zsnep ini
xolS ipadxaiS fjy dovAtvetv iSeAoYxa ifYTivovv SovAeiav x. r.
A. ijnt o 8 igoiT o av pj) 7 T pdx r eiv ♦ Impediendi
verba vel cum solo infinitivo exhiberi soleut, vel addito
infinitivo, qui cum jn} couianctus est, si im- pediri
significant, ne quid t‘i a t. Contra ubi cautio indi- canda est, ne
fiat, quod iam saepius factum sit, infinitivus cum prj et articulo*
exhibetur. Exemplo e$t Thuc. III. 1., quem Incani Riickerti
industriae debeo, flpyw xo J17J TtpOE^lOVlLXS XWV OitAojy xd iyyvS
rijS 71 u AecoS Xtthovpytlv. xal aldyvv o ji iveay vnlp
(xvttv y- lTep\ ovtcHv B ii cicer to videtur non ad actiones
referen- dum esse, quas aliquis commisit, sed ad homiuem, a quo
sunt pa- tratae, Habet haec explicatio, quo so commendet, neque
oilicit eidem pluralis numerus, ad quem a singulari numero Graeci
solent interdum transire, Praeplacet tamen nobis ea explicandi
ratio, quam cum ceteris interpretibus Schleicrtnaclierus recepit.
Verba convertit: indem dieso ihm Schmeichelci und
INiedrigkeit vor- werfen, ieue ihn zurecht wei- sen und sich
dariiber acharnen wiirden. xal Sedoxat t )ico rov r 6
jio v dvev 6 v e 18 ovS np . Prorsus eodem modo , quam- quam verbis
paullisper immuta- tis, p. 182. E. xal — iZovdiav 6 vdpoS 8i8coxe
rc3 Ipadxjj Savjiadra ipya ipya? t opeva) iitaiveidSai. Iu
sequentibus pro bianpaxxopLvov veteres editt, codicesque pauci 8ianpaxropiv(p
ex 'libent, quae scriptio quoniam ad explicandum facilior est, quam
illa, minus est hoc loco probanda. Possis conferre cum nostris ver-
bis, quae leguntur p. 182* C, , xal oxi av 1 } napaxiAevdiS rc3
ip&vri napd ndvxoov Savjxa- c ni} ovx <*jS xi aidxpov noi-
OVYTl. o 8 e 8 eiYoxaxov x, t. A. Rarior haec
structura, eademque oratorio dicendi generi apprime couveiiieus ;
vide Matth, Gramm, ampl. 482, p. 806, Verba convertenda suntvQ uod
autem gravissimum est, h o p est, quod cet. Quae sequuntur
verba, &S ye Akyovdiv ol noA- A ol et ad praecedentia
referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg xquvcuv, wg xayxttXbv. u
jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov , Sg yt Xt- yovGiv oi jtoXXol,
on xal opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga &ec5v ixfidvrt jwv oqxov '
utpQodiGiov yctQ opxov ov (fdGiv elvcu. ovto xal vi &eol xal o i
av&gazoi xaGav possunt, et ad sequentia; quae- ritor,
utra relatio rectior sit Ruckertus ad h. 1. Verba, in- quit, gjS yt
Atyovdiv ol itoXKol non ad seqq. referenda sunt, quasi dicat: quod
vulgo dicunt veniam esse cett., hoc enim ipse sentit Pausanias
pariter atque vulgus, in eo autem discrepat, quod vulgus hanc rem
gravem, admirabilem putat esse, qnipJ| quod caussam ignoret; ipse
auten^ gnarus caussae, non admiratur. Pertinent igitur haec verba
ad adiect. 8tivotaxov\ Quod autem gravissimum est ex vulgi
quidem sententia, hoc est , quod cet. Re- ctius quam Ruckertus f
fecit , Schleiermacherus et Astius de ho- rum verborum explicatione
cen- suernnt. Verba nimirum ojS yt Xkyovdiv ol TtoXXol ad
sequen- tia trahenda esse, ipsius Pausaniae verbis , quae
insequuntur, demonstratur. Dicit nimirum d<ppo8i6iov yap opxov
ov <p ce- ti iv elvccij a quibus verbis, quo- niam suum indicium
Pausanias secludit, satis apparet, eundem de impunitate periurii
certe du- bitavisse. Quid, quod Pausanias p. 183. E. turpis amoris
indi- cium censet, si quis amasium aetate provectiorem
relinquat, jcoWovS A oyovS xalvno- dx&<> £1 *
xqraidxvvaS, umn verisimile est, eundem per- iurii impunitatem
credidisse? Certissimum igitur est verba cjS yt Aiyovdtv ol zoAAol
ad se- quentia pertinere, quibus ea prae- posita sunt, ut
clarius appareat, vulgus , non Pausaniam sic iu- dicare*
ixfidvti t gj v opxoov. Stnllbaumius FJekkerum secutus ut
exquisitius tov opxov in textum recepit, quae lectio Vindobb* duorum est
; eadem apud Cyril- lum adv. Iulian. VI. p. 187. re- peritur. Sed
minus placet nu- merus singularis, (vid. p. 107.) et genitivi, quem
plurimi codd* habent, certissimum exemplum Ruckertus suppeditat de
rep. I* p. 538. E. tov tovtov ixfial- vovra xoAd^oudir, Vix
iutel- ligitur autem, cur Plato hoc loco exquisitiorem verborum
structu- ram admiserit, alio loco eandem probaverit minus.
dcppo8 i diov y a p op- xov. Schol. habet ad h. U d(ppo8idtoS
opxoS ovx Ipnoi - vipaS, ikl ttav 6i Hpt&TOt dpvvv- tgjk
itoXAaxis xal intopxovv- tcov ptpvrfxai 81 tavti/S xal 'IldioSoS
Aiyarv, ’Ex tovS’ opxov £St/xev apti- vova dvSpcoxoidt,
vod(pi8laov ipyoov ittprl Kvitpi - 8oS. xal TIA.d.toav iv.
Svputodicp. cfr* Aristaenet. II. 20. p. 105. tov£ 8h opxov? avrol
(parh p?} itpoS- Ttikd&iY zois g )dl tgov Secor. Adde Epigr.
Callim. IX. v. 3* in Anthol* Gr. Iacobsii T. I. p. 214. C
llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o v6(iog (prjdv o ivftads. rccury
[ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov vofii- & 0 &cu iv ryde rij ndXu
xal ro igav xcc i ro xplXovg ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da
naidaycoyovg ini - CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i
diaXs- yeti&ca xolg igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre-
tofioCev' aXXd Xlycvtiiv aXifiia, ita aggressos est, ut p. 183.
D. rovS iv ipcoxi diceret: eif xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv
ovar is aSa- fiXitfuxS» His verbis ioest autem, 4 h * vutgjy. quod
minos bene habere videtor. ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem,
5i purtjcnlam non addita essent verba coS 6 adhiberi saepenumero ,
ut ad vdfioS (pjjolv d ivScide , ncmi- praecedentia orationem
recurrero nem esse puto , qui Pausaniae eaqoe quasi resumere indicetur, argumentationem
non rideret. sed ita tamen noster locus com- Colligeret nimirum
ille e vulgiJkuratus est, ut foitiorem parti- de periurio sententia,
eoius ve-^Ptulam desiderare videatur. Eau- ritatem ipse addubitare se
osteu- dem in lectione vulgata habes : dit, d«*os revera summam agendi
eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS, • licentiam AMANTIBUS concessisse.
quam recepissem in textum, si Addito autem d)S d vdpoS (ptj6iY plurimorum
codicum auctoritas 6 ivSade nihil, quod reprehen- non obstaret. De
paedagogis, das, habebis. Ceterum discas ex qui puerorum et
puellarum do- liis verbis, qua potestate vofioS ctores fuerunt atque
doctores, nomen Pausanias exhibeat. Si- Stallbaumius laudavit
Piguorium gniiicat enim nihil aliud, quam De Servis p. 116.
seqq. rulgi opinionem. ftif ico6i SiaXeyetiSai xavxy
/ilv ovv olrj^eitf x otS i p a6x ais . Ad senten- av xiS. Si quis
igitur reputat tiam quod attinet, nihil est in apud se, pulcrum
haberi xd ipdv bis verbis , quod reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus
amasii Dicuntur nimirum patres familias laudetur, eidemque iurato
periurii pueris praeficere, qui prohibeant, poena apud deos nulla
esse ere- no cum amatoribus congrediantur datur, is dubitare non
potest, quin coufabulenturque. Sed si ad iu hacce civitate pulcherrimum
cen- conformationem enuntiationis re- aeatur et amatorem puerorum esse
spicis, duplici dativo offenderis, et amatpri amasium gratificari,
quem Graeci scriptores perraro iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt,
quippe osores acer- bo vS. Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitae
ambiguitatis. Unum nias voluisset, verba audirent exemplum huius rei ut
afferam, ineiddv de xiS opii, oxi ine6xy- Plato insolei^iorem
verborum 6av ol natepeS — tjyijcaix' dv structuram admittere
maluit, quam x. x. A. Sed ipsam rem h, e, duplici dativo ambiguam
oratio- xo i7tt6xTjvat xovS TtaxipaS x. nem edere atque e nominum
s^- x. A. non intercedente upa verbo millima terminatione
laborantem tayniva y, rjfoiudtTai de xccl eraigoi dveidl£co6iv, euv
xi ogatii roLovro yiyvofievov , xcd rovg 6 veidi£ovtag .av oi
7tQS0pvtfQ0i (i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg ovx D OQftug
Myovrag, elg de ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av naXiv td6%i6xov ro
tolovtov ivftade vopltecftai. Td de, oluca , cJd’ ov% ccTthovv iouv
, onsg p. 182. C. OV tivjupfpu TOlS a pxov 6 1 tppovijpaxa
peydXa iyylyve6$cti zoS v dpxope- vcov, ad quem locum vide
annotationem p. 102. Nostra verba quod attiuet , videtur du- plicem
dativum Flato admisisse* ne nescias, amasios an amatores
confabulandi facultate privare dicantur amasiorum patres. Quoniam autem
amatorum pro- prium erat, ut loquendi cum amasiis initium facerent,
non amasiorum, ut cum amatoribus: optime Orellius pro xaiS ipa
- tirc&S scribendum esse vidit xovS ipadxds, z 6
6^, oi/utt, To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum mentione ad
id, quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera autem
verborum significationem esse Biickertus censet. Recte. Prin-
cipium, inquit, hic usus duxisse videtur, ab eiusmodi enuntiatis,
quale hoc nostrum est, ut ro 8i revera esset illud autem, sub-
iectique vim haberet suo in mem- bro , quod deinde alterum exci-
peret d<5vv8ixG)X, at h.l., postea contracta sunt in uuum duo
haec membra, et quidem vel sic, ut td maneret subjectum, quod
ad rem, de qua sermo esset, respiceret, suumque haberet subsequens
praedicatum , vel at subiecti vim plane amitteret. xal ro3 naidaycoycp r
avxa xpoSxezaypera y. h. e. and dem Fiihrer dies ausdriicklich xur
Pflicht gemacht ist sc. fttf idr xotS Ipcouf.voiS 6ia- } AiyttiSaci
xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum omnes ixepoi exhibent, quod
praeennte Heiudorfio ad Piat. Pbaedr. p. 210. plerique editores in
ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus , quem Riickertas secutus est,
ui- mia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt. Adnumerandus hic
locus iis est, quos summa con- stantia male exhibuerunt codd. Vide
p 21. annot, ad verba npo 6 xov. ovx anXovr l6x\v y
oizep seqq. Respicit Pausanias ad verba cap. VIII. TcaCa ydp'
itpa£,iS gj6* avtt) lq> ccvxijs Ttpat- TopkvTj ovxe xaXjj ovxe
aiCxpd d\\’ iv ry npa£ei, d>> av npax^ift xoiovxor dnifir/.
Fue- runt, qui uegutionem ante nr^Aotiv positam uncis includerent
tan- quam ineptum scribarum additamentum; alii alia ratioue locum sanissimum
emendare studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso, quod in codd. aliquot
non comparet, scribendum censuit: ovx chzXajS idxlr, onep IB,
ap- XyS &\&x2V > ovxe xaAov avtd xa$*avx6 ovxe aitixpov
. — Qoo minus recte verba intelligerentur, interpunctio impedimento
fuit, quam post iXix$V * n omnibus £* aQxrj s IA s%fhj ovts xakov
ilvca avxo xa&' atrto (wtb cdaxQov , dXka xakug fisv ngccrrofievov
xukbv, altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv iorl tcovj]qc 5 re
xal itovrjQhig %uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te xal xa- E koog.
novrjQog d’ itsnv ixtivog 6 IgaOrr/g 6 itavdtjiiog, o rov (Suficcrog
fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal ydg obSi /luvLjiog iauv , ars ovdi
(lovlfio v Igav ngayfia- rog' ccfia yag tcS rov Gcjjiarog av&Et
foyyovti , ovjreji editionibus repertam delevimus. Subiectum
enuntiati est ro <pt- Xelv s . ro x a pfe*i 1$oci ipatizaif,
SensOs est: Gratificar i ama- tori uoo simplex actio est, quoad
quidem sta- t i m ab initio actio per se spectata nec pulcra
esse nec turpis dicta est, sed pulcre acta pulcra, malo acta
mala est. cti(S XP&Z p\v ovv * Haec est codd. plurimorum
lectio, quam cum olhn io sequentibus KOtXov 8s legeretur, in
aldxpov pev ovv immutavit II Stcpha- nus. Nunc illud codd.
consensu probatur, igitur xaXajS 6e scri- bendum est etiamsi non in
qua- tuor codd. exstaret. Ceterum non recte Stallbaumius ad
al- 6xp&$ et xaXcjS censet e supe- rioribus intelligeudum esse
Tcpaz- T6iv . Nimirum iu superioribus p. 181. B. seqq. Pausanias
cum de ipav actionis ambiguitate lo- cutus esset, nunc eo orationis finem
direxit, ut et de amasii amore h. e. de tpiXtiv, quid videretur,
ediceret. Sensus est: 'Hassliche Liebe nun ist beim Liebling, wenn
er sich einem Schlechten auf schlehte Weise e r -
giebt. ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est p. 181.
B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio conteintum
qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem articuli
repetitio honorifica est p. 187. E. xal ovtoS itiziv o' xaXoSf 6 OvpdvioG
, o t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS* Igitur neque honorifica
neque ignominiosa significatio ixeivoS verbo cum duplici articulo
con- juncto eilicitur, sed extollit tan- tummodo verba, quibus
apponimur, quae verborum sublatio pro sententiae ratione in bonam
aut in malam partrm accipienda est» offerat ukotcz a pzv os.
Haec verba ex Homero II. ^,71* depromta sunt, ut primus Fische- rus
vidit. Reperiuntur eadem haud raro apud poetas serioris aevi, ut
apud Mare, Argentar. cp. VIII. 1. opvi , zl fioi cpiXov vvtzov acptfp
- 7ca6a$ ; ?}8v 6h II vfifijjS EidcDXoy xoizjjS (&x £Z
dnonza.- pevov. Ceterum quam bene Homerica dictio rei
describendae conveniat, iam vide. AMATORIS am^siique coniunctio cum
^mimae et corpo- ris conjunctione comparatur, quae nisi coniuncta
sunt, esse non possunt. Amator igitur amasium deserens levitate
sua, quae azco- I i tjQct, ot %tT<u a7CoitT<x[isvoSj
itollovq Zoyovg xal vito- tf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e rov
ij&ovg %Qr}6 rov ovrog egatirrig duc p Lov [ievel , ars iiovifico
Gvvray.ug. rov - rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug
pa- Gavltuv, xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv -
yuv. 8ta recura ovv tolg fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy roig $£ (pEvyEiv
, ayavo&etdjv xcd Patiavl^cov jtoztQav 7toxs iGnv 6 eq&v xcd
jrotEQav 6 6QcZtiEvog. alita 6q ittdyevoG participio
expressa. Umbrae imaginem repraesentat; amasius ab amatore
derelictas miserrimam conditionem ostendit quasi corpus sine anima
iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o itdrdijfioS ) ist
nicht treuhaft, da er nichts dauerndes liebt. Denn mit dem
Verwslkon der \ Bliithe des Korpers, die er Jiebte, schwindet
er fiatternd daron nnd xnacht viele Worte' nud viele
Versprechungen z u ni chte . r ovrovS 6 rj fiov\ st ai
seqq. Verba convertit Schleierm.: Diese also will unsere Sitte,
dass man wohl and rccht priif j, nndden einen gefallig sci, die
andern aber meide. Iisdem fere ver- bis in convers. Symposii
usas est Scbnlthessius p. 75 Riickertus verborum sensum esse ait:
Velle legem explorare amatores, facta autem ex- ploratione pueros
aliia obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris visum
est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao voluntatem
fucilins cognoscamus, brevi repetitione opus est sententiarum, quae in
eius oratione continentur. Athenis nimirum legimus fuisse de amore
legem ambignam, cfr. p. 182. B. Eius rei caussam esse, quod
quaevis actio per se spectata et pulcra esse possit et turpis.
Actionem enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari,
cfr, p. 181» A. Hinc bonum amato- rem esse , qui bene amet ,
ma- lam , qui male, cfr. p 181. A. fin. Pari modo amasium
malum vocari, qui male se tradat ama- tori, bonum, qui bene, cfr.
p. 183. D. AMATOREM, Pausanias pergit, ad persequendum
amasium omni modo impelli lege Attica, cfr. p. 182. D., amasium
contra ab eius congressu retineri. % cfr* p. 183. C. Hoc quo
consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqae videlicet, h. e, et
amatores et amasios, lex Attica explorare studet, atque bonis
amatoribus araasiisque favere, malos pellere. Huic explicationi
Graeca verba optime respondent excepto uno,- quod de legis
efficacitate dictum admodum friget, Atacptvyeiv , si quid video,
depravatum est, scripsitqae Piato (pvyaSeve iv. 8ict roruta
ovv toiS iikv seqq. Totam hanc enuntiationem delendam censuerunt
Schiitzius et Astius. Mitto aliorum conie- cturas commemorare , quibus
non 8 vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro aXlGxtG^ai ta%
v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og Srj Soxti tu xo Xka
xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]- B [turav xal vxo xoXvttxav
Svva/iitov aitovai (iIg%qov, luv rs xaxcos xa6%cov xryfy xai /irj
xaQtipyGy, av t tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i) eis Sucxga^ei , g
xohuxas sonatur, sed corrumpitur locus sanissimus. Mens
Pausaniae haec est: Um nun die Sinnesart der Liebenden kennen
zu lcrnen, mnntett das Ge- setz die Liebhaber znr Verfolgung
derLieblinge, die Lieblinge zur Fluclit vor den Liebhabern
auf, und ^ichtet nun and priift, wes Geistes RinderLieb-
haber uud Lieblinge sind, ob sie zu den schlechten oder zu den
guten gelid • ren. Eodem fere modo in con- versione Ficinus : et
hos qui- dem sequi iubet, illos fu- gere, diiud icar, s et
examinans, quae quis amet et quae in quovis amen- tur, Nam ex iis ,
quae quis amat, cognoscere possis, utrum bene amet necne,
ovtej 8 rf vxo x avxrjS xyS aixiaS , Hac igitur, qua dixi,
ratione atque ea de caussa sc. ut amantium ingeuia accurate examinentur,
vide annotat, p. 72^ xpcoxov p\v xo aXl6x£~ 6^ at. Statim capi
atque te- neri amasio dedecori est, quod intercedente tempore nullo
amasius de amatore indicare non potest, fierique potest, ut malo se
tradat. oS 8rj 8 o x ei. cfr, Meleagri Epigr, LXII. in
Iacobsii Authol, T. I. p. 20. EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok
£xixr)xta tptXovda "HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov ipeota
xpovoS. xo vxo XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque
potentia in civitate capi, h. e. si quis invenis diviti viro et
potenti se tradat , non qao mores probet , sed quia* divitem eum
esse videat atque poteotem; quod quibus modis heri possit, in aeqq.
statim exponitur} mem- bra enim, quae seqnuntnr, iuueta particulis
iav xe — av xe, non nova quaedam continent, quae ubi locum habeant,
torpe sit amati obsequium, quem sensam Astii versio exprimit, sed
dupli- cem viam indicant , qua - possit heri, ut divitiis aut
potentia quis capi se patiatnr, si aut male tractatos ab amatore
praepotente reformidet, nec audeat fortiter resistere, immo metu se
submittat, aut beneficiis pellectus non con- temnat, sed tradat se
homini, qn» pecuniam det, in reboa pu- blicis gerendis adiuvet,
Riik- kert. De xaxa(ppov?/6y verbi significatu supra dictum est
ad p. 87. vxo noXtx txGov 8vyd- pec ov. h. e. spe
magnae in civitate auctoritatis et potestatis, vid.
Wyttenbach. ad Plut. de Ser. Num. Vind. p. 58. StaUb. Eodem modo
posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap 'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov
OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi 7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV
yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3 ^psziQtp vopcp oSog, et
(iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj jcaidwa. fifrt yaQ rjpZv
vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv — dov - Xevuv i&tkovra
qvtwovv dovkeiav icaidu&olg pfj xoka- C tam habet p. 178. D.
ovxe xi- pal ovte irkovxoS h. e, neqae honoram neqae divitiarum
futara possessio, vid. annot. p. 60. iav te xax&S zadx
oav X. X. A. Expressit haec Phaedrus p* 178. D. hoc modo* ei
xi alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ yl- yvoixo 7f 7tCt6XG>V VICO xov
6i avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad quae verba vide annot, p. 61.
XMpif xov pijdl 7tE(p v- xkvai . Recte Stallbaumius:
praeterquam quod ne ori- tur quidem inde generosa amicitia. Eadem
dictio repe- ritur Symp. p. 173- C. xgo/jI? xov ofedSai
QotpEktidSai vnep- <pvooS c oS X a tp°°* Exempla plura huius
dictionis Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. p. 35. B. fin, :
x&P^S & r V s 8o5y*> cJ dvdpES, ovSl Sinaiov fioi Soxei
elvai x, r. A $ikiav cave latiore sensu dictam putes $ non enim
valet nisi de amasii erga amatorem benevolentia, vid. an- not. p.
69. ' %6xi yap ijpiY vopoS seqq. Haec Verba, ut vulgo
disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam explicari possunt. Dicere debebat
Pausanias : l6xi yap rjpiv vopoS, Ssicep iitl xoiiS ipadxalS tjy
SovAeveiy — ovtgo xal uWtjy piav iiovrjY 6ou- A eiav kxovdiov tivai
x. x. A. Acquiescentem, in anacoluthi* Stallbaomium video,
quae in hu- ius enuntiationis brevitate satia molesta est.
Displicuit eadem et aliis , qui vario modo locum sanare studuerunt.
Aliquid vitii verbis inesse videtur, sed non mutauda verba sunt pia
poY7f 9 de quibus Thierschius egit Spec. Crit. p. 47. seqq. et
Schaeferus Melett. Cr. p. 19. Plura exempla attolitStallbRumius ad
h. 1. Rectis- simum est, quod in uno Bekkeri codice legitur, oSitep
pro daSzep\ verba hoc modo disponenda sant: £ 6 xi yap i}piv vopoS
t oSnep inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv kSkXoYta ifvnvovY dovXeiaY
itaidixols p?} xoXaxeiav elvat pr/de £zoYEi 6 t 6 xoY * oyxeo 87 }
xal aXkrj x, x. A. Sensus est: Lex nimirum nobis est, quam AMATORUM
esse supra diximus: Si quis quo- libet modo serviat ama- siis, eam
servitutem non ignominiosam esse, lam nt amatori, ita amasio
etiam lex est eaqne sola, quae serviri amatori concedit quidem, sed
non nist ita, ut id fiat virtutis ergo. Iutelligent prudentiores,
quid homo sibi ve- lit. Apprime huc pertinet Xe- noph. Symp. c.
VIII. $ 32. xaixot TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya - Sgovo? xov
TtoiTjxov £pa 6 xijS 9 dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpa- dia
dvyxvXiYdovpEYODv , eZpij- xev , coS xat dtpaxEvpa cifoa- 8 •
xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco drj xcct alit] pia povq Sovlda
ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog. avri] di iduv rj xeqI zqv ccQBttjv.
Cap. XI. NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv , idv ng t&ily uva
&£- QttJtevtLV rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj
xcczcc (iocplav riva ij xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq au %
l&Elodovltla ovx cdo%Qd tlvai o vdb xolaxela. ficorarov dv ykvotzo in
nauSi - xojv te xal ipadzcov. i} nata dotpiav riva. De
latiore tiotpicxS significatu, quae qn\o6ocpia. paullo infra vo-
catur, vide annot. p. 34. Satis autem erat dixisse: y Maza. 60-
rpitxv riva ij holS* onovv fii- poS dpEZrjS, Sed haud raro Graeci
iu rebus, quae genere non differunt, specie di- screpant
coniungendis vtWoS nomeu -addunt, quod qua ratione fiut , infra
docebitur. Exempla sunt huius usus Symp. p. 188. A. civ$pGj7toiS
"Hat zotS aAXoiS ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg. p, 473. C.
ZtjXgdtuS qqv nat cvdai- povt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv xai
z<yv aXXcov gtva) v. Alcib, I. p. 112. B. xal al paxen ye xal oi
Sdvazot dux zavryv trjv dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\ to2s aAAoiS
Tpco6iv iyivovro. %v /tftaleiv cis tavto. Bene Riickertus ,
duae, inquit, hae leges in unum quasi locum conferendae sunt, h. e.
cura agenda est/ ut harum legum utra- que valeat atque observetur,
quo- ties amatori puer se dedut , ut ille nihil recuset facere
atque pati, quo dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiae
atque virtutis studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre possit,
contra qui virtutis auctor sit, ci se tradat, nihilque, quo gratus
illi sit, facere recuset. ro ipadty itaibrxa x a ~
pitiatiScei. Plerumque solet duobus nominibus hoc modo iunctis articulus
demi, si in uni- versum de toto genere sermo est cfr. Piat.
Eutyphr. cap. IV. dvodiov yap etvai zo vi 6 v itazpi <dovov I
xe&iivai. Symp, p. 1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~ pul6$ai
ipa&cy naidixet. Tw ipcttizy autem, quamquam sensu nou cassum
est, tamen, quoniam sententiae rationi minus convenit, prae
pauciorum codd. lectione zo ipa6zy postputandum est. Et- enim non
dispicias , cur suo quisque amatori amasius re- ctius dicatur, quam
iu univer- sum amatori amasius grati- ficari. otav yap
e Is zo avzo l f Sensus verborum est: Weun uumlich
Liebhaber and Liebling den eincu Zweck vpr Augen haben, velcher
sicli aus der Vercioigung ihrer hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta
^vfificduv elg ruito, xov re itegl t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi
t>)v epdotiotplav r t 1J xal rijV aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai
xaXov yt- veOftcu xo IgaOrfj xtcadixu xagl<Sa(SQai. otav yag elg
r 6 tcvx o iX&coOiv iguGxrjg xe xal naiSixcc , vo/xov %% cov
ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig xcadixoig vxi/geuav ouovv Stxulag av
v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov Corpov xe xal aya&ov Sixaiag av
ouovv av vnovgyelv , xal 6 (itv dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv
dgextjv £i\u- (iaXXeO&ai, 6 Se Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv
e derseitigen Gesetze ergiebt. Co- piosius paullo infra p.
1S4. E» dicitur: rore — rodrmv ZvvioY- tc av eIs x avtov xgjy
ropcav. Minus recte RiickertusJ Quum enim conveniunt.
na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y Bivfi{jdXA.e6$ai. Verba tran-
sitiva, quae vi quadam pronun- tianda sunt, ut iis seutcntiae caput
contineatur, haud raro ab- solute ponuntur. Verba conver- tenda
sunt*, indem der eine in Beziehung auf Weisheit und Tu- gend Befordcrer
zu seiu verraag, der anderc in Bezieliung auf Bil- dung und
Weisheit Besitzer zu sein verlangt ... Vide, quae de absoluto usu
verborum supra an- notata sunt p, 87. Eius usus ut unum exemplum
hic addam, legitur Symp. p. 175. A. napov naXovYtos ovn faeXei
eisiEYca, quo loco, quid differat naXe.lv et naXeiY xivd ,
edocearis; re- ctius igitur, quam factum a me est p. 27., verba
convertenda sunt: und ich rief mehrmols , h. e, liess mehrmals den
Ruf ergehen. xox e 61 / — eis xavxov- X gdy YvpGDY. Wenn
dann, sage ich, dicse Gesetze zu einem Zweck sicli
vereinigen. di/ particula positu est , ut filum orationis
interpositis verbis ab- ruptum rursum anuecteretur. Pror- sus eodem
modo p. 183. D. t.is 61 } xavtd xiS av (IXtipaS, ad quem locum vid.
anuot. p. 110. Pertinet autem b. 1. tore Stj n. x. A. ad,
praecedens otocv }'dp eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r. A.
Coniecturis verba frustra sollici- tarunt Astius et Bastius.
B,v p it i nx Et xo naXoY elvai . Phavoriuus : 6t>j.iitl- Ttt
E iy XiyErai nal xo tivpftai- veiy et s. v. 6v/iftE<SeiY :
<5tyi- iriittEiY • opov yEvk6Sai • oi /uS? "Oprjpov trjY
Aefciv nal inz xi’xypd>Y aTtofiaGEWY ti- SeadiY. Stallb.
tovxcj. Convertit Schultbessius : Selbst sicli hier- i n
getauscbt zu finden , briugt keine Sebande. Schleiermaclic- rus,
cuius verba Riickertus pro- bat , exhibet in convers. : i n
diesem Falle. Ficinus verba red- didit; in hoc utique falli
turpe non est. Unice vera Stnllbaumii interpretatio est: quum sic a
f- ' fecti sunt animo. Errat 'autem Ruckeitus, xo
ititcutaxu- <3o<piav maci&ca , r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg
xavrov xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai
XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL , aAXofrc de ovda/iov. ini zovToy xal
Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «X- Xoig nceifi xal i^anarafiiva
alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei 185 yecQ «S tQaarjj ag nXovdicp nXovxov
evexa xaQiQa^ievog htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf lccta )
ivcupuvivxog tov d$ai ad solam amasium perti- nere censens,
non item ad ama- torem. Etenim quae sequuntur exempla, quamquam non
nisi de amasio loquuntur, tamen simul amatoris imagiuem
involvant, qui vel amasium frustratur falso amore, vel ipse amasii
studio falsissimo decipitur. Verba con- vertenda sunt: Bei solcher
Absicht ist selbst die Tauschnng deseinenoder des a"n
dem nichtschimpf- lich. Bei ieder undern Absicht dagegeu
bringt Lieben undLiebling sein Sebande, mag nun einer
getauscht werdea oder nicht. lB,cntaTi\% elrj xal jxy
Xdftoi. Si quis spe excideret h. e. si non acciperet. Igitur xal h.
1 . explicativum est, de qua vide sis Indices, cfr. Al- cib. II, p.
143- c. 10. xaxov apa — idrlv rf tov fieXxidxov dyvoia xal xo
dyvoelvSo fie A- xidxov. Dc iusequentcava^nrW*'- TOS Riickertas
<K ava<paive6$ai f inquit, verbum proprie significat ex
inferiore loco emergendo apparere $ hinc subito apparere, dicitarque haud
raro de iis, quae cum speciem quandam habuissent antea, falsam
illam, subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc subito,
quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. p. 484. A. oi pty
di} <piXodocpoi — xal ol /ii} dux /laxpov xivoS die- ZeXSovtoS
Xoyov /loyiS it co s dve<pavTj6av olol eldiv a/i- i poxepoi .
Neque debebat Rii- ckertus exemplum putare , quo sententiam suam
probet Symp. p. 213. C. eicSSeiS l€,aCpvi)S ava<paived$ai onov
iyoj di/u/v r/xidxa de idedSat, quo loco neutiquam abundat
i%al<pv7jS verbum, XO y e avxov: quod ipsum qttinet,
quantum quidem in ipsius potestate est. Wolfius verba convertit:
sei- nen Charakter, seine Ge- sinnnug, quod quamquam ferri
potest, tamen propter iusequens to xa$ avxov etiam aliis minus
probatur. ovdiv jjxxov aldxpov h. e, non minus turpe
est, quam si AMATOR revera dives esset, AMASIUS igitur non
deciperetur atque pecuniam acciperet. xav ei' xiS <ȣ
dyaSai. De xav el particularum signifi- catu disseruit Buttmaunus
ad De- mosth, Mid. p, 33. Nimirum quoniam non nisi ad modum
verbi alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in
fdr- Igadrov xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o toiovtos xo
ye avxov budet%eu , oxi svBxa %gyiia xav oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi'
xovxo Se ov xakov. xaxd xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m
jragvSafUvos xai oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov
tQaOzov i^aitazri&tlT} , dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B ov
XExxijfiivov ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg mula xav
ei, av particulam ad alterum post ei verbum perti- nere, Igitur
recte dici Batt- mannos ait xal, ei xovxo itoioirjv, ev av
itoioirjv et 6oxco jiot xav t ei xovxo noioirjv , ev itoieiv ,
Inter- dum praecedente xav, quod od apodosin refertur, verbo in
apo- dosi posito av superadditur, ut recte dicatur Graece
tioxm jxoi , xav, ei tovro itoioirjv, ev av Ttoieiv . Nostro loco
quo- niam apodosin uon habes, ad quam av particulam referas,
ca- put enuntiati esse xai ei i£- ait axrj $ eirj censendum
est. Et quoniam xal el conditionem exprimit , qua revera
fieri posse significatur illud, quod in couditione continetis, haud
abs re visum est scriptoribus av particulae in hoc dicendi
genere additamentum , quo possibilitatis , notio in
verisimilitudinis notio- nem immutetur, Sensus est: Anf- dieselbc
Weise nun, wenu einer, indem er einem sich ergiebt, ais einem guten
, um selbst. besser eu wenlen, getcuscht wird (and das kann gar
leicht ge- scliehen and ist schon oft geichehen), s. Gesetzt
nun, es wiirde einer wirklich be- tfogeu, indem er cett.
6ia rrjv qnXiav xov l pati tov. Deerat olimroti ar-
ticulus, quem ex octo codicibus addiderunt interpretes. In an-
notatione Riickertus habet : s u am caritatem erga amatorem,
Schleiermacherns : d u r c h die Freuudscliaft 'seines Lieb-
habers. Scbulthessius: durcli seine Fren,ndschaft. Ama- sius, qui AMATORI
sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id se fecisse videt,
non caritate erga amatorem deceptus est, sed malo amdre
amatoris. Verba 6ia xrjv <piMav xov ipa- tixov prorsus repuguare
videntur iis, quae de (piXiaS notione supra annotavimus p. 69.
Neque tameu illic non recte iudicare nobis vi- demur, et commodissime
huius loci verba explicantur. Satis notum est, viros, quarum
igna- via notunda sit, feminas interdum appellari. Exemplo est
huius usus notissimam Homeri dictum 'jixatdeS ovx ix* *Axcuol.
Nou minore, ut videtur, cum acerbi- tate virorum ignavia notatur
ad- dito , quod solis feminis laudi est. Quis feminas dou
laudet in nendo subtemine diligentes? at Herculem colo assidentem
quis uon vituperet atque derideat? tpiXiav Achillis, Patrocli
amasii, summis laudibus eilert Phaedrus p. 180, B. Alcestidis
laudat p. 179. C., nam et amasiis et mu- lieribus propria
<pi\ia\ vide an- ai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on
uQEtijg y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl tzqo-
%vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itav- rog ys xaXov
dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv 6 tijg OvgcivLag &eov
"Eqoq xal OvQaviog xal noXXov utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv
tx^iXetav, dvay- not. p. 69., nostro loco amatoris
<pi\ia ita commemoratur, ut ma- lam, effocminatum, turpem amo-
rem siguificet. Similiter feminis a serioribus praecipue scriptori-
bus ipcoS nomen attribnitur adhaerente ignominiae notione. Caute igitur
Phaedrus, Alcestidis laudans in amore virtutem , non 8i ipeaxa dixit,
quo verbo omnis laudatio misere periret in licen- tiae crimen
conversa, sed (pi~ "kicLY commemorat, qua pa- rentes superarit
mulier fortissima 8 ia x6v*EpGJxa* xal o v x exxTjpiv
ov dpexrjv. Prorsus eodem modo supra dictum est p. 185. A,
i£- anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~ / iaxa , ad quae verba vide
uunot. Adde p. 185. C; apexijS y £v£- xa xal xov fieXxiaov
yevitiSaz X. t. A. In sequentibus o/idoS xdAjJ tj anati} verba
conver- tenda sunt: tamen non igno- miniosa fraudatio est,
ignominia cum frauda- tione amasii non coniun- cta est. Sic p. 184.
E. ini tovto) xal i%aitat?]$jjvai ovdlv aidxpov. Soxez
yap av xal ov- toS*. Kai scriptor posuisse cen- seri potest ita, ut
ad praecedens 8oxet yap 6 toiovxos — Im- 8tlB,at x, T. A.
respexerit. Ha- bet tamen haec dictio , quod mihi quidem admodum
displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap av xal ovz gjS? h. e.
videtur eoim etiam hac conditione i. e. etiam si hoc ei contigerit,
nt ab amatore deciperetur, quantum in ipsius potestate est,
declarasse satis et q. seqq. ndvrcos: ye xaXov ape -
xij$ ivexa h. e. Hac igitur ratione in universum pul- crum virtutis
ergo ama- toribus gratificari. In permultis codd. yi legitur
post dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt
Riickerto excepto, qui eandem in textum recepit. Particulam non
exhibent Bodl., Vatie. Vindob., quorum librorum tanta auctoritas est , ut
recipienda particula sit, si hi eandem exhiberent contra ceterorum
auctoritatem. Ut res nunc se habet, particula delenda est.
ovroS’ l6tivot ijSOvpa- v ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa haud
raro significat: hac ra - tione, qua dixi, ita ovtoS h. 1.
convertere possis: Ecce ta- lis est, qualem descripsi, Uraniae
Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula littera scribendum curavimus
, nomen enim revera est, non adiectivum. Minus apte Schleier-
maclierus verba convertit : Dieses Ist der Eros der himmlischen
Guttin und scibst himmlisch. v t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S
ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’
ersgoi navus T ^S Bti- qus, rijjs ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog
ix tov nu- Qu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii "Egenos
OvfifSuklofiai. TlavOctviov Se navGafiivov — didatSxovSi yag
fis Ida Xtyuv ovtadl ot Oocpot — Igpjj 6 ^QiOzodrjfios Alia
ratio ndvSjjfiof verbi, qnod supra p. 181. B. ut adiectivum positam
est : d fib' ovv t ljs Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~ itctv Si]
fxo S idziv x.t.X. Perfacile autem fieri potuit, ut aliquis cum
ovpavioS littera mi- nuscula scriptum exstaretin codd., xat
adderet, quo orationem, quam censeret mutilatam, expleret. In codd,
nullum vestigium deprava- tionis est, igitur ne uncis quidem voculam
inclusimus, nimiae audaciae crimen fugientes. tov te ipcovta
— xa\ tov' i poS fievov . Post roV ipco/ievov rursus
iutelligas avzdv avtov. Frustra Bastius et Astius tov ipcopkvov
scribendum putarunt: quod si ab ipso Platone esset profectam , ordo
verborum hic, opinor, foret: tok ipajvxct avtov te avtov xal tov
ipoo - pkvov. Nunc sententia liaec est: Eros Uranius utrumqae, et
amatorem et eum, qui amatur, impellit et cogit, ut omnem coram
ponat in studio virtutis et sapientiae. Stallb. Eodem modo verba
intellexit Scbleiermacherus in convers. p. 405. *. indem er den
Liebenden nothiget viel Sorgfalt auf seine eigene Tugeud zu weuden,
und auch den Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia. Schol.
habet:, ix tov avxopa- toVf ix tov itpoxeipov. Appo- site
Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat Hell. I. 1. 21. A £- yeiv ta p\y anu
tov nctpaxprj- pof, ta 6h fiov\ev6atp£voi'S* Non dubiam est autem,
quin additis his verbis Pausauias ex- cusare voluerit orationem
suam, quam elegantiorcm atque poli- tiorem edere potuisset , si
ad eam rem aliquid otii datum fuisset. Ilavdaviov 8e
tfavda- pkvov. De sophistarum irri- sione hic agi, qui similes
sonos verborum studiose quaesiverint, iisque orationem suam
exornaverint, conseutiens iudiciom est interpretum omnium. 9ed non
verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov verbis ita usum
esse, ut ad Pausaniae orationem non respiceret, in qua illius
studii sophistici nullum vestigium reperitur. Praecellit autem haec
oratio prae ceteris verbositate, ut non videam equi- dem , quid
obstet, quominus in hanc verbositatem Tlavdavlov navdapkvov verba
directa esse censeamus. Fuerunt, ut ipse Apollodorus indicat
sequentibus verbis, magistri dicendi , qui si- militudines verborum
discipulis commendarent. Sed commenda- runt eas ita , ut quibus
aliquid efficeretur, quod modo indicatum est esse h. 1. iuanis
cuiusdam verbositatis satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij
Xiyuv, t v%dv 8e avta uva rj vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya
liaitmra- xvlav xal ov% olov re elvat Xiyuv , aAA’ tliteiv av- ii
tbv — iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv ’E(>v!;!pa%ov xcaccxeia&ai
— r £l ’EQv%l(ia%s , d mulos d ij itavOai pcriiim. Non igitur
illos dicendi magistros Apollodorus carpere voluisse censendus est,
ad quorum praeceptum ipse verba sua composuit, sed eos commemoravit
tantummodo, ut eorum auctoritate dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut
de conver- sione verborum Tlavdavlov Sl navdapivov dicamus:
Schleier- mucherus exhibet; Ais nun Pau- sanias ausgesugt hatte.
Schult- hessius habet: Nachdem ntm Pausanias pausirt hatte.
Astius verba reddidit: Nachdem Pausanias eudlich geendet, quae couversio
Orellio displicet, quod ni- mis longa oratione Pausanias usus esse
dicatur. Sed ea ipsa de caussa Astiaua illa conversio r.obis
magnopere placet. Est ta- men nobis, qnod Graecis verbis mugis
respondeat, quod si durias videbitur atque minus elegans, non
magnopere dolebimus, quippe exhibituri, quod revera excu- satione
indigeret tg ov dotp&vx Ais Pausanias nuu ansposaunt hatte,
ovTGodl oi do <pol . TovS tiocpouS dicendi magistros esse,
supra indicatum est. vide quae de docplaS notione annotata sunt
p. $4. SI avrcp riva — ii vyya. Scbol, ad h. 1.
varias singultus caussas laudat eiuaque sanandi modos studiosissime
re- fert, quos hic repetere longum est. Unum hoc ex eius annotatione
depromam, quo prndentiores de Aristophanis voluntate certiores fieri
possunt : zo rov A vypov dvpnzcopa irtiylvezat tgj dtopaxoo Sta
7t\ij pojdtv rj xiv od div r) if>v % iv, iviote xal dia 8rj£,iv
Spipe arv vypo)V xal (pappaxoaS&v zalS noidztdiv. Pluribus de
Aristo- phanico singultu dicturi sumus in Commeut. de Symp.
Platonis, ad quam lectores ablegamus, iv x y xdteo. Haec est
lectio codicum plurimorum. Vulgo iyyvtdzcD legitur, quam lectionem Astius
retinendam censuit. Frustra. Non enim de vicinitate hic agitor, sed
de ordine seden- tium; quandoquidem Eryxima- chus praecepit:
Zxadrov \6yov eltceiv hcaivov "EpcjroS ini 8e- £,id.
Saepissime autem ivzoS, iyyvS , iv x\j xdra> , iyyvrdzco,
similia, commutata reperiuntor in libris, ut non defuerint, qui
etiam Lachetis loco ditficiliimo p. 187* $• 13. iyyvzata vocem
mutan- dam censerent. Beue tamen id habet eo loco. Verba sunt
haec: ov poi Saxeis elSivai , dzi ds dv iyyvzata 2a)xpdzovS y
A oya>, c Zsnep yivet , xal n\r/— Qid^y SiaXeyopevoS, quae verba
quoniam nullo modo explicari possunt, in hunc modum emen- danda
suut: ut; poi SoxeiS eiSi- rai, ori ds av' iyyvzata 2iu- xpdzovS
ift A oyoj, &snep yv- vatxl nXrjdid^et SiaXeydpevoS, fis xijg
Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg av iyd xav- Cafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov
slntiv, 'Alia xoiqe a dfitpoTSQa tavxa. iyd fiiv ycig igd iv xd <5(5
fiigsi, 6v 6’ insUlav xavtiy, iv r a ifid' iv a S’ av iyd liyca,
idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi aolvv %go- xa\ dvdyxij av
ro3 x.r.X, Agi- tnr autem satis lepide de mulieribus , qui severissime in
virorum suorum vitam inquirunt, ne- que prius ab interrogando atque
explorando desistunt, quam omnem vitam , quomodo gesta sit gera -
turque, cognoverint. Verba con- vertenda sunt : Du scheinst mir
nicht zu wissen , dass wer dem Socrates zu Leibe geht ,« der
gleichsam mit einem eifersuch- tigeo Weibe anbindet, und er muss ,
wenn er auch vorher -von etwas ganz andcrm zu reden^begonnen hat, ohne
Aufhdren sich von ihm im Zirkel herumfiihren lassen, bis er sich
endlich vervrickelt, und gesteht, wie er ietzt lebt und wie er geiebt
hat. dixaio? el rj navtial pe x. r. X. De SlxaioS vocis
si- gnificatu supra dictum est p. 6, Male Ficinus in conver»,
exhibet: O Eryximache, tua tunc (nunc?) iuterest. Ceterum
dixaio? h, 1, Eryximachus dicitur duabus de caussis. Nam medicus
erat, ut siugultui mederi posset atque a dextra sedebat, ut ad eum
per- veniret dicendi munus, si Aristophanes, quominus ipse loqueretur, singultu
prohiberetur. Quae sequuntur verba, eoo? av iyco itavdoofiai abundantia
quadam laborare videntur, quandoquidem personali prouoraine
facillime carueris. Cave tamen id mutandum censeas aut delendum. Dicturus
Aristophanes erat; Dicere tnte debes, donec ego possim. Sed inter dicendum
factum est et hic et alias haud raro, ut, cum stru- ctura verborum
ad verbnm comparata sit, qnod scriptor iu mente habuisset, pro illo
verbo subito aliud poneretur, quod cum incepta structura verborum
mions Cfcuveniret. Optime igitur se ha- beret scriptura haec: 7/
Xlyetv vnlp ijiiov 7 Eoo? av iyoo Xiyeiv dvvoopai, sed non minus
bene dicitur Ego? av iyoo — rfau- (S oo fica. idv ftiv
6o i i$iXp — el /i r/. idv fiiv praecedente scriptum exspectaveris
idv 8i y ut legitur iu Piat, Protag. p. 848. A. idv fisv fiovXy Exi
epoo - rav , Etoipo? elpi 6ot napi- Xeiv anoxpivopevo ? • idv
fiovXy, 6v Ipol ndpa6x£y nepl co v petaS,v inctv6ape$a 6ie -
B,wvxe? , rovroxs’ reWtf iniSel- vai. Passim annotatura est ab
interpretibus, el interdum poni idv praecedente, eiusque rei caussam
indicare studuit Engelhardtus ad Piat. Menex. p. 237, ed. non satis, ut
videtur, veterum scriptorum voluntatem assecutus: particulae idv ,
inquit, inest notio exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod
hypothetice ponimus , necne. Si ergo duae res hypothetice opponuntur
, iam tufjicit , semel hanc notionem additan¥ esse , et quidem
priori membro , quia id prius po - vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj ,
vScezi uvaxoyxvlla- E Oov. d S’ aga itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi
zoi- ovzov, oim xivfacus av zqv (uva , itzagt' xal lav zovzo
nere solemus , quod nostra magis interest ; superflua haec notio
in altero membro est.* Nos sic sta- tuimus. Ubi idv phy — idv
6e ponitur, duae enuntiationes hypotheticae sibi aequiparantur, in
quibus , quod fieri ponitur, idem facile fieri posse certis qui-
busdam de caussis exprimitur. In aequiparandis enuntiatis veteres te — T
£ particulis saepius utuntur, quam fiiv — - 8£ t igitur saepius idv
TE — idv te repe- rias, quam idv phv — idv 8£. Exemplum habes Symp.
p. 184. B, init. Pro altero iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic
legitur no- atro loco idv phv — sl Si, nusquam cutem £dv te — eX te
reperias. Colligitur inde, el post idv po- situm non eiusdem potestatis
esse atque iav praecedentem particulam, sed alius, quae cum 8£
adver- sativo commode consocietur, non item cum te vocula, de
cuius potestate supra diximus, conveniat. Ut paucis dicam, iav poni
aliquid signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur certis quibusdam de
caussis, el cum adversativa particula coniunctum exprimit id poni,
quod contra exspectationem revera contigerit. Ad nostrum lo- cum ut
revertamur, dicit Eryxi- machus : Vide , an tibi ditvtv - Cz
l ixovTi h. e. animum reprimenti aliquod tempus singultus abeat, (et
credo, fore, ut ab- iturus sit, experientia edoctus) sin vero minus
h. e. wenn dcrSchlucken aber gegen ali es Erwarten wirklich
nicht weiclit..cf.Plat*derep, VII. p. 540. C. pvypeta 5*
avTOlf XOLL Svtiiotf TJ/V Tt6\lV 8ypo6la jtoieiv, idv xal ?}
TIv- $ia B,vvavaipy (neque dubito, quin id factura sit Pythia)
coS daipodiv’ ei 8h py (&z.£,vvai- vaipEi h. e. contra
exspectatio- nem non, revera non) eoS’ EvSat- poCi te xal SeoTZ,
Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI — eI oh pi/ sponte
intelligitnr. cf. Piat. Churmid. c, 14. Heind. ed. p. 190. eI ovv
Coi <pt\ov, i$£X co Cxoieeiv pera Cov • ti d£ p ?/, idv. Adde
quem Stall— baumius laudat ad PJat. Piiacd. p v JB8. ed. Isocrat.
Archid. 44. p. #11. ed. Lang. idv phv yap iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv
vithp t&v dixalcov — aCtpaXdjS yplv iZtCTai r,ijv m tl 6h
<pofiySyCo- pe$a tovS xivbvvovs x. T. A, Ceterum post y Xvy%
supplen- dum censent ev %X £t Minus no- bis placet hoc explicandi
genus; meliorem explicationem iu con- versione huius loci
dedimus. v 8 aTt av axo yxvXla- dov. Schol. habet: dvaxoyx
v- XiuCai t 6 xXvtiai ryr cpdpvy- ya } d Xiyopsv avayapyapiCat
. oXoo x ivyC aiS dv Tyv piva ♦ Vulgatum xivyCaiS ,
quod codd. omnes exhibent, et Athenaeus servat V. 2. p. 187* iv 8h
Tofis xnto&yxaiS tov xap - tpovS > tva Tyv piva xivy6a$
TtTapy , itapiypt % mutatum in xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit. 98.
p. 542. reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent Wyttenbachius,
Creuz. ad Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn,
3iav~ (Sectu. Ovx av cp&avois liyav , cpavai xov ’A QKScocpavi
j' ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov' de palent,»,
Astius , alii, nemo luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem
defendere atque in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum
est retiuere, quod libri darent, a a t- que nisi bonum, at.
non absurdum esset. Aliud no- bis de vulgatae lectionis prae-
stautia iudiciutn est. Kivei v ni- mirum nou significat solum movere, sed
movere ita ali- quid, ut id se moveat. Sic iu amore verbum
usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis ad nequitias allicitur, Pari modo
in pro- verbiali dictione dicitur pijxiVEiv, tov ev 'heIjievov
videlicet, ne is, qui moveatur, ubi motum se sen- serit, moventi
molestias paret» Iam vides xiveiv r?/V f)lva esse, movere nasum
atque -excitare ita, ut se moveat h. e. ut orian- tur nxappoi,
Bekkerus xvjfdaio habet, quod apud Stobaeum le- gitur 1, 1.
Sternutatione mota pelli singultum probatur Mippocr* Aphor. VI. 13-
t; 7to Xvypov £*o- pivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Au- ov6i xov
Xvypov. xal eI 7tavv l6xvpa idxiv . De xal el et eI xai
part. ita disputavit Heind, ad Platon. Gorg. p, 509. A. , ut
negaret, couditionulis enuntiati seutentiam mutari, sive xal eI
sive ti xai scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr, ampl. T, II.
p. 1252. Nostra verba etiam t um, si vel ma- xime pervicax sit,
cessabit Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et
el xal purticularnm discrimine dis- serit ad Apol. Socr. pag.
edit. 196. Ex eius annotatione haec laudare iuvat: el xai rem
aut ponit, aut indicat fieri posse, ut ait, ita ut latiue reddendum
sit quamquam, etsi vel quamquam fortasse. Kal eI sem- per de
incerta hypothesi usurpatur, quam sive ponit ali- quis sive non
ponit, tamen id fieri oportet, quod in apodosi ponitor.
ovx av q> 5 av o tG Xiyoov. Schol. habet: ini ccor eIg 5
T$- paG ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/- 7 tcj nipas iiei^EvxoS
avx\j. Pro- prie verba significant: Mit dem Reden kannst du nicht
zu frxih komme^ h. e. quin statim loquere. Haec annotavi, ut liqueret,
interrogandi signum ab hac dicendi formula non abesse non posse,
quod in Phaedone positura est apud Stallb. p, 100. C. akXa prjv ,
l(pr\ o KifirfG, coG 8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG itepaivav
; eIkeiv 8\ tov 9 Epv%l- / iaxov . Eryximachus medicus,
qui nunc dicturas est, Acumeni medici filius, Hippiae auditor ana cum
Phaedro aliisque fuisse tra- ditur Piat. Protag. p. 315. C.,
Phaedro AMICUM fuisse discas e Piat. Phaedr. p. 268. A. , ubi
Socrates cum Phaedro colloquens el xiG , inquit, 7tpoGE A- $qjv t (3
kraipfp 6ov ’Epv%i- fjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t &VXQV ! 'Ahqv -
/.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i ccvayxcaov tivca,
timSi/ Tlav- 186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas
aite- teXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj. tb
fisv yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xa- xaXco ? ov x
Inavco?. Ex Eryximachi sententia Pausanias rectissime disseruit de
duplici Erote atque de utriusque dei na- tura , minus recte de
erotica vi locutus est, quae vis latius pa- teat, nec solum in
animis mor- talium, sed etiam ia universa re- rum natura
eillcacissima conspi- cietur. Respicit autem , Stall- ba umius ait,
Eryximachus haud dubie ad nobilissimam illam et inultis, ut
videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam
philosophorum, qui statuerunt elementa totius rerum universitatis
inter se pugnantia per concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se
conciliata et in ordinem redacta, vid. Arist. Metaphys. I. 4. et
quos laudant interpp. ad Aristopli. Avv. v. 695. seqq. zcAo?
iniSslvai rc3 Ad- ' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum
officinis depromtura est, qni eam reliquum corpus sive
hominis sive animalis arte elaborassent, capite ad postremum
elaborato caput imposuisse dicantur simul atque opus ad finem
perduxisse. IJaec formula iam apud Homerum reperitur II. r, 107.
tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde Piat. Alcib.
I. p. l^D. xov - Tccv yap Ooi arfJthov xcov Siaro?/juarGjy x
JX o? inite^r/vat avev i/iov advvaxov. Cratyl. p. S95. A.
xivSvvEvei yap xoi- ovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav, olo?, a av
dcZeiev avufj 6ia- 7iov£i6$cn xal jtapTEpEtv, riXo? inniStl? xol?
SoZatii di’ a pEtrjv. oxi < 5 £ ov /iovov &6xlv seqq.
Schleiermacherus conver- tit: dass er aber nicht a I- lein iiber
die Seelen der “Menschen w altet in Be- ziehung auf die
schonen, sondern auch auf vieles Andere and auch in allen
andern Dingen Quaeri potest primum, quid sit id, ad quod,
praeter pulcros homines Eros in animis hominum insitas pertineat.
Deinde si Schleiermacherianae conversionis sensum Eryximachus exprimere
voluisset, haud dubium esse potest, quin dicere debuisset ov /iovov
idrlv in\ tat? Tpvxai? xcov av^peo- Ttcov — ctXXd yioct iv xol?
aX~ Xoi? Quoquo modo verba specte*, distorti quid enuntiationi
huic inesse senties, quod deleto xai post rtoXXa posito optime
removeri potest. Verba nimirum per chiasmum explicanda censeas, nt
non solum in animis ho- minum formosae iuven— tutis, sed etiam
aliarum rerum multarum Eros in aliis rebus habitare
dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjiv- ya
lg tav av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos «AAa 3Coi-i.cc
xal iv tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/ ndvrav %d>uv xcd tols iv
ry yy tpvofievois, xal, mg fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl,
xa&toQuxtvaL ycoi 8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg
(dyas xal &av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B
Posses etiam hac ratione verba emendare: ort ov [IOVOV ini
x aiS ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav xaz 7 tpos xov? JutXuvS' , a XX
a xal npo? aXXa noXXa xal iv toiS aXXoiS x. r. X. Haec olim
scripseram. Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene
habent, modo Moi post itoX Xa positum non und sed aach in-
terpreteris. / co? Eno? elneiv, vide annot* p. 63- Schol. ' autem
haec verba explicat: gg? maivExai, cbs iv Xoycp sinetv, addmjue:
xovxo dxVM ar ^ £taz Kapa xois na - A aioi? xal cJ s e in st v
EnoS xal eo? inoS einetv xal co? ino? (pavai xal guS’ opavai
inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~ %egoS ixtpcoveixai , olor goS
<pa- vai xal as slneiv. drpial - vei 81 x 6 avxo . ol 8s
<pa(5iv av xi xov co ? <p aiv ex ai xei- C$ai i f avxl xov
ooS iv A oycp e in Eiv . Converterim verba : in den Korpern aller 1
ebenden Wesen und in den Erzeugnissen der Erde, und, ich vage es zu
be - haupten, in alleu Dingen, Adhibentur nimirum verba ilia,
ubi aliquis aliquid dicturus est, quod fidem hominum superare, ipse
sentit, go? ftiyaS xal 6x 6 5. Stallbaumius in his,
in- quit, ~co? significat nam, quip- pe, usu haudquaquom
infrequenti. Male. Praecedenti protasi, cui apodosin Eryximnchus
praemisit, altera apodosis additur, alterius potestatemquae
amplificat et auget. Haec verborum structura ex oratorio genere
dicendi de- promta est. cfr. Apol. Socr. p, 20. C. o t; y ce p 8 rj
nov dov- ye ov8ev xgov a XXgov n e- ptxx ox e pov np ay /xax
ev o- pivov, ixetra xo6avx?j (pqprj te xal Xdyo? yiyovtv , e i
/ir/ xi Enpaxxs? aXXotov rj ol noXXoL Compara cum his verbis
Symp. p. 211. E. xi 8i)xa , iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo avxo
x 6 xaXov i8slv eIXi - xptvE?, xa$ a pov , agt- xx ov, aXXa /n)
dvdnXeaov uap - xgov te avSpoDnivGDV xal XP&- p areor xal
dXXi)? noXXijS epXva- pia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo Seiov xaXov
Svvaixo pov oei 81? xaxt8 Etv, Adde Cicer. Orat, pro Rose.
Amer, e. V, §. 14. Atque ut facilius intelligere possitis, ludie#*,
ca, quae facta sunt, indigniora esse, quam haec sunt, quae dicimus, vobis
exponemus, quo facilius et huius ho- minis innocentissimi mi-
serias et illorum audaciam cognoscere possitis et rei publicae
calamita- av^gajuva xal xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo
rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v. 'H yag
(pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv "Egena zovzov ex,ei. ro yag vyiig
tov tidfiazog xal ro vo- Covv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov
eozi. ro Se dvopoiov avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev
ovv o eztl za vyieiva egag, akkog 6 e b tjtl ra vo- OibSei. eCzi Si ) ,
dgneg agzi JIavOaviag ekeys zoig tem. Huic loquendi generi
non adnumeranda sunt verba Alcib. II* p. 138. B. , quae sunt,
qui corrupta censeant ; sed ut clarius videas, corruptelae indicia
ipsis nulla inesse, hoc modo disponenda sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv
avzl- xa (padiv ev&ad$ai xoAxgj 8ie-> A sdSai rd narpifia
rovS vleiS’ l£,6v OVTCk) TC OV TZCtpOYTGDV aVTGJ xaxoov anozpomjv
riva tv£,a~ ti$cu, crepa npoS roiS vitap * Xov6i xaxypdzo.
xal ini nav o5£o?. Ne forte ad SavpadxoS supplendum censeas
idriv et scribendum xal cjS ini nav , tria dei epitlieta sunt:
magnus, admirabilis, late potens. Dicitur cutem ini nav — xeivet
pro ini nav teIvov — idriv vid. annot. p. 87. Sensus est totius
enuntia- tionis: Dass er aber uicht blosden See1en der Menschen in
Beziehung auf das Schonc, sonderu auch i u Beziehung auf
vules indere auch den anaeren Dingen einwohnt, sowohl den
Leibern der gesamm- ten Thierwelt ais den Erderzeugniss e n and,
ich wage es z u sagen, a 11 en nur vorhandenen Dingen, glaube
ich aus der Medi- cin, meiner angestamm- ten Kunst, ersehen
zu ha- ben, dass ^ros s nnd wunderbarund ei n flus s reich auf
alles der Gott ist, so in mgnschlichen, so in gottlichen Ange1eg en
h eiten. Ut n(#tro loco ab hominibus ad animalia, ab anima- libus ad
mineralia transitur, haec tria autem verbis comprehendun- tur :
ndvra z d ovra , eodem modo in Riaedon. p. 70. D. le- gitur :
prj toivvv xar avSpGo- ncov dxonei povov rovro , aWa xal nara Zwgdv
navrojv xal <pv - tgov xal BtvWiffidrjv. odanep ix& yivediv,
nept navtcov idea- fiev , ap ovzojdl yiyvetat ndvra.
iva xal n p ed fiev gdjjlev . Explicat Schol. ad h. 1. npe—
dfiEvcopev npozipeopev , peya- XvYGOpEV. npEdfieveiv riva est
aliquem ut senem venerari, ali- cui ut seni primum locum attri-
buere. Non iniuria Phaedrus dixit Symp. p. 178. B. zo yap iv rols
npedfivrarov slvai — [ov] rifiiov ; Eryximachus autem di- cit: ut
simul primi loci hono- rem nostrae arti attribuamus. Kai enim ita
explicandum est, ut proprie verba audire dicantur: iva xal A
eycopsv nepl xovzcdv xal npEdfie.voDfj.Ev x. z. A. (i\v clyadoig zcdov
xaQl&Gftai rtdv kv&qcojt av, roig c di axolaOtoig alOxgov, ovra
xal Iv avroig roig GcS- ftadi roig fiiv dyadoig exkGtov tov Ga fiarog xai
vym- voig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a fivo/ta r 6
iatQixov, rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov r e xai dii dxaQiGrtiv, it
iiii.Xu ng nxvixog tivai. tori yctQ latQixtj , tag Iv xiipaXaia ilmiv,
ixiGr^i] rav rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai xivuOiv,
Itepor re xal avopotov. Rectissime annotatum est ab Astio et
Stallbaumio, Thierschium fru- stra scribendum coniecisse PrzpoY ti
xal avopoiov. Nimirum Zxzpov h. 1, non alind sed diversum est, quae
verbi signi' ficatio non rara apud Platonem, cfr. Alcib. I. p. 11
4. B. xorzpoy 81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal <Svp<pkpovra , y
erzpa. Adde Piat. Protag. p. 833. A. note- pov — Xvdcopev rcJ v
Xoycoy; ro fy M juoror Ivavtiov zlvai, y ixetvov , iv cp iXkytro at
ep ov etvai daxppotivvyC do<pia — : xal irpoS rep trzpov
zlvai xal avopoia x. r. X. xaXov x a pineti Sai tgoy
txvS pant oo y. Verba rdov ay - SpconcoY seiuncta snnt ab iis
rerbis, e quibus pendet rolS p\v ayaSoiS, ut pondere augerentur.
Huius exemplum structurae verba aunt p. 178. C. o ydp XPV av~
$pG07toiS yytZ6$ai nayroS rov piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$-
<5e<5$ai x.r.X. Urgendum autem prounntiando est tgjy
dySpeoTteoY ideo , quod, cum Pausanias in hominnm tantummodo
animis dixisset Erotem versari, Eryxixnachus contra etiam in corpo-
ribus habitare deum narret, indicandum erat atque demonstrandum auditori,
quibus modis ab illius oratione medici oratio , diflerret.
xal rovro Idrtv gj uvo- pa ro larptxdv h. c. und darin
besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo nennen. Prorsus
eodem modo p. 185. B ovrco nccynoS yz xa- Xoy apztyS y Zyejicc
xapiZe- 6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd
- YtoS X . T. A.’ Ad ea, quae insequuntur, apte laudatur ub
interpp. Hippocr. De morbo sacro sub Cu. Xpy — py avZziy r d
vov6y- para , aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv , 7rpoS<pzpovtaS ry
yovCco to' ito- Xepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epi- Xoy xal 6vvySZS *
vn 6 ptv ydp T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z- , rai f vito 81
rov noXzplov <p$l- vzi xal apavpovrai . %6rt ydp larpixy.
Hippocr. de flatibus : r d IvavricL rc oy irarrloav itiriy
Irjpara. larpixy ydp i<Sn xpoCSeCif xal d(pa{pz(itS‘
dg>aipzOiS plv rooY v 7f zppaXX oYroyy , 7tpo6$f6iZ dlroor
iXXzin ovrco v' o Ss xdX- Xidra rovro noizcov apitiroS lyrpoS.
Articulum ne desideres, omittitur, ubi per se positum spectatur
nomen, cfr. Piat. Lach. p. 191. c. 18. rovro r oiyvv alriov iXeyoY
, das also 9 130 riAAT&NOZ xui
6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal D aioxQov " Egaza , ovzog
lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jit- rajidlkuv noicdv, dgze dvri zov tzigov
"Egeor og zov tre- gov xzrjOtta&cu, xal ot<j [irj bveOuv
"Egcog , dii <5’ lyyt- viafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai
ivovra ifcksiv, aya- meinte icli mit dem Worte altiov.
Alcib. I. p. 133. c. 57* o 87 } xal xo pijv xaXovjtev : Was
wir auch mit dem Worte xop7j bezeichnen ; Symp. p. 196* C*
civai ydp opoXoyEitai 6a>- <pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY
xal iirt^vjiuav , dcun unter der Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j
wird allgemein yerstaaden Itaque hoc Eryximachus dicit: Es
ist namlich, was wir * iatpi - X 7/ » neunen, der Hauptsache n a c
h cet* xal o diaytyvcSdxcov iv tovtoif. Difficillimam
esse atque gravissimam morborum e symptomatis petitam cognitionem, quam
diagnosin medici vocant, iutelligunt etiam ii, qui artis medicae
imperiti sunt* xal 6 yi Et a ft aXXeiv not djv. sc. td i
porrixa tcov (jayiaTCJV j hinc post cJsre sup- plendum est td
tioopata. Caven- dum est enim, ne quis tov £T£- pov subiectum esse
censeat enuntiationis» Quae sequuntur verba a xai incipientia, praecedentium verborum
explicationem eflicinut. Sensus est : Wer die Nei- g u « gen der
Kdrper so umaodert, dass sie an- statt der einen Neigung die
andere erlangen d. h. wer es verateht, Korpern eine Neigung
einzupflan- zen, die ihnen nicht ein- wolint, aber ihnen c i n w o
hnen muss, und die einwohnende, die nicht einwohnen darf, heraus zu trei-
ben, iitidtapEvoS i/iTtoiif - 6ai xal ivovta IB,eXeiy. >
Quod de duplici Erote hic dicit Eryximachus, Socrates de morbo
profert in Piat, de rep. I. p. 333* E. ap * ovv xal vodov o6tiS
8ei- yoS <pvXatia65ai xal ptj Xa~ $etv , ovtoS deivotatoS
xal iyutoirj6ai , quem locum inter- pretes propter xal jutj
XaSeiv verba vario modo sollicitarunt. AaSeiv, quae vulgata lectio
est, rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv mutaverunt. Non
est autem assentiendum Stallbau- mio xai ante pnj TtaSetv delenti.
Nodov <pvXd%a6$ai positum habes propter antecedentia : ap * ovx
o natabat SeivotaroZ iv pdxy ritE nvxtixy tltE tivl xal dXXy ,
ovtoS xai <pvXa- B,aOSai , quae si non praecederent, pro
<pvXd£,a6$ai Socrates alio verbo usus esset, quod cum YOtioS
nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis yotiov tpvXdgatiSai
non satis iutelligeret, accuratiorem explica- tionem verborum
statifei addidit, quae in verbis xal yirj TCo&EtY continetur.
Kai igitur explica- tivum est, atque hoc est, id est,
significat. a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6 i. Ad 8 yfiiovpyoS
Stallbaumius i .e. ttog 'Sv rft] drjiaovQyos. SsT yag Si/ rn SjftuSut
mna iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal Igiiv akfo)-
>.av. ?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio fio),
zixgdv ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig • ime
uj9elg "Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E inquit, iarpof.
Sed /admodum haec verba languerent, si prae- cedente superlativo
sequeretur dyaSoS larpof. Eryximachus ab artis medicae theoria ad
pra- xin transit ita, ut, cum larpt- xuraror appellasset eum ,
qui malum et bonum Erotem in cor- poribus dignoscere posset, aya
- J3oV drjpiovpyor practicum medicum vocet, qui medicina
adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus immittere
possit. <pi\a olovr elvai not- at v xal i par aWijX&v
. Sublatum discrimen vides in Eryxi- machi oratione, quod intef
(piXt~ir t <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr ex- stare supra
annotavimus p.69 ,quibuscumcf.annot p.lS2. Docemur autem hoc exemplo, qui
Hat, ut vocabulorum significationes vergente aetate saepius immutatae
sint. Verba nimirum quasi alSaXa sunt cogitaudi rationis, quae
ratio ubi mutatur, corrumpi necesse est atque perverti verborum
significationes. narra rar otavr a. Wol- fiu* asyndeto
offensus xai ante narra ponendum coniecit. Possumus nos quidem in
eiusmodi dictionibus copula non carere, qua propter
Schleiermachenis ia conversione und a lies der- gleichen exhibuit.
Verum non solum Graeci sed etiam Romaui copulam omisere,
quippe efficatius eo indicantes, verba narra ra rotavra
eiusdem potestatis et iuris esse, atque praecedentia, quae dOvrSercjS enu-
merantur, exempla, cfr. Gorg, 503* E. olor tl fiovhet idatr rovS
ZwypaqjovZf rovS oixodo - povS f rods* ravnrjyovS , rov£ dXXovS
ndrraS SrjpiovpyovS or- tiva fiovXai avrdUr. Demosth. Orat, pro
corona c. 74. , quem locum Stallbaumianae industriae debeo: para
ravra dvdrdvroov olf ?}r impeXlS iph xax&S notetv , xal ypacpds
, tvSvva?, tlsayytXlaS , narra rotavra inayovrt&r x. r.
A.Verba mxpur yXvxti a sciolo quodam addita censent, praesertim
quum in nostri loci repetitione non reperiantur p. 188. A.,
Astiua Stallbaumius , Riickertus. Atque Riickertus quidem, quatuor
haec , inquit, frigidum, calidum , siccum et humidum t saepius in
corpore esse diversasque eius mutationes procreare dicuntur : at
ntxpoV et y Xvxv in corpore huntano quid sibi Velint , non intell
igitur. Accedit , quod injra p, 188. A. ipse E ryx irn achus
repetens huius loci dicta caetera enumerat , haec omittit .
Cavendum est, ne quia his assentiatur. Nimirum p. 188. A., ubi
nixpor yXvxal verba non reponuntur , ne poterant quidem apte poni,
quoniam anui muta- tionibus, de quibus illic sermo est, neque cum
acerbo neque cum dulci qnicqunm commercii XQoyovos
'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv oTSe o i xoiijtcu xal iyu mi&ouat ,
0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba
i['t'Xf)6v Seppry, itmpov yXvxtt, Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa
nou corporis conditioni describendae, sed explicando inserviunt
praecedente verbo xa ivavxiao- xctxa. Sensus est totius enun- tiationis
! Er muss namlich das Feindlichste ira K d r- per sich befreunden
las- se n u n d zu gegenseitiger Neigung umstimmeu kdn- nen.
I c h verstehe ab er «n ter dem Worte iv av - xt cjxaxa (ride
anno't. p. 129.) dic reinen Gegensiitze: kalt und warm, bitter
nud suss, trockan und feucht, und alles dergleichen* Ceterum
ne quis forte putet itavxa xa xoiavxa verba rectius poni , ubi duo
exempla aliata sint, quam ubi tria posita repe- nantur: legitur in
Piat* Gorg., quem locum Heiudorfius laudat, p. 517. D. ixitopi&w,
iar plv xeivy xa doipata yjpcov, dixia — idv di fnyco, Ipaxia ,
dxpGo- paxa , vxoStjpaxa , aXXa , gjv epxsxai CoSpaxa eis
imSvpiav. Dubito autem, num reperiatur locus, in quo duobus
tantum exemplis laudatis zdvxa xa xoiavxa, dXXa t simileve sit
po- situm* zovxoiS Itci dxtjS e/f seqq. xovroiS ad tu
ivavxtcdxaxa re- ferendum est, non ad singula xoov iyavxiooxdxcDV
exempla , quae non nisi ad explicandam vocem xa ivavxuoTaxa
apposita sunt. E p coxa i pno irj d ai xal 6 pov oiav . Supra iam
anno- tatum est ad verba cptXa olov x iivaixal ipdv
dWr/Xcjv, signi» beatum verborum (ptXelv et €pav t <piXia et
£poj£, similium, in Ery- ximachi oratione prorsus mutari,
"EpeoS igitur nostro loco nihil alind siguificat , qn <m
rerum sibi repugnantium concordiam. Huius nominis vim ipse
Eryximachus additis xal 6 povoiav verbis declarat, ubi xai rursus
explicativum est: Liebe d. h. Einklang. Si quaeris autem, cur
amandi verbis •> nominibusque Eryximachus uta- tur, memineris
velim, laudandi Erotis cQUssa orationem ab Ery- ximacho haberi,
atqna eundem statim ab initio orationis suae ita censuisse, ut
etiam artes ab Erote regi atque per cum esse contenderet, cfr.
infra p. 187* C. xi]v 81 opoXoyiav nadi xov - zoiS, GjS7tEp ix£i rj
ieexpim }, lv- zav$a j/ povdix? } IvxiSrjdiv, *EpGDxa xal 6 povoiav
aXXijXoav ipxon'/dada. o?8e ol TtoiTjtai dicitur
propterea, quod adfuerunt Agatho et Aristophanes : wie die Dic h-
terzunft da behauptet» Testantur autem poetae, Aescula- pium
medicorum npoyovov esse: artem medicam euudem constituisse , ut qui res
in corpore contrarias sibi conciliant, non testantur. Igitur minus
apte verba Schleiermacherus convertit : Dass diesen Liebe und
Wolwollca unser A h n - herr Asclepios einzuflos- sen verstand,
dadurch hat er, wie die Dichter hier sageu und ich es glaube,
unser e Lunst gegriindet. ”H te ovv laxQMTj, <og itEQ liya, ituOa
dut TOV 9eov tovtov 'xvfiegvutai , agavrag 6'e xai yvfxvaOttxlj
7f' t s ov v lar pixr} , o)S - 71 £ p Xiy cd seqq. Si
scriptam exstaret rj x e ovv latpvkr}, cofnep Xiyoa, nuda. dia xov
$eov tov- tov xvfiepvaxai xai yvpva- titiXT] xai yeoDpyia, nihil
esset, quod lectorem olleuderet. Nam et medica ars, et
gymn.<stice di- cerentur atque agricultura dei ope gubernari.
Accedentibus verbis coSccvxcdS di, manente Te parti- cula , dicendi
genus eilicitur, quod certe minus usitatum est. Non nescimus
quidem, xe — di sibi respondere saepeuumero, sed tum scriptum
exspectamus : i/ xe ovv iaxpixi] .... xvpepvaxai , yvptatixixi) xai
yeoipyia GjSavTGoS. Huc accedit, quod post xi Graeci scriptores di
«on admittunt nisi in rei, quae prae- cedentem gravitate superat,
com- memoratione, ut Lutiue conver- tendum sit: et vero, et
vero etiam. Ea gravitas nostri loci verbis convenire frustra
docet Stallbaumius ad Piat, de rep. II, p. 367. C. Cave tamen,
quic- quam mutarum censeas. Ery- ximachus in^Hae structurae
obli- tus , quasi dixissset ?/ /ikv ovv principio enuntiationis,
coSaiixcoS di dixit. Vide de piv ovv — di voculis annot, p. 23.
Alia ratio verborum est Piat, de rep. III. p. 494. C. iv xe xy
xmv &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai a\Ao$i, ubi plus
ponderis in altera] enuntiati parte est, quam in altera , ut ti * —
di apprime respondeat Latinorum cum — tum. Adde Piat, de rep. VI.
p. 489. C. ix di xoivvv tovxqov xai iv xovxoiS ov fiadiov
evdo- mpelv — TtoXv dfc peyidxy xai Idxvpoxdxtf dtafioXrf
yiyvexat xy tpi\o6ocpioc x. t, A. wSitep A iy<a.
Praesens tempus A iyeiv verbi de senten- tia loquentis valet ,
praeteritum ad praecedentia eius verba le- ctorem revocat cfr. Apol.
Socr. p. 17. B. ovxoi piv ovv, cofnep iyco Ai^or^ut mihi videtur)
y xi y oidlv aXySl* elpi]xa6iv. Adde Symp, p. 221. D. ei ^
prf apa oh iy oj A iyoo diteixa^oi TiS avxpv . yv
pvatix ix?} xai yecop - yia . Articulum haud raro omitti in artium
nominibus, Schaeferus, Ileindorfius, alii do- cuerunt. Nostro
quidem loco eum omitti eo magis etiam mirum, quod antecedit fj TE
ovv iaxpixi] . Si quid video, non piomiscue veteres artium
nominibus aut addiderunt articulum aut dem- serunt. Addidisse videntur,
ubi de re sermo est, quae omnibus nota est, vel qbae definitione
prae- missa nunc innotuit. Demseruut articulum , ubi de re
nondum explicata, aut in universum de aliqua re dixerunt. Nostro
loco artis medicae definitionem Ery- ximachus dederat in
superioribus, ut de huius artis natura certio- res facti auditores
intelligerent, quomodo per Erotem ars medica dicatur gubernari.
Hinc iaxpixi ] verbum articulo insignitum est utpote definitum
atque notura, non insignitae sunt yvpvadtixif et yecopyia , quotam
uon ex- plicatae sunt atque accuratius de-- finitae: Die
Arzncikunst nua wird mei ner Ansiclit nacli gunz dur ch diesen
Gott 187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal navxi xurciSijAog ra xcd
Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza lyei zov- tois, ogneQ
iGcog xal 'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f 1 e i t e t , ani
gleiche Wcise auch das, vas Gy- mnastike und Georgia g
e- n u n n t wird. Ceteram Syden- liainium audi laudatum a
WolGo; Per E u d z w e c k der Arz- lieikuust i s t
Gesundheit, und der GymnastikStarke des Korpers. Ab er in deu
Mitteln, lvodurch b e i d e K u n s t e ihren Ziveck zu erreiclien
suchen, indem sie der g u t e u korperli- cheu Anlage
uachgeben, und der schlechten e n t - gegen liandeln und sie
verbessern, sind sie ei nan- de i- ganz aualog. So hat auch die
Eigenschaft des Bodens Analogie mit dem Tempcrament des Kdr-
pers und die vershiede*? lien Gattungen von D ii n - gung mit deu
Nahrungi- und Anzueimittelu* Eia guter Boden gewinnt durch
eine homogene B e - handlung, ein schjechter wird durch eine
entgegenr gcsetzto Bchandluugsart bosser, und iindert se i ne
Icatur. Was iibrigens die M etaphcr von der L i e b e lietfifit, so
brauclit mao diese in d e r Land wirth-r" scliaft auch h e u t
zu Tage* Auch wir sagenreinBaum, einePflanze liebtdiesen, - 1
i e b t j e n Boden. naxa tavxa £xet xov- XoiS h. e, arti
medicae et iis, (|uae gymnastice et georgia ap- pellantur. Pe xaxpc
praepositionis significatu vide annot. p. 41. Paullo infra eodem modo p.
187. E. xal iv pov6ix\ \j 6t) xal iv iaxpixy Xal iv xoiS p:AA
oiS itd6i sc. artium nominibus sive terrestrium sive
divinarum. cjSirep iticoS xal 'Hpa~ x\f ix o S. Heraclitus
Ephesius Ut morum asperitate, ita orationis dura quadam obscuritate
insignis, Schol. ad Piat, de rep. VI. habet 'HpdxXeiroS , BaSiurvoS,
9 Ecpe- OioSy pef'QtA.p<ppGDV yeyovwS xal v7tepo7txrjS Ttctp
oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex brevi- tate quadam dicendi, tum e
ne- glecta singularum orationis partium iunctura orta est, ut Ari-
stoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur ea ipsa de caussa Heracliti oratio
cum maris fluctuatione comparata esse, qnae cum innu- merabiles
undas exhibeat, ut sen- tentiolas illa, neqoe finem neque initium
undarum discerni pati- tur. Lectorem igitur Heracliti, ne mole
seutentianyn quasi fluctu undarum immergatur ( fl? xd p?}
(tnojtviyfjvai iv avfcS), djjXiov XoXvpfit/TTfv esse debere
Socrates censuit, Ut quqsi brachiis validis, fi. e. interpunctione
posita, con- tinuum tenorem discerneret ac disiuugeret verborum,
jJtjAioi XoXvpfirjxai celeberrimi erant plurimumque natando
pollebant, vide Wachsmuths Alterthumsk. II. 1. p, 404. , qui
laudat piog. Laert. %y 22. 9, 11, Ipterpun- ctionem omissam, nop
verba ipsa obscuritatem illam effecisse , ut clarius appareat,
fragmeptum lau- dabo Heracliti, quod in dissert. txel tois ys
QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P, qn]al, StawEQo^ov avrb «fap
tvficpiQSO&ai, &&*<) ««f/ V iav roiov re x«l fi»» S'e
™AA>7 aAoyt'« «r de Samo -Thraces nnminibns ex- plicare
studnit Schellingios: iV to dorpov povvov MyedSai ovx tiitet xal
i&fAtt Z)/ro? ovopa. ro i \y yap, <pi]di,
Statpe- p&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid Heraclitus
o CxuzilvoS his verbis exprimere voluerit, et quomodo
Kryximachus eius verba explicaverit. Medicus nimirum de musica
loquens verba illa laudat ita, ut non nisi de re musica dicta
intelligeret, i. q. ex additamento perspicitur, quo Siatpcpd piva
explicat p. 187. B. rov o Sio s xal ftapioS atque e subiecti
mutatione. Ap- poviav nimirum reo ivi Eryxi- machus substituit.
Heracliti autem voluntas haec videtur esse: Das Eins ist in sich
selbst entgcgengesetzt Eins , wie die Eiuheit des Bogens und der Lyra h.
e. das Eins ist nicht absolut Eins, sondern momeutan
zusamraenge- seut aus Gegensatzeu, wie die Eine Kraft des Bogens
(Schuss) momentane Verschmelzung ist xwreier Gegensiitze,
oder der Eine Klang (Accord) der Lyra momentane Verschmelzung
mehrerer Uissouanzen. Non recte autem, ut videtur, 'interpretes to
fV totam rerum univer- sitatem significare censucruut, neque recte
Simplicii testimonio ntuutur ad Aristot. Pbys. p. 11» A. iveSeixwxo
Si (sc. HpaxXti- roS') ti}v iv ty ytvidu ivap- fioviov piSiv tuiv
ivavuurv, quae senteutia ex enuntiato illo derivata est, atque
eidem, tan- quam in basi, innititor. Proba- tur hoc
Plutarchi testimonio Do animi procreat, p. 1026. ^B. 'IIpdxteiToS
SixaUvxponov ap- povhjv xodpov, oxgdS xep Av- pijS xal ToSov.
Erostra autem in dicto Heracliteo aliquid mu- tandum censuerunt
Astius , Ba- stius, alii. Ad Hcracliteae dictio- nis exemplum supra
laudatum ut revertamur, videtur Schellingio interpunctio ponenda
esse post ovxiSiXei; nobis haec verborum dispositio placet: ir 10
dotpov povvov AiyedSai ovx ISitei xal l$i\n ZtjyoS ovopa.
Absolut Eins ist nur das W e i s e , Absoluta unitas nostrae
rationi repugnat, eam repugnantiam ita expressit Heraclitus, ut
diceret: es will nicht und will Eins genannt sein der Name
des Zeus. Audi Goe- thii nobilissima verba, quae si- milem rationis
repugnantiam fe- licissime describunt - AVer darf ihn nennen?
Und wer bekenncn: Ich glaub’ ihn? Wer
empfinden Und sich unterwindcn Zu sagen; ich glaub’ ihn
rycliU. yiyovcv V7t d TrjS pOV- dtxijS tixrV*- Vulgo
addi- tur V dppovia, quod addita- mentum per se spectatum
non_ habet, quo offendat. Saepius enim subiectum e
praecedentibus repetitur, non tam augendae gra- vitatis caussa,
quam perspicuita- tis. Sed non agnoscunt nostro loco XXI. codd. 7/
dppovia verba, fioviav ipdvca SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n
tlvcu. aX£ 1'aag toSe ipovksto Xiyuv , on ix diacpt- B gofiivav xgotegov,
rov 6 |eog xal ftagtog , 1'xuru vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg
(lovaixrj g xi- %vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov
oj-iog xal fiagiog agfiovla av ity. rj yag agfiovla evfupavla lari,
Cvfupuvla ds ofioXoyla zig' f>(ioXoyiav ds Ix Sux,- <pego[isvav ,
sag av Siacpigavzai, advvarov tlvai' dta- (ptgoiitvov ds av xal firj
ofioXoyovv advvaxov uQuoOai. igitnr cnm Bekkero,
Stallbaamio, Rukkerto delenda curavimus. De verbis insequentibus ov
yap 8tf nov vide annot. p, 85 et 98« rj yap ap povia*
Bene Schleiermacherus in conversione: Denn Harmonie ist Zu-
sammenstimmuug, Zusam- mcnstimmang aber Ein- tracht; Eintracht
aber kann unter entzweitem, solange es entzweit ist,
nnmoglich s e i n ; und das entzweitenicht e i n t r a c h- tige
kann wieder unmog- lich ausammeiutimmen, dZfnep ye xal 6
fivSpof* 8ensus est verborum : quemad- modum, ut hoc unum
exem- plum commemorem, rythmns , . . Indicat igitur yk
particula, plura exempla afferri potuisse, quibus res probari
posset, unum sufficere, vid. annot, p, 88. 8ievrjvey pkv wy
xtpoxe- pov. Ante 8 levrfveypkvoov omnes \ fere codices ix
praepositionem habent, quam cum tacide omisis- sent interpretes,
Riickertus solus exstitit, qui in verborum ordinem revocaret. Sed
dubito, num ali- quo modo excusari possit. Aut repugnandum est
codicum aucto- ritati, atque ix e verborum or- $
\ a dine tanquam inutile additamen- tum expellendum,
aut scriben- dum est ojsxep ye xal 6 /5uS- poS 6 ix tov rorato??
xal fipa* 8 ioS, ix 8 iEV 7 ]ytypkvojv itpoxe- pov , vtixepov 61
6po\oyrj0dv toov ykyovev. In sequentibus codd. non pauci habent
"Epasta xal opovoiav aAA^Aozf , quae lectio unde orta sit,
haud diffi- cile est ad intelligendum. Ni- mirum scribae seducti
sunt vi- cino ipnoieiv verbo, ut dativum pfo genitivo exhiberent,
quem nunc novem tantummodo codd* exhibent. tyAozf autem, ut
et Riickertus vidit, non satis commode explicari potest; aut igitur
«AAr/Aiwv scribendum est, quod in textum recepimus (de ipnoieiv
vid, annot, p. 102.) aut exhibendum avxoiS y cuius vocis ne unum
quidem in codi- cibus vestigium apparet. xal iv pkv ye ctvty
ty 6v6x a 6 et x, r. A, Stallbau- mius ad h. 1. annotat: Jn
ipsi* rationibus musicis , h, a. in har- monia et rhythmo t nullo
negotio ait cognosci et animadverti posse X a i p a) x ix d , h. e,
quae sint consona et congruentia : simplices enim illas esse et
quae non pa- tiantur discrepantiam aut diver- t s itate m ullam i
sed in usu et ex- r —a' / &gitzg ys
xal o $v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov,
v6zsg ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c yovs. rrjv SI ofiokoylav ituOi
zovzoig, agxf g IxeI fj latQLxrj , lvzav%a y (lovtSixrj EvrlftrjGLv,
"Egazu xal 6fto- voiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa' xal lazw av
fiovtSixt] nzgl agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav Imazyfirj. xal Iv
fitv ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal gv&fiov ovdev
Xakenov ra iganixa Siayiyvbi6xuv , ov Se 6 SiTtXovg 'Egag ivzccv&u
ncog ttinv’ ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s dv&gw- ercitatione
musices -plurimum in - ter esse , quo modo illis utaris , atque hic
cerni vim duplicis il- lius Amoris , coelestis et vulgi- vagi* Mira
est sententia , fateor : sed non sine caussa Eryximacho tributa*
Ineptit enim nunc acer- rimus iste Heracliti cavillator adeo , ut
propter inanem illam sophistarum imitationem misere vapulet .
Perperam igitur Schiitzius haec : ovSh 6 $iit\ov S *E p oo S ivi av$ a
irtuf idtiv delenda iudicavit. Isimirum non intellexit vir
acutissimus homi- nis ineptias. Non rectius Plato- nis verba
Schleicrmacherus inter- pretatas est io eonvers. p. 408. Und in dem
Aufstellen des Wol- lautes und des Zeitmaasses selbst ist es wol
nicht schwer, die Liebesregungen zu erkennen, noch findet sich
hierin jener zwcifache Eros. Hoc si dixisset Eryximachus,
merito vituperaretur» at vituperandus est Riickertus ad h. 1,
annotans: Ego nescio, quo hic stupore tenear, cui, ut ineptias videam,
plane non contingat. Nihil mutaudum est, neque quicquam e
verborum ordine expellendum, sed rectiore explicatione opus est
enuntiati, quam a nemine hucusqde repertam esse miror. Verba
nimirum ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci yrooS 1 idtiv
elliptice posita 'sunt, atque supplendum e praecedenti- bus est
£tfA£7roV. Mens Eryxi- machi haec est: In derblos schematischen
Aufstel1ung der Harmonie und des Rhythmus ist es nicht schwer, die
erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros
'hier irgend Beschwerden. Quae sequuntur, optime cum hac verborum explicatione
conveniunt. a\X' iiteidav 6iy itpoS rotis 1 ctv$ ptortovS x.
r. X. Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor
den Menschen Wollaut und Zeitmaass in Anwendung brin- gen soli;
quae si mens fuisset Eryximachi, scripsisset haud dubie iv
dvSpooitoiS. Ficinus non sa- tis explicate, sed Schleiermachero
rectius, ut videtur, verba inter- pretatur: sed tunc demum, cum ad
alios rhythmo et harmonia est utendum. Nobis Eryximachus de
rhythmi' atque harmoniae usu eo loqui videtur, qui hominum
utilitati inserviat. Rectissime Matth. Gramm. plen. J. 591- p.
1180. seqq, ita de ifpoS praepo- sitionis potestate disputat, ut D
jrovg xara-/Q^<S^ca Qv&fiai te xal ccq/iovm tj noiovvtu, o &rj
fuloTtouav xcdovtiiv, rj %qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7ie- jro»;fi£votg
( uiketii re xal fierpoig, 3 bi) ncudeia Ixlq&rj, Ivrav&cc dt]
xal %oAenhv xal dyct&ov SrjfuovQyov dei ncihv yuQ ijxei 6 aviog
loyog, o« rofg n'tv xodfiioig plerumque dxoftEiv verbi notio- nem
loquentia animo obversari diceret. Possis igitnr nostro loco 7 t
poS TovS avSpodirovS Graece explicare: itpoS ti/V xgjv av-
Spamwv utpiXeiav dxoitovvtfc. o 81 } peXoit oit a v x a
- Xov 6 iv . His verbis exemplo usas est Mattii. Grarom. plcn.
§. 475. C. p, 891», quo probaret, pronomina relativa iu explicativis
enuntiatis haud raro ad praece- dentium nominum genus confor- mari.
Interdum ad sequentis nominis genus effingi pronomen, notissimum est.
Utroque dicendi genere, quorum alterum accuratius, alteram elegantius est,
Latini quoque usi sunt Vide sis Kriiger, de Attractione Lat. Liug.
$. 56. p. 129. o Si) TtaiSeia cfr. Piat, de rep. If. p. 376.
E. c. XVII. TiS ovv ?} naiStla ; T/ x a Xt7t6v evpeiv piXtico
ryS vito tov noXXov xpovov Evpij- pEvrjS; i.6tt Se 7tov 7 } p\v
ini yv/tvcttitix?/, ij 8 ini vxf/ povdVHjj. Adde de
7tai- StiaS notione verba Waclismuthii in libro; Hellenische
Alterthuras- kunde Th. II. Abth, II. p. 4. Recte ad h. 1.
Riickcrtos, Omnis, inquit , institutio liberalis apud Graecos duas
habebat partes, y v- /iv adnxijv et povdixijv, quarum illa ad
corpus pertine- bat, haec ad animi culturam , at- que in poetarum
maxime carmi- nibus legendis ediscendisque versabatur, addita
sonorum modorumque arte . Ceterum ne offen- das in temporis mutatione,
cum supra o 81 } xaXovgev , nostro loco o 81 } ixXy&rj dicatur:
illud est: vias man nennt; hoc signi- ficat: was man gewohnlich
nennt s, Mas man zu nenuen pflegt. ivT otv 5 a 87 } xotl
£aA£- 7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa 8 iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum
exspectabam equidem ivxavSa 81 } xat goAaroV, ut ad verba respiceretur
ou<$£ o SiicXovS EpoiS ivravSa ncoS itirtv. Nam ro
SiayiyvGjdxEiv theoriae, quam vocant, ut medicae (vid. p. 186. D.
init,} ita poeticae artis cou- venit. Nostro autem loco non de
theoria poeseos sermo est, quam Eryximachns tetigit verbis iv piv
ys avty ry dvdraCEi X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati
accommodato, ut haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum
conversio haec: Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum Nutzen der
Men&chen in Anwen- dung bringt, — da macht der zwiefache Eros
grosse Beschwerde, und es bedarf eines tuclitigcu Pruktikers.
naXtr yap yxei 6 avroS X oyoS, Riickertus ad Pausa- niae
verba liic respici docet, quibus praecipiatur: iis tantum AMATORIBUS
obsequium praestan- ziov av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro oi
(hjjtm ovze g, Sei xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav
"E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b xaXbg, b Ovquvios, b rijg OiiQavlag
MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag , b IlccuSt]- E ( tog , ov Sei
evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v TtgogqiiQij, dum esse ab
amasiis, qui et ipsi virtutem colaut, et ad eam co- lcudam amasios
adhorteutur. Hioc factum, ut Eryximachi contortiorem censeret et obscuram
et subineptam orationem. Certis- simum est autem , praeceptum
medicorum ab Eryxiraacho tangi, quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS
tols 6oopaoi, rols ply dyaSol? ixddrov tov dooparoS xal vyut- roiS
xaXov x a ptfe6$ ai *dl xal tovtq Idxiy y co ovopa tu laxpixuy ,
%oiS 61 xaxols xal YodcoSedty fddxPOY re xal 6ti dx<xpidT£iv>
ei yeXXei ris texyi- xoS. elvai. Mens Eryxituaclii haec est- ut
illic medicus corpori , ita nunc poeta sive magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM,
atque bene moratis, et quo liant meliores , ita prospicere, ut nulla res,
cuius laude corrumpi possent, laudetur, o trjs Ov parias
Mov-r 6t]S "E paS . Haec verba cave ad praecedens
"Ep&ta verbum referas. Pertinent potius ad ro
Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv, quae nomina e praegressis facillime
eruuntur. Ov%oS autem e generis haud rara assimilatione, de ‘qua
vide annot. p. 129. positum est. Sensus est : Gutgearteteliing-
linge zu beriicksichtigen und ihre naturliche Neigqng zu bewahre»,
darin besteht das Wesen des Eros der Urania* Vide etiam au- uot. p.
126. o' Sfc TloXvpviaS. Poly- , hymniam Musam cum
Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyxima- cho nemo non videt. Iam
quaeritur, quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem
si- li i fica t; possis igitur ea de caussa illam comparationem
institutam putare, ut cum AMASIORUM multitudine, quae a Pandemi
asseclis ametur, illa carmiuum multitudo comparetur. Possis etiam,
quae Riickerti sententia est, ita judicare, ut numero abunda ntiora
rarioribus viliora censeas. Neutra explicandi ratio nobis nunc placet,
neque credimus, Polyhy- mniam nostro loco carminum mul- titudinem
denotare. Agitur de Jiarmoniae atque rhythmi mota- tione, quae
iusto saepius in car- minibus admissa TloXvpviaS nomine insignitur. Ut
igitur Ilar- 6)jpov asseclae ab uno amusio ad alterum transeunt, non
virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quae e varietate amatorum oritor ,
ita poiitae, asseclae llav6i)pov , qui HoXvpviaS £,vvtpy6$ est,
sigui- ficautur harmoniae atque rhythmi varietatem captare, aurium,
non animi oblectamenta. npoScpipEiv oU dv 7tpos~
(pepXJ. Vulgo male olS ar TtpoSiplpoi. Minus accurate haec verba
Ficinus reddidit ! cui summa cautione indulgendum est , ut
voluptatem quidem homines hau- riant , incontinentiam vero devi-
tent, , Sensus est: quem, qui*? 1 twreg av zyv /xev ySovyv avzov
xagjtd<S7]zai , dxolu- clav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/ , tog xtg iv ry
yy, triga xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv im-
ftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv xagnddao&a*.
xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal iv rotg ctlXoig ndai xal roig
dv&gaittiotg xal _ toig &tiotg, xu\r' ot Sov Jtagdxti, tpvXaxztov
ixdztgov xbv’'Egcoxa’ 188 ivtazov yug. bus adhibetur cunque,
magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavi- tate quidem eius
fruatur, qui eo ntitnr vel poeta, vel lector, sed turbas
devitet atque ordini* cor- ruptionem. Harmoniae autem atque rhythmi
commutationes le- gibus artis poeticae probantur ita, ut paucis
quibusdam in locis, quibus conducere possint, modice admittantur v.
c. in exprimendis animi allectibus. Iu sequentibus ad xapjtGjdrjxat
pronomen indefiuitnm subintelligendum est, qnod et ad poetas et ad
lectores referatur. Ad poetas refertur ita, ut artis poeticae opera
componendo, ad lectores, ut eadem legeudo sibi cavere moneantur, ue
rhythmorum atqne harmoniae ordinem concinnitatemque turbent, vel non
satis recte agno- scant. Clarior res fit exemplo, quod Eryximachus
statim addit. Nimirum artis coqninuriae deli- cias medicis in
universum pro- bari negat. Interdum tamen li- cere ait eas delicias
hominibus commendare, quae et delectent et damni nihil
aderant. xa& o6ov itapeixei. Convertit haec verba
Stallbaumius: quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in
annot. ad Piat. Polit. II. , p. 574. E. 6p 6* uvx anobtiTaatkov,
o6oy y av bvvapiS irapeixq. Ceterum verba sunt non pauca, quae
omisso subiecto suo transitivam vim amittunt, atque ut verba
imper- soualiu adhibentur. Quem usum huius verbi cqm non notum
ha- berent librarii, factam est, ut in eius scriptura libri non
consen- tirent. Bodl. enim aliique codd, itapijxEt exhibent.
Ceterum con- ferri iubet Riickertus ad h. 1. Thucyd. III, 1,
TCpoSfioXcA iyl - yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov , onxf
icapeixoi. Soph. Philoct. 1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l TCpoS ta
xovd’ hcr\ eE, pot ita- peixot. xa\ rj tcov eo p cov tov
Ivi- avxov 6v6x adiS, Schleier- macherus exhibet in convers.
p. 409. Die Anordnung der Iahres— zeiten und der Witterung.
Fici- nus verba convertit ; Anni tem- porum constitutio. Neutra
6v- OxadiS nominis conversio nobis nunc placet satis ; verbum
desi- deramus potius, qno significantius exprimatur , de finibus
atque de initiis anni temporum hio agi. Nimirum consentiunt medici
, nihil perniciosius esse corpori hu- mano animalibusque et
plantis, quam subitas coeli mutationes, Cap. xm. '/Sarti
arcti rj twv wQiav tov Iviaircov OvtSraOig /is- 6tf) laziv
IXtUpOtfQUV TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv ICQOg a IX>;?. a tov xoOfiLov
tv%\) "EQcnog 8 vvv St] lyu tk tyov, za re &EQ(itc xal tu
ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal cp- l toviav xal xqkClv AajSy CwcpQovu,
jjjactc yigovTu tvetij- v. c. si frigus acerbissimum se-
quatur subito aestus ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum .medicum
non tum / de ipsis anui temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte
coniungendis agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung,
Ver- biudung. xal dppovLav xal x pa- ti iv. Vulgo
omittitur xal ante apporiar positum , quo omisso atque commate post
vypa deleto sententia verborum haec evadit : Si calida et frigida
houesto amore consociantur, porro si sicca et humida harmoniam et
mix- turam aptam admittunt.*. Haec quominus probemus, vetant
a rvr 8tf iXeyov verba , quibus t d re Seppa xal rd ipvxpd
xai £,r}pu xal vypa arctius couiun- genda esse docemur.
Ceterum ad ea haec comparata sunt, quae de musica arte supra
dicuntur. Ut illic xo dS,v xal fiapv, tq tax v xal fipadv com-
memorantur, uostro loco habes rd Seppa xal rd if/vxpa t rd £rjpa
xal rd vypa. Kpatiif tiojippoov autem in re rhytii mica evpv^plar
gignit, quae eodem modo iuvenum moribus erudiendis inservit, quo, modo
sanitatem generis humani auimalium- que et plantaram progignit eve-
rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. p. 26* B.
ovxovr ix rovrcov copai re xal otia xaXd narra rjptv yi- yove ,
rcor re dnelpcjv xal rcbv nepas ixorroav £,vppi- XSerrar ;
tico cppova. Substantiva haud raro a verbis, e quibus pen-
deant, seiungi, ut gravitate ex- hibeantur auctiora* supra indicavimus p.
59. et p. 66. Pari modo a substantivis adiectiva disjunguntur,
cuius usus noster locus exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and
das Kalte, Trocknes und Feuchtes gegensei- tig des geordneten Eros
sicli er- freut, und es einer Harmonia und einer Mischung, namlich
einer ganz zweckmdssigen , theilhaft wird ... xal ovSlr
?jdixtjtiev. Aoristicum tempus praecedente tempore praesente i/xei
ne quem offendat, habet praeteriti fere potestatem yxeiv verbum,
cfr* Piat. Crit. p. 43* A. apri 6h jJxeiS 7f naXai ; kamst da
eben erst oder schou lange? Igi- tur ijxei epepovta idem fere est
atque ijve^xev. Proprium aotem aoristicum tempus in rebus, quas
experientia docuit, recteque praecipiunt grammatici , haud raro giav TE
xai vyiuav av&Qcoicoig xai xoig aklotg tcootg te xai cpvxoig y xcd
oijScv xjStxijdEV" oxav Ss o uncc xijg vPgsiog "Egag
byxQaxiexEQog ntgi xag xov Iviavxov agag B ysvtjrai , 6d(p&EiQS x e
xokka xcd •fjdtxrjtlEV. oi! xe yag koiftoi gidovOi ylyvEO^ca 1% xav
xocovxav xcd ak£ uvojioitt 7to?J.a [vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig
xai tofcf aoristum usurpari, ubi indicetur, aliquid fieri
solere. Eodera modo explicanda verba sunt, quae paullo infra
leguntur; 8 i e cp$ e i- pe v, 7f8 ixrj6ev . Alia ra- tio est Piat.
Phaedon, p. 84. D. xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i re 7 jpepa xcd qn\6iv
.. etenim ab aoristico tempore ad praesens subito transitur,
quoniam nunc non narratur, quid Socrates dixerit, sed ipsa eius verba
af- feruntur: Hoc audito ille cum subrisisset: Vae, in-
quit, o Sim mi a. Adde Piat, de rep. VI* p. 508. D. otav per, ov
xataXapnei ab/ $ eia. re xai ro ov, tls rovto dne- peior/rai (ac.
?j if> vx/f) evoi\6e re xai Eyveo avxd xai vovv If^erv (paLverat
. Quo loco quid anima facere soleat , aoristo, lo- qucntis de
animae conditione iudicium praesente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi
exempla afferam, lioc in universum tenendum est, aoristo et praebente
in eadem enuntiatione positis non eandem potestatem esse, sed
ao- ristum quod fieri soleat, aut quod factum * sit indicare ,
praesens tempus vel facti veritatem ex- primere, vel aliquod
iudicium loquenti? in se continere. xai d XX dv 6 pota TtoX*
\u v o pax a 4 Haec verba Corrtipta esse multi fuerunt, qui
annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus habet: Testes siquidem ex
/iis oriri con- sueverunt, aliique morbi permulti et vani brutis ac
plantis infia - sci. Igitur legisse eum Stall- bunmius censet xa\
aXXa noXXa )xal nocytola vodijpara* Schii- tzius scribendum
couiecit xai aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do Antid. p. 330. :
ciXX’ dv opoia. Astius aXX * axr opoia , quod Stallbaumio probari
video. Fa- teor, harum mutationum nullam mihi placere. Olim
scribendum putabam xai aXX * dvopa noXXci [ vo6rj pacta .] Ac v 067
) para qui- dem etiam nunc persuasum habeo glossema esse eius, qui,
cum recte intellexisset avopoia t ut et alii intelligerent, verbi
expli- cationem margini adseripserit* Memor autem Eryximachus
ver- borum erat p* 186. B. ro 81 dvopotov dvopoloDV huSvpei
xai ipa, ad quae respiciens avopoia dixit, ut simul ad in tGDV X
OtovTGOV supplendum sit avopoioov xov iviavx6v (opcSv . xai
tols $tjpiotf' t xai toiS epVtolS . Eryximachus cum supra dixisset
dv^pcbnoii xai xoli aXXoiS ZgjoiS re xai cpxnoiS, humani generis
nunc videtur esse oblitus* Verum licet medicis de re medica loquentibus
homines animalibus adnumerare : den thierischen und vegetabilischen
Korpern, xai ipvdifiat» Timaeus iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa -
cpvrolg * xal yag ita%vat xal %aXat,ai xal iQVtiSfiai ix Tckeovs^lag xal
axodplag Jtsgl aXXijXa zwv zolovzuv yi~ yvezca sp&zixcov , av
iitufziyfiq adzgav re q)ogag xal IvLavztiv agag adzgovopta
xaXzlzai. %xi roivvv xal ftvdiai itadai xal olg [lavuxij htidrazel —
zavza 69 l6zlv rj negl fteovg ze xal dv^gtbnovg jcgog t&XXiqXovg
C drfS Spodos • itax y V SpodoS XiovqoStjS. Hesych.
ipvdiftrf. vo - 6oS riS aepoS iitiyevopivT} toiS cpvtotS xa i
xapnoiS. Pro yi~ yverai pluralem numerum exhi- bet Stobaeus, quem
numerum Fischerus et Wolfius reposuerunt. Frustra. Naturae phae-
nomena quoniam verbis impersonalibus exprimi atque describi solent,
substantiva etiam, quae cum his cohaerent, ut infinitivi, quibus
deest subiectum certum, tractantur. Vide Astii annot. ad Flat»
Polit» p. 400. Adde Matth. Gramm. plen. $. 303- p. 603* ojv ire
tdnj p.7j xaXetr at. Fuerunt, qui haec verba delenda censerent; alii
eadem coniecturis teutarunt» Primus Astios monuit, meteorologiam et
astrolo-giam veteribus astronomiam appellatam, neque meteorologiam
antiquitus ab astronomia disiun- ctam fuisse» Id factum ideo, quod
astrologorum non solum erat, sidera observare, sed etiam
tempestatis mutationes, quae si- derum indicari solent vel ortu vel
obitu , praedicere. Quod autem, Stallbaumius ait, Eryxi- jnachus
hanc defiuitionem astro- nomiae addit, atque mox etiam defiuitionem
pavrixi}S\ id nemo inepte aut temere fieri arbitrabitur, qui reputaverit,
hominem sophistarum artibus assuefactum ridicule captare inanem
quandam doctrinae speciem atque umbram. Aliter nobis videtur de his
verbis iudicandum esse. Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut
imdri/prf adrpu>v re {popoiv xal iviavtcov copcov vocetur. Hanc
definitionem veram esse Eryximachus negat, astronomiam inidtTjfirjy
ip GJtixoJV ite- pl adrpav re q>opaS xal ivi avt air copaS esse
contendens. iri roivvv xal Svdiai TCadai . Haec est
xneliornm codd. lectio, quorum iu numero primus est Clarkianus.
Probatur ea lectio fiekkero , Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al
SvdLai aitadai ; minus apte, ut videtur» Non enim ita de
sacrificiis loquitur Eryximachus, ut singula quaeque sacrificia significet
intel- ligcnda esse, sed in universum sacrificiorum mentionem
facit» Convertenda verba sunt : Ferner auch alie Arten von Opfern
und das, woriiber die Mantik gesetzt ist. Memorabilis hic locus
est, quo veterum de religione iudi- cium continetur. Dupliciter
cum diis agi Graeci censuerunt, eorumque numina aut sacrificiis
adhi- bitis placare studuerunt propter vitae anteactae scelus , aut
pav- tixg usi sunt, cuius auxilio de deorum voluntate
certiores fierent, futurainque viam ad ean- dem dirigerent» Vide
Wachsmuthium, qui nostrum locum lau- davit ia libro; Helleniiche
Al** xoivavta — ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpv-
Xaxyv te y.cd TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvE- Gfrai, tuv
fiTj tls toj xoGpla ”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa tcrtliumslunde P. II.
T. II. p. 222. In sequentibus xavxa non solum ad verba pertinet ols
pavxixi } iitidxaxel , sed cliam ad Svdiai itadat. Recte igitur
Schleiermacherus in conversione: denn dies insgesammt ist die Ge-
meinschaft der Gotter und Mcn- schen unter einonder. Ceterum ut
melius intelligas, verba X avxa 6* idxlv i } nepl $eov* xe xal
dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi - VGQvtac immerito a Schiitzio in
suspicionem vocari : Eryximachi mens haec est: Ferner sind pun auch
alie Opferungen und das, wortiber die Mantik gesetzt ist dies zosatmnen
aber ist nach der gewohnlichen Meinung fiir' den vrecbselseitigen
Verkehr zwi- schen Gottern und Menschen cigentlich nichts anderes,
ais die Bewahrung und Htilung des Eros, Epi*Epa>xoS
tpvXa- xrjy xe xal tadiY. "EpcjS hoc loco generaliter positum
significat et malos et bonos affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes p.
188. C. fin. a 61 } nposHxaxxai xfi /tavxixp ini - Cxoniiv x ovi
" EpcoxaS xal la- rpeveiv. Adde p, 188. D. ubi 6 naS *EpG>$
legitur. nuda ydp 1 } adi fi eia. Nihil in his verbis comparet
le- ctionis varietatis. Mallem tamen abesset articulus, ut de
impietate in universum, non de impietate in certis quibusdam
actionibus Eryximachus loqueretur, cfr, p* 188 . D, fidXXov 61
nddav 6v - ra/nv fyei x. x. X. Paullo in- fra nadccv ij/itY
eVdaipoviaY. Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus, qtfam vulgo
non satis accurate interpretantur docti homines. Annotant enim,
Grae- corum (piXetY atque Latinorum amare haud raro rebus
actioni- busque ita apponi, ut quibus esse fierive solere res
actionesque indicentur. Merito autem quae- ritur, quid differat hic
qnXeiv verbi significatus ab aoristorum temporum usu, de quo p.
142« diximus, et quibus itidem so- lere aliquid fieri significatur.
cfr. Eugelliardtus ad Piat. Menex. p. 240. ed., Stallbaumius ad Plat,
de rep. VIII, p. 650. B., ed. p. 183. Matth. Gramm. plen. J. 602. 3
> p. 954. Aori- stum poni adhaerente notione s o- Iere verbi,
ubi de actionibus sermo ait, quae iam saepius factae sint, satis
notum. $iXeIy contra ad- hiberi solet de rebus, quae non tam factae
sunt iam saepius, sed quibus vim quandam inesso indicatur, qua necessario
fiant. Et quoniam quae necessario fiunt, saepias iam facta esso possunt,
multis in locis perindo est, utrnm aoristicum tempus, an tpiXeiY
cum praesentis temporia infinitivo coniunctum posueris» Sic nostro
loco, quoniam pestis Atticam terram saepius invasit, Eryximachus
etiam dicere pot- erat: ol xe ydp Xotjiol iyi - rOYXO ix T(k)Y
TOIOVXCDV x.r. A, Adhibito 9»iAeiV verbo haec eius voluntas est: Nam
pestis ea natura est, nt quae facillime ex hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv
Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov, xal 7tEQi yoviag xal t,avtag xal
xtTtltvzrjxbtag xal xeqI foovg. a 6 tj TtQogxiraxtai zy (uxvuxrj
inuSxontlv zovg exoriri possit et qaae seqq. Con- ferri
potest cum hoc <ptXeir verbi usus iStXeiv et fiovXedSat ver-
borum in rebus inanimatis ; sic v. c. legitur in Piat. Phaed. p.74. D.
ovxovv opoXoyovpEv, oxar x iS xi idcjy ivroijdy, oxt fiovXexai plv
xovxo, o vvr iydo opcj , elvai olov dAAo xi XGQV OVXQDY , Mei
8h XCtl OV dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A., quo loco non dubium est,
quin eadem rerum natura, quam cum instincta animalium
comparari licet, tangatur, ad quam etiam cpiXeiv verbum referendum
est. iav fiif x iS seqq. Notabis hic usum Graecorum in
collo- canda negatione a nostro disce- dentem. Nos enim, cum
non ipsam sententiam negamus, sed partem aliquam sententiae,
curam agimus diligentissime, ne negatio- ni» particulam collocemus
ita, ut cum verbo possit coniungi, recte facientes, ut opinor. Sic
nostro loco non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed asseritur aliquis X a P^
m c>ed$ai quidem, at non ta xo- d/iioo sed fc3 hxepa
"Epcoxi. Id nos sic exprimimus: Wenn Ie- mand nicht dem
gesitteten Eros folgt, sondern dem andern. Con- tra Graeci ita
amant negandi particulam cum coniunctiouibus ei, iav, oitGDS aliis,
arte coniungere, nt perspicuitatis illa lego neglecta breves certe
voculas, ante illam ponendas, post eam reii- ciant. Quod in pronomine
indef. xis maxime fit. cfr. Crat. p. 453* C. ei jirj xi xaXaS
ixe&q dictum pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell. VI. 4. % ei pij
xiS iaorj avtovopovS xaS noXeiS elvai. Non negatur ibi ro id
v riva, sed affirmatur xo prj iav. Pariter ante xal Tbucjrd. VI,
60. collocat: hceidev avxov cuf XPV el jxjj xal 6e6paxev x.x.X.
pro ei xal prj didpaxer. Quin etiam ante ipsam coniunctionem ib.
VI. 18. xov yap xpovxovxa ov jiovoY iitiovxa xis
ayvvexai, a?iAd xal prj oitaS iiteidi itpo - xazahafifidvei.
Riickert. d XXa xov Zxepov. Vulgo aAXct nepl xov ixepor, quod
ferri potest nullo modo. Illud in Vin- dob. 2. et apud Stobaenm
repe- ritur Ecl. phys. p. 24. Memo- rabile exemplum, quo
probatur, interdum falsum esse, quod codd. fere omnium consensu
exhibetur. d 6 r) 7tpo Sxlxaxrai. Schulthessios: Desshalb ist
es eben das Amt der Wahrsagekunst. Astius habet: qua in
caussa. Schleiermacherus : w o r i n eben der Wahrsagekunst
obliegt. Care * scribendum censeas, quod olim mihi in mentem venit:
d dij icpoSxhaxxai xy pavxixy ini- dxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia
- rpevei >o. d enim est: in welcher Beziehung s. und in dieser
Be- ziehung liegt es der Mantik ob, die Neigungen zu betrachten
und Heilung anzuwenden. xal idxtv av i ) fiiavxixj}* Spectat
av 'ad p. 188. C, xavxct o idxlv ?} Titpl $eovS te xal dvSpooTtovS
izpoi aAXyXovS xoi - varia. Definitur autem 7 f yar- Zixrj nane
ita, ut dicatur conci- 10 $ Ega zag xal largtvuv , xal
%6nv ccv f\ (mvzzxrj tpMag I) ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za
htiGzuGfrai za xazu av&ga>7tovg igaztxa , o6u ztivu ngog depiv xal
a<St- jleiav. orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv
8vvu(uv %vM.rjf}8tiv (itv 6 xag "Egcog, 6 81 sr egi tcc «ya&d
atra <Saq>go<3vvr]g xal Sixai oGvvqg caioze- Aovptvos xal xag
xal itagd. &solg, ovzog zrjv (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv
‘tjixiv tvSaifiovlav itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg
ojuXelv xal (pllovg uvai xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. —
"iGag E utv ovv xal lya zov * 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov
(itvzot, kxav yf liatrix esse amicitiae inter deo* et
homines eo» qaod sciat, quid ad procreandam et pietatem et
impietatem habeant in homines Krotes potestatis. Auctor definitionum p.
4l4. B. habet: par- XIX}], iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV OVTOS XOtl
ptXXoYTOS Zgjgj $V7]- tgo. Yerior haec definitio illa, quam
Eryximachus profert, quae ad duplicis Erotis naturam hominibus
inhabitantem comparata est. ovtu 7 Co\\t}y xal pe- yaAljn' seqq.
Convertit Schleier- xnachcrus : So vielfache and grosse oder
vielmehr alie Kraft besitzt Eros iiberhaupt... Errat iisdem paene
verbis usus Schulthessius» Ovtgj seiungendum est a verbis
insequentibus et ad totam enun- tiationem referendum : Hac ra-
tione multam habet ma- gna m q u e potestatem Eros» vide ad p* 58.
Sequentia verba ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS "EpuS clare docent,
Eryximachum, quoad eius fieri posset, se accommodare Phaedri
proposito voluisse: iyxco - pia&iv " Epcata . Idem
Pausaniam fecisse annotavimus ad p» 180» akX (X tt i^sXuiov , Oov
£q~ E. htaivnv ptv ovv dei tcolv- x aS SeovS.
xal aXXrjXot^ dvvapik- vovS opiXeir, vid, adp.4l., ubi
dvvaplvovS pro SvvatiScti rjpaS dictum esse censuimus. Igi- tur
participii accusativam accom- datum censeas ad ?}pdS prono- men,
quod ad opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem Buckerto, qui xai
ante tolS xpeitto6iv rfpeov SeoiS expun- gendum putat. Cohaerent
inter se xal aXXrjXoiS — xal xoiS xpeitrodtY tjjic&v SeolS ,
atque ea cohaerentia horam verborum ut, emineret magis,
dwapevovS a Platone scriptam est, non 6v- vapkvoit. xal
iyco. Ut Pausanias, ita fortasse etiam ego multa intacta relinquo. Tempore
praesente Eryximachus ntitnr, ut ad audi- torum sententias oratio
compa- rata sit magis, qui forte cen- seant, oxi noXXa
itapaXeixet ’Epv%ipaxoS, De insequendum verborum explicatione
liteidq xal rjjs Xvyyos xatavCai audias Fi- yov , c S
'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias iv va %xns
lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/ xal rtjs Ivyyos
ninavaca. jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on 180
Kal {iaX htu.v6u.to , oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov
stQOSEvtx&rjvai avry, agts fie &avfia£uv, el r 6 xo- <S[uov
rov amfiaxos htfovfiil rotovrcov s^ocpav xal yuy- ycch6[iuv, olov xal 6
straQfios ItSti. stavv yay ev9vs istavGato , htEtZSrj avra rov strayfiov
stgosrjvEyxa. Kal rov 'Eqv^iiuxov , r £l 'ya&E, cpavat,
'JyiGzocpuvEg, oya tl stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal
tpv- laxa (te rov loyov avayxatfivs yiyvEG&ai rov
esavrov, scherum: Particula xal a Stephano ciici non debebat . Nam
Eryximachus ostendit, partes disserendi iam Aristophani susciiendas esse non
modo propter ordinis rationem, sed etiam propter ea, quod singultibus non
impediretur, quibus sedatis promisisset se verba esse 'de Amore facturum
. Prorsus eodem modo dicitur paullo infra olov xal 6 7trappoS idrtv,
ubi xai addito indicatur manifesto, non solum sternutationem hic
tangi, sed cetera etiam, quae Eryximachus praescripsit, remedia
singultus, ov fisvtoi itpiv ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i.
Dixerat Eryximachus p. 185. E. tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv,
dvaXaftdv n toiovrov, oVfp xi- vijoaiS av rijv f)iva , nrdpe. Vides
igitur, cur articulum Aristophanes adhibuerit rov ittap- fiov . h. e.
sternutationem eatn, quam praecepisti. (3sre pe £ avfidd,szv .
Haec est lectio codd, omnium. Bekkeros, Astius , alii, ia textum
receperunt «stf lp\ SccvftaZetv ea opinor de caussa, quod
prae- cipi solet, particulas non pati iuxta se positam encliticara
for- mam pronominum. Huius regulae rationem quoniam neque nos
perspicimus, neque ab aliis satia explicatam reperimos , codicum
auctoritati, quam mutandi libidini obedire maluimus. Sententiam
quod attinet, Stallbaoinias ad h.l. ridet , inquit , quae Eryximachus
disputavit supra p. 187. D. et E, Audi Riickerti annotat, ad h. 1,:
habet etiam Eryximachus, quod respondeat, non r 6 xod fiiov illud
appetere, verum r d axo— 6fiov hac ratione expellendum esse. Id non
facit respondentem Eryximachum , ne urbanitatem violaret i lectori reliquit
inveniendum , erant que inventuri f qui mores hominis nossent, facillime,
nec potest latere attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis
singultu quorsum spectet , secum reputa- verit » Vide Comment. de
Sympos. Platonis, ijtstdq avrdi . Ia aliquot 10
iav n yeXoiov tixys , ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal tov ’ AQiOtoipavr]
ytXcKSavta tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv- £l(ia%£ , v-al fiot, t6ta aggr/tu tu
fifnjfiLva. aXXa fir/ fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv
fisXXovtav QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag
av xigdos tfij xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa fir/
xatayiXuGui. BaXav y£, giavai , a ’Agi<Sto<pa- codd. avnj repentur,
quae le- ctio 'eorum sedulitati debetur, qui pronomen ad trjv Xvyya
re- ferendum censuerunt, Riickertus ad h. 1.: Non habet, iuquit,
neu- trum hoc, ad quod reteratur. Nolim avtdj neutrum putare.
Quamquam enim Eryximachus r ijS A vyyoS nomine usus est, tamen hoc
loco quasi tov Xvy/iov dixisset , pOSUit CtVTGJ. iav ti yiXoiov
etayS, Sensus est: Vide v , quid agas. Rides sententiam meam,
qui ijiso nunc dicturus es, meque custodem esse iubes orationis
tuae, ai quid ridiculum forte proferas, cum tamen liceret tibi
securo tutoque orationem habere. i£,ov 601 iv elprfvy
Xi- ysiv Grammatici in i&ov, 6iov, aliis participiis
nominati- vam absolutam agnoscant. Haec participia, quoquo modo
explicaveris, nam certa explicandi ratio non reperietur in dicendi
formis, quae quotidiano usu loquendi quasi sancitae cum linguae
legi- bus minus conveniunt, recte cum nostratium formulis
comparantur: vorausgesetzt, dass; angenommen, dass. ov ti ,
ilt} yeXoia efarm. Stalibanmius ad h. 1. rectissime: Hoc ov 1 1 ,
inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sen- tentia haec est : Noli
me custodire: nam ego vereor de iis, quae nunc dicturus sum, non
quidem, ne ridicula proferam — hoc enim lucrum foret et
comicae Musae nostrae consentaneum, sed ne de- ridenda. Revocandum
est ov Ti — aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov Xiyco oti aXXa,
de qua vide annot. p. 66. Verba convertenda sunt: Gieb auf mich uur
nicht so genau Aclit, dena ich iiirchte mich, liber die gestellte
Aufgabe spre- chen zu miissen, nicht etwa, dass ich durch meiue
Worte Laclien erregto, sondern dass ich Thd- rigtes vorbringen
konnte, ^ ytXoxa xaray
iXa- 6ra* a Dicitur yeXoia ex mente Aristophanis, qui narrat de
aliis, quae risum moveant, vel omnioo res alienas in partem profert
ri- diculam. Qua in rp quum non- nihil sit artificii positum,
tota- quc comici professio in co ver- tatur, ut moveat risum
audien- tibus , non timet hoc , immo in lucro .ponit, si
contigerit. At ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui in- genii fatuitatem
prodit, sunt enim deridenda. Est igitur verum discrimen, quod hic a
poeta ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi htxpsvfcsaftcu; nXXa
TtQogsys tov vovv xcci ovtGf$ Isye dos dcoOcov loyov. iGas (isvtol> av
86 C ffOt, U(pTj(JCO as. Cap. XIV. Kal \Lrp>>
iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov 'jiQUStoyavrj, SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y
y Cv re xal JlavGa- mologia , at vulgari in usu non
observatam, cai xaxaykXadra quidem semper sunt deridenda, cfr,
infra p. 198. C. ivEVorjda tote apa xaxaykXatfxoS c ov. Apol. p.
28. D. tva pi) iv$a8e pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl xopcovidi.
Ibid. p. S5. B, xa- 9ykXadxov xrjv noXxv noiovv - teS ; ysXolov
vero est quodcun- que risum movet, sive consilio eius, qui facit
dicitve, sive im- prudentia. cfr. iufra p. 199. D. yeXoiov
ipcoxijpa i. c. xaxayk - Xadxov p. 213. C. ubi Aristophanes yeXoioS
dicitur h. e. dedita opera risum excitans.» Haec Iliickerti verba sunt
optimo de discrimine yeXoiof ct xaxa- ykXadxo? verborum
disserentis. Minus bene V. D. addit: Itaque, et quum minime sit
huius loci vocum discrimina explicare , ne- minem esse puto, quin
Prodici in his agnoscat disciplinam, modo sit memor eorum, qnae de
hoc homine discimus e Protag. p. 337. A., p. 341. A., Crat. p.
384. B. , Euthyd. p. 277. E» , Lacii, p. 197. B.Vide Conuncnt.
de Piat. Symposio. fiaXcov y e — oZei kxcp e v~
B,e6%ai; Suidas Tom. I. p. 414. ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai oZei
; itpoS tovS xctxov xi 8pa - davtaS xol\ olopkvovS lx(psv- yetv.
IIoc proverbium e rc militari petitum est, uh! aliquis misso in hostes
telo tela hostilia vitaturus recedit. Riickertus proverbium hoc modo
reddendam censet: Ia, nachdem du ab- gcschloss en, denkst du
davou zu kommen. av 8 6 B,xi po t. Si videbi- 0 tur h. e. si
rationem reddideris, qnae' satis mihi et sufficiens esse
videbitur. xal /u}r >elxeiv tov 9 Api6r o cp dvtj.
Aristophanem intelligi comicum poetam, comoediarum lepidissimarum
auctorem, extra dubitationem positum est. Eius oratione
recreabuntur, qui Pausaniae Eryximachique ora- tiones legerint. Nam
et a di- ctionis elegantia pulcherrima est, et ad rem si respicis,
tanta referta venustato, ut dubitari ne- queat, quin multam studii in
ea conscribenda Plato consumserit. Orditor autem Aristophanes
a praedicanda Erotis laude , cuius naturam non cognoscere
possit, nisi qui prius in hnmauam na- turam inqnisiverit atque in
7ta - $i}f.ictTa eius. Aliam, atque nunc sit, olim fuisse narrat,
quatenus quidem non duplex fuerit, sed triplex antiquissimis
temporibus genus humanum *Av8p6ywov enim , cuius non nisi nomen
re- liquam sit idque ia igaominia 150 IIAATSINOE
vias tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it avraitatSt
rtjv rov ’ 'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti cdoftav 6-
positam, tertiam genas exstitisse viribas pollens, felicissima
inte- gritate gaudens atque tanto ani- morum superbia praeditum,
ut ipsos deos aggrederetur. Iovcra autem ceterosque deos dia
haesisse inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringe- rent,
habuisse. Tandem lori in mentem venisse Androgyni dis- sectionem,
qua eftecta Androgy- num periisse, neque remansisse nisi segmenta
hominum, quae amissae integritatis desiderio ve- hementissimo
agerentur. Huic desiderio AMOREM nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi
partem suam pars repererit, ab eodem nunquam discedat. Igitur summorum
bonorum hominibus auctorem Erotem esse, ntpote qui ad pristinae integritatis
felicitatem homines perducat. xal /i 7} y 9 co ’Epv Zlfiaxe*
Male ad h. i. Ruckertus : Videntur , inquit, ad Eryximachi verba
respicere xal prjv particulae , ut oppositionem contineant . Quum
enim spem faciat Eryximachus , fore , ut dimittat Aristophanem, hic
tale quid videtur dicere : Cupio equidem me dimitti, sed tamen
vereor ut fiat, sam enim aliam viam a vestra diversam
ingressuras* cfr. Menex. p. 234. cap. 2. init, xal prjv , co
IMevIUeve, TtohXaxv xivSvvevei X. t. A., quem locum laudo, ut
lectores tutius de Ruckerti ex- plicatione 7tal pijv vocularum
iudicent. Ut nostro loco, ita ia Menexeno xal pjjv nihil nisi gra-
vem affirmationem exprimit. Astios habet: ac nimirum, quod nullo
modo probari potest. Unice rectam particularum interpretationem
Schleiermacherus exhibet in conversione: Allerdings. KaL expletivum est;
vide annot. p. 6. et p. 38, elrtitTjv. Bekkerns, quem secutus
est Astius , eliterov edi- dit. Stallbaamius cum audaciam eorum non
probaret, qui secan- dam personam dualem nunquam a tertia diversam
fuisse docerent (Elmsl. ad Arist. Acharn. v. 773» ad Eurip. Med. v.
104 1., Monk. ad Eur. Alcest. v. 282. ) , hrc certum esse annotat:
apud sciW ptores veteris dialecti Atticae se- cundam personam
saepenumero in — ttjv terminari. Schaeferas, quem laudat
Stallbaamius ad Schol. Apoll. Rh. p. 146. anno- tat: prisca
graecitas dua- lpm certe activi in his temporibus videtor bifariam
flexiss e etoy, et ov et kxr\Y , itrjy , sed poste- riorum usus
temporum, grammatica subtilius an argutius exculta, termi-
nationem in oy assignasse secundae personae, in tjv tertiae.
Secundae personae in Ttjv terminatio saepius reperitur apud
Platonem, exempla collegit Stallbaamius ad h. 1. cfr. praeterea Duttm.
Oraram, plen. Vol* II, p. 417. Matth. Gramm. T.I. $. 195. n. 1. p.
347. itavt anadt — ovx y 6$ij- at. Negat Aristophanes, Erotis
vim hominibus satis notam esse, atque aperte indicat, pror- sus
aliter, atque Phaedrus, Pau-i. i (itvol ys (liyiOz av avtov lega
xmttGMvaOtti xul (ta )- (lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv
(ityiorus, ov% agnig vvv sanias, Eryximachus dixerint, de
deo sese dicturam esse. Idem paullo supra disertis verbis ex-
pressum est : &AAy yk Tty , in quibus verbis nou urbanitate, ut
Hiickerto videtur, sed ironia At- tica factum est, ut aAAu verbi
austeritas addita 7ty voce miti- garetur? ejn weuig anders. Hac
ironia Socrates haud raro usus est, ut summam rem tan- quam minutam
exilemquc profer- ret. Exemplo est PJat. Prot. p. 828. E. vvv
itkitttdpat, 7tfo/v (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ij- Aov , oti
tlpooxayopas fiqtSkoS I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noX- Aa xavxa
i%E$ida%Ev, ipol ydp 6 oxov div ctv-. SpooTtoi. Haec est
codd. le- ctio plurimorum, Wolfius e tribus ol dv^pcJ7COi in textum
recepit, ©e gerere in universum hic ar- poortoi dictum putari
senten- tiae ratio non patitur, neque vero cum contemtu homines
commemorantur h, 1. Nihil igitur esse vides , quo possis articuli
defectum explicare. Fortasse scribendum est dv^pco7toi eodem modo,
ut avSpcDTCoi nunc haud raro apud Platonem reperitur. cfr, Symp. p,
206. A. ooS ovSkv ye aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpco- jcoi, ad quae
verba Stallbaumius annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum
usitata est in eiasmodi vocabulis, qualia sunt avjjp, adeAtpos,
yvvrj, yij , aliis, quum de genere posita sunt. Vi- giuti codd.
articulum addunt. Fortasse et 1». 1., quoniam dege- nero humano
verba non puta- mus accipi posse, av$p<*)itoi scri-
bendum est. De formae huius veritate vide Apollonium iu Bekkeri Anecd»
gr. II. p. 495. 24. apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dto- ptxrjv
peraSEtiiv xov J eis xo a , xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y* $pGD7TOS
aV$pG)7COS 9 OVXCJS XO ixepov Sdxspov idxiv. ixel altiSavd
fiev ol ys. Aptissimus hic locus, ad quem de ItieI vocis natura et
potestate, quid videatur, dicamus. Satis notum est, atque exemplis
ubivis obviis probatur, etCel nou solum consequentiae, verum etiam
caussae notionem habere. Eius notio- nis origo est liteita vox ,
quae loquendi usu, ut fit, iu breviorem formam mutata ita adhiberi
so- let, ut temporis notio cum con- sequentiae caussacve
notioue commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporali-
bus daun et wann factum est caussale d e n n , et coqditionalo nv e
u n . Sic cap. XIII, initio ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV iviavxov
6v6ta6iS jtE6tij idxiv dpfporkpcov xovtoav x, x. A,, quo loco eadem
ixei vocis po- testas est, atque iitEixa . Ery- ximachus nimirum
cum dixisset, in arte musica et in medica du- plicem Erotem
reperiri, ita pergit : Hernach ist auch die Yerknupfung der
Iahreszeiten voli von diesca beiden. Non repugnabimus autem si quis
verterit; Denu auch die Verkniipfung cet. , quoniam in omnibus
artibus et re- bus duplicem Erotem reperiri dictam erat, quibus
verbis procedentibus efficitur, ut quod po- stea sequi dicatur, idem
illius 152 HAA TS&N02 tovtcov
ovdtv ylyveua itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta D ylyvs<S&ai.
€<fn yug &Eav tfnlav^ganotatos , Ixlxovgog te uv tav avftganmv xal
largos tovttov, av la&iv- tcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla
ytvEi eitj. lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv
8vvay.iv avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI
Se itgatov vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~
ftrjyazu avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veri- tatis, comprobet,
cfr. Apol. Socr. p. 26. D. jua At , c5 av8peS 6ixa6ta \ , inel rov
p\v t/Xior XiSov (prj6\v etvai , r i}v 8\ d£- A rjvrjv yifv. In
Alcib. II. p. 143. C. ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po - 8pa Seirov
Elrai ro jtpaypa, Ssre x, r. A., imi pro litEi8r\ scribendum est;
scribae enim inei vocis significatum non per- cipientes 6jj
addidisse videntor. Battm. ad h. 1. bteiSij 86 scribendum censuit»
Dubito, num recte. Adde Prot. 334. B. ei 6 f i$6\oiS hti xovS
mopSovS xal tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv (sc. TTjY 'H07tp0V)
TtOVXCL dnoX- A v6iv iitel xal r d iXaioy roiS plv <pvxoiS
anadiv Itixi ituyxccKOV x. r. A. Adde p. 181. C. d St rfjs
OvpccriaS rtpdSxov f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA* dfifieroS
fiovov — xat idnv ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS— in e ix a
izpetifivxipaS , vfipEGDS dpolpov , quo loco iittira con-
sequentiae notionem habere vi- detor. Dieser aber gehort zur
Urania, welche zuvorderst nicht Theil hat am Weiblichen, son- dern
bloss am Manolichen — welche folglich die Aeltere und ohne
Uebermuth ist. Antiquissimis eoim temporibus illis masculum genas
exstitit tantummodo, non item femininam» Adde p. 180. A. S! r\v xdWiov
ov povov JlaxpoxXov aA\’ apa xal xoay rjpcdcjv dnavXGtv, xal
iri ayivEiof, ineixa vecotEpoS Ttohv , <2s (p7]6iv n OpiipoS. Ad
nostram locum nt revertamur, litei temporalem potestatem ha- bet,
quo simul effectum est, at sequentes infinitivi e praecedente
finito verbo 8oxov6iv exaptaren- rentor. Sensus est: Denn mir
scheint, dass die Menschen durch- aus des Eros Bedeotung nicht ver-
standen haben, hernach, dass sie, wenn sie dieselbe verstanden
hatten — die grossten Heiligthiimer erbaut haben wiirden... Simillimus nostro
loco est Xe- nophontis , quem Stallbaumias laudat, Hell. VII. 1.
38» 7 tpoS dfe rovroiS xal ro rcor XPV~ lid.XGov7t\i}$oS dXaZoveiar
avxcp doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy vfivovpbrqv av xpv6rjr
itXdxa- vov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt tfxtccv napix^y*
fitiy t6r av avrov lepa. Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo aus
diesen Worten hatten manche Sammler von Mythologien ler- nen konnen
, dass Amor keine Gottheit war, die der Volksglaube zu cincm
Gegenstaud der einge- fiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai
yficov cpvOig ov% avtrj rjv Sjiteg vvv, dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ
rgla fjV ta yevrj ta. TtZv dv&QUXMV , OVI «S**0 vvv 8vo , u$Qtv xal
frijlv, ctXXa xcd tqItov xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E
ov vvv ovofia Xoatov, avto 81 ^tpavuStai. dvdgoyv- vov yciQ tv tore [ilv
ryv xal sidog [xal Svo[ia ] , au- tpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal
frqXeog, vvv 8’ ovx Sotiv aXX’ y iv oveidei ovo[ia xeljxtvov.
exeircc ilern mehr ein Abstractam , das den Dichtern seinen
Platz im 01} rap zu danken hatte. Ceteram xaxadxev adai aoristicum
tempus positam est sequente itottlv imperfecti infinitivo, at actio
praeteriens, qualis est templorum aedificatio, a sacrorum fe- rendorum
consuetudine discer- neretur. Vide Engelhardtum ad Meocx. pag. 234.
c. 2. xal yap tacpf/S xaXrjS xe xal fie- yaXonpeitovS rvy^ayn,
xal iav rtivrjS xiS uiv xeJLevxrfdp, xal iitaivov av itvxe,
xal idv <pav\oS j} x. x. A. ovx vSrtsp' vid. ad p.
179. E. annotat. Oratio plenior foret «AA* ovx av litoiow ,
usitep vvv , o xi xovrarv ovSlv yl- y vexat. Nvv autem Tocula
non solum de praeaente tempore intelligenda est, sed etiam de ve-
ritate rei. De verbis insequen- tibus 6 eov 7 tavTGDV paXidxa yi-
yvedSai, vid. ad p. 131. i%ov doi iv elpyvy A kyeiv. litlxov
poS x £ &v. Addito elvat verbi participio epitheti veritas
indicatur, ut convertenda verba sint: denn er ist unter den Gdttern
des menschenfreund- lichste and der walirhaftige llclfer der
Menschen and Arzt der Uebel , deren Heilung dem Menschengeschlechte
zur grossten Gliickseligkeit gereichen miisste. vjjieiS 61
xoHvdXXcDV 8i- ' 8a6xaXoi i&edSe, Haec verba vario modo
explicari pos- sunt. Fortasse Aristophanes vulta ad serenitatem composito
, tan- quam summae veritatis rem probaturas satis festive, ut
comicum decet, doctoris formam imitatus Vobis, inquit, ego, vos
ce- teris praeceptores eritis. ovx avxrj rjv, rjitep
vvv. Bekkerus, quem secuti sunt Astius et Reyudersius ex
Euscbii Prae- par. Evang. XII. p. 585. C. i) avxrj in textum
recepit. Fiemus habet: neque enim, qualis nunc est, olim erat,
sed longe diversa. Nihil mu- tandum est. Verba proprie au-
diunt generis assimilatione omissa: 7} ydp Ttakai rjpcov cpvdiS ov
tovto ijv , Zizep vvv, aAA* aA- A owv xt. Sed minus adamatum hoc
dicendi genus fuit Graecis; quamquam enira rectius censeri potest,
atque exprimendae sen- tentiae convenientius, tamen minus elegans est
atque durius. Hinc factum, ut generis assimi- latione adhibita
scriberetur ovx avtrj — tjxEp — . Diximus de hoc genere dicendi p.
139. «Aov rjv hiouSt ov tov &v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov,
vojtov y.al kXevqus xvxXa %ov. %HQas Si xtrtaQas tljE, xui Gxibi tu %6u
tuis X e Q^' *«* Xqosuzu Svo avdpoyvvovydp e v r o- te y\v
rjv xal eido S [xal ovo/ia.] Ficinus Tcrba con- vertit: Androgynum
quippe tunc erat et specie et nomine, ex maris et feminae sexu
commix- tum. Eum secutus est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal
war das Mannweib wirk- lich wie im Namen, so in der Gestalt
vorhatiden. Stallbaumius od h. 1. deest, inquit, ev in mul- tis
codicibus, itidem apud Sto- baeum ct Eusebium. Quod vide, ne
omittendum sit. Riickertus %v verbo servato verba conver- tit :
Androgynum enim tunc unum erat non minus genus quam no- men , ex
utroque conflatum , vi- rili et muliebri ; nunc non est nisi nomen
opprobrii caussa inditum, Displicet haec conversio eo nomine, quod
repetitionem iuutilem continet praecedentium verborum : crAAoc xal
rpixov (sc. yivoS) itposijv xoivov « 7 / 90 - xipCDv rovx&v x.
t. A. Porro caussam frustra quaesiveris, qui fiat, ut commemorato in
prueee-» dentibus yevo$ verbo nunc elSoS idem significet atque
yivoS. Po- stremo male se habet: Tore h. e. tum temporis unum
fuisse et ge- nus et nomen avdpoyvvov , quasi non et Platonis
aetate unum nomen avdpoyvvov fuisset. Ev voce deleta sententia haec
est verborum: Mannweib war damals in Beziehung auf Gestalt
uud Numen aus beiden, dem Mann- Jichen. u. Weiblicheu ausatnmen
- gesetat. Sed rursnm quaeras, nuin Aristophanis aetate
Androgyni nomen ex ntriusqne generis no- mine non compositum
fuerit? Si qnid video , ineptum scioli additamentum est xal ovo/ia
, quod praecedentibus verbis ov vvv ovofia A ontov nullo modo
explicari potest. Deleto eo optime huius loci verba se habent. Ari-
stophanis mens haec est : sed et tertium genus insuper erat utrios-
que generis et masculi et femi- nini particeps , cuius nunc no- men
superstes , ipsum t periit* Videlicet androgynum (ut nunc nomen,
ita) tum temporis nnum erat etiam eldoS utriusque par- ticeps
generis , masculi femi- neiqne. v v v d’ ovx tdxiv aAA*
rj i v 6 v eide t ovo y a xeiy e- vov. Ietzidagegen istes (das
An- drogynum) niclits auderes, ais ein schimpflicher Name. Scripsi
aAA pro vulgato aAA*. * Vide Engel- liardtum ad Piat, Apol. . ed.
p. 207. Similiter scribendum est Gorg. p. 447. A. trAA*, 7/,
xo Xeyoyevov, xaxomv hopxijS rfxo - pev xal vdxepovjiEV \ Non ubi-
vis autem scribendum <*A A ?/ esse, Phaedonis Jocus docet p. 81.
B. goSte yt/dlv dAXo doxelv BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo dcojia- X
oeideis x. t. A,, ad quem lo- cum Stallbaumius rectissime: Orta
est,' inquit, haec locutio ex coniunctione duarum loqnendx
formularum , , quarum altera op- positionem altera comparationem
indicat. Hcrmannus disiungendas esso has particulas iocet atque 7J cum
altero 7/, quod in me mbro orationis supplendo comparcat, In'
av%ivi xvxXoteqcT, ouoicc itavty xscpceXrjv 8 ' In 190 aiKpoxiaous rovg
ngoganoig ivavxloig nEx/ihoig [ilav, xai coxa xlxxaQa , y.al alSola 8vo,
xal talla navxa ug iungen xal talla navxa ug
iungendura. Nimiram expletiorem orationem esse, ut v. c. nostram
locum ad Hermanni praeceptum exornemus: vvy 8 ’ ovx l 6 xiv d\\’ V
& v dvelSei oyopa xei/isvov r) ovx ol 8 a iv ct xsixai. Sed
falsam esse, Ed. Haenischius ait in annot. ad Amat. p.45., hanc
explicandi rationem, hinc maxime apparet, quod, si yera esset, nemo
sic diceret, nisi qui aut ipse se rem suam pa- rum compertam habere
profiteretur, aut id, quod certo sciret et eloqueretur, ita afiirmaret,
ut, si non verum id esset, se de suo ipsius indicio desperaturum
esse significaret. — Pro dXX ?/ inter- dum 7 tX?}v r/ reperitur,
neque ra- rum Tt\f\v olK X ?/, quibus for- mulis similes sunt
formulae no- stratium ausserals, uls nur, ausser ais nur. De
xsi- G$at verbi potestate dictum est ad p. 100. Ut de legibus
civi- tatis , ita de usu loquendi re- cepto saepissime apud
scriptores reperitur. Ceterum Riickerto non assentimur, ovopa iv ov
sidet xsiuevov eodem modo dictum censenti, atque Xafislv iv
cpipvy ^Svpiav y Syriam dotis loco accipere. Ut Homerico J
SsgUv iv yovvadt xsixai fatura infle- xibile significatur, ut iv
ftop” popeo xsidSai in Phaedon, p. 69. B. de aeternitate vitae
miserrimae dicitur, sic ovopa iv oveiSst xsipsvov usus recepti
constan- tiam exprimit. — dvdpoyvvov . v. Suid. s. r*
dvdpoyvvoS et Muson. Fragm. p« 208. ed* Peerlk* Alter habet:
6 xa avdpoS rtoiGov X&l xd ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol ys
dvkxovxat avdpoyvvoi xal yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9 onsp s 8
ei (pevysiv iB, anavxoS, si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav,
Urtsixa. Praecedente irp<a- tov psv, quod male Ficinus
con- vertit a principio,» htsixa 8 s scri- ptum exspectaveris.
Sexcenties autem iizsixa reperitur omissa 8 i particula, quoniam
htsita tantae gravitatis est, ut ipsum pos- sit, hoc est, non adhibita
dfc par- ticula , oppositionis pondus su- stinere. Unum e multis
exem- plum ut laudem, p. 194. E. le- gitur! iy<d 81 87 }
(iovXopai xtpooxov p\v tlittiv , y XPV M e elrtEtv , IneiXOL shtsiv
. In se- quentibus Ruckerti annotatione factum est, ut post
xo EiduS comma poneremus. Riickertus autem. Me oppositio, inquit,
quae hic adest pristinae integritatis et insecutae postea
dissectionis admonuit, ut oXov praedicatum esse censerem, quam
interpre- tationem haud scio an commen- det etiam vocis locus ante
7/v y quem vix teneret, si cum sldoS esset conuectenda. Dicit
igitur hoc: Deinde iutegra erat hominis figura, rotunda,
dor- sum et latera circa habens (non,* ut nunc, dorsum, latera et
pe- ctus.} xEEpaXrfY 8 * — plav. Quis non Iani
meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem uno capite, facie duplici
insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito rovtcov &v rig tlxdaniv.
litoQtveto 51 6q9ov, agitSQ vvv, oitoztQaOs fiovXq&ilt] ’ xal ditor e
xu%v oq- (itjGut &siv, iSgittQ ot xvfiiatavrig slg oq&ov tcc
Oxalrj itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg
fitXs~ Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to xvxlco o yv da Sia taura pacis
dens, nt verba Aristophanis iu Erotem directa et Iano con- veniant:
l6xi Seoov cpiXotv^pco- TtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V XGOV
dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy, cor IocSevxcjv psyidrr/ av ev-
Saipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi fi?;. Adde p. 191. D. $6xi 6?} —
17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvayco- yevf, xal inixEipivv 7Xoiijdai
'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr tpvtiiv x tjv dvSpGDTtivTjv.
Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum {aivco verbo cohaerentiam?
Romaui bellorum quam amoris intentiores rixis, concordiae amantium
pacem pacisque conditiones videntur substituisse. ijtOpEVEXO
OpSor, GjSrXEp rvr. Koti vulgo ante vpSov positum deest in
codd. non paucis, Bekkerus vocem in textum recepit, uncis
Stallbau» mitis et Dindorfius incluserunt. Ficini conversio haec
est: Incedebat hoc tunc et rectus, ut nunc, in utram vellet partem.
Kai vocis tuemluc provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus:
Duplex incessus pristinorum hominum narratur, erectus, quem nunc
etiam habent, eo tantum ab hodierno diversus, quod tum , utram in
partem vel- lent, pariter praecedebant , /z. e, prorsum et
retrorsum , alter ro- tationi quam meatui similior • Sequentia
igitur verba hoc modo exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv
oppyjdEie $Etv, ooSTtEp ol 7wfh- CxdvreS x, X. X., nam in eius
editione comma post Ttai non comparet. Sensos est: Er ging aber
aufrecht, wie jetzt, nach welober Seite hin er wollte, und, wenu
der eine oder der andere schneller sich bewegen wollte ete. Vulgo
pro opfiJjdeu legitnr opprf- Cei pro %eiy verbo IXSeiy, Male.
<k)S7XEp ol XVfildXGOYXES* Derivatur hoc verbum a xv(bj
> quod idem aotiquitus significasse perhibetur, atque XEqjaXij.
Igi- tur primaria xvfit6xdv verbi si- gnificatio videtur esse:
capite insistere, se praecipitem dare, cfr. Hom. II. 21.
554. XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS, , o*l xotra
Sivaf ol xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor $v$a xcii $vSa.
Erat autem apud Graecos salta- tionis genus, quo qui
utebantur, caput deorsum, pedes sursum proiicere solebant, non nisi
pe- dibus solum attacturi. Summa corporis atque inprimis
spinae mobilitate opus erat saltantibus, quare Patroclus Kebriouc,
Hectoris auriga, iuterfecto, satis acerbe II. 16* 745. haec profert
<L nbxoi> r\ pdX 9 iXatppoZ dvrjp, fisla xvfhtixd
et v. 749. <6$ vvv Iv txeSIgj IB, itctcoov pEta xvptdxd r)
fia xal iv TpdedCi xv(h6xq- rr/peS iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r
6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov B t rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs
yijs, to Se aiupo- TSQC3V iitzs%ov vfjs OiXrjvrjs , ori xal rj Gelrjvtj
a[i<pore- QatK yiEzl%u. TtEQirptQrj Se Sr) yv xal avrcc xal rj
noQsia avrav Sia zo rotg yovevOiv ofioia elvai. rjv ovv xrjv Tangit
fortasse hoc saltandi ge- nos Herodotus 6, 129. — 6'bt- izoxAeiSyS
— ixiAevdi oi riva tpanaZav iSevEtxai * iASovtiyS 8h ryS
rpaTtE&jS n patra plv in avrijs oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~
paria’ pera. 81 a\Aa *Arnxd • to rpirov t ?/ v xecpaArjv
ipeidaS ini r rjv rpane- %av roidi 6xiXe6i ix «i- povopyde.
Schol, ad nostrum locum iusto brevius : xvfiidryp 6 opxydryS xal
xvfiidtav to op- XsiGSai. eis opSov ra dxiAy n. Ante
eiS in plerisque codd,, qua- tuor exceptis, xai legitur, quae
depravatio textus est manifesta. Omiserunt voculam editt.
omnes. Orta ea lectio est e mala intel- ligentia praecedentium
verborum, quae intellexit, quisquis fuit, qui xai interposuit, hoc
modo : ino - pevsro 81 opSov (3snep vvv , xal, sc. (inopsvero)
ditare tax t) opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvfti- dravrsS ’ xal eis
opSov x. r. A. oxtgj tore ovdi. Vulgo legitor rore oxrcJ x. r, A.
Trans- posuit verba , qui putaret , rore ad praecedens onore
pertinere. Probari posset vulgatus verborum ordo, si scriptum
exstaret: rore rolS uxtgd piAediv anepEiSope - voi x.t. A. Sed non
addito Ar- ticulo, ovdiv autem participio adhibito, cur is ordo
verbornm unice probandus sit, quem cdd, omnes probarunt, facile
iutelli- gitur. 7/v dk Sia Tavta Tpla Ta yivy xal
toiavra. Ad certam quandam philosophiam comicum poetam respexisse,
quam- quam a multis annotatum est, tamen ut credamus, animum
in- ducere non possumus. Vulgatum euim hoc erat , et vero
etiam nominum terminatione firmatum, TfXiov, solem, virili
potestate esse, yyv , tellurem, feminea, qua propter etiam rerum
ma- ter vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia
ad- vocata nulla, mera vulgi opinione nixus solis prolem masculum
genus vocaret, terrae femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni
origine dicamus, quod cur Lunae prolem dixerit, disertis verbis indicatum
est; ori xal ?} dsAyvy dptporipoov perixei. Atque ipso nomioe
deXyvyS haec coniunctio terrae ac solis indi- cata est. Dorica forma
est (?£- A avaia, quam convertere pos- sis Glauzerde.
Solebant autem veteres novam quandam in huiusmodi rebus
opinionem prolaturi, argumentorum loco er ipsa rerum natura
petitorum, alias res conquirere, quibus illam pro- barent, Sic
Pausanias, ut du- plicem Erotem esse probaret, ad duplicis Aphrodites
mentionem confugit, quarum suum utrique Erotem assignaret,
n epitpepij 8h 8?) yv. Non gkreisformig,» quod in Astii et S
chleier macheri Itfrvv 8 uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK
(itycda tl%ov, lnt%dqvfiav de zoig &eolg, xal o kiyu
"OfitjQos 3 csqI Ecpiccltov xs xal ”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai,
xo C ds tow ovgavov dvafiaGiv im%UQelv noielv , ag Ixi&iy
Gofiivav xoiig tteois. versionibns legimus (adde etiam Schulthessii
conversionem p. 88. ed. Orellii,) quis enim circuli formam corpori
tribuat, sed kugclformig. Riickert. In sequentibus 8ia to — opoia eivai
verba Schleier- macheros convertit: um ibren Erzeugern ahnlich zu
sein. Rectius Ficinus: quia parentum similia. xal ta
(ppovrfiiaT a pe* ya\a elxov. Schleiermache- rus: nnd hatten auch
grosse Gedanken. Minus accurate. Ar- ticulo enim addito
efficitur, ut sensus sit: und der Hochmuth, den sie hatten, ging
ins Un* geheuere. vide annot. p. 12. Articulo non addito supra
legitur p. 182. C. ov yap, olpai, dvp- tpipei toiS apxovdi
tppowjpara peyaXa lyyiyvedSai, quem laudo locum, ut de nostri loci
articulo facilius certiusque iudicari possit a lectore. MeyaXa
<pporj}para dicuntur autem habere, qui con- tra dominos
conspirant, cfr. p. 182. C. ov, yap, olfiat, dvpq>e- pei toiS
apxovdi (ppovrjpata fieydXa lyyiyvedSat tgjv dp- XoiUvoov ad quem
locum ' vide annot*. p. 102. Comparativum exspectaveris, non
positivum ; ille tameu in hac formula solennis. o Xkyei "O prj
poS. Od. 11. Sl4. "Oddav iic OvXvjiitto pe*
padav SepEY, avtap £tz "Oddy JlrfXiov elv o
diq>v\\ov,lv* ov pavos apfiaxoS etr/. ooS litiSr] 6 o pkv
gjy roiS SeoiS. Riickertus iungenda haec, inquit, cum Ttepl ixeivGOV
, quae structura propter interiectum membrum to — tcoieiy , in
quo avxovS subiectum est , aliquid incommoditatis habet. — Ad
l7Ci$t]6op£vcjv supplendum est potius avTCDY. Exhibetur autem
genitivus participii cum gjS, ubi aliquis refert quod aut ex alio-
rum opinione depromtum est, ant quod ab aliis vult cogitari , ut in
Piat. Apol. Socr. p. 30. B. itpoS lavra , (pocbpr av, cJ av— 8 pes
*A%r]vaioi , rj nelSedSs *Avvxcp rj pjj — oj S ipov ovk av
itoiijdovroS «AAo x, T. A., h, e. de me ita cogitate, me nunquam
quicquam facturum esse aliud. *0 ovy Z evS xal ol a A-
Aot $ 80 i. Omnem hanc narrationem de deorum consultatione et quid
facerent, dubitatione, nt cupierint quidem punitam humani generis
protervitatem, sed nec severitate uti ausi fuerint, quam laesa
maiestas exigere rideretur, nec aliud invenerint remedium, quo et
illi poenas darent et suus honor salvus maneret, donec ad postremum
Iapiter aegre aliquid excogitaverit, hanc,, inquam, a d deorum
derision em com- Cap. XV. 'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi
9iol Ijiovltvovto o « %(M} avtovg 'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag
axo- positam esse neminem poto non videre. Riickert.
Male; vide Comm. de Piat. Symposio» oti XPV ctvtovS
rtOtij- 6 at. Ne quis pro indicativo optativum reponendum censeat,
quod Astius olim fecit, post infectum, voluit: Graeci ingenii tanta
est vivacitas, ut structuras verborum doas, quarum ntraque suam
quan- dem iucunditatem habet, confun- derent atque commiscerent,
videlicet ne, cum alteram prae- tulissent alteri , alterius gratias
simul amitterent. Igitur oxi XPV avtovS rtoii}6ai compositum est ex
oratione obliqua oti XP E ty avtovS it. et ex oratione recte ti XPV
ocvtovS Xotijtica xal ojSitep, rovS ylyav - taS xepavrccHj
arreS. Stall- ' baumius , intellige, inquit, post yiyavtaS
tfq>avi6otv ex proximo ctqxxvldEiEV , cuius breviloquen- tiae
exempla collegit Wyttenbachius od Selecta Princip. Hi- ator. p. 364.
Riickertns verba sic inngenda esse censuit : ovte yap eIxov ortcoS
drtoxTEtvcaev (sc. avtovS) xal ro ylvoS dtpa . - vldaiEv ,
XEpavvGotiavtES GDinep rovS yiyavtaS . Neutra expli- candi ratio
nobis placet. cuV itep h. 1, non similitudinem indicat, sed agendi
rationem describit, yl- yavteS autem homines vocantor illi ipsi,
qui e masculo et fenri- neo genere compositi viribus freti ac
robore, elatiores animos ale- bant. Sensus est: Sie wuss-
ten iiberhaupt weder ei- nenRath, dass sie sie tod- teten, und
besonders w i e sie, nach Erlegung der Riesen durch den B 1 i t z
das ganze Geschlecht verdiir- b e n . Disertis verbis ylyavtES
commemorantur, ut esset, quod sequenti ykvoS opponeretur. Quo- niam
autem homines nondum dis- secti erant, fieri non potuit, quin
caesis hominibus illis totum ge- nus hominum misere periret, at-
que nemo remaneret, qui deos veneraretur. ai tipal yap avtolS
— 7/ <p avi$£t o. cfr. Symp. 198. C. vit ai6xvvr]S oXiyov
arto- dpaS <px^PV v ? KV MX 0V - Nemo Stallbaumio melius de
in- dicativo huius loci explicando disseruit. Eius verba haec sunt:
* Aoi istas et imperfectum sine av particula positum in talibus
si- gnificat certo et haud dubie aliquid fuisse futurum , pr opter
ea quod habeat obiectivam , quam dicunt , necessitateniy ut Lat^
fu- turum erat: accedente autem av particula etsi paene idem
significatur , tamen conditionis et mudalitatis , quam vocant philo-
sophi , accedit notatio , ab hoc loco, paene prorsus aliena . Quocirca
non tantum XPV V > £5 Et, npoSijxEV , ut Lat , oportebat ,
decebat , debebam , ita usurpatum est, sed multa alia verba ,
irtpri- m slvaiEV ii%ov xal 'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeav-
reg, to ytvog oxpavLaaitv , al rifial yag avroig xal rcc tfQcc ra naga
rwv av&Qamov rjtpavl&ro — ov& oitag latv aCilyaivuv. fioytg
8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu, ore zloxd fioi , %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg
av iliv te uv&gaicoi D xal xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc
ycvofuvou vvv (iiv yag axnovg, £cprj mis ea, quae
natura sua conti- nent aliquam obiectiuae necessi- tatis
significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi sunt
plerumque ita , ut non tam obiectivae ne- cessitatis, qoam temporis
ratio- nem haberent, quo tempore ali- quid, quominus fieret,
impedi- tum esset, cfr. Tac. Histor. II. 46. iamquo castra
legio-^ dum exscindere parabant, ni Mucianus sextam legionem
opposuisset, h. e. achon waren sie daran, das La- ger der Legiouen
zu veruichten, hatte niclit zur rechten Zeit noch Mucianus die
sechste Le- gion entgegen geworfeu. Adde notissimum Horatii locum
Od. II. 17* 28. Me truncus illa- psus cerebro sustulerat,
nisi Faunus ictum dextra levasset h. e. Mich hatte der auf mein
Haupt stiirzende Stamm getodtet, hatte niciit noch zur rechten
Zeit Faunus durch seine llechte die Kraft der Wucht
gebrocheu. Temporis hanc notionem quando assequi volunt Graeci
scriptores, eodem dicendi geuere utuntur quidem, sed non nisi
addita iv3v$ particula temporali, cfr. Thucyd. VIII. 86., quem
locum Stallbaumins laudavit iv gj da- tpidxaxa 'looviav neti
'i&U?/- dtarenco $i%a exadtov, xal difovtov evSvS’ eTxov
ol ito - TUfiioi, doxdj fioi, £<PVt Quod supra annotavimus
p. 159. ad verba o n XPV olvtovS itoitj- dai y id iis vehementer
displice- bit, qui omnino duas verborum structuras confundi atque
com- misceri neguut. Negant autem, qui non intelligunt
structurae originem. Etenim rem animo suo ita informant, ut
censeant, scriptores positis dnabus verborum structuris artificiose ex
utriusque quibusdam fragmentis tertiam composuisse. Nobis persuasum est, hoc
structurae genus non e scriptorum officina prodiisse, sed e quotidianae
vitae sermone iu scriptorum libros im- migrasse. Pertinet huc noster
locus, ubi praemisso ott, quod indicium est orationis obliquae,
ipsa alicuius verba laudantur. Pa- tet autem, proprie dicendum fu-
isse Aristophani : \iyet, ori do- mi ol Ixew prjx ay yv r. A.
Factum autem Graeci ingenii fa- cilitatemne dicas an felicitatem, ut
servato obliquae orationis indicio rectam orationem retinerent, atque
orationis suspensae continuitatem cum rectae orationis vigore
coninngerent. De hac structura vide etiam Mattii. Gramm. plen. $.
623. 2. b. p* 1270. a «pa fiev
&0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia %Q7]diu6TEQoi Tjfilv dia ro
irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia- * diovvtai O 0 #oi liti
dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv
i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av, %(pr] 9 refiu dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai
OxtXovg doxcoXia^orreg. ravza thtcov Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a,
&g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg zapixsvsiv, ij E xal ajia
n'ev adSeri- 6tepoi idovz ai. Sensas est: nane eos dividam
bifariam, at et debiliores homines sint et utiliores nobis, quippe nam
ero auctiores. Amant Graeci, quae de certissimo eventa actionis
praecedentis dicantur, ea xal addito superioribus annectere. Paullo
infra legitur naXiv av te/ico 8ixa , Sst iq> kvoS no- psvdovtai
x.T.X., ubi bene ha- beret xai pro gjSte positum ; hoc tamen
scriptor praetulit, quod reiterata divisio cogitatur tantummodo , non
tanqaam actio, quae hat aliquando certissime, proponitur.
7tdA.iv av t Zcptf, teji c 3 Sixa. Rursum exemplum habes verbi,
quod casu suo spoliatum ita exhibetur, ut notio verbi pre- matur
magis, quam vis actionis, Minus recte Schleiermacherus iu
conversione: So will ich sie, sprach er, noch einmal zerschneiden.
Rectior conversio liaec est: So wiederhole ich die Theilung noch
einmal. Atque obiter ut hoc moneam, ut Graeci naXiv av, ita
nos nochmals wiederliolen, pleonastice loqui solemus.
txdxcoXt ccZoyteS. Schol; ad h. 1 . a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS
filv tu ini tovS adxovS aAA«- d$an dXrfXippkvovS , iq>*
ovS in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS xal ini tcoy
Cvf.tnE(pvx6<5i zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf 61 TiSkadi
xal ini tov aAAe- 69 ai to YEvpov (Bekk. legen- dum censet roV Sr
Epov ) took noddUv avkxovTa^ rj a>S vvv ini OxkXovS kvoS
fiaivovTa. %6ti 61 xal to x^XatYEiv. E Schol.' ad Aristophan. Plut
1130., ubi complures ddXGoXtdgEtv verbi explicationes reperiuntur,
male autem adxcoXia vocatur iopTtj tov Jiovvdov , nisi fortasse
latiore significatu accipiendum est hopTif verbum, ex huius, in-
quam , Schol. annotatione se- legi haec : xvpioS ddxciXid- Zbiy
iXEyov to ini tciy ddxoov aXXEdSai ZvExa tov yk Aco- ro: noiEtv •
iv /ikti& 61 tov $sdrpov ZtISeyto adxovS ns- (pvdifpkvovS xal
aAijXififikvovS , fis ovS ivaXXufiEvoi ivaXiOSai- vov xaSansp
EvftovXoS cpifdi • xal npoS ys tovto ctdxov elS fikdov xazaSkvTES ,
EtsdXXedSa xal xayxd&Te ini rols xarafi- fikovdtv . —
ddxooXia^Eiv 'eXe- yov To ivdXXsdSai tois doxols, ?/ to ini ivds
nodos dXXedSat. Haec satis de significatu adxcj- Xia&iY verbi.
Non dubium est autem, quin h. 1. doxa>XutP,EiY uno pede saltare
significet» Ut, cum humanum genus primi- 11 162
II AA TSINOE wgmo ot tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov
'Aitbkha ExtktVE T 6 TE TtQO gtOJCOV flETU0TQEtpElV XUt TO TOV
ClVyi- vog ijfiiGv tcqos Ttjv rofiijv, tvu &Etbfiivog rtjv
avxov TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6 av&Qmnog , xal tukka
ia6&at IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV liETEtiTQEqiE , XUt
GVVtkxaV tos nvfiuStav dicatur, post ln\ Svoiv dHeXoiv
fiaUiZEiv, futoro tempore ddxooXiddEtv dicatur. Uno pede etiam
hodie saltari in Helvetia, Italia, Graecia, satis notum est.
&S 7t ep ol r d da xkpy ov- tf? nal pkXXoy x eS xapi-
Xeveiv. Lectio vulgata est c oa, quam merito interpretes recen-
tiores improbarunt. Nimirum legitur in L. V. PJ. Timaei: da dxpodpvojy
eldoS pr/XotS pi- xpois iptpepis. Colligitur inde, Platonem hoc
verbum commemorasse in scriptis. Ilaud facile autem locum Platonis
invenias, cui vox illa magis conveniat. Interpretantur, qui harum
rerum periti sunt, da sorba (Arlesbeeren , quae condita esse, nt diutias
conservarentur, non pauci sunt, qui tradidere; cftvVarr. de re
rust. I, 69. ( Putant manere) sorba quidam dissecta et in sole macerata,
ut pira, et sorba per se ubicunque sint posita, in arido facile
manere. Quae sequuntur verba, spuria censuerunt Sydenhamius,
Bastins, Astius. Frustra. Quamquam enim prorsus nescimus , cur in
ovis dissecandis crinibus usi sint ve- teres, hoc certum est:
duobus allatis exemplis Aristophanem et facilitatem et artificium
dissectionis indicare voluisse: ao Jexcbt, wie man Arlesbeeren zum
Einmachen spaltet, so fein und kunstlich, wie man Eier mit
Ilaaren theilt. Eodem modo explicanda sunt verba Plut. Amat, p.
770. B. ojSittp cdov avrtdv Tpify Siaip&tiSai t rjv cpikiav.
Male igitur Rtickertus ad h. 1. Hoc quidem, inquit, concedimus,
languidiusculam esse alteram com- parationem, concedimus, fieri potuisse,
ut ab alio adderetur; sed additam esse tantum abest, ut contendamus,
ut facetiarum captatori Aristophani recte tributam esse censeamus.
Ceterum coniicio equidem, ovornm per crines dissectionem ludi
genus fuisse; fortasse ex ovorum dissectione per crines facta
convivae futura praedicere solebant. 7t p o 5 xr)y xoprjv. Ut
in praecedd. ad xa cJa supplendum est e proximis xiproyxeZ, ita h.
1. psxa6xpl<peiy recte repetieris. Toprf significat proprie 'id,
quod ex aliqua re abscissum est ; no- stro loco corporis eam
partem denotat, quae dissectionem passa est. Similiter topi j apud
Hom. II. a , 234. positum repentur: va\-pa rode dxijnxpov, To
p\y ov%ot e (pvXXa xa\ d £ov? $>vdei, iiteidr} TCpddxa t
o- pijy iy opeddt XeXoi7tev, quo loco truncum denotat , ex
quo sceptrum abscissum erat. In sequentibus pro Trjy avxov xpij-
diy , quod recentiores editores omnes habent, plurimi codd. avxov
exhibent. Non male , si 3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv
xaXov(ik- vi]v, SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov
ank- Sh xaxce (ii(St]V xrjv yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v
xaXovOi. xal rag (iiv aXXag Qvxldag xag xoXXag igtlLcuve, xcd xa
191 Gzrforj dujp&QOv , ijrcw n xoiovxov ogyavov, olov ol Cxv-
avrov pro avxoSi positum ac- cipius ; melius tamen illud
habet. xalraAAa ladSai ixe- A evev. Schleicrmacherus ia
conversione habet ; u n d das ubrige beiahl er ihm auch zu hei 1
en. Scriptum quidem exspectaveris xa\ navxa iadSai ixiXcvEv ;
addita auch particula insolentia verborum non mitigatur. Ficinus
verba convertit: reliquis autem mederi iussit. Alia nobis
explicandi ratio placet. xaXXa a sequente infinitivo seiungendnm
est, iddSai absolute positum est : und iibrigens befahl er ihm Hei-
lung an. De hoc usu verborum saepius iam annotavimus , vide anuot.
p. 22. , 27* al. Paullo \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai positum,
ut non actio, sed notio verbi exprimatur tva — ittoj- dpovi) yovv
yiyvoiTo xi}$ 6w- ovdiaS xal dianavoivro h. e. ut satietas esset
amplexandi et quies. ln\ xr)v — yadrepa vvv xaXov
pivrjv. Schlciermache- rus : tiber das, was wir jetzt deu
Bauch nennen. Non satis accommodate, ut vide- tur. Cum vi
pronnutiandum est yadripa, ut ne vernaculo qui- dem sermone
articulus recte addi possit. Structura verborum pri- maria haec
est: ItzI to yadz?'fp vvv xaXovpsvov , quam structu- ram ut minus
elegantem incom- tioremque aetas Graecorum ex- cultior nou
tulit. <3 Sirsp ra dvdnadxa fta- Xavxia. Poli. V. Si. in
recen- sendo venatorio apparatu xv» vovxof, inquit, 8ipya podx^ov
t lis o brciSexai ro Sixxvov , rcJ 6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV
, (3 Sit E p xa dvdnadxa ftaXavzia. Ficinus convertit:
tanquam contracta marsupia. Ar- ticulo addito effici videtur,
ut sententia sit: in Form von zu- sammengezogenen Beutcln,
-wio ihr sio ja kennet. o 6 7 vvv o ptpaXov xa- A ovdi.
Codd. omnes habent o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi , idque editores
in ordinem ver- borum receperunt. Male ; urgenda est vox ojutpaXof,
atque vi qua- dam pronuntianda, quae vis ad- dito articulo funditus
perit. Si- militer Sjrmp. p. 180. E. ov 8?} ndvdtjfiov xaXovpev, de
rep. I. p. 332. C. r) xidiv ovv xi dito8i8ovda — xixyrj
iarpixj) xaXEixai p. 191. B. o 8?} vvv yvyaixa xaXovpev.
Menon, p. 81- B. o 8tj artoSvyjdxEiv xaXovdiv. Alcib. II. p. 140.
B, ovS 8ij xaXovpEv iaxpovS. ib« p; 187. D. o 8jf pEXonottav
xaXovdiv., Ibid. *L p. 382. D. yj x idi x i ano8i8ovda —
xixrv payEipixrj xaXtixai. vide annot. p. 129 et 130.
xi xoiovxov op - yavov. De indefinito pronomine supra dictum est p.
28. ad verba £3 o r yap xi xovx £*«. 11 * IUAT&N02
rotofiOi, xiqI rov xaXccnoda Xeatv ovreg rag tav dxvrmv QvrlSccg'
b Xlyag 6 e xaxlXmi , rag mqI avrrjv n)v yaStega mu rov ofitpaXov ,
(m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg. 'Enubi] ovv r; (pviiig Sixa
no&Ovv exaGrov ro t}fu6v ro avrov tvvfai, xai neo^aXXovre.g rag
%UQug xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig, em&vfiovvrsg Ovfirpvvai,
ane- to 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg aXXijg agyiag dea ro
(iTjdev e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore ri ano%avoi
Quibus verbis ut respondere an- notavimus nostratium J d as
so sfeine Art, ita verba no- stra convertenda videntur esse:
indeift er etwa ein soK- chesWerkzeug hatte, wie die
Lederschneider, Creu- zerus Lect. Piat* p. 525. censet, ut p. 185.
E. dicatur dvaXaftobv xi roiovtov, ita h. 1* satis esse l 'x&v
n roiovtov. F rastra* nepl rov xaXditodot XsaivovtsS. Pes ligneus
vide- tur fuisse, super quem coria ex- tendebantur, quo facilius et
explicarentur et ad pedis formam adaptarentur. Etym. habet xa-
AoVovV XvplooS o ZvXivoS itovS* xaXov ydp xd B,vXov. Suid. s. v. xdXaf
xaXov ydp rd B,vXoy % ig ov xai xctXoTrovS, 6 gvXivoS itovS. E
Pollucis auctoritate, qui habet X. l4l. rd dxvrord- pov dxevij —
uaXd/tovS, iv rc J dvpitodicp y Bckkerus, Stallbaumius , alii dederunt
xaXditoda, codd. non pauci xctXo7Co8ec ex- hibent. Fortasse utra^ue
forma Graecis scriptoribus usitata fuit* rov itctXaiov itdSovS
. h, e. rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~ SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp
xpovoo. cfr, p* 189* D. insidi) ovv 7} tpvdiS. Annotat
Riickertus ad h* I. : Offendit Astium nude positum vocabulum , post quod
avrdov vel rjfi&v excidisse putat. Of- fendit nos quoque $ sed
putamus ipsius Platonis peccatum esse posse . Etiam Stallbaumius
ad h. 1. avt&v supplendum esse censet. Aliter nos statuimus
de hoc loco; Articulum exhibuere veteres scriptores haud raro ,
ut ’ indicarent, de re sermonem esse, quam in praecedentibus iam
te- tigerant. cf. p. 189. D. ?/ ydp TtdXai ij/tcov <pv6i$ ovx
avnj 7jv rjitsp vvv x. r. X. Mens Aristophanis est; Da non
die urspriingliche Einheit der Kor- per, vou der oben
gesproclien worden ist, gelosst war cet. Exem* pia si quaeris huius
usus articuli, vide anuot. p. 12. , vito Xipov xai rrjs
aX- Xt}S apyiaS. Vulgo vito rov Xiuov legitur, quae lectio
cur ferri nequeat , e praegressa annotatione colligitur. Ceterum aX
- AoS 1 rebus apponi, quae genere non differant, specie dis-
crepent, supra annotatum est p. 116. Restat, ut dicamus, quo iure
id fiat. Riickertus ad h. 1. Videtur, inquit, aXXrf alia verti non
posse, neque negare licet aAAo? non nunquam ita dictum esse graece,
ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de qua ffi>v yfiteeav,
t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ tu xai avvmkixezo v eize
yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian, o Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’
avSgog' xai ovroig attiiiXkvvto. ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v
xogltexai, ■ xai fuzazt&rjtiiv avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev
zeag yag xai zavza exzog (l%ov, xai lylvvcov xai Izixxov ovx elg
akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg. fiezi&rjxt C re ovv
ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta zovxav re non est, cor hic
pium dicam, qui nostrum locum, ex hoc numero excipiendum esse
censeam. Nam cxpyla non segnitia est, sed cessatio, vacatio a re
quacunque, sicut ager dicitur <£pyo$ t dum cessat a cultura. Jam
igitur Ai- fivv in genere xfjf ctpyiaS esse apparet, est enim
cessatio a capiendo cibo , licuitque dicere, homines illos, cessantes et
a cibo capiendo et ab omni opere su- scipiendo emortuos esse. —
Ridiculi aliquid inest his verbis; quis enim ferat cibi capiendi
cum ipyoo comparationem? Deinde male Ruckertus posteriori nomini
tantam vim tribuit, ut ad id di- rigeretur prius. "AAAoS
semper ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori nomini
addatur, quod cura eodem cohaereat, quod ex eodem genere sit, quod
cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror vete- res, ut ad
nostrum locum rever- tar, vito Aipov xai tov dAAov, li. e, fame et
ceteris, quao cum ea cohaerent. Acce- dente autem appositione ad
verba tov dAAov, ne incomtius existeret atque inelegantius dicendi
genus, tov aAA.ov, apyiaS , admissa ge- neris assimilatione xrjs
dAAi]S, apyiaS edictum eat. Sic com- mode explicatur Piat.
Gorg. p. 473. C. etyAcoxoS tov xai evbai- povi?,6fuvoS vito t<Sv
icoAixgjv xai xgov dAA.Gov (sc. ) HevQov. Alia exempla, quibus
nostram explicandi rationem probare pos- sis, laudavimus iu aunot,
p. 116, ooSitep ol xixxiy eS. Audi Wolfti ad h. 1. annot. :
Sie thun dieses vermittelst eines Stacbels, den das Weibchen aui
Hinter- theile luit, and der eiu Dritttbeil der Langte des gauzen
Thieres Husmacht. Damit bohren sie in die E«de, dDnen ihu und
lasseu die Kier in deu Sand fallen, wo sie vou der Sonne
ansgebriitet werden. cfr. Aelian. H. A. II, 22, tals acpvaiS o*
itijAoG yiveais id xi' bi aAAi/Acov 61 ov xt- xxovdiv avbh
iniyivovxai x.x.A. f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf avxtov elS
xo it. OvtgjS iu multis codd. non comparet, quare id uncis inclusit
Dindorfius, Reyn- dersius expunxit. Idem Stall- baumius servandum
censet rectis- sime, Plerumque enim haec vox ita adhiberi solet ,
ut ad aliquid respici significetur, quod in prae- cedentibus est
conteuturo. Spe- ctat autem nostro loco ovtcoS ad verba iXEijdaS bl
6 ZsvS, et convertendam est: hac ratio- ne» qua dixi, vide annot. p.
i ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB, dia rov UQQtvos Iv Tqj
ftrjXei, tuvSi tvBxa , iva Iv ry GvfixXoxy afia fiiv ei avrjQ yvvaixl
ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog, 63- et p. 146. Deinde
qninqae melioris notae libri pro avtcov exhibent avta, quod a
Stallbau- roio, Astio, aliis io verborum or- dinem receptum est.
Audacias fortasse quam rectius. Avta verbi avToov correctio est,
avxdov autem scribae alicuius sedulitate e praegressis olvtgjv ta
al8ola eis to izpoCSev huc translatum est. llectissime, ut videtur,
Ru- ckertus ad h. 1.: Mihi , inquit , Plato videtur
scripsisse: fi £T £- te ovv ovtcoS eis to itpodSev. Ficinus verba
con- vertit : cum vero ad ante- riora transposuisset, ut
legisse eum censeas, quod Rii- ckertus dedit, e( nos unice pro-
bamus. Ceterum verba fisti- 2yxe te ovtGoS eis to itpodSev repetiit
Aristophanes , ut cum sequentibus artias coniuugerentur: 8ux
tovtoov trjv yevediv Iv aXXyXoiS irtolydev, quae couiunctio per ti — xal
particulas instituta quam vim habeat, nunc dicendum est.
Coniunguntur duae hae actiones ita, ut eo- dem fere tempore
gestae esse dicantur: Simul atque ea ad anteriora
transposuit, per da tyv yevediv effecit. cfr. Flat. Phaedon. 73. D.
, qui lo- cus huius significatas luculentissimum exemplum est:
iyvoo- dav te trjv Xvpocv xal iv trj Siavolqt iXaftov to eldoS
tov iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad haec verba Stallbaumius aoristi ,
in- quit, indicant, rem identidem fieri solitam. Essent ex hoc
prae- cepto verba convertenda: Sie pflegen die Lyra ru
erkennen und das Bild des Geliebten, dem die Lyra gehorte, in der
Seele aufzufasseu» Verum tenendum* est accurate, quod in
superioribus Cebes dixit: Reminisci non solum eius esse, qui aliquid
agnoscat, sed qui aliud, ab illo diversum , mente simul complectatur , ut hoc
non ex eadem perceptione animi h. e. e perceptione animi praesente, sed
ex alia eaque priore ( ov y v y Xvpa) pendeat. Probatur haec
sententia imagine amasii, quae AMATORIS animo statim obversetur, simul
atque hic lyram conspexerit, quam amasii esse iam dudura observaverat. Non
ingratum lectoribus erit exemplum e Taciti Hist. petitum I. 76 ,
quo doceatar, quomodo illam dicendi normam Romani sint imitati:
Primus Othoni fiduciam addidit ex Illyrico nuntius, iurasse in eum
Dalmatiae ac Pannoniae et Moe- siae legiones. Idem ex Hispania
allatam : laudatusque per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam
est, con- versam ad Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS. In
his verbis Riickertus haesit non immerito; Iovem enim fe- cisse,
quae fecisse narratur, nt nasceretur genas huma- num, (Astius
habet: ct progenies existeret) quis probet? Schleier- macherus in
conversione exhibuit» und Nachkommenschaft entstiind e. Id dicturus
vide- licet erat Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl xal u^qy/v
ilpoivt, , itl^apovij yovv yiyvoiro rrjg GwovOtus, xal diaitavoivzo xal
htl rd fpya rps- Ttoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn drj ovv
ix aliquid vitii verba contraxerunt, lluckerto scribendum
videtur xal iti yiyvovto to yivoS. Faci- lior, ut videtor haec
coniectura est : holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari
potest, qui factum sit, ut manus Platonis corrumperetur. Incuria
ni- mirum scribarum syllaba finali yiyvoiro verbi dupliciter
posita erat: yiyvoiro r 6 yovoS, Quod cum seriore tempore alii
men- dosum esse intelligerent, ro ye - voS scribendo locum
emendare atque sanare stndueruut. a // a 8 9 ei n a l a /3
f>tjv afifievi. In quatuor codd. Flor, ct apud Stobaeum
afjjiev legitur pro afifajv, quod plurimi libri habent. Illud
Stallbaumius in textum recepit ut exquisitius. Masculinum genas
neutro praetulimus propter praecedens et avijp yvvaixi. Reddidit
verba Schleiermacherus : Wenn aber ein Mann dem andern.,.,
omissa xai particula, de cuius significatu interpretes ad h. 1.
nihil anno- tarunt. Schulthessius habet: zu- gleich aber , wenn
Mann und Weib sich einten . ... vitio, ut videtor, typothetarum.
Sententia est totius loci: damit in der Umarmung, wenrf dem
Weibe ein Mann zu Theii wiirde, sie der Zeugung sich ergiiben
und Nachkommenschaft entstiinde , -wenn aber dem Manne auch
(h. e. wieder) ein Mann, wenigstens et quae seqq, 7t\ij
<$ p ovr} yovv . Postquam dissecta corpora fuerunt, parte» dimidiae
amplexari se adhuc non desierant, immo mutuis in amplexibus deperibant.
Ut igi- tur plane abstinerent a complexa, non potuit Iupiter
efficere, ni- mium enim urgebat vis naturae. Itaque quum totum
consequi non posset, novo instituto, quantum potuit assequi,
molitus est, ut satietate caperentur coeundi intervallaque facerent. Hinc
yovv cnr positum sit, intelligitur, Riickert, na\ Siartavoivto.
Haec codicum est lectio. Vulgo 8ux— vcntcivoivxo , quod unde
ortum sit, facile intelligitur. ^Margini enim interpres aliquis
avoc7tccv~ oivxo .adseripsit, ut 8ia.7t<xvb6%oii verbi raritatem
explicaret. Post alius nimia sedulitate ductus in ava
textq posuit 8icc7tavoivxo t ex quo factum est 8iavanavoivxo.
Ceterum non opus est ad 8iol — Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute
positum est: und sie Ruhefanden und sich der Arbcit zuwendeten und
Sorgo triigen fur ibren weiteren Un- terhalt, ini rd
ipya. Haec verba de agricultura intelligcnda sunt noa minus, quam
quod supra legitur p. 191 . B. vno Xipov xal ttjs aXXr/S dpyiaS.
O ftioS in se res omnes complecti- tur, quae ad vitam
sustentandam necessariae sunt. De scriptura imytXolYTo cfr. Thomas
M.: impiXopai xaXXtoy >j inipe- Xovpai. Adde Buttm. Gramm.
ampl. T. II. P. I- P. 187. : Die C DtoOov o "Eqcxs
tyywos aXXrjXav xolg ccv&qkmois xcd rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs,
xal Imysigav xoiijacu. 'iv ix dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv
txv&gaxivqv. Cap. XVI. "ExaG rog ovv rjfiwv
iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov , are Formen des Compositi
imjJEX?}- Copai etc. werden gewohnlich za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt,
welches eiue ganz gleichbedeutende Ne- beulbrm von iitiftiXedSca
ist, die aber von den Atticisteo fiir xninder gut erkliirt wird.
Bei- de Formen sind iudessen in nn- sern fiucliern so haufig ,
dass wenigstens an den einzclnen Stel- ' len sicli nicht
entscheiden lasst, ob wirklich der Schriftsteller so geschrieben.
Doch ist kein Zwei- fcl, dass lnifi£\E6$cti das altere ist, ond die
Flexion von faipe- Xijdopai urspjiinglich dazu ge- hurt.
wSitEp al Tpijttai. Piscium genus iprjrtai Graecis notissimum,
quandoquidem Callonice in Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit: ' fyo$
6i y <* v > uSitEpeX tprjt- rav 8ox65 dovrat av
ipaxrcfjs xapra/tovdoc Srjpidv ad quem locum male Schol. iprjr-
tot, inquit, opYEOv rerprjpEvov nata ro pidov cJ S oi 6q>ij - x
e S. XeyEi ovv , ori xav dvpfifi ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftov-
Tiopoci. Rectius Schol. ad no- strum iocnm annotat: ix$v8iov
n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x Svo $ Ep parco v 6vyxEi6$ai
rrjv idEav doxovv , o rives davSd- Taov uaXovdWf oi 6'e
fiovyXGod- <Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti ravta. Colligitor px
bis verbis, Tfxrjrrav cum in altera corporis parte os, oculos ,
nares posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri
queat, atque non integra nisi cum altera couiungatur. Facit igitur
nostro loco ifxrjrrta v mentio ad descri- bendam figuram androgyni
dis- secti, contra ' ZvpfioXov nomen nataram et conditionem eins
expri- mit. &vpfioXov nimirum tessera hospitalitatis est,
annuli, astragali, alius cuiusvis rei pars al- tera, quam hospes hospiti
conr credere solebat, ut alter ad al- terum veniens haberet, qno
agno- sceretur familiariterque excipere- tnr. Hoc facto uterqne a
fraude tutus erat. Nam si quis pere- grinus ficticia hospitalitatis
tes- sera prolata sibi exposceret, quae non nisi amicis amici
praestare solebant, receptaculum, cibi ac potus facultatem, alia
hoc genus, tessera admota tesserae rem ve- ram aperiebat.
Zr/ret 8?) ro avtov %xa- 6roS £,v p$ oXov. In aliquot
codicibus 8£ legitur pro 8t}. Il- lud, minus aptum hoc loco, ut ia
sententia communi; nam d?j apud nostrum ceterosqne prosae ora-
tionis scriptores haud raro eius- dem potestatis est, atque r oi
particula apud tragicos poetas, quamquam etiam huius particulao
frequens est apud illos usus. cfr. Matth. Gr. plen. $. 627. p.
1281. " ExatitoS cum Bekkero et Stoll- tBT{it]iilvog mgxEQ at
i’rjrrai , i£ e vos Svo. Srj ad 1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot
(iiv ovv r tov dvSgcov tov xoivov t fiij/xa sltSiv , o di] tore avSgoywov
ixa- Aelto, (piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav ex
tovtov rov yivovg ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £ rpikav&Qoi te xal
(ioi%EvtQiat, Ix tovtov tov ytvovg yt~ baumio ex codicum
auctoritate in textu posuimus pro vulgato 2xa6xov, quod Iluckertus
frustra reposuit. Ficinus verba conver- tit: quaerit autem sui
quis- que dimidium. Nam ut mit- tam geuus masculinum, quod et
praecedit et insequitur, ut exa- 6xov vix ferri posse videatur:
etiam ambiguitas quaedam exoritur vulgata scriptura admissa, cuius vitandae
Graeci studiosissimi erant. Certum est enim, verba non hoc modo
intelligenda esse: ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a e i To ccutov.
Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA egrinis comparantur*
qui habent tesseram hospitalitatis, sed hospitem reperire non possunt,
illam qui agnoscat, ipsosque comiter excipiat, eaque, quibus opus
sit, ipsis suppeditet, o 6 t} tore av 8 p 6 yvv ov
ixaXsixo , h. e. quod tum temporis androgynum vo- cari diximus. De
genere neu- tro relativi pronomiuis vide an- notat. p. 138. Ceterum
dicendi, indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis saepissime reticentur
ita, ut infinitivi, qui ex iisdem penderent, id tempus assumant, quo
tempore dicendi verba proterenda erant. Exempla huius usus permulta
repe- riuntur. cfr. Piat. Alcib, I. p. 106, D, ovxovr xavxa
povov ottiSa, a Ttap’ aXXcov £fia$eG t V ovtqS l&Evpe£ ;
nbi oldSa dictum est pro eldivai XiysiS. Ibid. p, 111. E. Ti 8* eI
pov- XtjSdrjfUv Eivat jjt} povov noioi avSponol Eidiv , aXX*
onotoi vytEivol rj voGc&dsiS, apa \xa- vol jxv rjfj.lv tfCav
(pro i-cptjfisv av Eivat ) 8i8d(jxaXoi ol itoX- Xoi; Adde Piat.
Crit. p. 47. D. cp eI ftrj axoXovSrjdofiEV , 8ia - <p$ EpovjJEY
ixEtvo xal Xajfiij- dojJESa , o tg3 Sixaitp fiiXrtov iyiyvsxo, xcp
81 d8lx(p a- 7tGoXXvr o , Vide praeterea En- gelhardtura ad Piat.
Lachetem p. 185. ed. p. 28., qui ad lo- cum modo laudatum verissime
haec annotat: Quamvis disertis verbis haec sententia nondum sit
dicta, continetur tamen quo- dammodo in praecedentibus. Post- quam
enim recta exercendi ra- tione corpus melius reddi, prava perdi
ostendit, sic pergit Socra- tes : ovxovv xal xaXXa, co Kpl - zooVf
ovtgjZ, Iva prf itavxa 8ii - Qjfjtv , xal 8 j) xal nEpl rcov
Sixaie&v xal adlxcav x. t. A., ubi verbis xal xaXXa TCavxot
omnia complexns iam id sibi concedi vult Socrates, animam
iniustitia et pravitate perdi; quare pergere licuit: o tgj jj\v
8ixaicp fieXxiov iyiyvsxo , rc3 ddiHoo anaXXvxo. Eodem modo ,
h. e. supplendo dicendi verbo explicandus versus est Me* leagri in
epigr. XII, 5« T* 1» p. 6, ed. Iacobsii. yvovzca. odae di zcbv yvvcax&v
yvvccixog Z(irj(id sidiv, ov 7tdvv avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv,
dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag zErpappivca tldi, xai ?/ taxet
xovvop’ %x £t tavxov povov , ipya 81 xpedd cov, ubi Ixet
positum est pro ixetv XeyeiS* Malimi tamen ix 01 le- gere, quod
positum esset pro. ?/ taxet tpairjS. xai bdai av
yvvaixeS — yiyvovtai. Av plerum- que ita ponitur, ut eadem
ali- cuius actionis reive conditio in- dicetur, quae in praegressis
re- peritur» Hinc fit, ut av posito saepissime verba omittantur,
qui- bus conditio illa exprimatur. Expletior oratio haec foret: xai
odai yvvaixeS tov xoivov xpij- pa eldiv % 6 8tj tote avdpoyv- rov
ixacXetto, tpiXavSpol t* ei- di xai al noXXoil xgjv jioixsv -
tpicbv ix tovtov tov ytvovS yeyovadiv. Sed nemo non vi- det, e
nimia verbositate haec verba laborare ; quapropter av vocula
adhibita, qua ea, quae in praecedentibus continentur, suppiendaque esse
siguificantur, no- stro loco omissa sunt. Et quoniam praecedit ix
tovtov tov yivovS yeyovadiv , haud scio, an non insiticia verba
sint ix tovtov tov yevovS yiyvovtai ; quibus omissis neque
sententiae vigor minuitur et comtior fit elegan- tiorque oratio.
Sed nihil mutau- dum contra codicum auctoritatem , qui ad unum omues
verba illa exhibent, EaMem etiam Fi- cini conversio probat: Rursus
quae cunque mulieres virorum cupidae moechaeque sunt, hac stirpe
nascuntur, ov navv — ciXXd paX- Xov. Dictam supra est
de ov navv vocularum significatu io an- notat. p. 49* Recte ibi
contra Engelhardtum monuisse nobis videmur, ov navv non esse plane non,
sed non magnopere, non sane. Exemplorum, quae illic laudavimus, nul- lum
esse puto, quod probandae huic sententiae magis inserviat, quam
nostrum locum. Addito nimirum paXXov comparativo statim
intelligitur, Aristophanem dubitanter loqui, atque illarum mulierum
erga viros amorem non prorsus negare. xai al htaip
idtptai. Timaeus p. 123. Itaipidtpiai' al xaXovpevai xpifiadeS ,
ubi Bnhnkenius : tales crissantes, in- ™it, mulieres, quae aliis
nomi- nibus Lesbiades , tribades, frictrices et subagitatrices
vocantur, in telligi t Clemens Alex. Puedag, II, p. 264. yvvaixeS
avSpi%ov- teS napd. <pvdiv. Stallb, Te- tigit nostrum locum
Wachsmu- thius in libro: Hellenische Alter- thumskunde T, II. Abth.
H, p. 48 et 49, bdoi 8h dflpevoS tpij- pa. Ut
concinnitati singula- rum partiam orationis cousoleret, Bastius
scribendum coniecit odoi afifreveS afifaevoS tpijpa el - dtv.
Recte fortasse, neque au- dacior haec coniectura censenda est.
Factam est enim scribarum incuria haud raro, ut, ubi scriptor duo verba
iuxta posuit, quae inter se aut plane non differ- rent aut non
multum, alterum at iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc
iis k$qsvos tfirjiia d<St, rcc a§§iva SuoxovGi , xal Tiag fihv av
accidis u<Hv, are Tcicu%ca orna tov aggivog. chartae mandarent, alteram
omit- terent. Hoc modo depravatas est v* c. locus pulcherrimus
Platonis, Crit. p.45 A et B.; verba haec sunt: 2. apri 81 Tjxet S 7
) TtakcLi; Kp. iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo? ovx evBrvS
iitjjyeipaS pe, aXXd diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd tov di\ <0
2ojxpattS i ov8* dv avToS ?/3eAov iv to~ davrp te ay pv it vi at
xal Xi >7ty elvai • aXXa xal dov naXai $av pa^Go al-
.dSavopevoS, co? t/SegoS xa$ £V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad
h. 1, ed. p» 102. Critonem loquentem : Ne ipse quidem vellem
in tanta insomnia tantoque moerore versari, in' quo revera
sum, tibi autem, * cui tam gravis imminet calamitas, haec tua
quies non videbatur turbanda esse. Cur Socratem e somno non
excitaverit Crito, caussam justissimam habes * placidissima quies
non videbatur turbanda esse. Cur tacide consederit (diyjf 7ta-
paxaSt/dat), ei quaestioni quid respondeat in Critonis responso,
frustra quaeras. Tantum enim abest, ut verba; ne ipse qui- dem
vellem in tanta insomnia tantoque moero- re versari aliquo modo cum
Socratis quaestione illa conciliari possint, silentiumque excusent,
ut potius ipsa inepti quid ha- beant atque excusatione indigeant*
Verba Critonis depravata sunt* atqne eo modo, quo Bastius nostrum Symposii
locum emendare studuit, corrigenda. Satis notum est, summam animi
anxietatem eam esse, quae silentium non patiatur. Quid multis?
Scripsit Plato: ov pd tov di*, oi*S* av avTvft avav8o? iSeXor x. t.
X. Haec verba scribarum incuria in hunc modum depravata sunt:
Ov8 9 dv avroS avavToS , ut scripserunt Symp. p. 174. D. itpo o8ov pro t
tpo o rov ; post alii, cum dv avroS verba male repe- tita esse
putarent, pro dv av - ToS avavroS scripserunt dr av - toS, Sensus
est totius loci ; Socr. Warum wecktest du dann (quae vox quomodo
cum d e n n cogna- ta sit, dixi p. 151 .) mich nicht sogleich
auf, soudern setztest dich schweigend ' neben lier? Krit. Ceim Zeus
, o Socrates, ich selbst vermochte es bei so grosser Unruhe
and Traner nicht uber mich 2 u bringen (vide, quae de iSeXsiV
verbi potestate dicta sunt ia annot. p. 44.) ganz- lich lauti os zu
sein; und doch bewundere ich dich schon lange, indem ich bemerke,
wie sanft du schlafst. Emendatione nostra quantum gratiarum Critonis
responso accedat, prudentio- res persentiscent. .1 xal TiajS
plv dv itat - 8 e? G)di. Memorabilis hic locas, quo relativa potestate
tegjS positum est. Astius praeter nostrum locum cum nullum in Pla-
tonicis scriptis reperisset, qui eadem potestate exhiberet tIgoS
vocem usurpatam , egoS scribeudum coniecit. Tego? in textu tpilovOi xovg
av$QKg xal %aiQovGi dvyxcttcixtlfiivoi 192 xal avpKtxltyulvot roig
dvdQccGt • xal d6iv ovroi (itX- ttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov , uve
dvdQuozaroL ovrtg tpvOU’ tpaol 6 'e dy rivtg ainovg dvaiOyvvrovg
Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ vit dvatOyvvxlag zovro dgwOtv, dXX’ vito
&<x$Qovg xal dvdQtiag xal ccQQEva- posuit prudentissime Stallbau-
mius, cuius silentium aliter, at- que Riickcrtum fecisse video, ego
interpretor. Ipsum Riickcrtum audit Tacet, inquit, de h. I.
Stallbaumius , sed mallem dixisset, si quid haberet , quo defenderet T iooS
relative usurpatum. Si repcritur in veterum libris, quod contra
consuetum dicendi usum est, codd. autem auctoritute probatur, a mutando
abstinendum notauduque est, si eo opus •it, novitas rei. Nostro
loco T tcoS non idem atque MgoS esse, quem lateat? sed quo id
defendat, quis habeat? cpiXovtil to v 5 d v 8 p a S — x ots
avS patii v . $iXttv verbum feminis amasiisque ple- rumque
convenire supra annota- tum est p* 69. Ceterum prae- cedente XOvS
dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris fortasse pro xoiS avdpatii pronomen
avroif, quod cur non posuerit Aristophanes, caussa in prompta est. Solent
enim inter- dum veteres praecedente aliquo nomine non pronomen
exhibere, sed ipsum illud nomen repetere, nt id significantius
emineret le- ctorumque animis maiore cum gravitate insinuaretur.
Igitur nostro loco pueri, quatenus segmenta sunt integrorum VIRORUM, VIROS
AMARE dicuntur, atque cum VIRIS lubentissime congredi, ut io
universum significetur, PUEROS illos non nisi VIRORUM societate delectari. In
sequentibus pro xai tltiiv ovroi fUXtitiroi scribendum coniioio na
i tltiiv ovroi oi (iiXntiroi. Articulus fi- nali syllaba ovroi
verbi absorptus est, ut factum est haud raro. Unum depravationis
huius exemplum ut laudem, in plerisque codd, male exhibetur p. 179.
B. ov ftovov ori avSptX, aXXd xal yv- vaixtS. Alio loco de superlativo
vel cum articnlo vel sine eo exhibendo dicemus, quam rem nemo
Grammaticus, quautum scimus, adhuc satis accurate tetigit. ars
avSptiotar oS ov- XtS (pvtitl. Alludit Aristophanes lioc loco ad
avSptioX nominis ambiguitatem. Signifi- cat enim et fortem ct eum,
qui cum VIRIS aliquid habet coniunctiouis, similitudinis, commercii. Neque
dubium est, quin ARISTOFANE illam nominis significationem ex hac derivatam
esse censuerit. Verba couvertenda sunt: Et sunt hi quidem OPTIMI
PUERORUM ET IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME ideoque natura
fortissimi sunt* tpatil St} tivsS x. x. A, Eandem rem
Pausanias tetigit p. 182. A. his verbis: ovroi ydp tltiiv ol xal to
ovtidoS ntitoi- rjxottS , cafr e xivaS roXpav Xt- ytiv , o)S*
altixpov x a P^ etiSai ipatitouS, Ceterum etiam hoc xi 'as to
fifiotov cnrroig acsxa^o/iivoi. (liyct di te x/iiigiov xal ydg
xckEa&svxsg fiovot ccxopatvovGiv clg xu ito- hxtxd avdgs g oi
xoiovzoi' enstdav de avdgca&aiGi, mudegaOxovOi xal itgog ydgovg xal
itutdoitouag ov B itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov vu { uov
dvay- xu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv
loco Riickerti sententia de Grae-corom saper PÆDERASTIA iudicio, quam
supra exposuimus iu annotat p. 9 satis reprobatur. TiveS enim h. 1., ut
illic x iva$, quamquam de populi quodam ru- more accipiendum est,
tamen non omnium Graecorum constans de PÆDERASTIA indicium exprimit 3
d fi fi ovS xal dvSpstaG xal dfifiEvaitiaS» Opponuntur haec tria nomina
praecedenti avat 6 xvrtiaS nomini oratorie» ut indicetur» quantum numero
superent praecedens nomen haec tria nomina tantum etiam ei praevalere
significatus potestate. Tantum enim abest ut pudore illi PVERI careant» ut potius VIRILI sua indole
ducti AD VIROS se convertant. Ceterum illa nomina haud multum inter
se differunt siguificatu. 'AfifiercD- itia enim VIRILEM INDOLEM significat
non minus quam dv - 8 peia t cuius indicium est Sctfi- fiu$ h. e.
fiducia audacia; animi fortitudo Laudat Fischerus E- tym. M., in
quo d fi fiev coniaS no- tio sic explicatur: afifievcDitds ix
x ov ufifiijv dfifi&voS xal r ov d)if> oonoS, o tiijpaivti rd
itpoSco- 7 ior, dfifisvcojtds 6 afifievoS jtpoS- coitov 8 x ojy
> xaxd dvVExSoxi / y . yyovv o dvdpelo S xal idxvpdf xal
dvvdpevoS it poS cx$pdv dv- Tvrax$fiyai. idxi xaxd 6vv- exSoxy v
ano pipovs rd oXov. xal yap xe\e&%evxeS —avS pES ol xotovtoi,
Pi- cinus verba convertit: Iluius evidens argumentum est , quod cum
adoleverint , soli ad civilem administrat ionem conversi , viri
praestantes evadunt. Nou rectius Schleiermacherus in conversione: dass wenn sie
voll kommen ausgebildet sind, solclie Manner vorziiglich fur die
An- gelegenheiten des Staats gedei- hen. Unice vera Orellii explicatio
verborum est in Scbulthessii convers. p. 92. : Deutlich eihel- let
dies daraus » dass solchc al- lein » wenn sie heran wacbseu» in den
Angelegenheiten des Staates sich ais Mauner beweiscn. Eodem modo verba
intelligenda esse docuit Rtickertus ad h. 1. vito xov vdpov
av ay - xagortai * Apud Stohacum Serm. 65. p. 4 10. legitur:
*Znap- riatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ, ryv ptv npcdxyv dyaptov
xfiv SevXEpav uiptyaplov xyv rpi- xyv 8 \xaxoyapiov. Utrum
apud Athenienses ayapiov lex exstite- rit, necne, in incerto est*
Vide Wuch&muthii librum: Hellenische Altcrthumskunde T. II.
Abth. I* §. 98. p. 266., Meier u. Schom. Att. Proc. £87. Cuvendum
est autem, ne quis forte nostro ioco probari ceuseat, legem dya -
piov Athenis latam fuisse. Nam vdfioS ambigua significatione apud
Platonem adhiberi solet, ut et legem, et morem receptum» ccyafiotg.
stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g re xcd <pt2cga<STt)g
yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg aO}ttt^6[icvog. orctv fitv ovv xai avrtp
Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov y/ilttu xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore
xcd 9av(ia0td C lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti, ovx
i&D.ovttg , ug Enog tbteiv , %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb consuetudinem,
exemplum significet. Vide annotat, p. 100. nai8epa6xr}S xe
xal <pi- Xepadxi/S. Non de pueris hic sermo est, sed de viris,
qui in- tegri viri segraeuta sunt. Me- rito igitur roirere it ai8 £
patiit/ S verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuu- ctionem. Interpretes
verba convertunt: Knabenliebhaber und LiebhabertVeund, ut alterum
ver- bum ad viros, alterum ad ama- sios pertineat» Sed fac,
hanc ARISTOFANE mentem fuisse, quaeritur, cur ordinem verborum inverterit,
adraiseritque vdxepov itpuxepov, quod rectissime etiam a Riickerto
not.itur. Sed quam hic verborum illorum explicationem exhibuit, eam
fateor mihi neutiquam probari. Eam, inquit, rationem inii , ut
tpiXepaOxj/v dictum hoc loco putarem amicorum amatorem ad analogiam naiSt
patir/fS, quasi non a cplXeco , sed a (piXoS petita esset pars
prior nominis. Jam idem est , ac si dicat it a i 8 cov X £ xal
cpiXoov i padxi/v. Sen- sus hic est: Ex hoc genere qui est ,
js semper AMATOR est , sive PUERI sunt , quos AMAT, sire AMICI Quos
enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet, postquam adulti sunt, ita ut
horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit, Displicet haec explicatio
duabus de caussis. PUERI enim, qui AMANTVR, non minus AMASII sunt quam AMICI
AMATORVM. Deinde non dicitur Graece cplXoov ipadxqS sed posito ipadxijS
nomine itaideS s. itaiSixa adiungautor necesse est, coutra cpiXcov ubi
ponitur, non ipadxrfv sed qiiXov adiungi usus loquendi flagitat. Possis
itai8epa6x?}s xe xal qnXepa6tr}s: ita explicare, ut VIRVM inlelligi
censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum, et ipse pueros amet.
Dubito tamen, num haec significatio cum tptXepadxtj S verbo
satis conveniat. Supra annotavimus p» cpiXeiv adhiberi haud raro, ubi de
actione sermo sit, cui vis quaedam, qua necessario fiant, inesse
indicetur. Eadem significatio interdum in iis nomi- nibus obtinere
videtur, quae cum cpiXeiv verbo composita sunt. Sic in Alcib. I. p.
122. C nod dubium est, quin de indole Lacedaemoniorum jfrmo sit,
qua ad labores suscipiendos , ad aemulationem summam et ad honores
consequendos ferantur. Verba sunt: ei 8* av iSeXt/tieiS elS
(ScjippodvvTjv xe xa\xo6piu>ri]ict aitofiXeifiai — xal
(piXonoriav xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS xaS AaxeSaipoviaiv x.
x. A. Eo- dem modo verba p. 189. D. intelligenda sunt: l6xi yap
Secor tpiXavSpGHioxaroS quae ita de Erote dicuntur, ut deus sua
natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba p. 191. Giuy.qov
xquvov. xccl ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm .fiiov ovzol tlOiv , ot
ovS’ av %%oitv dmiv , o zi (3ow- Xovzai 6<pl<5i 7 ta</ ccV.t)
Xav ylyvt6&ai. ovdh yctQ av So^hb tovz’ ilvai r/ zav utpQO&iolav
tivvovoia, tog ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu ‘gvvcov ovz
ag ini fuyaXzjg 6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua- C.
(piXoyvvaixe? , p. 191. E. qxiXavdpoi, quae de naturali quodam instinctu
dicta esse, etiam e verbis paullo infra positis colligitur: aXXa paXXov
npos raS yvvaixat t et p a ppkv a i el- tflvy quibus verbis
qnXoyvvaixeS nomen manifesto explicatur. Ad nostrum locum ut
revertar, <pzAe- padr/jS idem est, atque ipadn}S tpvdet , quo
nomine supra utitur ARISTOFANE B. itat - depadtovdi xal itpoS
yctpovS xal 7tai8o7ZoitaS ov tc poSexovdt tov vovv cpvdti Igitur ARISTOFANE
mens haec est: Omnino igitur talis puerorum AMATOR est atque naturali
quodam insctinctu, quippe integri VIRI segmentum, ad pueros AMANDOS fertur. xal
aXXoS it ai. Valet, quod hic do solis iis dicit, qui ex integro VIRO
dissecti suut, de ceteris quoque, mulierum et androgynorum segmentis } de
quibus quum nolit copiosius dicere, solis hisce verbis additis ad
hos quoque id pertinere significat, Riickert . tpiXia te xal
olxeiotiftt xal i p coti. Exspectabas ordinem nominum inversum, quoniam
priori loco positus est itat depadrr/i, ad quem Ipcoi nomen referendum
est. Vide annotat. Sed minus veteres in huiusmodi rebus accurati
fuisse videntur. Ceterum olxeiotqS Ad androgynum referri possit, ad
integram feminam cpiXia. Sed dubito, num id recte fint. Tria potius
nomina ARISTOFANE adhibuit amoris, ut esset, quod cum praecedentibus
verbis Sav/iadta ixTcXrjttovtai conciliaretur, atque recuperatae
integritatis gaudio responderet, xal ol SiateXovvr ei — ovtoi
e id iv , oi x.t.X. Pi- cinus verba convertit : jitque hi sunt ,
qui per omnem vitam amare pergunt: neque quid potissimum a se vicissim expetant
, exprimere possunt. In conversione Schleiermacheri exstat: und
die ilir gunzes Leben lang mit einauder verbunden bleiben , diese
sind es, welche auch nicht einmal zu sagen wiissten, was sie von einander
wollen. Non aliter Schulthessius verba convertit» Sed admodum
languent j si quid video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy
oX verba, Aristophanes hoc potius dicturus erat: Mirum esse in AMORE
hoc, quod AMANTES, cum veliut per totam vitam conioncti esse, i id
em huius voluntatis ne caussam quidem habeant satis gravem, quippe
nescientes, quid alter ab altero sibi fieri velit. Est igitur,
quod fugisse VV. DD. miror, diate- X ovvtei non praesentis, sed
futuri temporis participium. D ztQov y 4>v%r] StjXri idziv, o oi3
Svvarcci tlnuv, aJUa f lavztvtzai o fiovkezai , xa i ulvizztzcu. xca tl
avtoig iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie imazag 6 ”H<pui<Stos ,
lyav zd OQyavcc , Iqolzo ' „TL £o&’ o (SovkiQ&E , o
av&gco- moi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu; n xal tl
anoqovv- gJ ? a pa rov rov
Uvexa. Tovtov pronomen generis neutrius ad praecedentia verba tg3k
d<ppo8i<jlcov 6vvov6iot referendum est. Soiet autem neutrum genus
pronominis relativi et demonstrativi jexhiberi, si praecedit v tota
enuntiatio, ad quam prono- men pertinet, vel si praecedens nomen e
pluribus verbis compo- situm est, velut nostro loco rj tgjv
cteppo8i6icov 6wov6ict. LATINI eodem modo neutro genere pronominis
interdum utuntur; saepius aliquod nomen latissimi significatus pronomini addunt:
quae res* Adde Piat, de rep, I. p. 329. C. it&S, £q>n, <J
^otpoxXeiS , fyetS’ itp&S za- (ppodloia — xai oS, JEiv<pTjfi£t
y to avSpvne' dtipavaizazac pivzoi avzo diticpvyov x . r. A.,
ad quem locum rectissime Stall- baumius monet, pronomine singularis
numeri etiam contemtum rerum Venerearum exprimi, ut gd£ dpec tovtov
Zvaxa convertendum sit: dass dieser Armseligkeit halber cet. In
sequentibus ovzcoS, latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni,
uti solet, prae- mittitur. cfr. p. 192. E. ixal av iv AiSov. Adde
Alcib. I. p. 105. c. 4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva- 6zevtiv iv zf/
Evpojxy. Vide anuot. p. 43- Censet Riickertus ad li, 1. ovrooS ix\
payaXijS' <Sxov8fj$ pro l<p’ ovtcj paydXrjS tfxovdi/S positum
esse. Eam me- tathesin verborum Graeci admit- ty
* tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis; num in ovzcoS verbo admiserint,
vehementer dubito. o o v dvvazai sixelv x. T. X . Vis amoris
haec est, ut amantes impellat ad aliquid, quod quid sit, ipsi f qui
amaut, prorsus ignorant. Quod autem petvravec 1$ai atque alvizzefBai di-
cuntur, hoc est, diviuare atque caeco quodam animi praesagio
sentire id, quod sibi fieri velint, idem Margarethae verbis notis-
simis in Faustio Goethii pulcherrime expressum est. ixidz as o
"Hpatdz o f, rdopyavax.x.X. Si germina duo salicis aliusve
ar- boris, aut fructus 4uo mali, piri, pruni, filo adhibito ita
colligantur, ut alterius latus cum alterius lateri .firmissime connexum
sit, fieri solet haud raro, ut e duobus germinibus fructibusve
prodeat unum. Haec res, nostris temporibus PUERIS satis nota,
non dubium est, quin et Graecis innotuerit. Ad eandem ARISTOFANE fortasse
allusit. Iam iutel- liges, za opyava verbis cuius generis
instrumenta significantur. Vincula sunt et compages, quibus adhibitis duo
homines ita colligantur, ut germinum frnctuumve instar firmissime connexi
alter ab altero discedere nequeat atque duo in unum concrescant. Minus
apte Riickertus ad h. 1. Semper mihi , inquit, visus est Elato his, qu-ac
de Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito' -J-Aqu ys tovSs Ixi&vpu- xe,
Iv tc 5 avuS ytviG&ca ou (icchti tu txXXyXoig, wgxs xal vvxra xal
rjutQav fii) rxxofainMS&ai alhjkav ; sl yccQ tovtov ixt&vfieiTE ,
tQiXa vaag Ovvrjj^ai. xal E <Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag
sva ysyovivav, £ cano dicentem facit Aristopha- nem,
Homericam fabulam respicere de Martis ac Veneris amoribus , Odyss . VIII , 266.
seqq. maxime propter Mercurii verba } quibus ille , etiam si ter
tantis vinculis constringi debeat, omnesque deos deasque spectatores
haberi, tamen se Veneris fructum vel hoc pretio emturum fore profitetur
. apa y e xovSs irtiSv- pstx e. *Apa peponi solet,
quando is, qui interrogat, veram esse opi- natur, quam rem
sciscitatur, cfr. Piat. Polit. 1 , 328. A. xal o USeipavToS , Apa
ye, rj 8 oS, ov 8 9 Xdxs , ori XapitaS idxai rtpoS kdnkpav acp 9
Initoov xjj 5c<y; Nescire revera Socratem ceterosquo Adimantus
suspicatur r ij£ Xapzd 8 o? celebrationem, quod abitum parantes
conspiciebat. Adde Piat. Crit. p. 44. E. apa ye pr/ ipov npop-q^et xal
rcbv dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi sup- plendum est: aliam certe
recu- sationis caussam non reperio* Alcib. II. p. 138. A. apa.
ye xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof Tcopevei ; ubi verba
quaedam omissa sunt, ad quae yk parti- cula referenda est :
Coronatum te certe conspicio sacrificantium ri- tu. Nostro loco
Vulcanus cum animadvertisset, SxepoY hxkpqo Xaipeiv B,vv 6 vxa ini
peydXTjS ditov 8 ijS , yk particula usus lianc cogitationem
interrogationi ad- miscet; Videmini certe velle al- ter
alteri se artissime adiungere. ' dvvr rjZat xal dvptpv- dai,
'ZwxrpiEiv verbo Plato supra usus est p. 183* E. o 8h rov rjSovS
xPV^ t0 ^ ovroS ipa - dtrjs Sia fiiov pkvei axe povl - pqu
dvvxaxeis. Proprium est do fabri ferrarii arte, qui metalla
colliquefacit, ut ca artissime couiungat. Vide Ruhukenii an— not.
ad Tim. L. V. Pl. p. 139« Pro dvptpvdai codd. non pauci
6vp<pv6ijdai exhibent, quorum in numero sunt Bodleianus, Vaticani duo,
alii. Hinc non mi- reris, dvptpvdrjdai a Reyndersio atque Riickerto
in ordinem verborum receptum esse, praesertim cum fabri ferrarii opificio
verbum apprime conveniat. Nobis cur unice probetur, quod Bek- kerus
et Slallbauraius dederunt, dvp<pv(ftxi , ex annotatione im- dxaS
6 r 'H(pai6toS f Ix&v ta op- yava verbis subiecta patebit. Sio
in Piat. Epist. VI. p. 323. C. le- gitur: oipott yap 8ixxi xe xal
al8oi xovS itap 9 fjpdoY ivxev- $ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt r 6
XvSlv pkya xvxoi yev ope- ror, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM dv dvptpv
6ai xal dvP&tf- 6 at TtaXiv elS njv itpotitidp^ Xovdav
tpiXotrjxd xe xal xot- YGQviaY. Ad nostrum locum Aristoteles videtur
respicere De rep* II, 4.; xaSanep iv toiS ipoo- rixoiS Idpev
XkyoYta roV *Api- dxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id 12 xal eco$
t av ZijtSy wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg £rjv, xal httidav
dno^avrjtB , IxeZ av iv "Aiiov dvtl dvslv tvet tlvai XOtvfj
TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M TOV - tov eqccze xal e^ccqxel vpiv , av
rovtov TvyrpiE ravta dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit],
ovd’ &XXo ,tt 1 6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vr- rcor
6vptpvvai xal yeveOBat ix 5t;o ovtg>v dpcpoxepovS ira, cjS
ira arra. Valgo pro ovxa igitur brraS , qoae lectio non nisi tribas
Belkeri libris confirmatur. Non dubium est, quin brraS in textum
irrepserit scribarum errore, quj, qum paullo supra legerint
&Sxe 8v * ortas, etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam
au- tem non falsum est c bs ira ur- raCy tamen ipsa oppositionis
ra- tio , quae inter o oSxe 8v uvxaS ct cdS ira orta manifesta
re- peritur, singularem numerum exi- gere videtur. ixei
av iv Aidov — era elrai. De verbis ixei — iv Aidov supra dictum est
p. 43* " Era elrai e praecedente <3ffre particula pendet,
quae non opus est, ut hoc loco repetatur. Quae- ritur autem, qui
possit "HcpcatiToS ix&v X( * opyara corpora aman- tium ita
coninngerc atque colli- gare, ut et in Orco manes cod- iuncti
maneant. Explicanda haec res est e veterum de animorum post mortem
conditione* Man^s enim quasi umbrae erant ad si- militudinem hominum
mortuorum accuratissime conformatae, qua- propter apud Homerum haud
raro fipoTOJV efScoXa vocantur, cfr. Odyss. 11. 475. Adde II. 23.
65. yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS SeiXoio
itarx* avxcj, piyeSbs te xal bpuara xaX* elxvta -v xal tpannjr ,
xal xola nepi xpot ei pax a e6xo. Ex veterum igitur opinione
qui in vita breviorem alterum pe- dem liubebat, etiam in Orco
so- lebat claudicare, monocolos non nisi unius oculi lumine
gaudere. Sequitur inde, qui in vita ita colligati fuerint u
Vulcano, ut in unum corpus concreverint, eosdem etiam in Orco
coniunctissi- mos esse. — Pro arxl Svoir / quae lectio vulgata est
, arxl Sveir edidimus cum Bekkero et StallFaumio, Bodleiani codicis
auctoritatem secuti. Jvoir prae- ter Riickertum etiam Matth. ve-
rum habet in Gramm, f. 138. p. 262. Annotat tamen ille ad nostrum
locum: minime , inquit, dubium nobis est , quin a Platone usurpata fuerit
haec forma ( 'Sveir ) , cuius sat multa vestigia in codd . reliqua .
el tovtov i pax e. Ilaec brevius dicta sunt; expletior oratio
audiret: orAA* opaxe, et tov - to idxir , ov ipdte .. Sequentibus verbis
tavxa axovCaS Io per dxi ovS * av eis x. r. X. apodo- sis efficitur
ad verba p. 192. E. init, xal ei ecvToiS ir tqH av - toj
xaxaxeipiroiS exi6tds x. r. A. Annotant autem interpretes,
Aristophanem avTolS pronominis in protasi positi non amplius memorem ,
simularem numerum ia uv cpavett) povXiftsvos, &XX’ axt%vag olo it’
ccv axtjxo Lvtxi tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal Ovvzaxtl $ zu
iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al. Tovro yaQ ttfr i zo alziov,
ozi r] &Q%aia cpvOi g f/iuov i]v Kvzrj xal yixtv oXou tov oXov ovv
ztj lici- apodosi posuisse, atque eum pro- ximo ov8 av efc
accommodasse. - ov8* av eIs. Ov8h sis ita differt ab av8ets, ut hoc
nul- lum significet, illud, quoniam interposita av vocula vis
nega- tionis augetor incredibiliter, ne- minem denotet ne uno
qui- dem excepto. Unum exemplum huius usus ut laudem, Piat.
Hiaed. p. 100. C. cpaivExai ydp pot, eX tL Itiriv aXXo xaXov
nXrjv aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi
JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV. l J iura exempla Stallbanmius congessit in
aonot. ad Piat, de rep. I. p. 353. D. «AA* 'Atexv&S
verbum apud Platonem saepissime reperitur, ibique vario modo
ex- plicandum est. Primaria verbi significatio est, ut etymologia
do- cet, anXadrcji?, aSoXcoS , a qua reliquae verbi significationes
fa- cili negotio derivantnr. Nara quae sine artificio dicuntur aguuturve
, ea clare a per te que, certissime, ad<paXco£ 9 lucidissime, tpavspmS
, simplicissime, anXcoS j sum -n matim, naScinat, pronuntiantur. Nosftro
loco possis etiam de tempore voculam dictam intelligere, ut conversio
audiat verborum : und ieder wird so- gleich, oh ne Weiteres
das gehort zu habeu vermeinen, woruach cben er lange schon streb-
te. Scboliasta ad Eutyphronem habet apud Bekkerum, Comment,
critt. in Platonem T: II p. 325. atEx y d>S‘ xavreXcoS' ? axXcoj
tj xaStarraZ, IfavpCDS, rj teXIgdS. ol 81 iv l6(p xgj ovxi, xal aXrj-
$eiqc* ol 81 SrfXovv xo itapa - xav xal xaSoXov , xax * aXtj -
Ssiav. oloi x* av axi} xokv cti + Ad ofozr’ av ex
praecedento ovdfc eU intellige Zxa6xoS. De rep, II. p. 366. D. xojv
ye «A- Xcov ov8e\s Ixcov 8ixcnoS, aAA* rxo avavSpiaS — ifriyet
xo aSixEiv, aSwaxcov avxo 8pdv. Horatii Serm. I. 1, 1, Qui
fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem Seu ratio dederit, seu
fors obiecerit, illa Contentus vivat, laudet di- versa
sequentes h. e. sed quisque laudet cet. Stallb . Comparari potest
cum hoc dicendi genere ea verborum structura, qua haud raro e
praecedente verbo negativo affirma- tivum repetendum est; eam in-
dicatam reperies iu Indicibus, Ceterum Riickertus censet non
ZxatixoS sed 6 dxovoaS sub- intelligendum esse. tovto yap xo
alxiov. FICINUS verba convertit: Huius caussa est, quia prisca
hominum natura haec erat inte- grique eramus. Eodem modo
Sclileiermacherus : Hie v o n ist sun dies die Ursache. Neque 12
* 193 dvfita xal tficog u "Eqos ovofia. xal xqo tov, SgJtCQ
liya, tv tjfLiv • wvi Swc rrjv adixltxv diaxtofhjfuv ixb tov &eov,
xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito AaxEdcafiovUov. defuerunt , qui tovtov pro
rot>- to in verborum ordinem infer- rent. Si pro yap legeretur
Si particula, ut in Piat. Apol. Socr. p. 31. C„ ipsi tovtov
scribendum censeremus: yap part. genitivam pronominis non admit- tit.
Referenda autem canssalis particula est ad praecedens idjuv: Scimus
ne unum quidem eorum, qui haec audirent, ea recusaturos esse in
caussa enim h/ic est, quod natura nostra primitus talis erat
integrique eramus. Epeo S ovopa. Erotis nomen maiore cum vi hoc loco
pronuntiandum est; igitur, quo validius emineat, articulo caret.
Exempla si quaeris nominum sine articulo positorum, vide annotat, p.
129. Fortasse etiam eadem de caussa in Piat. Gorg. p. 448. E.
lectio vulgata vera est, quam codd. lectioni posthabuerant in-
terpretes. ov yap azExpivd- prjv , ori sXrj xaXXidrij.
Codd* plerique articulum exhibent 7} xaXkidTT}. Ceterum hoc loco
interrogandi signum in punctum mutandum censemus, quod iro- nicae
dictioni convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videli- cet non
respondebam eam xa\ XidTJjv esse. Quae sequuntur verba , xal Ttpo
tov ev qptv, meram repetitionem sen- tiae supra probatae continent,
ut uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem
perspicuitatis caussa admisSam ne quis aegrius ferat , <2faep Xiyco
verba addita sunt, de quibus diximus in annot. p. 133. ad
verba 7/ re ovv laTpiHt), doSiup Xiyco, icada x. T. X. '
xa$ ait s p 'Apxa&eS vxo AaitsSa ipor Igov , Ad quam rem
Aristophanes Arcadum Lacedaemonumque laudato exemplo alluserit, notum est atque
ab in- terpretibus satis indicatum. Lau- dant Xenoph. Hell. V. 2.
7. ix 81 tovtov xa^xfpV^V J&v to teixoS , SiajxldSrf 8 "k
7} MavTi- veu TEtpaxv • Aristid, Orat. T. II. p. 287. ed. Iebb.
SiaoxidSTj- dav Si ye MamvEiS vno Aa- XESaipovicov rjSrj rijs
eipt/vjjS opoopodpivrjS, Alios Riickertus laudat ad h, 1. Adde
Wachs- muths HeUeniscbe Alterthnms- kunde I, 2. p. 420. : Vor
alleu war Mantinea eiutrachtig und kriiftig. Aber auch gegen diese
Stadt machte Sparta mit em- poreuder Ge wa 1 1 die Sat/ung des
Friedens geltend; sie wurde Olymp. 98. 3 , 386 v. Chr , in
Ortschaften aufgelbst, aus denen sie vor etwa einem Iahrhundert
entstanden war. Constat autem, eo tempore, quo Mantinea a Lacedaemoniis
eversa est, plcrosque convivas symposii, quod et ipsam celebratum
est Olymp. XCVIII* 4. h. e. 386. a Chrt n. , iam fuisse morfruos,
Anachronismum igitur h. 1. Platonem admisisse interpretes annotant simulque
Symposium post Olymp. XCVIII. 4. conscriptum docent. Comparationem
ipsam quod attinet, frustra tertium, quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij
xoOfiioi tj/isr xgdg rovg deoiig, vTCag (irj xai av&ig xca xe-
ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg etijla tg xctta yQcccprjV
ca»t, comparationis quaesivi. Vel- lem annotasset aliquis interpre-
tum , quo iure hominum dissectionem cum Mantineae eversione comparatam
putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep ApxdSef vno AaxtSoupovicav
insiticia putare, nisi praecederet dtooxi - < iSijfisv verbum,
quod aperte ad haec verba comparatum est. Praetervidit hoc Cornarias, qui
di£- 6xi6^Tffi£V scribendum coniecit. Sed nec hoc nos prohibet ,
quominus certe depravationis aliquid verbis, inesse censeamus; vide
Excors., ubi fusius de hoc loco disputabimus. <poftoS ovv
$6xiv, Vulgo ivetixiv legitur, quod ne Graecum qoidem censuerim in
huiusmodi enuntiatione. Sequentibus verbis xo6f.no ? icpoS xovS
SeovS ad primaevum hominum genus respicitur, quod iu ipsos deos impetum
fecit. Ex quo genere quoniam , qui nunc vivunt, homines orti sunt,
cavendum est, ne forte natura ad impietatem ducente illis similes sint,
eandemque, quam illi, corporis dissectionem experiantur»
GjSnep ol iv rctiS 6x?j- XcCtS — IxXEtVTtGDflk V O l. Annotat
Stallbaumius ad h. 1. : Locus videtur hoc modo expli- candus esse.
Veteres -artifices vasa, signa, alia, ita caelabant, ut ea
ostenderent figuras extra prominentes, interdum totas, in- terdum
dimidiatas. Et hae qui- dem vocabantur itpoSxvica, illae vero
nepupavij et ixtpavij. v. Salinas, ad Solin. p. 736. Quum
igitur ixxvjc ovv omnino sit caelare adeoque de figuris utriusque generis dici
soleat, perspi- cuitatis caussa additur xaxii ypa- cpjjv , picturae
s. tabulae pictae modo, quo additamen- to efficitur, ut cogitandum
sit necessario de xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum xaxu ypaqnjv
explicationem fateor mihi noli placere, neque omnino video ,
quomodo clariua fiat illis verbis additis , de c rastis sermouem esse.
Schleiermacherus verba xaxd ypcupffV plane non expressit: Dass wir
nicht noch cinmal zer- spaltet werden und so herurngehen miissen,
wio die auf den Grabsteineu ausgeschnittenen,die m i t ten
durch die Nase ge- spalten sind. Atque fortasse interpres
doctissimus de figuris cogitavit ab impia incultae ple- beculae
manu violatis. Quis enim alias unquam de dissectis figurarum naribus
in veterum monumentis quicquam audivit ? # Al- tera explicatio est, qua
dicuntur homines in monumentis non a facie tota, sed a parte faciei
al- tera efiormati esse atque ideo dissecti vocari. Si hoc modo
rem animo suo informarunt VV» DD. : potuisse cuiquam huiusmodi artificia
intuenti dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter negamus.
Quid enim? Rem quamque ut in operibus caelatis, picturis, aliis, ita
in rerum natura ex altera tan- Ixrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru
rus &vag, yeyo- votss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’
uvSgu tummodo parto conspicimus, totam uno obtutu non
comprehendimus. Nara cuiquam in mentem venit de dimidiatis vel monte, vel
domo, vel alia quavis re cogitare? Ut in rerum natura al- teram
tantummodo rei cuiusvis partem conspicimus, alteram supplemus meute , ita
etiam in artis operibus ex altera parte ef- fictis , quae uon videmus ,
mente supplere solemus. Alia verborum explicatione opus est, atque,
si quid video, litterulae unios mutatione. Vulgo legitur xccxa-
ypciupijv , quod primus Ruhnke- nius vidit in annot. ad Timaei L.
V. Pl. p. 175. in xaxa ypa.~ (pyjv mutandum esse. Ortum nobis illud
est ex xocxctjfyatpiiv, scri- psit autem Plato xccxa fiatprjv .
Haec scriptara quam bene conveniat Aristophanis sententiae, iam vide.
2x7/\7j est Suida teste lapis in altum erectas, figura quadrata,
idemque figuris haud raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum
, angulum efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis
xaxa fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^ non aliter intelligi posse, quam in
ipsa duorum luterum compa- gine positae. Eo loco dissectione
figurae opus erat, ut altera eius pars iu altero, altera in altero
latere poneretur. Uckermanni, viri humanissimi industria fa- ctum
est, ut quadri effigies tabulae lapideae incisa apponi posset, qua clarius
redderetur lectoribus, quid Aristophaues verbis xaxa jbcupijv adhibiti*
intelligi voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi
btovg, iva B rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos
qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alterae partes non
conspiciuntur quippe positae in statuae lateribus, quae cum hoc
latere cohaerent, sed ab hac parte statuae non comparent* Vide
autem, quam bene haec segmenta conveniant cum verbis supra lectis
p. 190. D. idv 6 * Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv — ndXtv av x ejxai
dixct , gqSx' i<p hvoS no pevtiovr at 6xi\o vS ddKGoXidZovT eS. Adde
dissectarum narium narrationem, quam optime repraesentatam habes jiorum
segmentorum effigie; Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v effictarum
dubites, ipsi veterum monumenta sepulcralia vidimus, in quibus
huiusmodi dissectiones admissae erant. Eas admisisse videntur
artifices ea de caussa, ut fabulae, quam figuris describerent,
continuitatem, continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem
artifices plastici sibi licere arbitrati sunt, figuras ut
dissecarent, idem haud raro poetae in versuum finibus imitati sunt»
Nullus enim dubito, quin verba , quae et ipsa sunt figurae
artificiosae et quasi imagines rerum, in versuum finibus recte dissecari
possint. 8ianen pi6 fiivot xaxd tds fitvetS. Ne qnem offen- dat hoc
loco 8iaKE7Epi6fxivot verbum, depromptum est e comparatione sequente
dfertep A Idnai, Tali enim serra dissecari solebant. Prorsus eodem
modo p. 193. A. de hominum dissectione dicitur dtuJxltfStfftfv ,
quo' loco CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus.
Aitiltott autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai
bctsxpt/i- - pivai xai dnvyot A lar, xai ol diaizEnpuSfdvoi
d6xpdyaXoi . ol te *A5i/vaioi Xitinoi xaXovrrat Teo £JC Ttjs iv TGJ
XGOXTjXctTElY - dwEXovS iepidpaS avzovS aito - yXovxovS elvat,
Stallbaumios ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot, in- quit, aCxpdyaXoi quid
sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad Medeam v, 610.: ol t
imB,EYOVfiEYoi xi6tv , adxpaya- A ov xaxocxipvovxES , SaxepoY jur
ocvroi xocxeixov pipoS, $a- TEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS
vno&E%apkvoiZ, Iva , si 8ioi na- Xiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy
.irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9 inayofuvoi to fjju6v adxpaya- X
tov, dvaviolvxo Ttjv Zeviav. EvflovXoS &ov$oir x i not idxiv
azavxa 8iartEitpi<Sptva 7}pi6EQoS , dypifio jS nep ete xa
CvpfioXa. ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin Aristophanes ad
hospitalitatis tes- seras respexerit, quae A i(5nai vocabautur, verum, ni
fallor, ea- dem tessera etiam modus disse- ctionis indicatur. Tali
enim non in medio dissecari solere con- sentaneum est, sed ab imo
an- gulo - ad alteram versus. [ cjy o"EpcoS 7 } fity
ifye- ft oo y , Vulgo legitur oaS pro tiov, quod in ordiuem
verborum recipiendum esse primus vidit H. Stephanus. Eum secuti
sunt Bekherus, Stallbaumius, alii. Riik- kertus ooS reposuit motus
codicum auctoritate, qnortun exiguus numerus oov exhibeat. Sed no-
ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta jtQcmtra' jtQccttu 6 ’
Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu yaQ yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy &tta
igtVQyGo^iEV ' «• lait dicere Aristophanes,
facien- dum esse, ut eo modo, quem Eros indigitet, pristinae
integri- tatis participes fieri studeamus ; (alio enim modo eam
nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quae Eros
ducat. Necessario autem b)V ponendum est etiam ideo, quod x&v
8i t cum ra pkv satis explicetur praecedentibus, non eatis
explicatum est atque defi- nitum. Ceterum TjyEjuoov xal GxpaxyyoS
abundanter dictum est ornatus gratia, quod moneo, ne quis forte
maiorem ipsis vim tribuat, quam qua Aristophanes eadem exhibere
Voluit, /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX* texo). Haec verba prorsus
ea- dem gravitate dicta sunt atque verba p, 189. D,; iyoa ovv
Ttti- padouai vffiv ElSyyydocdSai xyv dvvapiv avxov y vjaeiS
8h - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i %ded$£. Vide anuot. p,
153. iZevpy dopkv xe xa\ Ivxev&,6jme% a, Latinis
non licet diversae etrnetarae verba ita coniungere, ut sequentis
nomi- nis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi naturam.
Neque Graece licet, accurate si rem spectas, huiusmodi structuras
verborum adhibere. Nam nostro loco re xad particularum ea vis est
atque potestas, ut prio- ris verbi finiti pondus imminuant,
posterioris adaugeant, quasi si dixisset Aristophanes IB,ev- p y d
oyxeS ivx£vB,6 p.£% a.. Haud raro etiam nominibus, quae a verbis diversae
structurae derivantur, conjungendis, re xa\ particulae solent apponi, v,
c. p. 147. E. icapadxaxyS xe xal doozyp' In nominibus quidem
harum particularum non constans usus , ac facile quidem iisdem, ubi
non comparent, caremus, nul- lum autem apud veteres scripto- res
locum repereris, ubi verba diversae structurae adiuuctoque aliquo
nomine per simplex noci coniuncta sint. XolS y jaex e p oiS
avz&Yt Ingeniosa quidem est, sed mi- nime probauda Bastii
coniectura : xoiS yfiitojioiS avz65r . Exem- pla non rara sunt,
quae avxoS pronomen cum possessivo pronomine coniunctum exhibeant.
Idem usus iam apud Homerum obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7.
avxoov yap dq>£xkpydiv axa- CSaXiydiY oAovro* Alia exempla
Motth. congessit in Gramm. plen. §, 466. Verba no- stra convertenda
sunt: unsern eigensten Lieblingen. o XG)V vvy oXiyoi noi
- OvdiY h. e. quod eorum, qui nunc vivunt, faciunt pauci.
IToieiy interdum, ut Latinorum facere , non actionem describit, sed
vitae conditionem, quare recte Schleiermacherus verba convertit : Was
ietzt nur w c - nigen begegnet. Invaluit hic 7COIEIV verbi
usus ideo, quod vitae conditio talis plerumque esse solet , quales
fuerunt actio- nes praecedentes. ib xal ivttv£6(iB&a rolg
xca8t,xo Tg toig ^fwtlpotg av- rav, S rav vvv 6Uyoi noiovoi, xt£ (ir/
(ioi vno- i.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog IlavGavluv
xal jirj pol vitoXa ftp . Haec est Bodleiani aliorumque
nonnullorum lectio, quam receperunt Bekkerus Slallbuumius, alii. Vulgo
legitur xal Jiu} / iov vito - \ctfiy, quod unice probans Riik-
kertus : Reposuerunt , inquit, dativum casum recentiores editores omnes , Cuius
rei necessita- tem ego nullam me confiteor videre . Est enim
hyperbaton pov ad roV Xoyov referendum , sicut haud raro Graeci
prono- minis casum obliquum in prin- cipio ponunt sententiae ita t
ut 9 regens vocabulum in fine demum sequatur. Speciosa hac
annotatione cave seduci te patiaris. Non negamus quidem, pronomina
alius- que generis verba interpositis quibusdam voculis ab iis verbis
saepissime seiungi, ad quae proprie pertineant, tenendum autem est,
huiustnodi verborum disiunctio- nem non admitti a scriptoribus,
nisi ita, ut vi quadam augeatur vel prbnomen vel aliud quivis
verbum a verbis suis disiunctum. Igitur nostro loco si scribitur 7
ta\ prj fiov vnoXafty 9 EpvB,i- jtaxoS xcopipScov tov Xoy ov ,
sententia existit naec ; Ac ne meam suspicetur Eryximachus orationem
ridens, me Pausaniam et Agathonern tangere ; sed hoc neque potuit
neque voluit Aristophanes dicere. .Unice verus dativus casus est, quem
ethicum grammatici vocant; explicatur is commodissime hac I
Ne mihi accidat 1 ximaclius orationem meam ridens suspicetur,
me Pausanian! atqae conversione^ )c, s ut Ery-
Agathonem hic tangere. Exem- pla dativi ethici Matth. congessit
Gramm. pleu. $. 389. p. 713. XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stull-
baumius ad Piat. Apol, Socr. p. 31. D.: oxi pot Selov r i xal
Saupdvtov yiyvtrctif o hi) xal iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf-
\?}ToS dypaxfwtTO , Fischeri an- notationem laudat hanc, ed. p.
61»: ln:iHU>pcjdu.v est ridere, notare, nt HopooSeiv et 6ia-
xcoftcaSelv idem valent, quod dux- ' dvp&0r, dUCOTtTElY , X^ £v<
x% aiy » v. Poll> IX. 148. Caussa est, quia in comoedia vetere
vitia hominum describebantur et ho- mines quasi notabantur. Quid
igitur de Aristophanico Socrate iudicabis in Nubibus? Num ibi vitia
hominis sanctissimi notan- tur? Non credo, neque milii sa- tisfacit
Fischeriana xcopooSetY verbi explicatio. KopcpdEtv non eius solum
est, qui vitia notat, sed etiam, qui res serias in ridiculam partem '
interpretatur. Quo consilio ct modo id Aristophanes in Nubibus fecerit,
alio loco explicabimus. Nostro autem loco, quoniam Eryximachus
medicus censorem se fore minitatus erat orationis p. 189. B. ,
Aristophanes vereri se simulat, ne forte ea , quae hucusque dicta
essent, in ridiculam partem in- terpretaretur atque in Pausaniam
Agatlionemque orationem directam explicaret. Ida $ plv yap —
apjtB- veS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri- y.ctl
Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv , yctg xal ovzot rovzav Cxvy%uvov6cv ovzeg
xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$- $ivtq , Ityu 8e ovv iycoyE
xe.&' citavrav xal dvSgiov xal yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo
yevog tvdcdfiov yivoizo, ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav
zcov auzov exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81
iovzo agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo rovzov lyyvzdzco
dgiGzov ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8i- xcov zvyeiv xazci vovv avza
xscpvxoxcov. ov 8t) tov ac- U zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv
vfivoifisv "Egcoza , og ev te tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg
zo oIxelov stinae felicitatis integritatisque participes cssc, id
satis spinosum Fortasse alterius figura altero procerior erat, ut ne
cogitari quidem potuisset, alterum alte- rius partem esse. De
altera parte huius enuntiati xai eldiv d/upu- TSfJOL Ti)v cpvfSiv
afifieveS vario modo interpretes iudicarnnt. Ba- stius pro dppeve G
scribendum coniecit dfjpevoG , Orellius ad Isocr, p, 330. loco
mederi cen» suit scriptura afifitvoS kvo G, Stalihaumius ad h. 1.
appevtG idem esse censet atque dfifievoS bvuS. Videtur appeveG
cum emphasi positum esse, ut supra p. 192, A. dvdpeG nomen,
Moi- titiein autem utriusque poetae notat .Aristophanes, atque
ad porum nomina respicit, ut, cum Fausaniam et Agathoncm summorum
bonorum compotes atque revera viriles dicat, 3 laixSapivovG rcov
dyaSav in- telligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes,
sed elumbes, «nominatos, enervatos. Probatur haec nostra verborum
explicatio verbis sequeutibus : ei txrekidai- /tev tov £ parta.
Tetigimus hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv
7t apo vrcov. Td vvv napovra sunt, quae in prae- senti nostra
conditione fieri pos- sunt, nostraque sunt in potestate. Quum enim illud
assequi non possimus, ut plaue coalescat na- tura nostra, cum
altera nostri parte, sicut omnino in rebus Jiumauis, ita bac quoque iu re
optimum illud est habendum, quod ad idealcm illum, in quo olim
fuimus, statum quam proxime ac- cedat. Riiclcer.t* naxa vovv
avt gj. Iu per- multis codicibus pro avrcp legi- tur avtGJf quae
lectio ab iis re- perta est, qui frustra quaererent, ad quod
avr<o referrent. Sub- tectum cum alias haud raro oroit-- titur,
tum boc loco omissum fa- cillime feras, quod praecedit : xal rcov
7caidixoov r gov avrov 2xa6r oG rvx°i A. Cete- rum xara vovv avrco
it. appri- me respondet nostratium; seiuem Gesclimack entsprechend,
9 eli ro olxeiov &yoov . Do thyeiv verbi usu absoluto
su- ctymv, xal ilg *<> bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai,
Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g tvtskfiticcv , xazccdzi/aag ffflag tlg
zt/v doyalav q>vGt,v xal luadfievo g f taxuQwvg xai evSalfiovag
xoiijeau Cap. XVII. Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog
i<su xbqi Effatos , tMolog »; o Oog, xaficpdr/dyg avzbv ,
Tva xal exaozog (qu, (uxkXov 5e r l ZaxQa rtjg XolxoI.
pra diximus annot. p. 22. Quid significet x 6 obedor , frustra
io Ficiui conversione quaeras: dum in suum igniculum quemque
conducit. Recte Schleiermacheras verba convertit: indem er uns zu
dem verwandten hinfuhrt. Ne qais autem scribendum censeat eis Xov
olxtiov, quo significen- tur 7tai8ixd xara rovv izetpv- : xota : AMANTgenus
neutrum seri- 1 ptores adhibere in sententiis» quae in universam
proferantur. l\7ti8aS jieyltiraS Ttap- iXBtai — xax a6xr\ daS
— rtoiij 6 ctl. Participium xaxa - 0xr^6aS post iXxiSaS p.
7tapi- Xtxai ponitor, quia/AjrfdaS’ izap- &X& eiusdem fere
significatus est atque dtixvvpi , SrjXoGD , quae verba participium
adsciscunt. Vide de hac verborum structura Mattii. Gramm. plen.
549* 6. p. 1077. De 7C0iij<Scti aori- sti infinitivo vide
Heindorfium nd Piat. Phaed. p. 48. , Stall- baumium ad Piat.
Phileb. p. 204« Ceterum eodem verbo Aristopha- nes usus est in
couditionali enun- tiato xapexexcu , ypcov «rap- wgjciQ ovv
ISeifotjv Gov, /ii/ zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl lxdzsQ 0 $ •
’Aya%av yccQ xal E exo/tivar nt efficacior ev«- derct via
conditionis. ovtoS , ttprj, c v ’Epv£i- M a X e i d d/jo s
XdyoSx. r.X. Respicit Aristophanes ad verba p. 189. C. xal fti/r,
<« ’Epv£l- fiaxe — &XXr) y£ it; £r va> Xiysiv i) y 6v te
xal Tlav- OaviaS ilntnjv. — OvtoS hic SsixttxiuS positam est. at
verba convertenda sint: Ecce talis est oratio mea. cfr.
Mattii. Gramm. plen, p. 471. 12. p. 875. 'O ifioi autem cnra vi
pro- nuntiandam est. significat enim : oratio, quam habere de-
bni. firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv. vide annotat, p.
185- "ClSxep — £8e7/$z/v uov verba spectant ad p, . 189. B.
aXXa fu/ fis tpvXazts, tds iycv ipofjoviiai iccpl xoov. fieXXdvtwv
fyi/ST/iSsd^ai x. t. X, et p. 19S. B. xai ftij fioi vito- Xcifl’,1
’Epv£ifiaxoS xcofttaStiv roV Xoyov, tvS llaviaviav xal 'jiyaScova
Xsyu. De verborum fidXXov 8s significatu vide an- uot. p. 15.
Alia neldoftal 601, l'<pij tpavai rov ’Eqv%1(iccxov' nui j mq uoi 6
loyo s Jjdl ag 9 '?#'?• xal el fir) gwjj- Seiv Zmjxqutu te xal
Aya&ave Seivoig ovdi negl ta egcotixa, na w av icpoftovfiijv , [i/tj
anogydadi loyav Sia xa\ yap poi 6 \6yoS yj 8 i gdC i fi
fi7j,$7j. Spectant haec verba ad p. 189. C. idcoS p&vTOt dv
8oB>xf yoi, a<p?}da> de. Eryximachus igitur vel ipsa Aristo-
phanis oratione pacatus vel motus verbis Iva xal tgov Xoindov
thiOvdoDjxEv , nolle se iam pro- mittit iuiuriam sibi illatam p.
189. C. ulscisci. ’Efifij/$?j scri- pturam quod attinet, vulgo
ififii- $7} legitur, quam formam Butt- roannns in Gramm. plen. p,
121. iis scriptoribus tribuendam cen- set, qui non sint attici.
Anno- tat enim: Aus den Werken alte- rer Sr.hriftsteller ist diese
Form durch die Autoritiit der Hand- schrifteu ietzt vielfaltig
entfernt. vide Lob. ad Phryn. p. 447. Bekk, ad Aesch. 2. 34,
124. ISicht selten steht sie aber auch grade in den bessern
Ilaud- schriften. ei pn} %vvy 8 etv Sei - voiS
ovdiv . Rariore usu dvv- eLSevai rivi ri ponitur hic pro uliquid de
aliquo scire» Isocr. Archidam. p. 229. dvvei- Sozef *A$rjvaioiS
IxXiicovdi rrjv %cdpav vitkp x t}$ ru )v uXX.gov — i\ev$epiaS. Id.
Arcopagit. p. 257* dvvoiSa re r otS xXeltixoiS avrvv ?padra x a ^P
ox) 8iv. Piat. Phaedon, p. 92. D. lyuid^roiS — Xoyoifv B,vvoi8a
ovdiv a\a?,d- Civ. Stallb. Alia huius stru-* cturae exempla Matth.
laudat in Gramm. plen. 548. 2. p. 1075., quibus adde, quem
Riickertus lo- cum laudat Piat. Protag, p. $48. B. aXX*
rftoi SiaAeyedSco rj ehcerao, ori ovx iStlei 8 1 aXi- yedSai , iva
r ovraj ptv rocvta dvveiSdopev, prj a.7t o p ?/ d co 6 1 .
Coniun- ctivi modi post praeteritum po- siti exemplum habes p. 174.
A. fio. ravra 8rj ixaXXGoniddfxyv, fva — i'co , ad quae verba
vide unnot. p. 16. Nostro loco ar- tificio quodam dicendi et
non timere se significat Eryximachus, ne non habeant, quippe maxime
erotici, Socrates et Agatho, quod dicant , et rursus timere propter
ingentem praecedentium senten- tiarum a convivis prolatarum co-
piam , ne oratione sua uterque et philosophus et poeta indigeat,
Possis haec verba etiam hoc mo- do interpretari: nitvv av £<po~
fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vv- vl f pi) dicoprfOGo6i, ut magis ad
sententiae efficaciam dicatur scri- ptor orationem direxisse, quam
ad verborum grammaticam con- formationem. Eam explicationem verba,
quae insequuntur, probare videntur vvv 8 ’ op&S Safipai, Sed
non dubito equidem , quin liaec verba etiam cum priori stru- turae
explicatione conciliari pos- sint. naXcdS yap avroS yy
co- ndar, Schleiermacherus verba convertit : l)u hast eben
deine Sache gut bestanden. Schult- liessius: da hast deine
Rolle gliick licii nusgespielt. Ruk- kertus jtaXaS riihmlich
con- vertendum censet. Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai'
vvv df ofiag ^aggco. Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs
TjycovL- Octt , a ’EQvi-![itt%s. d 6s ytvoio ov vvv lyco dui, fial-
lov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal 'Aya&av drtij, iv conversione
exhibet: strenne et ipse certasti. Aliud quid So- crates xa\ds
verbo adhibi- to videtur exprimere voluisse, quod quid sit, e
praecedentibus et insequentibus facillime colli- gitur. In
praecedentibus enim Eryximachus vereri se dixerat summopere, ne non
habeant Socrates et Agatho, quod pro- ferant, quoniam a plerisque
iam multis modis de Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne
non bene uterque locuturus sit. In sequentibus Socrates non
dubium est, quin verbis ov vvv lyd elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov
Ido- jicti x, x. A. ordiuem sedentium significaverit, quo factum
sit, nt sibi de Erote dicturo nihil, quod proferret, relictum sit.
Sequitur inde, Socratem Eryximacho non dixisse: bene enim ipse
di- xisti. Hinc verba ita dispo- nenda esse censebam : xaXds yap
t (sc. SafifSEi?) avxoS ijydvidai, G) EpvB,lfiax& h. e. Du
kannst ganz guten Muthes seiu: deine Rede ist vorviber. Sed
scripsisset, si hoc voluisset exprimere. Flato: xaXds ydp , cj
’EpvB>t- /iaxe‘ avxoS tjyojvidai. Igitur nunc xaXaS de tempore
acci- piendum esse autumo, ut idem haec vox significet atque slS
xa- X6v y de quo diximus annotat, p. 24. Socrates hoc dicit: Du
hast gut von Muth reden, (vide de supplenda enuntiatione qua-
dam ante ydp particulam quae annotata sunt p. 14.) zu guter Zeit
hast du deine Rede gehalten, warest du aher wo ich ietzt bin
oder vielmehr wo ich nach Agathons Rede sein werde cet. Ceterum iam
supra sedis inopportunitatem notatam habes a Socrate p. 177. E.
xal r ot ovx Zdov ylyvExai i)filv xo'iS vdxdxoiS xaxaxuf.ii.voiS
• «AA* idv ol xpodSev ixavcoS xal xaXcoS tincodiv . , lUapxi-
Gei 1/f.ilv. Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter interpretari, quum
medicus ea intelligi voluit. Dicturus enim erat: nunc non metuo, ne non
habeaut Socrates et Agatho , quod pro- ferant. Socrates contra ita
re- spondit, qua^i ille dixis,set: Nunc mihi securo esse licet, ne,
quod proferam, nOn habeam. Sed so- lent, qui cum acerbitate
loquuntur, interdum non ad sententias re- spicere, sed singula
verba captare iisque ad suam sententiam coutorsis responsa
accommodare. el ykvoio , ov vvv lydi e i fit . Eandem fere
sen- tentiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1.
9. Facile omnes cum valemus recta consilia aegrotis damas» Tu si
hic sis, aliter cen- seas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S
vide an- notat. p. 62. Recte ea Stullbau- mius interpretatur: in
summa consilii inopia, in summo timore versari. Deinde ev xal
fidXa rarior dicendi formu- la est, pro consuetiore ev fidXa .
Addiderant interdum veteres seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt
tcqs, Sgmg lyco vvv. (PagfictTTHV fiovAei fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov
’Aya- ftava, iva Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov
ngogSo- xi av neyukr t v i%uv , tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv
fdvt’ av tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi
particulam, qua significarent, cum vi maiore et ev et puXct pronuntiandum
esse. Non mate Riickertos ad h. 1, Ttai addito effici censet, ut
eadem fere cogitatio bis ad animum af- feratur. Huic dicendi generi
apprime respondet nostratium gat und g e r r» , quibus verbis utun-
tur, qui animi sui sedulitatem ostensuri sunt. cpappatteiv fi
ovX st jus. tpappaxrEiv fascinare significat herbarum adhibito
succo, deiude etiam de aliis remediis valet, in- primis autem de
magniloquen- tia, qua aliquis ita sui impos reddi posse credebatur,
ut nihil eorum, quae vellet, neque facere posset nec dicere. Sic in
Piat. Phaedon, p. 95. B. legitur: IA ’ya$l t Utpi/ 6 2?cjHpdxr/S^,
pi/ piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia- < ixaviot 7tfpiTpeip?j
rov Xdyov xov plXXovxa XiysdSai. Cete- rum nihil aliud voluit
Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius
locus definiretur, quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud«
loquendi difficultas expendi. Igitur notabis, quain manifesto Plato
hic carpit, vanitatem Agathonis verba Socratica in suam virtutem
dicoudique artem directu censentis. ro Siarpov — ev £
puvvroS ipov. ro rpov h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli
insolentiam ne mireris, adhibitum est t Platone, recte monente Wolfio
? ad h. 1. , ut sceuicum poetam hic loqni lectores ^oneantur.
De gdS cum genitivo participii con- iuncto vide anuot. p.
158. EiiiXi) 6 pcav pkvx* av siijv. Recte monet
Riickertus ad. h, 1., pivTift interdum nnd adversandi , sed
asseverandi po- testate adhiberi. Eandem signi- ficationem xai xoi
habet, quod disiunctim scribendum esse supra monuimus p. 51.
Fortasse etiam pivxoi, ubi asseverandi vi posi- tum est, scribendum
est piv xoi t neque dubito, quin Graeci, quos studiosissimos fuisse
constat ver- borum recte pronuntiandorum, pronuntiando discreverint
•ptvx dv et piv r* av. 'EitiXijtipeov verbum quod attinet, senum
de- crepitorum constans epitheton est, »ut et oblivionis atque
ridi- culae stultitiae significationem habeat» Schleiermacherus in
con- versione exhibet: Sehr vergess- lich miisste ich dann sein.
Eo- dem modo Ficinus verba reddi- dit: Nimis, o Agatlion ,
oblivio- sus essem. Neutra nobis ItxiXij- tipGDV . ^ocis explicatio
arridet, seque tamen facile verbum re- pertum iri concedimus,
quod ilii vocabnlo satis respondeat. T7/v 6i) v dv $ p tiav
— dv a fiaiv ov x o S n. x. A. Laudat hunc locum Mutth. in
Gramm. ampl. J. 466. 1. p. 864., t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv
avctfialv ovtos hd 11 tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal
(tttipavrog ivcivcla toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav-
um kuyovg, xul ovd’ bnagnovv IxTcXaytvzog , vvv o lr r Stlrjv oe
%oQv(irj9>;OtG&ao evExa i/fubv, oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura
Innas structurae ex- empla congesta sunt. e. c. Arist. Ach.93.
ixuoipeii ye xopaB, itaza- ZaS tov yt 6 ov (ocpSaXpov') tov n p i 6
(i e cjS . Ceterum du- bitari nequit, quin Socrates Aga- tlionis
virtutem animositatemque praedicet ironia consueta usus; pauli o
infra enim ipsum pugnare secum ostendit, ut, ni Phaedrus eius pudori
succurrisset, hominem misere turbatum eiusque animum elatiorem
prostratum humi cerneres. Hoc ironiae artificium, quo eximia laudatio
acerrimae notae praemittitur, videlicet ut elatiores cadant
miserius, ex epi- corum arte depromptum est, qui heroum solent,
quorum caedes narranda est, ipsi huic narrationi summam laudationem
virtutis, ma- gnanimitatis , pulcritudiuis prae- mittere.
x iitt tov oxpift Civ x a . Schol. ad h. 1. oxpifiavxa , in-/
quit, r 6 Xoytiov , i<p ov ol xpaycoSol jjyoovi^ovxo’ tivt ? Se
xiXXifiavxa tpidxeXrj (padiv, i<p’ ov iCtavxai ol vxoxpixal xai
xa ix peteojpov Xeyovdiv. Adde Fhotii verba : oxpifiaS ’ to X
oytiov , i<p’ cj ol xpaya)8ol tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6 tpiXo6o<poS
Svpitodioo x£XPV rca T ai ovopaxi. Timaeus haec ha- bet : oxpipaS'
nijypa to lv xa 5 $e axpeo TiSipevov , iq> 9 ov idxavto ol xa
Sr/podia Ac- yovteS * SvpiXy yap ovSinos tjv. Hesychios exhibet; fi&Xtwv
tpavat to Xoytiov , £<p* ov i&xavxo ol tpaycpSol i/
ol, vno- xpixoLl ix pexeoSpov xal iXe- yov. fiXirJ;
avxoS ivavxia to - 6ovtcj $ e at pco . 9 EvavtUt > fiXiittiv de
bellatoribus dicitur, qui intrepidi hostem adventantem intuentur. Pro
TOdovTCJ Searptpy quae plurimorum opti- morumque codicum lectio
est, vulgo rodovxov Scarpov lege- batur, id quod in hac
loquendi formula usitatum fuisse Stall- baumius rectissime negat.
Iu sequentibus davxov A oyovS ne quis articulum desideret,
quem, si in codicibus exstaret , nemo non probaret: Socrates hoc
dicturas est: iudem du im Bpgriif standest, eigene Compositioueu
bekaunt zu macheu. T L Sal. Codicum baud exi- guus numerus ti Se
exhibet. Multis in locis, nbi xt Sai scri- ptum reperitur, de
lectionis ,ve- ritate dubitari potest. Nostro loco nihil certius
est, quam tl Sai bene se habere. Miratur enim, Riickertus inquit,
quem consentire nobiscum gaudemus, Agatho Socratis orationem,
qui multitudinis se nimio studio te- neri insimulet; verissimum au-
tem illud est, quod Stallbaumius ad Fhilebum p. 6. notavit, xi Sai locum
habere, ubi admiratio quaedam esset exprimenda. Quoniam autem admiratio
ulicu- Ti dal, to ZdxQccTBS, tov
'Aya&avcc <puvca, ov tfij itov fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts
xa\ ayvotlv, oti vovv i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv
(poftlQUtcgoi' C Ov fiivT av xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj ,
ol ’Ayudav , xbqI Oov ti iyd aygoixov do^utuv. ciV.’ tv olScc ,
uti, ti tiOiv Iv xv%oig, ovg yy oio Cotp ovg, (idXXov ins re! hand
raro cum quadam indignatione coniuncta est, quae e rei alicuius
insolentia , quam dtoniav vocant Graeci, enasci- tur, zl 8aL
plerumque ita exhi- betur, ut rem aliquam veram esse neget is, qui
illis voculis utatur. Exemplo est Piat. Gorg. p. 461. B. zi Sal, 2
cox p dzrj S ; ovzoo xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs 8o-
B,a?>EiS, &S7tEp vvv XtytiS ; ov 8 y 7COV/.IEOVTG3
seqq. Haec est codicum lectio, quam Themistius confirmare
videtur Orat. XXXVI. p. Sil- B. , qui nostra verba imitatus est:
ov 8r} Ttov pe za Siazpa ovzooS dyandv i/ysid^E, qjSze
ayvotlv, ozi oXlyoi lyuppovES noXXcov aqjpuvcjv rc5 A kyovzi
cpofjtpcJ- TEpot . H. Stephanus scribendum coniecit dv 8? ) itov
jxe x. r. A., quam scripturam verissimam c«nserem, si iu
sequeutibus scriptum exstaret: ozi vovv ^xovxi oAiyoi itoXX&v
(popepootEpoi. Hidiculum enim foret, si Agatho quaereret de re, quae
Socratico dicto pro certa iam posita esset. Dixerat nimirum Socrates,
fieri noa posse, ut Agatho paucorum homiuum praesentiam extimesceret,
cum coram ingenti multitudine animatum se ostenderit at- que intrepidum.
Ad quae verba pessime responderetur ab Aga- thone: Profecto non ita
me spe- ctatornm applausu elatum indi- cabis, ut qui nesciam,
prudenti paucorum hominum, quam mul- titudinis iudicia
timenda esse magis. Additis autem verbi* ipqypovE? et cttppov av
nihil certius est, quam Platonem ov Srj itov pE scripsisse. De 5 ?
/ 7tov verborum siguificatu vide annot. p. 98. Verba convertenda
sunt: Da wirst micli doch olTeubac vvohl nicht so vom Lobe
der Zuscliauer eingenommen halten, dass ich nicht wusste-, dass
das Urtheil weniger Besonneuer weit melir zu furchten ist, ais
der Uuverstnnd der Mengef iCEp\ dov ti iyco. Nota vim
pronominum 1 , quorum ordine hoc exprimitur} de te, viro tanto tamque
insigni ego, homo vilis. Ceterum Ruckertum audi, annotantem ad h*
1. : aypoi - xov. fcSic dedi cum edd. rec. inde a Wolfio,
vehementer licet dubitans de Grammaticorum illo praecepto, quod
inter aypoixoS et aypoixoS hoc discrimen poni iubet, ut dypoixoS
eam denotet, qui rusticis moribus sit, aypoixoS t qui ruri habitet.
Timaens : dypoixoS dxXrjpoS xal anai** SevzoS, rj 6 iv aypoi
xatoixcov* Esse accentuum discrimen nolumus negare, sed utrum idem
etiam significationis sit, an po- tius dialectorum aut aetatum,
dubitamus, « A A a p?} ovx ovrot ijpels cjfiev Alio loco
di- cturi sumas de usu prj ov ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv
noXlav. ulla f ti? oi% ov- T 01 tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL
TtUofjfltV XCil jjfuv rdv xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig,
xk% itv alOyvvow avrovg , t” ti 16 cos o toto alaygov ov
noiiiv. rj Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,' cpavca. Tov g Si
xollovg ovx av alo%vvoco , t" rt oioco aldygov D gationura*
Nuperrime de iis egit Bellermannns ia Commeat, de graeca verborum timendi
structura, censetque esse apud Graecos eandem et cavendi et timendi verborum
structuram, qua, quicquid molesti instare sibi arbitrentur, praemissa
indicent fxrj particula, cui alteram insuper addant negationem ov ,
si quod exspectent malum , in eo contineri dicant, quod quid non
sit eventurum. Haec sententia cur nobis non probetur prorsus,
alibi dicemus. Ad nostrum locum ut revertar, convivas ex ordine
tgov i/Kppovcov esse, Socrates non ne- gat quidem disertis verbis,
sed vereri se tantummodo ait, ne non aint tales, quales esse
ab Agathone perhibeantur. si aWotS ivtvxoiS doepotS.
2o<poiS nomen a verbo, ad quod pertinet , sejun- ctum est, ut
sensus sit: si aliis iidnne sapientibus, de qoo vernorum
dispositione saepius iam diximus ; vide aunot. p. 59* p. 129* al.
Ne autem scriptum exspectes pro doq>otS verbo do- cpGOtepoiS
rjfiaov: Socrates et se et ceteros convivas multitudinis
imprudentiae prorsas aequiparat, ixl quod etiam colligitur V ver-
bis : 7 plv neti ixel napjj- fXEV TCCti 7Jfl£V T(OV
TtoXkwv* e£ rt tdeoS oloio al - dxpor ov rtoieiv.
Stallbau- mius ad hunc locum , non est, inquit, quod ov participium
cum Astio delendum putes, si quidem sententia haec est: si
quid facere te putares, quum ta- men turpe esset , sc. tcoteiv
. Participium revera in Stallbauxniana textus recensione omissum
miror. Ceterum ponderosior est eius explicatio ov participii. Si
abesset, nemo, opinor, id desideraret. Addito eo nihil nisi rei veritas
exprimitur, ut verba con- vertenda sint: si qnid forte facere te
opineris, quod revera sit turpe. na\ tov $ a 18 p o v , £
q> 77 , VTtoXafiovx a. Supra iam dictum est, Agathonem, cum
non haberet, quo se posset Socraticis retibus extricare, pudore
suffusum obmutuisse, Phaedrum autem miserrimae eius conditionis miseritum
, atque ut finis esset silentii ingratissimi, <pt\e
*Aya$GOV et quae sequuntur verba protulisse» Ut igitur esset,
quo etiam oculis legentium illa Aga- thonis reticentia indicaretur,
post aidxpov iroieiv lineolam ponendam curavimus* lav
(X7tOKpivv ^co repa- ret h, e. si pergas respondere. Amant enim
Graeci) ut vim augeant verborum, ipsa verba ponere pro eorum
infinitivis cum aliquo finito verbo 13 noiiiv; — Kal t dv
&aid(>ov I tpr} vitolajiovTa timiv, r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav
anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv
yiyveaftta, lav fiovov h'%y ora diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii.
iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs d caley ofievov, dvayxalov de fiot
eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za "Egau, xal uTCodt^aG&ae nag’
evds txuGzov vumv tov coniunctis. Diximus de hoc ge- nere dicendi in
aunot. p. 169« Sic in Piat. Phaedr. p. 230. A. legitur axap, <J
Ixaipe, petaZv ta)Y Xdyarv 9 ap* ov rode i\v tu 8/v6pov , i<p’
uitep yyeS i)fict9 } quo loco ijyeS cum vi positum est pro ayeiv
IflovXov. Adde Engelhardtum ad Platonis Lachetem ed. p. 29* Meus autem
Phaedri haec est : Cave Socrati respondere pergas» nam ubi
perrexeris» nihil ipsius intererit, quomodo ea, de quibus
dicere constituimus, per- agantur, dummodo ipse habeat, quocum
colloquatur. Magnam fuisse constat Socrati aviditatem colloquendi,
quae haud raro apud Platonem descripta reperitur. cfr. Apol. Socr.
p. 38. A. idv x* av Xiyco 9 oxi xal xvyxavei piyi6xov dyaSov ov avS
pedit (p xovxo, kxdtixtjf ijpipaS itepl dpexijs xovS XoyovS
noieuSSat xal xcov dXX cov x . r. A. Adde Phaed. p. 61. E. xi yap
av xi9 xal Ttoiot dXXo iv r&5 pexpi ijXlov 8v6pdov XP° V( ? 8C
* V poSoXo- ydv te xoCl diadxoiteiv nepl x. r. A. De more Socratico
a^- tem abeundi a proposito atque alips ab eo abducendi vidp
Piat. Lachetem p. 187* p. 13* ov poy foxeif eldiyai , Zxt o? av ly.
r yvxaxa ZEooxpaxovS Xy A oya 9 $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii
8ia - A eyopevoS xal dyayxrj avx<p 9 idv dpa xal itepl
aWov X ov it potepov d p Ztjx a i SiaXiyedSai , prj i
tavetSSrat vito xovxov nepiayopevov tg j A oyaj 9 itplv dv ipnitiy
eis x d didovai itepl avxov Xoyov x, X. A., ad quem locum vide
quae annotata sunt p. 122. d AAgj> te xal xaX(S. De
his verbis, quae cave falso interpreteris, vide Commeat» DE SYMPOS. PLATONIS, xal
ano SigatiSai itap* kvo9 kxatixov. Dixerat Ery- ximachus p. 177. D.
Soxel yap poi XPV V at adtovijpGov Xoyov eineiv inaivov ”
EpcoxoS ini SeZtd cj 9 dv bvvrjxai xaX- Xidxovx. x. A., quod dictum
cum probassent convivae ad unum omnes, unumquemque Erotis laudatione
habenda obstrictum recte censeas. Igitur non mirum, quod Phaedrus hoc
loco anoSe- XetiSai verbo utitur; id enipi de debito accipiendo
solenne. Cum vi autem Phaedrus anodeB,ct- 6$ai et paullo infra
anoSovS verba adhibet , ut commoneatur, Socrates, super alia re non
dis- putandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta sit.
Apposite Stallbaumius ad h* 1. «t Zoyov. dnodoiig ovv
txdrtQog ra fhu oikag r\8rj dia- Zeyc69a. AUm v.ahZg kiyug , d
<H>cci8qs, tptcva i rov E 'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu
Ztyecv' 2axQuzu yut> xal av&ig tOxat, nolldxi g
&ux).tyt(Sft<u. ’Eyd de < 5 >} (Sovkoficu tcqwtov (iiv
einelv, r) %q>] laudat Piat. Politic, p. 173* B. xa -
\coS xal xa$ ait e p eI xpz&S ditidcoxaS poi rov Adyov, ovtcjS
?/8 7} diaXeye6$a). Ovzcd haud raro ita in veterum scriptis positum
reperiri, ut ali- quam conditionem in universum insigniat verbisque
insequentibus accuratius definiatur, supra indicavimus p, 43Contra ubi accurate
descriptae actioni postponitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret
atque inutile, si quis iu universum id describeret, quod accurate
descriptum praemiserit, Aliam igi- tur vim habet, de qua solertis-
sime, uti solet, disseruit Engel- hardtus ad Piat. Lachetem ed. p.
52-: Ovrcj, inquit, repe- tit notionem participii tanquam cum
sequente actione (h, 1* SiaAeyetiSai) caussae, conditionis, rationis
ineundae similiqne notione coniunctam, Exempla si quaeris huius
stru- cturae, cf. Piat, Apol, Socr. p, 29. B. xal ei 8ij ra>
(Sopare- pos rov <pait)V slvat , rovrco dv 9 ori ovk el8coS
IxavcoS it epi raiv iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk sldivai. Piat.
Phaed p, 61. D. xal apa Asycov ravra xaSrjxe ra 6xiArf ano rijS
xAivrj? iitl Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ou- rcoS ?j8?] ra Aonta
8iEAEyEZo> Piat. Protag, p. 314, C. tv* ovv pi}
drsXifS ysvoiro ( sc, d Ao- yo?) a A Ad dianepavdpEvot ov- tgjS’
elsioiptv x. r. A. Piat, do rep. IX. p. 576. E, xaradvvreS eis
diradav (r rjv itoAiv) xal iSovref ov ra 8o£av anocpai-
veops^a. xal ovSiv pe xcdAvei A kysiv. Atytiv h. 1, est
oratio- nem habere atque deum laudare. Qui paullo ante obmutuerat,
cum, quod respouderet, non haberet, nunc eifugiQ opportunissimo
usus, recuperata animi audacia, Socrati, inquit, etiam posthac
saepe erit respondendi facultas, iycd d £ Si} povAopai*
Queritur in ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante % se
dixerint, non Erotem laudaverint, sed homines felices praedicaverint ob bona,
quorum ipsis Eros sit auctor. Omne autem encoraium' pergit esse
debere ita comparatum, ut priori loco eius natura describatur,
cuius encomium exhibendum sit, posteriori loco bona commemorentur
^quae ab illo proficiscantur, His^Pae- missis ad ipsam dei
laudationem abit, tantosque honores in ipsum confert, ut in
Agathonem potis- simum verba Socratica directa videantur, quae infra
leguntur p. 198. D. r d 81 apa , (sc. rdArj- $i\ AJysiv x*r. A.)
toS ioixev , 13 * [is ehtuvy Inuret dnuv . doxovGt, yctQ poi narres
oi nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG vpi&fciv, alXa tovg
av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9 av 6 &ebg « 5 -
tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta edoQrjGazo, 195 ovdelg eX
prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog Inaivov neQi navxog > koyco
diekfteiv olog oicov cuuog av xvy- ov tovto f?v ro xa\ goS
litui- veiv oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi - 6xu dvaxi%Evcti r&
npd/jxati xat oJs’ yidX\.i6xa > lav xe y ovtoai ix oy xu >
Idiv re pr). Nam beatissimum Erotem vocat omnium deorum et
pulcherrimum et fortissimum» Haec epitheta tum ut firmentur, tum ut
au- geantur, alia multa accedant, quae singula enumerare nunc
non labet. Altera pars orationis, in qua dei dona recensentur,
ita referta est antithetis aliisque ornamentis orationis, ut
Gorgiae discipulum invenili ardore ex- sultantem facile agnoscas.
Ut autem auditores Aguthonis finita eius oratione hominem
summo- pere admirati esse narrantur p» 198. A», ita universis
Atheniensibus ipse GORGIA acceptissimus erat atque iucutidissimus, ut
teste OlympiocToro, quem Stallbaumius laudat ad Piat. GORGIA p,
447» B. eos dies, quibus artem suam pu- blice ostentabat
spectandam, festos (hopxaS) et orationes ipsas lampades vocarent. Hoc
nomen quam bene conveniat oppositio- ni bm^jipepissime repetitis,
anti- thetis Captatis, cincinnis orationis delicatulis, patere
opinor. AapitabeS enim faces intelligun- tur, quae certis quibusdam
festis diebus per nocturna spatia huc illuc -circumferebantur. Ut
hae faces in Xa/maSovxiu, quae et ipsa Xajmds vocabatur et
\ujx- itaSoSpojiia, mox hunc, mox il- lum locum campi
illustrare sole- bant , ita illis orationis artificiis adhibitis
sententiae oratoris splendidae reddebantur atque luce clariores. X)
XP 7 ? P E eliteiv. Sio editores omnes praeter Ruckcrtum, qui e codicum
plurimorum auctoritate gjS XPV ordinem verborara recepit. Addit
idem, noo minus recte habere gjS quam y , utramque enim vocem
exhi- beri, ubi quomodo quid fiat aut fieri debeat, oblique
rogetur. — Interest tamen aliquid, utrum goS an y posueris. Exem-
plo ut clarior res fiat, y XP V M E ehteiv est, qua ratione di-
cendum sit 5 verbum autem XP 7 ? non nisi expletivum est, ut qna
ratione ego debeam dicere nihil aliud siguificet, quam qua ratione
dicendum sit. Contra cJs’ XP 7 ? M E eliteiv significo t accentu
orationis in scqnens post- ea? verbum transmisso, quo modo debeam
dicere. Pari modo explicandus est locus Piat. Eu- tbypbr. p. 4. E.
xuxgoS eiSoreS ro Seiov as $x El T °v oCiov re itkpi HCti tov
dvo6iov . Adde Polit, p. 304. E. it o\e prj - rkov htu6roiS
oli av itpoe — XtopeSa icoXejiEiY» Protag. p. 338. D. 7t£ipado/iai
avrcp 6eZ— B,ai y coi iyoj (pypi XP 7 / ya 1 roxr ditoxpivopevov
<x7toxpive6^at 9 Legg, VI. p. 774. A. in srA eiaa yavti ntgl ov av 6 ).oyog f/. ovta Stj zov
"Egavct xal Tjfxug Slxaiov htcuviGca ngatov avzov ol6g tGtiv,
Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v &t mv tv- Satjiov av ovxav
"Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1- ntlv, tvdai[iovtGzazov tlvat
«vxav, xaUMixov ovta xal agiGtov. ti! av ctnoi nepii ya/uav
, ai 5 Xp)} ycepslv. Quibas exemplis male ita usus est Riickertus,
ut probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y usurpari» Agit
autem nostro loco Agatlio cum vi de ratione dicendi, ut rectius y
scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicatu- rus est; certa enim
quaedam dicendi ratio non praescripta est ab iis , qui Erotem
laudandum convivis praeceperunt, Eryximachus et Phaedrus. De
HitEiza verbo praecedente npcoxov jxkv aAAa xovS av%
p(ditov$ ev8ai/. toviZEiv Urgendum est pronuntiando
EvSaipovl^eiv verbum. Sensus est: Alie, dio vorher gesprochcn
haben, scliei- nen mir nicht den Gott zu lo- ben, sondern die
Menschen den Gdttern gleich zu stellen. Sequentem genitivum casum
quod attinet, notum est, verba, quae affectum animi exprimant,
geui- tivo casu eas res adiunctas ha- bere haud raro, quae
allectus caussae nominantur. Laudat BiickertU8 ad h. 1.
Thucyd. VI. 36. xovS ayykXkovxaS roiavta xa\ itepupopovS
vjiiiz rtoiovvtaS x i)S ptv zoXprfi ov $avjidel(*>, xfjS 8$
a&i>vE(jiaSy eI fxrj olovxai £v8y\oi elvai. Piat. Crit.
p.43- B. itoWdxiS dssvSai - jxovida tov xpoicov. Adde Piat. Phaed.
p. 68. E. ev8aip.uv yctp yioi avrjp ifpaiveto — • xal tov
xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A. Alia huius structurae exempla
Matth. congessit in Gramm. am- pl. §. 368. p. 681. Plerumque illo
casu ponuntur res inanima- tae. Dubito, num eadem stru- ctura usi
sint scriptores, ubi ho- mines affectuum auctores nar-
rantur. olo i oicjv alxioi <uv, Frequentissimum hoc genus
di- cendi est, quo adhibito et gravio- rem reddiderunt et
ornatiorem orationem Graeci. Laudat Stall— baumius Eurip. Alcest.
v. 145. oiaS oloS dpapxavEiS. Soph. Trach. v. 1047. olaiS oloS
qdv IXavvEzai . Ceterum ut recte intelligantnr iCepl icavxuS
verba, mens Agathonis haec est: Iu quavis laudatione dei
liomiuisve unam tantummodo laudandi ratio- nem esse, ut explicetur,
qualis sit et quorum bonorum auctor is, qui laudetur.
ovxcj 8y x ov " Epcota xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj
8)j xal xov y Epcoxa. Respicit autem Agatho nunc ma- gis ad
laudandi rationem, quam, qui ante ipsum locuti sunt, ser» vaverunt,
quam ad rem laudan- dam. Hinc factum, ut advocato 7 ifxacS
pronomine xal cum pro- nomine, non cum Erotis nemiue
coniungeretur. svdaipo vkdxaxov stvat avtGJY . Apud
Stobaeum Serm. "Eeu de xaXhdzoe ov toiogSe. xgatov fuv vto- B
taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta loyn av- %og Ttttgex neu,
cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov- LXI. p. S96., quo loco
tota Aga- thouis oratio repetita est, pro clvt&v legitur avtov.
Sed ni- hil mutandum est. Stallbaumium audi haec annotantem ad h.
1. : Sic avtoS saepius post nomen substantivum vel pronomen
per' redundantiam quandam infertur. Infra p. 200. A. XotEpov 6
£pa>S ixeivov — htiSvpEi avtov. Xe- noph Cyrop. I. 3 • 15.
itEipa - (Sopaci tcp xditn&, ayaSdjy \n- ItEGOV xpatuStoS gjv
ixXEvS, advppaxElv avt(£. Ibid. I, 4. 5. al. Ceterum Agatho
non minore, quam Pausanias providentia (v. p. 180. E. InaivEiv jiEY
ovv 6 ei xavxas SeovS) hic agit Omnes enim deos excepto nullo beatos
esse praefatur, dein- de cautione hac praemissa omnium beatissimum
vOcat, si quidem ita dicere liceat, Erotem. VECDtat o S Segdy,
gj $ai- 6 pe. Ne mireris, cur Phaedrum alloquatur Agatho, Erotem
deum nutu minimum dicens: Phaedrus Erotem iv toti
xpsdfivtatov esse dixerat p. 178. B. Igitur ad eum potissimum
oratio diri- gitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius
paullo infra poeta iyaj 81, inquit, 8pcp TtoXXd S\Xa
opoXoycijv tovto ovx dpoXoyaj , &s"EpeoS Kpovov xa\
*Ia7tEtov apxcno- repoS iotiY, aXXct q)Tjpi veota- tatov avtov
sivai x. t. A. ep ev y gdy cpvyy ro yy — p a* h. e. summa
conten- tione, quam fieri potest maxime, fugiens senectutem.
Magnopere augetor no- tionis alicuius gravius , si dua verba
eiusdem radicis iuxta po- nuntur, ut hoc factum est nostro loco.
Quae sequuntur verba taxv ov drjXoYoti — itposkp- XEtai Bastius
delenda censuit motus, ut videtor, (jctoxla senten- tiae. Recte
autem servantur ab editoribus, quippe Agathonis in- genio, apprime
convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur, quam scripturam
Stallbaumius ex optimorum codd. auctoritate in df/XoY otl immutavit.
Recepi- mus nos drjXovoti Buttmanni iudicium probantes, quod in
Indicibus continetur ad Platonis Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari,
inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo otl vocula
sequentibus se adap- tat, scriptura autem continua ad- hibetur, ubi
pars saltem eorum, quae ex otl pendent, iam praecessit. Snut vero alia
etiam exempla, ubi integra, quae ex ort particula pendet, f)rj6LS
prae- missa est, ut in fine locatum sit dtfXoYoti. Legitimam autem
esse etiam ad antiquorum mentem scripturam coutiouam , inde
ap- paret, quod etiam in structura, quae fit per accusativum
cum iufinitivo, formula illa servatur, ubi dissolvi nequit v. c.
Alcib. II. B. tov yap $eqy ovx lav drjXovuti. ov8 *
ivtoS xoXXov xXtj- dict%EiY+ Libri ad unum omnes exhibent ov8 ovtoS
xoX- X ov itX}]6id?,EiY , quam lectionem exstiterunt, qui tueri
atque 6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv 7tQogEQ%etat. 8 drj
nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov xAt]- Gux&iv.
[iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6 yccQ explicare studerent,
Apud Sto- baeura legitur, ovd’ ivtoS, quod hodie ab omnibus in
verborum ordinem receptum est, atque Thucydidis loco confirmatur,
qui Astii industriae debetur, II 77. EvxoS yap itoAXov x™p{°v
xijS rtoAeuS ovx ijv iteAdtiai. Ad jtoAAoi; autem nostro loco neque
x<&ptov, neque, quod Stall- baumio placet, dia6xrpiaxoS %
supplendum est, licet id in huius- modi formulis haud raro addi-
tum reperiatur docente Lamb. Bos. de ElJips» p. 103» seqq ; non
video enim, quid obstet, quominus neutro genere positum per se
multum spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot codicibus
legitur 7tAT}6id£ei f quod nullo modo probari potest. Pro- prie
dicendum erat o Si) 7ri<pv - xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd*
iv- xoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed sn-< pra iara monuimus saepius,
Grae- cos haud raro, quae per caussae consequentiaeve particulas
proferenda essent proprie, copnla ad- dita praecedenti actioni
annectere, lam cum mens Agathonis sit*: quam natura' Eros odit,
ut ne eminus quidem accO- d a t , patere opinor et odium et
fugam senectutis cx Erotis in- dole atque natura exaptanda esse, id
quod efficitur itAi/did*- S,eiv scriptura. Ceterum Stall- baumius
ad li. 1. Ad irArfdid&iVt inquit, intelligas <xv rc5. Id
prae- ceptum cur improbemus, haud difficile est ad explicandum.
37A;/- 6id&iv absolute positum est, prorsus ut nostralpLinT
Welches Eros seiner Nator nach hasst ohne sich die
entfernteste Annalieruag zu gestatten. / n •fiExd
dfc vicov dei Hvv- edti re xal idxiv* Et in his et in
praecedentibus verbis reddendis negligentissimus fuit Ficinus:
eamque (sc. senectutem) Amor natura odit fu gitque, iuvenibus vero se
miscet. Bastius tautologia offensus verborum ZvvEdxi re xal Idxiv
scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi x b xal dei idxiv , cuius
conjecturae ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quaesita
similitudine verba convertit: Mit der Iugend aber gesellt er sich
und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet : Pagegen naht er
sich (?) der Iugend und weilet bei ihr. Aliud quid Agathonem
nostris verbis exprimere voluisse certissimum est. Laudat
Stallbaumius ad h» 1. Fjutarchi locum, quem cum nostris verbis
Wyttenbacliiua comparavit ad Plut. de Ser. Num. Vind, p. 5G. >
dc Is. et Osir. p. 352. A. nap’ avxij xal pex ctvxijf orta xai
Gvvovxa; quo docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito
interdum augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil
sane confert. Negamus autem, Grae- cos ita locutos esse , ut prae-
misso composito verbo simplex verbum adderent, quod cudi illo
eiusdem actionis no- tionem describeret» Nos ellipticam
enuntiationem essecen- i 4 iV xcdaiog luyog
tv £%h, ag opoiov opola dcl mXd% u. iyib SI QfalSga jroAAa ulla bpoloyav
rovro ov% opo- Xoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov dgycaurcQvs
ttSuv, C «A A« qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal dii
vtov, semus, quae hoc modo supplenda est: pera 81 vicov dei
Zvredrl re xal ael veoS i&tlv h. e. ut semper cum iuventute
est, ita ipse aeterna iuventute gaudet. Ellipseos similli- mae
exemplum infra habes p. 213. C. oiao& et nS aXXoS ye- AoioS*
l6xi re xal fiovXetai sc. yeXoloS elvoci. Ceterum cum hac nostri
loci explicatione quam bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo
non videt. Ne autem dubites de verborum structura pera nvoS
Zwelvai, laudat Stallbaumius ad Piat, dc rep. V. p. 464. A.
ovxovv per a rovro v rov 8 6 y p a- r of re xal /)?} paroS
iq>a- fxev &vvaxo Xo vSeiv ras re ?}8ovaS xal rds XvnaS
xoivp, praeter nostrum locum Piat, de legg. I. p. 639. C. pera
xa- xcov apxovroov dvvovdav. opoiov opoicj ael ite-
Xd?,ei. Laudat versiculum Schol. quo et Plato usus est: ojS ai e l
rov 6 poiov a yez $eoS coS rov 6 poiov > quibus verbis haec
adduntur: ini rdSv rovi, tponovS napa- TtXrjtiicov xal dXXtjXoiS
ael 6vv- diayorreov, iB, 'Opijpov Xafiov- da r rjv dpxr/v.
pipvrjrai 8h avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi xal iv 2vpno6ioj, xal
Mivav - 8poS 2vwcovUt» Satis nota Tul- lii conversio est huius
proverbii in libello de Senectute 3. pares cum paribus ( veteri
proverbio ) facillime congregantur. coS^EpcoS Kpovov xal 9
Ianerov ap^atorepof. Ridet Agatho allatis Crooi Iape- tique
nominibus Phaedri senten- tiam censentis, omnium deorum
antiquissimum Erotem esse. Quid enim antiquius cogitari potest
Iapeto , cuius vetustate Suida et Ilesychio testibus usi sunt vete-
res ini Siativppcf ) , aut Crono, h. e. ipso tempore, cuius ille
deus esse putabatur? cfr. Moe-r ris, quem Stallbaumius laudat, p. 200.
'laneroS' dvrlrov yipojv. xal TiScovos xal KpovoS ini rejv
yepovrojv, a*H6io8oSxal Ilappe- vi8i]S, Stallbaumius ad h.
1. Nomen, inquit, Parmenidis Astius mutandum censet in 9
Enipevi8ijS propterea , quod de theogonia Parmenidea nihil memoriae
tra- ditum est. Quid vero? si Par- menides in altera carminis
parte, nunc deperdita, vulgi opiniones de diis eorumque rebus
gestis exposuerit? Quod si veram esse ponimus — nam pro vero
affir- mare nemo audeat in tanta cer- torum testimoniorum penuria —
manifestum est, Agatho- nem prae nimio doctrinae ostentandae
stadio, quid inter Hesiodi atque Par- menidis narrationes in-
'teresset, prorsus non vi- disse adeoqne nane dis- simillima temere
inter se confundere ac miscere. Viri doctissimi iudicio adstipu-
Iflnlui Kuckertus et Schleierma- za. Ss ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi
&tov$, a 'Hotodos xal IlaQ- {lividijg UyovGiv , ’Avayxy xal ovx
"Eqcotc ytyovivcu, d ixdvot d7.rj&f] tktyov. ov yccQ av ixxofia
1 ovdh drti/ioi uX7.y7.uv lylyvovxo xccl ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d
"Eqwg cheras. Equidem sic statuo: Parmenidis versiculum
esse a Phaedro laudatum p. 179. B. praeter Phaedrum etiam alii
te- stantur , v» c. Aristot. Metapli. 1. 4.; quo iure auctorem
Empedoclem Goeltliugius narret ad Hesiodi Theog. v. 120., non
reperio. Ipse autem ille Parmenidis versus, quippe theogouiae alicuius
fragmentum, testis est, theogoniam Parmenidem conscri- psisse.
Utrumque autem et Hesiodi et Parmenidis versum Phaedrus J* c. ita
laudat, ut quibus probetur, Erotem deorum antiquissimum esse ,
atque pareutibus carere. Recte ad eam rem probandam versus adhibitos
esse, neque, quae virorum doctorum opinio est, Hesiodum atque
Parmenidem inter se pugnare , supra demon- stare studuimus annotat, p.
57. Sed tertiunl est , quod allatis Hesiodi atque Parmenidis
versi- bus Phaedrus videtur probare vo- luisse. Cogitasse nimirum
cen- sendus est ita: Nisi indicaturi fuissent Hesiodus atque
Parmenides, omnia, qbaccutique gesta sint usque a principio rernm,
Erotis auxilio gesta esse, Eroti non primum in theogonia sua lo-
cum concessissent. Hinc verba Phaedri recte explicabis : itpE-
OftvxaxoS cor pEyidxcov dya- Sgov rjylv ccLTioS idxiv. Sed cani
ipse sentiret, antiquis temporibus gesta esse, quae cum Erotis natura
ncutiquam conciliari possint, ad bonorum descri- ptionem subito
confugisse videtur , quae ex mutuo amore et amasio et amatori
enascantur* Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit Phaedri
artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo que
summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et
necessitati, quod fatum interpretari li- cet, adseribit, quaecunque
Homerus et Parmenides e Phaedri certo sententia per Erotem facta
esse dixerunt. Elliptico igitur dicendi genere usus est Agatho.
Exple- tior oratio audit: xd itaAata npdypaxa, d 'HdioSos neti
Flap- jjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi ye- y ov kv cli , *Avdyxy xal
ovx "Epcoxi yEyovkvai. e i ixsivoi dXrj^rij ZAe-
yo v. Ficinus verba convertit: Si modo illi vera narrarunt* Exhibet
Schleiermacherus : wenn iene anders wahr erzahlt haben. Iisdem fere
verbis Schnlthessius usus est in Symposii conversione, quam Orellias
denuo edidit p. 100. Dixisset opinor Agatho, si hoc exprimere
voluisset, eI ixsi- voi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i div. Quis
porro ferat hauc sen- tentiarum coniuuctionem : vetera illa
facinora Necessitati, non Eroti patrata suut, si vera illi dixe-
runt. Ut paucis fungar, aliud quid Agatho dicturus erat, quod quid
sit, quoniam tectius locutu* est atque brevius, interpre- tes non
perspexerunt. Sensus verborudi hic est: veteres deorum rixas,
quas per Erotem factas narrant iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt],
tognt Q vvv , tfc ov "Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo
s filv ovv edn, ngog Se ra vtca aitaXog. itoii]- D tov S’ k'ouv Ivdeijg,
olog r t v "Opygog itgog x 6 ImSet^cu 9eov «xcdonjra. "Onijgog
yag ”Axi]v &eov te cprfiiv Hesiodus atque Parmenides, dixissent,
opinor , si vera dicere voluissent, Necessitate non Erote fa-
ctas esse. Noluit autem di- cere Agatho a — Xiy ov 6tv , iXeyov av
'Avayxtj xal ovh * Epcon yeyovivai, ei aAr/Sr/ iXeyov, ne ter
posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret at- que inelegantior.
Possis etiam lianc primitivam verborum conformationem putare: ra di ita
- Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal Jlappevi&rjS AeyovtSiv
(Epcuri yeyovivai ) , 5 'Avdyxyf xal ovx E pari yeyovivcu , ( d
ixelvoi IXeyov av ,) ei dXrjSij iXeyov. i xx opal ovSh 6 e 6
fio i. Conferri iubet Stallbaumius ad li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6.
avrol yap ol avSpanoi tvyxdvovdi voptiefav teS rov 4 ia zcov
Sfoov dpiorov xal 6ixaiozarov , xal rovrov dpoXoyovdi rov
avrov itaripa dijdcu, on tovS vieiS xarimvev ovx iv 6 lxtj,
xaxel- vov ye av rov avrov itaripa ixrepeiv 8i* irepa
roiavra; his adde, quae paullo infra le- guntur xal itdXepov apa
i/yel 6v elvai rd> dvn iv r ois SeotS itpoS aXX rjXovS xal
iffipaS ye 8eivds xal /xaxaS xal dXXa roiavra itoXXa, ola Xiyerai
re imo rc5v itoirjx&v x . r. A. cfr. Hesiod. Theog, 164
seqq. xoiyjro v 6 * idriv iv - 8 B 7) S x, t* A» Huius looi
Terb* Bekkerns et Stallbaumius ita dis- posuerunt, ut comma
ponerent post "OpijpoS, Efficitur hac in- terpunctione , nt
arctius coniungantur verba itoirjrov tdnv iv8et}s itpoS ro imdeiZai
$eov ditaXorifra , quae iunctura sane molesti quid habet atque
spinosi. Ficinus verba convertit: Opus autem est tali quodam poe-
ta , qualis Homerus exstitit , ad teneram Amoris mollitiem de-
monstrandam . Sed haec verba non satis respondent Graecis, Quis,
quaeso, probaret dicendi genus hofc : Ad demonstrandam dei
mollitiem deus poeta eget, qua- lis Ilomerus fuit? , Omnis haec
orationis difficultas removetur commate post "OpijpoS deleto,
posito post ivde )/S, quae verbo- rum dispositio etiam RLickerto
placuit. Seusus est: Tali autem poeta Eros eget, qualis Homerus
fdit ad divinam mollitiem describendam. Videtur autem se ipsum poeta
tangere, utpote qui mol- litie atque teneritate in carminibus componendis
ne Homero qui- dem cedat, tovS yovv ito8aS av -
TrjSaitaXovS elvai • Ad- didit hnec verba Agatho, ne quis aut 1
imprudentia aut fraude fa- ctum opinetur, ut * Attf ditaXij
dicatur, exemplo allato non nisi pedum mollities probetur* Fru-
stra Orellius ad Isocr. p. 330. verba TovS yovv — ft alvei cen- suit
expungenda esse. Stallbau- tlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag
Kvvtjs axalovg uvta, Xiycov Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap
iit’ ovSa niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret.
KttXta OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpai- mius ad
h. 1. : Ista, Inquit, versuum Homericorum recitatio non indigna est
Agathonis ingenio, quem iam antea vidimus inani quadam se iactare
doctrinae ubertate atque elegantia. Vide annotat p. 200. Diximus
autem de hoc versuum recitandorum more annotat, p. 55. Cete-
ram Homerici versus leguntur II. XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt
atque exquisita elegantia com- positi, ita Agathonis ingenio ma-
xime conveniont. Pro ov8eoS f quae plurimorum codicnm lectio est,
apud Homerum ovdtt legi- tur. Illud eorum sedulitati debetur, qui versuum
fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus similiter
cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime igitur
convenit ovSei lectio nostro loco, ubi mollissimis versibus allatis
Agathonis ingenium describitur. Similiter cadeutium versuum exemplum,
quod apud Persium legitur , acerbissimum efleminatorum poetarum osorem, hic
laudare iuvat petitum e Sat. I. v. 98 seqq. Torva Mimalloneis
implerunt cornna bombis Et raptum vitulo caput ablatura
superbo Bassaris , et lyucem Maenas flexura corymbis Evion
ingeminat: reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus praecedit:
Quidnam igitur tenerum, et laxa cervice legendum et qui
sequuntur: Haec fierent, si testicnli vena ulla paterni
Viveret in nobis? Persii iudicium continent, qnod idem fuit
totius antiquitatis, Alio loco Persius Sat. I, v. 93. dicit de
enervato aliquo poeta: Claudere sic versum didicit: Berecyntius
Attin Et qui caeruleum dirimebat Ne- rea Delphin TCal
7}flElS Riickertus ad h. 1. annotat: Bek- kerus, Dindorfius ,
Astius, S tali— baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j
li- cuit enim hoc quidem Agathoni, ut semet ipse eohortabundus
conianctivum poneret ; at non minus licuit, quid facere vellet, in-
dicare: eodem igitur nos argu- mento utemur. Et coniunetivo et
futuro uti licet in huiusmodi dictionibus , neque facile digno-
scas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an futurum scriptor
exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices exhibent, pauciores sed optimae
notae li- bri futurum habent. Inprimia codex Bodleianus nominandus
est, ex quo rectissime Stallbaumius XpTjtiobfieSct in ordinem
verbo- rum recepit. vuv , ou ovx ini OxhjQov fiatvei, aXX ini fiaX&axov.
E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a xcxfit]QCq) mgl ’
'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in i xqaviav, a idxuv
ov naw /icdaxa , ctkX’ iv xolg pala- xaxaxoig xav ovxcov xal ficrivu xal
olxu. Iv yaQ xj&cdi xal xpv%aig ftecov xal av&Qanav x rjv oixyaiv
idQvua, xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig xfn>%aLg, cllV xjtlvl av
OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y , antQXitai , y 8’ av fictka- xov,
olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy iv /laAaxtoxaxoig xcov
(laXaxmaxaxv , anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog (iiv oini
xpaviav, a idxtr ov naw pa\axa. Hoc loco confirmatam habes,
quod supra de ov naw vocularum potestate monuimus p. 79. Nam
prorsus non mollia virorum capita hic intelligi nullo modo possunt.
Sed et rectius expli- cata haec verba ita comparata sunt, ut non
possis non mirari inconstantiam Agathonis , qui modo laudata Homeri
in describenda divina mollitie peritia nunc eundem corrigit atque
capita virorum non admodum mollia censendo auditorum risui poetam
exponit. r xal ovx av k%i}S, Ficinus i» convertit : neque
tamen in quibuslibet animis. 'E5)}€ significat continua serie;
di- citur igitur non promiscue in omnibus animis habitare,
sed selectu facto eas tantummodo .! sibi eligere , quarum mollis
sit ac tenera indoles. xal 7todl xal itdrtfl* Fedum
mentio fit propter comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes
teneros fe- 8tj lau xal anaXaxaxog' cit poeta. Riickert.
Qnao sequantur verba, iv paXaxcatd- toiS tq5v paXaxcotdtcDV , ana
- XcJraroVf ipsius Agathonis mol- litiem describunt, quae si
audi- ret Persius Flaccus, rursus diceret : Haec fierent, si
testiculi vena ulla . paterni Viveret in nobis?
vypoS to eidoS ♦ *TypoS verbum est latissimae significa-
tionis. Primitus videtur li umi- dus, madidus significasse. Qnod
autem madidum, idem etiam lubricum est atque haud raro splendore
quodam insigue* Hinc apud Homerum sexcenties legitur vypa xiXevSa,
quod non minus de splendore undarum di- citur, quam de earnm
flexibilita- te; utramque autem notionem micandi verbo
expresserunt Latini. Qaarn notionem nostro loco habeat, e dxXrjpoS
nomine colligitor, quod paullo infra po- situm illi opponitur.
Recte Stall- baumius monet, vypoS saepe de rebus lubricis, lentis,
flexibilibus, mollibus dici atqae frequenter ngog is Tovroig vygog
ro tISog, ov yag av olog r’ rjv Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg
ipv%ijs xai tigudv to ngcotov Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg
yv. dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag jitya ttxjirjgiov y sv- C%t]fio6vvt]
, o St/ duaptQovrag i» nuvrav djiokoyov- fiivcog "Egag %%u'
a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni ngbq aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa
g 8s xaUog y xar’ av&y SLaira tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg
xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei
B "Egag , ov 8’ av tvav&yg te xai tvuStig zoitog y, Iv-
rav&a xai i£ei xal (i&ve a ad Amorem transferri.
Apposite Riickertus Piat. Theaet. laudat p. 162, B. /n) SXxeiy
itpos xo yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta (h. e. aetate provectiorem
atque corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 } vecoxipoo re xal vypotipcp
ovxi TCaXaUiv . 6 vppixpov 8 i x&l t5 - y p aS 18
iaS. Acute vidit Astius, dvppetpoY referendum esse ad
7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim, quia potest itav xq itEpiitxvddE -
C$ai, recte dvppsxpoS vocatur. Itaque ne hic quidem audiendus est
Orellius, qui dvppEXpoS pro (Svjijiixpov legendum
putabat. Aristaenet. I. 1. p. 4. ed. Abr. ov xcd pivxoi dvppsxpa xal
xpv - pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS vypo<pvcZs avxtjf
XvyiZEdSai ta odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu. Stallb. Ficinus habet in
con- versione: aptae vero t compositae jlexibilisque formae ,
vitio, ut videtur, typothetarum. Non du- bium enim est, quin
scripserit: apte vero compositae et quae •eqq. o 8rj
diatpepovTGoS Pronomina relativa haud raro praecedentis nominis ,
ad quod grammatice referenda sunt, genus non sequuntur, ut
indice- tur, nomen collectivum, quod vocant, ipsum illud nomen
esse, atque complures notiones in so continere , quae genere
neutro pronominis relativi consummentur. cfr. Matth. Gramm. ampl.
$• 439. p. 820., ubi et noster locos laudatur, sed addita auto
SiaqjepOYXojS vocula xai t quam ex optimorum codicum auctori- tate
Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem prorsus delere
Y. D. noluit, quod vim habeat h. 1., quae ad rem paene necessaria
videatur. Etiam Bekkerus xai expungendum cu- ravit, neque idem in
Ficini con- versione expressum est: qua (sc. figurae
concinnitate) Amor omnium maxime procul dubio decoratus est. ?/ xax
* aY$ij 8 ia ix a. Notabis levitatem argumentabdi, quasi non cogitari
possit, ejun, qui deformis sit, pulcra amare, turpia fugere.
Respexisse vi- detur Agatho ad proverbium, quo Cap. XEX.
IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov &bov xal tccvru txavcc, xal l'rc
itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg "Egarog (X£t« similis simili
gaudere dicitur. Verum noti probatur tamen eo, quod probandum erat hoc
loco. Se- quentia verba quod attinet , ov 6* dv ivavStS te xal evo
odtjS roitot y), ivxavSa xal i£ei xal pavet, cfr. Soph. Antig. v.
781 seqq. "EpooS dvixaxE pdxctv *EpcoS y o? Iv xxypadi
niitTEiS o? iv paXaxalS napsialS r e dy id o S ivvvxzv eiS •
Adde Aristaeueti Platonicorum verborum imitationem II. 1. p. 73.
Abr. avavSet yap xal anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpv- xe TtpoSulavEiv
6 "EpcoS, nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita,
ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret
j quae quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet
nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui praeter
poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat , sed fortasse nonnisi
primis labris degustaverat. Observes praeterea, quam artificiose
Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus retulerit et ut
similiter caderent, elaboraverit, S tali b. otid’ afiixei. Prorsus
repugnant haec cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quae
apud Sophocl. leguntur in Antig v« 191« dv xal dtxaiav
aShtovS (ppevaS napadnaS ini Xcofict dv xal zo6e veixoS
dvdpcov B,vvatpov %x £l S rapd£aS. ov te y a p avtoZ
piet 7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘ Haec verba Schleiermacherus
convertit : Denn weder widerfahrt ihm selbst gewaltsam, weon ihm etwas
widerfahrt. In Schulthessii conversione exstat: denu er selbst leidet nie
Gewalt, es wi- ' derfalire ihm, was da woile. Ficinus verba interpretatur:
non enim ipse vi patitur, si quid patitur. AvxoS pronomen ita
explicandum est, ut oppositum 1 cogitetur verbo cuidam, quod nunc
non comparet, quoniam structuram verborum, quam in mente habuisse
videtur, Agatho immutavit. Dicturus videlicet erat : ovxe yap avxoS
pia na<Sx £l > Xl itddxsi' — ov r* d A A o s oSxiS ovv
pia nadxtt x. x. A. Structurae verborum ita mutatae, ut cogitatam
structuram singula verba sequantnr, quae cum structura revera
posita uon satis conveniant, exempla non rara sunt atque a
grammaticis ita explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad
verba directa esse dicantor. Verba pia icadx^i quod attinet,
quaeritur, qui fieri possit, ut aliquis patiatur aliquid, neque
tamen plexv experiatur. TlaSoS enim ne cogitari quidem potest
nisi coniuuctum cum vi quadam ex- ruvTu Aexteov. to fiiv [ityiOrov,
ou "Egag ovt’ dSixEi • oik’ udixEitai ov&’ imo 9eov ovte
&eov, ov&’ vn av- %QUitov ovte av&Qonov. ovte yaQ
avrog (Ua nuOyEi, si' n ita<S%ET m (ila yaQ "EgaTog ov% uxtetcu '
ovte xouiiv jtoiEi onag yccQ ixav "Equu ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv
C trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl contradictio est in
adiecto, quam rocant, quam hic admissam esse ab Agathone admodum
dobito. Aliud quid poeta videtur expri- mere voluisse illis verbis ,
quod quid sit » e rectius explicatis et T i 7tadx £t verbis
patebit. Supra monuimus annotat, p. 169. Grae- cos haud raro , ubi
infinitivus verbi alicuius ponendus esset proprie cum finito aliquo
verbo couiunctus, omisso hoc verbo in- finitivum eo tempore
collocare, quo finitum verbum ponendum erat. Sic legitur Piat.
Alcib. I* p. 106. c. 7. ovxovv Tctvrct fiovov oldSa, a netp*
aWcov ipaSeZ rj avtoS i%evpeS , quo loco iam supra monuimus, oidSct
positum esse pro eldevat Af- yeiS, Eodem modo Agatho nostro loco ad
fubulas quasdam respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et r i
itauSx El posuit pro et xi itadxsiv A eye- rai. Hinc sententia
verborum existithaec: Weder er ist es, der etwas erleidet, wenn man
ge- xneinlich sagt, dass er etwas erleidet, cett. filet autem
positum est , ut eo 7cddx £iy verbi potestas augeotur, ad utrumque
autem negatio praecedens tanquam ad notionem unam refertur. ov re
itoidov Ttoiel. In paucis quibusdam codicibus, in Vindob. uno et
Paris, uno itoidov participium non comparet, hinc Bvickertus ad h.
1.: habet, inquit, primo adspectu speciei non- nihil haec omissio, quid
enim iucundius procedit, quam haec oratio: ovte avtoS fila Ttddxsi,
ovte itoiei ? neque tam necessa- ria est h. 1. conditionis additio,
quam altero iu membro; agere enim Amorem aliquid nemo du- bitat,
utrum patiatur an minas, incertum. Attamen non puto n Platone
omissam vocem esse, sed solam duarum similium viciniam hanc lectionem peperisse.
De hoc genera corruptionis vide quae annotavimus. Praeterea codices
nonnulli exhibent ovte filet noiGDV noiei, quod ab iis additum est,
qui bene sentirent, fila nostro loco e praecedentibus repetendum
esse. Sed ut clarius videas, fila non Platonis manum esse, posita
vox est in loco ineptissimo, eodemquo modo se habet, quasi supra
scri- ptnm exstaret ovte yap avroff Ttddx&f st Ti fila Tta6x E
t* naS yap kxcov. Si dixis- set poeta b<Gjy dixovrl ye
Sv- jMp, nemo eius verbis offendere- tur. 'Exgdv nude positum
mul- torum poetarum de saevitia Amo- ris querentium refutatur exemplo.
Moneo haec, ut habeas, quorsum referas verba Socrati- ca p. 198. E.
to dpa OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS htOLl veiv ltiovv y aXXci to coS
pe- yidxa dvctTiSlvcti tgj npdypart xat oo» HaWtdTUp idv te
y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot itoAtag padiAijg vopoc dlxaia
tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg hAeI- tizyg iitxk%u. ilvai
yag opoAoyElzae dGJtpgodvjnj r 6 xgp- r elv ydovav xal lsu9v(uav 9
"EQCozog $6 [lydsutav ydo- vi]V xqeizzco uvae. eI 6e ytzovg,
xqozolvz’ av vtc "Ego- rog, 6 de xgaz ot. xgarcov dh ydovtdv xal
Irtidv/iuav 6 "Egeog diacpEQovrcog av Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys
dv~ D dgsiav "Egooze ovde "Agyg dvftlGrarai. ov yag e%el
"Egeor a * 'Agyg , dAA’ "Egeog "Agtj, 'Atpgodlryg, wg
Aoyog. xgeizzcov ovtajf $xovTO£ f iav re fiTf' el tpevSrj,
ovdtv dp * tjy Ttpay - pa. Nostro loco Erotis aequi- tas probanda
erat, quod quibus fieret argumentis, verisne au falsis, non
magnopere curaba- tur. fn sequentibus verbis d 6 * dv Ixojy e
paucissimorum codi- cum auctoritate tiS ante kxcov positum
servarunt Bckkerus, Stallbaumius , alii. Riickertus, quem secuti sumus,
voculam ex- punxit. Qui factum sit, ut in ordinem verborum
irrepserit, per ae intelligitur. ol noXeco? /SadiXijS
vd- poi. Haec Bodleiani codicis lectio est. Florentini
quatnor fiadiXixrjS habent, vulgo ftadi- X ilS legitur. Bastius
conferri iu- bet Arist. Rhetor. III. 5- tqdy ndXecov fiadiAelZ
vdpovS. In Piat. Gorg, p. 484. B. dictum Pindaricum laudatur: vdpoS
6 ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy te xal dSavdtGJV. elvai
yap opoXoy eit ai 6<o<p p o dv vt) . In Definitio- num
libello 'Platoni vnlgo ad- •cripto p. 412. A. legitur: do>-
tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$ irepl tds iv avr?j xata
<pvdiv yiyropevccs &m$vpias te xal ySovaf.
eficep/iodrla xal eu- taB,ia ipvxyS xpds rds xatei tpvdiv ijdovd?
xal Xviraf. Adde Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~ vrj dpetr}y 6i'
ijv npoS taS 7/<5o- vaS tov dajpatoS ovta>S %X ov- diVy goS d
vopo£ xeXtvei. Ne- que aliter monente Stallbanmio ad h. I.
da)(ppodvv7]Y definit ipse Plato, cfr. Phaedon, p. 68. C. de rep.
IV. p. 431» A. xpat&v i}8oygjv. Fa- cta conclusione hac
nemo non videt, in dwtppodvvjjy aperte illudi ab Agathone, homine
hu- ius virtutis, ut videtur, expertis- simo eodemque Pausaniae
amasio, quem non puduit Xenophonte teste Symp. c. VIII. 32. dnoXoyeldSai
vitep tgjk dxpa- dia dvyxvXivdovpevcDY. Sed non dubium est, quin
ipse Agatho behe senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus
minimo probatum iri. Ut igitor haberet, quo posset futurae
convivarum reprehensioni sese subtrahere, in fine orationis suae
haec appo- suit: ovto? — o nap * ipov XdyoS — tca 3eoj
avaxeioSco, rd p\v Ttaidids ta 81 ditov - 8ijs petplaS —
perlxoJY. xal pyv - — eZs ye . De *
/ ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov
&U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv ovv
dixcuoOvvrjg xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov BiQqtca , TtEQt de
Oocpiag teliterai. o6ov ovv dvvcctov , nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai
TtQwtov pav , iv 9 av xai iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9
Egvlzt[ia%og rqv iccvxov , Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai
dklov E %oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai , xuv cl[iov6og $ ro
xgiv , ov av "Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug- Kai
fiijv — ye voculis vide an- notat. p. 64. Patet autem, Ho- mericam
narrationem hic taugi, quae legitur Odyss. VIII. v, 267» seqq.
Ceterum non opus est, ut ad A<ppo8ixt 7? nomen , quod fiaullo
infra legitur, nomen ap- pellativum ipaS suppleatur. Dei enim nomen
saepissime appella- tivum nomen simul exprimit. Unum exemplum ut
laudem, legitur p. 197. B. o$er 6r) xai xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv
tot itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi - vov 8t]\ov ori
xaAAovf. it Etp ariov ptf l\\ei- 7 tEiv. AeiitEiv verbum cum
iv praepositione compositum iis verbis adnumerandum est , quae
amissa vi transitiva non actio- nem aliquam exprimunt, sed ab-
solutam verbi notionem indicant ; iXXflitElv icitur idem significat
atque iXXEiieoyra elvai . Hinc accedente indicio rei, quam ali-
quis praetermittit s. negligit, ge- nitivus casus exhibetur, non accusativus.
Vide , quae de hoc genere verborum diximus p. 87» tv* av xai
iy cJ. Tres Bekkeri codices exhibent 7va ri xai iyoo. Non male. Sed
nihil videtur mutandum esse. Etenim av vocula
reiterationem signi- ficat actionis , quae indicata est p. 186. B.
tva xai TtpEoflevoo- fiey r tjv xtxvrjv ; xai autem pronomini
additur, ut significan- tius indicetur, aliquem olim fuisse, qui
idem fecerit. Verum inest tamen nostro loco, quod attentiorem
lectorem merito of- fendat. Nimirum notum satis est atque a nobis
commemoratum annotat, p. 5., Graecos scriptores comparationis membra
ita exhibere, ut nat iu posteriore comparationis membro
ponant, quando idem in priore positum sit, contra id illic
omittant, si in priore comparationis membro non comparuerit, Iam
nostro loco, quoniam &$7tEp vocula duae actiones indicantur
inter se comparari, Platoni scribeudum erat vel dicendum Agathoni ex
prae- cepto supra laudato : iv av xai iyoj t?/V r/jiExspav xix v V
y Tl ~ ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS t 7}v kavxov sc.
ixiprjdev. Potuit etiam hoc modo haec enuntia- tio proferri : tr *
av lyco x tjv rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS- 7Up 9
Epv£i/j.axoS xtjv kavxov. Exemplum est xai in compara- tione
dupliciter positi Piat. Phae- don. p. 64. G. tixiipai 8ij , <3
14 ^ - A xv (fla xofi<S%ai , 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S
«yafrog lv xecpcc- lala ituGciV noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ
ng i} flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv, OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV
’ya$h , <fav apa xarl 601 E,vv - doxy , a«rtp wai. i/io/.
Alia huius structurae exempla Stall- baumius laudat nnnot. ad
Piat. Apol. Socr. p. 22. D. Nam praeter nostrum locum aliud
ex- emplum apud veteres scriptores reperiatur, quo in priori
compa- rationis membro xai positum, in altero omissum sit ,
vehementer dnbito.i ita 5 yovv nonjxifS y i- yvEtat x.
X. A. Audi Stallbau- mium annotantem ad h. 1.: Al- ludit iudice
Valckenario Diatrib. in Eorip* Fragm. p. 207* ad versus Steneboae
Euripideae : iroiTjxtjv 8* dpa. *EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS
y xo npiv . Quae sequuntur verba, aliquid vitii contraxerant, quod facta
verborum incisione duplici optime sanari videtur. Annotat Stallbaumius :
Ne quid desideres in verbis sequentibus, rtuoav noiy- 6iv X7jv xata
povtiixyv arcte connectas cum ctyaSoS. Perperam enim in vett.
editt. post ayaSof interpungitur. Addit vero xj)v naxa jiovdixtjv
propterea, quod deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS la- tiore sensu de
cuiusvis generis procreatione et generatione dicit. Itaque nunc de poesi,
quae in carminibus pangendis cernitur, cogitari cupiens ,
commemorat jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet Schleiermacherus in
con- versione: Uml zucrst nun , damit auch ich uusere Konst ehre,
Vtie Eryximachus die seinige, ist der Gott so knnstreich
(dotpoS o vxgoS') ais Dichter, dass er uuch andere dazu macht.
Iedcr wenigstens vrird ein Dichter» war er auch den Musen
frerad vorher , den Eros triilt. Was wir also wohl koonen ais Be-
weis brauchen dafiir, dass Eros ein trefdicher Kiinstler ist ( [itotij
- X7/S ayaSoS) iedes hervorzubrin- geu , was zur Konst der
Musea gehort. Ut Schleiermacherus, ita ceteri interpretes non satis
ac- curate interpretati sunt verba docpoS noiyxyS et dyaSoS
noiy- xyS , quorum verborum rectio^ explicatio viam aperit totius
loci rectius explicandi. Eryximachus medicos, ad cuins
exemplum Agatho suam artem celebraturas est, de theoretico et de
practico medico {xexyixoS, , iaxpixco- taxoS et dyaSoS SypiovpyoS)
disseruit p. 186. C. et D, ; vide annotationem p. 131* Puri modo
nuno Agatho de theoretico et de practico poeta agit ita, ut docpov
itoltjTljv vocet eum, qui poeticae artis theoriam calleat,
dyc&or Ttonjtyv practicum* poetam no- minet. Mens Agathonis
igitur haec est : Die Theorie der Dicht- kunst liat der Gott so
iune, dass cr auch andere iu Dichtern macht. Ieder wenigstens
wird ein Dichter , den Eros ergreift» wenn er vorher der
Dichtkunst auch nocli so fremd war. Quae sequuntur, revocata post
ayaSoS interpunctione vulgata hoc mo- do scribenda sunt : co 8y
TtpETtEt ypdS papxvplcp XPV O^ai, oxt tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv
xz~ vSida^nc. xccl [ilv di] zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv
197 rtg lvavtt(i}<Stzai ]iij ov%i "Eqotos tivca 0o<plav, y
yiyvt- zat te xai cpvEzai navza tu £wa; aXka zyv rav zr/vuiv
qraXaioo Ttaticcv xohjdiv , rrjv , Tiarcc povdixijv. Sensus est:
Dies raag uns zum Beweise die- nen, dass Eros practischer Dich- ter
ist, wie iiberhaupt in aller Kunst, so in der, welche sich auf
Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba Platonis satis recte se
habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit ordinem verborum hunc : iv
xecpa- A aleo nadav noitfGiv, xata trjv /iovtiixijv. a
yap riS i} fi rj 7 ) firj ol 8 ev. Praecedentium ver- borum
explicationi favent ix £ltr et eidevai verba, quorum alte- rum ad
artis- usum, alterum ad eius theoriam refertur. Idem ia sequentia
verba cadit didovai et SiSdtixeiv. Ceterum cavendum est, ne quis
ovre dv praecedente ovte av minus elegans iudicet aut rei
exprimendae non satis conveniens , ideoque facillima litterulae
unius mutatione scri- bat ovre av: frequentissima est, Stallbaumio
annotante ad Plat. Apol. Socr. p. 81, E. in huius- modi dictionibus
dv particulae repetitio. Sic in Apol. Socr. loco laudato legitur —
ndXai av anoXdoXr) xal jovt’ dv vfidf cocptXijHTf ovSev ovr* dv
ifiav- rov. Addit Stallbaumius Piat. Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61
} tovro ye, do Saoxpdrrff, coS ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv
r<w xoiovrco itork, ovr* dv ns Xv- TtT}. Xenoph. Hier. V. 3 .
dvsv yap tijS tzoXeodS ovr* dv 6qjZs- 6 $ at Svvairo, ovr * av
evdai- ftoveiv .xal p.\v 81} tTfv ye. Pi- cinus in conversione:
Quod uti- que per Amoris sapientiam ani- malia cuncta gignautur
atque nascantur, quis dubitet? quod sane negligentius est
interprer tandi genus, quandoquidem xai ftlv 87 } — yk vocularum
potestas delitescit. Fischerus scribendum censuit xa\ ftijv 6?/, quae
nonnullorum codicum hodie ab omnibus editoribus improbata lectio
est. Kal ftkv 8rj — yk eadem prorsus potestate adhiberi videtur
atque xal firjv — yk, do quo vide annotat, p. 64. ; utrum- que enim
ita ponitur , ut commemorari significet, quod aut praeter exspectationem
accidit, aut quod fidem superat hominum, aut in rebus summae
gravitatis. aXXa ovx — t dfiev. Le- nis ironia htiic dicendi
generi inest, quae adhiberi solet, ubi plane fieri nequit, quin
nesciant, quod nescire confitentur, qui ita loquuntur. De
aitofialveiv verbi tropico usu vide annot. p, 88. Aoristicum autem
tempus positum est de re, quam experientia docuit, cfr. annotat, p,
144. Ceterum Hesycluus, quem Stallbaumius laudat, habet: tpavov'
'(pcorei- vox xal XafLTCpov . Apte Schlei- crmucherus: in Ruhm
und Glanz . ' % r o&ixijv ye ft?}v. ri
particula argumentatioui inservit ita, ut indicetur, alia multa ex-
empla ailerri posse , sed pauca nunc sufficere. Diximus de hoc osu
yk particulae anuot, p. 85. 14 * di/f uovpyluv ovx
ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$ 61- 6i«5xcdos ylvrjtai, iXA.6yi(ios xal
(pavos axe^rj , ov 6’ av "Epa s (irj iyayrjtai, Gxozuvog ; to\ixi {
v ya f irjv xal latpixrjv xal pavtixqv 'AxoXXaiv uvevpev, ixidv-
(ilas xal "Epotos rjyefiovevGavtos , dgte xal ovtos Ii "Epotos
av iitj (la&tjtris, xal MovOtti fiovGixrjs xal "HtpaiOtos
%«A)££ia:s xal 'Adrjva iOtovpyias xal Ztvg xvfieQvijGEos &edv te xal
avdpdxov. < o&ev 61 ] xal xatsOxEvdadi] tdv de ov tu xpayiiata
"Epotos eyye- et p. 1S6, In seqnentibns ma. iuscula
littera scribendum curavimus Erotis nomen , ut alibi saepe, nal enim h.
1* explica- ti vum est, de quo vide anuot» p. ISO. p. 132. «1, De
ijyti- <53«i , verbi absoluto usu supra dictum est annot» p.
59. nal Movtiai ftovdinr,^. Magnopere in explicanda
horum verborum structura interpretes se torserunt. Astius eam ita
expe- dire studuit, ut nominativos ca- sus ad avevpev referendos
censeret et ad pc&rjxijS av ebj, genitivos autem casus e verbis
imSvplaS nal "EpootoS ijyepo- vavdavxoS e praecedentibus repetendis
exaptaret. Annotat Riickertus ad h. 1. : Simplicissimum hoc esse videtur,
ut proxime praecedens membrum GdfXB — fiotSrjTTjs plane negligi in
seqq» dicamus et quasi in’ parenthesi positam, de reliquis autem
sic statuamus, sensisse Agatliouem, AMOREM illum, quo duce
Apolli- nem dixisset artium inventorem exstitisse, non esse alius
rei, quam ideae artis , apud mentem couceptae et spectatae; quum
igitur dicendum esset Mov6ai pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys-
povev6avroS 9 quia povtiinrjS ille AMOR esset , contrahentem omnia
haec, quae plene posuisset de Apolline, unum in membrum, subiectum
posuisse, omisisse praedicatum ex superioribus repetendum, suo cum accusativo
supplapdo illo ex genitivo, quem apposuit, quique ab ’'Epa>Ti
aptus est, quod et ipsum supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus
mente repe- tendum censet * EpcotoS av elrj- xSotv paSrjxai , ut
genitivi pov- 6ixi}S , goAxela? cet, a nomine jia^rftai peodeant. —
Et Astii et Riickerti contortior est expli- candi ratio. Quam
Stallbaumius laudat, ea proxime ad verum ac- cedit» Nollem autem,
genitivos jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum pa- Srftai coniungendos
ceosiiisset. Nihil certius est, quam pov6i - HfjS ceterosque
genitivos ab Ero- tis nomine regi , quod in verbis supplendis
"EpaxoS av elrj6av pa% 7 }Tcti continetur. Musica au- tem ut
xoB,vnr} 9 laxpinr}, pccvxi - Tcrf . inventa est imSvpiaS nal *
EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S f iaxpintjf, cet.)
rjyepovEvtiavxoS. Ut igitur Apollo, illarum inventor artium,
paSijXrfi vocatur Erotis, ita Musae , musicae artis inven-
tSTMnomoN. vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx l'm-
driv "Egeas- n go xov 61 , togjr tg tv cegxfi tinov , jroA- la xal
duva fnois lylyvsto , tog Uyttai , dia rfjv rrjs 'Avceyxrjg pcctidttciV
Inudi) 6’ 6 &eo$ ovtog %<pv, ex rov igccv zav xcdeav navi’
aya&ct yiyove xal C ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu,
<J 6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi- «jtos
fj.tr et rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ai- nos elvai.
trice», hoc loco diicipulae vo- cantor "Epatot /jovOixfjS ,
Vul- canus discipulus EpGaTOS X a ^-~ xelaS x. r. A. xa
i -ZevS xi ipepvg tSea>S. Mira lioc loco codicum varietas
repentur, cuius originem caus- samque frustra quaesivi. Unde- cim
libri Bekkeri exhibent: HV- fispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS , tres alii
apud eundem HvfiEpvdv xa habent, in uno xvfitpvwv repentur.
xqdy S ecvv xa itpaypa- x a. Iutelliguntur rixae illae, quarum
iam supra Agatlio mentionem fecit p. 195. C. : xa S\ TtaXaia npaypaxa
nepl ScovSf et quae paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat
Stiva StolS iyiyvEXO. In sequentibus "EpooxoS
iyyevopivov Sijlov art TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum
habes, ut simul appellativi nominis potestatem ob- tineat. Hinc xff AAouf
geni- tivum explicabis. aldx Y*P ovh iite- (St iv *EpoS
. In Basii, uno legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus Paris, paucissimique
ulii libri exhibent idtiv ; Porsonius Advers. p, 58. tvi scribendum
coniecit, qua coniectnra facile caremus. Ut supra dicitur p,
195. U. ovh ini dnXrjpov fialvEi aAA Ini paXSaHoi ), ita quidni hoc
loco dicatur: aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius,
qui collitis verbis p. 201. A. al - 6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf
scri- bendum esse ceusuit aXdxovS ydp ovh Idxiv "Epcof. JlpdjxoS
avxoS «jv ndX- \ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila mihi videtur ,
o Ehacdre , AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque
esse, Legisse igitur videtur npcZzov pro npoozoS. Illud etiam
apud Stobaeum reperitur, atque WolHo adeo placuit, ut in ordinem
verborum recipiendum duceret. Fru- stra. Agathonis mens haec est:
Ante natum Erotem pulcrum non erat; ille omnibus et diis et hominibus
pulcritudinis auctor; ipsuna igitur deum prius, quam omnes, alios,
pulcherrimum et optimum fuisse necesse est: nam quae quis
ipse nou liabet, alii haud facile largiatur (vide p, 196. E.
fin.) iitlpxeta* V 01 k' *• «ubit me dicere,
valetque IxipXitiSai de ea memoria, quam no« verbo
unwillkuhrlich ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv, ott,
ov- zog bsziv o xoicSv elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh
yaXrjvrjv, vrjvepiav dvifjoov xoizrjv , vicvov z’ ivi xijdeu
insignimus. Ceteram nt versas p. 195. D. ita laudati sunt, ut sua
mollitie, quae cum in ipsorum verborum placidissimo quasi flumine, tum in
finibus similiter cadentibus conspicitur, Agathonis ingenium ad mollitiem
proclire depingant, ita nostri loci versus non dubium est, quin
habeant in se, quo Agatho notetur. De qua re nemodum' interpretum
quic- quam annotavit. Notatur autem, •i quid video, in bis
versibus artificium, quo siugula verba carundem litterarum
repetitione iuter se comparantur. Sic pijvrjv ykv iv av $ p
QJitoiS positum ita habes, ut inverso ordine, quae litterae in
verbo eipijvrjv continentur p et r, easdem habeas in
dv^JScoiCoiS nomine positas; idem cadit in sequentia verba
iceXdtyst 81 ya - %l}vijv. Idem artificium in verbis VTjvepiav dvejiGDY
conspicitur, sed auctius et clarius, quod verba sunt eiusdem
radicis. Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3 ivi xr\8ei dicamus, in
quibus videmur equidem nobis aliquid vitii deprehendisse. Lectio
vulgata ivi jajSei a Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum recepta
est , ac Stall- bauraius quidem ivlxijSei ita ex- plicat, ut esse
dicat iv zols xtj- dopevoiS, Accuratius opinor verba ivi XjjSei
explicantur zt6lv ivi xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive illam
explicationem probes, certum hoc est, hominum, maris, ventorumque
praecedente men- tione non bene commemorari zovS x?]8o/.iivov£ s.
zivds iv xrj8ei 6vraS t et cum eipijvrjv iv dv$poJ7toiS non aliter
intelligi possit, quam iv xijfiop.lv oiS, hoc loco iv x?j8ei
admodum friget. Ac ne quis cum Stallbaumio censeat, non offensurum
ess^ queroquam iu sententiae ratione parum di- ligenter expressa,
qui meminerit, Agathonem hos versiculos ludere a Platone iussum
esse , ut sibi ipse quasi illuderet: alio loco de consilio Platouis
dicemus, excusationem autem Stallbaumianam quod attinet, vide, ne
probata ea, ne manifestissimum qui- dem in huiuscemodi
versiculis vitium mutando tollere possis. Quicquid euim vitiosum
ibi deprehenditur, poetae, non scribarum negligeritiae vel ignorationi
imputabitur. Magna autem est in codicibus varietas lectionis. Ero
vicvov Z 3 ivi xi/Sei Vindob. unus habet vicvov ze vtxrj8et .
Quatuor Flor, aliique non pauci vicvov ze vrfxijSij s. vicvov ze-
vijxi]8ij exhibent. Hinc variae doctorum hominum coniecturae.
Dindorfius scribendum censuit: vijve/dav dvipoiS , xoiry
vicvov vrpoj8ij. quae coniectura verissime mo- nente
Stallbaumio propter zi alie- no loco positum improbanda est. Vix commemorandum
Bastii commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt, Ficinus, quem veram Platonis
mu- ovtos ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D fia
nJrjQol, rag TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag u&tlg £vvi
tvai, iv toQTatg , Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~ yvojuvog rjyifiav ’
jrpaorijra [ilv x oql^ov , aygwTTjra nam habuisse suspicor, versiculos
sic convertit: qui pacem lar- gitur hominibus, qui mari tran-
quillitatem, qui ventis requiem, cubile viventibus omnium- que (
Stallbaumius somnum- que rectissime censuit legendum) securum.
Viventibus autem verbo adhibito animalia, ut videtur, exprimere voluit,
quae videtur et ipse Agatho in mente habuisse, sed more poetarum
ad- hibito unius animalis nomine expressisse, ad quod nomen
reperien- dum ultro duxit TteXayovS com- memoratio. Scripsit enim
Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t Ut autem melius intelligas,
quam facile xtftEi in xijSst mutari po- tuerit: Hesychius xijtei
affert pro dTEprjdEif iprjpla, dicens xrjroS esse non solum
«Snr- \ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed etiam ait o piar . Iam
aliquis olim Platonis commentator non indoctus, cum xjjtEi de fero
marino non intelligi posse opinaretur, dc ait opia verbum dictum intellexit,
atque, ut intelligentiae faciliori versiculorum consuleret, xffiEi
scripsit. Ut autem praecedentia verba earundem littera- rum reiteratione
inter se compa- rantur, ita nunc Sioiirjv et xrjTEt eodem ornatu
gaudent. raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S fitz* aWijXtoy, His
verbis conventus significantur similes A- gatlionis convivio. Ilinc
uiiuus accurate legitur iu, Schulthessii conversione p. 105: indem
er manclierlei Vereine und Zusam- menkiinfte stiftet.
Schleiennacherus verba convertit: Und dieser eben entlediget uns dea
Fremdartigen und sattiget uns mit dem Angehorigen, indem er nur
solclie Vereinigungen uns unter einander anordnet cet. Non reddidit
V. D. itddaS vocem, quae et nobis molesta est. Si quid video ,
vitium liis verbis iuest, quae hoc modo emendari videntur: raS toiasSs
gvvodovS juet' d\Xi}Acjy narras ti$e\s B,vv- ikvai. Ne quis autem
hanc scripturam iusto audaciorem censeat, facile fieri potuit, ut
scribarum aliquis, cum praecederet feminini generis substantivum,
ad id dirigendum censeret itavraS ver- bum , idque in itatiaS
mutaret. Sensus est: Hic solitudinem a nobis cohibet,
familiaritatis stu- dio nos implet, quippe huiusce- modi
conventibus omnes inter se conciliari iubens. Quae sequun- tur
nopi^Go^, i&opiZooy partici- pia optime a Schleiermachero
conversa sunt : Mildheit dabei verleihend, Wildheit aber zer-
streuend. Captat enim Agatho et hoc loco et in sequentibus syl-
labarnm similes sonos. qn\o 8 <n p oS ev psr siaS x. r. A.
Haec verborum structu- ra , rarior apud prosae orationis
scriptores, propria est tragicorum poetarum , vide Matth. Gramm.
ampl. §. 339. p. 647. ubi prae- ter alia laudantur Soph. Oed. C. 6’
1!-oqI%cov' (pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit- vsictg’ iliag
dyaSolg , Statos 6oq>oT§, ayaot og Seoig' iijXatos dfiOiQOts, xtrjtos
tVfioiQOig ‘ TQVcprjs, afigo- TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv, IflSQOV,
XO&OV JtaTlJjJ ’ SJU, 677 . drrfve/tos xbcvtwy xafiaj-
rcav, Eurip. Med, 671. ovx idjuby evvrjs &%vysS yapjjXiov. Eur.
Phocn. 834. axex\oS (poc- pioov . fAsca? ayctSotS.
Consen- tiant codices in scriptura! quam FICINO in conver- sione
expressit: propitias , be- neficus, spectandas sapienti- bus. Sed
nemo non videt, aya - 2uS scriptura probata singaloram huius
enuntiati memborum concinnitatem turbari, qaam studiose ab Agathone quaesitam
esse supra annotavimus. Rursam igitur exemplum habes corruptelae,
quae omnium codicam consensa tuetur. Apud Stobaeum ayc&o~i$
legitur, quod primas recepit Wol- fias , quem ceteri editores secuti
sunt. Mollities, de- liciae. Derivatum nomen est a #1 /m
verbo, calore solvo, mollio, deliciis frango. Stallb. Timaeus habet
Lex. V. P1 . x A 1 8 V * ZxXvdif yal paXocxUx. tiprytai 8 e
arro rov IxkictvSai a6$tvzia xov Sepjiov, ad quae verba vi-
de annotationem Ruhnkenii p, 176 . i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy
lv Tioyco x. t . A. Magno iugenii acumine de his verbis egit
Schu- tsias in Ltct. Platon. Specitn. I. p. 4. Quam ibi verborum
emeodationem profert, quamquam ut eliis, ita nobis minas
probatur, tamen ita egit V. D. , ut non sine fructu et delectatioue
lectorum eius dissertatio repeti videatur. Sententiarum, inquit, iuter se
relatarum oppositionem tur- batam esse, nullo negotio perspicitur. Primum
enim inter nova et A oyoj prorsus nulla est relatio, quae inter (poficp
et noSw satis clara intercedit , deinde qnorsnm omnino hic iy A
oyco pertineat, aut quam vim habeat, intelligi vix potest; denique
quatuor illi nominativi xvfiepvijrrji, imfiaTTji , napadrdtrff xai
deo- rijp quomodo ad quatuor dati- vos iv itovGO, iy <pofiax y
iv no * £ca, iv A oyoj referantur, ut sin- gula singulis ad
sententiam re- spondeant, haud apparet. Itaque cum vix credibile
ait, Agath^uis operam in concinnitate senten- tiarum assectanda
positam extrema in parte claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic
turbata esse arbitamur. Ut paucis defungamur, ita nobis Plato videtur
scripsisse : iv (poficp, iy itoScpy iy itovep, iv poyoo, xv-
fispvT/T inifjdxifi , Ttapadra- rrjS xcci 6cor ijp dpi6roS . Iam
primum totam imaginem e re nautica petitam esse existimamus. Nautis
eoim saepe timor nau- fragii, desiderium terrae, 1 a- bor in
difficultate navigandi, aerumna nauseantibus, fame periclitantibus
, cum tempestati- bus conllictantibus accidere solet. In timore igitur
illo quid guberuatore, in desiderio t fitXfjS aya&av ,
dfieAys xaxcov' iv nova , iv (popa, iv no&to , iv Aoyta xv^egvi/ttfg
, inifiarijs , n«QaOta- e zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc, gvfindvrav ts
%ciav xal dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal cptSroff.
a quid socio itineris et comite ( irtifidry ) , in labore quid
auxiliatore (xapadxdxp) in aerumua quid s os p i t a t o r e (Gartij
pt) optabilius? Haec igitur officia uuum Amorem omnia praestare amantibus
docet. Deinde hac unius litterae mutatione unius- que vocabuli
transpositione hoc efficitur, ut 'singula singulis ad amussim
respondeant. Ut enim iv q>of$Gp ad malorum, sic iv arJ- ad
bonorum exspectationem refertur; ut itovoS molestiam iu agendo, sic
poyoS molestiam in patiendo designat; tandem xu- fiepv?jtrj3 ad
tpuflov, ixifiarijS ad noSov ( quis enim flagrantis desiderii
sensum melirfs lenire possit, qnam socias itineris, qoi- cam
colloqueudo horas tardius euntes fallere possis?) itapadtd- T rjS ad
icovoVf similitudine a remigantibus ducta, deniqne 6co- rr/p ad poyov
aptissime refertur. Haec Schutzii ingeniosa et periucunda explicatio ideo
non pro- banda est, quod codicum lectioni adversatur, quae et ipsa
com- mode explicari potest. Neque tamen Asthma verborum explicatio
placet , quam Stallbaumio probari video. Censet nimirum Astius,
Xdyov h. 1. bene habere, quod nouuisi inanes verborum similitudines
Agatho quaesiverit; ad negamus nos, quamvis o* fxv- $oS ICqd^tj , o
XdyoS djtajXeto apnd Platonem saepe reperiatnr. Verba iv ito vgj ,
iv iv xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta sunt, affectusqne
ama- torum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS potestate
fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO conspecto;
tpo- ftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS
sibi praeripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A
J-» yoS confabulandi cum AMASIO potestatem quaesitam describit. Atque A
ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros dicitur, ut qui ilumen orationis
largiatur idque ad optatum finem dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa
audit, quod cupienti se adiungit, itapadrdrrjS iv <p 6(i& , quid
si- gnificet, sponte intelligitur, dc u- x ifp autem iv itovcp nc
quis opiuetur non recte dicr: periret amans, nisi Eros accederet
ani- mosque ac spem potiundi amasii adderet» eu XPV
Sittd&ott. Haec, est codicum plurimorum lectio. Vulgo dei
tnedSai exhibetur. Recte illud recentiores editores probarunt. Non
enim de ne- cessitate quadam hic sermo est, quam propter non possit
nou sequi, quisquis est humana condi- tione natus , sed de lege
agitur, quem quisque ipse sibi imponere debeat. Vide de 6el et XPV
ver- borum significata auuot. p. 12» Recte verba Ficinus
convertit: quem profecto sectari debet praeclarisque hymnis
venerari vir quisque cantilenae illius parti- %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk
itpvjivovvxcc xakag, xalrjg adi]s jiBxejjovta , ijv i xSet ndvxav
&tav te xal dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij , o jt ag’ ifiov
/16- yog , (o 0c/.l8qb , x aj &eoi dvuxu6&(j , xd jj.lv ■
itat- 8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,
jiixlxav. Cap. XX. 8 Efot&v tog de xov Ayd&avo
g nuvxug l'<pt] 6 ’Aql- exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg
tcuqov xag, wg icqizov- ceps, qaam Amor ipse concinit, mentem
deorum horainumque per- mulcens. — KaXijS post xaXojS positam
permulti codices non habent. Potuit facillime, cum praecedat
xaXdoS, scribarum in- curia vel addi vel omitti xaXijS, ln textum
id receperunt Bekke- rus et Stallbanmius,. Astius scri- bendum
censnit xf/S a o8?jS /iexe- Xovta y Orellius scribere maluit nati
rfjS oodijs /iexExovxa y Rii- ckertus verbum uncis inclusit* Sed
neque uncis opus est, ne- que mutatione verbi. — ‘7fv ^stXyoov pro
rjr ddcov SeAysi positum est, de qua verborum structura vide
Indices. ta /ilv itaiSiaS. Si quae- ris, quo consilio haec
verba ab Agathone proferautur, vide an- notat. p. 208.
dv aS o pv firj <3 av. Prorsus eodem modo in Piat. Protag.
p. 334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc avxov ol TCapovxeS aveS
opvfSij- oav goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nu- dus optativus, ita nostro
loco genitivus participii opinionem ex- primit eorum, qui magno
cum clamore exsurrexisse narrantur, vide annot. p. 158.
fiXlty avxa EiS xov *Epv~ Zipaxov. cfr. p. 198. E.
7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV ^GJTfpdxEl xe xal ’Ayd3covi dtivols
ov6i TtEp\ xd ipcorixd. , itdvv av i(poftov/i7jv, /n)
aitopi}<5<M)6i Ao'- ycov 8ta rti noXAd xal itavxo- Sana
eipt/CSai, vvv o/igdS $a fi ad quae verba Socratis allocutio nunc
refertur. aSs^S TtaXai 8ioS 5«- 'SiEVai. Suid. laudatus a
Stall- baumio habet T. I. p. 48. ddtlS 8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov n
£oxi ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov - /livcov. JldXai
exprimendae praeteriti temporis notioni ita inservit, st cum
perfecto tem- pore coniunctum plusquamperfecti temporis notiouem
efficiat, quae cum praesente tempore aliquam habeat couiuuctionem :
Nuni frustra metus, quem ha- beo, fuerat meus? Conve-
nit cum hac notione Ammonii explicatio 8eoS verbi: AeqS xal q)6(ioS
8ia<pipet. AioS /itv ydp i axi ito\i>xpovioS xaxov vico- voia
, cpufioS 6 i i} napavxixa 7CX07}6iS , 8io7tep t Hpo8oxoS iv xy
xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS xe xal 8eoS. Contra nbi cum praesente
tempore naXai coniongi- . rmg tov vsavtOxov ilgrjxoTog xal ctvtcS
xal r<u &Ba. Tov ovv 22axQa.Tr) ilntiv (iAhparna tlg tov
'Egv^ifia- %ov , ’Aga Ool Soxa , (pa vca , a nal ’Axov(tevov , adiig
ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag, « vvv 8rj £Ae- yov , ilrtstv ,
ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya 8’ dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai
tov Egvli)ia%ov, HavrLxdg Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv
Igel' to di oi ajioQijOuv , ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B '
tlntlv tov 22axQurr), ov gula ctxogeiv xal lya xal aAAog ogugovv, fitAAav
Ai\uv gixd xaAov xal nuv to- tar, perfecti notio efficitur, at in
Piat. Apol. Socr. p. 18. B. ipov yap itoXXol xaTt/yopoi yeyovatit
itpds vpd$, xal nd- Xai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv dXrj^tS XiyovreS
, quo loco iza- Xai XiyovxeS idem est atque ei - prjxoreS . Noluit
autem ipsum perfecti temporis participium ex- hibere Plato, ut
significantius et praesenti hora accusatores me- ras nugas proferre
dicantur atque credularum anicularum inanes su- surrationes. vide
aonot. p. 107 Ceterum schol. ad h. 1. habet: dSete 8iof M tav rd prj
a%ia tpofiov SeSioxuv. opoiov xovxo xal to ijtofpoberjs
avSpconos. d vvv 81 } iXeyov . Nvv 8 r} saepissime a librariis
confun- ditur, neque pauci loci exstant, ubi pro vvv 8 tj scriptum
repe- ritur 6j} vvv , et pro 8 rf vvv vice versa vvv 8 f\.
Utraque verborum compositio propriam potestatem habet , ac 8 ?)
vvv quidem in adhortatioue soleune, atque nostratium also nun
apprime respondet, aut ad rem praesenti tempore notissimam refertur cfr.
p. 191. A. o 8 /} vvv optpaXov xaXovOiv p. 191* B. I o St} vvv yvvaixa xaXovpev, Nvv 81 }
autem de tempore ac- cipiendum est, ut signiheet nunc igitur. Vide
Boechhiuui ad Piat. Min. p. 90. et Stallbaumium ad Piat. Phileb. p.
105 seqq. on 'AydScov $ av pa- ti t cos ipoi. V ulgo legitur
ipei, quod ferri nequit propter inse- quentem modum optativum;
ac- cedit huc Bodleiani aliorumque optimae notae codicum
auctoritas, qui ipoi optativum repraeaen- taut. In sequentibus
dnopijtiai- pi vulgo edebatur. Recte Bek- kerus, Stallbaumius ,
alii , futu- rum in ordinem verborum rece- perant. ,
xal Tt&Sj cJ paxdpie . Kat h. 1. mere expletivam est, de
quo vide annot. p. 6. p. 38. ai. — MaxapioS nomen quod attinet,
haud raro apud Platouem ita reperitur, ut blaudae appella- tioni
exprimendae inserviat. Inter- dum id apud eundem, docente Stall-
baumio ad Piat, de rep. I. p. 335. E., ad ingenii sapicutiaeque
prae- stantiam refertur, cfr. Piat. Me- non* p. 70. B. xlvSwsvcj
tioi Soxeiv paxapioS xiS elvai , dpextjv yovy f site
SiSaxrov, t Sccnbv ovto Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla*
ovy ouolcog &avpcc<5Tu; zb de In l zetevzijg zov xaXXovg
fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai , eidevat. Adde Piat. Menex.
p. 249. D. M. N?) Ai ' , cj 2d- ■xpaxeS , paxaplav ye A eyeiS
ttjv 'A6na6i(xv , ei yvm) ov6a toiovtovS A oyovS oia z' l6x\
6vvri%ivai. xal rtOLvroS artov ovxcj. Apud Bckkerum legitur
pera xa\ov ovxco xal 7tavxo8ait6v A. /5» Uterque verborum
ordo codicum non paucorum auctoritate nititur» Equidem non du-
bito, quin ovxco vocem ei verbo Plato apposuerit, quod maiora cum
vi pronuntiandum est; igi- tur 7tavxo8a7tuv ovxco in ver- borum
ordinem recepi. Recte autem Stallbaumius ad verba xal TtavroSartov
ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem quippe quae
videatur omnia attigisse et percurrisse, quae ad laudem Amoris
pertineant» xa\ xa p\v aWa ovx 6 poicoS $ av pa6x a\
Sic Beltkeriis et Stallbanmius omisso piv] quod post opoicoS in
omni- bus fere codicibus reperitur. lliickertus ad li. 1.: Habet
sane, inquit, quod mireris, piv parti- cula in eodem orationis
membro repetita. Attamen hoc ipsum cautionem imponit critico,
cni nihil magis est mctnendnm, quam ne librariorum vel
grammaticorum' correcturas in textam reci- piat. Quos quum multa
hic illic correxisse constet ex iis li- bris , in quibus ipsa
correctoris manus cernitur, quid est magis consentaneum, quam iis
quoque in locis, ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non
agnoscat, omissionem ab antiquiore critico institutam in libros
receutiores receptam esse. Quam ob rem, ut ratio reddi nullo modo
possit repetitionis, servandam tamen particulam equidem existimo.
Sed vide, an possit sic defendi, ut prius pev membrorum oppositioni ,
alterum sententiae inservire dicas; et cetera quidem, non sunt illa
quidem similiter admirauda. — Si recte Riickertura intellexi , eius
explicandi ratio nullo modo pro- bari potest; non perspicio enim,
quomodo membrorum oppositio non item sententiae oppositio esse
possit. Ceterum exempla non- nulla laudavi supra ( cfr. annot. p.
21. et p. 216.), quibus pro- batur, interdum falsum esse, quod
omnium codicum consensu con- iirmetur. Nostro loco duo Bek- keri
codices piv post opoicoS positum omittant, ex quorum au- ctoritate
id recte omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum male post SavpaOxa
punctum ponitur. Schleiermacherus verba convertit : und wemi auch
das Uebrige wol liiclit alles eben so bewundcrnswerth gewesen
ist; aber die Schonlieit der Worter und Redcnsarten am Ende,
wel- cher Horer ist nicht- uber diese erstaunt? Haec quamquam
cum oratione Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitope-
rium continent prioris partis orationis, praeter consuetudinem Socraticam sunt,
de qua vide an- not. p. 191 Signo interrogandi post $avpa6xa posito
locus sanatur. Sensus est : Et cetera qui- tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av
it-utXcc ytf axovav; ixu syays Iv Sv[iovjisvog , on avios ov% ol6$ dem
nnm non pari modo praestantissima sunt? to Sh iitl xrjXevti) S
rov ndXXov 5 . Haec verba Riickcrtns ita explicat, utro' de vocu-
las censeat cum sequeDte rov xdXXovf genitivo arctius cooiun-
geudas esse. Addit idem, genitivum nominis alicuius coniunctiim cnm nominativo
articuli genere neutro positi prorsus non differre ab ipso nomine,
quod cum suo articulo exhibeatur; perinde igitur esse, utrum
to rov xaX XovS, an to xdX- XoS scribatur. Idem praeceptum
Matthiaeus dedit in Gramm. ampl. 285. p. 574., quod ta- , men
neutiquam probari potest. Nominis periphrasis effecta illa per
articulum neutro genere positum semper aliquam nominis adjuncti
conditionem indicat, quae e verborum contextu facillime eruitur.
Posses igitur nostro loco, y scriptor ro' 6e tov xaX- XovS arctius
coniungi voluisset, verba convertere l Vim autem pulcritudinis et
verborum et di- ctionum cet. Non aliter, quam Riickertus , verba
converterant Schleiermacberus in conversione p. 427. et
Schulthessius p. 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est, to 61 irci t
eXevTrjS ita positum esse, at, cum praecedentia verba Ta plv dXXa
reliquam ab initio orationem denotent, hoc nihil aliud denotet,
qqam: verba posita sub finem orationis» Tov xaXXovS autem genitivus
e verbo oi^enXdytf pendet, de quo genere structurae vide annotat,
p. 197» et Matth. Gramm. ampl. $. 868. p. 681« Sensas est; Quod
autem verbaattinet snb finem orationis posita, quis pulcritudinis
verborum dictionumqne non summa admiratione tenebatur
audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens , quo
Agatbonis audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum
in- dicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo
est, quod animi commotio maior, ut subitanea , ita fugitiva est,
non dnrans, ut iam praeterierit necesse sit eo tempore, quo qnis
eius mentionem facit. Perfectura tempus infra babes«p» 211. D , ad
quem locum vide annotat. T&v ovopaxcov xa\ farf- p d T os
v . * Ptjpctxa sententiae ' sunt, ovopata singula verba» Hinc
Eryximachus non singala Heracliti verba, sed integram sententiam
vituperans male ver- bis expressam p. 187. A. dicit J coSTtep tdcoS
xal 'JIpdxXeiTof ftov - Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}- padiv ov
xaXwS Xeyei. Infra legitur p. 221. E. Toiavxet icotl ovo pax a. xal
fjTjpara i&<vBev itepiapnix°vTai x. r. X. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 17. H. ov pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp- vaioi,
xexaXXieTtrfpkvovS ye Ao- yovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa- 6 i Te
xal ovopadiv ovde xe- xodprjpevovS x. T. A. Piat. Cra- tyl. p. 899.
A. — otov 4il < piXoS * tovto iv a avzl fiijpa- r oS ovopa rjpiv
yhnjrai, ro te Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper x. t. A.
ixel iycoye ivBvpov - psvoS x. r, A. Pe ixei vocis C t’
iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v% a.ia%vvr/g oXlyov dxoSgdg
cjj%6fit/v , sl xr/ tl%ov. xal yuQ f ib Togylov 6 loyog dvE(ii(ivt]6xsv,
agtE drejrvag rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj' i<fojioi\u>]v , fit/
/ioi xiktv- caussali. potestate atque de eias origine supra
diximus annotat. p. 151. Ad verba, quae sequuntur, oXlyov dnobpaS
qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat; ne quis scribendum suspicetur
oXi- * yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en ~ tenti a verborum haec est :
ego prae pudore paene aufugeram, siqua potuissem. Vide praeterea
annotationem p. 159. et ny elxov. Vulgo legi- tur 71 oi
pro ny» Hoc optimi plurimique codices praebent* At- que videtur,
Riickertus inquit, ny etiam verius est; non tam enim , quem in
locum fugeret, curandum Socrati fuerat, quam quae fugiendi ratio et
via esset, possetue an non. Utrumque licet, sententiam si spectas,
in ser- mone familiari, et locum, quem versus aliquis fugam parat,
et rationem , qua fugi possit , sine maguo sententiae discrimine
commemorare, neque nostratium vitu- peraretur, qui diceret: ich war
schon halb auf der Fiucht, vrenn ich nur wusste, wohin aut wenit
ich nur wusste, wie. Sed araatrt ' Graeci, ut supra indicavimus an-
notat. p. 28., verba motum in aliquem locum significantia cum
quietis notione coniuugere; hinc non dubium est, praesertim cum
codd. optimi, quorum in nume- ro Bodieiunus est, ny exhibeant, quin
Plato Ttoi non exhibue- rit, Ceterum dnodidpatixeiv ver- bum de
servis soleune, qui, quod hero debent, id non sol- vunt
aufugientes. Debent autem hero servitium. Apte igitur ano- 6 paS h.
1. Socrates dicit, quod claucnlum aufugiendo, quam pro- miserit,
non praestiturus esset Erotis laudationem. xal ydp pe Topy io
v o XoyoS. Gorgiae Leontini ce- leberrimi sophistae et dicendi
magistri illius aetatis, cuius omne artificium in verborum ornatu
et magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide an- notat, p. 196 ) constabat,
id quod abunde discimus ex Phaedro Pla- tonis. Duae declamationes,
quae eius nomine feruntur, Helenae en- comium et Palamedis
defensio quibus de coussis suspectae fidei habeantur, nescio ; id
scio, pro- prietatem Gorgianae eloquentiae in iis reperiri.
Riickert* cfr. Pliilostratus de Vit. Sophist. I. xat 'AyaScov dt 6
rijs tpaya)- 6 iaS noitjzi}s , ov 77 xoipcpSla Cotpdv re 71 al
xaXXienij olde , noAXaxov tg5v lapfieicjv yop - yidZei.
in enbvSrq * Hanc formam Atticis usitatam cum parum no- tum
habuissent librarii, factum, est , nt saepe mutarent. Vulgo legitur
InenovSeiv. Bodleianus codex inenovSet exhibet, cfr. Matth. Gramm,
ampl. J. 198. 4. p. 360 Buttmanni Gramm. uropl. T. I. p. 432. Rem
extra dubita- tionem ponit Eustathius ad Ilom. Odyss. p. 1946. ed
Rom., quem Stallbaumius laudat: napaStdcodi ydp 'HpaxXeidTjS , ori
'AttihoI tcov 6 'Aya&cov rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp
Xoyca ini rov iftov koyov nipt^ocg ccvtov pe At&ov ty atpavl-a
itomtius. xal ivsvorjOa tote aget xocrayii.a<5rog coV, 7 jvlxu ifiLV
cS [toAoyovv iv rui pigti pE&’ vp& v tOVS TOlOVtOVt
V7tEp6wte\lXOVi iv rui ijra povcp icepazov6iv f TfSrj
Aiyovzef xal ivero/fxrf XoA i 7t£7COirfX7f HOLI OVZGD
tprjoi llavaizios ex £ tv ypet- tpaS Ttapa IlXdzoavi' xal
&ov- xi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov - zrp *Aztix<j) cfr.
Stallbau- mius ad Piat, de rep. I. p. 329* B. ubi eadem
eiusdem verbi forma in omnibus fere codicibus depravata reperitur.in
ijC£7t6v$£iY, Fopyiov he < p aXtjv 8et- v o v Kiytiv .
Annotant interpretes , ad Homeri Odyss. A. 632. respici, ubi haec leguntur:
’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i, 'Mt/ poi ropyeujv HEtpaXrjv 6ci-
VOIO TtEXttpQV. *E% at8ov 7tijitl>£i£v ayavrj Il£p -
de<p6v£ia. Gorgus adspecto capite mortales in lapides
mutari , veterum opi- nio erat» Iam vide, quam lepide Socrates in
Gorgiae Gorgusque nominibus lusit. Tanquam conspecto Gorgus capite,
audita Agathonis oratione, ue in lapidem mutaretur h. e» lapidis
instar avavSoZ sederet, veritum se esse dicit. Ceterum quod apud
Ho- merum est 8£ivolo neAcopov nunc satis festive Seivov Aiyeiv
dicitur adhaerente notione mon- struosae dictiouis. ini rov
ipov A oyov. AoyoS hoc loco orationem significat, quam Socrates
habiturus est ; igitur verba convertenda sunt : io faturam
orationem meam. Rependit autem Socrates satis festive, quae
ab Agathone dicta erant p. 194. A, qtappdxzeiv fiovA-El /i£,
cJ StOXpaztS — Uva $opvfiri$(Z. — Pro A faov zy atpcovia consuetius
dicendi genus est p?) — pl dfpaovov noi - rjCEitv aSTTEp A i$ov,
sed multo lepidius est atque praecedenti comparationi convenientius
Ai$ov zy dgxovia. xal iv ev 6 t} 6 a zoze apa xazayiAadxoS
gjv, Aoristicum tempus positum habes tempore praecedente
imperfecto, ut momentanea actio a durtua discernatur, de quo
significatu temporum vide annot. p. 36. xaxayekadxoS nominis
siguifi- catum supra tetigimus annot. p» 148. Ceterum cave zoze
cum iv£vo7fda coniuugendum censeas, pertinet enim ad sequentia
verba tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum
laudare promiserit. "£lv imperfecti par* ticipium est : oratio
enim recta audiret: zoze apa xazay iAatfzoS 7)V i/vixa x. z. A.
Respicit autem Socrates ad p. 177. D. ovSeiS doi, gj *Epv£,lpaxe, —
ivavzia < pielxai . oirze ydp av itov iyoo (iizoLpaidaipt , o£
ovdiv cptpit «AAo InidxadSai i) za ipeo- zixd x . r. A.
iv reo pipet pe$’ vpdSv. Socrates sibi ridiculus videri sc
simulat, non tam , quod Ero- tem laudare promiserit , quam quod iis
promiserit, quibus nemo elegautiorem et pulcriorem Ero- D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota xctl
l(pr\v ilvcti dsivos tu iCQOtuccc , ovdlv Side os cepa tov npciy fiatos,
os edsi iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas (S(i?]v
detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9 nat tovio
(ilv vitdp%eiv , avxdv 81 xovxov tu xaU.i- <Sza ixktyo(iivovs &s
evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv tis laudationem exhibere
possit. Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv
roa fxipEi vficjv, quo facto ironiae acerbitas
incredibiliter angetur. Quae sequuntor verba .xai tcpr\v eivai
betvoS xd ipeo» nxd non satis cum Socratico dicto p. 179. D.
conveniunt. Mo- destius euim illic Socrates locu- tus est. Ne
mireris igitur, quid sit, quod vehementius Socrates hic t se
vituperet : omne vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint,
coram Socrate, homine maxime erotico, rerum eroticarum imperitiam
suam pro sapientia vendidisse. iyd p\v ydp vn* dfte A-
repiaS x. r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse, qui de
Erote verba fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio Bodleiani codicis
lectio est aliorumque plurimorum librorum. Riickertus non nisi in Bodleiano,
Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\- tepiaS reperiri annotat. Iloc
certum est, codices permultos afiefarjpiaS praebere, quae lectio
unde originem duxerit, haud dif-" ficile est ad explicandum.
Li- brarii enim cura non ad etymo- logiam respicerent
df\eX.TEpia nominis , sed ad analogiam vo - cabulorum in ?jpta
desinentium, ad dfieXxrjpia lormam recipien- dam proclives
erant. KEp\ kxccOxov rov IYt xcj yidS,oy iv ov.
Ficinushaec verba convertit: Putabam equi- dem ob ruditatem meam,
do quocunque quod lauda- tur a nobis, vera oportere re-
ferri; quod si verbis exprimere voluisset Plato , scripsisset haud
dubie o iyx&judZExai. Schlei- ermacherus exhibet in conver-
sione; Ich duchte namlich in meiuer Einfalt, man miisse die
Wahrheit sagen in iedem Stiick von dem zd preis senden, quam
conversionem verborum nemo facile probaverit* Kiickertus idem esse
contendit Zxatixov x o iyxa>yiaZ6j.ievov 'at- que xo ael iyxa>/ucu}6y£vov
f sed exemplis hic loquendi usus pro- bandas erat, quod V. D.
facere omisit. Vulgo legitur : Ttipi Ixa - <Sx ov xoov
lyxooptctZofiivGDv, quae lectio Schleiermacliero pla- cuisse
videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni TCepl
bcatixov xov iyxGopiaZo- flivov explicari posse diffiderent.
Scripsit fortasse Plato : TCepzkxd- Otov iyxG>yta£o/i£rov h. e.
de omni re, si laudatur; fortas- se etiam verba xov iyxGDj.uaZo
pi- vov glossema sunt, quo facillime, si abesset, careremus. Nam
cum praecedat ovbtv eISgjS dpa xov itpdyyaxoS , cJ? ibtt iyHGoyid-
?,Elv oxiovVf satis patere opinor, izepl kxaoxov per se positum rem
laudandam significare. dfj (ieya IqiQovovv m$ tv Iq<ov, wg flStd g
ti/v ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de ccqb, cog Houctv, 01J tovxo
rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog (ii- E yufxa uvaxitiivtu xa
Ttodyuait, xal d>s xedhaxet , iav xe y ovxag £%ovxa iav xe (irj. ei Se
4>tvSij, ovSiv «p’ tjv XQayfia. XQOv^Qtjdy yaQ, mg foexev, uxiog
exuOtog xal tovto fitv vnap- XBtv, Bastius paru*n
perspe- cta VTtapxetv verbi potestate 7tal tovto npdotov pkv rei
pkyiStov fikv vnapx&y scribendum cou- iecit. Frustra.
Rectissime Stall- baumius xal tovto plv vnap - inquit, est: et hoc
de- bere orationi subiectum esse argumentum. Nam verissime
Scbneiderus ad Xe- noph. Oecon. XXL 11. vnap - X&iy dicuntur a
Platone quae- c ungue fundamenti loco adesse debent , ubi quis quid
exsequi vo- luerit, to SI a, pa, cjsHoihev, ov tovto
7/r x, t. A. De xo 6 k vocularum significatione vide annotat, p.
111. Adde Stall- banmium ad Flat. Apol. S. p. 23. A. " Apa
conclnsivae notionis particula hoc loco ironiae augen- dae
inservit. Praeteritum tem- pus falsam opinionem aut spem fuisse
indicat, quam aliquis olim susceperit atque per aliquod tem- plis
veram habuerit. Utuntur autem hac formula satis cum do- lore aut
acrimonia ii, quos even- tus docuit, aliter atque antea putaverint,
rem se habere. Eo- dem modo paullo infra legitur p. 199. A. aAAa ydp
iyco ovx ydij apa tov tpoxov tov inai- •vov x . T. A. Egit de hoc
ge- nere dicendi Stallbaumius ad Piat. Phaed. p* 68. B., ibique
Home- rum laudat, Odyss. XVI, v. 418, 'Avtlvo', vfipiv £x
gdv * xaxopkj- Xav&, xal 61 6k tpa6iv iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ *
optjXixtxS ippev' dpidtov fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 *
ovx apa toios hjdSa. Pro irpporfccto interdum in hoc
dicendi genere praesens tempus reperitur, v. c. in Piat. Gorg. p.
469- E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj pkv navtES av pkya Svvaivto , IkeI
xav ipnpjjdSEirj olxla rod- tqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do - /
xrjy xal ta yE 'ASrjvaicov vsa- pia xat rpii/pEiS xal ta
nXoia navta xal ta drjpotiia xal xd idta. aAA’ ovx apa rovt*
l6ti xd pkya Svva6$ai, to not - eiv d Soxei avtqj, DiiTert a
praeteriti praesentis temporis usus ita, ut illo posito evento
aliquis indicet se edoctum esse, rem aliter se habere, atque olim
existi- maverit , praesente autem tempore indicatur, indicare
aliquem ita, ut iudicium eius adhuc uoa probatum sit eventu.
aAAa to goS pkyitira avatiSkv ai t& npdypa - ti.
*Avaxi$kvai verbum solenne est de donis, quae diis ab homi- nibus
consecrantur» Idem etiam eum significatum habet, quo ali- quis
alicui aliquid attribuere di- citor. Neutra verbi notio ad nostrum
locum satis quadrat. Nimirum ironia consueta Socra- tes usus et
pietatem d£ia diis 15 ijfiwv xbv "Eqcotu lyxauiateiv
dot-ei, oi>% ortas lyxa- (uaGtxai. 8ia xavxa 8i), olfiat, rtavxa kbyov
xivovv- xcg avati&exs xa "Epazi, xal ycczt avxbv xoiovxov
rs 109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai tbg xak-
liOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam et
mentientium impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni
verbum, quod utramque notionem exprimat; nam quod mihi nunc in
mentem ve- nit, aufhiingen, de fore suspen- dendo intelligas
facilius , quam de corouis, quibus templorum parietes exornabant
veteres. Sed pone, vernaculum illud Graecorum verbo dvaxpEfxairvvvai
ap- prime respondere, alteram notionem adde, qua dicimus : i e -
mandem etwasaufhiingen, et expressum habebis avariSi- vai verbum. In
Latina liugua verbum est, quod Graecorum verbo ad unguem
respondeat: imponere alicui aliquid»
iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoi- xtv. Socrates ex orationibus,
quae hucusque habitae erant, conclusionem facit ad Eryximachi medici
voluntatem p. 177. D» , eiusque verba ita interpre- tatur, ut non
veram Erotis lau- dationem, sed arbitrariam, hoc est, vel veram vel
falsam lauda- tionem exegerit. Hinc verba explicabis coS UotxsVf quae ita
pro- feruntur a Socrate, ut ad con- vivarum orationes respici
signi- ficetur. Sensus est: Deun die Aufgabe war, wie aus den
ge- haltenen Hedeu crhellt cet. iy xoo fiiaZeiv 8o%ei t
ovx 0 7tQ3s: iyxooj^iiddETat. Fiemus baec verba convertit : Nihil
‘fenim referre, faisaue an vera sint, cum propositum sit, non
quomodo Amor ipse laudetur, immo ut quisque AMOREM laudare quam
maxime videatur. Indicativo futuri rei veritas indicatur, quae arbitrio
opponitur, quo quis Erotem laudandum censent, Paullo obscurius
Socrates loquitar. Verborum sensus hic esso videtur: Convivas non Erotem,
sed se ipsos landasse ita, ut suam sententiam de Erote laudando maxime
celebraverint» xavxa Xoyov xivo-vv- xeS avaxiSe te x
&"Ep gdxi. Ruckertus ad h. 1. XoyoS 9 in- quit, utrumque
significat, oratio- nem et orationis materiam, xt- veiv Xoyov ,
excitare sermonem vel excitare, de quo dicatur» Hinc sensus est,
nihil, quod dici possit ullo modoy praetermittitis, quin AMORI
tribuatis. IldvTot Xoyov xiveiv neque de ora- tione neque de
materie orationis accipiendum est, sed de genere dicendi ac de modo
res animo concipiendi; verba converterim: iedo mogliche Rede- und Be-
trachtoqgsweise auwenden. cfr. Piat, Phileb. p. 15. -E. o 8 l
xpcotov avrov yevodpevoS hxd- dTOTE XGOV VECJV tfd$ElS ttfS* XlYCt
dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>* ijSovrjG ivBovdia te xal xavxa
mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat. Theaet. p. 163. A * tovxov *a- ptv
td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg ye e16o6l xal xctAag
y' £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk ydq figet rov x
qotcov xov BTtctLVOv , ovd’ eidas vfilv c o^oAo- yijtia otul ainog iv %
c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta ovv viti6%ETO , fi (pgqv ov. drj.
ov yitQ ra ijiivrjdctjJTjv . Piat. de re pub. V. p. 450. A.
o6ov Aoyov ita- Aiv, QjSXEp apxy$> xivsixe zepl rijs noAixtlaS.
Ad ava- tLSeze cogitando repetendum cen- aet Riickertus navia A
ayov vel supplendum avxov , quod ad jtavxa Aoyov referatur.
Frustra, *Avazi%kvai hoc loco absolate positum est, ut idem sit atquo
txvd%i6iv itoeltiSat. t oiovtov xe elv cti xa\ r o 6ovx av ah
iov . His ver- bis indefinite positis et natura Erotis et utilitas
dei vario modo in convivarum orationibus descriptae insigniuntur. Igitur
roiov- tov talem significat, qualis a convivis diversis modis
descriptus est, lodovicjv talium auctorem tantorumque, qualium et
quantorum auctorem illi Erotem praedicaverunt. xal xaAas y * $\eix.
r.A, Eadem fere ironia Socrates utitur in Plat. Apol. Socr. p. 20.
C. xai iyco i ov Eutfvov ipa- xdpitfa, ei aS aArjS&S lx £l
T<xvrr,v xifv xix v V y Ka ' L °vxcjS cpptXdii 8i8a6xei. lyd
yovv noti avios ixaAAvvo/njv te xa\ JjftpVV OflTfV <XV y eI
7/7tl(jxdp7fY xavra * «AA* ov ydp initira- / tat , ($ uvdpES
’A$rjvdioi. Cave igitur, serio dicta censeas verba xdi xaAd>S y
’ tx £L tepraf o Zrt aivoS. a A A d ydp iydf. Duae co-
gitationes insunt in sequentibus : Promisi me verba facturum
esso de Erote ; Ignaras eram rectao laudandi rationis, quam vos
se- cuti estis. Ad olterum cogitatio- nem yap refertur, ud
alteram aAAd. Huiusmodi cogitatione* quoniam saepius in nna
enuntia- tione comprehenduntur, aAAd ydp haud raro coninnctum
reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1- dtuS' Latine expressum audit r
Sed enim ego non noveram buuc modum laudationis, non scieus autem
vobis promisi, ut ceteri, ita et ego ipse dei laudationem. Positum
igitur habes ovd’ ei- do oS pro ovk e16gj£ 86. Effici- tur autem
illa scriptura, ut accentus orationis , proprie in ovh lidcoS 8i ponendus
, in sequens finitum verbum transeat. ?} y A arra ovv v it e
6 x £ - to, 7 ) 8 fe tppTrjv ov. Legitur apud Euripidem, ad quem
Socrates respicit li, 1. , Hippolyt. v. 612. 7 } yAc566 *
ojjgSjjqx’, 6t tppi} v avapox oi Haud raro in Platonicis
scriptis ad hunc versum alluditur, v. c, Theaet. p. 154, D.
EipiitlSeidv xi HvpjpijdEiai' tf plv ydp yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv
forat, 7 } cppifv ovx avEAeyxxof. Adde etiam Cicer, de ofif, 111,
29* 108,: Nou enim falsum iurare periurare est, sed quod ex
animi tui senteutia iuraveris, sicut ver- bis concipitur more
nostro , id 15 *ftt lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag av Swal-
fiijv' ov (iknou akka ta ye dkqdq, el fiovkte&e, non faceie
periariam est. Scite enim Euripides: Iuravi lingua, mentem
iniuratam gero. Ad Socratem nt revertamur, Eu- ripideis
verbis laudatis hoc effi- cere voluit: Promisisse sese qui- dem
Erotis laudationem, sed non talem, qualem ediderint, qui ante 6e
locuti sint. Aut igitur ta- cendum sibi esse , quippe pro- misso
suo ad Erotem illa ratio- ne laudandum non obstrictus, aut eam
laudationem proferendam esse, qualem, cum promiserit, in animo
habuerit. , ov ydp kri iyxapiaZa xovxov tov tporcov.
Breviloquentia est : hae enim sen- tentiae verbis insunt:
laudaturus eram, at non amplias lauda- turus sum , si huuc in
modum laudatio instituenda est. Riickert. *EyxoopidS,co absolute
positum est, ut non tam actionem, quam ipsam verbi notionem cum vi
repraesentet : iyxcjpia^cov el/ii. Hinc facile intelligitnr, quid
sibi velit hi hoc loco. ov ydp av dvvaiprjv . ov
/jLevxoi . Admodnm dubi- tant viri docti de horum verbo- rum
iuterpunctione recte ponen- da » alii punctum post ov f.Uvtoi
ponendum, alii omnem prorsus interpunctionem post ov fievtoi
delendam censent. Atque sic Bekkerus verba edidit, quem Riickertus
secutus est annotans ad hunc locum: tftraque verba in- terpuogendi
ratio vera est gram- matice; sensum si spectes, roi- rere, quid
sibi velit tam fortis ac vehemens negatio, qualis fa- tura
sit, si ov pkvtoi cum prae- cedentibus iungatur. Contra si iungas
ov pkvtoi aXAa, multo lenior erit oratio, sensumque praebebit hunc:
Vestro isto modo AMOREM laudandi consilium plane abieci, non possim enim,
etiamsi forte velim. Attamen hoc ita accipi nolo, quasi dicere
omnino recusem, immo vera quidem cet, Equidem non dubito,
quia Ov pevtoi verba per anadiplosin rectissime ab Stallbaumio
expli- cata sint, cuius exempla si quae- ris, adi Stallbaum. edit.
Sympos. p. 97» Quod autem scire se negat Riickertus, quid sibi
fortis negatio velit h. 1., exprimendae veritati enuntiatiouis
negativae inservit, ut verba convertenda sint : ich konnte es auch
nicht, wirklich nicht, ei ^fiovXedSe, i$k X oj xa x 9
ifiavxov . De (5ov Af- 6%at et kSkXeiv verborum signi- ficatu vide
aunot. p. 44. — Ka - T a praepositionem quod attinet, vide Piat.
Apol. Socr. p. 17. B, el phv ydp tovro Xiyovtiiv, opoXoyoiyv av
iycoye ov nata. xovtovS elvai jirjtcop. Piat. Prot. p, 517- A. iyd
8e tovtoiS aita6i xaxet tovro elvai ov Hvp<pepopai t de quo loco
supra diximus p. 41. Adde praeterea an- notat. p. 134. — n Iva prj
yk- Ao ota o(p\cD . cfr. Apol. Socr. p. 17. C. ov ydp av di/ itov
Ttpk - 7Toi, cj dvdpeS, tp8e ry uda toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A
d- yovS eis vpaS elsdvai , quem locum eo aptiorem hic
censebis, l&tfaa tljteiv xcct’ Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs
B koyovg, ivu (lij yikattu. ocpfao. oga ovv, cj <X>aidQt , {I
> i qno certius est, Socratem aetate provectiorem
fuisse eo tempore, quo Agatho ItuyIxuk celebravit, h. e. 412. a,
Cfi. P. Ceterum ocpXt o cum quadam ironia in ma- lam partem
dicitur, ut supra p. 183. A, a ei xiS toXpoSrj itotetv aXX oxiovy —
nXrjv tovto, za piyidxa xotpnoiz 9 av oveidrj. Eodem modo
d.7ZQXav£iv verbd Graeci utuntur, cfy* Piat, dc legg. p. 910. B.
xal itada ovtgdS f\ TtoXiS aitoXavxf xgdv adefi&v zpoitov riva
dixcdcof. opa ovv , <u $ai8pe t ei xi xal zotovzov
Xdyov 6iei 7tep\ "Epcox os . Stall- baumius per epexegesin
verba addita censet zdXifSif Xeyopeva dxoveiv , cuius structurae
per- multa exempla reperiuntur. Unum exemplum ut laudem, cfr.
Piat. Phaed. p. 103. A. cap. 51. xal ziS eh te xdov xaporxcov dxov
- 6aS — itpoS Secjv, ovx iv roiS XpodSev r\piv XoyoiS avxo to
ivavxlov xdbv vvvl Xeyouivcov copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS zo
pei2,ov yiyvedSai xal ix xov pdZovoS xo tXaxxov, xal axe- Xv&$
avxTj elvai j/ yivedi? rots ivavxioiS , ix xoov ivavxi&v; —
Ceterum male rerba dispo- sita sunt , quandoquidem comma non post
diei ponendum est, quo loco id posuerunt editores ad unum omnea,
sed post "EpGoroS. Sensus est: Vide agitur, o Phaedre, num
forte tibi etiam huiusmodi Erotis laudatione opua sit, ln e.
vera, non mendaciis cu- iusvis generis referta. ovopadi 81
xal Sidet firf/idxGov roiavtg. *Ovo- para et fi?jpaxa quo
signifi- catu poni soleant, supra dictum est annotat, p. 221.
Sententiam quod attiuet, duo suut, quae a Socrato in orationibus
couviva- rum vituperantur : sententiarum falsitas, verborum
enuntiationum- que nimius ornatus. Igitur seri' ptura non opus est
uqius codicis Vindob. , quae magnopere placuit Schaefero (ad Dionys.
de compos, verb. p. 28.), ovopadei 81 xal Sidet fcrjpdruv
toiav- XXf* In sequentibus ditola av tiS XVXV iiteXSovda additum
reperitnr in permultis iisque pptl- mae notae codicibus di parti-
cula, quae nullo modo ferri potest. Admissa ea sententia verborum existit haec
: Vere dicta pudire, nominibus autem et positu
enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque forte «eae obtu-
lerit loquentl. Fortuitum b. e. non exquisitum sententiarum verborumque
positam facile probes, verum positum quamquam cum veritate rei
conve- nientem interpretari possis, ta- men minus probabilem h, 1.
in- dices. Igitur di post ditola collocatum, quo efficitur, ut
zot- ctvxy ad praecedentia non ad sequentia verba referatur,
atque ut commemorata posituras veri- tate simplicitatis notio
adiunga- tur verborum atque dictionum,, ex ordine verborum
semovimus. Idem fecerunt Bekkerus, Stall- baumiua, alii. Ficinua
verba convertit: Vide itaque , Phaedre } Xi xal toiovtov Xbyov diti
'Egcotog, Talr^si] Xi- yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai
&i<Ssi gtjfiatav roiavry, inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv
QaidQov tcprj xai rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot
'oi- ro Sstv ilnsLV, rctvry. "En roivvv, tpavuv, a
<I>aldQe, xaQig fiot Aya&mva a/iwg’ arta Igia&ca, tva ,
«vo- C fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya. ’AU« TUiQiyi-u ,
tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza tavra brj rov 2axgdrg hv Lvd&vSe
xoftlv aglaGftca. utrum vobis 'placeat orationem fiuiusmodi
nunc audire , quae de Amore vera duntaxat enarret, verborum
nominumque , utcunque accidit, compositione procedens. Uri
roivvv, tpavai, <a $ai8pe, TtapeS pou Car ad Phaedrum
potissirauih et hoc loco et sapra Socratis eratio se convertat, si
quaeris, vide p. 197* D # iyco 8} rjSioos; pkv axovat ^SooxparovS
8ia\eyojitvov, dvay- ytaiov 8i poi ImipeXqSijvai rov iyxcopiov ro5
"Epcon xal amo * SeZadSai nap* bvoS txutixov vjigdv rov
Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v elmeiv, ravty. Commode
abesse posset ravtft, quae vox e praecedente on rg suppleri so- let
alias haud raro. Posita no- stro loco est, atque in fine qui- dem
totius enuntiati collocata, ut significantias Phaedri cetero-
rumque convivarum verba red-r de ren tu r, quae obliqua oratione
liunc exhibentor. Dixerunt au- tem illi: omjf avtoS olei 8tiv Xeyeiv,
ravry elnk. ovrcoS rj8 tj Xeyco. vide annotat, p. 195*
Schleiermacheras verba convertit: damit icli mit ihm eioverstanden a 1 s
d n n n welter rede. Recte } displicet ta* men vocula w ei ter, qua
rectius carueris. Nam X£yco t ut XoyoS in praecedentibus sexcenties
de Erotis laude, vide annot. p. 187., de laudatione incipienda
intelli- geudum est : Damit ich, wenn ich mit ihm mich verstandigt
habe, alsdaun den Eros au loben beginne* iv$£v$e Xo%kv. Vide
an- notat. p. 15. Stndiose id agit scriptor, ut lectores seraper
ad- moneantur, orationes convivarum non accurate neque verbo
tenus referri , quod quo consilio fece- rit, in Comment* de
Syrapos. Pla- tonis indicavimus. xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$-
TjyijtiatiSai rov Xoyov, li, e. disputationem exor- sus esse. Deest
, quod mea culpa potius factum puto , quam quod onmino nullum sit,
sed deest mihi exemplum verbi ita usur- pati cum genitivo. Non
desunt, ubi accusativus sequatur, velat Thcaet. p. 200. E. 6
xaSrjyov- ptvos rov notapSv. Riickert* Verba transitiva haud raro
ita adhiberi, ut non tam actio, quam verbi notio urgeatur ,
saepius annotavimus, v. c,p. 22. p» 59. Cap. XXL Kal
ftijv, e» (pile 'Aya&av , xalwg fios tdofcg xadyyrjtiaB&ai zov
Ivyov , Isyav, 3« xqwzov tt£v 6'tot ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6 “Encog
, vBzt- qov Ss tu k'pya avzov. zavzrjv zr;v uQX>i v naw aya-
[itu. Xfh ovv uoi tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla xa- lag xal
peyal07tQS7iu g 6iijl%sg olog ia ti , xal %6i$s D tizi' jcotSQov
iau zowvzog Hoias usa» ut unum tantummodo exemplum laudem,
legitur p, 178« C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/- yeuSSai navxoS x
ov filov xcdS ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai, quod idem valet, atque o
ydp XPV tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV elvca navxoS x ov
fiiov. Sic no- «tra verba posita sunt pro xa- Ao? fioi £doB,aS
xaSrjyijxtjs el- vat x ov Xoyov. oxt np doro v p\v S
eoi. cfr. Cic v de ofF. I. c, 2. $. 7* Placet igitur , quoniam
omnis dis- putatio de officio futura est y ante definire , quid sit
officium, quod a Panaetio praetermissum esse miror * Omnis enim y
quae a ratione suscipitur de aliqua re institutio , debet a
definitione proficisci , ut in !el ligatur quid sit id t de quo
disputetur * Ad hanc instituendae disputationi» legem Socrates
etiam in Menone respiciens p. 77* E. docet: ante dicendum esse,
quid sit id, quod virtus appelletur, quam possit, utrum doceri
queat necne virtus, diiudicari. tavtrjv trjv apxrjv na-
vv aya pax. y Aya<S$ai verbo utuntur, qui et AMARI et laudari a
se rem aliquam indicaturi aunt. olog eivcd nvog o Egag
cfr. Piat. Protag. p. 935. D.Vl rtal 1 IititoviHOVy ct ptkv Zycoyl
tiov trjv <pi\o6oq>iav ayajiai , axap xal vvv inaivdo xal
cpiXco x. t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut amem
laudemque, idem etiam nunc mihi contingit. Minus probem Stallbaumii
annotat, ed. p. 97. Haud cio, inquit, an alicui scribendum videatur
axap vvv xal btaivdr xal tpiXdo, quo clarius appareat ratio
oppositionis. Sed nihil mu- tandum, siquidem xal non cum vvv, sed
cum atdp arcte connectendum, ut significent voculae: quin etiam .
olof etvai ttvoS o "E- pcoS lp oo . Repentur hic ver-
borum ordo apud Bekkerum, Astinm, Stallboumium, qui Bod- leiani
codicis «t Vindobb. doo- rara auctoritatem seguti sunt. Eum
verborum ordinem Riicker- tus frustra impugnat, dicens, mi- nus
bene habere subiectum inter praedicatum et pendentem inde genitivum
insertum. Nam huius structurae artificium et apud Grae- cos et apud
Romanos acriptores aepennmero reperitur. Suspectum autem fit mutatione
sedfe $pa>S nomen j nam vulgo verba inverso ordine exhibentor
oloS 1 m f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl {v>itq6s rivos
% noxios iou yiloiov yap av th] xo igatrjua , tl "Epias bsxlv
1’gag scapos rj [irjtQos — «AA’ to $jctp &v tl cnko tovto xcatQa
jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w-
ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS, Uodecim codices ipcoS nomen prorsus
omittunt. Verbum omisimus nos, quia sive ante J *Epa)S po- natur,
sive eidem postpouatur, cum sequentibus nullo modo convenire videtur.
Etenim si scripsis- set Plato oloS elvai nvoS ipGoS 6 "EpcoS
s. rivos 6 *EpooS HpoaS, nemini auditori ac ue ipsi qui- dem
Socrati in mentem venire potuisset patris matrisve cogita- tio,
quae verbis sequentibus con- tinetur. Iam cum omisisset SpoaS
nomen, ambiguaque potestate posnisset "EpaoS nomen propriam, ne
interrogatio, ut potuit male intelligi, ita revera male intelli-
geretur, verba statim addidit: ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$ 7}
natpos idxtv, yeXoiov yap etrj to\ £ p oj r ?}/i a, Socrates
Erotis nomine ita posito in praeceden- tibus, nt non deum sed dei
vini iutelligi vellet, additoque vituperio eius, qui
interrogationem sio interpretaretur, ut de Erote deo, non de amore
sermonem esse censet, satis acerbe incu-r rium eorum vituperat, qui
dei nomine adhibito tum deum, tuut vira eius expressissent non
indicantes, utra potestate nomen proprium accipi voluerint» Ali-
ter Ruckertua de his verbis in- dicat, cuius verba haec sunt; Id
nihil, inquit, habet ridiculi, ro- gare, Amorne patrem vel matrem
habeat, id quod infra rogat ipse p. SOS, A, At ita rogare, ut
praedicatum ponas ZpcoS, ac deinde genitivi sensum velis esse
lionc, quem negat esse, id vero ridi- culum est. Ridiculum igitur hoc quoque,
si quis, quod recte in- terrogatum sit, ac ne male accipi possit, addito
praedicato ipooS praecautum, tamen ita accipiat aut accipere
simulet. Pertinet igitur hoc ad sophistarum captio- nes fraudesque
deridendas, ba- betque vim hand exiguam ad firmandum io praecedentibus
posi- tum IponS contra libros eos, qui id omittunt* ei
avto tovto itatkpet iJpojtGDV . Imperfectam cum el particula
coniuuctum in hu- jusmodi enuntiatione aliquid sumi fieri indicat,
quod revera nou fiat ; aoristus addita av particula actionem
exprimit, quae sine du- bitatione futura esset, si fieret illud,
quod fieri tantummodo sumitur. Paullo aliter Stallbaumius ad h. 1. :
Imperfectum , inquit, indicat id, quod nunc fieret, si
fieret: aoristus autem signifi- cat rem ita esse comparatam, ut e
vestigio possit perfici et ab- aolvi. Avto tovto icatipa mi- nus
recte Stallbaumius censet idem plane esse, atque natipct avto
tovto, oitep l6tw. Neque recte Schleiermacherus verba con- vertit:
Wie wenn ich nach ei nem Vater selbst fragte. Schulthes- sius eodem
fere modo: wie wenn ich grade vom Vater ftagte. Avto tovto sequente
uomine ar- ticulo tuo destituto significat, vog, ov; tfaes av
6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$ axoxQlvaO&at , , oti t&ziv
visos ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov
'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ ascevras; OfwkoysiOftut xai E
V verbum, quod in superioribus commemoratum sit, nunc
materiali- ter, ut verbo hoc utar, usurpari, «t conversio audiat :
Aber gleich- wie wenn ichdas Wort Ttaxrjp selbst aufnehmend fragen
woll- te cet. Plura exempla si quae- ris verborum materialiter
posito- rum, indicata reperies in Indicibus* tlitet av Stj
itov poi, el iftovXov* Ei ifiovXov po- situm est b. e. imperfectum
tem- pus fiovXe6$cn verbi, quod po- nitur velle Agathonem
respon- dere, sed revera non fieri, ut vo- luntas illa respondendi
se osten- dat proptserea, quod responderi nequit, ubi interrogatio
nulla proposita est. EhceS av rursus eodem modo positum est,
ut paullo supra, significatque, Aga- thonem haud dubie dicturum
esse, si interrogatus a Socrate respondere vellet* xai 7)
pptpp gdS avtGD$ . !i* e. Stallbaumius inquit, ovx- ovv xai nepl
pjjtpos ooSavtaS %X £L ? dubito, nam recte. Nam ut taceam articuli
ante prjxpoS ponendi omissionem, quo carere non possumus io
huiasmodi enun- tiat io ne, expletior oratio audit potius: ovxovv
xai r\ prjrrjp vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp. o poXoy
ai6$ai xai tov - ro* Haec tredecim Bekkeri co- dicum lectio est,
mups apud eun- dem opoAoysid&a habet, tinus &>poAoyai6$
rursum unus oi- yel<$$& poAoyeidSaz. Editores
excepto Riickerto, qui opoXoyetdSai de- dit, vulgatum opoXoyijdai
in ordinem verborum receperunt. Hiickertus ad h. 1* aut opoXo
- yEioScti scribendum esse censet aut 6fioXoyti6$G).
Posterius, inquit, propterea improbandum, quia addi debebat, si hoc
Piato dedisset , <pavai vel alius dicendi verbi infinitivus,
vpoAo- yetdSai autem non habet, quod offendat, modo passivum esse
teneas: concessum esse, immo commendationis aliquid ex eo. habet, quod
in sequentibus quo- que praesentis infinitivus opo- A oysfa- et
infra p* 20 1. A* «w- poXoyat imperfectum non aori- stus legitur, —
Dedimus opo- A oyau5%at codicum auctoritate moti, nou quod praesens
tempus magis nobis placeat, quam aoristicum tempus , neque magno-
pere curamus praesentis atque imperfecti usum in sequentibus, nam
et imperfecti et floristi infinitivus in huiasmodi
enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud conces-
# sum esse, quod haud scio, an cuiquam satis probaturus sit
Rii- ckertus, Alia de caussa in textu posuisse opoAoyatdSai libnit,
vi- delicet quia proxime ad PJatoaia manum accedere videtur,
atque viam aperit genuinam lectionem restituendi* Etenim scripsisse
Pla- tonem arbitramur opoXoyatv nat tovto , quae scriptura quam
fa- tovto. — "En rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca
oUym itltiu, Zvu fiaXXov xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si yuQ ipotftijv,
Ti 6i; ddsbtpbg avxb tovto oxsg %6nv, ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; —
Oavai slvai. — Ovxovv aStlyov ij ddsAtpijg; — ' OfioXoysiv. JTugdi Si/,
cpd- vai, xal xbv”Egaxct slnslv. o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog
SOO ij xivog ; — Tldw [isv o vv ’i<Sxiv. — Tovxo /ihv xolwv, slnslv
xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp fisg.v>]fitvog cile
potuerit xai, ut fit, incuria scribarum dupliciter posito in
opoXoyeTtiSai mutari, e verbo maiusculis litteris perscripto pa-
tebit, Scriptum nimirum olim exstabat : OMOAOrEINKAI-
KAITOTTOy ex quo factum est OMOA OrElCQAlKAI TO TTO, ei
yap ipoiprjv, ti 8e; d8e\<po $ avtu tovto oitep iZdtiv* Optativo
modo con- inucto cum ei particula iubetur boc loco Agatho sibi
cogitare ea, quae revera fiunt, tanquam si fieri possint. Utuntur
autem hoc dicendi genere ii, qui interro- gare aliquem aliquid
cupiunt, ne- que tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre
au- dent. Nostrates dicere solent: Denke dir einmal, ich
fruge, quibus verbis interrogationem ipsam annectunt. Hinc
vides, ipsa interrogatione posita facil- 4 lime abesse posse
supplementum, quo in huiusmodi dicendi genere opus esse interpretes
passim an- notare solent: ti av tpaitjS ; Ipsi autem
interrogationi, h. e, non suspensae ex aliis verbis, apprime convenit
interrogandi si- gnnm post ti de; Riickertus edi- dit ti dk
adeXtpoS duabus de caussis , quas nullius momenti eise existimo :
quod, postquam de matre dictum sit ovxovv ?/ pi\- trjp cjSavtGoS;'
ad ea commodius adiungi videatur interrogatio ti de a8e\(p6s ; quid
porro frater , quam ti de; d8e\g>oS , . . quid autem ? frater .
, « qua novi quid, non tertium exemplum proferri videatur, deinde,
quod ea distinctio esse videatur librorum omnium. Alterum nobis
argu- mentum, quo probemus ti 86; scripturam, hoc est, quod
adeA- (poS arcte cum insequentibus verbis coniungendumest; nam
adeA- <po$ avto tovto oTtep £($tiv no- bis est: Das Wort
a8t\(pu$ in seiner absolutesten Bedeutung. Hinc ne comma quidem
post adeXfpoS posuimus , quod in iis editionibus comparere videmus,
in quibus posito interrogandi signo, ti de; a sequentibus verbis
disiunctnm est. Restat, at de 8ad vocula dicamus, quae h. 1. et
apud Bekkerum et apud Stallbaumium in di particulae locum
substituta est. Aai non ponitur, nisi ubi maior animi commotio
indicanda est, ut ad- miratio, indignatio, ira ; vide an- notat p.
191* Merito igitur mi- reris, duumviros criticos eandem retinuisse
in tam quieto disputandi genere, quale hoc loco est manifestissimum,
codex Bod- leianus exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice,
itoregov 6 v Eg uq ixelvov, ov $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; —
Tlavv yt, (pavae. Tlvtegov iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc
bu&vfiEL re xal iga, rj ovx lycov; — Ovx iyav, cos- to elx og ye,
tpavai. — Uxoitet S>), ebttlv tov Zaxgar>] t avrl tov elxvrog, el
dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv ha- &v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj
eici^vuilv , iav iu ) iv~ deis r]. ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi,
co Idya&av, B pauci ; non dubitavimus igitur iu ordinem
rerborum id recipere* Idem Riickertus fecit. c pvXagov itotpd
davrc 5 fi£ pvrjpiv oS otov. Ilaec verba hodierni editores
plane non distinguunt interpunctione, iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns
sic : <pv\a5,ov itapd 0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov *c.
itiriv. Sed in hac interpre- tatione displicet nimis magno
intervallo a tovto pronomine, quocum cohaeret, divulsum otov eo
magis , quod , si a /iSfivTjfie- ro$ seiungendum est, sic nude ac
sine ulla vicina voce, quacum coniungatur, vix ullus bonus scriptor
collocaverit* Addidisset Plato, si ita verba accepisset, idriv.
Accedit, quod tovto h. 1. vix ad sequens aliquid, immo ad
praecedentem concessionem, Amorem alicuius umorem esse, referendum
est. Quibus de caus- sis veterem distinctionem verbo- rum, qua ante
/.leyvipUvof com- ma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr
apud ani- mum serva ( sc. alicuius esse,) atque cuius sit, memento.
Hanc Riickerti ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut mclins
possent, qui hoc libello ntuntur, de ca iudicaro. Mihi non
persuasit V. D. Optime Platonis verba convertit summus
Schleiermacherus : Dieses nun, habe Socrates gesagt, lialte
nocli bei dir fest in Gedauken, wovou sie (er) Liebe ist.
iit l$V fXEl OtVTOV. Dc pronomine repetito vide annotat* p.
198* oJs ro' elxoS y £ * Agatho finem Socraticae
institutionis at- que stragem futnram rerum sua- rum odoratus, nt
haberet, quo posset rebus perditis salvus elu-» bi, quae non
poterant non concedi, e verisimilitudine dnntaxat concedenda censuit*
Hinc ojS ro sixoS ys satis astute addit. Sequentibus docemur, quam
male ei haec res cesserit. Nam aVrl tov eIhotoS , Socrates
inquit, videamus, eI avdyxrj ovtcjS x. r. A. Ceterum verba dvx\ T
ov sixoToS brevius quidem dicta sunt, neque tamen obscurius.
Sensus est: 2xoJt£i Si) — av tI tov A iyeiv d>5 ro elxof
ys , eI avdyxij ovtco S*. Conver- tenda verba sunt accentu
orationis in dxoitet verbo posito: Un- tersuche nun lieber,
anstatt dass du sagst, «wie es den An- •chein hat,® ob
nothwendiger \Vei&c es sich so verhiilt* S av/Ltadrdjs
6oxei , cJ 'AyaZtov, wS dvdyxrj tl* «6g dvdyxt] tlvca. <Jol
dt noog; Kdftol , cpavai, doxel. — Kcd ag Xiysig. ciq’ ovv (iovXoit’ av
tig fieyag av fityccg tlvca , ij 1<>%vq6s av la%VQog ; 'ASvvmov
Ix ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov ivdtijg av th) xovtav o yt av.
— 'Alrj&tj Xiyug. — EI yaQ xal lG%VQog av PovXolto IcJyvQo g tlvca,
cpavai t ov ZkoxQuzij, xal xa%vg av za%vg, xal vyirjg av vyujs — ,
S yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu xocavta v Oii,
Non sine ironia quadem, et quo gravius se opponeret Aga- thoni in
re apertissima gqS to eI- xoS ys dicenti^ Socrates verbis uti- tor
SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj x. X. A. Ceterum Stallbaumius ad h.
I, Ne quis, inquit, mire- tur, tanto intervallo ab juaoTcoS
remotam, alia huius ge* neris exempla notavimus Piat. Phned, p. 95.
A. Bastius Spec. Crit. p. 139. $av/iadT<oSi ooS verborum
seiunctione a$eo offensus est, ut de loci veritate dubitaret. Diximus de
coS cum aliquo adverbio coniuncti stru- ctura apnotat, p. 12.,
cuius stru- cturae originem qui reputaverit apud se, is mirabitur
magis ad- verbii cum ai? artissimam con- junctionem, quae epud
Platonem veteresque scriptores Graecos sae- pissime reperitur. Unum
exem- plum ut laudem coS ab adverbio suo disiuncti, legitur in
Piat. Theaet. p, 157. D. Savpad Tt£( (paiyexai cos fynr Xdyov
. ix r&r oa poXoyrj /livar. Respicit Agatho ad verba ro
iiti - Svpovv iitiSvpelv , 'ov IvdsiS idriVy ij fi?) iittSvyeiv,
iav p?) ivdelf y. Patet igitur, prae- senti tempori
dpoXoyovpivoov hio non locum esse, quod vulgo edebatur. eI yap xal idxvpos < 3 * fi ov \oit
o . Socrates ad eum iinem tendit, ut Erotem omni ornatu privet, quo
eum, qui ante se locuti essent, donaverint. Et cum iu superioribus
esset judica- tum, Amorem alicuius rei appe- titum esse, cardinem
rei nunc in eo versari vides, ut, neminem id appetere posse, quod
possideat, atque vice versa non possidere, si quis, appetat, quod
appetat, probetur. In qua re ne sophi- stico quodam artificio
circumve- niretur, Agathoque ad indoctio- rum hominum sermonem
confu- geret, qui cum alia male, tum et- iam hoc sibi indulgeant,
ut di- cant iycj vyiaLvoav fiovXopai xal vyiaivEiv, ipsum hoc
dicendi genus Socrates nunc adit , atque quid sibi velit, exponit.
Singula verba quod attinet, anuotftt Rii- ckertus ad h, 1.
rectissime: Pro- tasin ponit auctor, cui deinde parenthesin
subiungit, qua ra- tionem reddat eorum, quae in protasi dicta sunt,
atque cur liceat ea ponere, ostendat. In qua quum plura fuissent
dicen- da, ita ut etiam periodi com- plures existerent, non
potuit simpliciter reddere protasi apo- dosin, sed novam instituit:
aAA* Ztav tiS Xiyy } quam deinde se- quitur apodosis, qua quid tali
ho- zovs ovras ta tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C ancg $x
ov(Sl > tTCL&v^iuv. iv’ ovv (irj e^axart]d‘d- (uv, rovrov
tvtxa Xtya. rovtovq yccQ, w 'Ayaftav, d Ivvodg , £%Uv fiiv exaOrov rovrmv
Iv rai naqovri, avctyxrj , a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17,
xai rovrov ye 6 rj tcov rts av haftvfirjaetsv ; aXX’ orav ng Xiyy,
ori ’Eya vyiuLvcov fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov- tav fio
vXofiai xai xXo vreiv, mini respondendam sit , demonstratur. Est
autem inter utramque protasin hoc discrimen, ut» in priore ponatnr
aliquis hoc dicere simpliciter atque sic, ut plane non quaeratur, fiatue
id rerera aut fieri possit, necne, in posteriore autem, postquam
demonstratum est, fieri posse, res pro certa' et vere eveniente
perhibeatur. rovrovS yap, 0 0 'Aya- $gjv, ei kvvoeiS. Haec
est vulgata lectio, quam praeter Riickertum omnes editores
improbarunt. Pauci sed ii optimae notae codices rovtoiS exhibent»
Utrumque ferri potest atque com- modissime explicap , sed magis
placet accnsativus casus, ei iv- YOErS Ruckertus cum nostratium formula
comparat: verstehst du wohl? quae formula cum Graeca nihil commune
habet, quam verbi finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est: si
sapis, wenn du verstandig sein willst. .xa\ rovrov y e dij
itov r is av litiSv p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus
legitnr, neque quicquam verbis inest, quo offendaris. Sed quaeritur,
an non facillima accentus mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6
r} nov us av ixi&vjLt?j(Seiev , quo xai eni9v[ia avriav
rovrov, Scriptura orationis accentus in ijttSvpijtieiev
ponitur, significan- tiusque indicatur, ne cogitari quidem posse,
ut aliquis, quod possideat, id possidere cupiat. Ce- terum
Stallbaumius annotat ad hunc locum : Refertur rovrov ad praegressum
exadrov rovrajv, a ix.ov6tVy ita ut iu universam in- tclligendum
sit o Rectius, opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania
eorum, qui et habent atque illud ipsum habere concupiscunt»
iytA vyiaiveiv (iov\o- pai jcal vyiaiveiv. Vulgo Tccci deest
ante vyiaiveiv et ante irXovreiv. Idem Ficinus in conversione non
agnoscit: At ego, sanus dum sum , volo equidem sanus esse , et dives
dum sum, esse dives. In ordinem verborum voculam recepit
Stall- baumius Bodleiani codicis aliorumque non paucorum librorum
auctoritate motus. Frustra Rii- ckertus ad h, 1. : Profecto dubi-
tare, inquit, aliquis possit, an Platonis manus xai particulam
addiderit. Kat enim ut aliquem sensum hoc loco habeat, addendi vim
habere Oportet. Iam quod additur, non potest esse to vyiaiveiv et
ro likovreiv , quis enim ferat dictum; Ego qui sa- a i%a , £xoijisv
av avta, ori Zv> to avdpmxe , n).ov- D tov xtxTTjtuvos 'Ma vytuuv xcd
l(S%vv (iovXu xal ilg rov ibici ra %qovov rubra xexrij<f&cu ' insl
Iv roJ ys VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB flT], fjJStg. (SXOXEl OVV,
OTUV tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito rixiv naQovrcov, ei ccXXo
n Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru y.cd tig tov Zituzu
xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vp- tpavai ¥qnj rbv
Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt], nos sum, copio etiam sanus
esse? Immo hoc licet: Ego qui «ura sanus, etiam cupio ut sim.
Quod igitur additur, To (iovAt6$ai est. Iam quaeritur, liceatne
sic post illam vocem , cui additur, xai particulam collocare, — Ad-
dita xai particula optime habet hoc loco, quo id agitur, ut error eorum
clarius appareat, qui hu- iusmodi dictione utantur. aWo ri
o/ioAoyol av; o ti cum vi hoc loco ponitur, cum in praecedentibus
iam eo usus sit scriptor Cxotcei ovv — ei «AAo ti XfyetS rj
tovto. Non raro autem Graeci r/ cum suis verbis omiserunt in
interrogationibus brevitatis studiosi atque nolentes, quae facile
ab auditore suppleri possent, eadem disertis verbis
commemorare. Sic nostro loco expletior oratio uudiret: «rAAo ti ?}
tovto d/*o- A oyoi av ; Factum deinde est usu loquendi, ut etiam in
eiusmodi interrogationibus aAAo ti ponerent Graeci, in quibus nihil
cogitari potest, quod cum ?] sup- plendo suppleretur* *w4AAo ti
igitur, recte annotante Matthiaeo Gramm. ampl. 487. 9. p. 914,
interrogativae particulae vices obtinuit, ut cum vi ex* pvimeretur,
rem nou aliter se habere, atque in interrogatione expressa
sit. cfr. Piat. Hipparch. p. 226. E* <rAAo ti ovv oiyi
<piXoxep8iiS <pi\ov6i to xipdoS; Piat. Charmid. p, 167. B.
aAAo ti ovv s tavta Tavra av elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide
prae- terea Hensdium Specim. Crit. in Piat. p. 59«, Stallbaumium ad
Eu- thyphr, p. 104, Paullo infra p. 200. E. aAAo ti S&etv 6
"Epcof Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV - tgdv,
G)v av iv8nct rtapij avtw ; ovxovv tovto y * &6x\v
ixeivov ipav. Vulgo post ovxovv 6 1 / particula additur, quae cum iu
plerisque codicibus non reperiatur, e textu semota est a EeLkero,
Astio, Stallbaumio. Btickertus, ne parum verecundus videretur
librorum auctoritatis, uncis 8 7f includendum curavit, quod nisi
codicum auctoritas ob- staret, in ordinem verborum re- cepturus
fuisset, u o viteo itoijiov avTtjj i6tiv ov8h Sanissi-
mam horum verborum distinctio- nem deleto post Zxett posito
poat &6tiv commate Kiickertus corru- pit. Negat autem V. D. ,
to iis tov hteita xpovov — tu vvv Ttapovra esse posse tovto
pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov non Ovxovv tovto
y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov avrei Itiriv ovde S%u y ro elg rov
Situra %gbvov ravra tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv itagovra; — Tlaw ye,
cpa- E vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6 hu&v[uov rov pr]
iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog , xcd o /u?) Syei xal o [it]
Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz arra iti tlv cov 7] hnftvpta
rs xal 6 Sgcog Itiri. — Tlaw y , elituv. *Iftt di]\ tpavat rov 2koxgazr]
y dvopoAoyrjtia- respondeat, tat elvai, sed r» fiov \s 6$ a i elvai
ravra av- rc o 6co%6fUva. Fugit autem Rii- ckertum e verbis
praecedentibus fiovXopai ra vvv itapovra xal cis rov Mneita xpovov
xapcivai nostri loci verba petita esse ita, ut, quoniam proxime
praecedat fiovXopat verbum, id ipsum e praecedentibus facillime
supplendum omitteretur. Conversio verborum haec est: Also bedeutet dies
eben, namlich ( vide annot. p. 59.) (dass auch fiir die Zu- kunft
der gegenwartige Besitz crhaltcn werde, das bcgehren, vas cincm
nicht zu Gebote steht und er nicht liat. Ceterum ut apud nostrates,
ita apud Graecos pronomen relativum et subiectum est et oblectum
enuntiatiouis, cuius rei inde petitur excusatio, quod sive
accusativum sive nominativum posueris , forma pronominis eadem manet.
xal ovtoS dpa xal aA- X.oS it a S o* i 7Ci$ v /x at v rov p
t} kzoipov IkiSv pcl x. T. A. Ne loquacitatis Socratem nccoses, qui
commemoratis rov pr) kzoipov verbis insequentes definitiones
reticere debuisset: hoc agit vir providentissimus, ut ancoras
penitus praecideret, quibus peritura Agathonis navis teneri atque servari
possit., Sy, (parat tor Sco* xparrf. Utitur nunc Socrates ad
refutandam Agathonis senten- tiam hac argumentatione: Quae cupimus,
inquit, ea nondum pos- sidemus. Amorem autem cum dixeris
pulcritudinis cupiditate teneri, necesse est, eam ille non habeat.
Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum at- que bonum idem sit,
caret Amor etiam bono. Stallb» av opoXoyijdoops^a ra
clprj pev a h. e. repetamus, quae hucusque dicta sunt ita, ut eodem
modo, at- que hoc factum est paullo supra, de iis inter nos
conveniat. Haud raro Graeci scriptores brevitatis studio verba ita
commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel adiectivo
coniungendo verbum ponant eiusdem atque adverbium radicis. Sic
paullo infra 202. A. legitur prj roivvv avdytca^e, o pi) xaXov
idtiv, alCxpdv £t- vai x. r. A., ad quem locum vide annotat.
dXXo n l6nv 6 *EpfoS. De trAAo ri significata atque de jj
particula omissa vide annotat, p. 238. iit e ira rovratr* His
ver- bis accuratior continetur defini- fu &a ru dQtjjikia.
iikko n ItStiv 6 'Epos xqotov (ihv SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia
rtaQy avta; — Neu, tpavui. — ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav
tcpyO&a iv tiS koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge
avuiivijGa. oinai yaQ <Se ovrwaL itag dntZv, ou roig &eolg
xatsGxBvuG&r] ra XQuyfiata Si "EQana xakdv’ mlo%Qav yotQ ovx Biy
'Epcog • ov% ovtaxsi mog Hkeytsf — Ehtov yuQ , cpavai rov 'AyaQavcu Kut limixdg ys kiysig, d izaiQB ,
qtuvai tbv ZaxQazr]. xal tl tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av
tiij tio eornm, qnorom Amor amor i, desiderium est. Sensos est :
Erst- lich ist Eros Liebe eu etwas (vi- de p. 200. A.) uud das ist
zwei- tens das, vroran es ihm gebricht. Ceteram ne mireris, cum ia
supe- rioribus Socrates simplici verbo semper usos esset idtiv in
eius- dem sententiae efformatjone, cur nunc compositum 7tapy
exhi- beat: itapeivai hoc loco non attributum describit, sed
aliquam Erotis conditionem internam, sine qua ille ne cogitari
quidem pos- sit: ein Mangel, der ei ne fiedin- gung ist seines
Wesens, ei dfc povXei* Duplici modo consilii mutatio apud Pla-
tonem indicatur, aut enim pix A- Aok di ponitur, de quo supra dixi-
mus annotat, p* 15., aut ei Sl fiovXei. Multum interest autem,
utrum hac an illa dicendi forma utaris» MixXXov 6i poni solet, abi
res e loquentis iudicio apta est, qui vel ipse se corrigit, vel
alium, nt se corrigat aut aliquid mutet, adhortatur. El dfc fiov-
Au autem non nisi ita usurpa- tum reperies, nt loquens suum
iudicium ab re prorsus secludat, omnem alius voluntati liberrimae
subiiciat» Sic nostro loco Socra- tes, quicquid Agathoni
placuerit» id se facturum profitetur. Con- tra p. 173* r\6av roivvv
rota - de* paXXov di apxtjS vfiiv — itEipa.6op.ai
StTfyTjdad^at. Apollodorus mutato consilic re- ctius se acturum
censet, si ab initio rem narrare studeat. aidxp^y y&P ovx
elrj v EpajS, Dixerat Agatho p, 197- B. oSev 6t) xal
xaredxevddSrf tgov $egjv x a 7tpdyjiata ”EpGQ~ roS lyyevofikvov
6rjA.ov ori xaAXovS. aldXEt yap ovx ht- edriv "EpcoS. Haec
Socrates cum minus accurate repeteret, verba addidit ovteodi TtcoS,
Ceterum scriptum exspectaveris: aldxp&v yap ovx eivai
"Epcora* Opta- tivo posito scriptor aliquid in- dicare
voluisse videtur, quod ad^ missa accusativi cum infinitivo coni
aucti struetnxa prorsus pe- riret atque evanesceret. Hac nimirum
structura verborum ni- hil indicat scriptor, quam sen- tentiam
eins, qui priori tempore locutus sit, nunc referri* Opta- tivo
contra, qui praecedenti ac- cusativo cum iufinitivo conjun- cto
annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg d’ ov; — 'Slf/Myti. — Ovxovv
ofiolu- yijTca, ov tvdcijs t<5u xal Ifca , rovtov Iguv; — Nal ,
ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6 'Egcog B xaXXog. — ’Avdyxr},
epuvui. — Ti 8 b; to tvStlg xdX- kov e xal (iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog
aget XiyEig 6v xaXov tlvai ;Ov Sijra. — "Eu ovv onoXoyd g
"Ega- tcc xaXov Eivca, d reditu ovrag — Kal rbv ’Aya- &ava
dittZv, KevSvvevco, to ZXbxQareg, ovdhv sidi - T t r ~T7~ \ s . . T
f T vai ov tore euzov. n.ca prjy ’Ayuftov. alXa
tiptxQov lius referri significat , ant si haec non repetantur
revera, tan- quam talia , qualibus ille usus esset, referri. Ubi
autem ipsa verba laudantur, aut tanquam ipsa, consentaneum esse
videtnr eum, qui ita loquatur, illis verbis ma- lus, quam aliis,
pondus tribuere* Jam si reputamus, Socratem id agere, ut
ostendatur, Erotem pol- cro bonoque prorsus carere, eam potissimum
Agathonis sententiam ab eo tangi consentaneum est, qnae huic
consilio maxime offi- ceret: aldxp &Y Y<*P ovx ^7t£6riv M
EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine, dass du ohngefahr
folgender JMaassen sprachst : dass die An- gelegenheiten der Gotter
dnrch den Eros znm Schonen vollkom- xnen in Ordnung gebracht
wor- den waren, denn des Ilass- lichen wiire kein Eros. Eadem
prorsus verborum stru- ctura apud Xenophontem repen- tur Hell. III.
2, 23. dxoxpiva- fjiivcov 6e tc3 v * HMdajy, ori ov 7tovj<Seiar
xotvra • iittXrjtS aS y a. p i xoi&v r a S tiqXeiS* <ppovpav
iqnjvav ol upopoi. Dixerunt autem, ut videtur, Eli- denses:
imXrjidaS yap Uxopev yt umg, <puvcu, o thd • rayccfta ov
udi C x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*. 5. 36. o 6e itXndroS ijv
XoyoT, cJ? xara xovS upxovS fiorjSriv dioi. ov ydp ddixj/tidvTGyv
6(pd>y ijttdparevotey ol 'Apxadss xal ol ptr * avrcjy xoiS
AaxeSaipo- yiotS • Praeter hos Jocos alios nonnullos Riickertns
laudavit an- motat. ad h. 1., quam vide. ov ivSeijs idri xal
pi) Non opus est, ut ac- cusativum pronominis relativi re-
petas e praegresso ov genitivo; verba enim xal p?j ixei posita sunt
usu Graecorum liaud infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?} IjttV autem
absolute positum est, atque nihil nisi meram verbi ZxttY notionem
negat* xal prjy xaXco $ ye el- 7teS. Annotat Riickertus ad
b. ]*: Et tamen pulcre quidem di- xisti. Laudaverant omnes
con- vivae Agathouem, ut qui pulcre et praeclare dixisset, nec
mino- rem, ut videtur, ipse de se ha- buerat opinionem. Quare
quum postremo eo sit deductus, ut ni- hil se scire confiteatur
eorum, quae tum dixerit, haec subiicit Socrates; quibus quanta sit-
iro- nia, qua et ipsius Ag?thooi« fa- 16 f y.uMi
Soy.EL aoi ilvai; — 'E/ioiyt. — EI ccqci 6 "Eq ® g rcSv xaJhov
IvdsrjS ^OTl, tu di ayn&cc xaXu , xav tuv riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd,
(pctvca, oJ EdxQOlig , 6oi ova av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra,
dg Gv tiyug. Ov fiiv ovv ty dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs ’Ayaft av
, dvvaGat. civuliyHV Inii Ecoxqutu yc ou- div %ttkiit6v.
stus et amlitornm vani opplan- sos perstringantur , etsi nemo non
debet sentire , tamen locum plane non intellectum video a Schleiermacliero,
qui verterit : Gur recht m a g s t du daran wohlhaben. Tmrao
vertendam : Und da hast ia doch tchoo ge- sprochen. — Socrates
acerrimus haud raro eorum cavillator, qui fasta maguiloquentiaque
vanita- tem suam obtegere studebant, mitem iis statim sesc
ostendere solebat, qui errores suos confiterentur. Quod cum praeter
exspectationem subito fecisset Aga- tho, homo alioqnin pollens
inge- nio, xai fxt}v xa\wS ye elzeS verba Socrates ita
exhibuisse consentaneam est, ut id remissa omni ironia atque
cavillatione fecerit» Rectissime igitur Scblei- ermacherus verba
cepit, ad quem Riickertus recurret, quando desierit nat fitjv et tamen
interpretari. Vide annotat, p. 6» rdya$d ov xat x aXd x. r. A.
Habes syllogismum per inversionem , quo qui utantur, id agunt, ut
alterum membrum enuntiationis , quod priori loco positum atque in
conclusione re- petitum est, prae ceteris verbis extollatur vique
augeatur. Ilem quod attinet, concessa pulcri bo- nique aequalitate
Agatho gravissimam stragem suae orationi ipse intulit, eiTecitqne,
ut ne bonus quidem Eros esse diceretur. Xam mireris vel inertiam
Agathouis, qui noluerit, quod argumentis non confirmatum sit, id
itnpuguare, vel Socratis negligentiam, qua non argumentis probarit,
quod ab Agathone impugnari posset facillime: bonum idem esse atque
pulcrum» Sed monendum est, Graecos boni pulcrique notionem ita animo
conceptam habuisse, ut alteram ab altero seiuuetum non cogitarent. Quod pulcrum,
iisdem et bonum fuit, neque bonum iudicatum est ab iis, quod nou et
pulcritudine gauderet; Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte Agatho
negaret, bonum idem esse atque puierum, adeoque argumentis sententiam
confirmare supersedere poterat, ut si addidisset, nimia sedulitate
id factum auditores existimaturi fuissent. i y co — do i
ovy< dv 8 v • vaiyLi}v dvxiXkyziv, U- trumque et non pulcrum et
non bonum Erotem esse, Agatho con- cessit sed diverso modo.
Non pulcrum, sincere et candide, non bonum, adhibitis sophistarum
ar- tificiis, ut non rem ita esse con- cederet, sed suam disputandi
im- becillitatem confiteretur. Igitur accentus orationis in vocalis
€yoo et doi ponendus est, quns *cri~ Cap. XXII. I
Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA D tov
"Eqcjtos , ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zho- tlfiag , ?}
tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al ’J%qvaloig note
dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj ptor, quo validius prae
ceteris verbis eminerent, ipso enuotiati initio collocavit» Sensus
est: Mea imbecillitate, non falsitate sententiae meae factum
est, ut ego a te, homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum
conversio haec est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi)
(etiamsi vellero,) contradicere non possem, sed (vincerer, st
contradicerem, igitur) res se habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar
bwaipjjV sup- plendam est, ut in conversione indicavimus, ei xal
fiovXoifitjri soletque haud raro in enuntiatis conditionalibus
alterum enuntiati membrum omitti; exemplum hu- ius omissionis si
quaeris, vide annotat, p, 201. Pro aXXa par- ticula aliam
exspectaveris , quae non oppositioni, sed conclusioni indicandae
inserviat. Ni fallor, brevitate quadam dicendi Aga- tho usus edt ,
quam commotiori eius animo apprime convenire arbitror. In loci
conversione indicavimus, quomodo verba expleri possint atque a\Xa
praepositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$ eip h. e.,
Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non potes disputare:
nam con tra Socratem tibi facile est.
Ov f.ibr ovv voculis Socrates ita utitur, ut indicet, recte
quidem Agathonem negasse, sed non in re negationem adhi- buisse,
quae revera necanda esset. Exprimunt igitur ov fikv ovv voculae
lenem correctionem h. e. rectiorem interpretationem prae- gressae
sententiae, quae aliquid veri contineat, sed cum veritate non
prorsus conveniat. Das heisst also, lieberAga- tho, du Jcannst der
Wahrheit nichtentgegen spre- chen, deun dera Socrates ist es keine
Schwierig- keit* xai p£vyei/8y£d~ ($<o. Respicit
Socrates ad p. 199. B. Uri xoivvv — n apeS fioi ’Aya$&iva
dpi?cp * artet £p£~ 6$ai X. r. A. > ut verba nostra significent:
Ac te quidem, quem pauca quaedam in- terroga rp me velle
supra indicavi, nunc mittam. ,o rror* rjxovdaywai- xo S
MctvtivixijS. Vulgo pav- ttxr/S legitur; illud pauci sed op- timae
nolae codices commendant. Vulgatae scripturae originem solertissime
indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit, Diotima Mavtixi } ut infra
p. 211. D., quum proprie deberet Mavtivif * 16 *
avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj drj xcd Ifie r a tga- t <x«
Ididafcev , — ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov , nugaOo- aude factum est
opinor, ut grammatici scriberent / lavxixijS. At enim solent nomina
possessiva liaud raro occupare locum nominum gentilium, de quo
loquendi genere vide Davis* ad Max. Tyr. \ p, 588* et Fischerum ad
Welle- ri Gramm. T* III. P. I. p. 299* — Non recte autem addit
V. D. : Neque eatis ad rem accom- modatum est , quod vu/go lege
- batur , f.tctvziH7}. Quae enim Vio - tirna de amore disputasse
nar- ratur , ea non vaticinandi arti debuit y sed ingenii sui
praestantiae ac virtutis. Eodem enim iure cogitare possis pavxiKt)
positum eaee, quo scriptum legitur paulio infra dvaftoXrjv inolyde
tijS vodov, neque necessariam est, ut, cum dicatur orationis auctor
fuisse mulier fatidica, va- ticinandi arte orationem compo- sitam
censeas. Porro mulieri eique peregrinae datam esse ora- tionem
hanc, ut convivae ridean- tur, qui, quum divinioris amoris vim et
naturam plane non ca- perent, tamen in dei laudibus celebrandis
mirifice cxsultareut, Stallbaumio non credimus. Quem enim pudeat a
femina melio- ra doceri , cuius sapientia prae- claro facinore, h.
e. dvaftoXy TtjS vodov probata sit, et quam ipsius Socratis,
sapieutissimi ho- minis, magistram fuisse, huius lo- ci verba
testantur. Num Periclem autipsum Socratem puduit Aspasiae Milesiae
praeceptis edoceri ? Ad- dit Stallbaumius: Cur Diotimae potissimum
has parte* Plato tri- buerit, neque Aspasiae aut alii chidam nobili
feminae illius aetatis , id quidem exquiri nullo modo potest propterea ,
qnod a scriptoribus aequalibus aut snp- paris aetatis de ea nihil
memoriae traditum est. Quae autem seriores scriptores de eadem nar-
rant, ea maximam partem ex hoc ipso loco hausta, aut temere con-
ficta-esse , exploratum habemos. Quae quum ita sint, hoc uuum
tenendum putamus, quod , ex hac oratione discimus , fuisse eam
mulierem prudentia et vaticinandi arte nobilem, quae quum diutias
Athenis esset aliquando commorata, magnam nacta esset sapientiae famam. Diximus
de Diotima Mantineensi in Comment. de Symp. Platonis, ubi,
curStall- baumii iudicio non adstipulemur, indicatum
reperies. xal 'AStjv aioiS 7torh $vdap£voiS repo rov X.o
t- r pL o v . Pestis Atticam terram invasit Peloponnesiaci belli
anno secundo h. e. a» 450. Impetum in eandem fecisse etiam a,
440» ex hoc loco colligi possit; cfr» Thucydidis L» II. c. 47*
p* 214. ed. Haaek. xod ovtoov av- tcjv (sc. tcov Aaxedcujuovlcor)
ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy *Axxttc\} ij vodoS Ttpcoxov ypBfCtxo
yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xe- y o/t ev ov xa\ icpotE- pov it
oWaxo 6'E iyxotra.- d x f/il* a i xal 7tspl Aijpvov nai iv dXXoiS —
Pro $v- dajiivoiS H. Stephanus scriben- dum coniecit Svdapevy
, videli- cet ut esset, quo explicetur ra- tio et modus xrjS
avaftoArjS. Frustra, Suspicari licet , quo l wa vpXv dtfXfttlv l x
tav dfioKoyrjfihov Ifioi xctl 'Ayaftcovt , avtog l%* ificcvtov, oncog av
dvvofiat. d'ec modo retere* pestem abigi potaisse crediderint, mutare
verba eo minus licet, quo certius est, .Platonem ipsum xijs
avafioArjS modum indicare noluisse. ov ovv ixeivrj £\eyev
. Redorditur abruptum sermonis filnm ita, ut, quae
illustrationis caussa addidit , ca nunc paucis comprehendat illata
particula ovv. Nam omitti poterant haec: ov ovv ixeivjf £A eye
Aoyov. Sta11b. avxoS ix * ijiavx ov. Vul- go legitur avxoS
an* ipavxov ; illud Bastii coniectura est, quam praeter Riickertum
editores omnes iu textum receperunt. Riicker- tus autem avxoS an* ipavxov
ita explicat, ut nolle Socratem contendat reliqua ex alio elicero
per colloquium, sed quae audie- rit, ex se ipso proferre ano
jAVTjfiTjS. Sed aligd est an* ip- avxov, aliod avroS an* ipav- rov
t atque illis verbis concedi- mus sensum, quemRuckertus ait, inesse
posse, verbis contra avxoS <x7t* ipavxov nihil aliud expri-
mitur, atque mea sponte, AvtoS in* ipavxov legitur io Piat. Alcib.
I. p 114. A. el p\v fiovAei, ipoox&v pe, Ssnep iyco 6 e , ei 61
xal avxoS ini 6av- tov , \6ycj 8ie&e A£e, quo loco ex oppositis
colligitur, avxoS ini (jctvxov esse: disputatione remissa, continua
ora- tione aliquid proferre. Probatur haec verborum signifi-
catio etiam Piat, Soph, p. 217. C. itoxepov elcoSaS fjSiov av- roS
ini davxov paxpti A oytp dteSttvai Aeyajv topro , o av
iv8ei%a6$al xcp ftovAjjSpS , rj 6t* ipcjx?f(jeaov , x. r. A. Igitur
hoc loco cum ceteris editoribus avxoS in* ipavxov in ordinem
verborum posuimus. Schleier- maeberns verba convertit: vou dem
ausgehend, woriiber ich mit Agathon iiberein gekommen bin, sonst
aber ganz fiir mich al- lein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias:
N&chdem ich mit Agathon iibereingekommen bin, werde ich
versnchen, Diotimas Rede in einer zusamraenhangeu- den Darstellung
euch iviederzu- geben. Verba autem ona>S av Svvcduai excusantis
sunt oratio- nem minus elegantem atque in- cultiorem; quae verba,
quoniam Socratis dictio bona est et recta, in eorum orationes
convehun- tur, qnae nimia cura elaboratae sunt atque inutili ornatu
conde- coratae. &snep dv dirjyrjd co . cfr. p. 195.
A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa xal ijpds dixaiov inaivedai npdoxov
avxov , olds idxiv, inni- xa xaS doOeiS. Eiepa xotavta
iAeyov. n ExepoS vocis significatio prima- ria est: alter: respicit
igitur ad alterum, qui alteri vel simi- lis est vel dissimilis.
Hinc iit, nt ixepoS diversum denotet, cuius notionis exemplum
est Sp mp. p. 186. B. Zxepov xe xal pcvopoiov i6xiv . Nostro
contra loco, ubi similitudinem inter al- teram et alterum exstare
com- paratio instituta docuit, ixepoS verbum fere idem
siguificat. Recte Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av,
agntg Gv 8iryyi)&» , 8uX%t tv ainbv jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo
g xal nolo g ng, Inura xa igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca
ditX- Sftlv , as xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv yag
xi xal lya ngog avrfjv triga toutvta D.tyov, olccntg vvv ngos (fit
’Ayd9av, as &>1 w *Egas ptyas &toS, ili) 8t zav
xaXav. koyoig, olgntg iya rovtov, vertit : itidem talia. cfV.
Gorg. 482. A, vo/iige toiwv xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa
rotavta dxoveiv % Adde Pro- tag. 3^6. A. Interdum compa- ratione
admissa nnlla exepoS no- vae rei accessionem denotat , at in Alcib,
II. p, 138. C. tcepot rtpoS xoiS vnapxovdi xaxijpd - ro , h. e„
nova mala praesentibus addidit precando. Ibid. p. 149. evprjdEiS de
xal nap 9 t Opijp<p &c£pa itapanXijdioc xovxoiS el-
pr/pfra, p£yaS SeoS, Sydenharaius dyctSoS $£of scribendum
esso censuit. Nisi fallor, minus est «pitheton, quo omnia
continen- tur,. quae ab Agathone Eroti at- tribuuntur, quam 5eoV
substan- tivum urgendum, Quamquam enim in proximis de epithetorum
veritate agitur, tamen de iisdem iam disputatum est in superioribus, Nunc
retractantur eadem, ut facilius ad sententiam eam aditus pateat, qua deum
esse Erotem Diotima negat. Insequentia verba rectissime
Stallbaumius interpretatus est: KaXcjv, inquit, pendet ex
"Epeo? t quod etiam hio positum est, ut p. Ip6. D. Adde praeterea
p. 204. D. l<$n /ily ydp 6tj Toiovroi nal ovtcoS yeyorwi q
"Epca*, $dxt 8k xooy rjXtyyt di) fit Tourotg rotg ag
ovxt xaXog tii ) xatci xaXcSy. cfr. annot. p. 209. Verba
convertenda sunt: Dass Eros ein prosser Gott, und dass er die
Liebe des Schdnen sei. ovx ev deis . Rii- ckertus ad
haec verba h. e. in- quit; bona verba, quaeso. Du- bito, nuru
recte. Bona verba apprime respondet nostratium : Nur gemacli, nicht
za liitzig, iis- que verbis utuntur, qui iratos, minitautes,
iuiuste accusantes il- ludunt. Sic Davns in Andr. Ter. Act. I. Sc,
II, v. 33. cum herus dixisset; ubivis facilius passus sim, quam in
hac re, me delu- dier, Bona verba, quaeso, re- spondit. Cui herus
rursum; In- rides, inquit, nil me fallis. Ev- qxtjpElv verbo
respondet Latino- rum favere linguis, utrum- que autem dicitur, ut
sibi ca- veat aliquis, no mali ominis verba pronuntiet. Sic in
Piat, de rep. I. p. 329. C. f cum aliquis So- phoclem aetate
provectiorem iu- terrogasset Ixt oloS X * el yv- yaixl
dvyyiyvedSat, respondisse ille fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD- 1 te.
Adde Alcib, II. p. 143. C. *A\x. Evipiput npoS JioS , gj 2o
oxpocfEf,, JS, ot; xoi roV A i- yovxa , gJ UXxifipadtf , goS ovx dv
iS&ots: dot xavxa TtEnpd.- XSaij Exxprjpeiv det de xeXeveiv,
d\Kd pdXX ov noXv ei xts tei ' . ETMnOEION. 24 ?
tov 1/J.ov koyov ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig, k'(fr]v, a
z/tortfta ; cda%Qo g uga 6 ’Ega g loxl xcd xa- xog; Kal i/, Ovx
tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet, <" xi av fijj xakbv y, avuyxatov
avxo uvul alaygov, — Md- £oi h&ca ye. — *// xal dv yy <Soq>ov
ctyaDig ; y ovx yO&yOai , on latt n yuxu.lv <Soq>tae xul
aua&lag; — Ti xovxo ; — To 6 q9cc do|«£av xal civiv tov
I^hv loyov Sovvai ovx oi<J&’, irpy, on ovx e hititix aGftui
ivavxla Xiyoi' iitel (67) ov- ' toj doi Soxei (jtpoSpa 8 e
iv 6 v elvai r 6 7t p a y - fM)C f &ST 9 OUfifi
f>7fTEOV tlvai ovzcdS elxij x.x.X. 7 / xal av fxrj
docpov df.ia- 3 Astios ij , qucd vulso legitur, servandom duxit, ut
quod ad praecedens tj ^ *• 1,0 tn fortasse censes,
referendum sit. Frustra. Illic male vulgo 7 £ exhibetur, uostro
contra loco 7 plena interrogatio est: Num et- iam censeas . vide
annot. p* 10. Ceterum frustra huno locum vitiosum censuerunt viri
docti. Stephanus ori post 1 / inferciendum censuit , Wolfium
ossentientem habuit. Stallbaumio e superioribus zi repetendum vi-
detur. Nos deleto post do(pov commate pleniorem orationem audire
arbitramur: 7) xat av otoio ’/«/ docpov apaSis ; vide quae
dicta sunt p. 10. Probari autem vides , quae illic de r/ et 7 /
dillercntia disputavimus; num 7 / 0 U 1 cum veritatis specie pro-
fertur, quam reddere latine pos- sis fortasse. Ea veritatis spe-
cies, ut mutata particula rema- neret, ad verbum post 7 supplendum dv
additum est. xal dv£v tov ix etv ^o- yov Sovvai. Stallb. HCCf
deleto, quod ab inepto gramma- tico additura censet,
sententiam verborum ait haac esse: llccte indicare ita ut
iudiciitui non possis reddere rationem, nonne putas esse neque scientiam
neque inscientiam? Cum eo Sclileierm. consentit verba convertens:
Weun mau richtig vorstellt, ohue iedoch Ilechenschaft davon gelren
zu lednnen. Stallb. addit praeterea si xal verum esset, reliqua
haud dubie sic se habereut : xai 0*'X £xeiv Xoyov Sovvai. Multo
deterius Huchertus in explicandis his verbis versatus est :
AoB,a2,eiy u/jSa xal dvev tov %x £iv yov Sovvai h. c. : vel ita ,
ut non possit, aucli ohne Reclien- schaft gebeu zu kounen.
Qu« in sententia quum bene habeat part. xai, nolim eam deleri,
quae Stallbaumii coniecturafuit. Num fieri posse censes, ut recte
opi- netur aliquis ita , ut rationem reddere possit? Non credo
equi- dem. Quid igitur sibi vult vel ita, ut non possit
ratio- nem reddere? Aov,a apprime respondet Latinorum opinioni
, 8o&a?,eiv igitur opinari est. Diilert autem opinio a
iudicioita x ut hoc cum ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem
habet, nationem reddere uon potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v
eYij ; ovtt auccxHu' t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v
&1 ccfta&lu; taxe 6i 6y nov xolovxov fj uq&i) 56|a,
fiexa^v (pQovrjGtas y.cu duu^dlug. ’A?.7]&fj , xyv 6 ’ eya, Jitytig.
B Mtj xoLvw dvdyxage, o fiij xaXov laxiv, alaygov eheu, False et
recte opinari aliquis potest, ut iudicare eum crederes, si haberet
sententiae suao ratio- nem. Fieri potest autem inter- dum, ut
aliquis, qui rationem reddere non possit, tamen inter- rogatus
rationem reddat forte fortuna repertam, non mente at- que
iutelligentia quaesitam. Iam agnosce Platouis voluntatem, quae
clarior fit suppleto ad roy infioitivo \6yov 6ovvai." Sen-
susest: D i e ( zu f a 1 1 i g) ri ch- tigeMeinung and d i e ( z u-
fcillige) Angabe des Gran- des, ohne eigentlich ei- nen Grund
augebeu zu konnen, das weisst du doch, sagte sie, dassman
diese weder wahrhafte Wissenschaft, nochganz- liche hn wissenheit
nen- n en kaun. d\oyov ydp ^pctypct, h, e.
Denuein Gegenstand, derwirk- lich ohne Hechenschaft ist, (wenn
gleich dieselbe aus Zufall einmal gegebeu wird) , wie kdnnte der
Wissenschaft sein? Nam qui recte opinatur aliquid, rationem interdum
reddere postest, sed quae aliis sufficiat, 1 non sibi, nt- pote
quam mente atque jntelli- gentia non teneat. ro yap tov ovroi
xvy - Xdvov, To ov significat id, quod revera est} id quoniam
opponitur ei,, quod esse videatur tantummodo, revera noo sit, factum est,
ut ro ov absolutam veritatem denotet. Recte igitur Stallbaumius ad
h. ]. ro ov idem esse monet, atqne ro' aXijSte, atque ne quis de
ideis dictam accipiat, caveri iubet. To tov bvroS r vyxctvov autem
non tam eum animi habitam describit, qui veri compos fiat, quam
eius, cui forte fortuua accidat, ut veri sit compos»
£drt 61 8r} irov toiov- tov , Convertit Schleiermache- rus :
Also ist offenhar» Astius exhibet: Est igitur ni- mirum.
Riickcrtus, qui de ad- dendo post ToiovTov o v par- ticipio cogitat
: immo est, qu.um talis sit, vera opi- nio inter scientiam et
inscitiam. — aJ£ particula neque conclusioni indicandae inservit,
neque est 6)j itov immo. Ne- scio , cur noluerint interpretes verba
convertere: Es ist aber doch offeubar wohl cet. , quae verba ita
dicta sunt, ut praecedenti ovts - i<$Tiv , — ovte — $6riv cum vi
quadam opponantur. Ac ne forte, quod Riickerto acc disse video, t
i ante toiovtov additum deside- res-, toiovtov nude positum
ac- curatissime alicuius rei notionem describit, ut prorsus tale
ali- qnid esse dicatur, quale insequen- tibus verbis esse
significatur» Ti addito pronomine indefinito vis ilia minuitur,
neque prorsas talo aliquid esse indicatur, qua- &
(njSs o (irj aya&ov, xaxov' ixtidi] avros ujiokoyug (irj
(itjdiv tl liakXov oYov dsiv rivai, aXXa n fiera^v , itprj iya ,
ofioXoyuTal ye ttaQa le sit aliud, sed ita comparatum, ut
fere tale esse aestimetur, cfr* Piat, de rep. I. p. S40. E,
xoiovxov ovv drj 601 xai iph VTCuXafte vvv ye drtoxpivcttiSai, quo
loco falsum foret atque Thrasymachi sententiae contrarium roiovro»' n.
Adde ib. IX. p. 590. E. Jrj\oi de ye, rjv o iyoo, xai 6 vopos, oxi
xoiovxov fiovAexai, tcu 6 i xoiS iv x y no- A ei KvppaxoS
gjv. y,i} xoivvv av ayxaS,e, Supra diximus annotat, p.
239. de verbis , quae ex adiectivo proprie cum elvat verbo aut
ex adverbio cum dicendi verbo con- iuugendo conformantur. Mrj
xoi- vw avayxage igitur posi- tum est pro prj xoivvv avay-
xalov elvat A eye. Minus apte Schleiermacherus verba convertit: Folgere
also n i c h t , neque recte Astius exhibet: Ne igitur coutendas.
Possis etiam alia ratione avayxa^etv verbum explicare, quae
tamen nobis minime probatur, ut avay - xageiv cogendi potestate
rebus adhibeatur, quae cogi ifequeunt, quasi cogi possent : Zwinge
doch also Dinge nicht, die uicht sclion sind , hasslich zu sein.
Inverso ordiue Agatho, cum neque tur- pem neque malum Erotem
esse intelligeret , pulcherrimum opti- mumque deum esse censuit.
Ce- terum o prj xaAov i<$ xiv idem fere est, atque d pij xaA.ov
el- vca opoAoyovpev , de quo di- ovtfo da xai rov
"Eqcoto: rfvcu ayaftbv firjSi xaXov, av rov aitJxQov xai
xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’ ttccvzav [tsyag &ebs
rivat. cendi genere vide, quae annota- vimus p. 207.
ovxcj dl xai x 6 v "E p gj - X a. Legitur ia nonnullis
libris 6 rf pro de, neque confiteri dubitamus, illud quam hoc nobis
multo magis placere. Sed rectissime ad h. 1. Riickertus ouXoj d?f,
in- quit, per se non male. Nam quum a generali sententia nd
certum et deiiuitum aliquod sub- icctum transimus ita, ut,'
<£uod ia universum valeat, ad hoc quoque pertinere doceamus,
col- ligimus aliquid et concludimus, idqne licet conclusiva
particula significare. At non est hoc ita opus, ut tam exigua
librorum au- ctoritate mutari quid liceat, immo sufhcit etiam
addidisse signum transitus ab una re ad aliam, quod fit de
particula» ceAXa xi pexaB,v, %(prj, xovx oiv . M E<prf si
abesset, nemo desideraret. Cave tamen, id otiosum censeas. Solet
enim dicendi verbum verbis apponi, quae ab eo dicta sunt,
cuius oratio refertur. Diximus de hoc usu dicendi verborum
annotat, p. 56. Hinc non mireris di- cendi verbum duplex
positam v. c. in Sympos. 177. A. <PaidpoS ydp kxddxoxe 7 tpoS
pe dyavaxx&v Akyei’ ov deivov, qjffdlv , eo ’Epv£ipaxe,
aAAotS plv et quae sequuntur Phaedri ipsa verba. Eodem modo p.
202. C. legitur xai iyoo ebtov , vcgdS t i Tia v f ii )
eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv- rcuv; Sv^avrov {liv
ovv. — Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog Sv , B(p)j , w IkixQCCTtg ,
vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai C TtCCQGC TOVtOV , 01 (pCCOtV CCVTOV
Ovtil &EOV llVCi l \ TL~ Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv,
t<prj, <Sv , pice d’ iycu. rovro, itptjr , XlysiS j Ac ne
forte , L r (p7 ? cet. verborum inediae oiationi immixtorum
sig- nificatum minus recte a nobis indicatum censeas, si interdiim
alicuius verba non verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla
reperiuntur, tenen- dum est, eum, qui illo genere dicendi utatur,
si revera alicuius verba non repetierit, tamen eo nnimo fuisse, ut
ipsa verba proferre voluerit idque addito di- cendi verbo
indicaverit. TGJV f.nj HSo ZGDV , e<pv, andvroov XeyeiS.
Verba ita disposita sunt, ut ex eorum or- dine facillime possis
Diotimae voluntatem agnoscere. Nimirum ( pm dixisset in proxime
praecedentibus Socrates: maguum deum Erotem vocari 7C apd itdvtGov,
Diotima istud jxdvtaiv , inquit, Citrum de iis intelligenduin est,
qui rei ,non periti sunt, au et- iam de sapientibus. Urgendum igi-
tur pronuntiando est rtavTcov, quod quo fieret facilius, ndvTGJV
«nite A iyeiS positum est. Geni- tivum autem casum Diotima retinuit non
tam propter antece- dentem irapd praepositionem, quam quod
vocabuli, quod aliquis pronuntiando urget, ea forma re- peteuda
est, quam, qui antea locutus est, exhibuit. Uiuc ne iucomtior
existeret oratio haec: rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV
XeyetS x. x. A„ xqvS fitj ecduras verba eodem casu posita
habes, quo lictvTCDVt ’ S,v fX7Z d vx w psv ovv . Ovv
particulam in responsione adhibent ii, qui obfirmate ali- quam rem
affirmant, quam sunt iuterrogati. Eius notionis origo haec est,
quod, qui interrogan- tur, ut fortius respondeant gra- viusque
affirment, ita statim se comparant, quasi rem negasset Ss , qui
interroget , atque huiusmodi interrogationem proposuisset; OVH OVV
%V).l7cdvtGDV fibV i Ad haec verba igitur respicien- tes, iisdemque
utentes excepta ne- gatione, non nisi mutato verborum ordiue respondent :
B,vpndv- rcov pdv ovv. Schleiermacherus verba convertit: Von allen
iusgesammt. Sed neque haec couversio Graecis verbis satis
respondet, neque scio, an oroui- no dicendi genus in vernaculo
sermone reperiatur, quo illius via responsionis commode reddatur.
x al ?/ , fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,, Stallbaumius inquit,
facile ac uullo negotio rem tibi explicabo. Aliter uobis de
hu- ius adverbii explicatione statuen- dum videtur. Eo docemur,
qua potestate dicta sint verba 7tdSs rovro A lyeiS. Sbcrates
nimi- rum summopere miratus Dioti- xnae sententiam, qua et ipse
Ero- tem dicatur deum negare, hacc profert: ndtS rovro A iyeiS li.
e. Wie k anu st du das sagen? Vide de hac verborum
potestate Kal iyu airov , Ilag rovro, Srptjv, liytig; Kal rj, 'Pa-
Siag, $<py. Xiye yag fiot , ov itavxag ftiovg cpijg tv- Saifiovag
tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv uva fiy tpavai xaXuv xs Kal
ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli', ovx i'yay ’ , 'iyyv. — EvScdfiovug
Se Sy Xiyug ov xovg annotat, p. 169. Ad haec Dio- tiroa: perfacile,
inquit, sc. hoc dicere possum. xaXov te xal ev Saiji o-
v a. $e&v elvai, Vulgo le- gitur 3eoV, quae lectio, umle orta
sit, neminem latere potest. Nobis rectissimum videtur SeGoV t quod
Bodlcianus exhibet aliique libri non pauci, Etenim, si Seov
probaveris, riva prouoraen in- definitum mirum quantum displi- ceat
: An auderes aliquem ne- gare pulcrum atque beatum esse? Ssaiv
contra a verbo , ad quod pertinet, verbis interpositis non- nullis
disiunctum, quanta vi ponatur, ex annotatione patebit p. 59. Sensus est:
An aude- res aliquem bonum bea- tumquo negare deorum?
Respicit autem Diotima quaestione hac proposita ad vulgarem de diis
opinionem, quos nemo fuit, quin felicissimos beatissimosque
praedicaret. Eius .opiniouis et se , antequam cum Diotima disputaverit,
Socrates narrat participem fuisse; hinc graviorem negationem explicabis Ma di
, ovm iyoayB» Veritum euim se ostendit, ne negata re deorum
iram odiumque excitaret, ev 5 a i j.i o v aS 8 8ij Ai- yei$
x. T. A. Annotat Mattii* Gramrn. ampl. §, 610. 7. p* 1234. Ilaud
raro ov negationem in interrogatione verbo fi- nito postponi atque verbis
prae- figi iis, quorum canssa tota in- terrogatio suscepta
sit. Praeter nostrum locum idem laudat Piat, de rep. IX. p. 590. A.
jj 8’ av- SaSeiec xal 8v6xo\ia ovx urav X d 'A.eovx6o8eS te xclL
o(pc(a8ES <xv%7jxai; Caussam huius strn- cturae Riickertns
censet esse, quod incepta sit enuntiatio ita, ut nulla iuterrogundi
voce opus sit. Licuisse enim dicere evSal- jiovaS 8l 8tj A iyeis
rovs — xe- xxyffiEYOvS salvo tenore senten- tiae. Media autem iu
senten- tia loquentem paullulum substi- tisse, quasi exspectet, ut
addat reliqua interlocutor; quod quum uon fiat statim, perrexisse
ov xovS xctyaSa. xal xa\d xexx ?/- fxkvovS ; — Nobis ita
statuen- dum videtur. Cum in praecedentibus id ageret Diotima, ut
dii pnlcri beatique esse concederentur, in sequenti enuntiatio- ne id
verbum iuitio posuit, quod beatitudinis notionem exprimeret,
ratiocinantium videlicet ex- emplum secuta , qui semper ab eo verbo
enuntiationem ordiri solent, de quo iu proxime praecedente enuntiatione
ab adver- sario concessum est. Migravit banc ratiocinandi normam
Plato p. 201. C. t quo loco cum praecederet pulcritudinis notio, Socrates
hoc modo perrexit: rnf- ya%a ov xal xa\u 8oxel 6oi elvai; Illud verbum
autem cum plerumque penderet e finito ver- bo, ut nostro loco
Ev8<xiiiovaf D tayafra xal xa?.ci xextyfiivovg ; — Tlavv ye. —
'A).fo'< /irjv "Egesta ye wfioloyjjxag St' evSnav ttov ayadcov
xal xakav Im&vfitiv avtiov tovttov , tov tvtier/g iotiv. —
^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog ety o ye nov xaiav xal aya&wv
aftoigog; — OvSafiag, Sg y’ ioixev. — ; 'Ogag ovv , ?<p »; , ori xal
Gv "Egcrca ov frtov vo(it£eig; XkyeiS, non mirum videri
potest, si id statim assumitur negationi praepositum.
ov t ov S xdyaSa xal xaXa. Bodleianus ftalii nonnulli codices
xayaSa xal x d xaXa exhibent, quam scriptaram Bek- kerus et
Stallbaumius receperunt in ordinem verborum. Annotat lliickertus ad
h. 1. rectissime : t dya$d xal xa xaXd res bo- nae sunt et res
pulcrae, quae diversae esse declarnnturj contra r dyaSa xal xaXa res
bonae et pulcrae. cfr. p. 202, D. 6i’ £v- Setav zaiv ayaSaiv xal
xaX&v et Trois 6 * av ovv SeoS efy o ye tgov xaXcov xal ayadcov
ayoi- poS. p. 203. D, iniftovXoS idxi xols dyaSoiS xal xoiS
xaXoiS x. t. X. Aliam legem in articu- lo nominibus substantivis
prae- figendo Graeci scriptores secuti sunt, de qua fusius
disputavit Engeihardtus ad Piat. Menex, p. 237. B. $. 6. p. ed.
252. ojyo Xoyr/xd ye. Assensus Socratici vestigium in
praecedentibus reperitur nullum. Ero- tem earum rerum, quae appete-
ret, expertem esse, Agatho con- cessit p. 201. B. *Ev6er)s ap *
£dxl xal ovx k'xet o " EpcsS xccX- XoS. — 'Avdyxtj , tpavai.
Iam cura Socrates eadem fere Diotimae se dixisse dicat p. 201. B. (
dxedoy yap ti xal iyco itpoS avtrjv £xepa xotavxa l\t- yov ,
oldnEp vvv npds £/il *Ayd$GDV ) quae Agatho sibi di- xerit,
verisimile est, Socratem, eadem Diotimae concessisse, quae Agaibo
Socrati. Hinc opoXuyrf- xa positum explicabis. ov 6 apeo S,
&>S y * Eoixtv. Socrates Erotam deum non esse' ita
tantummodo concedit, ut e Diotimae ratiocinatione id colligi posse dicat.
Piuribus dis- putavimus de verbis (Ss y* £oi- xev a Socrate hic
adhibitis in Comm. de Symp. Platonis. Opds ovv, oxt xal tft)
"Epoox a ov $ e 6 v v o pi^eiS; Stallbaumius laudat ad h. 1.
Piat. Apol. Socr. p. 24. D. xov 61 6rj fieXxiovS noiovvxa tSi
eiitk xal pjjvvdov avxolS xis idxiv. opiis, oJ MiXexe, ori dtycis
xal ovx £x El $ elicelv; Piat. Menon, p. 80. E. yavSavGo,
olovflov- X et Xkyeiv , dt Mtvouv * 6paS xovxov cos ipidnxov Xoyov
xa- xayeiS ; Verissime addit: In his locis omnibus opaS ita
praemitti- tur reliquis verbis, ut alterum rei praesentis statum et
conditionem ipsum iam perspicere indi- cet, non sine aliqua
admirationis vel etiam irrisionis significatione. x i ovv av,
£tprjv, eirj 6 "EpmS . *Av particula a modo verbi, ad quem
pertinet, haud raro seiuncta reperitur. Scriptum Cap. XXIII.
Tt ovv clv , Sq>tjv , drj 6 "Eqcos ; &vt]t6g ; —
"HxiOra ys. — 'AXka r l firjv ; — "Slgneg za xgozega,
iuza£v tivrjxov xal d&avazov. — TL ovv, u Aiotljia ; Aciliiuv (liyag,
a Eaxgazig. xal yag itav zb Sai- autrm exspectaveris ti ovv,
Etpyv, ehf dv 6 "Ep&S. Non perfode est, ntro loco dv
particulam po- sueris, neque ti ovv dv , £<prjv> ii?f idem
prorsus siguificat atque ti ovv, iqnjv, eXrj av. Iam videamus, quid inter
se hae di- ctiones differant. Optativus modus aliquid fieri posse
indicat ita, ut non addita sit vel probabilitatis vel dubitationis
notio, "Av particula adiuncta efficitur, ut, quod fieri posse
fodicatur optativo modo, id certis quibusdam de caussis fieri posse
significetur adhaerente notione verisimilitudinis. Iam patere opinor, ti
ovv eXrj o "EpuS eius esse , qui de Erotis natura
incertissimus ne- sciat prorsus, utrum ait aliquid necne Eros, fieri
tamen posse opinetur, nt sit aliquid, idque nunc sciscitetur.
Contra ti ovv iXt] av 6 "EpwS eius verba sunt, qui compertum
habet, Erotem aliquid esse, idque quid sit, iam quaerit. Ad nostrum
locum ut accedamus , av positum quidem habes, sed disiuoctum ab
optativo modo, quo dicendi genere scriptor exprimere voluisse videtur
aliquid, quod medium esset inter ti eitf et ti bXtj av . Socra- tes
nimirum Diotimac argumeutatione captus necdum liberatus a popularis
superstitionis vinculis huc illuc vergit plenissimus dubitationis, atque
revera aliquid esse Erotem potat et rnrsnm aliquid esse posse dubitat.
Verba convertenda sunt: Wasware denti nun also wobl, sagte icb ,
wenti er etwas ware, Eros. Eodem modo explicandus est locas
Piat, de rep. I, p. 333. A. ttpoS ys vnodrfpdtaiv av, olpai,
<paijjS xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei <pair}$. Ibid. IV, p.
438. A. quo loco cave, indicium tuum impediri patiaris verbo addito 60 x
01 : *I 6 ooS yap dv, Xcprj , 60 x 01 ti Xiyeiv 6 tavta Xtyoov.
Adde Protag. p. 312. D. X6co5 dv, i/v 6 * iyoj, dXrjSij Xtyoipev ,
ov pivtoi IxavooS ye, Gj? 7 tep ta itpotepa , $<prj.
Haec verba convertit Schleiermacherus: Wie oben , sagte sie, zwischen dem
sterblichen and nnsterblichen. Recte. Sapplendum autem est ex
praegresso ti ovv dv eXrj tempus praesens X. 6 ti, nt verba
explicatius perscripta audiant tovto , o l 6 tiv wSitep ta 7
tpotepa (cfr. p. 202» A. % 6 tt 6) j tcov toiovtov rj opSr) 6 o£a ,
pEtagv d/taSiaf xal ppovr/tieoDS ) petant) Svijtov xal
dSavatov. xal yap 7tav x 6 6 aipo - viov ♦ b. e. denn die
gesammto Damouenwelt liegt zwischen Gott- heit and Mensckheit
raitten foue* Ad nostram locum multos fuisse seriores scriptores,
qui respice- r E poviov [isra^v ititi ftsov te xal ftvrj tov.
- TLva, rjv 6 i lydt^ dvvccfuv %%ov; 'Equtjvevov xal 6ia7ioQ%ptvov
•O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal dv&Qciiioig rd Ttccpcc 8ewv , x cov
(iiv xag dEifieig xcd ftvtilag, xdjv 61 xag faixat-Big te xccl d(ioi($ccg
xav &v<2l(5v. iv piceo 61 ov rent, Stallbaumius ad h. 1.
anno- tat. Addit idera: Quid quod a Proclo in Parmenid. ap.
Rentlei. Epist. ad Millium p. 455. ed. Lips. haec omnia e doctrina
Or- phicorum repetita esse narran- tur ? Quae quidem sententia
quum confirmetur quodammodo eo, quod carminis Orphici fragmentum
ap. Clem. Alcxaudr. Strom. V. p. 724. fere eadem coutiuet,
quae Diotima hoc loco Socratem do- cuisse narratur; eo minus de
hu- ius narrationis veritate dubita- mus, quo certius exploratum
ha- bemus, Platpncm non raro ad Orphicorum doctrinam
allusisse et respexisse. hpfxrjvevov xa\ 8ia*>
7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap* dvZpaJrtGOV X. r. A. Satis no-
tum est, Graecos in formulis, quae ex articulo et nomine aliquo cum
praepositione coniuncto compositae sunt, praepositionem haud raro mutare
atque eam poiiere, quae cum verbo enuntiati prin- cipe conveniat,
cfr. Fischerus ad Platonis Phaed. c. 22. Stallbau- roius ad Piat.
Apol. Socr. p. ed. 63* et 64. Mattii. Gramm. $. 596. a. b. p, 1193*
Engelhardtus ad Piat. Lachet. p. ed. 23. Hu- iusmodi formulae ubi
per se spe- ctantur, plerumque praepositionem quietem significantem
repraesentant, ut nostro loco rd nap* dv^pconoiS et t d napa
Accedente enuntiati principe verbo, quod motum siguiiicot,
illa praepositio aut in praepositionem motura exprimentem mutatur,
aut, ut id factam est nostro loco, cum eo casu coniungitnr, qui
motum exprimat. Non satis recte autem napa praepositionem cum
genitivo coniuuctam putant pro- pter antecedens SianopSuevov,’ non
item propter kppj/vevov, neque satis placet Schleierma- cheri
conversio: zu verdolmet— schen und zu iiberbringen. Non rectius
apudFicinum legitur: in- terpretatur et traiicit. Non dubium est,
duplicem itineris ra- tionem indicari illis participiis, atque
kppTjvsvov quidem , quod cum verbis consociandum est dv%pG)itoiZ
tartapa $Ecby t viam describit, quae a diis ad homines ducit,
diaitopSpevov autem de via dicitur, qua proficiscitur, quicquid ab
hominibus nd deos se confert. AiaitopSpEvov ni- mirum cum Gharonte
cohaeret, qui itopSrfiEvS a Graecis vocatus est, et qui animas
solebat c terra ad sedes deorum transvehere 5 £p- pifvevor eiusdem
est, &tx\ucEppr/S radicis, qui deorum iussa homi- nibus
obnuntiabat, non vice versa ad deos transferebat, quod ipsi ab
hominibus mandatura esset. Significat igitur Mercurii in- stardeorum
iussa obnun- tiare. Iam patere opinor, non solum propter
StanopS/iEvov, sed etiam 'propter kpprjvtvov cum genitivo
coniuuctam esse Kapa praepositionem. Hinc non d/i<poTsgm’
avfinbjQol , i3gre ro xav avto avrq) £w8s- SeO&cu. Sici rovtov xal rj
fiavuxi] xdau %uqu, xal ?/ rav ieQtuv xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal
rag relerag xal rag tnipSag xal rr\v (tavtelav ndoav xal 203
yorpceiav. &eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui , alia Sia placet Stallbaumii
annotatio ad h. 1.: J&eoiS' td it ap* av- S p cJ it cd v
. Non dixit it a p* dvSpciitoiS et ita pa Se- olS : nam
alteram constructionem requirebat verbum SianopS- /f sii ov.
CvpitXif poiy (Ztxe ro itdc v x. r. A, Ficiuus liabet ia
conversione : In utroqnc medio constituta (sc. daemonum natura)
totum complet, ut universum se- cum ipso tali vinculo connectatur. His
verbis seduci se passi sunt Keynderslus) qui td o\ct dVfUtAl/poi
scribendum coniecit, et Orellius nd Isocr. p. 331*» ubi
(SvpitXripoi ro itdv , dista avto avroj &vv5c8i<j$ai ma- num
Platonis esse suspicatus est. Sed nihil mutandum est, neque
quicquam supplendum. Sensus ?st: indem er aber in der Mitte sich
befindet von beiden , bildet er die Ausfiilluug, Vermittlung, s.
fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba in terdum ita
adhiberi patitur, ut non actio, sed notio verborum urgeatur. Vide
de hoc usu verborum transitivorum apud Grae- cos annot. p. 230*
xal i) ftavrim } itd6a Xoo p ei. Duplici potestate haec verba
intelligi possunt, ut aut de felici successu, qui daemoni- bus
debeatur, aut de spatio viae, quod eundo superetur, accipiantur, Ficioas
verba convertit: Per hanc (sc. daemonum natu- ram) vaticinium omne
procedit cet., ubi verborum ambiguitatem servatam habes, neque
dubium videtur, quin eandem et Plato de industria admittere
voluerit ea de caussa, ut de felici successa et de meatu per
medium inter coelum et terram locum verba accipiantur, SeoS 6 e
dvSpfoitM ov piyvvr ai x. r. A. Articulum omissum habes in utroque
huius enuntiati nomine, ut indicetur, sententiam proferri
generalem quam vocant. Vide Indices s. v. Artic. Ceteram
daemont medium inter coelum atque terram locum obtinere dicuntur
ita, ut per eos esse atque meare artes per- hibeantur omnes eae,
quae; homines cum diis arctius con- iungant. Haec coniunctio
quo- niam potior est eo, quod ho- mines deorum iussa exsequuntur,
quam quod dii hominum precibus obtemperent, recte ponitur h. 1. ?}
SidXsxtoS SeoiS irpoS dvSpGdrtovS , non item avSpdmoiS itpoS
Seov?, quod Heusdius in verborum ordinem inferciendum censuit, ut
esset, quorsum referrentur verba sequentia xal lypijyopodt xal
xaSevSovtiiv. Annotat Stall- baumius ad h. 1. : Defendi pot- est
lectio vulgata ita, ut verbo- ' rum constructionem dicamus cou-
formatatu esse potius ad sententiam ipsam, quam ad grammati- «
tovvov naOu iativ i } byuliu xal % Sudexrog dsoig itgog
av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov 6 t. xal o f ilv
xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81 cclXo tl tiotpog coV
rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag , fiavav- 6 og. ovtoi dr; oi
Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv' slg 81 tovtqv J<Srl xal 6
"Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>, tivog Itfrl xal [ir^Qog; Muxqotiqov
(iiv, %<pr], d^yr/Oa- cam subtilitatem ac diligentiam.
Quum enim dicatur opiXslv rivi et diaXeyeCSai rivi, etiam opi- A ia
xal didXsxroS rivi recte dici potuit» Et quum antea non dixisset:
7ta6ct idri SeqI? tj opiXia xal 7 ) didXExro? avSpcS- 7COi? ,
sed perspicuitatis caussa usus esset praepositione TtpoS addito
casu accusativo, nunc ad legitimam constructionem rever- tens,
neglecta grammatica dili- gentia, dativum post accusativam recte
inferre potuit. iiuius- xnodi grammaticae diligentiae ne- gligentia
si ullo loco ferri potest, huic loco apprime convenit, ubi Socratis
sermonem non prae- meditatum illam, sed ano rov tiro paro?, ut
Graeci dicunt, ha- bitum refert Apollodorus. Verum est tamen
aliquid in hac verbo- rum explicatione, quod displi- ceat. Negligentem
esse structu- rae grammaticae verborum licet quidem interdum in
sermone fa- miliari, sed ita, ut verisimilitu- do adsit
negligentiae, h. e. ut verba ita remota sint ab iis, quorum
structuram sequi debeant, ut eius revera obliti esse,, qui
loquantnr, videantur. Nostro lo- co verba proxime adiuncta sunt f
verbis, quorum structuram sequi debent, ut saue intelligi nequeat,
cur dativum maluerit, quam ac- cusativum scriptor exhibere. Cer-
tissimum est, aliquid exprimere voluisse' scriptorem
structurae mutatione, quod quid sit, iam videamus. Si scriptum
exstaret iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~ ra? t interpunctio delenda
esset, quae post avSpGoitov? in omnibus editionibus posita
reperitur, unoque tenore legendum esset $Eoif rtpof dvSpwitovS
iypTjyo- prjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a
prae- cedentibus verbis seiunguntur ita, ut verba 7 } opiXia xal 7
} SiaXexToS $eoi$ rtpo? avSpaS- Ttov S unam notionem
efficiant, quam cum uno verbo exprimere non posset’, structura
verborum Plato assecutas est. Verba con- vertenda sunt: Gottliches
be- ruhrt das Menschliche nicht, sondern alie gottliche
Offenbarung wird Wa- chenden und Traumen- den vermittelst des
Da- ni on is oh en zu Theil. 7 ) xstpov pyla? riva?,
fiavav6oS . Schol. ad Theae- tetum in Bekkeri Comment. Critt. T.
II. p. 368.: fiavav6ov'‘ ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde fiavvcp, o
ion xapivaj tl £p- yov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav- 6 ov rov
anavSp&ndv xal vtce — pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov XEipds zijs
vfipi6xixij? f) rsxyt - 0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j
'AtpQoblrr;, ttotiaino oi &£ot , oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos
vios IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav , XQoqaiTqGovOa, olov iva%La$
ovaris, mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dv- Qag. 6 ovv IIoqos
fiidvGfrels r.6v vextuqos — oivog yag ovjto tjv — tls *ov tov Alos
xijrtov dscl&tov (Sepugr]- litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa
dia ttjv av- StjXoi dk tovS’ x 6l Porixv<x£ xal
drjpiovpyovS. Diotimae mens haec est: virum daemoniam recte
appellari eum* qui cogno- scendi* diis deorumque consiliis operam
navet coniuuctionis illius gnarus, quae inter deos atque homines
per daemones exstet; contra j SavavOov vocari , qui terrestribus
rebus intentas deo- rum consilia minas curet. < o tf ydp
iyiveto. Quae hucusque narrata sunt a Socrate, Erotem cx senteutia
Diotimae e daemonum ordine esse, h. c. medium inter deos atque
homines, atque pulcro carere quidem, sed yehementissimo eius
appetita teneri, ea nunc repetuntur in mytho insequenti , quem vario
modo FILOSOFI interpretati sunt. Hac narratione mythica
certissimum est, Diotimam s. Socratem non confirmare voluisse , sed
explicate potius atque illustrare tamquam imagine sententiam suam. Satis
notum est autem, Graeco ram iugeqium ita comparatum fuisse, ut facilias
iutelligerent, cupidius arriperent, memoria me- lius tenerent, quae
mythica ali- qua narratione, quam quae nuda demonstratione exposita
essent. Pluribus de huius mythi fine diximus in Commeat, de Sympos.
Platonis. olv oS ydp orjTCco 7/ v . Adduntur haec, ut tempus
indicetur, quo facta sint, quae hic narrantur. Vinum antiquissimis
temporibus Graecis notum fuisse, Homerus docet atque Hesiodus. Hinc
iudicabis de rei narratae vetustate. Ad nostrum locum respexit
Porphyr. A. A. c. 16. ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS tov rhirapoS
7tX?]6$tis • ovnto ydp olvos ?}v. eis tov tov AioS
H7J7COV e lseX^GJ v. Cave credas me- ta pho ricam significationem
h. 1. verba habere A 10 S xi}7Cov t Horti mentionem Diotima
fecit vitae quotidianae usam imitata. Hortam enim hospitis convivae
bene poti adire solebant atque loca frigidiora sibi eligere, ubi
hausti vini calorem mitigarent animosque concitatiores somno
compescerent. Adde Stallbaumii annotationem verissimam : Quae de
hortis, inquit, lovis hic nar- rantur, non solius ornatas gratia
adiecta sunt, sed properaodum necessario commemorari debue- rant.
Qaum eDira Pori atqae Peniae natura et ingenium tan- topere
discreparent, per se pa- rum verisimile videri debuit, il- lum cum
hac potuisse habere consuetudinem. Itaque quo nar- ratio maiorem
nancisceretur si- militudinem, poeta philosophus
17 C r jjg txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca Ix toti JJoqov,
xata- xXlvEtcd te scccq’ avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto
Srj xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg 'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv
o 'Egag, yewtfteis iv roig ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict
tfvOtc iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj xcd r>]s ’A(pQ0SultjS xaXijg
ovdrjg. ktb ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i ov 6 *Egag iv roiauzi/ tv%]/
xu&l6xr t xE. tcqutov filv nivtjg ini sdn, xcd xoX/.ov
Sei ol itoXXol oiovTcu , txXXcc Pornm finxit in convivio illo
in Veneris honorem instituto ebrium factum se in hortum Iovis
con- tulisse, ibi vero Peniaxn, quae ei struxisset insidias, sine
arbitris convenisse. Vides, quam necessaria sit haec fabulae par-
ticula: nt profecto miranda sit operosa industria eorum, qui de
istis Iovis hortulis splendida quaedam commenti sunt mendacia^7 Ci
ftovXev ovd a 8ia xyv avxijs ano piav . ’Eirifiov- Xevelv verbum
sequente infinitivo eam potestatem habet, nt studium significet cum
insidiis coniunctum. Prorsus eodem modo legitnr in Xenoph. Symp,
IV. 52. ald^avopai yap rivaS i7tifiov\£vovtLXS SiaupSelpai
av- Tov. Adde Piat, de republ. VIII* p. 566. B. idv di ddvvaxoi
ix- fidWeiv avxov gqoiy t} dito- xxiivai biafidWoYteS xy rt
6- A ei, fiiaia) 8ij Savaza iitifiov - A evovdtv areoxtivvvvai A
aSpac. Plura huius structurae exempla si quaeris, adi Stallbanmium
ad Piat* Protag. p, 343. C. p. «d. 119* 8ia rr/Y avtrjS
areo - pia f'. Indicatur his verbis, anccXog te xcd xcdog,
olov CxXijgog xcd avftiijpog xcd cur Fenis mater esse cupiens
, e Poro potissimam concipere vo- luerit. Etenim qaoniam
ipsa, quod futuro filio daret, non habebat, ut minus olim sentiret
puer maternam egestatem, Porum, deum omnium ditissimum , pa- trem
ei esse voluit. Minus ex- plicate Schulthcssius in conver- sione
Symposii exhibuit; Nun sann Penin ihrem Mangel zn steuetn, anf die
List cet* dio 8 1 ) xal tij S 'A <ppo- SixyS dxdXovSof .
Veneris comes ac minister Eros dicitur, quod est pulcri amator, et
quod Venus pulcra est. Minus clara verba sunt yevvrjSeiS iv xols
ixELvyS yEYE$\ioiSj ad quae verba 8io praecedens spectat prae- cipue. Nam
si quis ipsis alicu- ius natalitiis oritur, non sequi- tur inde,
eundem comitem esse atque ministrum illius. Videtur autem mens
Diotimae haec faisse: Erotem Veneri ortum de- bere; nam si ad huius
natales celebrandos non convenissent dii, Peniam nunquam e Poro
concepturam fuisse. Igitur factura esse cura pulcri appetita natu-
rali, tum pietate, nt Eros se Veneri adinnxerit. uwxodTjtog xal
aoixog, %a[iai7UTrig asl uv xat a6re>m- D ros, t7cl ftvQaig xal Iv
odoig vxai&Qiog xoip.cou.Evog, t ijv tijg firjTQog <pvOiv £%av ,
dii Ivdiice. ^vvouog. xara Si av xov xaxtQu ixlflovXvg late xoig
dyu&oig xal xoig xcdoig, avSgdog av xal Xxtjg xal Ovvxovog,
&)f Qiirxijg Suvog, ad xivag xkbxav [ir^avag, xal cpQoinj- Ciag
tm^viirjxtjg , xal xuQtuog , xpiXcGoxpav 6 ut navxog xov §lov , Suvog
yorjg xal (paQpaxivg xal CotpKSxrjg' xal ovxb tbg a&avaxog nitpvxBV
oilte ag Qvtpbg, E axe ovv Ilopov xal IIs- vlaS vloS. Erotis
nator», qoa- iem sibi Socrate* effinxerat, fa- ctum est, at Porum
atque Pe- ni am parentes putaret. Inverso nunc ordine a parentum
iudolo ad blii naturam concludit, ut, quod in illis conspicias, id
con- iunctim in se habeat filius. Pro- batur igitur et his verbis,
et se- quentibus p, 203. ,C. xard 81 av xov naxepa , quod supra
an- notavimus p. 257., mythicam hanc narrationem ideo
proferri a Diotima, ut imagine quadam proposita indoles atque
natura Erotis illustretur. In sequenti- bus Erotis epithetis xal
habes quater repetitum, quod, ut molestiam quandam parat audienti,
ita epithetorum indicandae multitudini apprime inservit. ini SvpaiS
xal iv o*- dois’ vn aiSpioS xotpcope- oV o f. Paullo supra de
matro Erotis dicitor, p. 203* P- a<pi- 7MTO — xal r)v nepl
xds paSy quapropter nostris verbis ap-* positum habes trjv xijs
ptjtpoS (pv&lY 'ixatv , quae verba cave epitheti loco posita
ceuseas $ caussam enim indicant praece- dentium epithetorum.
Ceterum pro vitafa pioS , quae optimorum codicum lectio est,
vulgo ede- batur vitateploiS, Male. av 6 p eioS c ov xal
Ixrji . Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini - 6X7}jj.c*)Y>
<aV ivxai>$a. fla- verat 61 xal ini xov ixapov xal SpatieaS,
Nisi forte aliunde hoc scholion depromtum est, sane mireris verba
oJs’ ivravSa, quae rectissime haberent, si post verba legerentur:
Xapfldvexai xal. Hesychius , 1'ti/S, inquit, IxajioSy $pa6vS. rj
Xtixcop tj initixi/pav . Cum dvSptioS no- mine couiunctum legitur
KtrfS etiam Piat. Protag. p. 349. E. noxepov xovS dvSpelovS Safi-
flaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi; — Kdtl l'xaf ye t Eqnj , Itp* d ol
xoXXol qjoflovvxat iivat h. e. xal ixas ye ini xavxa , l<p’
& x . r. A. Ceterum haud scio, an non vitii aliquid in his
verbis lateat, quod xal ante tivvrovoS posito removeatur. Nam ut
se- quitur STjpevxijs 6etvo>, ita for- tasse melius habeat xal
ItrjS (SvvxovoS , quam xal itifl xal tfvvxovoSi xal
tppovi} 6ecoS iiei$v» firftrj i f xal nopipot. Rii- ckertus ad h,
1. deleto post iiti * $vpi \xrfi commata: longo , ia*
17 * , aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti rs xal %y,
orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu , itai.iv fis avapia-
CxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ie- vov a£t vzexqh,
c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e zlovttl. Oocpictg te av xal
a[ta9lag Iv fuflw idziv. quit, liaec cumDindorfio in unum,
ut haec sententia prodeat: Amo- rem et cupidum esse pru- dentiae et
ad parandam idoneum. — Astius 7 topt/ioS esse censet: opibus et
co- piis affluens; Recte 8ni- das Ttopi/ioS, inquit, 6
dvvdiv 7j htivdiav ££<»k. Quae se- quuntur verba
rpi\otio<pGJV 8ia rtavzoS tov fjiov , praecedentis epitheti
caussam continent, et ipsa epitheti vices obtinent. Sensus est
itopipoS vocabuli: der al- ie s durchsetzt, iiberall durchkdmmt,
dem u11es, vas er uuternimmt, von Statten geht. d eiv o
S y d rj S n a\ q> a p- paxevS xal 6o (pKSrjj $ . Neminem
fugiet, quam pruden- ter philosophus hoc loco vulga- res de Amore
opiniones et fabulas coniunxerit cum suis ipsius pla- citis.
Stallb, a\\ct x 6 1 e. ptv — orav e vir opi} 6ij h, t. A.
Ficinus verba convertit : neque immor- talis omnino secundum
naturam neque mortalis: sed interdum eodem die pullulat atque
vivit, quotiens exuberat, interdum de- ficit cet» Sic interpretes
ad unum omnes Platonis verba ex- plicaverunt, neque quicquam eos,
quod miror, in iis offendit. Pug- nant autem hacc verba cum iis,
quae p. 200. A. seqq. de Erotis natura dicta sunt. 'Docuit
illic Socrates s. Diotima: Erotem non esse AMOREM h. e. DESIDERIUM
nisi eius rei, quam ipse nou possideat. Iam quaeritur , qui hoc loco dici
possit 3-aAAn re xal ?,jj , ozav tv7topr}6xf. Nullus dubito, quin
pro orav evitopt}- <$rf Plato scripserit orav aito- prfoTf. Ad
sequentia autem rore dizoSvijtixei e praecedenti- bus supplendum
est '-orav et hro- pytiVf qaod supplementum quum aliquis forte, ut
fit, margini ad- scripsisset, scribarum incuria vel imperitiorum
Platonis interpre- tum industria pro aitopijdp in ordine verborum
tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo fa- cilius, quo magis in hac
re a ceteris daemonibus diisque differt Eros. Solent enim Erote excepto
omnes , quo maiorem rerum suarum evito picer experiantur, eo magis, ut cum
Platone loquar, efflorescere atque vigere. AMOR contra rerum
expetitarum potitus perit , sed paullo post rursum emergit .novarum
rerum, quas possidet pater, DESIDERIO reviviscens. 5 1 a r ifv
tov it a r pos <pv- 6 iv. Ilaec verba quid -sibi ve- lint hoc
loco, a nemine inter- prete explicatum reperio. Scri- ptoris mens
haec esse videtor: Erotem mori , ubi ea sibi com- paraverit, quorum
desiderio an- tea Eros fuerit. Quoniam antem Poros, h, e. deos
divitiarum at- que omnium rerum summae ab- t%u yctQ
aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’ Soi Coipos ytvtOftcu. tori yaQ.
ov3’ ti rtg aAAog Goipbg, ov <piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig
ipikoOoipovOiv ovb’ lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr
6 ion [ lalizov ] „d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv
fnjdi cndantiae finem non habeat regni sui , sed aliis alia
semper addat, rerumque facultates in infinitum augeat, fieri solere,
ut Eros, ubi desiderio expleto perierit, novarum reruta desiderio tangatur
at- que reviviscat* dei vitEKpei. 'VjtExpciv verbi
significatio haec est, ut exprimatur, abire aliquid atque
evanescerfe ita, ut nescias prorsus, quomodo id fiat ant quo abeat.
Apprime respondet Graeco verbo nostratium: es gelit ihm nuter den Hiinden
verloren. Schleiermachcrus verba convertit: Was er sich aber acbafft,
geht ihm immer wieder fort. «uro' yap tovto id ri
IxttXettov] ajuaSta, Haec verba non recte sc habere, iam pridem ab
interpretibus annota- tum est. Sydenhamius a/taSiqt scribendum
coniecit vel «urco Tovtgj ; illud in cod. Veneto reperitur agnosciturque
a Ticino: JJoc enim habet ignorantia pessimum, quando qui nec
pulcher et bonus est neque sapiens , suf- ficienter haec habere se
censet, Attius corrigendum vidit: amo yap tovto idn ^«Acjr ov
d/ut- x ov fit) ovtcl xa\ov naya- $ov pj/de (ppovtpov Soxtiv
au- ro ixavov, Idem etiam fyet verbis Platonis inferciendam
ceu- suit vel scribendum apaSiaS pro apaSla. Annotat Stallbaumius
ad hunc locum: Haec ne cui in posterum sollicitanda videantur
amo tovto absolute positum est, ut idem sit, quod 5i amo tov- to :
quae autem sequuntur: ro pi) bvxa — ixavov, ea per appositiouem, quam
vocant grammatici, addita sunt. — Nec Sydenhamii neque Astii verborum
medelae placent, neque satisfacit verborum explicatio Stallbau-
miana. Concedo quidem, quod permultis locis probari potest, «uro'
tovto ita dici, ut signifi- cet 81 * avro tovto, nusquam autem ita
positum reperias , ut non sequatur particula finalis. Deinde ne
Graece quidem dici videtur: auro tovto idn ^aAe- Ttdv apaSlot pro
amo tovto idn xarAftfoV ?/ dpaSia. Differt enim subiecti forma a
prae- dicato suo ita, ut illud articulo insignitum sit, hoc
articulo ca- reat. Sententiam autem quod attinet, merito quaeras,
cur de difficultate quadam molestiave rei maluerit Socrates, qcain
de ipsa re dicere? Si quid video, XolXe7Cov inutile est
otiosumque scioli alicuius additamentum, quo enuntiati facilitas
admodum im- peditur. Auget voSiiaS suspi- cionem sedis mutatio ,
quando- quidem in duobus codicibus F>ek- keri pro £aA«roV
dpaSict legitur dpaSia £« A ejcov et dpaSitt XaXEnov . Igitur uncis inclusimus
x«A ETtov , quod neque cum verborum structura satis conveniat, neque,
dialecticum acumen <Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv
ixudvfiit 8 (iij oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzae
hudttti&eu. Ttvcg ovv, %cptjv iya, to Acoztfia, o t
epiloCoepovvxts, B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot ttfiu&Hg ; Afjlov Srj
, fg np, Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i fiezal-v zovzav dpi-
q)otsq(ov, tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq dtp tcov xcd- HCzcov i)
Coepta , "Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo xakov, agzs avuyxalm
"Egaza tpilbaoepov uvae, qnXoGoepov •S respicis, quo Socrates hic utitur ,
sententiarum consecutione probatur Sensus est verborum : Dena das
eben ist ia, was vir Amathia nennen (vide annotat, p* 232.) dass
einer, der nicht schdn und gut noch verstandig ist, •ich selbst
geuug zu sein vermeint. 6i/\ov Stf , Icpyjy rovxo ye 7/677
xat xaidl. Haec prorsus conveniunt cum nostratium: das kann ja schon
eia *Kind einsehen. Utitur autem hac formula Diotima, non
tam, quod res ipsa intellecta facillima ait, sed quod, qui
praecedentia vecte ceperit, is adhibita analogia possit verum
reperire. Hinc additam habes: oov av xa\ 6 Epeo?. Saepius enim
in praecedentibus praepositis rebus duabus vera neque altera fuit neque
altera , sed tertia quae- dam, media inter utranique, re- perta
est* Anget autem narratae rei verisimilitudinem Diotimae haec indignatio,
quandoquidem et lectores Socraticam inertiam (quam care non simnlatam
habeas) non possunt non mirari. oov av xal 6 ’Epaf, Vulgo
legitur oov av xal o"E-s poDS ; quod cum nullo pacto hic ferri
posset, Brkkerus e duobus libris dedit av , quod praeter Riickertum
editores recentiores in ordinem verborum receperunt, Biickertus
autem annotat ad h* 1 . ; Ne huic quidem , inquit, particulae satis
commodus videtur locus esse. Qua re suspicatus sum , essetne Jorte
neutrum verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo ortum
ex oov, inde autem in ctv mutatum. Quapropter voculam, ut dubiae
fidei , uncis inclusimus. Frustra. Saepissime av particula ponitur in
enuntiatis iis, qnae minus accurate exposita ad praegressae
alicuius enuntiationis formam effingenda erant. Nostro igitnr loco
quoniam praecedit ori ol ptxa£,v rovrcjv apepo- xipoov, av
particula indicat, av av xal 6 "EpaS proprie sic proferendum fuisse:
per a&,v cuV xal 6 "EpooS idriv. <pi\o 6 o(p ov
6k ovxct — apaSovC. Sequitur hoc ex iis, quae supra disputata
sunt. Nimirum qui cupit aliquid, is non potest, quod cupit, idem
habe- re. $i\odoq)OS igitur, quoniam est appetens sapientiae ,
sapien- tiam non habet, neque vero ignorantiae addictas est; nam
qui ignorat aliquid, is id ipsum, quod ignorat, non appetit*
de Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K uct&ovg. alrla de
avrco xal tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag docpov Idn xai evxogov ,
fiyrgbg de ov docpijg xal dxogov. i\ ftlv ovv (pvdtg r ov daipovog , co
(pile 2?o r/.gcctsg, ccvxi]. ov de 0v wq&qg "Egeor a elvca , a
YavpacSzbv ov - C dev eituft eg. cirjfojg de, cog ifiol doxec
texficagofievj/ *£ cov dv leyeig, ro Igcopevov ''Egeor A elvca, ov
ro Igcov. dea renixu doi, o l^ca, Ttuyxcrf.og lepedvexo o
alrla 81 avt cJ xal r ov- r cdv i / y iv e 6 iS . Vide quae supra
annotavimus ad verba p. 203. C, p. ed. 259. ov Se dv cjtj
$i]S*Ep ait a tlvai, Savfiadrov x. r, A. Frustra in horum verborum
explicatione Rtickerti industria ver- sata est censentis , dv pro
uti roiovtov poni non posse; id enim Plato si exprimere
voluis- set, non dubium esse, quin scri- ptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit
autem Riickertus: Mihi co- gitationum seriem iutuenti sic res se
habere videtur, quod mi- rum esse negatur^ non esse illud
praecedentibus verbis contentum, sed verbis quidem non
expressum, humauitatis caussa, ex iis autem, quae et dixit Agatho et
statirn addit Diotima, facillimum ad intelligendum sc. ori icdyxaXoS
oo i i<podr£To, cuius erroris caussa prior error est, quod AMOREM cum AMATO
confudit. Certo sic omnia bene videntur cohaerere. Quem autem tu opinatus
es AMOREM esse, nhiil tibi mirum accidit (quod pulcherrimum
esse putabas.) Opinatus autem es — AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea
de caussa videlicet pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est
mirum), Nam cet. Semper meminerint lectores, orationem hanc tanquam
vere habitam co- ram convivis Agathonis hic proponi, ut interdum aliquid
etiam pronuntiationi singulorum verbo- rum tribuendum sit, qua
assequuntur haud raro loquentes, quod verbis positis non indicatum
est, "Ov igitur relativum ubi pro- nuntiando argetur, uti Diotimam
hoc lecisse consentaneum est, tantum abest, ut pronominis relativi
potestatem solam obti- neat, ut ei rei indicandae inserviat, de qua
praecipue agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu
orationis in pronomine relativo posito: Quod autem talem tantumque
deum esse ominabaris. Vide de hac relativi pronominis significatione
Mattii. Gramm, arapl. §, 480. 3. p. 899. seqq. Sia x aio x a.
doi, oipai, 7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr. p. 201. E. dxeddv yap
ri xal iyco itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc HXtyov , oldntp vvv rcpbs
iph 9 Ayd$cov , caS etrj 6 "EpcjS pe- yaS J9coV, eiij Se
t&v xaXcov, r 6 rcS ov tt xaXov xal afipov. Mirum est,
Stallbau- Eqcos. xai yccQ Etfw ro IguCtov tb Ta bvtt xa- kov
xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv• tro 5s ys igav aU.7jv ISiav
zoiavrtjv £%ov , oiccv lym Svijl&ov, mias inquit, istud dppov,
quod suspicor ia ayaSov esse mutandum. Neque enim DE AMORE nunc
sermo est, sed indicat Diotima in universum, quid illud sit, quod ab
hominibus soleat sum- mo studio expeti ct desiderari, videlicet
ipsum pulcrumpcr se spectatum (ro t<o ovxi xaX ov) ct quod supra
dixerat cum pulcro artissime co ni unctam esse , ipsum per se bonum.
Hinc addit deinceps xal xIXeov xal jxaxapitixdv, Non dubium est, quin
verissi- mum sit appov verbum. Quamquam enim concedi potest, pul-
cro per se spectato melius con- venire propter aute commemo- ratam
cum bono coniunctionem dyaSov nomen, quam appov epitheton : tamen
boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur verisimiliusque
videatur, quod p. 201* E. legitur, 6 o cratem idem fere de Erotis
indole atque natura Diotimae dixisse, quod Agatho supra pro-
tulerit. Vidimus autem, poetam mollitiei teneritatisque laudem
{dnaXoXTjxa') Amori attribuisse, ut verisimile «it, Diotimam appov
epitheton ita exhibuisse, ut consensisse olim cum Aga- thone
indicaretur Socrates, si- mulqne Agathonis illa sententia leviter
carperetur. Addit antem Diotima, ne qnis posito dppov nomine de
veri pulcri na- tura dubitaret , commemorarique forte indicaret
aliud quid, quam ipsam illam pulcri ideam, tiXeov et
/laxapitirov. aXXrjv i$£ar x oiavxrjv ix° v sc. i<Sxiv .
Cave dXXoi xoiovxoS confundas cum £r epoS xoiovxoS', de quo
supra diximus annot. p. 245. Sensus est verborum: Contra id, quod AMAT,
aliam naturam habet et i n d,o 1 e m atque talem quidem, qaalem ego
descripsi. ele v 8 i) 9 co xa- AoS? yap XeyeiS^
Diximus de elev verbi potestate annotat. p r 36-, ibiqne
annotavimus, hac voce uti eos , qui facile aliis aliquid concedant,
quo facilius possent illis pacatis , quid ipsi sentiant, aperire.
Non praetermittendum est autem, elev ver- bo adhibito ita seraper concessionem
fieri , ut nesciae prorsus, utrum persuasum sit necne •i, qui aliquam rem
concedit, de ipsius huius rei veritate. Hinc additum habes nostro
loco xaXcoS yap \iyeiS t quibus verbis indi- catur aperte, Socratem
Diotimae sententiam probare. Recte Fictuus verba convertit: Esto,
ut ais, hospes, praeclare enim loqueris. Non igitur audiendus est
Stallbaomius do- cens annotat, ad Piat, Phaed. p, 117, A. ed. p.
207., caassale enuntiatum , quod post elev positum reperiatur, non tam
ad $lev pertinere , qnam ad inse- quentia verba, quibus
praeposi- tum sit. Specie non caret hoc % •*
Cap. *xrv. Kdt lym sTnov, Elev Srj , « fa»j’ xcdcog yag
Hyeig. toiovtog <Sv 6 "Eqg>s xlvcc xQstav ijrK xolg
praeceptam , si ad verba respi- cis. Piat. Phaed. p. 117. A., quorum
rectiorem explicationem dedimus annot. p. 36. Restat, ut dicamas de
verbis p. 213* E. ineidi) St ■yiaxtnXivTj , ih telv * Ehv Srj ,
avSpt$ , Soxeixe yap fioi vrjtpeiv . Rursus enim etiam in his
verbis, ut supra p. 176. A* , supplemento quodam opus est, quoniam
non comparet, quorsum Alcibiadis assensionem referas, habeat autem
necesse est, quiassentitur, dictum aliquod, cui assentiatur. Neque
supplemen- tum illud diu quaerendum fuit» Consentaneum est enim,
couvi- rarum aliquos, cum consedisset Alcibiades, hominem
rogitasse: Nam liabes, qui hilariores esse possimus te praesente?
Ad qnae ille, ehv Srjt inquit, Soxelts ydp pot vtj<peiv. Possis
etiam ita rem tibi informare, ut statuas, Alcibiadem, cum
consedisset, vul- ta subtristi circumspexisse specumque edidisse eius,
qui magno alicuius rei desiderio teneatur. Quod cum animadvertissent
convivae, Alcibiadem rogarunt : Num quid est, quod minus apud nos
tibi placeat? Ad quae ille, id vero, inquit, sit revera, videmini enim
mihi nimium vino abstinere. t OlOVtOS GJV O *£pGOt' II.
Stephanus post toiovxoS inferciendum censuit 6£ particu- lam, quae res
documento esse potest, eum prorsum eandem verborum interpunctionem
habuisse, quam nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij nihil nisi
transitum denotare censeret, elev Sr/, xoiovxoS gjv convertit ; Age
iam, hospita, quum talis sit. Nos neque H. Stephaui commentum
probamus, neque Riickerti conversionem verborum laudabilem censemus.
Asyndeton autem quod attiuet, notandus usus est Graece loquentiuto,
quo post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum est, Si particulam
aliamve copulam omiserunt. Neque ratione caret hic usus lo- quendi,
quandoquidem satis constat , asyndeta gravitate quadam augeri. Ei
gravitati autem in- primis locus est ibi, ubi aliquis aliquid
facile concedit, ut ant suam sententiam celerius profer- re possit,
ut pl 213. E., aut ad novam quaestionem studiosius abeat, ut hoc
fit nostro loco, et Piat. Phaed. p, 117. A. ehv, $cprj> &
fttXxitixe , 6i) ydp xovxgov iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ce-
terum gjv participium quod at- tinet, supra annotavimus ad p» 174.
D. dp* ovv dyojv p£ ti aTtoXoyijdei , participiis ita in- terdum
scriptores Graecos uti, ut obiectivam veritatem cum sub- jectivo
loqaentis indicio coniun- ctam exprimant. Nostri igitur loci
sententia est; Si talis est, et credo talem esse, qua- lem descrip
si st i , natura Erotis: quam utilitatem affert hominibus?
av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9 , ?<p;, cJ Z*5x(>a- DTfg,
7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiov- rog wxl
ovzcsg ysyovag 6 EQag, %0 xl , oh xav xcd&v, ioc 6v qpyg. ei de ng
'tjixug Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov 10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai
Aiotipcc; c ode dh 0a- yictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ;
— Kcd riva xpelctv Ox £t * cfr. p. 201. IT dei 67 /, cJ
Uyd^ajv, &67tep 6v 8 17] y i)(5gj , 8ie XSeiv \ r av7ov
icp&xov xis ioXIV O*EpG0S ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct
itvtov. Quae sequunt u e verba tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\,
rernacolo sermone expressa au- diunt: das ist nun der zweite Punct,
den ich dir auseinaoder zn setzen versuclien will. 0 . 6 x 1
pev yap 81 } x,oiov - roS n. X. A. Socratica sciendi aviditas cum
tanta esset, ut per- cepta priori disputationis parte nimio impetu
ad alteram ferretur, id quod asyndeto expressum est : xoiuvxoS qdv o
"EpwS riva Xpciav xols dvSpanoiSj Diotima, ut impetum
illum paul- lisper retardet, ac ne inceptus ordo dispatatiouis
turbetur, ve- retis, verba adhibet: 06xi jxhv ydp 8t} xoiovxoS u.
r, A., qui- bus cum gravitate positis Socra- tes admonetur, ut et
quietius cum Diotima agat, et partes disputationis memoria teneat
studiose. Tecte autem ipsis ' his verbis carpitur Agatho , qui cum
in ipso orationis exordio recte indicasset, quo ordiue Erotis laudatio
procedere debeat, ordinem disputationis male turbavit, 7 (a\
ovxa>$ y ey ov qjS . Dindorfius , Stallbaumius ovxcoi, quam
Florentinorum librorum lectio uem esse accipimus. Sed caussam hic, cur
ovxcoS' scribatur medio in commate et sensu, non videmus. Riickert.
Iam supra annotatum est a nobis, non omnino nobis probari
praeceptum eorum, qui omnibus in locis ov- Tco ante consonam scribi
iubeant, neque ovx&f probent, nisi id verbo cum vocali
incipiente praepositum sit. Satis docemur haud infrequenti consensu
codicum meliorum, Ovxgj? etiam subse- quente consona Graecis in
usu fuisse ibi, ubi aut ipsum ovxcoS not enuntiati particula, in
qua ovxcjS’ collocatum sit, cum vi quadam proferatur. Hoc in
nostrum locum cadere nequit negari, igitur recte ovxoai servasse
nobis videmur, cfr. praeterea Stallbaumius ad Plat. Gorg. p. 516. C.
, p. 522* C. ad Protag, p* 351. B. el 80 tiS r}pa$
Opoiro. Omissae apodoseos exemplum habuimus p. 199. F. el yap
ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS avxd rovxo oitep l6xiv , 06xi xivoS
aSeXtpoS rj ov ; — $dvai el — vat f ad quae verba vide anno- tat.
p. 234. Nobis pari modo praesertim in familiari sermone loqui
licet: Wenn uns aber ie— mand friige : In wiefern eigentlich ist denn, o
Socrates und Diotima, Eros die Liebe zum Scbduen ? ich will es aber
deut- licher so ausdrucken : Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai
avtcji. ’Al\’ in no&u, iyrj, ?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv
toluvSb' TL i&tui txtivcp, <J ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw
itpijv in i%nv lyco ItQUS tttVTl]V tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS
dxOXQlVUCS&Ul. 'AI /i , itp>] , bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv ,
dvzl zov xu- E lov zcj dya&cS %Quynvog, hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6-
. das Schone liebt, was liebt dena der eigentlich? ori
Fer id $ a i a v reo . Mecum fatebuntur lectores*, se haud facile
responsuros fuisse, si Diotimae illa quaestio sibi pro- posita
esset, quod Socrates re- spondit, mirarique licet, Socra- tem, cum
alias fatuitatem quun- dam simularet, ut et infantem ca videre
posse Diotima censeret, quae ille non videre se simula- bat p. 204.
D. , tam feliciter ac subito respondisse. Sed quae- stio Diotimae
revera facillima est ad expediendum, si ipav verbi potestatem
accurate per- pendas, et si accentum orationis non in xi ponas ,
sed in ipet verbo. Diximus p. 69. de ipav et <pi\tiv verborum
discrimine, illud viris hoc feminis atque amasiis attribuimus.
Atque ut illic annotavimus , (piXelv eorum tantummodo esse, qui
capi se ac teneri patiantur, ita h. 1. adden- dum est, ipav non
nisi eos di- ci, qui capere atque tenere concupiscant. Haud multum
igitur differt ipav ab ixiSvpeiv; tan- tum modo ab eo discrepat,
quod, qui ipav dicitur, h, e. stadio cupiuudae alicuius rei teneri,
is virili robore gaudere cogitatur atque viribus, quarum
auxilio possit, quod amet, eo potiri, cfr. p. 200. E. xal ovro? apa
xoii «AA oS itaS o ixi$vpd>v tov prj ktoipov ini$vpel xal roO
pij i rapovroS xai o pj/ £*« xal 8 )i?) icJnv avcoS xal ov
ivdeyS icriv , rotavi* arra itiriv, cov 7j lxi$ v pia te xal 6
"EpcoS iOziv. a A A* ixi xo$ei, £(pij. Bodi.,
Vat., Vindob , Angel. ha- bent «AA* ixixo$il. ceteri d\X* _ 7
... i iri XO$ti. Hoc praestautius illo est. Suspicor tamen ,
quod et Riickerto in mentem venit, utram- que lectionem
coniungendam esse Platonemque scripsisse: aAA*^ri ixixo$Ei f
praesertim cum lega- tur in Piat. Protag. p. 329, D. rot>r itirtv
, o in ixixo$<» f h. e., das ist es, was ich noch hinzuwunsche.
Paullo infra p» 205. A. xal ovxin x poSvei ipi<5$ai x. t. A.
Ceterum x o- $£iv s. ixixo$Eiv de rebus in- animatis dicitur, ut
i$i\etv 9 fiov\e6$ai , (fiiXeiv, ut vis quae- dam describatur rebus
illis iu- habitans, quae cum instinctu ani- malium comparatur.
Diximus de hoc usa verborum annotat, p. 144. < oSxep
av ei tiSp.£ta- fia Aalv. llecte Ficinus parti- cipium convertit:
mutatis vo- cabulis. Nimirum cum p. 201. C. concessum esset ab
Aguthone, pulcrum idem esse atque bonum, in pulcri locum substitui
iubet Diotima bonum, ut Socrates, cum viderit, quid futurum sit ei,
qui bono potitus sit, deinceps dicat, i TCQceas,
6 iodv tav dycc&eiv zL Iqu-, — rtvio&ai, r\v d' iya, aurei. — Kal
n ttizcu ixtiveo , « av yivryzai 05 V nycc&cc; — Tovz’ evzoqcotcqov
i]v d’ iyio, 'tya dn o- y.QivaG&ca , ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi
yag, leprj , dya- &cov oi EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi
ngogdei .tQiG&cu, ‘ "Iva xi di pwltzai svSalficav sivai 6
(iovXu- [ttvog; cilia zU.og do xtl zyziv r/ dnoxQKSig. — 'Alrftrj
liyug, linov lyde. — Tavzijv dij zijv (iovlijdcv y.cd zov quid ei
eventurum sit, qui pul- cri facultate gaudeat. Ceterum cur hoc loco
aofisti participium probrmus, p. 174. B. nou nisi praeseutis
participium admiseri- mus, ratio in propatulo est. Il- lic enim de
actione, quae lutura sit, agitur; hoc loco conditiouale enuntiatum
habes, in quo exem- plum continetur, quoil noti tan- quam fiat,
proponitur, sed quasi factum revfera Socratis animo inducitur,
2tnx paxeS, q t{>VY rcDY dy aS ojy . Haec est unius Bekkeriani
codicis le- ctio, quam et Bekkerus et Stall- laumius in textum
receperunt; undecim ' codices apud eundem habent (jcoKpaxtS i pii o
ipcov, in uno tiatxpctref ipd iptor comparet. V ulgo 6conpaxeS
ipcj p ipGOY legitur, quod Rticker- r tus iu textum recepit
convertens: Feriude ac si quis mutatis vocabulis roget ^«ic,
age Socrates, dicam, qui amat cet. Epeo autem ea de caussa non
spernendum censet, quod iu familiari sermone sae- pius dicendi
verbum praeter necessitatem mediis verbis iuscratur. Sed illud
praeter necessitatem minime nobis p lucet ; vide annotat, p. 249
neque ipeo ad dicendi genus revocari potest , quale est p. 202* C. 7
<ou iy<o funoY , n&S rovto , i<ptjv , \iyetS ; quae
sententia Ruckerti est. Nara ut ne commemorem quidem, quod Ipeiv
nusquam inseritor hoc modo, sed (pdvai verbo scriptores semper
utuntur, etiam prima persona ipeS verbi, quae in tertiam mutanda erat,
Riickerti sententiae officit. Postremo ridiculum fo- ret , inserto
dicendi verbo ipsa alicuius rerba indicare eo Joco , ubi
praecedentibus oaSlttp av ei verbis satis demonstratur, certi
alicuius hominis verba non afferri. Restat, ut dicamus, qui factum
sit, ut in tara multos codices ipeo verbum irrepserit. Scribarum aliquis
cum iutelligeret, bono in pulcri locum sub- stituto eandem quaestionum
se- riem nunc repeti, quam iu prae- cedentibus Diotima Socrati
pro- posuisset , atque verba o ipcov jcov ayaScov xi ipd
apprime respoudere praecedentibus o’ ipdjv Tcoy xaXcov xi ipd ,
factum est, cum alteram quaestionem cum altera compararet, atque
illic ipoj praepositum reperiret, nt id verbum vel negligentia vel
im- perita quadam sedulitate iu no- strum locum transferret.
HXtjdei yap oi evdai- iQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV tXtt
tlVtXl ItUVTOV (IV- ftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig
arca Kfi , ij nag liyug ; — Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai
navTCJV.TL 8rj ovv, Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag egav (pttfilv, si 'juq
ye itavTf g twv avrav £qg>Oi xal B ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d'
ov; — 0avfiaia i, f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit]
&av(iat;’, Stptj’ cttpe- Xovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos
6vo(ii£o[iev xo lioveS . Haec Terba ita conformata sunt, at Etprj
non addi- to ea facillime putare possis uon Diotimae sed Socrati
aduume- rauda esse. Neque opus est, ut affirmandi vocabulum
supplen- dum censeas, ad quod yap re- referatur. Diotimae verba
ar- ctius cum praecedentibus coniungenda sunt, ut perinde esse indicetur,
quis dicat, Socratesue an Diutima, modo veritas dicendo eruatur.
Iluiusmbdi dicendi ge- neris permulta exempla aperiuntur. cfr. p. 200. B.
dp’ ovV fJovXotz* dv x is pfyas cdv jti- ya? elvai, ij idxvpoS wv
idxy- poS ; f A8vvaxoy ht xcdv cJ-
s poXoyjpuvojv. — Ov yap z ov ivSei)? dv eiij tovtaov o ye
&v. Piat. Gorg. p. 492. E. 2?. ovx dpa opSoHS Xtyovtai ol
pi]8e- voS deopevoi evSaipove? elvai . K. ol A i$oi yap dv ovtao
ye TiOLi ol v ex pol evSaipovidxaxoi elev . xv a x i de
(i ovAet ai. Di- citur ira xi ilermauno annotaute ad Viger. p. 849.
per ellipsin. Plene, inquit, in constructione praesentis temporis
iva xl yivrj- xai , in constructione praeteriti Hva xi yivoixo.
Sclileierma- macherus verba convertit: Und hier bedarf es nun
keiner wei- tern Frago mehr , w e s ha1b docli der
gliiclcselig sein will, der es virili. Haud facile verna- culam
dictionem reperias , quae Uva xi verbis respondeat. Cete- rum ut
recte huius Idci senten- tiam percipias, (iov\E6$at et hic, et
paallo infra ftovXl]6i5 nomen ad significandam eum vim, quae hominibus
innata est atque cum oatu- ra eorum couiunctu, adhibetur : der
Trieb. Vide qnae <1& fiovAeOSai verbi potestate, atque
quomodo id differat ab iSeAeiv , diximus p. 44. Igitur xo
fiovke6$at tvdal/tayv ELvai caussam primariam describit studii
beatitudinis, ultra quam caussam progredi ne- mo possit.
xi 6l) ovV. Sententia liaec est: Si omnes homines eiusdem rei,
h. e. beatitudinis sempiternae AMATORES sunt, mirum videri potest , cur
alios amare dicamus, alios non dicamus. Sed expli- cator hoc eo,
quod a notione xov ipdv seiungimus partem ali- quam, qua pariendi
et generandi studium exprimitur, idque xov ipdv atque xov
"EpcoxoS verbis insignimus , aliis nominibus ad ceteras tov ipdv
partes de- scribendas utimur. xiv ds q> apev — xov?
8* ov. Scriptura exspectaveris xov? ) uev — xov? 6 ov .
Positum tov oXov htitiXtivng
ovo/ia rpcorce , ta Ss &XXa aX- Xots xaTayguixs^a ovofiaGiv.''SlgxEQ
rt; ijv d’ lya. — "SlgittQ tads. oiO^ oti itolrjOig iori n TtoXv. ?;
yag ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg TU OV loVTl OTlpOVV ahtU XatStt
iGtl jioir\Gig , «gr£ xal cd vno xaScag rafg rlyyai g C igyaoiai xoujtiu
g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi itav- Tig itoitjzaL 'AXiftij Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij,
olo&’ autem habes pro TovS jiev, qui- bus verbis uequa
conditio prio- ris atque posterioris membri in- dicatur, TivuS, ut
lector monea- tur, pauciores esse, qui amato- res et amare
nominentur, inulto plures, qui et ipsi amato- res sint, aliis
nomiuibus in- signiri. dtp e\oyt e £ ydp d p a. In
permultis codicibus dpa omit- titur , velut' in Bodleiuuo, Vati-
cano uno, Vindob., aliis. Rectis- sime Riickertus ad b. 1. : Aeger-
rime, inquit, caream dpa parti- cula, qua id efficitur, ut senten-
tia haec non . pro certa et ex- plorata ponatur sic simpliciter,
sed colligi tantum ex aliis vi- deatur hunc fere in sensum: si
recte ego observavi, noiqGis s6ri r i 7toXv h. e. scis id,
quod itotydiv voce- mus , latioris significationis esse notionem (
ein weitschichtiger Begriff). Quicquid euim, cura nihil fuerit
antea, post ita mo- vetur, ut sit aliquid, huic caussam ortus fuisse
dicimus noit}6iv. Apte laudant interpretes ad h„ ]. Piat. Soph. p.
219- B. ritiv dreep dv prj npoTepdv TiS uv vtizfpov ds oixuiav dyy,
tov /ikv dyovxa noielv , t 6 dyo- jaevov 7toiei6$ ai tcov tpapev
. Rodem modo, quae latissimi signi- ficatus verba sunt,
adhibentur a nobis ita, ut certum quondam, eamque artioribus
finibus circum- septam -actionem exprimant. Sic dichten de arte
poetica, w i r- ken de textoria, handeln de mercatura usurpari quem
fugiat? it oirjtiiS ydp tovto po- yoy. Ad tovto repetendum
est e superiroibus ro 7(Ep\ r ijv jnovdl - W/v xai td fihpa. In
sequen- tibus exovteS tovto eodem sup- plemento opus est, quod ne
mi- nus convenire censeas cum £ xoy - rtfparticipio — poetae enim
non habent id, quod dicitur ro' 7tepi tjjv f. iov6iw)v H. r. A.,
sed eius periti sunt ita, ut in carminibus paogeudis eo utantur, —
tenen- dum est: Ix&v verbum haud raro idem significare atque
cogni- tum habere, ea de caussa, quod qui aliquid animo
percepit atque ita mente tenet, ut eo recte uti possit, idem id
etiam habere dici possit commodis- sime. ovtgj Toivvv
Tiai rtepl Tov £p G>xa. Haec brevios sunt dicta, non item
obscurius. Diotimae mens haec est: Quod de poesi modo dictum est,
idem in amorem cadit. Poesis pro- prie de omnium rerum caussa
efficiente dicitur, sed usu loquendi factam est, ut pQcseos nomen ou
ov xcdavvTM n oirjrctl, alia alia tyovGiv ovo fiam aito 6s TtnarjS xijg
itoirjGsag %v (toQiov ucpoQia&iv rb jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa
fiixQci x ra xov oAov bvbaaxi xCQogayoQtvixca. noi^Gig yag tovxo (tovov
xaltixca, xal o t k'%ovx£g xov to x b uoqlov xljg noitjGtag
noirycai. — kiyug, ttpijv.Oura xolvvv xal niQi xov Squtk ' xo
jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov aya- D noii niii ad eam
poi-seoa parti- culum describendum adhibeatur, quae in re musica et
metrica versetur. Iam ad verba acceda- mus to fihv xEtpaXaiov —
ipoaS Ttctvziy quae ad hunc usque diem interpretum studia misere
eluse* runt. Stallbaumius expungenda censuit verba o piyidTof te
xal 'HoXepoS SponS itavxi. Riickertus contra se ita semper
sensisse annotat, quoties vel secum hunc locum tractaverit, vel cum
aliis, miro eum ornatu spoliatum iri, si vel una hic litterula
sublata aut mutata foret. Recte igitur Lticiauus ait epigr. V, v.
3. An- tholog. Iacobsii T. III. p. 22. * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui
SiaxpiSov idn voTjfia, aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt
kxepoidt yiXaS, Ratio verba tractandi, quae Stallbaumio placet, ut
audacior, ita miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam
plane non perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam,
quae in eius annotat, ad h. 1. p. ed. 169. leguntur: Quod vos de
ve- stro soletis Amore praedicaro , maximum deum esse et
callidissimum, qui neminem non deci- piat y id multo valet magis de
beatae vitae cupiditate, qua omnes omnino homines velint nolint
plane irretiti sunt du -* cunturque naturali quadam ne- cessitate
non aliter , ac si magi- cis artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra
p. 203- -D. $£tvof yoyS xal tpappaxEvS xal do- q>idTtj$ audit. —
Diolimae volun- tas haec est; Loquendi usum ut in poesi, ita in
amore nomine insigniendo versatura esse, atque amorem et amare et
nomen amatorum iis tantummodo tri- buisse, qui amoris particulam
unam sequantur. Summam autem amoris omnem bonorum cupidinem
esse, atque beatitudinis quidem cupidi- nem esse maximum
doXcpoy) amorem (iravtl). Vides igitur, to /xk v xEtpaXaiov et tov
sv- baipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sub- lecta enuntiati e$e.
To XEcpd- Xaiov autem primariam alienius rei notionem describit ut
in Piat. Gorg. p. 453. A, hiystS , otl izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv
?/ fnfxopixi } y xal 7 } 7tpaypaxdot avxijS aitada xal to
xecpdAai- ov eIS tovxo TEXevxa h. e. Stalh- baaraio interprete :
dicis rheto- ricam esse persuadendi opificem omnemque eius operam
atque summam ad hos tanquam ad finem suum referri, ut aliis per-
suadere possimus, quod volumus. Iam nostra verba convertenda sunt:
Der Grundbegriff &av hiitivula xal tov tvSaipovsiv , 6 lilyctitog
re xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot fiiv ciXbj
rgexofiivoi. ltoX}.a%rj in’ avtov , rj xaxcc xgr^auGfiov tj xaxcc
qii- }.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav , ovt’ igav xaXovv- T at,
ovt IgaGtai , oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai IcSnovSaxoTig ro tov
oXov livocia ia%ov<Uv , agaxd re xai iQuv xal igccGzaL — KcvSvvevus
dh]&rj Xiyuv, hcpijV lya. — Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos,
co$ der Liebe ist iedes Stre- ben nach dem Guten, and
das Strebcn nacli dem liochstcn Gute, d. i. nach Gliickseligkeit,
ist die grosstc Liebe. Restat, ut dicamus de verbis xal
doAepoS — TtOLVXly quae nou dubium est, quin corrupta sint.
Antiquitus scri- ptum fuisse suspicor: KAIKOI- KOCEPflCTIANTI, in
qua scriptura tripliciter peccatum est a librariis. KOI enim, quod
haud fere multum discrepat a KAI , omissum videtur ab cq esse,
qui xai dupliciter posituin putaret. Hinc enata est, cum forte,
ut fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC duplicaretur, haec scripturae
for- ma: KAI NOCE mCErflC ITAN- TI i ex qua dictum est, una
li- neola in littera N deleta, ut non nisi A figura remaneret:
xal Sodtpt HpGDf Tiartl. Ex hoc autem sciibam aliquem, qui
callidum Erotem sciret, fecisse verisimile est xal doXepof ipoot
itavxi. Ut autem couiecturam nostram xal Xoivds^EptoS itavxi ipsi
probemus > praecedentibus verbis efficitur p. 205. A. rort;- t
7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov i p cata tovtov itotepa xoiyoy oi n .
etvai izdvrayv dv^pcjitcov xal navtaS xayaSa fiovAeoSai avtolS
tivai adi, ?)' tzcjS Ae- yeiS ; OvtcoS , jjv d * iyco et
quae sequuutur, quibus verbis accurate examinatis doceberis, nostro
loco xoivvS nomen vix abesse posse. In Schleierma- cheri
conversione legitur: Soauch vas die Liebe betrifft, ist im
allgemeinen iedes Begehren des Guten and der Gliickseligkeit die
grossle und heftigste (?) Liebe fiir ieden. Iu Schnlthessii conversione
edita ab Orellip p. 123. exstat: Im Allgemeinen niimlich ist
iegliches Yerlangen nach dem Guten und nach Gliickseligkeit fur
iedeu die grbsste, ihn bestrickende Liebe* Ficinus verba
convertit^ Nam summatim quidem omuis bonorum felicitatisque
appetitio, maximus et insidiator amor est cuique. aXX*
ol p\v ot-Wy x. x. A. UAXd particula adhibita, a rei
commemoratione, qualis revera est, ad loquendi usum traositur, quo
non res integra suo nomine vocatur, sed rei alicui parti in-
integrae rei nomen attribuitur, cfr. p. 204. A. £n. rl 8if ovv, gJ
^GonpaTtS , ov izdvxaS ipdv (paptYy eh zep ye itavxeS xcav avtaiv
ipcAoi xal ael } dXXa xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de
indole atque naturali quodam instinctu dici— ot av to
SfoutSv iumav fyjTuGiv , ovroi IqucSiv ' 6 6’ E ifiog koyos ovxs ^fiiaeog
<pt]6iv ilvcu tov £q(otcc cirts olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m
Itcciqe, ayaQov ov' ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv
axo- t tftveiS&ca ot «v&qcjxoi , iciv avtoig doxjj r a
iavtav XovtjQa efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona-
£ovtai, tl fit] i'i ng to fiiv aya&ov olxtiov xaXil mi eavtov, to 61
xaxov akkotQiov. ag ovdiv ys aUo tor, at p. 191. E. udat Si
tdcrv yvrauaSy ywaixoS d- (5iv y ov Ttavv ctvxai xols
av~ Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv, d\Axx pctWov itpoS xaS yvval
- xaS xexpajupivai eidlv. — Pro ol ptv a\Ay vulgo legitur non
male oi ptv aWoi f quae scriptura quoniam codicum opti- morum
auctoritate improbatur, e verborum ordine expellenda est. Minus nos
movet Ruckerti ar- gumentum dicentis, ol piv et ol Si sibi opposita
esse. Quem enim fugiat, praesertim cum ae- qualitate quadam
careaot, oppo- sitionis membra interdum ver- borum numero et
conditione non apprime sibi respondere. xal Xeyexai jxiv
ye, Miv ye particularum cognove- ris vim et potestatem,
qnando xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai ye seorsim utrumque
posueris. Altera particula efficitur, ut Dio- timne sententia
hominum quo- rundam opinioni opponatur, qnam Aristophanes protulit,
al- tera vis oppositionis augetur at- que extollitur.
ovxot ipaititv. Saepias iam diximus de transitivorum verborum
usu absoluto, cuius ea natura est, ut casu adiuncto nul- lo non
actio quaedam, sed no- tio prematur verbi. Positum igitur
hoc loco habes ovxot ipadiv pro ovxot IpcovxiS \tidiY, Ceterum
Wolfius anno- tat ad h. l.j Was Aristopha- nes liber die Trennung
derMen- schen sagte , wendet Socrates hier zu einer ernsteren
Absicht an. Alles , was iener vorge- bracht hatte, beruhte anf
einem falschen Gebrauch eines Aus- drucks, der damals beinaho
spriichwortlich gewesen za seia scheint, dass Liebhaber ihre aa-
deren Ilalften aufsuchen. &itel avxcvr ye xal no- SaS xal
xelpaS x. r. A. Do iitil potestate vocabuli supra di- ctum est
annotat, p. 151. Ce- terum adhibito pedum manuum- que exemplo, qnas
sibi abscin- di iubeant, qni illas non bonas esse cognoverint,
Aristophanicao orationis argumentum concidit* Fieri enim nequit, ut
dissecti homines tanto ardore, qnantom Aristophanes descripsit,
alteram sui partem expetant, cnm et ex altera, cuius ipsis potestas
sit, exscindi patiantur, quaecunque vel mala sint,, h. e.
morbosa et doloribus afiecta, vel ad usum parum idonea.
ei / 11 } ei rtf. De ii par- ticula post ei jujj repetita
M&t- 18 206 i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov
aynftov. rj dol 80- xovdr, — Ma At ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. — *Ag
ovv> y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri Xeyeiv, ori ot av&QGMot
tov i fcc&ov igcSac; — 2 Val, Zcprjv. — TL de; ov
XQog&et&ov, iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg egco6i ;
— IJpog- &8TSOV. — r Ag ovVy %<p*h xcu ov (tovov eivai ,
akka ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo itQogftexiov» "Edtiv
thiaens egit in Graram. ampl. $. 617. d. p. 1249. , obi laudan- tur
Thucydides I. 17. inpa- %Sjf di z* ctvteHv ov6\v ipyoY dZioAoyov ,
ei fit} ei xi npdt tteptoiHovS tovS avtdSv kxd- OtoiS. Piat, de
rop. IX. p. 581. 1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyv- piov Ttoiei.
Prorsus eodem modo Latinis id usu est nisi si. Ditfert autem el fit
} ab ei fit/ el Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi exceptionem,
quae ad id refertur, quod sequentibus verbis expres- sum est; el
fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne conditionem
quandam subiuugi, ut si nliquid fiat aut non fiat , exceptionem re-
vera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot, jj tov dyaSov. Aliquot
li- bri ol dv^pamoi, Sed non opus articulo, cuius omissio
admodum usitata est in eiusmodi vocabu- lis, qualia snnt dvt/p ,
d8eA(pot f yvvtj t yij , alia, quum de genere posita sunt. Stallb.
De genitivo, qui in verbis continetur ?/ tov aya&OV Mnttbiaeus
dis- seruit in Gramm. ampl. $. G31» 2. p. 1299., ibiqnc ?/ r ov
acya *' 3ou positum esse monet pro t) tq ayaSov. —
Nominativum incepta verborum structura exi- git quidem, sed cave,
tov aya- $ov minos recte habere censcaa aut loqueudi usui
parum accom- modatum. Nam verba, quorum ter- minatio ad
praecedentium verborum structuram conformanda sunt, loquendi usus iubet ,
ubi duplex structura in praecedentibus re- peritur, ad eorum verborum
stru- cturam accommodari , quae vi quadam praecipue emineaut.
Cum gravitate nutem h. 1. dictum est ipaidiv , quandoquidem nou
de actione verbum accipiendum est, sed de efficacia notionis ,
quae verbo finito expressa est. Vi- de de liac verborum
transitivorum potestate annotat, p. 59. Positum igitur est ov
ip&idv arSpooTtoi pro ov ipadrai el- 6iy ar^pooicoi. Ad
geuitivum autem relativi pronominis, cum deberet proprie ad verba
d)S ov~ 6iy ye dXXo Idxiv referri , re- latum censent interpretes
i/ tov Ctya^ov. Recte, Possis fortasse t/ cum genitivo etiam ad id
di- ceudi genus referre, quo ponitor haud raro praecedente
aliquo comparativo ?/ cum genitivo, cfr. Mattii. Gramm, ampl. §.
450. 2. p. 844. t ) 6 vi 6 oxovdiv sc.dAAov TtvoS
ipadtai eivai i/ rovxov. Tf vulgo edebatur olim , quod primns fuit
Astios, qui in y mu- tandum censeret. aga fcuZAyjldi/v , fqyij, 6
1'gog rov to ayccdov avxw elvai de L 'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw ,
liyet-g. Cap. XXV. "Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g
eOxlv, rj 6’ i}, ruv riva, xqo- B xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei
tj Cxovdrj xcd ap 9 ovVy rj 8* 7/ 1 ovroaS anXovv, Vulgo
legebatur i/6rj pro 7} 8* rjt quod Bekkero debetur. Illud potest
ferri quidem, sed hoc non dubium est, quin sit rectius atque
verius. OvtooS ditkovv est: non addita accuratiore definitione, tam
simpli- citer» Non perinde est autem, utrum praeponatur an
postpona- tnr ov^goS vocabulum verbo, ad quod pertinet. Ubi
postpositum est eidem, ovtooS ad praeceden- tia verba respicit
signiilcatque .* hac, qua diximus, ratio- ne; contra suo verbo
praeposi- tum , quamquam illum signifi- catum non amittit, tamen
notio- nem aliquam adiungit, quam du- bitativam interpretari
possis» Eo nimirum animo est, qui ver- bis ovtgdS aitXovv utitur,
ut qui aibi rem non plane probari indicet. Hinc mireris simplicem
Socratis assensum val, £<p7jv 9 qui documento est, Socratem fa-
tuitatem quandam simulare, de qua supra diximus annotat, p.
262 . xal ov jiovov elvai t exXXd xal ael elvai. Vulgo
ctXXdc oiel elvai legebatur omisso Hod vocabulo, quod hb iis dele-
tam est, qui putarent, xal iam in praecedentibus positura esse xal ov
povov elvai. Frias istud nui autem non du- bium est, quin ad
totam enun- tiationem pertineat, additumque sit, ut significetur,
aliquid, quod in praecedentibus contineatur, hoo loco repetendum
esse, ut exple- tior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf ov xal
7tpo6Seriov a ov povov elvai y aXXa xal dei elvai .* Di-ximus supra
annotat, p» 74. de ov povov — dXXa xal et oi * povov aXXa.
Hectissime autem Stallbaumius ad li, 1. ov po- yov — aXXdj^ inquit,
omisso xal Tion nisi iis dicitur locisy quibus alterum orationis
mem- brum tantam habet vim et gra- vitatem, ut quod in priore
mem- bro dictum erat , id corrigatur et quasi prorsus tollatur
. ore dr) rovrov o $pv)S idriv. Additur vulgo dei post
ititiv , quam voculam suspicor eidem deberi, qni p. 204- E. scripsit
$epe, cJ ZSoZxparef, ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide annotat, p
268. Explicabilem tamen voculam censuit atque iu ordinem verborum
recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro, quod Bastio praccunte
editores fere omnes' iu rovrov immuta- runt, probavit annotans ad
h. 1. Dejendi librorum structura posse videtur . Quamquam enim
quid vulgari in usu rebusque humanis amor vocetur , nondum
est probatum , tamen quid esset , 18 * jj Cvvradiq egas Sv
xctXoito ; tl tovto tvy%dvu ov r o £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v
<5s, Bgnjv iya , ut AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav
tcuqu ai avta tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J,
iQu>- lati yciQ tovto tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal
xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus , tjv 8’ iyco, SsCtat o tl affatim
docuere, quae praecedunt. Si igitur statuamus huiusmo di hic Jieri
• transitum: quandoquidem AMOR hoc est sernper (bonorum sc.
sempiternae possessionis appetitio), age iam quid vulgo AMOR appellatur ?
quis est , qui reprehendat? At hunc ipsum sensum verba fundunt , si tovto
legitur ♦ Becte tovto lUickertus retinuisse videtur, quamquam minus
recte enuntiationis totius sententiam explicavit. Non enim comme-
morata erotis natura quaeritur, quid vulgo amor appelletur, sed a
theoria, quam vocant, erotis ad praxia transitur ita , ut cui
studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis nomen conveniat, Diotima sciscitetur.
Ceterum perinde est, utrum dicoxov- toov avto scripseris , an
8icd- xovtcov ccvtov y adest enim in praecedentibus, quorsum
utrumque referri possit. Vulgatum hoc est, illud codices optimi
praebent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est, quod sane
Sigjxeiv commodius ctyn re aliqua, quam quis persequitur, quam cum
Erotis nomiue con- sociatur. rt tovto tvyxaY&i <> v
ro tpyov ; txeiS elrcelr; Post tpyov interposui signum
interrogandi, quo maiorem habe- ret oratio vigorem et alacrita-
tem, Qna in re secutus sum au- ctoritatem Heindorfii ad Piat. Charmid.
p.l62.B. nbi haec leguntur : tl ovv dv elt) nort td rd tav- rov
npdrteiv; txetS dnetv ; In- fra p. 207. B. rd Sc Sijpla r/S ahia
ovrutS iputnxutS SiariSe- 6$ai ; A tyciv ; S t a 1 1 b. ov
pevr’ dv di, tcppv lycd, ut dioripa, iSav- pa^ov irci dotplqi. De
al- tero conditionnlis enuntiatiouis membro omisso vide quae
supra annotavimus annotat, p. 242. Ceterum Graeci accuratiores
quam nos Savpapeiv riva irci rivi dixerunt pro Savpd&iv tl
n- voS. Illius structurae exemplum est Tlat. Menon, p. 70. B.
co Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol evSdxipoi rjeav iv rois KAA 77
- Qi xal iHavpdSovio iip’ In- mxy re xal nXovrut, vvv St, cos
i pol Soxei, xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum frequentati- vum est,
atque ire et redire significat, cfr. Plat. Critou. p. 43- A.
SvvifiqS t/Sij pol idrty, ut 2utxpateS, Sia rd no XX a - XIS Sevpo
qtoitdr. Hinc solenne est de discipuli» scho- lam frequentantibus.
Iam expendas Socraticae modestiae acumen , quo ille etiam alias haud raro
utebatur, ut sententias alio- rum facilius eliceret. Diotima autem
missis ceteris verbis, quae ad rem non pertinerent, quasi nihil
aliud, quam ovx olSa iyat- ye Socrates dixisset, trAA iyut iput
respondit. xors Xlyeis, xal ov fiav&ava. — 'AIX' lya, y 8’ i}, Oatpi-
C Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w Xaxqcxxes, narres av&qaxoi
xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl» , xal baiSccr Er rivi j/Atxta
ytvcavxca , rlxreiv badvpsi rpiav rj < jniGig . xixxtiv d"s iv
fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h rcy xaltS. xal ov par Sarto.
Inter- dum Graeci, quae per caussalem particulam proferenda erant,
co- pula adhibita cum praecedenti- bus coniunxerunt. Sic hoc
loco pro xai ov pavSava) , quibus verbis caussa continetur, cur
di- cat Socrates pavxsiaS delxat, o ti 7tote XlyeiS, ex nostra
certo Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum exspectaveris: ov
yap fjiavSttVGd. Exempla non rara sunt huius dicendi osus. Unum ut
aderam, in quo vis illa xal vocabuli praecedentis verbi significatu
tectiore panllisper ob- scurata est, legitur in Plat. Lachete p. 194. c.
22. 2. jjxovtias, do AapjS ; A.*Ey<oye* xal ov (jtpodpa ye
pavSdvcj D Xfyei, quae verba rectissime explicata suut a Ribbekkio
, quem Engel- hardtus laudat ad Lachct. p. ed. 60. Annectitur , ille
inquit, ov yavSavcj ver iis fycoye axtjxoa non ut oppositum, sed ut
effectus, Minus id quidem sentitur, quia negativum enuntiatum
sequitur , sed inest ei affirmativum • Sav- paZoo (ov ydp pavSdvGo
o ti Tfyti) Sic nos optime diceremus: Ia ich habs gehort und
wundre inich , wie er so etwas sagen kann. Displicet in hac
verbo- rum explicatione uuum hoc, quod affirmativum verbum
negativo enuntiato inessc dicitur. Illud 3 « vfictdjiiv inest potius
iji Socratica interi ogatioue i/HOvdaS', co Aaxqti quae verba
8ocratfcm protulisse consentaneum est vultu summam Critiae
admirationem exprimente: Eodemne, quo ego, o Laches, stnporo
atque hominis admira- tione verba haec audisti? Cui ille, audivi, inquit,
nam haud aeque, quid sibi ve- lit, i ntelligo. tjpdov
rj tpvdif, Cum prae- cedat itdvxeS avSpaoitoi, scri- ptum
exspectabas avxcov rj <pv- <5iS. Nihil ad hunc locum annotatum
reperio ab interpretibus, ut mirer, neminem in verbis rjpdtv 7 )
tpvdiS offendisse. Schlcierma- cherus verba convertit : Alie Menschen
namlich, o Socrates, sprach sie, sind fruchtbar sowol dem Lei- be
ais der Seele nach, und wenn sie zu einem gewissen Alter gelangt
sind, so strebt unsero Natur zu erzeugen. Mitigata est Platonicae
dictionis durities Ficini couversione hac: Omnium, o Socrates, hominum
praegnans et gravidum corpus est, praegnans et anima; et cum primum
ad certam aetatem per venerimus (ysvcjy- XOLi ), parere 'nostra natura
cupit, Illam duritiem, quae mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item
excusata, quo- modo ego excusem , non habeo, nisi fortasse in
6crmone familiari , qualis hoc loco refertur, dicendi quamlam licentiam
at- 'r 'H yag avSgog xal
yvvruxbg Svvovala roxog idrlv, ?<m da tovto &uov to ngdyy,a , xal
tovto Iv &vrjrc3 ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ , t/ xvrjdtg xal rj
yiv- vrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai.
D avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip , ro di xalbv
dgjiovcov. Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam
concessam esse credideris. ?/ ydp avtipdf xal yv- vaiHoS 6vv
ovdia xoxof Itiriv. His verbis adeo offensi sunt Astius et
Ruckertus, ut de- lenda censueriut. Hiickertnm audi annotantem ad
h. 1« : Verba haec qui legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam
ha- beat, non potest is aliter existi- mare, quam unicum Platoni
eum amorem esse, qui utriusque sexus mutua consuetudine contineatur
, Neque enim aut praeter cetera hunc quoque significat
partum esse , requireretur tum xal semel vel bis positum, aut
primum se hunc amorem tangere velle indicat, ac deinde de ceteris
generibus, immo in sequen- tibus de universo amore agit ita, ut
nihil in praecedentibus de singulari quodam eius genere dixisse videatur.
Atque Plato tan- tum abest, ut solum illud com- mercium amorem
putet esse , ut in hoc ipso congruat vel maxime eius Tatio cum
ceterorum Grae- corum ratione , quod nec solum existimat , nec
potissimum hunc amorem immo ad vilius hominum genus eum putat
pertinere. Haec verba licet habeant aliquam speciem veritatis , tamen non
ita nobis persuasit V. D. , ut cum eodem verba delenda
censeamus. Neque probumus, quae Stallbau- inio placuit, verborum
'explica- tionemhanc: Nam nt primum dicam de viri mulierisque
coitu, is nihil aliud est nisi ToxoS, In quo protecto cernitur
divina quaedam vis, ut hominum genus propagetur atque nanciscatur
im- mortalitatem. Diotimae mentem verba declarant xvovdi ydp
itdvreS avSpcoitoi xal xara ro deupa xal xard tt)v iftvxVYy quibus
aperte indica- tur, disputationem de partu in duas partes divisum
iri, atque in altera parte de corporis, in altera de animi partu
sermonem futurum esse. Ac de corporis quidem partu disserens aliud
ex- emplum laudare non potuit, quam viri mulierisque
conjunctionem, neque opus erat additis quibns- dam voculis indicare
, etiam al- terum genus esse toxov , quod haec indicatio satis
manifesta facta est verbis xal xatd njv fvxqv. xal
tovto er SvTjTa orriTu{uffi dSavazov Ir edriv h. e. xal o Iv
$v7/r<jS orti roJ Zcitp d 3 ri- xar ov {veOtiv, tovto iOT iv, 7}
XVT/Sif xal ij y tvY7]<Sl5, Sententiam quod attinet, cfr. Piat,
de legg. IV, p. 721. C. yap&v SI — Sia- r 0 T/S>cvTa, a )S
iOrir, y to dr- SpooTtivov ycvoS qiv6et Ttrl ptxdhjiptv dSavadiaS •
ov xal trttpvxey ImSvpiav idxzry ttuCar. 46 ydp yevcOZtai
xAti itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv xaXeS jr&o&ie-
ia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal evq>Qaiv6fUvov dutis Itat xal
tlxxu ts xal yiwa * otav ds cdOxQMy tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov
CvtinuQaxca xal ano- tQhtsxat xal avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov
xo xvytia xalenws qp£$£t. d&ev 6 i] zcp xvouvxi xs xal
vdv , xal jxp dvdovvnoY xeidSai ter eAevtjjxdxa , xov xoiovxov
idrlv imSvyfa. yivoS ovv dv^pdmaov itiri • xi %vft<pvh& x ov
navtoS xpovov t o 8ia te - AovS aura) dvvenetat xal 6w- erpetcti,
xovtw xo5 x poncp d$a- vaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV xaxaXiitopevov,
xavtdv xal %r ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS 4 iexetXytpevca.
xovrov 8rj ano- eSxepelv bcdvxa kavtov , ovSe- nore odior. ix
npovoiaS 8* dxodtepel oS* dv naldcov xal yvvatxds dpeXy. Adde
ibid. ,VI.^p. 774. A. xal 8r/ xal 3 rd, fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa,
ds Xpy Xfjt deiyevvovS (pvdsajS dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS
jratS&iv xaxaAeiitovxi dei r<f> Stco vn- t/ pexaS JvS’
avtov napadi- 8orai. Motpa ovv xal ElXei - 3 vt a ?}
xaAAovj} x. x. A. Quia dv8poS xal yvvai- xd S dvv ov 6 i a est
divi- nam quiddam, divinum autem non nisi cum pu1cto habet
couionctionem; proptcrca pui erit udo est qnasi qnaedam
obstetrix et conservatrix (?) vitae. Stallb. Non mirum,
Moipocv una cum Ilithyia hic commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties
cum Morte coniuncta repentur, tTl numen significetur, quod fiocm
vitae adduxerit, ita eadem h. 1. propter iuitium vi- tao
laudatur. Convertit verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und
geburtshelfende Gdt- tin also ist die 8chbnhcit der
Erxeugwng. iAeojv te yiy vexat. Re- pentur post xe particulam
vulgo 8ij additum, quod sane habet, quo se lectori commendet;
verura qao- niam in codicibus plurimis opti- misque non comparet,
ex or- dino verborum expellendum fuit. 8iax^lxai verbum, quod
paullo infra legitur, summam animi liilaritatcm indicat, qua
prueepr- dia quodammodo explicantur at ~ qno dilVunduntur.
8ut][ii(j$at verbo nostratium aus gelassen sein apprime respondet. E
coii; trario vernaculum Angst ab angusto Romanorum derivatum eam
animi conditionem describit, qua praecordia contra huntur atque nimio
sanguinis confluxit premuntur. Hinc ex- plicabis dvdneipdxai
verbum, •quod paullo infra occurrit, et quod Scbol. explicat: dvdn
Elpti- xai • tfvdtpetpexat. xal dvelAAtrai. Summa exstat apud
Grammaticos discre- pantia in scribendis verbi ftMfct* A td$ai
formis. Nostram scripturam, quae et apud Bekke- rum et Stallbnumium
reperi- tor, Bodkianus exhibet, adde Vimlobb. tres , Florentinos
duos •liosque non paucos. Vido lltrfui- kenium «d Tim. L» V, Piat.
p. E fjdrj Citapywvn itoXlrj rj Ttrotydig ylyovs nsgl xo xa-
Xov dia xo psydXijg codivog dnoXvtw xov Inorna. Idti •yccQ, cJ ZaxQares,
ignj, ov zov xaXov 6 tpcog, tSg dv oXh. — *AXXa rl iirjv; — Tijg
yswijdBGig xal tov roxov Iv r« xaXa. — Elsv> v\v d’ kyej. — JIaw plv
ovv , &pi]. — Tl drj ovv tijg yswqasag; — "Ort dsiyBvig Idzt
xal d&avazov cog &v7jza rj yewrjdig. dftavaoiag 207 dh dvayxalov
itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav «S /toAo- 69. In uno Bekkeri codice
aV- iXXexai legitur, quod Atticum esse censet Astius ad h. 1.
Apud Phrynichum exstat : dvetXeiv fit- fiKior 81 * IroS X
xaxidzov «AAa 8ia r qjy duo avdXXEir, ad quem locum vido
annotat. Jjobeckii p. 29* «AA* tdxov zd xvypa X&
Xs7C gjS '<pep£i . Notabis Jioc loco Graecae linguae idio-
tismum, quo verbum finitum est, quod participio Expressum esse
oportuit, participio expressum est, quod verbum finitum esse nostra
dicendi consuetudo exigit. Pro- prie igitur verba scribenda erant:
<*AA ?<?£« z o xvypa xaX£7tu>S tpipov. Vido Indices»
o&by 8 y t<jj xvovvxt T 8 Hal y8y dTtapycjYTii ap-
yuvxt quid significet, schol. ad li. !. explicavit: oppcoYXt , op-
yoovxi , zapaxxopivoD , y av~ Sovyzi. XapfldvEroci 81 xal in i zgjy
padS&iv TCinXypoapk- yody ydXaxtoS. Timaeus habet: dnapvcSda •
zapatxofikvy vito 2A iif>£G)S xal 8eopivy Ixxpi- Ctooi tiyoS.
Coniuncta partici- pia habes za5 xvovvxt zs xal fj8y dnapytavxt
ita, ut posterius prioris notionem contineat qui- dem, sed eandem
impense au- geat. Describit autem dnap - yacv verbum ad
philosophiam translatum eius hominis conditionem , qui ardenti
cupiditate sciendi ductas haud procul a sciendo se abesse sentit,
idque iam ia eo est, ut consequatur* Iu sequentibus vulgo
legitur itoXXt) y itolydiS , quae scriptura nullo modo ferri potest.
Feli- cissime Abreschius io Dilucid. Thucyd. p. 420. scribendum
esso vidit itoXky ?} ictolydiS. Jlxoly- 6 iS animi commotionem
exprimit, qua efficitur, ut aliquis impos sui reddatur. Hacc nominis
notio quam bene cum dnapyntv verbo conveniat, neminem non videro
arbitror, 8 ia zd peyaXyS — foV IXOYza h. c. quod sciant
ma- gnis doloribus se liberatum iri, si phlcro potiantur.
Repeten- dum igitur est ad Ixovxa parti- cipium avzo.
doS dv oIei. cfr. p, 201. E. dx^dv yap zi xal iyoo npoS avxyv
izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d "EpooS piyaS SeoC, ely 81 zcoy
xaX&Y. Paullo ante ne mireris i<py additum esse in
enuntiato, cui oou praecedant alius personae, sed Diotimao verba, vide annotat,
p. 249. Verba nostra convertenda •uot : Es iit nam licii,
oSo- $ ytjiiivav, dbtSQ rov raya&ov £ correo tivat as i
5 sgas iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix zovrov rov ioyov xal zijg u&a-
vaoiag rov Spara slvat. Cap. XXVI. Tavta ts ovv navta IdlSaOxs fis ,
bnvts ftegl riov tgauxcav Xfryovg jrotoiro, xal aors ijgsro' TL oi'st ,
u crate», waren IhreWorte, die Liebe nicht das Stre-
ben nacb dem Schdnen. Quibas auditis Socrates sciendi motus aviditate,
quo celerius, cuius rei Eros esset, edoceretur, verbo eo usus est ,
quod Dioti- mam proprie adhibere oportuit: dWdc, Stallbaumius post
ri pyv supplendum esse censet aAAo, de cuius verbi haud infrequenti
post T i omissione supra diximus an- notat, p. 21. Nostro loco
mi- nus hanc aXko verbi omissionem probaverim j accentus
orationis nou in ri, sed in prjv ponendus est ; respondent autem
Socratis haec verba apprime nostratium: •ondern was d e n n f
Elert yy 8 9 iyco. Lineolam posuimus post iyoS, qna in- dicetur,
Socratem nimis impa- tientem disputationis tardius pro- cedentis,
coucessisse quae audis- set, inconsiderantius, ut celerius cetera
perciperet. Sed prius- quam novam suam quaestionem institueret,
Diotima gravitate rem . rursum affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem
accuratius perpende , neque quod non aatis perceperis, concedere
noli. Di- ximus de fikv ovv voculis anno- tat. p. 250.
rt 8y ovv tyt ytvrr} 6eoof; Haud dubium est, quia aliam quandam
quaestionem in mente habuerit Socrates, cum elev responderet.
Admonitus autem 9t Diotima, ut consultius rem exa- minaret, rl St)
ovv TtjS yevvy- goS dixit. Nihil auteih ad xrfi ysvvjjdeooS
genitivum supplen- dum est. Petitum enim r yS ytvyjjOscoS verbum
esuperioribua est ita, ut indicetur, hoc potis- simum in Diotimae
enuntiato praecedente accuratiore expli- catione indigere. Ceterum
5?/ ovv et ovv 8y ita diilerre ait Stallbaumius annotat, ad
Piat* Critonem p. ed. 128., ut dif- ferant vernacula also nun
et n[un also. wf Svyto) h. e. quantum eius fieri potest
in eo, quod per se spectatum morti obno- xium est. Recte igitur
Riicker- tus ad hunc locum, verbis $vf]T(k) limitationem
quandam inesse censuit. cfr. Matth. Gramm. ampl. §. S88. a. p.
710*, ubi Sophoclis laudatur Oed. C. v. 2Q. jxctxpdv yap , oot
yipovxi t npov6rd\yi o8ov . Piat. Soph. p. 226. C. r ax&ocv,
coS ipoi , tixhpiv licixdxxzis, elitEp rov rdyaSov
kcrvza) elvai asl d HpatS i 6 X i v . Sic Bekkerus et Stall-
2koxQcct£s, vtTttov tlvat xovxov tov iourog xai xijg tiudu- fiiag; y ovx
alo&dru tog dsivwg diaxt&sxai navxa xa &y- qLu, Insidar yswav
im9vity6jj , xai xa ns£a xai xa B nxyyu, voSovvrd rs navxa *ori igauxws
diaxi9i(iBva tanmius locum emendarunt, qui vario modo
depravatus repentur* Vulgo legitur elitep tov ctya- $ou. In Vindob,
ono rayaSov comparet, hinc emendationis il- lius praestautiam
expendas. Sed etiam, Biickertus inquit, vulgata lectio, quam
plurimi libri tuen- tur, proba est. Construe : ehtep Toi) dyaSov
EpaS idtiv, quibus iZyyTftiXGoS addita sunt verba iavtco tlvat dei.
In quibus sup- plendum est subiectum 6 EpcoS, quod adest EpcoS ,
praedicatum est, nisi forte mavis cum Bekkero, Dindorfio, Astio,
Stallbau- mio inserere 'sine libris articu- lum, quo fiat, ut
subiectum ad- ait, praedicatum supplendum re- linquatur.
OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl- xtxdUv \6yovS noiolxo*
Saepius igitur Diotima de rebus eroticis cum Socrate disputabat, id
quod etiam colligere licet e verbis p. 206- B.* ov pAvx* dv dfe —
iSavpafiov iic\ docpu* xal iipoircov irapd de aind ravra
paSr/dopevoS. Ceterum ne forte scribendum censeas esse xovS XoyovS
Ttoiotro , vide quae an- notavimus p. 12. Fingit autem Socrates hoc loco,
factum esse aliquando, ut , cum iu ero- ticas res disputatio
incidisset, Diotima et alia , et hoc quaesivisset: xl ohi altiov eivat
zov- tov TOV EpCJZoS hol tijS liti- 3t yilaS ; - , v f
V ovH.aidSacvei cu s det- rc &S x. t. A. Non statim
patet, qui fiat, ut Diotima animalium mentionem faciat hoc loco*
Com- memorat ea ideo, opinor, ne for- tasse A oyidpov caussam eroti
a Socrates dicat Paullo infra habes : z ovS pkv ydp av^pamovS oXoiz
* dv ziS bt Xoyidpov zav- xa Ttoielv xa 61 Sjjpia z ii ahia qvxgdS
iputixoaS 6 tariS e- 6$ai; quae verba lmic quaestio- ni
praemisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*. Sed et
haeo cogitationum series ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS
explicatur inse- queutibus vodovvzd re -jcdvxoc xai ip&TixcoS
SiaziSe/ieva. lit- cnim magno dolore afficiuntur, ut indicatum est
supra p* 206. E.» omues, qui procreare gestiunt* Optime
Schleiermacherus verba convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich
die Thifero befinden* Ceterum vodeiv ver- bum rectissime annotante
Stall- baumio ad Piat. Phacdr. p. 228. B. aTtavTvda? rrJ
rodovm 7Ctp\ Aoycoy axoi/v , ut Latinorum aegrotare dc
vehementiori- bns cupiditatibus poni solet, quao homines vclut
morbo quodam afficiunt. xat Et oi pd idziv vnl-fy r o v
T a> v . Cave post 7tai o superioribus cjS particulam repetendam
censeas, quae etsi possit suppleri, tamen, qui Graeci in- genii
volubilitatem compertam hubet , structuram verborum hoc itQtotov
filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig, httira n tgl ttj v rgorprjv to£f
ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q tovtov xal du<(iux£(}&ott, tu
da&ivsercna zoig l<J%vQOTceTOig xal vxepanodvfoxsiv, xal ama roi
Xiiiio xciQuzuvuatva [<3sr’J loco motatam non aegre feret. Neque
sine caussa huiusmodi mu- tationes structurao a scriptori- bus
admittuntur. ."Negari enim nequit, suspensam orationem, quae
longiuscula sit, languidi quid ha- bere atque molesti , quod muta-
ta structura felicissime remove- tor. Deinde inesse senties ipsis ocrbis,
quae ab incepta structura recedant, gravitatem, quae nostro loco
apprime convenit, ubi amoris vis atque potestas describitur. Exempla
huiusmodi structurae muta- tionis ubivis obvia sunt. cfr. p. 208.
C. Zv$v/nrjSel5 cJs* SeiyojS SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol
ytvkd^ai xal xXkoS eis tov irceita Xpovov aSdvatov xata&kdSat
xal vn\p tovtov xivdvvovf te xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r. A. Nos
eodem modo loqui pos- sumus: Oder weisst du etwa nicht , in
welchem gewaltsameu Zustande sich alie Thiere betin- den, wenn sie
zu erzengen stre- ben, sowohl die ungefliigelten uls die
gelliigelten , nud wie sie sammtlich krank und von Schn- suclit
geplagt sind zuerst in Be- ciehung auf die Begattung, dann wegen
der Nahrung des Er- zeugten, und sie sind bercit, fur diese zu
kampfen, die Schwa- cheren mit den Starkereu, und fur sie zti
sterben. Ceterum ne (^nem oilendat pluralis numeras viil.p rovtaov
praecedente sin- gulari tov ytropkvov , 1 6 ytvo- ftevov e genere
est collectivorum | quae post se positum singularem numerum rarius
admittunt. xal avta t o5 Xipcj ita- pateivo pexa [cJsV]
ixei- va ixt pkcpeiv. Haec verbA non dubium esse arbitror,
quin labem contraxerint. Namque qui totius loci structuram
accuifftius examinaverit, eum non fugiet, opinor, verba xal avtci
rc5 Az- p<j> 7tapateiv6peva x. r. A. b praecedente xal Ztoipa
Zdtir pendere. Huius structurae non intelligentes grammatici, ut
loco mederentur , <juem depravatam censebant, ufcr textui
intulerunt, quod vocabulum nostro quidem arbitratu inutilissimum
est. Fi- cinus verba convertit j et j>ro illis occumbere parata
sunt , ac fame dejicere , modo filios nu- triant , et aliud
quodlibet audacter aggrediuntur. In Schleiermacheri couversione exstat : u
m nur ienes zu ernabren. Sed coSte particula nunquam ita
adhibetur, ut consilii notionem exprimat, quin potius necessita-
tem consequcutiae describit et alicuius rei couditiouem eam, quae
alia propter ante comme- morata esse nequeat. Hiuc vides, quam male
habeat praece- dente xal avta tep Xipd* na- pateivofieva verba gjS
t Zxel- va Zxtphpetv. Ridiculum enim est: animalia Fame ita
ex- tenuari, ut liberos nu- triant atque educaut. Fer- ri
toSte posr.et hoc loco, si scri- ptum exstaret (ySt * kxfiva ix
Ixuva IxtQitpuv , xccl aU.o nav noiovvzct ; rovg f ihi yag
uii&Qchjcovg , ecptj , oeoiz’ av rig ix AoyiGfiov ravra C noetiv • t«
de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag Suxti- o&£tf&eu ; *3C £1 S
Aeyecv; JSfai iyd av D.tyov , ou ovx bIScltjv. "II 8’ dite "
Aiavoil ovv 8uvog Xotc yivrfiz- C&cu, ra iQauxa, lav rccvrce f ir/
tvvoijg ; — ’AXXa 8 ea rccvTtt m, <b Aeozi(iu, oxeg vvv Srj tlt iov,
nagee <Je fjxa, ' J Tpi<pe6$at, quamquam etiam
verbis in hanc modum conforma- tis inesse senties, quod admo- dui#
displiceat. Hinc factam est, at &SX£ insiticium censerem, idque
uncis includerem, ne, si ex ordine verborum reiecissem, au- dacias
egisse censear. Sensas est : et parata s d*n t ipsa fame
paene enecta illa nutrire et educare. Quae sequuntur verba: holi
aXXo nav •noiovvxoL , artius ea cum verbis avx d tgj Xifi. c3
itapaxetvopeva coniungenda nihil habent in se offensionis,
tgS Xipd i. Supra p. 191. B. legitur: ank5v7\6xov vito Xipov
xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A., ad quae verba Stalibaumius, in-
epte', inquit, vulgo vito xov Xi/iov , Quaeritur, cur illic
damnaverit articulum, hoc loco ne verbo quidem tetigerit? Mallem etiam
hoc loco articulas ab- esset,- quem certissimnm est a nemine
desideratum iri, si reve- ra non compareret. o vxgoS i p goxixgoG .
Ov- TcuS h. 1. significat, eo modo,* quo in superioribus
indicatum sit, nmore affectum esse. Vide uuuot. p. 58. De
interrogationis genere tis alxla , UxeiS ti- Ttslv ; supra diximus
annotat, p. 276. xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc
Bekkerus et Stalibaumius ex optimis codicibus receperunt. Merito
Ruckertum mireris , qui , cum constet , av et av saepissime
commutata esse in libris , tamen av iu textu posuit. Ut bene,
inquit, haberet av, si sae- pius sibi exposita narraret Socrates, ut
respondere saepius posset se nescire, ita, quum semel tantum haec
disputata perhibeat, av ineptum videtur, av vero eo aptius, quod in
priori- bus iam suam ignoran- tiam confessus est* At superest
tamen, ut mi- nus iiic dicas Platonem curasse, quod semel
tan- tum haec dicta fingeret, indeque av posuisse negligentius quam
verius» Qua de caussa probatis licet av nihil tamen mu- tare
volui. Hoc argumentum fateor mihi prorsus videri nullum. Est autem, cur
rur- sum se nou habuisse Socrates confiteatur, quod
responderet» Simulat enim, ut saepius iam an- notavimus, fatuitatem
quatidam animi, qua facilius atque tu- tius aliorum seuteutias
elicere possit. yvovg, oxi SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla (ioi Xlyt xal
xov- rav xfjv cdtiav xal xav ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol vvv,
%xpi], iu<5xtvug Ixtivov tlvai cpv6ti xov tgaru , ov xoXkdxig «SftoA
oytjxafitv, fiy &av(ia&. tv- xav&u yag xov avxbv txuva Xoyov
y ftvytrj qjvtiig D fyftti xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal
d&avatog. dvvaxai 81 xavxy (ibvov xrj yivtGti, ou dtl xaxaXti-
Siavoet ovv 8eivo? ito- te. Haud raro apud Graecos et Latinos
continuandi alinsque potestatis particulae ita adhiben- tur in
interrogatione, ut indi- gnationem quaudam interrogantis exprimant.
Mutata interrogatione in quietius dicendi genus verba audirent:
Lass dir nur nicht ein- fallen, irgend Erotischer Dilige kundig zu
werdeu, wenn du des- sen dir nicht bewusst bist. Sic tlta.
reperitur in Piat, Critone p, 43» B. , quo loco Socrates postquam
iam diu Critonem in carcerem intrasse audivit, elta, inquit,
n&S ovx evSvS inijyei- paS pe. Haec verba recte intelligent, qui cum
indignatione dicta arbitrabuntur: Wie kommt es denn nur nun, dass
du mich nicht sogleich wecktest, ciWd 8id tavTct. Elli-
ptica et hoc loco, ut plerumque in responsionibus oratio ita supplenda
est, ut addas cogitando: non puto, aute aWct, quod est immo
convertendum. Videtur au- tem hoc, quod de responsiouibus dixi,
repetendum esse a summa Graeci ingenii alacritate et in cogitando
celeritate, qua fiebat, ut cum mens longe praecurreret linguam, in
dicendo etiam, quae ullo modo possent , omitterent vel in unam
contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t) etirov • cfr. p. 206. 11. ov /
tivt ’ av iqnjv iya> , <y Aioxiya , i$av— jiaZov ini Coepio.
xal icpolx gjv itapd avrd xavra paSTjtio- pevoS. el roi
vvv, £<py, itt- dteveiS x. t. A. In omnibus editionibus legitur
xoivvv pro toz vvv , quod nobis placet. Apud Ficinum verba
conversa sunt: Si credis, illius natura amorem esse, cuius
saepe iam diximus, ne mireris, Schleiermacherus exhibet: Wenn du
also glaubst, sprachsie, dass die Liebe von Natur auf das gehe,
worii- ber wir uns oft schon eiuver— standen haben , so wundre
dich nur nicht. Socrates rem , quae in superioribus saepius tractata
est, memoria non teneBs , eandem rogatus a Diotima, obmutuit non habens, quod
responderet, Eadem res igitur, quoniam hic repetitur, Diotima
hominis memoriae, ut videtur, illudens, Noli mirari, inquit, si
nunc firmiter tenes memoria, caussam naturalem AMORIS esse eandem,
de qua supra saepius inter nos convenit, r) Svtjti}
epvCiS Zytti xatd r o 8vv atov. Vide annotat, ad verba p. 206,
E» net eicQov vaov dvzl zov
italaiov' htu xal Iv to tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal tlvca zo
avzo, olov Ix naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg
ori aayevis l6xi xal aSava- zov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS.
ravzx! yovov x-jj yevi- 6ci. Caminate post yovov po- sito
Riickertus sensum verborum esse ait: liac sola ratione, per
procreationem. — Du- bito, num recte interpunctionem adhiberi
liceat ibi, ubi scriptor advocata generis assimulatione arctiorem demonstrativi
pronominis cum insequente nomino sub- stantivo coniunctionem admi-
sit, Hoc certum est, verba proprie audire: tovtoo novor, ty
yevidei, sed ab huiusmodi dicendi genere utpote incomtiore,
excultior Graecorum actas abhorruisse videtur. Assimilutionis exemplum
est p. 190. E, noti dweXxGov 7tavraxo5ev zo 6ep- fiet ini r?jv
yadzipa vvv xaXov pivTfv , ad quae verba vide annotat, p, 163,
Nemini, autem Riickertus persuadebit, tavxy h. 1. adverbii vices
obtinere, quo ratio describatur, qua quid possit, quod mortale sit,
immortalitatem adipisci. inel xal iv gj Sr ix actitor ZGOV %GO GJV
X. T. A, Nam etiam eo tempore, quo unumquodque animal vulga*
i opinione vivit atque seraper idem est, nullam que experiri muta-
tionem partium suarum putatur, veluti quum quis, inde a pueritia
usque ad senectutem idem semper esae dicitor, tantum ab- est,
Qtiumper unum idemque maneat, nt aliis par- tibus quasi de nuo
iuver- nescat, aliis privetur et orbetur. Verborum sententiam
per se minime obscuram paullulum impeditam reddit structurae insolentia .
Quum enim pusi TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent haec: ojigoS
ovdinote zd avzd ix El & avrcJ , a\Xd td pkv dei vior yiyvtzat,
zd anoAAvdiv , quae referrentur ad primariam sententiae partem:
ab inchoato orationis tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad eam
accommodaret particulam enuntiati , quae continet exempli rei clarius
illustrandae gratia inter- positi commemorationem. Itaque nihil mutandum
censemus Stallb, Haec Stallbaumii explicatio et a difficultate structurae nobis
improbatur et a sententiae incommoditate. Exemplo nimirum Socrates
explicaturus est, quo sensu ael elvai dicatur atque dsdvatzov elvai T7}V
Svi/xr/v <pvdiv , ut non ve- risimile sit, exordium huius
enuntiati esse posse: inel xal iv g5 ev Sxadzov zgjv P.oocjv S, i}v
xakzLxea xal elvai zo av- ro . Astius huius rei iutelligens,
scribendum coniecit: iv cj tv Zxadzov tgov Zcjgdv xa\ei- zai
xal elvai zd avzd , quam scripturam ipse post improba- vit. Nobis
scribendum videtur inel xal iv d> ' ev txaoxov xd)v Zidcjv $f/v
xaXtlzai, xa- A etzai xal elvai fd avzo . Neque audaciorera
censemus hanc coniectux&m iudicatum iri , cum yknjtai ' ovrog
(ibroi ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iav- to), ofwog 6 ttvzos xaXilrat,
akla vio g ad yiyrofitrog, xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal
Capxa «c«l satis constet, Verba dupliciter po- sita haud
raro librariorum incuria simpliciter exhibita esse, et vice versa
dupliciter interdum posita esse , quae simpliciter a scriptore
posita essent. Exem- pla si quaeris huius rei, vide quae
annotavimus p. 171* et p. 254. Qoac sequuntur verba otov ix
izcuSaplov 6 avxoS Xe- ykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime
cum nostra praecedentium ver- borum scriptura conveniunt.
ovxoS pkvxoi ovSkxo- x 8 xa. avxtf $X a,v «v- tcj x. x. A. In
Ficini conversione legitor: JZnimvcro eo ipso in tempore , quo animalium
unum- quodque vivere dicitur , idemque esse , (ut a pueritia ad senectu-
tem) quamvis idem dicatur , nunquam tamen in se ipso eaedem contine t , sed
novum semper efficitur et vetera exuit. Sic etiam ceteri
interpretes ovSbtoxs negationem ad verba trahunt ta avxct V.xoov iv
lav- toj f quae verboroui struendorum ratio propter insequens aXXot
vtoS asl ytyvopevoS minimo nobis none probatur. Inepto enim loco
positum habebis hoc, ai illam explicandi rationem pro- baveris.
Neque defueruut , qui de verborum transpositione cogitarent hoc loco.
Facilior ver- borum struendorum ratio haec est, ut ovSiitoxE
negatio a'd pri- marium enuutiati verbum xatei- xai referatur.
Verba autem boc modo scribenda censemus: ov- x oS pkvxoi ovd£7roxc
, rcr cxvxa iioav iv avia? , u/ici?5 6 avioS xaXslxai, aXXa
vkoS aeY yvyva- / ievoS x. x. A. Sensus est : D i e- s e r iedoch
wird nietnals, w e i 1 er ein unddasselbe au uitd in’ sich
hatto, gleichermaassen derselbo geuannt, sondern (er wird in
dem Sinue dersclbe genaunt,) wreil er sicli immer ver — iiingt, iudera
er das Ver- altete abwirft. Ut boc lo- co, ita etiam in Piat.
Euthyphr. p. B. c. 2. opooS in o/idoS mu- tandum est: xcu ipov yotp
xot, oxocv xi Xkytm iv xy ixxXr/6ict 7tEp\ xcov SeIgov, itpoXeyGor
au- XotS xti pkXXovra , xixxaytAdo- <xiv gdS’ jiaivoitEvov* xai
xot ov8lv o xi qvh aXrj^es sVpiptet GOV 7tpOEl7COV. aXX* dpooS
(p$o— vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov - xuiS. Minus aptum est,
quod vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi vera dixi, tamen nobis
omnibus vera dicentibus invident. Qain potius commemorans
Euthyphro, quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat, Socratis
exemplo praemisso, communi vera dicentium iufortuuio sc consolator.
Iam ut Diotimae sententia melius perspiciatnr, rem breviter repetam ; Quod
supra de hominum AMORE dictum est, idem in animalia cadit et in omnem
naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri possit, semper vigere» atque
immoTlalis esse idque generatione assequitur. Neque hoc ita inteljigeudnm
est, ac si singula quaeque res immortalis esse dicatur: sed ut homo
aliquis a pueritia usque ad se- E 6q za xal al[ia xal %u[ixav zo GiJfia.
xal (iij ori xara to (Scotia , aAA a xal xarcc rrjv ‘tyvxftv ot zqoxoi,
za tj, dofci, htcdvjilai, rjdovai, Xvxai , tpufioi, rovtav exutSta
ovdexoze za avra xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za (itv ylyvszai, za de
axdilvzai. xoiv de xovrnv azoxdzegov In , on xal at extOzfjiiui
(i>) ori at 208 ftw' ylyvovxai , at de axolXvvrai yiiiv, xal
ovdexoze of avzoi icS/iev ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal f
ita txuGrrj ziov eXLGzrjiudv zavzov nu6%u. o yag xa- i.eizai (leltzav ,
u>s l^wvOris heri zrjg exiGxrjfirjs' tiftrj ydg exiGrr^firjs ifcodos,
fieXirij Ss xui.LV xaivtjv t/x- nectatem idem Tocatnr, non nt qui
habeat in se setnper easdem corporis partes, sed quod eas mutando ,
inveteratas abiiciendo quasi novus semper existit, ita etiam animalium
genus rerumque natura partium renovatione immortalitatem conse-
quuntur. rd 6h drtoWvS. His ver- bis, quibus non praecederet
rd p.iv , multi interpretes offensi aunt. Wolfius rd plv
nposXajj,- fidvoDV vel simile quid adden- dum censuit , Bastius ad
ra de addi iubet itaXaia. Alii alio inodo locum, -in quo
librariorum peccatum reperisse sibi viderentur, sanare studuerunt.
Stalibaumius aWa vkoS de\ yi~ yvofievoS idem valere censet quod
aX\d rd pkv vkoS ael yiyvojievoS. Maluerim ita statuere, ut Graecis
licuisse contendam quotidianae vitae sermone utentibus interdum omittere,
quae e sequentibus facillime suppleri possint, eque ra fiiv supplendum
esse videtur, sed ra /ikv aAAa. xal ptij ori — aXXd xaL
Ne forte ante oAAa' xal requi- ras prj povov, efficitur
povov omisso sententia haec: At quo ut mittam ea, quae ad
corpus pertinent, etiam quae animi sunt, consuetudines, mores, opiniones,
cupidines, gaudia, tristitiae, metus, haec omnia nemini eadem manent, sed
alia oriuntur, alia depereunt. Ceterum apposite ad h. 1. Riickertus
: Noli, inquit, ex his colligere aliisve similibus iu iis, quae sequantur,
Platonem sibi non con- stare , quod, quum alibi natura ‘ sua
immortalem animum dicat humanum, hic eatenus duntaxat ei
immortalitatem tribuat, qua- tenus et ipse , quas sui partes
amiserit, assamtis aliis suppleat. Non ipsum enim animum, naturam
divinam, hic iu mente ha- bet, sed ea tantum in animo, qualis in
hisce terris est, quae ex coniunctione cum corpore enata cum eodem
intereunt. Ex quo genere omnia sunt , quae deinceps recensentur.
Quas enim mox liti(Sripxa£ affert, earum vel unus pluralis numerus
satis est argumento, non loqui Platonem tioiovtia dv rl xrjg
diuovGxjs (ivrjfiyv (Scissi x yv Irn- CtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv
elvca. xovta yag xc> XQoitcp xtav x 6 dvytov ov x<5
TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat , , SgxtEQ xo fteiov, dM.cc xc) xo
ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov lyxata- b Mbtuv y olov avxo yy.
xavxy xy ffl%ctv y , co 2Jc6 - XQctteg , Zcpy , %vyxbv d&avaolag
(iEze%eiy xal Gcopa wa xaM.a itdvxa , aftavaxov Se &M.y. yy ovv &av-
pafey el xo avxov ditofyXaGtyya rpvtiei ndv xi\La' d&a- vatilag yuQ
%ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6 tgcog 67csxau de ipsa
scientia, quae nna est eademque semper, quamqoe non potuit animo
informare nisi perennem et immortalem, quin ipse sui
oblivisceretur. Immo notitiae sunt rerum in sensus cadentium, quae nec
affuerunt animo prius , quam vitam hanc in- grederetur, neque ultra eius
ter- miuos apud eum permanebunt. itoXv xovxcjv aro -
itaSxEpov Irt. Pro £tt, quae Bodleiani aliorumque paucorum codicum
lectio est , vulgo i6xiv legitur. Illud Bekkerus et Stall- baumius in
ordinem verborum receperunt, hoc tuetur Rii- ckertus. * Eri ,
inquit, ut vulgato melius esse concedam , attamen tam paucorum fide
recipere eo minus ausim, quod quam saepe liae voces intfr se
permutentur haud sum ignarus. — Utor his Riickerti verbis, quibus
£ti recte habere probem. Nam si melius est sententiaeque
convenientius, quod in melioribus codicibus re- peritur , id verum
est haud du- bie. In ceteros autem pluri- m osque libros irrepsit
id, quod facillime cum illo permutatur. 6 ydp xaXeltai
pe\e- rav cof i ZiovtirjS id t\ xyS ixidxy /iy $ . Vide de
hoc pla- cito Piat. Phaed. p. 72. E. xal prjv , iqyq o KiftyS
VTtoXafidrv , xal xax* ixelvov ye x ov Ao'- yov , cJ SwxpaXEff , si
dXy^yS itixiv, ov 6v ettoSaS $a/ia MyeiVy on ypiv r\ paSydiS
ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x vy- Xctvet ov6ot , xal xata xovrov
avayxy itov rjfiaS iv xpoxipaj xivl xpovw pEpaSrjxivat a vvv
dvapipvytixopeSct x. t . A. vSiCEp xo Ssiov, Auctor
Definitionum p. 411. A. J GteoV, 2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS
EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?. ’At- 8iov , xo xctxa ndvxa. xpovov xal
TtporEpov ov xal vvv prf 6iE(p$otpp£vov. a$ avatov dfc
ct\Ay, Displicent haec Verba ideo po- tissimum, quod modo
indicatum est, quomodo id, quod immor- tale est, h. e. ro Seiov,
immor- talitate gaudeat. Hinc factum est, ut Creuzerus Lect. Piat.
p. 528. scribendam couiiceret: aSv vaxov aAA#. Recte , ut videtur,
Riickertus existimat Platonem, si hoc exprimere voluis- 19 Cap.
xxvn. Rui iya uxovaag rov tiryov Iftavuuacc re xal ihtov' Ehv
, rfi’ 8’ lydi , a Ooqxxnatr] Aiotlfiu ' ruvra C Sg db]&w$ ovuog l%u
; Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi tfo- set, haud dubie tzAAp 81 dd
v- vaxov scripsisse. Sed de veri- tate verborum aSdvazov 81
«A- A r} nobis non convenit curo eodem. Stallbaumius od liunc locum
annotat: Haec, inquit, ad- dita videntor propter verba ex- trema
xal TaAAa itavxa, quae ne falso intelligerentur, sane ca- vendum
fuit. Num credibile censes,
quemquam esse posse, qui cum verba legeret xal 6(n/ta t in
sequentia xal TaXAa ndvxa male intelligeret atque ro Stiov
admisceret, quo de paullo ante dictum est? Sed pone fieri posse, ut
aliquis verba illa falso iutelligat: num recte sibi opponi hoc loco
censes Svrjxoy et a$dra- zov , ubi Svjjxoy adiectivi vices habet,
atque cum insequenti xal dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius
couiungitur? Huc accedit, quod ne ipsum quidem aSavarov, pro quo
Selor scriptum exspectaveris, satis recte habere videtur. Scribendum est , si
quid video, $dr ax ov 81 afAA#, qnae coniectura et a
corruptiouis verisimilitudine, cum praecedens verbum in a desinat,
et a sententiae veritate sese commendat. Ceterum ne mireris
accusativum casum, cum praecedat aSavadlaS fxtX ix ei: solent
interdum Graeci e praecedentibus, in quibus compositum verbum contiuetor,
noa compositum repetere, sed simplex. Diximus de lioc loquendi ysu
«uuotat. p. 89. eItxov EleVf tjv 6 * lydi. De dicendi verbo in
huiusmodi enuntiatis dupliciter posito vide quae annotavimus p. 249.
Ehv verbum quod attiuet, vide annotat. p. 86. et p. 264.
liisequetis interrogatio xavxa d>S aAr/SdiS ovxqdS lx ei >
fatuitatis indicium esse arbitramur, quam Socrates cum Diotima de
Erote disputaus constanter simulat. Nimirum quum, adhibito thv
vocabulo quasi ad alia quaedam quaerenda abiturus, confestim
concessisset, quae a Diotima dicta essent, rursum ad eadem redit
quaerens : num revera haec ita sese habeant? gSstjt ep ol zlAeoi
6o<pi- d xal. Stallbaumius minus re- cte: Ridet, inquit,
sophistas, de quibuslibet rebus ita disputantes, ut videri vellent
earum verita- tem prorsus habere perspectam atque exploratam. Neque
Wol- fianae ed. explicationem proba- mus Lips. 1828. p. 97 : die bei
ihreu philosophischen Vortriigen nicht ia dem zweifelnden Tone des
Socrates sprachen , sondern in dem entscheidrtiden Tone des Orakels
ihre Meinungen fur un- uinstdssliche Wahrheiten ausgaben. Eadem sententia
etiam Schleiermachero probatur , ut ex eius conversione huius loci
vi- dere licet: Und sie, wiedie rech- ten Meister im Wissen
pflegen, sprach, Das sei nuu versicliert, o Socrates. Quid Socrates
ad- <pi6Tal , Ev IWt, H<pi], cj EdxQtttes' IntL ye xttl
zav uvdQioitav ei i&eAeig tig ttjv <pdon(ilav (i/.i- ipcu,
&av[ia£oig av rrjs uXoyiag hiqi a lya eipryxa, tl (irj Ivvoeig
Iv&vfiij&elg ag deivag Euxxuvtai %otc rov ovofiaOTol
yevee&ai. bibitis illis verbis efficere volue- rit,
optime e Protagorae loco cognoscitur p. 328. E. seqq. ’«ft xai
AjtoWoSoopov , a 's xaptv tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd? pe tvSe
agtixkdSau noXXov ydp 7i oiovpai axyxokrai a dxijxoa TIpGDTayopov'
iyoj pkvydp kvxco ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx elvai dy^pconlyjjv
iizipiXetav, y ol ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa, vvv 8\ itiicet6jicn.
nXyv 6pi- xpov ri poi kpizoSdbv, o 8ijXov t oti Tlpojxayopa?
fiaSlcj? heex- 8i8dB,u , inei8y xai xd noXXa xavxa iutdidafe. xai
ydp el pkv xi? nepi avx&v xovxgjv dvyykvoixo oxeoovy xaov
8ypy- yopcov , xax* ay xai xoiovxov? Xoyov? dxov6£iev y
IJepixXkov? 7} dXXov xivoi Tcjy Ixavcov el- iteiv * ei 8 e
inavlpoixo xivd xi t S?7tep fiipXla ovdiv ixovdiv ovx e
altoxpiva6$ai ovx e avxo i ipitSSrai, a XX* lav xi? xai Cptxpov
lite p coxi)6y (vide annotat, p. 82.) xi xaoy prj- $£vxgoy, d)?XEp
xd x a X- xela nXyy kvx a paxpdv yx £ * xai a 7t 0 x eiv e 1 ,
kav jiy i rtiXa fiy x ai xi ? , xai ol pyrope? ovxcj dpixpa i
p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa - •z ax e tv ovdi xov Xoyov, Ipse autem
orationis longitudini Socrates illudit, quod facere so- lent, qui
alicuius vitii alienam, reprehensionem evitaturi sunt. ei
iSkXeiS — Savpd- £01? av • II . Stephanus, ut verba usitatiori
generi loquendi adaptaret, iSkXoi? scribendum coniecit. Frustra. El
iSkXei? CxkipaL idem fere est atque el Cxk^aiS , differt tantummodo
ab illa dicendi forma optativus modus, quod hic cogitati alicuins
possibilitatem, quam vocant, exprimit, quae et ipsa cogitata est, non
ducta e veritate rei. Illa contra aliquid fieri posse indicat, iit
prorsus ex alius arbitrio psn- deat, utrum fiat revera necne.
Exempla haud rara sunt el particulae coniunctae cum praesente tempore
iSkXeir s. fiovXe6$aL verbi , cui adiectus est infinitivus cum optativo
et «v. Legitur paullo infra p. 221. E. el ydp kSkXet xi? r gjy ZZ&xpd*
xov ? axoveiv Xoycov , 1 pdyuev dv 7tdvv yeXoloi xo Ttp&xov.
Cum hoc dicendi genere care commutes exempla ea , quae el
particulam cum praesente alicu- ius verbi tempore coniunctam
exhibent et optativum av parti- cula adhaerente $ cfr. A pol. Socr,
p. 25. B. TtoXXr) ydp dv xiS ev8aipovla efy 7tepi xov? vkov? y el
el? pkv povo? avtov? 6 1 a - <p 3 elp et . Adde Piat. Symp. p,
176» C. *Eppaiov av efrj yptv — el vpel? — vvv dnei- pyxate , ad
quem locum vide annotat, p. 38. Ceterum x&v dvBpcj7ca>y in
alieno loco positum videtur, quem ne mireris atque ut Platonis
voluntatem perspicias, Riickertam audi anno- 19 * nai
xAioS eis tov ae\ xpovov aSavatov xaraS&SSiu, xai vniQ rovrov
wvdvvovg ts > uvSwevuv ttoifiol dii xdvras En iiallov jj vntQ ruv
xcdSav, xai tantem ad h. 1. i Qnod hic TGoy avSpGJrtaw addidit,
idque loco posuit illustrissimo omnium, pro- pterea factum, quod ia
praece- dentibus de bestiis non minus, immo magis fere, quam de hominibus
disputatum est , quanta cura esset sobolis tuendae con-
servandaeque. Quae euim de humano corpore animoque disputata sunt,
nonnisi probandae sententiae inserviebant, non esse alinm
immortalitatis adipiscundae rationem naturae mortali , quam per
propagationem. Itaque iam de solis hominibus locuturus recte lioius
rei indicem in fronte posuit. $ av paZoiS dv xrjt aXo- yiaS
Ttepl x. x. A. Verba FICINO convertit: Etenim si gloriae stadium', quod
hominibus inest, considerare volueris, admiraberis ruditatem tuam,
quod ea, quae dixi, non satis comprehenderis. Hoc sane mirum.
Schleiermacherus exhibet; Denn wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen
willst, «o miisstest du dich ia uber die Unvernunft wundern in dem,
was ich schon angefiihrt, wenn du nicht bedenkst cet. Schulthessios
verba reddidit : denn fassest du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins Auge,
so kannst du ihre Unvernunft in Beziehung auf das von mir
angedeutete durchaus nicht begrei- fen, wenn du nicht erwagst
cet. Negari nequit, paullo impeditio- rem verborum structuram
esse atque gravitate quadam inepta affectam, qua usus esse
sophistas consentaneum est, qui ad ante dictorum explicationem atque
enarrationem transirent. Sic tg oy dv$ poATtcoy , principe enun-
tiationis loco positum, de quo Riickcrti indicium modo retuli- mus,
quid aliud est, rem si ac- curate perpendens, quam vanae gravitatis
indicium? Adde el iSiXeiS verba, wenn du dich entschliessen, es
iiber dich bringen kaunst (vide annotat, p. 44.) et parnm
defi- nitura illud : xepl d iyoi eTpij- xa y nonne haec plena suut
so- phisticae artis? Proprie verba hoc modo dispouenda suut :
eu — Ixel ye xa \ , el £$i- XeiS el£ x rc oy av^peonoov
gnXoxiplav pX iipai, Savpdgoi? dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd Ce av
ix ot rt J s dXoyiat') xov- xcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da
gieb recht acht, o Socrates ; denn auch, wenn du dea Ehrgeiz der Menschen
ins Auge za fassen gesonnen bist, koou— test du dich wohl iiber die
Un- grtindlichkeit dessen wundern, woriiber ich gesprochen
habe, wenn du dir nicht vergegenwar— tigest, indem du cet.
(»s detvooi Sidxtivr ai % Haec et sequentia ad eandem dicen-
di normam conformata snnt, qua verba legnnter p. 207. A. r/ ovx
aiCSdveiy aoS SeivdoS Sia- xlSexai Ttctvta xd Sijpia x. r. A., ut
adeo idem valeat de structura verborum xal viup xovrov —
(tara dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai
D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv * ijtel o Xu 'Adprpov ajto&avEcv ccv,
ij vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de ver- bis monuimus p. 207. B.
xai Ftoipa idtiv VTtkp xovxov XUL vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A.
Ac de industria quidem iisdem paene verbis Diotima usa est
eadem- que mutatione structurae, quo facilius et illius loci
auditor re- cordaretur, et clarius videret, de eodem et illo et hoc
loco Erote sermonefti esse. xai x\ io 9 elS tov d e l —
xat a$ £d$ ai h, e. Immortalem gloriam posteritatis memoriae tradere
conservandam. Nam xaxa- ti$Ed$at est deponere custodiendum s.
servandum tradere, vide Valcken. ad Herodot. VI. 73. Stailb. Ceterum
neminem latet, hexametrum versum esse verba xai xXloS — xataSedSai , quae
a praecedentibus atque insequenti- bus verbis seiungenda
curavimus. Unde hic versus petitos sit, nescire confitemur, hoc
tantummodo comperti habemus, depromtum eum ex carmine esso alicuius
poetae, ad cuius aucto- ritatem atque testimonium Diotima auditores
ablegavit, xai vitip tovtov xivdv- y ovS xivdvvEveiv.
Dicendi formulae, in quibus nomen aliquod cum verbo eiusdem radicis
coniunctnm reperitur, ita plerumque ad- hiberi solent, utrem, de qua
sermo est , quam heri possit maxime, angeant atque extollant.
Jwy- 6vvovS xiy&vyeveiv est igitur summa atque gravissima
6v , AkxtjOriv vitlg 'Ayilkia IJarQoxkto tnaito- pericula
a^Hire, Igitur cum Riickerto pro 7 tavta? 9 quod Bek- kerus et
Stallbauraius in ordine verborum posuerunt, codicum meliorum
auctoritatem secuti, vul- gatum nuvttS recepimus. Nam TtavtaS
xivdvvovS xixSv- yeveiv inutile additamentum con- tinet, quo non
augeri sed minui senties rei augendae potestatem, TldvtES autem
etiam eo nomir ne nobis probatur, quod omnes haud dubie a Diotirha
significantur laudis atque gloriae studio te- neri cfr. p. 205. D.
xd plv xe- tpakaioY idxi xtada 7 } xcjv dyaScox l?tiSvpia xai tov
tv- daifioveiv 6 /.liyidxds te xai xoivoS HpoyS Ttavti. Adde
p. 208. D. du IA*, olpat, vntp dpsxi/S aSaxcttov xai xoiav - xij$
do&rjS evxAsovS 7t dxxeS itdvta itoiovdtx . Nostrae ver- borum
explicationi Schleierma - cheri conversio favet : u n d d ie-
serhalb sind alie bereit, die grdssten Gefaiiren zu b este lien. In
sequentibus xdxovS itovEiv ovSXixaSovv est : labores suscipere quam
velis gra- vissimos, ubi ovStivaSovx non nisi de iis laboribus
intclligen- dum est, qui snnt gravissimi. Contra minus probem Plot.
Apol, Socr. p. 22. A. &ec &if vpix xtjv ipijy nXxxvijv
ixiSel&ai Gjsrttp itdvovS xixds noiovvroS, quo loco pro xixaS
scribendum esse videtur tixds. "AXxiidxiv vnip *. 'A6p
?/• tov x.x.X. Exhibentur eadem, quibus Phaedrus usus est,
exem- 4 8 avtiv, TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg
rijs (i aci 1 Atiu$ rov ncddav, (irj olofiivovg aSavcctov pvypTjv
apertis «£ qI avtav Etisadcu , yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov
yt dtt, Stprj , uAA’ , olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al
roi- twtt ] g So^rjs evxAsovs navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv E
afitivovs tofo, xocSovrcp (idAAov * rov yag d&avdrov pla ; ut respici
indicetur etiam ad eas orationes , quae ante Socra- tis atque
Agathonis orationes habitae essent. Sed quoniam Diotima loquens
inducitur , quae orationes in Agathonis convivio habitas non
audivit , ut casu vi-, cieatur exemplis illis usa esse, tertium
adiungitur, Codri regis interfectio. Audi Scholiastam, qui de Codro
haec tradit t — oS nal V7t\p xijS narpidoS attiSave t porca)
roupde. voXepov roiS JcopievdiY qyxoS itpoS 3 J5tj- yaiovS ,
ixpt}6ev 6 $eo$ totS JatpievfSiY aiprj6eiv xds ’A5ij* vaSy ei
Ko8pov rov fta6iXia / it} q>ovev6(M>6f yvovS 8k xovxo 6
Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei tixevy coS ZvXidtTjv xal Spe-
rtavoY XafioaVj izl rov xdpctxa rdov 7toXepicjY icpoyei, 8vo Sk
averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy tov pkv &va 7tardB,aS
xarifta^ Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf - SeiS, otixiS 7 /y t * Xtjyc\S
dvi- $avc , yaraXivcoY Xtjy dpxtfY Medovxt xri vpetifivxipoa
xgoy T taidcoY v. x. X . Hutus facinoris memoria superbiise
Athenienses videntur, ut si quis peregrinus ipsis adulari vellet,
rov v pe- te pov Kodpov diceret. Male vulgo rov yphepov legitur,
quae lectio prorsus aliena ab hoc loco est, ubi Diotima , mulier
peregrina, loquitur* vvlp apextjS aSctYcc- tov . Haec verba
cum non sa- tis apta reperiret Diotima ad mentem suam exprimendam,
alia addidit, quibus haec explicarentur. Kai igitur explicativum
est, cuius exempla laudata ha- bes in Judicibus. Verba conver-
tenda sunt: der unsterbli- chen Tugend balber d. h* wegen des
herrlichen Ruhms der Tugend. Nou licere igitur opinor aperi} S no-
men hoc loco virtutis laudem interpretari, quae Riickerti sententia est,
qui frustra annotat: Non magnum discrimen esso inter dpexijS d^avaxov et
60 - Ep]S EpxXeovS , sed aliquod ta- men , quodque maius etiam
vi- deri potuisset Platoni propter al- terius vocabuli sensum
latio- rem* d$dv axov pvypr\Y ape- TtjS. Haec verba,
hexametri versus fragmentum a ceteris ver- bis seiungenda
curavimus» . Hv vvy rpieiS t x°P €v i ta dictum est, ut aliquid
supplendum sit, quod his verbis opponatur; futuro tempore posteriores
ha- bebunt» Paullo iufra etiam verba eis rov iiteixa XP°vov a
prosa oratione secludenda curavimus, quod quo iure fecerimus, io
pro- patulo est» IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg, stata
Ouficaa ovtcg XQog tag yvvalr.ag pallov tQinovzai xui tavtg
tQomy.oi d<Si, Sia stuiSoyoviag u%uvu6lav scca pvrj(iT]y suci
tvdai[iovlav , wg oiovtca, avtoig iis x oV bcetta xpovov xcivta
xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv ^vfl\v — tloi yaQ £09 ovv, '£<pri, di iv
xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov scal ev 8 axfioviar , c
is olovtai . Cornarius pro coS oloviat scribendum esse
censuit coS olov xe t quam coniecturara Iliickcrtus, quamquam in
textu coS olovxat posuit, probare vi- detur. Nobis non dubium
est, quin Plato co? olovxai scripserit, quo adhibito Uiotima indicatura
fuit: eroticos, qui liberis procreandis immortalitatem sibi
comparare studeant et felicitatem aeternam , falli posse saepenumero. Non
iniuria. Nam moriuntur interdum patribus super- stitibus liberi, interdum
impie- tate parentes laedunt, ut illi pro immortalitate
exoptatissima magnum malum sibi acquisivisse videantur. eidi
ydp ovv, rdp ovv particularum eadem paene signi- ficatio est atque
ydp apa par- ticulis , quae exempli caussa p. 205. B. reperiuntur:
dq>eXovxtS ydp apa xov ipcotds x i eldoS oYopd^of.iEY x 6
rot> oXav iirizi- $ivxeS ovopct Spooxa. Non promiscue autem his
particulis Graeci scriptores usi sunt. Ubi demonstratum aliquid est
exemplo , ydp dpa poni solet ; ubi non nisi indicatum est, yap ovy
particulis locns datur. Nostro loco simpliciter commemorator in
praecedentibus : esse, quixaxa ipvxijv procreare cupiant, contra B,
poeseos exemplum af- fertur, ad quod, quae deinceps dicuntur,
diriguntur. €eterum quae post eidi yap ovy leguntur, inceptam verborum
structu- ram nou mutaut, sed prorsus destruunt. Nibil enim reperitur
in sequentibus, quod cum illis ver- bis consociari possit.
Iucepta sententia verbis absolvitur; x ou* xoav 6’ av oxaY xiS
h.x.A., quae verba cum illis nullo modo couiungi possunt. Sunt autem
huiusmodi figurae dicendi, gratae uegligeutiae indicia, praecipue in familiari
sermone haud infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS xvov- 6 iv.
KvovdiV valgo legitur; aliquot Bekkeri codices xvavdiv Labent ,
quod ipsi Bekkero pro- batur et Dindorfio et Riickerto. Illud
Stallbaumius aliique in textu posuerunt. Buttmanni indicium in
Gramm. arapl. p. 177., quod ct Stallbaumius probandum censuit, (
lioc est: Den Gebraucli festzu- setzen von hvcj und xveco ist
scliwer, da es in den hauligst vorkommeudcn Forinen nnr eino
Accentverschiedenheit ist, tvie xvei , xvil u. s. w, Bei Flato
indessen, wo der Accent sonst in allen Handsclmfteu schwankt nud
Tbeaet, p. 151. B. auch dic Schreibart xvoYta und Hvqvy- TJ Iv Tols
Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai xveiv. zl ovv XQogrjxu ;
qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv u qeztjv' dv S>j eidi xai oi jcoiijzai
xavtes yewf/votpes xai zav StjfuovQycjv 0601 Xtyovzai bvqezixoI
tlvai. nolit de (leyiGzjj , eqirj, xai xaV.iGzt] trjs tpQovytieas
f\ %a, itt an folganden Stellen in allen Handschriften
Theaet. p. 210. A. xvovftev Symp. p. 206. E. xvovvxij p. 209. C. ixvei
, wodarch , wie mir scheiut , fiir diesea Schriftsteller dei:
Aus- scMag gegebeo wird. itpo Zyxet xai xvijdai
xai xveiv . Ficinas verba convertit : Hi sane concipiant ea, quae
animae et concepisse et concipere convenit. In Schleiermacheri
conversione legitur: was der Seele ziemt z u er-» zeugen and erzengen
za w o 1 1 e n , Schulthessius yerba reddidit: dena fiirwahr, es
giebt solche, die raelir mit dem Geiste ais dem Deibe zeugen
und erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum conversionibus,
quo iare boc loco et aoristi et praesentis temporis infinitivi ponantur
eiusdem verbi. Aoristus autem non nisi notionem exprimit actionis
in universum spectatae j praesens tempus actionem cum efficaciae
notione coniunctam describit. Sensus est verborum: quorum procreationem
animus et cupere debet et revera efficere. ti ovy itflQfjjxet; De
interrogationibus medio sermoni interpositis, quibus ad rem attentiores
auditores redderentur, supra diximus annotat, p. 60. xq\v' 51
peyiGtr] — xai yaWiixr) Xv s q>povrj- GegjS. Haec e
Graecismo quodam dicta sunt, ut adiectivo praemisso sequatur
substantivum nomen com illo proprie per nominativum casum
coniungendum, casu genitivo. Vis huius structurae haec est, ut adiectivnm extollatur
atque potestate augeatur, , Verba convertenda sunt: Die grosste und
schonste Erscheinnng der YVeis- beit, diaxotfpifdeif.
Vulgo 6ia- Xodfirjdi^, quod ab eo profectum yidetur atque in textum
illatam esse, qui insequens pronomen relativum ad praecedens
nomen pertinere censeret. tovrcov 6 ’ av qxav rts Xx t.
Magna est difficultas horum verborum, quae vario mo- do a viris
docti» sollicitata sunt. Quaeritur %£iq£ cov verba atrum cum
praecedente %l}v ipvxqv con- iungi oporteat necne, deinde ipsum
jllud SeioS miram quantam displiceat. Quod se- quitur xai t
eo melius carere- mus. Primus H, Stephanus n)v Ipvxtfv $eio$ &v
coniungendum Censuit. Contra Stallbamniq* monet , tyxvficpY rrjy
Tpvxrjv hic dici oppositionis ergo, cum eorum i& superioribus
mentio fa- cta sit, qui corporis auxilio im- mortales fieri
studeant, SeioS V>v rrjy i/ivxijv nos etiam eo pomine
improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav itoltav te xal olxy&Eav
diaxoa/iyUsig, y Stj ovoua lott, CatfQodvvy te xal dixatoOvvrj.
tov- r cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV ilwpjv, B ftuog
<3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal yEvvav ySy Itcl&vueL
famil Sn , oi[ica , xal ovrog uspudv to tvv to dcopa ne cogitari
quidem possit. Heusdius scribendum cen- suit Tovtcov 8* ctv orctv r
iG ix riov iyxvpcov y rr}v ipvxyv, tr/v <pv6iv j&cZoS’ qjy
x, r. A., quibus verbis verborum difficul- tas non removetur. Kai
ante 7/xovdr/S positum Stallbaumio videtur non copulandi, sed
inten- dendi potestatem habere, neque ad participium tantummodo,
sed ad totam enuntiationem perti- nere. Sensum ait totius
loci esse: Horum fgitur si quis a puero praegnans est ad
animum, quippe divinus, etiam appropinquante ae- tate, quae
'pariendo et generando idonea est, parere gestit atque ge-
nerare. Alia via II. Stepha- nus xai explicandum censuit scribens
iitiSvpy* qua coniectu- ra efficitur , ut apodosis non a tovtgjv 8
av terbis incipiat, sed ab insequrnte enuntiatione; etyTEi 8i/ x.
r. A* Probatur haec explicandi ratio Astio et Rii- ckerto. Ficinus
verba reddidit: Quisquis ergo virtutum huiusmo- di natura plenus et
gravidus est ideoque divinus , aetate de- bita imminente parere iam
ge- nerareque affectat. In Schleierroacheri conversione legitur :
fFer 7 iun diese ais ein gottlicher schon von lugend an in seiner
Seele trdgt , der wird auch , wenn die Zeit heran kommt , Lust
haben zu befruchten und zu erzeugen. Nobis xai indicium est
, ante ijxovdr/S aliquid excidisse, quod quid sit, facilius
indicatur, quam qui factum sit, ut exciderit, cfr. p. 208. E. ol
jtkv ovv iyxvfioveS, icpr/ f xaid 6 capax a ovteS npoS taS yvy
alxaS pdXXov xpk- Ttovrai xal ravty ipcotixol tldiv , quibus verbis
edocearis, quid sit id, quod nostro loco .exciderit. Dicuntur enim,
qui ad corpus praeguantes sunt, ii- dem ad femineum sexum na-
tura ferri, atque corporis au- xilio immortalitatem sibi quae-
rere. Qui ad animum praegnan- tes sunt, num verisimile est, eos
aetate appropinquante tam nude dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos
esse. Nonne dictum oportuit; eos etiam ad ani- mam ferri atque
animi auxilio immortalitatem sibi quaere- re? Scribendum igitur
conii- cio : tovtcoy 8 av oxav tiS ix vtov iyxvpcov y tt/y ‘ibvxrjv,
g ov, xal xara rt/v tf)v - xf}Y yxovdi/S r jjs yXixLaS tixrciv TE
xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl, Sensus est: horum, inquam, si quis est
a puero prae- gnans ad animum, is, quippe divinus, etiam
animo, si aetas advene- rit, pariendi atque gene- randi c upidus
est. Verba autem xara ipvxtfY nou intelle- xerunt, qui xai
copulandi pote- state positum censerent. Hinc ea expunxerunt.
298 HA A TS1N02 xcdov iv tp uv ytvvtjautv’ Iv
t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^ XOTE ylwijOH. tu TE ovv 6 wuuta tu xuXu (luV.OV
Ij tu cd6xQu uexut,txai ats xvav, xul luv Ivtvxy 4'vxij xuXy xul
ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy uSTta&tui tb fcwtXUtpotlQOV , xul 3CQ0S
tovtov tov aV&Q(07t0V EV&V? tvxoQU Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI
olov xQ’l ^ val C tov uvSqu tov ayu&ov xul XuiSeveiv.
amo/ievo g yug, P,rftit St) — to xuAov, Iv m x. T. A. Primo
obtutu sciiptum exspectarem Spjrei 6// xaAuv ti, Iv oj av
yevvijdeiev. Sed optimo habet TO xa\bv % Sensus est: Quaerit
igitur etiam hic (ut alius, qui ad corpus praegnans est)
multo cnm studio pulcrum illud, quod aptum esset, in quo procreare
at^ue generare possit, it a v v 8 rj d 6 Tt d% et cti.
Tum rero plane utrumque, et corpus et animum pulcrum amplectitur.
Ne- que enim 87 } in his est scilicet, nempe, ut putabat Astius, sed
positum est nt in formulis iv$a 8 r), ivravSa 87 /, rore 8 rf,
atque refertur ad praegressa illa £dv hvtvjft ipvx y 7ta\y* 8 tali
b . xal Ttepl olov XPV vat tov av 8 pa. H. Stepha- nus
vitii aliquid in his verbis odoratus scribendum esse cen- suit xal
nepl tov olov XPV vat x. T. A. Bekkerns praepositionem nucis inclnsit,
Astius etiam xai vocula adeo odendit, ut eii- ciendam censeret.
Stallbauraius olov non masculinum, sed neu- trum genus esse
contendens ver- u BTUtqdsvHV, na i hti%UQ& oi[iat,, tov
mlov nal opi- /horum sensum hunc esse ait: quale sit, in quo
tractan- do versari debeat is, qui boni viri nomen et digni-
tatem ohtinere velit. Riickertus improbata hac explican- di ratione
Bekkeri exemplum secutns itepi praepositionem uncis inclasit. Nostro arbitratu
neque delendum aliquid est neque addendum. Articulum solent qui-
dem haud raro scriptores in hulusmodi enuntiatis addere, sed necessitas
additionis nostro loco nulla est* Proprie Diotima dictura erat: Ttepl
apeti/S xal olov xfiV tlvai x. r. A., quibus verbis nihil
inest, quo offendaris. Sed noluit ea hoc modo exhibere, ne parum
explicatam sit, utrum de uno an de duplici disputationis argumento
nunc agatur. Praepositionem igitur repetiit, liberiore dicendi genero
usa, quod in familiari sermone excnsabile censebis. In hoc nimirum dicendi
genere aliquyl tribuen- dum est pronuntiationi verbo- rum, quatenus
consentaneum est, Diotimam prolatis verbis Ttepl dpetijS xal Ttepl
linguam paul- lulum repressisse, post verba olov xprj elvai tov av8pct
x. r. A. ita pronuntiasse, ut auditor intelligeret, eflicere ea
unum ar- gumentato disputationis, et qaasi luiv ctvttp, a italai
Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv xal dxdv (isfivypivog, xal r 6
yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~ vrj fiet’ Ixeivovy Sgre tcoXv xowmrlav tfjg
rc5v Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol xoiovxoi ifjxovtii xal
cpiHav fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal d^avatatigcov ncd- dov
XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r oiov- tovg itaidag paXlov
yeyovevai rj tovg av&Qanlvovg , xal D $lg "0(itjQOV
ccTtofitiipag, xal 'Htiiodov xal xovg al- unam notionem ut
praecedens dperfjs. xal 7tapa>v xal aitcjY /i
Epvij /x£roS . Neminem fu- giet, alterum participium, napcov,
superfluum esse. Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim au-? gendo
orationis vigori inservit. Satis notum est Latinorum nolens, volens; quo
iure, qua iniuria, simii. Paullo infra legitur, p. 215. C. T a
ovY ixelvov idv re dyaOroS av\ Ti)s avXy. iav te tpavXr)
avArj- tpif , pova xatkxE6%ai noiEi xal SijAol x. r. A. Huius
dictionis vim nou assecutus est Astios, qui xal expungendum censet,
quod in duobus codicibus ante to yEvvijSiv omittitur. Eidem '
Kiickertus adstipolatur. Quid enim, inquit, sibi vult pul- cri
invenis recordatio dum praesens est? At procreati in eius
pectore fetus, recte mentionem faciat, cuius facile potest fieri ut
obliviscatur, certe si voluptati magis quam virtuti sit
deditus. trfi T dSv naiScov sc. xoi- vcoviaS. Frustra Bastius
scribendum ceusuit tg&v naiSovS - vgov vel 7 Cai 8 o 67 c 6 paov.
Stall- bauraius xoivcoviav tqjy rtaldoov esse censet
coniunctionem ex liberorum procreatione oriundam, Respici
consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem , quam saepias Diotima
tetigit in praecedentibus, v. c. p. 208. E. ol plv ovv iyxvpovEf,
£<prj, xard dcopara ovte* icpoS taS yvval - xaS fiaAXov
rphtovrai x. t. A., ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem commemorari,
quae procreandorum liberorum caussa inita post, procreatis liberis,
au- ctior atque firmior evadit. ola Ixy ov a havtdjv
xa~ r aA$iit ovdir. Olo ? et 060 S haud rjjiro pro on T oiovtoS,
oti T odovtoS poni, exemplis demon- stravit Mattii. Gramm. ampl.
$. 480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone familiari eadem
potestate adhiberi interdum, supra annotavimus p. 263. xal eis
“Opijpov djco - /3 A hf)aS — ZijAujv. Parti- cipia interdum
exhiberi copula addita nulla, sapra indicavimus annotat, p. 94.
Ibidem, qua po-^ testate participia ddvrSETcHit po- nantur,
explicatum ieperios. Ea potestas quoniam hoc loco non exprimitur,
admodum nobis dis- plicet participiorum ratio. Ne- que tamen Astii
medelam ver- Xovg itoirpcag Tovg aya&ov g fyXiUv , ola ixyova
iav- tljv xataXiMvrSiv, a ixtivoiq a&uvaxov xXiog xal fivijfujv
'Xttfjiyira.i ama roiamu orna' el 81 flovXsi, icpij , olovg Avxoiifyog n
alSag xarsXixsTO Iv Akxe- Saifiovi. OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal , ag
Img. d- 7 tdv, Trjg 'ElkaSog. ti/«os 8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov E
Sia rtjv Tuv vo(i(OV yivvrjOiv, xal aXkoi aXXo%i xoX- f.axov uv&Qtg,
xal iv "EXXrjOi. xal iv (iag^agoig , %oX- Xa. xal xaXa axorpyvauevoi
iQya, yevvrjtSavrsg Xav- %qiav aQitrjv' (Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB
Sia tovg Eorum probamus , qui Sr/Xolr) pro S,r)X(Sv
soribendum couiecit. Stallbaumius verborum structu- jram ait esse:
TtaS av SiUaiTO t avtd j xoiovtovS itai8aS jj.cc A- Jtoy
ytyoyivoLii r t rovs avSpa)- nivov* Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal
' Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj - T uS xovS ayaSovS, eIs
ixelvovS (tizofiXaipaS , ola Ixyoya kav- Tgjy xata\Eiitov<$iY'
Nemo ne- gabit, haec Yerba optime se ha- bere } sed nura eo ordine,
quo PlntQ ea exhibuit, eum sensura habere possint, quem
StalJ- buumius putat, alia quaestio est, quam certe addubitare
li- cet. Ruckertus commate post 'JitilodoY posito prius
membrum enuntiati esse censet xal elS "Ojityjov
d7tofi\h{>aS xal 'Hoto- 8ov , alterum xal xovS dXXovS 1
taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v. Quamquam haec explicandi
ratio admodum nobis placet, tameu esse aliquid censemus, quod
me- rito vituperetur. Non recte enim dici arbitramur xal eIs"
O pijpov ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro xal Eis "Ojirjpov
ccTtoftMipaS xal .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~ (3A.£lJ>a$
comma ponendum cura- vimu« , quo efficitur, ut cum
admiratione aliquis dicatur ad Homerum respicere, atque Hesiodum
ceteros- que poetas bonos cum in- vidia quadam prosequi»
ei 8 e fiovXei, Hcprj,o?- ovS Avxov pyoS . Brevius hic locuta
est Diotima quippe supplenda auditoribus relinquens, quae facillime
suppleri poterant: ei 8 ftovXei, ZjjXtkiy Avxovp - yov, otovS
nalSaS x. r. A. Ce- terum assimilatiouem generis, dc qua supra
dictum est annotat, p» 286., hoc loco admissam arbi- tror. Primitus
neutrum genus relativi Flato in mente habuit, cui TcalSaS
odiungeret appositio- nem. Post elegantiae studio ge- nus relativi
mutavit , idque ad sequentis nominis genus direxit» — Pro
xaxeXbzexo vulgo xate~ fehzEzo legitur. Recte illud re- centiores
editores e codicum au- ctoritate in verborum ordinem receperunt.
&y xal lepd TtoWd. cfr» Wachsmuths Hellen. Altertbumsk»
II. 2. p. 155. xavxa p\v ovv — xdv 6 v pvTj $ elrjS h.
e. quae hucnsqne dicta sunt de roiovtovs nalSaq , Sia de rovs
uv%Qani^ovg ovSe* vog na. Cap. XXVIII. Tavra (ilv
ovv ru iganxa ”<Saq , m Xaxgarig, xav Ou fivtj&ihjs ' tu da relta
xai Inontixa, av tve* 210 xct xai Tavra lonv , luv rig og&us fisruj,
ovX oid \ tl olo s t’ av tfys- iga fiiv ovv, £<pr ) , iyiS x al
ngo* Qvfiiag ovdcv unoldipa' nuga SI txiaftca , av o!o$ ta ys- dat
yag, rov og&ag lovra ini tovro Erote, cornm tu quoque mysta
iactus es fortasse* Iam iis, quae Diotima protulit, t d reXsa xai
izontixd oppo- nuntur, ut facillime intelligatur, quid sub verbo
Tavra intelli- gendum sit. Nimirum cum illa verba ipsa arcana
significent, ad quae spectanda, qui mystae esse cupiant, non
admittuntur, nisi ante quinquennali purifica- tione, quam xaSapCiv
Graeci vocant s. xaSappov , ad rem idonei facti sint , tavra
ipsam illam xaSapdiv denotare con- sentaueum est. Qninque
autem fuerunt, ut Theo Smyrnaeus nar- rat Mathem. p, 18.
initiationis gradus, quorum primus xaBap~ f.ioS vocatus est,
secundus tJ rijS teXerr/S napaSoCiS, tertius ino- nreia , quartus
avaSetiif xai Crappareov btiSsCiS, quintus ro' SaocpiXls xai Seotf
Cw8iairoS evSaipovla. Harum graduum verisimile est singulum
quemque annum unum sibi exegisse, ovx ol8* s el olo St*
av eItjS. Hic quoque e mysteriis similitudo petita est. Haud
ra- ro enim, qui mystae fieri cupe- rent atque arcana spectare,
^priusquam quinquennium praeterla- psum esset , impatientes morae
consilium mutabant atque a pro- posito abhorrebant, cfr. Piat*
Phaed. p, 69. C. eIcI ydp 6tfr <padv ol Ttepl rat r eXard? y
vap- %rjxoq>6poi plv izoXXol , pax- Xoi Se re rcavpou Ut
autem melius intelligas , quo iure do- ctrinam de Erote Diotima
cum mysteriis comparet, pergit So- crates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl
Xard t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi ij ol 7tE<piXo6o(pyxoTES
Op3(ZS. gjv 6jj xai Sycaye xara ya ro dvvaruv ovSlv dniXinov iv
rui pico , dXXa itavrl t porceo npovSvpijSiiY yevtCSat. eL 6 e
opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl 7fvv6a/i?fv , IxeICe IXSovteZ ro Caepi
S aldupaSa, idv SiuS ISe- Xy , oXiyov vdrapov, coS i pol donat.
Comparat igitur Diotima rei iosequentis difficultatem cum
quiuqueunii illius molestia, atque, ut mystae impatientes mo- rae , ita
ne Socrates difficultate rei ab audiendo deterreatur, vereri se
indicat. TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl. "&71E- CSat
verbum saepissime adhibet Plato , ubi auditores excitari si-
guifieaturus est, ut attentius au- rb xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra
levui 1x1 x « xala CtoftarK, xal XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai
6 xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog igav xcel ivzuvda diant
accuratiosquo , quae doceantur, percipiant. Petitum autem hoc verbum est e
mysteriis, ubi ducentibus ad arcana spe- ctanda iis, qui itept t aS
te\e- r aS erant, mystae sequi iube- bautur. p\v v e ov
oV“ ra. Hecte Ficiuns verba red- didit: Oportet eum , qui ad
hoc recto sit tramite progressuras, statim ab adolescentia
pulcra corpora contemplari, et primum quidem, si modo recte
ducatur, unum corpus amare. Ceterum Sy- denhamius, quem Wollius
laudat, optime annotat: Der Grund hiervon ist der, weil das
innere Auge sich zur E m- pfindung der Schonheit eben so offnet,
ais zur Erkenntniss der Natur. Unsere Seele fangt im- m-er bei
einem einzelnen sinnlichen Gegen stande an, geht da nn zu
einem andern fort, vergleicht beide, und siehtiniedem das,
was beidegemein ha- ben, So fiihrt sie fort, sammelt und
vergleicht mehrere andere Indivi- duen dieser Gattung, bis
sie in allen diesen Indi- viduen einerleildee, eine und
ebendieselbe Natur wahrniinmt, So gelangt sie endlich zu einem vo11standigen
Begriffe dieser sowohl de ii Arten ais der Gattung selbst gemein
schaf tlichen Natur, iener ewigen und un veriinder- lichen Idee, die
eine und ebendieselbe in allen ist. Inseqnentibus singuli gradus
per- censentur, quibus initiari debeat is, qui ceteram pulcri
ideam concepturus sit. Itaque Diotima, Stallbaumius inquit annotat,
ad b. 1. , primum ait initiationis illius gradum esse, quo ad
unum nos applicemus corpus pulcritu- diiie insigne, ex eoque
virtutem et bonorum sermonum fructum procreare studeamus. Secundum
esse hunc, ut non unum aliquod corpus amemns, sed omnia, quae emineant
pulcritudine , corpora amore complectamur. Tum pro- grediendum esse
ad consectandam animi pulcritudincm , prae qua corporis forma
omnino conte- mnenda sit atque id agendum, ut, quod iu moribus,
legibus, insti- tutis pulcrum sit, id animadver- tatur atque
diligatur. Denique perveniri ad sapientiae atque philosophiae
studium et amorem, quo qui incensi sint, eos demum ait intueri
pulcritudinis verae, constantis atque aeternae divi- nam formam
atque imagiuem. hv 6 S avtOV dcbpLCtTOS ipav. Bekkerus e quinque
co- dicibus edidit b>o$ avt&v yiaroS Ipav , quae scriptura ,
nt Stallbaumius atque Ruckertus iam monuerunt, nullo modo
ferri potest. Pronominis repetitio pri- mo obtutu molesti quid
habere videtur in verbis iittiTCt ou- roV x. T. A., re accuratius
per- pensa repetitam videbis, quo va- ycwav Xoyovg xcdovg'
Exuta 6tl avtov xotavoijaui, ori to v.aXXog zo ixl ougovv Gci/ian ra>
Ixl triga B 0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to Ix’
lidias graduum enumeratio emi- neret, alterque ab aitero signi-
ficantius discerneretur. Et quum in huiusmodi singularum rerum,
quarum altera ab altera accurate seiungcnda est, usitata prope sit
verbi finiti repetitio non dubita- vimus praeclaram Stallbaumii
con- jecturam , quae et a facilitate commendatur, in ordinem
verborum recipere, atque dei pro de exhibere: ineita dei avtov
Xatavoijdai. Verba autem quod attiuet: kvoS avtov CcdpazoS £pav,
quoniam praecedentibus adiuuguntur, nontanquam novi gra- dus significatio
iisdem opponun- tur, avtov pronomen nobis quo- que admodum
displicet, ut Bek- kero displicuit, ex cuius scriptura eruimus,
quod unice verum esse videtur: kvoS av toiv dcopazoov ipav. Av
particula, ut supra indicavimus annotat, p. 209. , e superioribus
aliquid supplendum esse docet, ut expletior oratio audiat: rtpajtov
/Av dei rov op- $qqS lovta ini tovto td npdy- pa ivoS zcdv
(jojpdtcjv ipdv. ori t d y d XX o S — ad e A- (p 6 v i6tt.
AdeXqjov rarius cum dativo casu coniunctura re- peritur, quam cum
genitivo ; in caussa hoc esse arbitror, quod rarius tropico, quem
vocant, quam proprio sensu exhibetur. Substitutum h, 1. est ddeXqjov
nomen in opioiov s. d/ioiotazov verbi locum ideoque eius casum
ad- scivit. / to in eldei xaXov. Wyt- teubachius ad
Eunap, Yol, II, p. 247* h. 1. dicit to in* eT8ei xa- A ov
dialectice dici pulcrum in specie, quae generi oppona- tur. Gai
assentitur Stallbaumius. Male, si quid video. Est enim pulcritudo,
quae in forma est atque sensibus perci- pitur» Hinc etiam ei dei
dicSxeiv dictum vnoSezixdiS. Ruckert. Schleiermacherus verba
reddidit : und es also, wenn er dem in der Idee schdnen nachgehen
soli, grosser Uuverstand wiire cet, Schulthessius ; uud weil doch
das Schdne der Gesummtgattung an- gestrebt werden miissecet.
Recte Wyttenbachius et Stallbaumius verba ceperunt. Ficinus habet
: Et si sequi decet, quod in spe- cie pulcrum, absurdum est cet,
yai eI det diGJXEiv X a AA o S . His verbis tertius gradus
continetur, ut quinque etiam eroticae initationis gradus
nominentur. Vide annotat, p, 3f)l* Sed haec verba tauquam alicuius
gradus significationem Flato non attulit, ne nimia, opi- nor,
singulorum membrorum si- militudine oratio laboraret. Pro- prie
scribendum erat; eneixa dei avtov Zv te xai tavtov ?}yei- 6$ at to
ini niidi toiS dot/tadi xaXXoS xai dicjxeiv avto ov in* eldei
xaXov. Sed quoniam hoc gerius dicendi praecedeut| - enuntiato
simillimum est, verens scriptor, ne nulla varietas esset orationis
, condilionali particula addita id genus dicendi exhibuit, qi/od in
libris comparet. Quae uutem sequuntur > tovto 6* £v~ 1
tiSst xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re xal r avrov cjyeiG&ai ro
Icci ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8 ’ IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai
ctavtav rav xaiwv Gafiarcov iQaOrrjv , hos 8 e ro GqjoSga rovro %a)JcGai
xaracpgo- vrjGavra xal G/uxgov tjytjGafiBvov ' ftsra da ravta ro Iv
raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov rjyyGaG&ai rov iv tfii Gajiau, agre
xal, av btcuxrjg cov rqv us VOtjdavttt xara6ri]Vai rursuni ad verborum
praecedentium bt et- ra det avrov xarctvoij6ai ex- emplar
conformata sunt, quar- tum gradum eroticae initiationis
exprimentia, ut expletior oratio audiat : httira 6ei avrov
ivvorj-> Cavra xara6ri]Vai x. t. A. bvos db ro dtpodpa
rov- ro. 'EvoG sc. xaXov tiooparoG. Sensus est: nimium autem
illum unius corporis amo- rem, (quo de supra dictum est p. 210. A.
xal TZpcorov pbv — IvoG av r cov 6copdxcov ipctV et quem qaotidie
videre licet,) cum contemtu remittere oportet. Minus apte Rucker-
tus annotat ad b. 1.: quod au- tem rovro posuit , eo factum f quia
cum > Socrate loquitur Dio - tima f est enim eadem ilpoove.iA t
quam ubique Socrates usurpat Platonicus j ut ad amorem pue- rorum
propensiorem se esse si- mulet. Tantum enim abest, ut propensiorem
Socrates se ostendat Diotimae bis verbis laudatis ad puerorum amorem , ut
potius cur non sit, et esse nolit, eius rei rationem indicatam
habeas. Prorsus autem rei intelligeutiam Riickertus pervertit, de
puerorom fimore hic cogitans, *EvoG ro 15<po - Spa rovro potius
ad utrumque sexum pertinet, atque sive femina sit sive puer qui ametur,
unius amor (die ausschliessliche Liebe ei nes Gegenstandes)
vituperatur c Ii Sr e xal dv — xal 6 pi- xpd v avSoG i XV’ Vulgo
iav additor ante Cpixpov. Annotat Stallbaumius ad h* 1* :
Horum verborum constructio quam valde laboret, etiamsi non
observave- rint interpretes, tamen vel mediocri animi attentione
neminem potest latere. Quum enim doGre Xai referendam sit ad
igapxetv avrqj , apparet eorum verborum, quae interiecta sunt,
rationem iav bis illato mirifice perturba- ti. Neque tamen medicina
longe petenda est. Deleto enim altero iav omnia sarta tecta erunt. Nam
ita xal tipixpoV positum, ut Piat. Criton, c. V. extr. et n xal
6pixpov ypcoV ocpeXoS 7/v et sexcentis aliis locis. Idem de hoc
loco nnper visum esse Astio non sine animi laetitia video, Sententia
igitur haec est: si quis proba sit animi indole et vel
tantillum pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et
,verisimilior haec coniectura est, quam Sommeri commentum, qui cov
participium in y immutan- dum censuit. Pro iav , quod ante
irtietxjjG positum reperitur inultis in codicibus, vulgo txv
legitur, quod Bekkerus iu oidi— nem verborum recepit, quem
xnl [lav] 6juxQov av&og lyy , eiagy.nv avrco xal tgttv C xal
xijdiaitca xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv, omveg jtoiijaovOi
fiO.rlovg rovg veovg , Uva avayxaod fi av &taoua&ui ro iv rolg
ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig xakoi' , xal zovto ISnv , ort jcav ai no
avu5 fcvyytvig tduv , tva to siegl ro Ouaa xa/.ov tiiuxguv n
%yrfii]- rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg
ixiOrrjfias secuti sumus, nt esset, cnr acri- bae uon
intelligentes huius vim particulae ante tijuxpov idv
inseruerint. xal t Ixxeiv \6y ovS t oi - OvzovS x al ?,7/z
etv. Verba xal ZtjzeIv Astius ineptnm glos- sema habet, neque
quiequam post rixxsiv \6yovs xoiovtovS locum habere arbitratur, quam
xat ix - T pl<pEir, Quod verbum si com- pareret in libris, a
nemine non probaretur; sed habet etiam # 7- teiv , quo sese lectori
commen- det. Stalibaumius ctTjxsiv verbi patrocinium suscipiens,
Diotima, inquit, hoc dicit: talem amato- rem uon modo ipsum parere
quasi et ex se procreare , sed etiam aliunde quaerere et
investigare eiusmodi sermones , qui iuvenes reddant meliores.
Quibus ver- bis significatur maxima hominis contentio et stndium,
qni niteri omnibus rpodis prodesse cupiat. Recte.
oltiVES It Oli} dovtfl. Iland raro Graeci scriptores futuro
tem- pore utuntur, quo significent, aliquid haud dubie futurum
esse atque fere necessaria de caussa : welche die Iiingliuge besser
rna- clien m ii s s e n . tva dvayxa.6$i/ — ivct x 6 n
spl x. x. A. "iva particulae repetitio hoc loco sutis molesta est.
Huiosmodi repetitiones admittuntur quidem a scri- ptoribus, sed eo fiue,
qui a no- stro loco alienissimus est. Ni- mirum quando cum
gravitate singulae alicuius rei actionisve partes enumerandae sunt,
haud raio scriptores voculis npdoxov pkv — insita s. insita
64 utuntur. Hae partes, ubi per Runles particulas inferuntur,
haud raro etiam illae voculae omit- tuntur, atque particula finalis
re- petitur. Vide lud. s. v. Repetitio. Quam aliena haec dicendi
ratio a nostro loco sit, sponte intelli- gitur. Hinc Astio
assentimur, ivct posterius expungenti, quod quomodo ia ordinem verboium
irrepserit, facillime potest indicari* J*rnecedit enim idti, quod»'
itpsA- xioxixov dnte interpunctionem assumsit, cuius vocabuli
syllaba huulis iucuria scribarum dupli- cata ansam dedit
corruptioni. Totum Jocum Astius sic scribi iubet: iva avayxa6$EiS
av SsacSaCSai to iv tois Inixr}- Qsvpatii xal rois vopoiS
xa- Xov xal xovt* i6slv , oxt ndv avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro
mpl to 6 copa xaXov 6/Jtxpov . xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus
Stallbauraianum argumentum , quo dicitur admissa con- jectura Astii
totius sententiae ratio perversa esse. Quippe ita, Stati - 20
t t , uyayuv , f 'vct TSy av ixusrtjfuSv
xaiUos , xal fifJxav D XQos nohv fjdrj r. 6 xaKov , (irjxtri ro xuq evi ,
montq olxttrjs, uyaxwv , xutduyiov jkUAos V uv&qwxov uv os
banmius inquit , ea par* enuntiati , quae continet rei longe
gravissimae significationem , par- ticipio indicatur, altera , quae
rem minoris momenti denotat , per verbum finitum exprimitur. De hoc
verborum structura vide ludiccs 8 . v. Participium, pera 8i x
a kn iXTf Ssv - para — ay ay eiv, Hic ut taceam tot verbis
interpositis denuo novam periodum ab illo detV in principio posito
suspensam, nonnihil offensionis habere , illud vix excusare possum
, quod sub- lectum etiam mutavit Plato , atque ab eo, qui ducitur,
transiliit ad eum , qui ducis et magistri personam agit. Est enim plena
sententia: Ssi Xov 7/yov- p£vov dyayeiv avxov x. r. X. Hoc
Riickerti iudicium est, quod esse suspicor qui probaturi sint. Nobis
neque 8« verbi omissio incommoda est, neque vero sob- iecti mutatio
excusatione indigere videtur. Suut enim verba magis ad sententiam , quam
ad grammaticam subtilitatem conformata, Atque mirari non possumus, hoc
loco pro eo, qui ini- tiandus sit, eum commemorari, cui iuvenilium
animorum initiation sit commissa, cum idem etiam in praecedentibus
commemoretur* cfr. p 210. A. 8ei yap , £<prj, xov opSdfc lovxa
btl rovro ro irpaypa apxtdSai piv veov ovra levat irci ra xaXa
6(d- pata r xal npcorov piv , iav opScoS 7\yr}tai 6
r\yox>- pevof , kvoS av x. x. A. prjxixt xo 7tap * ivido
S- f tep oixirrfS dyandov. His verbis inesse quod minus bene
habeat, statim lectores inteliigent. Bastius SovXevgov ineptum
glos- sema habet , quod oixkxTjS verbi explicandi caussa margini
olitn adseriptum post in ordinem ver- borum irrepserit. In aliquot
co- dicibus pfo ptpte xt xo legitur pyjxit* ha), uude Bekkerus at-
que Schleiermacherus scribendum ceusuerunt pTjxezi rw. Astius scribendum
couiecit: prjxexi xo 7 tap* ivi, QoSnep olxixifS, dya- rtGov
xaXXof, y avSptanov xi- voS 7? ijtitTjdsvpaxo $ IvoS, x, r. A.
Vulgo verba hoc modo interpunguntur : 7£poS noXi) ijSjj ro xaXuv,
prptkxi xo nap - ivi, ddsnep oIxext}? ayandov naiba- piovy xdXXoS,
t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad h. 1. Nihil, inquit,
mutandum videtur praeter interpunctionem, quam nbi emendaveris in
hanc modum: xal (iXincov npds noXv 7/drj xo xaXdv, pTjxizt xo
nap’ ivi , doSitep oixixTjS , ay vendor itaibapiov xaXXoS x . r.
A., haud scio au omnia satis expedita fu- tura sint. Nara ad ro
nap* ivi , quod connectendum est cum dyaitdov, rursum intelligas
xa- Xov, Apto vero additur c Zsnep oixknfiy quoniam, qui unius
tantum admiratur polcritudinem, is ei tanquam servus quasi emancipatus
videtur. Porro nihil habent offensionis, quae deinceps sequantur:
naiSapiov XaXXoS — iittXTfSEvpaxo » ivoS, quae nemo est, quin videat
, apposita esse *o \ y imTTjdlvfiaros {vug,
dovktvmv (pavXog y xal 0 /jixqq- koyog , cAA’ tal ro nokv nikayog
xecQamiivog rov xa- koii xcd &taQdov xolkovg xcl uaXovg ivyovg uai
(it- praecedenti ro nap* kvl explica- tionis gratia, ita ut
pro to xa- X uv nunc dicatur nuiverse xaA- AoS\ Denique nec
participiorum cumnlatio quidquam habet, quod ab loquendi
consuetudine alienum sit. Nam fiXbroDV npoS noXv ro xaXov arcte
cohaeret eam pipiETi ro nap * kvl dya- nckiv f atque indicat modum
et rationem, qua fiat, ut amator non amplius unius tantnm
admiretur pulcritudiuem, 4ov\evgjv autem reiereudum est ad
q>avXo$ y xal 6p . , ita ut idem sit , quod dia Tu BovXeveiv*
Quocirca sententiam verborum sic fere red- diderim: post studia
illa ad scientiae genera ad- ducendus est, ut sapien-
tiae intueatur pulcritu- dioem, atque eo, quod latissimum puteri
campum spectat, non i a m unius, sicuti servns, admiretur
pnlcritudinem eaque servitute vilis existat et pusillus, sed ad
immen- sum pulcritudinis.mare conversus etc. Iloec
egregia verborum explicatio est, qua et codicum lectionem servatam
fet Platonis ingenio haud indignam gententiam repertam habes.
Unum tantummodo est , quod in hac verborum explicatione minus nobis
placeat, oixBTt}? nomen. Sa- tis apertam esse reor, Platonem, si
servilem conditionem eius describere voluerit, qui unios hominis
vel rei udmiratidne atque AMORE captos teneatur, 6 o d- \oS non oixittjS
nomen ad- hibiturum fuisse. Sic infra p. 219. E.
xctTatdefiovXayiEro? re DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S OvStlf V7t
ovSeyqS d\Xov icfpiya . k, T. X., cui innumeros alios locos
addere possemus, quibus probure- tur, ad servilem conditionem de-
scribendam Platonem nusquam o f- xkxyjS vocabulo nsum esse. Scri-
bendum est autem pro oixixtjS nomine 6 IxitrfSy quae vocabula
passim confusa esse Iacobsins monuit annotat, ad Meleagri epigr.
XXXII. v. 2. De Initr/S vocabulo amatorem unius hominis
describente, vide Excurs. &it\ to noXv niXayoS tet
pappivoS rov xaXov . Picinus verba convertit: verum in profundum
pulchritudinis se pelagus mergat. Stallbaumius exhibet: sed ad immensum
pulcritudinis mare conversas. Videtur nemo ioterpretum verbis offensus esse to
noXv niXayoS, qoae sane, praesertim cura praecedat xal ftXbtcov xpuS
noXv ydij to xaXov t nimis ponderose prolata snnt. Satis erat
dixisse ini to niXayoS rov xaXov vel ini ro noXv r ov xaXov
Utrumque verbum h* 1. adhibe- tur prorsus eodem modo, quo aX - AofT
cum nomine aliquo coniun- gitur. Ceterum apte conferri iu- bet>
Stallbaumius Plut. Quaest, Piat. p. 1001. E. ro piyi- 6rov y ccdtoS
iv Svpnodtco Si- datixoov , rttoS 6si toIs ipoari- xoir xpydZaij
perdyovra rrjv i>vyt)v ano tcov afoSyrcov xa- Xdjv ini ra
votjrd, napeyyvd pijrs CooparoS tivoff pyz’ im- 20 • ‘yaXoitQtxtig rixrij xccl duevotjfuna tv
rpiioGotplct atpfto- vto , eag av ivrav&a QGXS&alg xal
avfy&fls xattSij tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv, fj loti xaXov
toiovSt. E IlHQa 6s ftot, hffj , tov vovv XQogt%uv tSg olov r
t (laXitita. Cap. XXIX. "Og yuQ av (lifflt
ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya- tijSev/icttoS fitjr’
btttirijftriSxaX- Aft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~ A eveiv, aXX*
dnoOtdvxa xij$ itepl xavta pixpoAoylaS ini xo noAv tov xaAov
itiAayoS xpi- 7te<$$ai. $e&)pG)v * — rixrxj xal
8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina* exhibet ia conversione : abi
ipso iutaita multas praeclaras atque magnificas rationes
intelligen- tiasque in philosophia abunde pariat. Attius, dqiSovGQ
verbo oifeusas | acpSova scribendam eoniecit. Nobis transpositione
verborum opus esse videtur pro- pterea, quod praecedens 3en>-
pcjy participium sequente ac- cusativo, qui ad id non per- tineat,
satis inepto loco positam videtor. Supplendum cen- sent ad $£(u)p(k)V interpretes
av- zo , sed supplemento illo ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal
xaAovS A oyovS xal peyaAo- npeneiS haud excusabilior reddi- tur.
Scribendum igitur videtur esse: aAA* btl td noAv neka- yoS
ZExpappeyoS rov xaAov xal SEwpobv zoAAovS xal xa- Aovs AdyovS xal
8iocvoi}pata xixxy iy <piAo6ocpia dq>$ovaa. Seusus est: sed
ut conrsr- s o s a d 'im m e n sam pulcritudiui.s copiam atque intuens
pulcrorum atque praeclarorum lermonnm immensam materiem
(vide annotat, p. 333.) pariens sit in philosophia
ditissima. De verborum transitivorum absoluto usu , quo nostro loco xi~
XTQ dicitur pro tixxoDV y , saepius iara diximus. Vide Indices. tiva
initixrfprfv piav x oiavtrjv h. c. scientiam eam, quae est ideae
pulcritndinis, ad quam cognoscendam Socratem Diotima adhortatur ut animo
attento essa studeat. Ceterum xazidy miuus apte Schleiermacherus
reddidit: bis er erblicke; xaxiSel-y est potius: mit dem Blicke
erfassen, agnoscendique notionem videndi notioni addit. Sic p. 172.
A. legitur roJv ovv yycopipooy r/J oxiCSe xatidcSy pe
xdfipcj- &ty ixoAede x. x. A. h. e. : einer meiner Bekanntcn,
der mich von hiuten sali and erkannte. Paullo infra p. 210. E npds
riAuS ySff icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S xaxdip ex ai xi
SctvjiaCxov x. x. A. piypi iytav£a. Sic libri meliores
omnes pro vulgato //i- XptS, Quod enim Phrynichtu p. 6., Herodian.
Philet. p. 451., alii grummatici veteres, pdxp* el axfn tanquam
Atticam probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa ,
srpog riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav-
(iciGzov tijv tpvGiv xaXov , tovto txiivo , a £ioxQccceg, ov 8rj tvcxEv
xal o£ ZfixQoo&iv zcavzig novot zjaccv, ngarov (tiv ccei ov xal ovts
yiyvofisvov ovts utzoX!.v(1£- 211 vov, ovts av^avofisvov ovts
qp&ivov, ezcaza ov zy (ilv tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv,
rora 6 ' ov’, ovds arpog (ilv ro xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd'
Ev&a filxpiS antem et axpiS improbant, id verissime dictum
esso testantur Platonis codices meliores omnes, qui tanto consensa
tuntaque constantia ea de ro consentiunt, ut vix sex septemvo apud
Platonem loci' reperiantur, obi altera forma communi fir- metur
librorum consensione. Nam quae Heindorfius ad Piat. Gorg. p. 137.
collegit, ea nunc omnia ex codicibus emendata suat. Stallb.
Secj/isv o$ i<pe£ijs re pcal opS-d)? h. e. die Grado des
Schdnen in seiner 1'olgp und Richtigkeit. De tl pronomine
indefinito, adiectivis nominibus vel praefixo vel postposito, Mat-
thiaeus disseruit Gramm. ampl. §.487. 4. p.911., ubi et no- ster
locus laudatus est. iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti
dicebantur ii, qui superatis gradibus tandem ad spectanda arcana
admittebantur. Hinc factam esse videtor, ut ipsa illa arcana,
quorum caussa multi labores suscipiendi erant, TfiSv teXcov nomine
insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen. Alterthomsk. I, 1. p. $24.
an- notat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS
ist niclit die des Endes , ais der eintretenden Nichtigkeit voo
et- vas Vorhandenera, des Eintritts einer Leere statt der
friiheren Fiille, sondern vielmehr, kraft der Ableitung von tiXXca
(zum Dasein kommen, hervorwachsen, reifen) der Bcgriff, dass
etwas •ich verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel
erreiche, seinen Zweck crfuUe, rouro ixeivo sc, idrlr.
Diotima nunc de pulcri idea locutura, cuius caussa tota oratio suscepta
est, rouro pronomine demonstativo recte utitur. Exei- vo addit, ut
significet, eiusdem pulcri ideae iam prius mentio- nem factam esse.
Hinc rjdav explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius
caussa esse diximus labores omnes. Ut Graeci tovto Ixeivo, ita
Latini hoc illud adhibent hand raro, atque interdum satis cum
acri- monia; cfr. Terent. Andr. A. I. sc. 1. v. 97.
Quae sit, rogo. Sororem aiunt esse Chrysidis. Percussit
illico animum. Atat hoc illud est , Haec illae lacryinae,
haec il- last misericordia. it pdotov ael ov xat o
t’tfi x. X. X. Satis notum est, atque eti«uu vernaculi sermonis
(ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov , <5g rtfil (ilv ov xcekcv,
ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16 xalov] olov
TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov (Swfia [itte%sL, o vd£ xtg
koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi jtov ov ev iteQa nvl, olov Iv £w<a rj
Iv yjj rj Iv B ovgava > jj l'v xtp aXXtp , alia avxo avxo
fit& ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala
Ixei- vov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav te xov
allav wtl dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te probatur exemplis,
duas res, qua- rum altera alterius explicatio sit, copula adhibita
haud raro arcta couiungi. Huius usus exempla si quaeris, ludices adi
8. r. xat explicativum. Sententiam quod attinet, cfr. Cic. Orat, c.
8* Has rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et
ait •emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera
nasci, occidere, fluere, labi, nec diutius esse uno et eodem
statu. ovdfc npoS plv T 6 xa - \6v. Haec verba ut vulgo ex-
*” bibentur, articulo gravi iusignito, aliquid iucommodi habent} quis est
enim , qui non censeat, si ro nocXoy exhibitum est, ar- ticulum cum
nomine subsequente coniungendum esse? Idem cadit in verba to
aidxpov, quae paullo infra leguntur. Gravem igitur ia acutum
immutavimus, quem etiam exigit pausa, quae, si recte baeo verba
recitaveris, post ovSfe TtpoS plv ro comparebit. Ceterum TtpoS plr
to , npoS TO duplicem rationem indicant, qua res terre* strea
spectari licet, ideam pulcrl spectari non licet, ot>d* av
<p avta<$$7j de *• tat avxo [r o xaXov]. Bek- kcius, quem
Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus, ut videtur, avT(fi pro
avxo edi- dit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius inquit, probare uoli.
Idtelligitur enim ipsa puteri species et for- ma. — Recte; sed
mious nobis placet To xaXov, quod, quam fa- cile potuerit ab eo ,
qui avro recte iutelligeret, in ordinem ver- borum inferri, statim
apparet. Avxo nutem prorsus eodem modo positum esse videtur, ut p.
210, E. TOVTO IXEIVO , OV 6f) £VEHEV xat ol tyjcpo6$Ev
TtavTES no - voi rfiiav. Uncis igitur inclusi- mus verba ro' xaXov
, a XX' avxo xu$* avxo peS* avtov. Apte Schleier-
macherus verba reddidit : sondern an und fur sich und in sicb liberali
dasselbe seiend. t a Sb aXXa narra 7cadx et y ptfdiv*
Dicuntur emuia, quae in terris pulcra vo- cantur, sensibusque
subiecta sunt, non ipsa ideam esse pulcri , sed cum ea cohaerere
tautum- modo, ut cum haec oriantur at- que intereant, illa neque
augea- tur, neque minuatur, neque ulli ' mutationi obuoxia sit.
Haec pi- zijf ideaS quomodo in- telligenda sit, a Stallbaumio
ex- plicatum habes annotat, ad h. i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov
yiyveidai (it]d's natixuv (itjdtv. orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6
oq&us naiScgaoniv Inaviav Insivo to xaXov aQ%i}un xaQoQciv , 0%eSbv
civ ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ Sr) ian ro bgftug c ini ra
iganxa livai $ vn aXXov uyso&a i, ciqxoiibvov ano ravds tav xaXwv
ixeivov tvixa tov xaXov clil inavdvai , togneg tnavafia&ftolg
XQwficvov , uno tvog ini 6vo, xal uno dviiv Ini narra ra xaXa
edficcra, xal ano tav xalav Oafidzav Ini ra ' xaXa InmjSsv-
Quae bona, pulcra , honesta sunt , ea putabat Plato bona , pulcra,
honesta facta esse eo , quod re- ferrentur ad ipsam bonitatis ,
pulcriludinis atque honestatis speciem, eiusque quasi partem
aliquam in se continerent. olor yiyvopevoov re tcov aXXoov x.
r. X. Dc olor sequente infinitivo vide Matth. Gramm. atnpl. $. 535.
Laudat Btallbaumius Piat. Apol. Socr c. 18. iyoo rvyxtxfc* tov
toiovtoS , oloS vTto tov Seov r y itbXei 8e8o6$ai. Adde Piat.
Protag. 1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov t} SixaioOvvy olov
Sixaiov li- rat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov tibvtovto avto ro itpdypd
(pa- te toiovtov tCKpvxlvat olov avodiov elvat y olov ouiov ;
ibid. p. 831. A. ovx apa icSzlv odtorrj $ olov Sixaiov elvat
rcpaypa , ad quem locum Stall- baumius rectissime, li. c inquit,
toiovtov Ttpdypa , olov dixatov elvat, — Pro ixtlVOf quae opti-
morum .codicum lectio est, vulgo exeivoo legitur , quod et Ficinus
tuetur: cetera vero omnia , quae pulcra sunt , illius participatione
pulcra , ea scilicet conditione , ut nascentibus et intereuntibus
alus nihil subtrahatur "illi aut addatur y neque passionem
ul- lam incurrat . Beue dativus ha- beret ixeivoo y ai verba
abessent py8h nadxetv pySiv , quibus additis pleonasmus oriretur
hoc loco non ferendus. Igitur Ixeivo Unice probandum ducimus.
ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo legitur ozav 61 St} nf , quod
Biickertus retinuit, quia defendi posse videatur» Illud
Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vin- dobonens. unius, quam
Bekkerus, Stallbaumius , alii intextum receperunt. Rem hic tangit Diotima,
quae iam in superioribus commemorata est, cfr. p 210. E., ut nullo
modo ferri possit Se particula. *dteo tcdvSe autem ad praecedentia
respicit yiyvopk - voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv , resque
describit, qua- rum natura mortalis cum im- mortali idea pulcri
aliquam com- munionem habet. tovto yap 8 y itinv. His
et sequeutibus verbi* ratio agendi summa lim repetitur, qua uti
«debeat, qui verus AMATOR esse velit. Eam agendi rationem cum scala
comparat Diotima, qna ab imis ad suprema ascenditur. Hinc enaviivat
verbum positum et draPaH poiS nomen. Iu Flo- (itera, scal ano x av
xaXiov Inixtjdev/idxatv in l ta scala (ia&y(iccta , igr’ av ano xav
(ta9t](idxav ts t ixtivo x 6 (idditfia xtievxytfy , o laziv ovx
dlXov y avxov ixelvov xov scaloti (id&tyia , scal yvoi auro xeXevxmv
o D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj
rj Muvuvixr) | ivij , el' n I q jcov aXXoth , 0mo xov ctv- &Q<ancp
, 9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys, rentinis
aliisque libris non pau- cis avafiad/iOiS reperitur, quam
scripturam etiam Phrynichi iu- dicio probatam habes , qui p. 824.
fiaSfxoS , inquit, ' IotKov 8ict *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed ut
vulgatum retinuerimus , Lobeckii annotatione factum ad !• c. Prorsus
igitur asseutimur S tali— baumio et Biickerto, qui ava - fiaS/xoiS
in textu posuerunt. Ce- terum ne parum accurate et ini- tium, a quo
exordium facere, et finem, ad quem teudere debeat verua amator,
descriptum atque explicatum indices : numeri di- versitate verborum
aico xoav6e tg ov xaXcov ixtivov i vena xov XaXov efficitur , ut de
Diotiroae voluntate vix dubitare possis. Quae enim in terris pulcra
habentur, quoniam multa sunt, plu- rali numero, contra, quoniam una
est eademque semper, idea pulcri singulari numero descripta est.
$$t’ av — rtXsvTt/dp» Primus Stallbaumius monuit, no- strum
locum si exceperis, nullam esse Platonis, iu qno &V* av reperiatar Hinc
sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quae codicum nonnullorum
auctoritate augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini, aliique
libri m»u pauci pro £ft av habent xai, quam voculam u« propter
sequentia minus aptam iudices, pro teXevxiJujf in aliquot codicibus
TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall- baumius scribendum esse suspi-
catur, xal ano xc5v fiiaSijud- xoov in * ixetro xo jiaSrjua xt-
Xtvxrjdtt. Sed cum hac scriptu- ra prorsus nou convenire viden-
tur, quae sequuntur: xal yvoS avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov , quae si
velis in xal yvoSdtxat avxo x, o l6xi xaXov immuta- re,, monendus
es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o scri- ptnrae varietatem
reperiri. Verba convertit Stallbaumius: atquo ad extremum cognoscat
ipsam pul critudinis id e - av, quod praecedente xal — xtXtvrijdei
qui probare potuerit, non video. Licet igitur ist* av praeter
nostrum locum nusquam apud Platonem reperiatur, tamen iu textum
recipiendum est. KaL autim, qaod pro iSx* av in ali- quot codicibus
comparet , ab iis profectum esse putandum est y qui ist* av alias
apud Platonem non reperiri intellexissent. Ut nostro loco £sx* av,
ita p. 191. E. T ioof relative usurpatum ha- bet, quo offendat;
neutrum ex- ceptis Jouis illis 'apud Platonem reperitur, utrumque
autem ser- vandum est. quo magis a Plato- nica dictione alienum
< st , co studiosius. Ceterum xtXevtuv ov xtrccc %qv6iov te xal
ia&rjrct xal tovg xakovg xal- 6dg te xal veavicSxovg 56 |ei eoi tlvai
, ovg vvv vgav ixxixfojgca , xal eroiuog el xal 6v xal aU oi xoUol,
ogcovteg ta xacdud xal twovreg ael avtoig, tf ncag oiov t’ r/V, (itjte
ia&ieiv [irjte xlveiv, aU.a fHdo&at fiuvov xal jiweivac. xl drjra
, Irprj , ' olo(it9a , el tat ytvoLto avto xo xakov ISe Iv elhxQiveg ,
xa&agov, E < '.ni tt enatam est tx Epxc<S3ai
tcXtvruvia ini Tt, quod contra- ctionis genus apud Graecos scriptores
irequeiitissimum, SeGopivaj avto xo xa- Xov. Recte haec verba
a prae- cedentibus addita interpunctione seiunguntur, continent
enim ac- curatiorem ivravSa x ov /5iov verborum explicationem.
Sensus est : Si usquam alias vita vitalis. eat homini, tum
est, quum ipsum illud pol* erum in tuetur. ov naxa XP vtiiov
h. e. non ad aurum, vestimen- tum, al. comparandum illud iudicabis.
Nam nata praepositio ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat.
Apol. Socr, init. opoXoyohjv av ty <*• ye ov nata xovxovS elvai
(bj- ta>p. Stallb. Diximus supra de hoc nata praepositionis si-
gnificatu annotat, p. 4l. Ceterum memorabilis locus est propter verba
TtaiSaS xe nai veavidxovf. TIaidcov enim no- men Attico usu
loquendi suffi- ciebat ad pueros iuvenesque significandos. Nemo autem
mira- bitur , veaviCnovS etiam commemorari, qui reputaverit , Diotimam,
feminam peregrinam, hic loqui. Eadem quaeri potest cur x di
yvvalnai taS naXaS non commemoraverit. Ot)f VVV O p GJ V
ix7t£- Verba eflectum animi judicantia aoristo tempore ple-
rumque ponuntur, de quo usu vide annotationem p. 221. Alia tempora
admittuntur tum , quum non de re vere facta sermo est, sed animi
commotio inmma ita tautummodo commemoratur, ut fieri posse vel
solere indicetur. Hoc in nostrum locum cadit, ubi praecedente oparv participio
conditio expressa est: quos ut nunc res* se habet, si vides, animo
percelleris atque paratus es et to et alii multi, amasios
sem- per videre semperque cum iis esse, si unquam id fieri
possit, neque edentes ne- que bibentes cet. Vides igitur, participia
infinitivorum loco, infinitivos participiorum loco po- sitos esse,
cuius dicendi usus. ex- empla indicata reperies in Indi- cibus s.
v. Participium. a\\a $ ea 6 Sai fiovo t nai B>w eiv ai.
Haec verba grammaticam verborum juncturam ai spectas, e praecedente
na\%tot- • po$ el nai dv nai aXXoi sroA- A oi apta sunt; quibuscum,
si ad sententiam respicis, minus ea cotiveoire senties. Non
enim amatores parati promtique sunt tolo amasiorum adspectu
atque eorum societate delectari , Sed ¥
314 I1AAT&N02 afuxrov , «/Urc (irj tivanlmv
«JorpxiSi» re avftQaittvtav xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg Ttoklijg
tpXvaQlas rjg, ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo (xovoudis
xazideiv; aatis est ipsis amasiorum so- cietas et adspectas.
Igitur libe- riorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias
ia familiari sermone haud raro re- perias. Eius originem
putare possis participiorum usum opaov- teS xal HwoyxeS, de quo
mo- do diximus. Nam cum dictum esset xal ixoipoS el xal 6v
xal aAAoi 7 C 0 XX 0 I — opdSvxtS — xal B,vv6vxe5 — M 7 h £
i-GSieiv pi/XE itivEtv f illaque participia pro opdv ct Zvveivai
posita es- sent, facillime scriptor infinitivis uti potuit SeadSai
et B,wiivai in dictione, quae praecedentibus infinitivis itiSUiv et
itivEiv op- ponitur. Ceterum de illorum verborum absoluto usu vide
Iu- dices. d\\a py dv ttitXzwY . Astius aWa abesse
cupit. Con- tentus esset, opinor, ai xal ptj scriptum esset. At
Graeci , ubi nos dicimus and uiclit, ita ut praedicatum praedicato
opponatur, pariter xal ovh et aAA* ovh usurpant. Riickert. cfr.
Piat. Protag. p. 841. D. 7 roAAod ye 6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv '
& IJpo- Sixe. aXX iyoa ev 016 dxi xal 2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV
E\e- yev onep ypiit ol dWot , ov to xaxov, aXX o dv py
jbdSiov y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa -• Tvv yiyvyxai.
xal dWyS noWijs q>\v- cr p laS 3 v tj x i} S’. I 11 Piat.
Phaedone, quem Stallbaumius lau- dat annotat, ad h. 1. p. 66.
C. legitur: ipojxoov xal £ict2v- picov xal epoftcor xal
eA8ooXgov itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ip- ninXyCtv rjp&S
jroAAt/f, ubi O- lympiodorns : cpXvaplaSxa- A el 6 TJAdxcov nav to
it£pixxdv t ov povov xo iv \6yois , aA Ad xal xo iv IpyoiS.
Convertit Schleiermacherus (pAvapiaS no- men: nnd andern
sterblichen FJit- terkrames. Aliter nobis de huius vocabuli
significatione statuen- dum videtur. Schol. ad Apoll. Rhod. 1. 275.
habet: cpAv ?,E iv xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv xaiopivovS
avafidAAsiv xo v- dop. Duplici igitur significatu tpAvapla , quod
cuui illo verbo cohaeret, videtur a scriptoribus adhibitum esse, ut
aut rem si- gnificet, quam aliquis, qui com- motiore animo est vel
vesanus pvofert , aut nugas denotet res- que expertes veritatis,
quae stre- pitu vel splendore quodam in- signitae sint. Priore
significatu ipsum (pAv&iv usurpatum habes iu Meleagri epigr.
119. 5. iroAAd 5 ’ 0 TtixpoS aloxpd xaS 9 ypExipyS
i<pAvde nap^EviyS 'ApxtXoxoZ. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 19. C. xavxa ydp tapdxe xal avxol iv t?J *Api6xo(pavovS
xcopcpdto ; 9 2 cjxpdxy xivd ixtl itEpzpepo- pevov (pcxdxovxd te
dipafia- xeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Ava- piav q>\vapovvxa ,
quo loco non nugae commemorantur , sed vesaui hominis deliramenta.
Al- tem significatu positum habes £q’ oTst, tcprj, tpavXov ptov
ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212 x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj
fteafievov xal £vvov- xog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi , icprj , ou
ivxav&a aura Piat, de rep. IX. p. 581. D. h
ctTtvoY xal (pXvapiav. d AA* auro xo Setov xa- A d v 6v v air
o pov o eidis H. X. A. Abesse posseut sine a! Ia sententiae
mutatione verba fitVairo et xariSetv, quia prae- cedit cf rw
yivotxo ISeiv, Posita autem sunt haud dubie, atque si ita dicere
licet, e prae- cedentibus repetita, quod prae- cedentia a nostris
verbis interposita aliqua enuntiatione nimis remota sunt. Sed mireris, si
par- ticulam non item repetitam esse, cuius abseutiam nemo
interpres aliqua excusatione indigere ceu- suit. El Platonem revera
omi- sisse certissimum est. Iluiusmo- di autem omissiones in
sermone familiari haud infrequentes sunt, ubi et pronuntiatione
verborum et habitu loquentis excusantur. Ceterum Sydenhamius
annotat ad h. 1. laudatus a Wolfio : So lange der Mensch in dieser
Welt lebt, und noch die Fesselu des Korpers an sich tragt , ist
er selbst nach Platons Ideen uicht fahig, sich zu einem so
erha- benen Anblick in die Geisterwelt erapor zu
schwiugen. xal ix e tvo 8 f} $ e GD/iev ov. Vulgo legitur xal ixeivo
u 6ei $£QOpkvQV i quae lectio, quam- quam non prorsus inepta est
— possis eoim de necessitate dictam interpretari, qua, qui via a
Diotima monstrata incedat, divi- num pulcrum non possit non videre,
— tamen admodum languet frigetqae. In codice Bodle- t
ia no pro o Sei reperitur oj Sei; hinc Astius, quem
Stallbaumius secutus est, oj 6ei scribendum coniecit. Speciosissima
fit haeo coniectura verbis intra positis opaUvti gj opaxov: sed ut
gj dei scribatur, qnoniam opajvxi oj opaxov paullo infra legitur,
necessitas nulla est. Vulgatum autem o , quam facile oriri potuerit
syllaba finali ixeivo vocabuli forte, ut fit, duplicata, facile
iutelligitor. Id in cj im- mutavit, qui iutelligeret , o ad- modum
frigere ; correxit fortasse etiam, quod in sequentibus le- git
opdovxi oj opaxov . Iam pro Sei in tribus codicibus , Paris.,
Vatie. , Palat. Vat. , legitur fit/, quae formae sexcenties commutatae
reperiuntur. Hinc Schleier- macherus scribendum coniecit xal ixuvo
Srj $£GJ/i£vov, verbaquo convertit: Me in st duwohl, dass das ein
schlechtes Lcben sei, wenn einer dorthin sieht und ienes
erblickt und damit um- geht? Haec coniefctura Bek- kero adeo
placuit, ut in ordi- nem verborum reciperet. Id et nos fecimus eius
exemplum secuti. In Ficini conversione legitur: Jtfum vitant
huiusmodi parui fa- cis ? hominis videlicet ipsius t qui illuc
suspicit , qui tam prae- clarum spectaculum contuetur , qui illi
cohaeret . Ex quibus verbis colligi, potest , Picinum quoque 6rj t
non Sei, legisse. ( f iova%ov ytvtjOtTiu , Sqcjvti a
6q<xtov to xuXov, zlxzuv ovx tiSala agetijs , ars ovx tiSm^ov
hpaxzofiivco, akV dky&rj , & re zov dfoftovs iqiamoftiva ,
zexovzi £s dgcTtjV ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti
ye- vto9tu xai , eixeg toj di.ho av&Qunav, d&avazn xai
Ixelva ; B Tavzu Srj, <J Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj
(tiv Aiozifia , 3 linueuat, d’ iyu' Tttnuaatvog di iteiga- fica xai
rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov xzqfiazos are ovx
eiSeSXov Itpa- srtopev co x. r. A. Prorsus eo- dem modo Pausanias
p. 183- E. xai ydp ov6h povipoS i6tiv y axe ovdh porlpov ipcov npdy-
fiatoS. — 6 rov t/SovS Xprj6Tov dvroS ipatiti}* dia fiiov
pivei, are povipoa 6vv ta- xeis. Ceteram colligere licet e nostri
loci verbis, quomodo Dio- tima vel Socrates Orphei my- tilum sibi
explicaverit, cui ex Orco redeunti <pa6pa ostende- rant dii.
cfr. p, 179. D. aAA’ d\rj$ij t Saepias iam monuimus in
superioribus, repe- tendum esse haud raro e praece- dentibus verbis
, in quibas com- positum verbum contineatur, non compositam , sed
simplex. Vide annotat, p. 89. et p. 290» Eadem dicendi norm^ etiam in
no- minibus interdum admittitur ea lege , ut ex praegresso nomine,
quod rei notionem cam epitheti alicuius notione coninnctam re-
praesentet , sola notio rei repe- tatur. Cave igitur eldoaXa et
ttXrfSi} sibi opponi censeas hoc loco, ut somniis falsisque
imaginationibus, quae uno verbo cldoo- Xcov comprehenduntur, verae
sc» imaginationes opponantur. Hinc explicabis pluralem
numerum aXrj^ij verbi , quem Plato nou fuisset admissurus , si
illam di- cendi normam adhibere coluisset. Sed alia etiam
explicaudi ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7 singula- ris numeri
accusativum interpre- tari possis atque e praegressi» apettjv
supplere; futuros esse iam praevideo, qui illam expli- candi
rationem inclumaturi , ne- que oisi faciliorem hanc proba- turi
sint. Utraque explicandi ratio nostro arbitratu vera est; utra
verior sit, dijudicari nequit. Res ex accentu orationis judicanda est,
quo singula verba Diotima exornavit. Si pronuntiando £i'8cj\a extollitur,
prior explicandi ratio verior est hand dubie; con- tra posterior
rectior erit, si accentum orationis ita posueris, ut et eid&Xa et
apetrjS prae cete- ris verbis emineant. — Quam- quam sequitur infra
apetrjv aXrj- $ 1 7 , tamen inconsultius cave indi- ces atque
praepostera cara alte- rum genas explicationis alteri
praeferas. tiitep rc 0 dXXoj arSpo')- 7(0) v. Ex huinsmodi
locis satia docemur , Graecos accuratissimos fuisse verborum
pronuntiandorum, - t'
rf/ uvftganda <pv<su ewcgybv cciidva "Egenos ovx av rCg
gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays (prjfii ygijvai narra avSga rov "Eguxa
npav , xal avrog rigui ra tgatixcc xal Siaftgovtag aOxto , xal roig
«AAotg xagaxilivo- fiaiy xal rvv rs xal a*l iyxcofiulta tijv Svvag.iv
xal dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor olog t’ tlfil. Tovrov ovv
rov Xoyov , «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu, 0 ibg lyxcofuov tlg Egena vofiioov
tlgrjo&ai , d 61, 3 rt xal oxi j x a ‘Q £L G bvofiatav , rovro
ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et roo ctAAcp pronuntiando
discreta esse certissimum est, Pro aVS-ptJ- Ttoov, quae omnium fere
librorum lectio est, vulgo dvSptdiu * > ede- batur. Falso. Nara
sententiae gravitati gravior verbi fornia convenit magis. Ceterum
haud raro huiusmodi enuntiationes, qualis est Einsp rea aAAea
dv- Sfjcjxcov , Graeci scriptores ad- hibere solebant, quibus
senten- tiarum prolatarum vim augerent atque quodammodo
amplificarent. Sic supra reperitar p. 211. D. ivrotvSct rov
/UoVf ElTttp itov aAXoSi, fiioarov avSpcanea x. r. A.
lq>r) jt\v — n in ei6 jiai 6 * i y eu' h. c. utilia dixit.
Ita ego credo. Quae se- quuntur ite7iei<5p&.voS 6 l neipco -
jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv cum Aristophanis verbis couve- niunt
p. 189. D. iyo» ovv 7tEi~ pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v
.Svvajuv avrov , vjleIs 61 rdiv aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe.
ry av$ p con eiot q>v6ei. Saepius iam annotatum est in
superioribus, <pv6iS cum adiecti- vo aliquo couiunctum nominis
periphrasin efficere, quod eius- dem est atque adjectivum
radi- cis, Ty dv^peansia tpv6n igitur idem fere sigmificat atque
xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna gravitate dictum existima ty avSpaamlx
q>v6si , ut huma- nue naturae debilitas, noa solum humana
natura, periphrasi illa significantius indicari significetur. ei ‘61,
o rt xal oity £a/- petS. Consuetius dicendi genus praecedente sl
jiiv est eI 61 jirj, Quod cave hoc loco ponendum censeas ; neque
perinde est, utrum eI 6e an eI jtrj legatur. Ex- hibetur autem ei
6i h. 1. ita, ut utrum Phaedrus facturus sit, hoo Socrates sibi
placiturum esse promittat, quasi diceret: sive pro laudatione Erotica
orationem meam acceperis, sive non acceperis, perinde est. Si
accipis, laudationem eam nomina , si noa accipis, quo libuerit
nomine appella. Ceterum conferenda cum nostro loco verba sunt Piat*
Protag. p. 358. A. site yap yjSO elre rspTtvuv AiyeiS sire %ap-
tov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~ psiS ra rotavta ovopa^oav — rovro
jiot jcpoS d (1 ovAojioa dxoxptrixu t . - Cap.
XXX. Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg fisv txac- vtlv ,
zov dh 'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv , on rovS fi\v drttitretr.
Haeo et sequentia rursus obliqua ora- tione proferantur , quod ab
Ari- stodemo relata finguntur. Sup- plendum est igitur etpij
'Apidxd- 677 / 10 ?. t ov 61 *Api6xo<pdvrj x. r. A. Cum
Socrates Aristopha- nicum mythum tetigisset vel «o- tasset potius
verbis p. 205 E. ,xa\ Xiyercct pev ye rtf, £<pij, XoyoS, cJ? ot
dv x 6 fjjttdv tctv- zpjv Zrfxu>6tv , ovxot iftoodiv x. T. A.,
nihil certius est, quam Aristopliauem aliquid contra mo- nere
voluisse , quo vel suam de Erote sententiam tueretur , vel
Socraticae orationis veritatem impugnaret. Quo . consilio quid
proferre* -potuerit aut voluerit, prorsas nescimus ; neque ipse
scriptor habuisse videtur, quo loquentem Aristopliauem indu- ceret,
Cur igitur illam Aristo- phanis voluntatem commemora- vit? In
huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari licet, qua hic efficitur,
ut tpvrjS verbi notio non solum verbo posito indicetur, sed
re ipsa vividissime exprimatur. Vi- des enim, Aristophanem iam
indicasse externis quibusdam si- gnis,, se aliquid contra Socratem
,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad eius rverba
percipienda: cum subito .pulsatae fores sonitum ederent,
tibicinae clangor audiretur, tu- jnultus strepitusque quasi comis-
saturum oriretur. trjv avXeiov Svpav. j
Harpocr. s. v. avXeioS — 7 dito xijS 060 v npuixrj Svpa xijS
oixtaS , ad qnem locum Valesii annot. laudat Bremius ad Lysiam p.
9.; avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quae aulam clauduut versus viam; aulam
autem si quis permea rat , veuiebat ad pixavXov Svpav , per quam
ex aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo exibat, ei
primum erat per /xixavXov Svpav transeundum, tum per aulam et per
avXeiov Svpav la viam. Svpav xpox ov pivtj , Haec
vulgata lectio «st, quam codicum lectioni Svpav xpovo - plvjjv
potiorem ducimus. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 133. xis €($$’ 6
xoipaS xrjv Svpav ; do- cet : ini jikv xcov ££a)Sev xpov - ovx gov
xonxeiv Xiyovdiv^ ei 6 fc idc o$ev (sc. xpovovdiv ) tyo- <peiv.
Ex his verbis patere opi- nor , xpoveiv xijv Svpav de utroque
pulsandi genere obva- luisse, Niiiil igitur habet, quo displiceat
hoc loco xpoveiv ver- bum. Sed num ideo rectius sit et verius,
quain xpotetv , quod h. 1 . vulgo legi supra indicavimus, alia quaestio
est. Quid, si verbo insolentiori ( xpoveiv ) pulsandi insolentiam
qualis est comissatorum, scriptor indicare voluit ? cfr. Meleagri
Epigr. CXXV. v.3. apti yap idnepioi vvptpaS ini
dixXidtv dxew Aturo!, xal SaXd/AGov inXa- tayevvxo Svpa
t 31 « avrov kiyuv 6 2,'<axp«rj?s xeqI tov
loyov, xcci t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov XQOrovpivyV itoXvv fo
(pov ■xacMtildv «as xafucCuiv, uv. tov ovv
'slyu&uva, ad qnem locum Iacobsius anno- tat Comment.
Vol, 1. P. 1. p. 140. ixXatayevvto de saltan- tium ad fores
strepitu accipien- dum , qui proprie xpoxoS. He- sychitis nXaraytiv
idem esse do- cet, atque xporelv. Igitur nostro loco tantum abest,
ut xpoTovpivyv minus aptum censeamus, ut po- tius' verissimum
iudicemus atque rei descriptae apprime conve- niens. Sensus est
verborum I Pldtzlich sei an die Thiir angedonnert worden, und
sie habe gedrdhnt, ais wenn nach11ich e Schwar mer davor waren.
Ceterum Stallbaumio praceunte post ita- pa6x&y comma delevimus,
quod Bekkerus in textu posuit. Illo annotat ad h*. 1. a»?
xcopa- 6 1 <3 v connccteudum est cum itoXvv ifjocpov napa
- hoc sensu; vesti- buli ianuam pulsatam ingentem fecisse
strepitum quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum
excitarent. Recte. Prorsus conveuit etiam cum h. 1. Schol*
Aristophanis ad Plut. v. 1097. ed. Bekk. Vol. II. p. 256.: xontEiv;
■jpotpely xal xXavouir ri}v $v- pav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap
Xsyerai , oxav eistiroct ris pi\- Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev
nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS xijv Svpotv ; ifMxpeir or- rav
iZtpxontv 6s nf au* x t}r vicaroiyoi xal yx<>v % ira oltc o
xeXy. o rotov- x os yap VX oS iJj 6 <pos nancti avlytgidog cpcovyv
axov- deg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D Xeixai, Zxctv
81 vx' dvir uov xirijxai portj xal ?}*oi' riva, ix rovrov artor
eXi) , o roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXav- Oiav A eyexau
xal avXyx pl 8oS tpcovifv dxov £iv . cfr. Melcagr. Epigr.
LXIV. v. 1. w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv (palvovda
SeXtfvy xal NvB , , xal xodpcoy 6vp- nXavov dpydviov , . . .
ad quem locum Iacobsius: Sivo tibiam, iuquit, sive facem
iutelligit. IIoc proba- bilius,, Lectis nostri loci ver- bis itate
animatum seutias, ut de tibia poetam cogitasse cen- seas. Ceterum
recte Stullbau- mius eos vituperat, qui <ptay?ir hoc loco de
tibicinae voce iuter- p retarentur. Certissimum est enim, tibicinam
tibiae souos edi- disse, quibus se* commendaret intus sedentibns.
Ceterum miro modo 7tapa<$x£v praecedente, quod subiecto suq non
caret, positum sine subiecto legitur axoVElV- Facit autem subiecti
omissio ad describendas turbas, quas, qui ante fores vestibuli
starent, excitant ut. Neque r tr£s supplendum est, uam omnes sonitum
tibino audierunt, neque itetvzaS satis aptum videtur, qno hic
supple- mento utaris. Sed indefinite di- citur dxQveiv ita, ut
Latinorum respondeat auditum esse, ov (SxiipadSei
Aoristum, quem iu dictione r/ OW O v ytjOco vidimus p» 173»
R» ut non xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y , xalelrs • el (ir/ t
ktysTE, on ov tcivouev , a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal OV Jtoltl
VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv xy avly OtpodQU
lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo- admittendam , ita non
omni ex parte spernendum ducit Rticker- tus. De aoristo cum negatione
coniuncto in interrogationibus su- pra diximus annotat, p 11., ibique
eius usum a nostro loco alie- nissimum indicavimus. Male igi- tur
in aliquot codicibus ov 6xi- if;a6SE ; Vario autem modo fu- turo
tempore veteres in inter- rogatione usi sunt, ut indignationem, iram,
clementiam expri- merent. Vide annotat, p. 26. Hoc loco quo sensu
verba di- cantur ov <5xeif>e6$E f dictu haud difficile est.
Agatho enim audita ante fores turba ut illico Irent, videreut, vocarent
vel remitterent, servis mandat. Verba igitor convertenda sunt: seht
sogleich nach. xal iav plv — xaXeixe. KaXsixs hoc loco
absolute posi- tum est nt p. 175. A. xctpov xaXovvxoS ovx iSeXei
tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco ali- quid discriminis inter
xaXaiv et xaXalv. Nam in verbis xa/iov xaXovrxoS verbum illud
nihil aliud significat, quam quod nos dicimus rufen : ond ais ich
rief. Nostro loco xaXalv invitandi notionem habet, de qua vide an-
notat. p. 17. ad verba axXrfXoS ini Ssinvov. De iav — eI prj vide
annotat, p. 128. ct 124. Verba convertenda sunt: Und solite es etwa
einer der Erennde sein, so ladet ein, wo nicht, so sprecht,
dass wir nicht trinken cet. xal ov noXv vdxe pov-. Servi
Agathonis dicto obedien- tes statim ubiisse cogitandi snnt, atcjue
aula superata xrjv avXttOY Svpav aperuisse. Quo facto illico clamor
Alcibiadis audie- batur. xal pkya fio&vxo?, [ ip
<w r gjv rof]. Vulgo legi- tur piya (iodjvzoS xal ipGzxajv- r
oS. Copulam e melioribus co- dicihus interpretes fere omnes
expunxerunt. Sed hac ratione non ab omni labe hunc lorum liberatum
putaverim. *Epa>xd5v- X OS enim participium, quomodo probem, non
habeo; quin magna suspicio adest depravationis , si- quidem
facillime fieri potuit, ut aliquis, quo fioGovxoS ver- bum paullo
insolentius a Pla- tone positum explicaret, IpGd- XgjvxoS margini
adseriberet, quod deinde nimia scribarum seduli- tate in ordinem
verborum receptum est. Haud raro fioav vi- no gravatis ita attribuitur,
nt addito quodam eorum dicto di- cendi vel iuterrogandi
verbum non praemittatur. Sic legitur in Asclcpidae Epigr. XIX. v.
5. xy 6s xo0ovx’ ifioijtia fiefipey- * pivoS' axpi xivoS , Z ev
; Z sv tpiXs , 0iyrj6ov , xavxoS Ipav ijiaSEf.
quo fidelicet loco non potnit metri caussa aliquid inferciri,
quod ip6r}6a verbi significatum illustraret. Ad nostrum locum ut
revertar, sunt alii quoqne vel faerunt potius, quibus ipurtcov-
ZTMI10ZI0N. 321 tavxog ] , oitov ‘Ayd&av, xcd
xe&evovtog dyuv nag ’Ayafrava. dyuv ovv avxov netoa <5<pdg rijv
ts a vXtj- tglSa vitoXafiovtiav xal aklovg tivcig rav axolovfttov,
xal tmazfjvcu bil rag. dvyccg iotupavcj/xtvoV avxov rot participium
displiceret. Certe dao (iotnvxoS , ipcjtcjvro^ par- ticipia iuxta
posita displicuere iis, qui xal, quod vulgo legitur, in-
terponendum censuerunt. Quomi- nus ipcDXGJvxoS participium prorsus
expungeremus , recentiorum editorum auctoritas impedimento fuit,
quorum ne uni quidem de- pravationis suspicio in mentem venit.
Igitur uncis verbum inclusimus. oxov 'AyaSav > xal x&-
Xevo vx o S dy e iv n a p* A - yaStnra, De industria hoo loco Agathonis
nomen repetitum est. Scia’ quam ob caussam? In- fantes, quod
concupiscunt, id unum solent variis membrorum gestibus appetere,
neque hilo unquam ab eo abstrahi» Infanti- bus ebrii cum aliis
nominibus, tum etiam eo similes, quod rem, quam desiderant, vario
modo proloqui solent, neque ab ea nominanda prius absistere, quam
ipsam sint consecuti. Itaque Alcibiades vino plenus, magno clamore,
heus, inquit, ubi est Agatho, du- cite ad Agathonem. Cete-
rum cave xeXevovxoS arctius cum sequente ayhV infinitivo con-
iungendum censeas. Plato enim rem ita proponit, ut quasi ipsa
Alcibiadis verba tradere videatur.* oxov *Ayoi S gdV; ayEiV (h. e.
ayere) xap* 'AydSoova. Ke- XevoVtoG StyEiv igitur non con- vertendum
est : ducliussitad Agathonem, sed servis im- peravit! u dncite «d
Aga- thonem** l
vn o Xaftovda y, vxoXa/i- pdveiv est sublevare, bra- chio
supposito sustentare cfr. Piat, de rep. V. p. 453. D* ubi e
codicibus hodie legitur: ovxovv xal ijtiiv vevGxeov xal XEipatior
dGjgetiSai ix rov XoyoVf lftoi dsXqjivd xlv * &- xi^ovxai 7}paS
vxoXapsly ar oi) xtva aXXrjy dxopoy <Storiy piav. Ruckort.
xal litt6trjy at ixl raS SvpaS, Haec verba convertit
Schalthessius J und stellten ihn eu ihnen vor die Saalthiir hin.
Minus apte. Fores enim, quae hic commemorantur, fiiravXoS $vpa sunt,
qua de re supra dictum est adnotat. p» 318. Io Schleiermacheri
conversione legitur: Er sei aber in der Thtir stehen geblieben. Ut
accuratius reddatur Platonicum ; ix l ra$ SvpaC, verba convertenda
sunt i er habe sich aber ia (s. an) die Thiir gestellt. Sic haud
raro rectiore verborum conversione praepositionum casuumque
cum illis coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari
modd Grammatici Latini praecipiunt, ponendi collodandique verba
in praepositionem cum ablativo coniungendam assumere, cetera verba
motum io aliquem locum significantia in praepositionem et accusativum casum
requirere* Prioris illius praecepti neque ipsi tradunt , necjue lectores
iutelli- gont rasionem. Ea optime o recta collocandi ponendiqne
ver- borum conversione perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst
xai fmv , xai taivlag rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas , xai tinuv •
“Av- fiofg , jraiptrs ' fie&vov ra tivSQct adw Otpodga
dt&adt Ovyndxjjv , tj dn.iay.tv dvadtjOavxtg yovov
‘Aya&ava, Ponere enim et collocare non significat, quod nos
vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si hacc ipsis
significatio esset, i n praepositio- nis atque ablativi casus
couiun- ctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti* g e
n. Quae significationes ubi discipulorum animis inhaerebunt, haud
verendum erit , nc 'quis nuquam in ponendi collocandi ve verbis in
praepositio- nem cum accusativo casu con- iungal, xai
raiviat %x° yr01 * Timaeus s. V. r aiviaS avaSov- pivoi * toiS
vixijtiadi ara - Srjtiat ratvlaS. Annotat Stallbaumius nd h. 1, : Mos
erat, incinit , capita hominum vel publice bene meritorum, veluti victorum, vel
amicorum et familiarium laetis diebus ac solcmuitatibus coronis, vittis,
taeniis re- dimiendi et ornandi, vide Ruhn- kenium ad Tim. Gloss.
p. 246 seqq. "ArdpsS, xaiptte. Alio loco de hac
salutandi formula dicturi sumus. Huiusmodi for- mulae ex quotidiana
vita petitae si accuratius spectantur, mirum quantum faciant ad
populi, qui iis utitur vel usus est, ingenium, mores, naturam
oranemque habitum cognoscendum. Eodem modo praecipue de bis
formulis Goethios egit io Opp. Tom. 27* p. 125. Guto Nncht! So
konnen vrir Nordlamler zu jeder Stunde sagen, wenn wir im Finstcrn
seheiden: der Italianer sagt : fe- licissima notte! nur einmal, und
ewar, wenn das Licht in das Zimmer gcbracht wird > indem Tag und
Nacht sich seheiden $ und da heisst es denn ganz etwas auderes : So
uniibersetzlich siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis
eum tiefsten Wort bezieht sich ulles auf Eigentluimlichkeiten der
Na- tion , es sei nuu in Charakter, Gesinnung oder Zuslauden.
biSiEdSt 6v J.i7t utrjv. Ilaea Bodleinui codicis lectio est
aliorumque paucorum librorum. Vul- go 8£Za6$E legitur posito post
7}\$OfXEV puncto pro v. signo in- terrogandi. Illud recentiores
edi- tores ad unum omnes probant. Quod ne male se habere
censea- tur: sententia est: Einen Mann, der schon getiunken hat ,
miisst ihr, wenn er mit euch triuken soli, recht freundlich
aufneh- men, oder cr gcht wieder fort, wenn er nur den Agathon
bc- krauzt hat, wozu er gekommen ist. ardpa haud raro poni
pro pronomine personali ipi , tragi- corum potissimum poetarum
le- ctoribus notissimum. Tragicis avrjp ote, avSpoS tovSe x. t.
A. pro iyo&i ipov admodum usita- tum est. iyco yctp
roi. Cum nemo re- sponderet Alcibiadi, neque ipsum, ut accederet
accubaretque, vocaret, omnesque tacide hominis erro- niav
admirarentur, illo adven- tum suum excusaturus loqui per-
}rp’ oitSQ “il9ojitv ; lya yczQ roi , (pdvca , jjQts (i'ew ov% olvg
t’ lytvoatjv dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty xecpaly lyav rclg
xcavlag , iva thto rljg fuiys xtfpalijg tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov
xitpaXyv — iav git. Heri vocato sibi ab Agn- thotie,
quominus veniret, certa quaedam impedimenta fuisse. Ve- nisse se
nuuc Agathouem taeniis ornaturum. Ilisu exorto consi- vnrum
Alcibiades excusationem suntn quasi fictam derideri pu- tans vera
se loqui affirmat. Post interrogatione illa satis impatien- ter
atque inclementer repetita abitum paraturus erat, ni omnes convivae
consurrexissent, atque ut maneret, ipsum rogassoat. . iav
ei7tco ovt u>dl. Ilaec non dubito , quin corrrupta sint ab
imperitis librariis. Nam quod Wolfius ea dixit significare ut ita
dicere liceat, itu ut Al- cibiades putandus sit ceterorum
convivarum invidiam his verbis amoliri voluisse, eam interpre-
tatiouem non fert loquendi con- suetudo, quae postulabat ovtgd6\
tlneiv. Itaque Astius scriben- dum ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj.
dpa , iav £LitcJ ovioj6i t naxa- yeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen
coniectura vereor, ut omnes tollantur difficultates. Certe qui- dem
transpositionis audaciam ne- mo probaverit, qui meminerit, di- vam
criticen ferrum et ignem odisse. Quid mihi de hoc loco videatur,
iam satis declarare opi- nor uncos illos, quibus hacc verba u
reliquis seclusimus. Nam quum grammaticus aliquis ca in mar- gine
aut inter versus adseripsis- set, quo explicaret proxima illa : dpa
HaxceyE\d6E6$E ueSvoy- TOS ; postea temere in conteitadi
orationem recepta, et, ut fit, alieno loco interposita sunt, 8 t p
11 b a u m. Rene quidem Vir doctissimus de aliorum, quos lau- dat,
vel interpretatione vel emen- datione egit, sed quam ipse iniit
sanandorum verborum rationem, ea milii quidem prorsos displicet.
Perscripsi nutem totam eius annotationem,, ut facilius lecto- res
de ea iudicare possent. In libris nulla varietas est lectionis
praeter quod Vindob, et Plorent, unus inverso ordine verba ex-
hibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet- 6 t}6gj, qua mutatione doceare
sa- tis , ctiara librarios iuhisce ver- bis offendisse , eaque
transposi- tione adhibita aliquo modo ex- plicare studuisse.
Risisse convi- vas verbis indicatur apa naxa- ye\dtfe(j5i pov cJf
f.te$vovxoS j quam risus caussam Alcibiades sibi finxerit, supra
diximus et verbis indicatur fiov cJff //ej&tfor- ToS , h. e.
quasi ego ebrie- tatis caussa meras nugas narrem. Hinc addit iycJ
Sij Ttdv v/fEtS yeXdxE , ojivti ev ot8 *, oxi trA?/3j/ X6y&>
Veram risus caussam nemo interpretum aperuit. Videamus primum
huius loci conversiones. Ficinns habet : Heri quidem interesse nequivi
J hodie veni vittas ferens , ut a meo capite sapientissimi
pulcher- rimique caput, si ita praedixero, circumligarem, an me
quasi ebri- um deridebitis ? In Schulthessii conversione exstat:
Denn gestem koimte icit micli nicht einl/ndcn J jetzt aber bin ich
da 30 mit Bin- 21 * ' E tinca — ourool dvadycJa. ctQtt
xcttaytAdcSed&i jiov d>s 213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag
yeldte, oucag ev o'S\ on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl
<5>;tofg tisico , y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; — Hamas ovv
dva&ogv- pycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat, , xal
xdv 'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov vnn xdv
dv&QCJTtGiv , xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»- via s tog
uvaSydotna, InhtQod&tv x m> drp&cdficav exorna dcn
nmwnnden, damlt icli voti meinem Haupte her daa Ilaopt " des
nllerweisesten uml schonsten — wenn ich so sagen darf — bekrauze.
Lacht ihr etwa mei- ncr, weil ich tranken bin ? Me- cum iutelligaut
lectores, nihil in laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri,
quo, cur convi- vae riserint, explicetur. Neque apud
Schleiermacherum explicatam illam caussam reperies : Denn gestern , habe
er hinzugefiigt, war es mir nicht moglich za kommen ; jetzt aber
bin ich da, aul' dem Haupte die Rander, um von meinem Haupte das
Huopt dieses weisesten und schonsten Mnnncs, wenn ich so sagen
darf, eu uimvinden* Wollt ihr mich auslachen ais truuken?
Caussam putare possis, quod Alcibiades bene potus ab bibendum
veniat, sobriosque ebrius ad vinum hauriendum excitet. Uoc sane est
aliquid, neque tamen nobis nuno sufficit. Ridiculum latet iu ver-
bis iav eIltcco ovroodt, quae miro modo depravata sunt. Verba hoo
modo scribenda sunt : iav elnov , ovtcjOI ayad/fdco. Quae cor-
rectio ne audacior censeatur, prO iav facillima accentus mutatione
acriba aliquis edidit iav, quod cura alius deinceps legeret iav
elrcov ovroaol avadtjdco, cor- ruptura habuit rectissime,
sed vitium in verbo sauissimo de- prehendisse sibi visus, tinov
in ebeoo mutavit* Nimirum cum ad iostar ebriorum Alcibiades,
quod facturum se esse ostendit, id ge- stibus expressurus esset,
susten- tari se a tibicina servisque no- luit, qoo facilius, quod
veJIet, faceret* Igitur iav Etnov dixit hoc sensu: Dixi iam
sae- pius, mitti me velle libe- rum a vestris manibus*
Servi autem dicto audientes, cnm herum misissent , qui itn
vino plenus erat , <Zste pjfdl toiS idioiS itodiv idxadSai
(vide Athen. IV. p. 1 80 ) lactum est, ut verba proferens ovtcodl
ava- Stfdcj vel concideret vel titubando ridiculos gestus
ederet. aXXa poi A kytxE av- toSey. De his verbis iam
supra dictum est annotat, p. 3^3* AvtuSev autem dupliciter adhi-
beri solet , partim de loco, partim de tempore, ac de tempore quidem,
quoniam loci temporisque ratio haud raro commutatur* Recte igitur h* I.
interpretes avro^Ev stati m, illico significare annotant* ini
fitjrolf. Spectant haec verba ad p. 212. R. pB^vovrd dvdfja tcavv
6<po$pa 6a- i ov xanSuv rw SaxQiat], cfvUa xa&l&a&cu
nuQti tov Ayd&covu Iv pioio Suxqutovs ts xal Ixilvov • itaQu-
XaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov xu9ifciv. nctQa- B xa&e^ofuvov
6 s ccvruv denatea&at te tov 'Aytxftcova. xui dvaSclv. ilnuv ovv tov
'Ayuftava ‘ 'TnoAutre, aaidtg , 'AUxiftiddijv, Zva ix tqitcov
xaraxttjrai. Jlaw yt, (hceZv tov ’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg i)(tiv oSs
tqitos pvpjiozus ; t£ai app fUTuatQEtpditivov avTov ogav tov
SedSt 6v finoTTiv, tj ait icar ptv H, X. A. Siguificaut enim:
Sed illico mihi respondete: Vul- ti • n e mciutroiro sub con-
ditione supra indicata, an non? Atque no quis se male intelligat
conditionis illius haud memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B y ov
; Male Ruckeitus ad h. 1. Reddunt , inquit, sub ea con- ditione ,
quam dixi, At nullam dixit adhuc \ videtur que omnino hoc dicendi
genus ita usurpari , ut sequatur conditio , non ut praecedat , quae
h. 1 . incst interrogationi subiectae Ovji- 7[U(j2e y ov ;
tj;ro‘ xdov avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus
Alcibiades ad Agathouein venit. Miro modo autem horum verborum pluralis
numerus convenit cum nostratium loquendi; usu, quo dicimus: die
Lcute, ministros atque ancillas signifi- cantes, ov x
axid eiv tov Sco- xpaxy, Vide de xaxiSeiv verbi significato
annotat, p. 308. Aute oculos habuit ct vidit Socratem , sed eum non
agnovit. vjcoXvaxr — fvct&nxpi- x cov xaxaxkyt at. cfr.p.
175. A. xal E plv F.(py dnoviZEiv xov nou6a , tva naxaxloixo.
lilio xo inoXvitv , hoc loco r 6 anoriPyeiv omissum est,
neque videntur ullo loco scriptores utrumqua verbum
ndbibuis&e. Unum enim ad utramque uctiouem indicandam satis erat.
Ceterum non nisi ea de caussa ira ix xpiTGor commemorasse vide- tur
Agutho, quam ut Alcibiades statim eum agnosceret, qui iusta ipsum
tertius sederet. Sed alia etiam caussa est illius dicti. Ve- teres
euitn non sedebant ad rneu- sam , sed eidem occumbebant. Ubi duo
convivae mensae accumbebant, illa calceorum solvendo- rum pedumque
lavandorum cura minus necessaria erat. Poterant enim ita duo
convivae mensae accnmbere, ut neuter neutrum pedibus tangeret.
Tertio acce- dente conviva, qui, quorsum pe- des protenderet,
versus unum convivarum non potuit non pro tendere , uecessaria
erat, ut cal- cei solverentur pedesque lavaren- tur, ne forte
aliquis convivarum macularetur. aAAti xis ypiv xpltoS u
8 fi. Haec vulgata lectio, quam in ordinem vcrboium recipere non
dubitavimus ideo, quod Alcibia- des praecedente Agaliionis iliclo
atqnu praecipuo verbis ix Xpi- roov commonefactus r p ix o £
JOaxQnrr ] , ISuvta avaXTjdfjGai xa\ thtilv' '£l r Hqa- xA«g, zovzl zl
rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis <? Ivzav&a xaztxtiGo ,
tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpal- vtG&ai qtcov tyd (pfirjv ijxusza
Ge HotG&ca. xal rvv tL Tjxsig ; xal ti av ivzav&a xaztyJ.lv/js ,
<og ov na qd nomen priori loco collocare de- diiti. De ovroS
pronomine in buit: tertius iste, quem allocutione liaud infrequente
viile commemoras, qnia est? annotat, p. 4. Quae sequuntur In
Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp eltoSeif i£ai(prJ/S
paucis legitur vpuv ude xpixoS, quem verborum ordinem Bekkc- rus,
Stallbaumius, alii probarunt. *- *i2 *H p a x\e i S , xovxlri
? /v. Alcibiades averro vultu do eo, quod modo oculis
concepe- rat et quod non videt umplius, quid vidi ? exclamat. Huius
di- ctionis vim atque imperfecti qui- dem potestatem non
expressit in conversione Scldeicrmacherns 2 W as ist nun das?
quibus verbis prorsas deleri senties excla- mationis illius vigorem
omnem. Cur Herculem nominet Alci- biades Socratis adspcctu
quasi attooitns, haud facile nesciri pot- est. Veteres enim eum
deum semper nominare solebunt, cuius auxilio maxinie indigerent.
Herculem scimus fortitudinis atque roboris deum esse $ robore autem
ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato subitoque
adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl xi tjy
exhibent xovr ehteir, quod moneo, ut intelligatur, interdum etiam
complurium codicqm consensu, quae falsissima sunt, tueri. -2Sgj xpatijS
ovroS tAAo- X&v otv — xare xeitio. Magna cum acerbitate participium
praeponitur verbo finito in allo- cutione; Nempe rursus mi- hi
iuaidiatus hio c 0 n t, e - dva<palv£6$cct x. r. A. satis docent, iu
praecedentibus ivxavSa vocem orationis accentu insigni- endum esse.
Schleiermacherna adhibito interrogandi signo post £6£<5$a.i verba
convertit : Da Socrates, liegst du mir auch hier schon wieder
auf der I.nuer, wia du immer pflegst plotzlich zu er- scheinen , wo
ich atn weuigsten glaube, dass du sein wirst ? Sed minusplacet
propter interroga- tiones insequentes imec ratio ex- plicandi,
Alcibiades enim cum non sine acerbitate Socratis studia illa
convivis aperuisset, non tan- quam rerum suarum incertus sequentes
interrogationes profert, sed ut vera se dixisse Socratis responso
convivae docerentur. Igitur VVY in verbis xal vvV xi f/XtiS eam vim
habet, ut quaestio explicatior audiat:. At- que nunc responde,
quid veneris? Av vocula, qiintri saepius iam annotavimus
supple- menti alicuius iudicium esse, (vi- de Indices,) hunc sensum
fundit: Et nunc confitere, Uie quid consederis cet, ov
itctp a *Api0x o - (parti. Stallbaumius ad h. 1. inquit, est quippe,
nam, ut mox in verbis cJs' » ipol o xov- rov HpoaS ov (pavXov itpdy
- pa yeyovtv , et <&S lyco x i/v 'AgiOtotpuvH obi5 ' h ug «AAog ytXoiog Fort
re xai fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau , ojrog nayu tm xcdXlOup
ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti , '& 'Aycc- n>MV, cpavui ,
oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov fpug roi5 af&gusrw ou tpccv
Aov HQccyfia yeyovev. an tovrov parcar — 1 ufifiooSao. No- bis
iuterrogaudi signo, quod post TtarexXirTjS legitur , transposito
post (iovAerat verba hoc modo convertenda esso videntur : Uhd nuu
sage, warum setztest du dicli grado dahin , ais zum Bci- spiei
nicht nebeu Aristophanes, aocli niclit nebeu irgend eineu undern,
der uitzig ist and witzig au scio Lust liat ? Ad fiovAerat
supplendum est yeAdioS tlvai. Vide annotat, p. 200. Ceterum J Miror
t Riickertus inquit, /i. /. yf.Aol.ov et H(xAAi6tov tibi op- poni.
Attamen vereor, ne sit audacias , de Aristophanis forma inde
aliquid colligere. Nihil hia verbis oppositionis iuest. Miratur
autem et indignatur Alcibiades, quod non apnd alium Socrates
consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum festivitatum, sed dedita
opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit. a A Ad biapT}X ay
V^ 'JAAit vocabulo magna est vis ironiae; id cave cum praecedente ov
negatione cohaerere censeas. Per se enim positum est , atque veram
rei statum describit. 4tap?}x<xvd(S5ai ver- bum fortunae notioni
oppo- nitur, qua quis vel hunc vel illum socium biaosciscitur.
Sensus est : Aber naturlich, da hat deiue Schlauigkeit es so einznleiten
gcwusst , dass da nebeu den Schonsten von allen, die Lier siud,
dicli setzcn masstest. opa, ei poi fatapw Valgo opa , tf pot
inapvvetS le- gitur; quod quamquam non fal- sum est a t-rnen band
scio, au «ion rectius sit atque verius, quod reuentiores editores ,
si Riickertum exceperis, de H. Stephani confectura dederunt ihtapvveiS.
Probatur idem Ficini conversione; vide, ai quo pacto mihi
succurrere potes. Riickertus autem concedit quidem, ia huiusmodi dicendi
genere fatu- ram tempus usitatum fuisse Graecis , neque omnino negat,
Platonem id tempus h. 1. adhibuisse : verum necessarium non esse
ex- istimat; cur enim, inquit, non possit praesens tempus
adhiberi, frustra quaerimus. Latini : vide, an me defendas. Nos :
Sieh zu, ob du micl) vertlieidigst. Lecta hac V. D. annotatione
mireris, ipsum apvvetS in texta posaisse tamen. Nobis autem
praesens tempus in hoc dicendi genere ita a futuro videtur
dillerre, ut illo adhibito de voluntate agatur eius, qui alicui
opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum illius actionis respiciatur.
Vides igitur, futurum longe gravius esse in illa dictione, quam
praesens tempus. Illud est: Vide, an mihi opitulari velis.
IIoc est: Vido, an possis mihi opitnlirri, h, c. omni vi-
rium contentione mihi o p i t n 1 a r o. ov (pctvAov
itp&ypa. txilvov yctQ xov %qovov , dtp' ov xovxov ^qdo^t/v, oi5x-
D In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe diatez&ijvai xcif.iS
ovSivl , i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal tp&ovuv &av(ia0xa
tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd %hqb ( toyig axi%t uti. oQa ovv,
ut/ tl xal vvv ipydot/xai, ctXXu diaXXa |ov tj/iag, tj, idv lm%EZQy
fhtx&G&cu, htd~ pwE, <x>s lyd xr/V \qvzqv /laviav tj xal
q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj ho~ mini* haud iove quiddam
mihi exsistit, Schleicrmaeherus : Deno dieses Menscheu Liebe hat
mir tchoo zu gar uicht wenigem Ver** druss gereicht. Schulihessius
; Demi die Liebe dieses Meoschea ist fur mich kein kleines
Leideo. De hac notione npaypa verbi etiam in aliis dictionibus
vide lodices s. v. jtp&ypa, r) Q$%o6\ grj \QTV7t(k) v
s Prorsus eodem modo nos Joqui solemus. Recte Stallbaumins H.
e., inquit, aut, si id facio, prae aemulatione et i n t Y
idi&cet. Conferri iubet Rii- ckcrtns annotat, ad h. i. Piat,
Theaet. p f 173. E. xov%6 ye 6 <po6pa v? ntiyveixo leavzGov 8ia-
q>£peiv avxoS. 2. Nt) dia, gj • rj ovdsfa y * av <xvx<3
&ietey$xo r tijr xovtQv paviar re fca\ <pi\$ patitiav.
Schleier- tnacherus ; denn seine Tollheit ' nnd veriiebtes Wesen ,
soloeca pro und sein v. Wesen. De tpifapatfxlaS significatu vide
an- notat, p, 174, Mavlay antem eius esse 1, , qui nimius sit
in amando, annotatio docet ver- bis subiecta p. 173* D. xal ohq *
$ev itoxl xavxtjv trjv tnwv- piav iXafttf , ro pavtxoi na- leuSSai
r, A, p, U, Ceteram vix o'pns est, qt moneamus, fiid- Ze6%ai
verbuin, quod in supe- rioribus legitur, absolute posi- tum esse,
ut significet; vim adhibere, >. jr dw O fi fi 60 6 o3, Ex
schol, Aristoph, ad Plut. v, 122, liate depromam: o fi fico 8 do
itdvv , ofifioodd) Xeyexai xo <pofiovpai £x pexaqjopaS xo ov
Zgogoy xgov 8td x ijS ovpaS detxvvvxcov x d deoS, efoSe yap xavxa
<pofirj- Sevxa 6wayttv % rjv ovpdv tv- X oS xcov pijpcov.
Ridiculum au- tem ac ne verum quidem est, quod sequitur: 1 / oxi
rc5y <poftov-> pivcov efaSev d dfifios TtpcoxoX l6po\)v.
Aliis iudicandum relin- quo, nam verum sit, quod apud eundem
scholiastam legitur: xal xvpicoS pkv i#l xov rdiY a\o- ycoy dfovS,
d\A* ovx l6xiv. Cogitan- dum est, Agathonem ad resisten- dum
se parasse; qood cum anim- adverteret Alcibiades memor for- tasse
proverbii, quo ne Her- cules quidem duobus aptus esso dicitur,
futuro tempore, ubi rur- sum peccaverit, etiam buius criminis poenas
Socratem Initurum Osse profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl
T7jv. Iteratio hacc articuli non caret idonea ratione. Nam verba
aio connectenda sunt; Xtjv xov - mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton ,
(f avea rav 'AlxiflidStjv, Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv
elgav^tg as nfioQC/aofiai' vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat ,
[istuSog tcov zaiiH mv , iva avad ifia Steel rrjv rovrov ravrtjvl E
TTjv &av(iaatijv x«palr)v , xal fuj /tot [d[i<piytai , ore ea /isv
avidrjOa , avtdv ds vlxiovtu iv loyoig mxvzaq av- Vgazovs, ov fidvov
ZQuajv , agztQ Ov, «Aii’ «ai, Inuxa tov xetpaljjv Sav/iadrrjy.
cfr, Mattii, Gramm. $.278, Stallb, Flora huius structurae
exempla StallbaUroius collegit ad Piat. Gerg. p. 502. B. : rl 81
7$ tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\ 1 } t i}S rpaya)8LaS
nolrjtiiS. Hero- dot. VII. 196. o' vavxixds 6 xcov papfiapoov
(SxpaxoS. Thucyd. I. 25. xal 7 } ovx X}xi6xa fi\a- ipaocr 7j
AoipGo67]£ vdtioS, Piat, de rep. V1JI. p. 565. D. xo iv 'ApxaSia xo
x ov dwS xov Av- xalov lepor. Hoc autem 11011 praetermittendum est,
edici hoo geuere dicendi, ut quicquid ver- bis contineatur, id
gravitate qua- dam augeatur. Atque nostro qui- dem loco articuli
repetitione sum- mus Alcibiadis araor indicatur ita, ut verba cum
Latinorum com- j arari queant; te volo, tc ipsum, vir
admirabilia, coronare. avxoy dfc vix&vt a i v
jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum re- cepit
Ruckertus, crvXQV hic non log- eum habere contendens. Frustra.
Illud Bekkerus atque Stallbaumius exhibent. Ac Stallbaumius qui-
dem Non dixit, inquit, aw- tov , sed avxoy propter oppositionis
rationem. Nobis ita videtur statueudum esse, nt indicium Alcibiadis
de Socrate etiam tauquam em ipsa Socratis mente proferri
dicamus, qui ita rem cogitare posse fin- gitur : ixeivov pbr
dviStfCy&v, i ite dfc riKavxa — ovx dvi- 8rf6ev. Quam
sententiam Alci- biades si e Socratis tantummodo animo proferre
voluisset, dixis- set opinor: xal fnj poi pifitptf- tat , oxi tfk
piv dvad?}6iupi t avxov 8h vixcorxa iv Tioyois icuvxaS avSpGOTtovS
— ovx ava8ij6aipi. Si ex sua tautum- tnodo sententia eandem rem
idem edicturus fuisset, non avtov, sed avxov exhibere debuit. Habes
igitur hoc loco coufusionem stru- cturarum duarum, quae quantum
habeat in se venustatis, eos non fugiet, qui hunc locum satis ac-
curate examinaverint. Ineixa ovx av e8i]6 a • Eiteixa in
hainsmodi dictionibus semper ad praecedens participium refertur,
atque proprie praemittitur ei, quod /actiouein, quae participio
continetur, sequi debeat. Usu loquendi deinde factum est, ut satis
cum ironia consequentiae notio cum contra- rio, h. e, cum eo, quod
actio- riem participii nou sequi de- beat, coniuugeretur. Et cum
la- tior sit participiorum significa- tio, fieri potest, nt e, c,
vt - xcovxa sit postquam vicit ac vincit; possis igitur
inttta tamen convertere. 330 nAATaNO£
ovx avcdijOa. Kai ccya avtov laftwna x tav tcaviwv avadeiv xuv
2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu. InuSq di xa- xtxkivt] ,
ibcilv. Cap. XXXI. Eltv Srj , 6v$Qeg ' dozftrs y&Q
po* rijgxiv o ovx btiTQtnxlov vtiiv, ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai
ycip xav&’ iiy.lv. clcQ%ovza viiy (xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v
vytis ef er 61 /, avSpeS, So~ xeixe ydp. Hiximas de hoc loco
annotat, p. 265., quam ride. Verba quod attinet GjpoXdyTfxat ydp x
av$' ijpiv, cfr. p. 215. A. a\ Aa poi A iyere ccvxoSet , ini
fiyxotS eIsIgo, tj jiTj ; , 6 v/i 7 tls 6 $E t ?/ qv ; navxaS ovv
dvaSopvfli}-* Oai xat xeXeveiv eIsieycci x. T. A. In aequeutibus
post ovx intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id ex optimorum
codicum auctoritate delerunt Bekkerns, Staltbaumius , alii. Eo
addito sententiae vigorem admodum refrigescere senties atque propemodum
evanescere. d pxovta ovv alpovpai tifS n 6 6 E ga S. Vide
annotat, p. 43. Adde Wachsmulhs Hel- len. Alterthumsk. II. 2. p.
28. et p. 29.» ubi Christius laudatur de magisteriis veterum in
pocu- lis. 1745. Non elegerunt autem, Stallbuumius inquit, antea
convivae regem, qui bibendi leges ediceret, sed constituerant, ut
suo quisque genio, quantum vellet, iudulgeret. aXXd <pipE t nat,
(pavat, xdv ipvxxij pet ixEiv ov ^ Schol. ad h. L $vxxi}p,
inquit, OxevoS' IvSac diavlctovtii xci noti} pia , i)
noxrjpiov eiSoS, g*s E vpinidrjS TrjXiqxa. Timaeus ed. Ruhukenii p.
278. habet ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai nXaxv e Is
rjjvxportotiiotv rtapE- OxevaOpivov , Laudat praeterea Ruhnkenias
Gramm. Ms. : xxijp* OxevoS , iv (o xdv olvor Hipvxov t x 6 xoiygjS
XeyofiEvov .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec vas nominatum fuisse,
quod usui convivarum non ita destinatum erat, ut ex eo vinum
haurirent. Hinc non mireris , Athenaeum huius loci respectu habito
IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt xovxgov ovSlv iifijiExpov ,
aXXd ttivovdt p\v xodovxov , coSxe fi7/8k xols IdimS noOlv
l6xct6$ai. dpa ydp — *//A xifitdSrjv o>? dOxtfpovEi , ol 61 «AA
oi xdv dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt npocpaOEGoS XafiofiEvoi,
in tine p avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui- 6i/S. l8ovxa avxov
nXiov i} X. x. A. Alcibiades Agasonem rogat, ut maius poculum
atterrr iubeat, post, conspecto aliquo vasi, quod refrigerando vino
inservie- bat, magnitudine eius delectatus sententiam suam mutat,
idque afferri iubet. Ad verbum xo- xvXaS Schol. anuotut :
rplzov faavco g jchjzi , l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av , ff zi
lOziv (xxu(iu [itya , iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt, nai, tpavcti,
zdv tlivxzijQa IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214 ij dxza xozvkag yaqovvza.
zovzov l(ixkr]6d(iEvov zcgazov filv avzdv Ixititlv , licaza za EaxgatEi
xeXevelv lyyfiv, xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq , cS avdgeg , zo
C.6q>i6(td (ioi ovSiv ' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGov- zov IxTtimv
ovStv fiakkov (iij jrors (iidvG&rj. Tdv (ilv ovv ZoxQurrj iy^tavzog
rov ttcudog xLvuv ' zov 6’ ‘Eqv- fiepoS 7/ xoxvXrj trjS
xoivwoS. Yido Wachsmuths Hell. Alter- thum.sk. II. 1. p. 78.
Annotasse liic suilicit, immensa muguitu- diue ifkVXTrjpa
fuisse. i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS: Cum vas implevisset.
Astius : implevisse. Immo implendum curasse. Quae vis est medii;
neque verisimile, ipsum fecisse Alcibiadem, quod statim post, ut
Socrati fiat , imperantem audimus. Riickert. Tu 6 6 q>i6 n a jiot ovd
iv. h. c. in Socrate ars mea inutilis. Ludit Alcibiades ia
dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t ut videtur, similitudine. Hoc
enim dicturus est : Bibendi magister frustra se exercebit, ut Socratem
ceteris convjvis similem reddat h. e. ebrium atque Baccho plenum.
Quantum ipsi aliquis imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam
magis ebrius factus sit. Pro xeXsvfl , quoil Bekkcrus et
Stnllbauinius in textum receperunt Bodleiani codicis oliorumque pauciorum
auctoritatem secuti , vulgo xeXevtiy le- gitur, quod Riickertus
edidit. Utraque lectio bona est sentontium si spectas, quam
Alcibiades prolaturos erat. Certe non dispiciendum est , cur dicere
non potuerit : quantum ipsi ali- quis imperaverit cet. Dif-
ficillimum igitur ad diiudicundum, quid Plato scripserit. Sed tnnta
tamen nobis, qnanta debet, Rodle- iaui codicis auctoritas fuit, ut
non dubitaremus, praesertim cnmVV. DD. , Bekkero et
Stallbanmio placuerit, xeXevtj in coutextam orationem recipere.
Sententiam' quod attinet, cfr. p. 220. A. iv r* av xaif EvGoxUn?
puro* anoXaveiv oloS t * 7jv , x d x* aXXa xal iclveiv ovx
i$£Xmr, 6 nox 9 dvayxa6%ei7j , ndvtaS ixpaxei xal o navzGDV
3av- padxoxaxov , ^cjxpdxr/ v- ovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev
dv$poo7ta)v. x ov 6 * 'EpvZipaxor t II(£s ovv — noiov/iEv.
Cur Eryximachos potissimum hic pro- deat, statim intelliget, qui
loci meminerit p. 177. B. C. atque inprimis ibid. D. i/iol yap
dt) tovto ys olpat xcctd8tjXov ye- yovkvai ix xijS latpixijS,
ori XaXenov xotSdvSp&noiS t) pc- $rj itizi* xal ovxe ctvxoS
iSc- Xrjdaipt dv itielv , ovxe dX X<p CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te
xai m jfyiOKOVj Ilag ovv , g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r]
, noiovfiev. B ofrrog ovr$ rt Aeyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v;
&IA' &xe%vag c3 gneg ol diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv
elnelv , *&l 'EQV^tfiaxB , /3 HxlGtb fieXxlOxov na- xgog xal
(SacpQOVBOtatov , %cdpe. Ketl yap 6v , <pdvai zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa
r£ noicopev ,* — w cv <5i) itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$
dWoov. Intreme ovv o tt- fiov/Ly, — yfxovdov §rj, dntiv xbv
xpctntaXdvxa Ixi ix xijs rtpo- xepaictS. Do verbi* Eryximachi
medici h. i. laudatis : tigoS ovv , tpdvai, cj 'AXxifiiddtj , xoiov
- ptv uon recto Stallbaumius : JSt quis , inquit ,
coniunctivum requirat , qui est deliberantis: eodem modo nos : IV i
e nun thun wir, habe Eryx ima - c/ius gesagt?
Eryximachut cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset p.
176. B. , ne nuuc ad bibendum coge- retur, et Alcibiadis
immodera- tione indignatus, quam omnino pestiferam hominibus supra
ceu- suit, Quid nunc facimus verba ita profert, ut explicatius
andiant: qua insania nuuc agimur, tantumque abest Eryximachu»,
ut, quid faciendum sit, roget, ut po- tius praesentia satis acriter
re- prehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi
signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev ixi xy xv
X ixi, OvxgjS , at in praecedeutibus redis, plenum indignationis
atque acrimoniae. Sensus est: liac igitur ratione, b. e. hac igitur
insania allectis neque sermo ullus . neque cantus iuler pocula
erit? Ceterum ixd- 6optv ia textu posuimus , quae Bodleiani codicis
lectio est. Val- go ovte xi adojMY. xov ovv — yaipE.
Alci- b i a(|ls Eryximaclii admonitione tactus cum statim, quod
respon- deret, uon haberet, ut non nega- ret id, cui contradicere
non pos- set, neque probaret, quod pro- bare nollet, Eryximuche,
inquit, optime fili optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed
non delinitus hac re Eryximachus, salve tu quoque, respondit,
nam et iu te cadunt omnia ea , quae super me modo dixisti, sed
quid vis faciamus ? His auditis Alcibiades satis gratiosus omnem
rem ex Eryximachi arbitrio iudican- dam propinat,
IrfXpoS ydp ctvr} p. Ver- sas Homericus est petitus ex II, A.
De scriptura insequentium verborum ini di£>id , vide an-
notationem p. 50. Vulgo enim etiam li. 1. et paullo infra im-
SiB,ia legitur. Structuram au- tem quod attinet verbornin xctl
XQVIQV xal OOTGO TOVS dX- A jOvS , Stallbaumii indicio sub-
scribendam est annotanti V: Ac- cusativus ponitur, ac si praeces-
sisset dixaiov i<Snv, huquc 'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv,
Wo|« XQ^cu Ini ds|t« exaGtov iv ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv
rag c dvvraro xdkkiGTOv , xal lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot
xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij ovx eiQrjxct; xal mximaxag ,
8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai ZaxQatu o tl av (iovhj xal Tovtov ro
Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e , rdv
'AktupidStjv, xakug fitv kiyuq , (ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl
vytpovtav kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1% Igov y. xal afia, a verba
sic interpreteris : nai tov- tov dixaiov itfnv intrdUat T(b
ini 6 e£,kx. Structurae va- riatio nec per se ingrata est> et
per sententiae rationem pro— pemodum necessaria. ol p\v ovv aXXoi.
Apol- lodorus , nt ipsius verbis doce- mur p. 180. C» quoruudam hominum
orationes, quas memoria non teneret, non retulit. Hoo moneo, ne
quis miretur, non nisi sex orationibus relatis Ery- ximuchum nunc
loqnentem in- duci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev,
aXXd, gravat, ca *Epv%l- pax e , t 6 v ! 'AXHifiiadrjv ,
Vefba aXXd — oJ *EpvB,ipax& — xaX6oS piv XiyeiS dubitan- ter
Unguntur ab Alcibiade pronun- tiata esse, qui verebatur, ne hominis
ebrii oratio sobriis au- ditoribus satis displiceret vel etiam
ridicula censeretur. Indi- cium est huius rei verborum dispositio,
quae ita comparata est, nt intermixtis gravat et tdv AXxipidSrjv
verbis orationis initium co modo distraheretur, quo ab Alcibiade
pronuntiatum est. Simile huius artificii exemplum reperitu» p. 175.
E. vftpt- dT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt, 6 AyaScov, quae verba
Agatho- Uem ita pronuntiasse consenta- neum est, ut illudi sibi
magno cura pudore sentiat eumqne pudorem atque confusionem
animi iuterrupta voce prodat, AeSvovTa 6i dvdpa na- p d
vrjgrovTtov X 6 y o v S. Vario modo sanissimum hunc locum viri
docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum. Astitis
verborum sensum esse contendit: Aequum non fuerit homineme— bnum
cogere, ut inter sobriorum hominum sermones habita oratione fiat
ridiculus y quam verborum conversionem nemo pro- babit, Stallbaumius
verba hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum
sobriorum orationibus haud sane aequum , (quod breviter dictum est
pro) ebrium virum provocare , ut ae- muletur sobriorum orationes,
haud aequum fuerit. Sed ne haec qui- dem interpretatio satis nobis
nunc placet. Notum est Homericum il- lud xopai Xapitsddiv
opoiai, quae dicendi brevitas haud rara apud veteres scriptores.
Exemplo noster locus est, ubi pro pe- &vovros dvdpos Xoyov
dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6» Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ;
?} oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i) o iisyev ourog ydg, hxv
riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij dv- &Qcoxcov dU.ov
rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^ Ovx evtpijtiijoiig ; (pava t
toti Eoxgdxrj. Mu xdv IIo- ouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv , (iqdht liys
xgdq xavxa, / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi: Aber die H e d e
ei nes trnn- kcnen M an nes in e i no R e i h e mit den Reden
niichterner Manner zu stetlen, mochte wohl nicht nns dem glcichen
h. e. nicht passe nd se in. Iliickertus eo- dem fere modo: vereor,
no parum sit aequa conditio, si homo ebrius cum ora* tione
sua sobriorum cum orationibus componatur. Ceteram cum hoc loco
conferri potest Piat. Gorg. p. 455. E. oltiSat ydp 8rf nov, ori ra
yego~ pia ravra xai ra reixy rddv f A^7]vaicDV xai t} rdov
Xiyevcov xaradxev?) bc r rjS Oepidro- xXeovS dvpfiovXrjS yeyove ,
ra d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X* ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov
y quo loco consentiens vox esc co- dicum omnium in verbis ix
rdov dijpiovpydov. Buttmannus et Hein- dorfias scribendum
coniecerunt ix tijS djjpiovpydov 5 Schaeferus ed Apoll. Rhod. Tom.
II. p. 141. ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v maluit. Sed nihil opus esse
mutatione, instituta cam Symposii loco com- paratio docebit. Adde,
quae verbo infra legantur p. 217. D. dve - navero ov v iv ry
ixopevy ipov xXivy h. e. in lecto, qui meo lecto proximus
erat. xal aua, cJ paxapts, xelSet ri di x. r. X.
Alcibia- des verbis prolatis xat dfut pro- prie dicturns erat : Et
simul ne possem quidem, etiamsi vellem, Erotem laudaro Socrate
praesente. Sed mutr.to consilio ita perrexit: Num tibi quid quam eorum,
quae modo locutus est, Socrates per- suasit? Sensit enim homo
sa- gacissimus , verbis contra Socra- tem directis fidem prorsus
defu- turam esse, nisi illius dictum aute oppugnatum sit, atque
in mendacii suspicionem vocatam. Recte igitur Stnllbaamius
anno- tat. ad b. 1. Alcibiadis interro- gationem ita interpretator,
nt sensum eius este dicat: Noli quid quam eorum credere, quae
modo dixit Socra- tes: nam plane contra- riam verum est. Ceterum
ad verba hic respici consentaneam est p. 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa,
el poi iitapvvEiS. cos i/ioi d rovrov ipcoS rov dvSpoonov ov
<pavXov npaypa yeyovev. an* ixeivov yap rov xpdvov , aq> ov
rovrov ijpddSyv, ovx- exi i&edti poi ovre npoSfjXe- ipat ovre
SiaXexSffvai xaXdi ovSevi , i} ovrodl ZrjXorvrtdoy //£ xai tpSovGov
Sav/iadra ip- ya<$erai jcal X oidopeltai re xai reo x&f J£
jidyiS anlxEtai x. r. A. Satis lepide autem iisdem fere verbis hic
utitur Alcibiades, tog lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov
JtaQuvtog. owrca ao In, gravat rov ’EQv£lpa%ov , el fiovlei'
Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg { dxtiv rov ‘AXxt- (iuxdijv' doxei
XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai rei E kvSqi xal
Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog , tpuvcu zov EcoxQa.tr] , 1 1
h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit quae Socrates 1.1.
exhibuit, <*o- epi&eral pov tca X^P £ - ovx ei) epij
ptj det$ $ Nega- tio cum futuro tempore couittn- cta quam potestatem
habeat, supra dictum est annotat, p. 26. Eveprjpetv verbi
significa- tum quod attinet, explicatum re- peries annotat, p.
246. taS’ iyco 0v5* av iva a A- Xov h. e. nam dc me ita
cogitato, ut qui te praesente prorsas neminem alium laudaturus sim.
tctoS XiyetSj doxel Xpr/rat , oJ *Ep v^ipax^i Supra p. 21B.
D. Alcibiades im- pediebatur, quominus iniuriam, quam a Socrate
sibi illatam pu- tabat, ulscisceretur j nunc data ultionis
occasione magna cum animi laetitia atque huius rei nec- opinatam
opportunitatem mira- tus, Quid ais? inquit, cen- sen’ me etiam
debere hoc facere? Accentus oratiouis in Xpijyca verbo ponendus
est, quo facto, quod antea, ut faceret, non licuerit Alcibiadi, id
nune idem etiam d e b e re facere ju- dicatur. iit i
rei yeXo tore pa pe i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo Rtickertus
putat yeXoiotepa compafativuiti explicafi posse, tfel ut admissa dicendi
brevitate di- ctas sit pro za yeXowzepa 7 } aXi/SedzepeZj vel ut
significet: ita laudare, nt quo sint quae- que magis ridicula, ro
laudanda sumas studiosius. Neutra com- parativi explicatio probari
pot- est. Stallbaumius ad h. 1, , ifi talibus , inquit , quae sit
vis et significatio comparativi, neminem, opinor , fugiet. Neque
sane difficile est indicatu, quid significer. Primum loci meminisse
iurat p. 189. B„ ubi Aristopha- nes haec profert: coS' iyco epo -
pov pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov firjSj/dedSext ov n , p?) yeXolot
eiitea) , rovzo p\v yexp av xip - 60S eii} xal zijs rj perspexi Mov
- OrjS ijtixodptov , «AAa pi) xa~ rayiXadza. Ad quem lo- cum
cum annotatum sit p. 149. > yeXoia ea significare, quae risum
moveant, xazayiXadza contra fatuitatem denotare eius , cui
xaxexyiXexdta convenire dican- tur, dubitari nequit, quin no- stro
loco comparativus yeXoiov vocabuli nihil aliud exprimat, quam quod
illo loco xazayk - Xadta vocetur. Ceterum Bek- kerus edidit: ini
rit yeXoio - X£p(t pe iitctiv&det , quuo scri- ptura ex
errore euata est olim disseminato : iitaivelv verbi fa- turum
tempus noa iitaivedco sed iitaivedopcei audire. tmavidng ; rj x l
jron}<Jj(-g ; — TuXrj&rj Igm. aXX’ 5p«, tl magiris. — ’AXXu
fitvroi , qxtvca , x& ye aXrj&rj n ag- fajfU x«l xeXeva Xlyuv.
Ovx Sv ip&avoifu , tlnslv rov 'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol
molt]6ov‘ idv tt fu) dXrj&es Xkyar , /.ata^v h tiXafiov , av fiovXtj
, xal 215 tlju , uri zovto tl’Svdofiai. extnv yag tlvai ovbtv fev-
eofiau idv (itvroi dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo lilXofttV ov yag tl
§ud iov xryv Otjv xaXrjSij ipc J, Vide de his Verbis
Comment. de Platonis Sym- posio. Quae sequuntur verba, aXX' opa, el
izapb/f , ludibrii caussa addita suut, quasi rogari oporteat virum
eum , qui per omnem vitam veritatis amorem profitebatur, utrum vera
dici ve- lit necue. Monemur autem hoc loco de verbis Piat. Apol.
Socr. p. 17* C. ; xal piv tot nat rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot
> xovro vpc ov diopai xal napie - pai. Phavorinus napisoBai rov
- to , inquit, Soxel rov napai - xtldSai dvvapiv £*«*'.
Timaeus L. V. Pl. p. 207. napisiACti' napaitovpai , ad quem
locum Ruhokenius: Huius rarissimae, inquit, notionis ratio nondum,
quod aciam, explicata pendet ex indole mediorum. Ut irjpi et
itphjpt est mitto, %Epat et itpiepat mitti mihi volo, i. e.
cu- pio, peto, sic napirjpi ad- mitto, napiepat ad me ad-
mitti volo significat, h. e, precor, deprecor. Speciosa quidem est, sed,
quoniam usu ioquendi non probatur, neutiquam probabilis rtapiepat
verbi explicatio. Neque Socratis in- genio , qui , ut virum
sapientem decet, fortiter atque viriliter iu- dicibus' respondit,
rogandi ver- bum duplex positum satis Con- venire videtur.
Significant po- tias verba xovto vpcov diopeti nat xapiepat : hoc
vos rogo mihique indulgeo. ovx av q>5.dv oipu De
signo interrogandi post haec ver- ba non admittendo, atque de huius
dictionis significatu supra diximus annotat, p, 125. Quae sequuntur
verba, xal pivxoi ov - TOJdl noir/dov, aliquid vitii con- traxerant,
quod miror a nemi- ne interprete deprehensam esse. Schleiermacherus
verba conver- tit: nnd da thue so, quod ita dicitur, ut, dum
Alcibia- des dicat, si qaid forte minus recte dixisset, Socrates
iubeatur id corrigere, lloc modo etiam ceteri interpretes verba
acceperunt. Sed duo sunt, quae displi- ceant. MSVXOI CUm OVTGOdl
noirfdov vix videtur commode ooniungi posse. Deinde 6v pro- nomine
haud careas in enuntia- tione, qua quid Socrati faciendam sit,
praecipitur. Facillime unius litterae mutatione locus sanatur.
Scribendum est xal pivxoi ot$- x cedi noitjddov idv x i pij aXrj-
Xiyco , pera%v iniXaftov x. x. A. Sensus est: Et si hac, qua dixi,
ratione acturas, falsi quid forte dixero, interpellu, si placet, 1
o- rlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. —
ZcoxQuxy 6’ iyu htcuvtiv , oj ardqtg, oiitag iTtiyu- qt]dco , 8t’ dxov
av. ovxog jiev ovv ’i6ag olyasxcu tirl rcc ytXotaxtQa , taxat, 8’ y
tlxcov xov aAi;&ovg tvty.a , ov xov ytkolov. Cap.
XXXII. yaq 8rj ofiototcnov avxov tlvat xotg UstJLijvotg
qoentem atque falsa nar- rantem redargue. kxav y<*p
elvoti, Dc in- finitivo in huiusmodi dictionibus vide annotat, p.
40. Sensus est: quantum ex me pendet, mendacium non dicam.
ov yap xi j) adiov. Cave pronomen indelinitum cum fa(i- dzov
aTCte counecteudum cen- seas. Pertinet id ad negationem atque ov tt
apprime respondet nostratium: denn es ist gar nicht etwa leicht.
Quae se- quuntur verba cjd* ix^YXi du- plici modo explicari
possunt. Aut enim ad Socratem referuntur aut ad Alcibiadem» Ad
Socratem relata Alcibiadem ita animatum ostendunt, ut qui
diflicillimum esse putet, Socratici ingenii mi- ras virtutes coram
Socrate so- brio expedite atque ordine quasi in digitis enumprare.
Jl 18 ' %x ov ~ roS", quod fortasse sunt, qui desiderent, prorsas
alium sensum funderet, atqoe axonictS Socraticae inserviret veritati
describendae ; esset enim idem cj 8 $x ov ~ XoS atque xtjv 6i}v axoniav
gqS £££ 1 ?. Sed possunt etiam coS 1-XOYXi verba ad Alcibiadem
re- ferri,' ut homini ebrio Alcibia- des dilficillimum esse censeat
Socratis axoTtlav expedite atque ordine referre. Quamquam eadem via
est sententiae, hoc an illud explicandi genus magis proba- veris,
tamen cum recentiorihus interpretibus de Alcibiade verba coS"
Ixoyxi dicta accipiam. ovx gdS — St* £ 1x6 v cov. Addita
verba habes 61 * elxovoDVy quibus quod praecedit ovxcdS vo- cabulum
accuratius defluitur. Vide annotat, p. 43. , ubi et hic locas laudatus
est. Ad sequentia oltjdexat iizl x a yeXoioxepa Stailbaumius
supplendum censet: me ipsum laudaturum esse. Non recte. Meliora docent
sequentia verba H6xai 8* 1} e XOJV XOV aXl]^OVS LVETiCL X. x. A. ,
ut igitur ad illa verba suppleudum sit: 81* eixov cov pe
imxEip&Y htaweiY. For- tasse etiam plaue nihil supplen- dum est
, siquidem cogitari pot- est, Alcibiadem iici xa yeXoio- xepet
verba quodammodo ex sen- tentia Socratis repetiisse. Verba igitur
convertere possis: Er wird wahrschcinlich bei sicli denken )t inl
xa ye\owxepa lc : des Bild- lichen bediene ich roich indess nur der
Wahrheit wegen , nicht um zu verhdhnen. xoiS 2 ei\l]v olS
rou- xoiS xots iY x 01S k p /t o - y\v<peioiS xaSTjpeYoiS.
Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\ Jio- 22 B tovtoiq tolg Iv tolg
tQUoylvcftiotg xadypivotg y ovg rtvag lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol
Ovgiyyag y avkovg l%ovtag'’ di ftgadfi dtOL%&tvr£g tpaivovtat
tvdofrtv vtyak- vvdov xopfvral napa ro rftA- Aofivttv y u
l6xt 6xojitxeiv Atyopevoi [jtapd xovS TtotovS]. Adde Schol. ad
Aristoph. Nobb. v. 223. xi pe xaAeiS , g) '<p>}~ pepe. — gj
avSpcDire. iXiyeto 6i d Stoxpdrr/ff xrjv uifuv 2et- Arjvcp
itapeptpodveiv. 6 1 po S xs y dtp tux \ (paAaxpd $ i)V. xe-
pieSyxev ovv ctvxcp olov xov napo. JJtvddpop SetXtfvov cpco- v)}Yx.
x. A. Patet autem o uostro loco, nam nusquam «lias rem commemoratam
reperias statuarios capsulas, quibus artificia reconderent , ad
Sileno- lum formam effinxisse, eorumque sedentium quidem, nt
latius intus spatium artificiorum recon- dendorum daretur. Hae
capsulae felicissime cum Socrate compa- rantur etiam eo , quod
externo cultu minus conspicuae erant at- que negligentius
elaboratae Athe- naeus L. I. c. 15. C. statuam Thebis exstitisse
narrans Cleo- nis cantoris haec addit : vito xovxov xov
dvSptavxa, oxe AAiZardpoS x cis QtjfiaS xaxe- (Sxanxsy <ptfC\
noAeparv, <pev- yovxa xtva xpv6iov eis x 6 ipa- xiov xotXov ov
ivSitiSai • xal 6vvoixt2,oplvr}? xffS itoAeaS ixa- veASorxa evpeiv
ro' xP v< *i° v pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil habet haec
narratio, qnod aliquo modo possit cum nostri loci verbis comparari. Hoc
tantummodo ex ea discimus , magna religione illis temporibus
homines artium operibus pepercisse. o? 6ixa8e
8ioix$£y*£f. H. Stephauus 6ixa6e verbo offen- sus , quod
nusquam alias apud Platouera reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit,
quae correctio fuerunt quibus admodum placeret. Recte receiitiores
editore! 8ixa8e reposuerunt. Verba converterant Ficinas : qui si
bifa- riam dividantur y reperiuntur in- tus imaginem habere
deorum. Schleiermacherus; ia dei, en man uber, wenn man die eine
Halfte wegnimmt , Bildsaulen von Gdt- tern erblickt. Schulthessius
;. Schiebt man sie auseinander, so erblickt man inwendig
Gotterbilder. Rem intellecta facilli- mam fecerunt interpretes
difficiliorem. Res sic se habet: In contrariis Silenorum lateribus
duo- bus duo foramina erant, quae epistomio quodam claudi
pote- rant. Iam si qnis artificia intus j^econdita spectare vellet,
non opus erat, ut singulae partes Sileui solverentur. Ex
altero enim Sileni latere, ex utro ali- quis vellet, per alterum
foramen spectatio erat , ex altero lateris parte per alteram, quod
in cg erat, foramen lux incidebat. Sen- sus est verborum: Di ese
zei- gen, da sie auf beiden Seiten nach deu Durch-
schnittspuncten hin OefT- nungen haben, in ibrem Innem die Gestalten
von Oottern. Ceterum non sino magna vi ultimo enuntiati loco
positum hahes $£G)v ‘nomen , nt significantius indicetur, res
summae gravitatis vili atque pae- ne ridiculo tegumento h. e. So-
cratici cojpoiis turpitudine ob- \i I ftam
fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov rtp 2.'ax vQip, ra
Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog tl tovtois, a Ewxqox fg , ovd’
avrog dij xov d(upLCj}ri- vnlutas esse. Nostrum locum
imitatus est Iulianus Orat. VI. p. 184. A., sed memoriter atque mitius
accurate, ut carendum sit, no quis ad eius exemplar Platonis verba
emendare studeat: <pypl yap dy njr xwtxrjv <piAooo<piav
opoioxdxyv eivai xolS 2 eiAtjyoiS xolS iv xolS EppoyAvqjeioiS
naSypEVoiZ, ovS- xivaS ipyaZovxai ol dypiovp- yoi 6vpivyaS rj
ariAoris Exov- xas , o? 61? dioix^Evxes Evdov tpaivovxai dydApaxa
ExovxeS SecZv. xai tptfpt — xcri 2 ar ri- pa) , tcj
Map6vot. MapcriaS, Schol. inqnit, otriArjtl /ff, ’OAvp- itov vloS,
oS xoris ariAoris *A$y- vaS /jnpddt/S dia xd iva6xy- povEiv avxoiS
drtAoptvoS rjpt - (Siv 3 AitoAAcovt itspl pov6txijS t xal y xxy$y ,
xal itoivyv di- dcoxe x 6 dlppa dapetS. Docemur hac Schol. narratione,
Marsyam formam faciei minus curas- se, utpote qui tibiis canendo ex-
celluerit , quas , quoniam faciem deturpant , repudiavit Minerva,
cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo (Hyagni) Marsyas cnm in arti- ficio
patrissaret tibicinii , Phryx cetera et barbaros, vultu ferino,
trux, h spidus, illutibarbus, spi- nis et pilis obsitus fertur pro
nefas cum Apolline certavisse. Thersites cum decoro , agrestis cum
erudito, bellua cnm deo. Ceterum quid Marsyae mytho ve- teres
exprimere voluerint, statim intelligitor. Musica nimirum orte
hominum ferocitas deliuilu morumque asperitas- deposita est, sicut pellis
Mursyae spinis atquo pilis obsita, quam Musarum in- dicio Satyrus
deposuit, orid 9 ari ro ? dy itov dp- <pt6fiijxi/dais.
Ilaec est le- ctio vulgata , quum duorum au- ctoritate codicum- in
dpqjiCfty- Tr/tiElS immutarant interpretes» Ac potuit quidem Plato'
ita scri- bere, non scripsit revera. Ete- nim quae certissimu sunt
atque 11 * luce clariora Alcibiadi, ea idem quasi dubia ex Socratis
mento aptat, non ut incertus esse rei, sed ut simulare tantummodo
videatur irooiae caussa aliquam dubitationem. Unius optativi ex-
emplum , quo satis acerbe ali- quis aliquid, quod compertam habet
atque perspectum, tamquam dubium ex alius mente aptat, apud
Meleagrum reperitur Epigr. LXIII. "Eyv&v, ori p* EA
a$£S. r i Seori?-, ori yap pe AeA yBaS. "Eyv&v * prjxixt
vvv opvw irdvx* EpaSov. Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy
6v itaAiv, povy vitvoiS t oApyf xal vvv, Vvv Ext tpydl povy.
Aliud exeipplum a Reisigio lau- datum reperies in Commentat.
de vi et usu av particulae p. 131. * Theocr. Idyll. XVII. v.
60. <prjs poi navxa douev * xax& 6 * v6x epov orid *
dAa doiyS> quae verba a puella pronuntiari Reisigius
censet, quae amatori 22 o 1 3-WI
T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g , fina rovzo axovs. 'rfiguirr/s
et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg nKQtto[icn. all’
ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog C Ixtivov ' o fitv ye dt ogycivav
exijlu rov g av^ganors tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei, xai En vvvl
og ccv r a Dinlta pollicito hyperb<pl i cum fere aliquid
et incredi- bile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis , Reisigius
in- quit, si uv vel xe adderes y vah , quantum periret Veneris .
Lasciva puella , quod ipsa minime cre- dit , loquitur , nec vult
videri serio se credere , sed tentat dis- simulare tanfum : qua
ironia eo fit amabilior , et auget amoris flammam. Tale fere
quiddam est in nostratium more , ubi di- cimus; am Ende : v eluti ,
am Ende giebst du mir gar nidus. SimiMus Reisigianum exemplum
Platonis verbis est, quam quod supra laudavimus exemplum Meleagri ,
quamquam id accura- tius examinatum eadem dicendi ratione gaudero
iutelliges. v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Haec verba
Schleiermaclierus reddidit : . Rist du ubermiithig, oder
niclit? Sed magnopere displicet, quam V, D. secutus est, verborum
in- terpunctio , neque verisimile est, eum, qui testes adhibere
possit, quibus rei prolatae veritatem probet, sic locutum esse:
vfipi- 6ti)S el y y ov ; Sententiam ver- borum quod attiuet, prorsus
eodem modo Socrates vfipuStyS vo- catur ab Agathone p. 175. E.:
TppitiztjS el, £<py , gj Scjxpa- teS 9 d *Ayd$(ov.
'TfipiOx&v autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita
tor- quent atque volvunt, ut aliam vel speciem vel notionem
potestatemque repraesentet, eatnque quidem contrariam ei, quae pri-
mitus ipsi inest. Sic et vfipi- S,eiv verbum de Homerica pio-
verbii corruptione adhibitum le- gitur p. 174. B. "OpypoS jttv
yap mvSvvevEi ov puvov Sta - <p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat f.ls
ravryv tyv napoiplav, ad quae verba vide annotat, p. 19. Ut autem
Sileni in artificum oirici- nis sedentes aliud in se habmt, aliud
externa forma ostendunt, quod illi maxime contrarium est, ita
Socrates haud raro cogita- tiones suas obtegens aliud quid, quam
quod sentiret, verbis -ex- primere solebat. Hinc institu- tae
comparationis et, Socratis ct Silenorum expendas veritatem. i
av yd p fii } o poXoyy Tdp particulae potestatem recte intclligcut
, qui interrogationis praecedentis significatum cogno- verint. * II
ov ; enim verba ita proteruntur ab Alcibiade, nt rem a Socrate
negari posse negaret quasi diceret: Rem negare non potes.
Paullo aliter Stall- baumius de yap particula disse- ruit annotat,
ad h. 1. : Particula yap t inquit , referenda est ad sententiam ex
reliqua oratione facile supplendam : el fikv ovv. — Utra rectior
sit atque na- turae Joci accommodatior expli- catio , lectores ipsi
videant. crAA* ovx avXyzy S- t Re- Ixtlvov ttvXjj. a
yag "OXvfixog ij vXei, MuqOvov liyco, rtivtov didcct-avTos. r a ovi)
ixtlvov , iav re dya&og avXtjrrjs ciiiky , edv re qiavXrj avXtjrglg,
( wva xccci- j reti&at itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal
reXeroJv dtofiivo v$ 6 ut to &tla etvau oi> d’ ixtlvov
roOovrov ctissime H. Stephanus , quod ia editt. valg.
omittitur, post av- Xvrtjs signum interrogandi po- suit. AAAa autem
e licto So- cratis responso repetitum est, qui vfipi6xijv quidem se
esse con- fiteatur, avAtftfjv se esse non concedat : vfiptuTJ/S y*
tipl, Oj IA* ovx avAtjxrfc, xal ixi vvvl oS ctv x
u ixtlvov avAy. Docemur his verbis, Olympi harmonias etiam
Platonis aetate superfuisse, qui- bus tantum veneris attribuitur,
ut sane pulcherrimas fuisse inde couiicias. Phrygias harmonias
fuisse ivSovdiafyiov procrean- tes Boeckhius docet ad Piat, Minocm
p. 26. M apCvov Mycoj xov- i ov 8 i5a£, av x uS.
Consentit Schol, «d Aristoph. Eqq. v. 9. &vvavAux. ZwavAla
xaXtixai , otav 6vo avXi/Tixl to avro Ai-. ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS
povCi- xoS Tfv , Mapdvov pa$7)rifi. iypcnjxt Sk avXrjrtxovS
xal $p?/vyxixovf vopovS. Yopoi 8e 7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S
vpvot x. x. A. iav te aya$uS — aJ- A i/rpis. Etiam
tibicinarum cur hic mentionem faciat Alcibiades, si quis quaerat ,
nihil ab inter- pretibus annotatum reperict. lloc certissimum ,
neminem olferisu- rum esse iu verbis iav xt uya- 5uS avXt/xj/S
avAf/y iav te ipav- Ao?. Ut nunc verba se habent, de artis
dexteritate dicta acci- pere possis , ut non nisi viri in arte
tibiciuaria boni dicantur, mulieres autem artis expertes ti-
bicinariae non nisi mediocritatem quandam teuere. Sed hanc non
fuisse scriptoris voluntatem, no- bis quidem persuasissimum est.
Alcibiades proprie dicturus erat : iav xs avAr/r ?/? , iav re av -
A ijxpiS y iav re ayaSuZ ns, iav xt tpavAoS , sed brevitatis studio
oppositionem ita instituit, ut non substantiva solam sed etiam adiectiva
sibi oppo- nantur. Ceterum vide annotat, p. 299. ubi huuc locum
landa- virnus. pova xaxexz6S at xal d ij Aoi. Frustra
haec verba emendare studuit Orellius ad Isocratem p. 333*
Scribendum enim coniccit puvovS xarix^d^c ri 7ruit2 xal xtfAtt.
Haec correctio cum alia de caussa, tum co nomine nobis improbatur,
quod harmoniarum Phrygiarum vim admirabilem minuit atque
urctioribus finibus iucludit. JMovvt plane eiusdem potestatis est
at- que (tvxd , eamque illarum har- moniarum praestantiam
descri- bit, quae sua vi emergit , neque ullo artiiicum adminiculo
indi- get , quo emineat magis elfica- ciorque evadat. Recte inde
col- ligas, simplicissimas illas har- monias luisse. (torov
SittcpiQt ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg loyoig rav- D tov rovro noieig.
r/fiug yovv orav fitv rov ullov dxovco- I uev Ityovrog xcd itavv
dya&ov grjtOQog cA kovg Xoyovg, ovdlv ftfAft , ag £'xog tlxtlv ,
ovoivl' inuSuv 5e fiov avev 6 py a v ody , rptXol? Xoyoi?, Comma
posuimus post opyaycoYt quo tautologia verbo- rum facillime
vitatur* IFiAol Xoyoi enim h. 1. ajipositum est, ut clarius
indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav TavTuv rovro
notel?. Ceterum notandum est, alteram etiam significationem Alcibiadem
tecte indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?, WiXoi? enim idem fere
sonat atque diXXoi? , ut satis lepido ad Socraticam illam ironiam
al- ludatur, qua virum sapientissi- mum usum esse acerbissima
nemo nescit. ov 6% v jiiXei 9 oa? in o? eineiv ,
ovSevl. De vario ordine, quo Graeci gJs - ino? el~ Ttnv verbis usi
sunt, vide annotat. p. 127. Significatum quod attinet huius dicendi
figurae, an- notationem adi p. 63- Latiore autem significutu
serioribus tem- poribus, ut videtur, hanc formu- lam adhibebant
Graeci, angu- stiore, quem ipsa verba expri- munt, antiquioribus.
Nam si quis autiquitus verbo aliquo usus es- set, quod rei
describendae minus convenire intelligeret, ut id intelligere videietur,
verbique ve- niam peteret, illam diceudi figuram adhibuit. Perinde
autem erat, utrum Q)? ino? eineiv di- ceret, an &S eineiv
Itio?, Utro- que enim verborum ordine uti licuit in dictione , quae
nihil aliud significabat, quam quod ipsa verba exprimebant.
Serioribos temporibus loquendi usu factum est, ut scriptores
eadem dicendi formula adhibita veniam peterent uou unius verbi
minus accurate usurpati, sed complurium, ueque verborum solum, sed
etiam seu- tentiarum. Iam quo magis np- tio , quam usus loquendi
alicui formulae indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo
debiliora verba fiant necesse est, nt quasi torpore quodam tenean-
tur, qui ordinis mutationem non facile admittat. Exemplo pro-
verbia snnt, quorum verba sin- gula eodem ordine plernmque re-
citantur, Exemplo etiam formula est d>? Ino? ehteiv, quae simul-
atque latiore significatu adhi- beri coepit , liberiore verborum
ordine gaudere desiit. xdv navv q>avXo? %f o A eycov.
Potuisset etiam h. 1,, si oppositionem adhibere voluis- set,
Alcibiades dicere xdv ndw aya$o? o} xav ndvv <pavXo? 6 Xiycov ,
de quo dicendi ge- nere supra diximus annotat, p. 299., et cuius
exemplum paullo sapra legitur, p. 215. C. Idv re dyaSo? avXrjr?}?
avXy , idv re (pcwXrj avXrjTpi?. Quod moneo, ut recte varba
explicata credas 209. C. dnropevo? yap, oipai, rev xaXov xal
opiX&v av roJ, d ndXat ixvei, rixrei nui ysv- Vijc, xal n aped
v xal anco v pejivjfpivo?, xal r 6 x, r. A, idv re yvvrj — -
xare- XopeSa. Omnes Socraticis dictis percelli ait Alcibiades
at- que teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj zb5v GiSv
k&y av, akkov kiyovzog, xav tzuvv q>avkog y 6 ktyav, la v te ywtj
dy.ovtj lav tt arrjff i dv t» ftuijaxuw , lx7Ujtkrjy(itvoi i<5fihv xal
xaTE%6(i.Eda. lyety ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov xofuSy du£uv
(u&velv, eimina sit, quae ea audiat) sive vir, sive adolescens. Haec
dicta quoniam comparantor cum Olympi harmoniis , quae addito
artificio nullo , ipsa per se animos audientiam capiant, merito
verba mireris illic addita: xal SrjXot xovS xcov Sedov te xal
xeXcxcjv beopivovS 8ui x 6 2 Eia elvai . Neque placet, quod
Riickertus annotat ad haec verba : Non omnes hac harmonia ad
divinum furorem excitati sunt; qui autem essent, cos ad divina
mysteria percipienda factos esse hoc ipsum declarat* Nolo pluribus
huius sententiae axoniav y quae manifestissima est, perstringere ;
persuasum autem habeo, verba Platonica vitio ali- quo laborare. Pro
8i]Xoi xovS xt ov $egjv scribendum esse vi- detor: SrjXoi SvijtovS
xav Segov, quae scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim
intelligitur. Quid enim aptius est, quam mortales una commemorari, ubi
sermo est de arctiore cum diis per initiationes coniunctione? Neque carent
verba corruptionis verisimilitudine. Primae enim ONHTOTC vocis litterae
quam facile in OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum,
quod proxime praecedit, in OI exeat, fieri facillime potuit, ut ulterunl
OI absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est , qui Platonem
scripsisse arbitrati sunt, quod hodie in omnibus editioni- bus
legitur: 6?jXoi r ovS. Eyooy' ovv, cJ av6peS. Iiaec vulgata
lectio est. Iu tri- bus Bekkeri codicibus paucisqur aliis iyco yovv
comparet, quod haud scio, an non probandum sit. Nam si io priore
alicuius enuntiationis parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia
posteriore enuntiationis membro loquens inducitur, non est adiun- ctus ,
iyoj 6* ovv vel lywy' ovv poui solet, utrumque pio oppositionis vel
exceptionis ra- tione, quam scriptor indicare vo- luit. Contra ubi
in priore par- ticula enuntiationis alicuius ali- qui commemorati
suat , quibus adiunctus est, qui ia altera par- ticula loquitur,
uou lycoy ovv sed ly<6 yovv locum habet. Iloc Bekkerus probat
Comment. Cril. in Piat. p. 357. , idem A&tio placuit atque
Riickerto. Stallbaumins in altera Symposii edi- tione lycoy* ovv
reposuit. el /i)} HpeXXov xopi8y 66 B, E tv. Schol. ad h. 1.
wo- pi8q , inquit, xvplooS pev xo impeXuS, o$ev xal opEoxopoS
xal yEpovxoxopoS * i 6 o 8 v v a- jx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p
a xal xeX£a)S t xopi8y dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum sensus
est verborum huius loci: Ego certe, o viri, nisi viderer prae nimia
ebrie- tate meras nugas narrare, dicerem vobis loramento
interposito, quae mala in me ab huius orationibus pervenerunt et
quae rtov vftocag av vfilv
olcc Srj nticov&a avzog vito zmv zov- tov J.vyav xal ndayco Ixi xal
vvvl. ozav ydg axovo), itokv E fioi (idllov tj tcov xoQvfiavzicovrav ij
tb xagdla irtjda xal ddxgva lx%tizai vi tb zav l.oyuv zav zovzov.
oga de xal akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag. Ilegi- xbeovg
de axovcov xal akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev tjyovfirjv beyeiv ,
zoiovzov d ’ ovdev ixaGyov , ovdi zt- tiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’
rjyavaxzei ag dvdgano- perveniant etiam nunc. Annotat
Riickertas: Non dicerem tantum, uti nunc dico , sed iusiurandum adderem. Satis
nobis liaec explicatio displicet. Quasi si quia mira narret ebrias,
addito iuramento ebrior esse, indicetur. E hcov ojjodaS av
nihil aliud siguificat quam: dicerem dictu mque iura- naento
interposito confirmarem, Ut autem rectius Alcibiadis verba intelligas r
homo ebrius, quae perpessus sit, ea ita mira esse sentit, ut a
ne- mine facile credantur* Igitur ne vino prorsus immersus indicetur,
ai illa retulisset atque eorum Veritatem affirmasset , rem silentio
praeterire apud se constituit. Post autem non tam mutato consilio, sed
quod res ita ferebat atque loquacitatis, quam vini vis indidit,
libidine ductus, quicqui^l perpessus sit, aperuit tamen. V *
&v no pv fi av x i oov~ tcov. Annotat Schol. ad h. l.j
iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv ippctv)}' opxovpivcov , ano tgoy
K opvfidvxcov , oi xal x potpeiS xcu (pvXccxsS xal 8i8ddxaXoi xov
4ioS eivat pv$oXoyovvTai, TiveS 8 e rovS avxovs roiS Kov - ptjtiiv
etvai tpadiv. elvai 8e xal x ijf ‘PeaS vnadovZ , ano xgjv xov JioS
Saxpvcov yeys~ vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol ptv 3*, ol 81 i Xkyovdiv.
Timaeus habet xopvfiavxtav' 7tapepj.iai- v£6$at xal ivSovtiiadxiHuS
xi~ YEtdSai. IldSoS autem rcov xo - pvfiavticovxcov vocabatur
xopv- fiavriadfioS, Quo morbo qui correpti erant, tibiarum
cantum audire sibi videbantur ad salta- tionem excitantem, neque
tem- perare sibi poterant, quin salta- rent. Vides igitur, quam
apta hoc loco sit xciov xopvfiavxicjv- xcov commemoratio , cum
Socrates cum Marsya tibiis canendi peritissime comparetur, cfr.
Piat. ‘Crit. p. 54. D, xavta, ai (piX& ttaipE [ Kpixcov ] , ev
?b3z, oxi iyco Saxei) axovEiv , &)Szep ol xopvfiayriGivTES tcov
avX&v <$o~ xovdiv axovEiv. Adde Piat. Phaedr. p.227. B.
dzavtijdas 8h rd v o 6o v vx i zspl Xoycov dxorfv, iScov phv, 18
odv 7/<537/, ori eB,ei xov dvyxopvfiavxicovTa x. x. X.
ev jtlv xjyovfirfv Ac- yetv. Piaeterito tempore Alci- biades
bic utitur, quod Pericles eo tempore iam obmortuus erat, quo
Agathonis ixivixia cele- brata sunt. Ceterum ipsa verba docent ev
pbv rjyovpijv Xeyeiv, quam necessaria lormala coS EizoS
'irillgteed /\r «•' • Sadwg
dtaxEiplvov. cxXX’ vito tovtovX rov MciqOvov stoXXaxig drj ovta Ster
idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj fiica- 212 rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc
, o Uiaxga reg, oix Iqels cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9
Ipav- rq> , ori , ei l%i). oipv TtaQeyew tu ara , ovx av xaQ-
tSQTj<faipi> cMa tuita av itdG%oipt . dvayxd&i yaQ pe opoXoysiv
, ori vtoXkov tvde^s av avtdg En Ipavtov fikv dpeXc5 > tu 6 9
'Afojvuiav itQaztco. fila ovv, agitEQ elneiv verbis sit p. 215,
D. ijpeis yovv otav pev rov aA- Xov dxovtopev Xiyovzos xal
navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’ A 6yovS t ov8ev pe\ei — ovSevl. — De
pov pronomine nomini sao praelixo , quo dativi com- modi , quem
vocant, vel incom- modi notio exprimitur, vide Qutt- manni annotat,
in Indic, ad Piat, Dial, IV. BeroI, 1822. •$X oyrt Satis
usitata haec dicendi ratio tragicis poetis , quam rov evtprjpelv
ergo adhibebant miserrimam vi- tae conditionem indicaturi. Sen- sus
est: Ut mihi miserrime viventi vita non amplias vitalis
videretnr. ovh ar xapr epij C atpi. Conscios mihi sum,
Alcibiades ait, me etiam nnnc, si vellem aures praebere illi , eius
illece- bris non restiturum esse , sed eadem, quae antea,
experturum h. e. dySpano8co8d)S diaxEi- CeCSat.
dvayxd^ei yap pe opo- A o y eiv x. r. A. Argumentum his
verbis expressum habes eius libelli , qui Alcibiades primos
inscribitur. Eum libellum ne- gant hodie viri docti a Platone
conscriptum esse. Ac lieri po- tuit facillime, ut aliquis Plato-
nis amator, qui haec verba le- gisset, de hoc argumento ad
Platonicorum dialogorum exemplar dialogum conscribere apud so
constitueret. Quae autem verba in- fra leguntur p. 216. B.
?}rrrfpiva> ti)S npijs rijs vito ,rojv jroA- Xgjv, comparari
possunt cum Al- cibiade I. p. 1S5. fin. ftovXol - prjv dv Ce xal
8iaxeX/:Cai' o’/3- ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet ani- CrcSv ,
aAAa rr}v rfjs no\ ecoS fiuprjv, pi) ipov re xal Cov xpan/Cy.
fiiot ovv , cosnep ano z&v Setpijvcav x. r. A. Abreschius
Lect. Aristaen. p. 147. cum fiict commode explicari posse
diffideret, fivcov scribendum con- iecit : (Uvoav ovv dsnep ano
r&v Seipijvoov iniCxopevot ra tora oixopat tpEvycov . Recte
Stallbaumius hauc correctionem improbat etiam ea de canssa, quod
illa odmissa verborum iun- ctura existeret legibus elegautiae
orationis coutraria. Quis enim, Stallbaumius iuquit, ferat ita lo-
quentem : Obstruens aures, tanquam ab Sirenum canta cohibens aures,
fugio virnra. — hia cum olxopai tpevycov Stallbaumius
coniungen- dum censuit, quae verborum iun- ctnra nullo modo probari
potest. ano uSv Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura , ofyofiat qjtv-
•yav, iva (irj axrtov xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQa- B Oa.
ntnov&a ds ngog rovrov fiovov av&gconav , o ovx av rig oiot.ro Iv
Ipol Ivtlvat , ro alojfvveo&ai ovnv- ovv. iya da rovrov /rovov
alo^vvoficu. | vvoiAa yttQ Satis notum est exemplisque per*
multis probatur, oixopat tpev - ycov eam fugiendi rationem de-
scribere, quae celerrima sit at- que subitanea. Iam cum hac il-
lius dicendi formulae notione quomodo (5i(t conciliari possit,
equidem non video* Nam quae fihp aliquis facit, h. e. ut apud
Homerum legitur btriv aexovzl ye is cunctanter agit at- que
animo minus obfirmato. Du- bitari nequit, quin / Via ad liti -
CxoptVoS referendam sit, ut Al- cibiades vix ac ne vix quidem a Socrate
quasi a Sirenum cantu dicatur aures cohibere posse , eo facto autem
in celerrimam fugam ee couiicere. Ceterum' ad Hom. Odyss. hoo loco
respicitur M. v. 59. et sqq. iva ni) avxov xa$rj ut-
ros itapa tov rw xazayri- pdooj. Summam laudem hia et
praecedentibus verbis conti- neri Socraticae facundiae, nemo non
videt. Eam enim Socrati- cae orationis vim esse Alcibia- des
contendit, ut omnes ea au- dita per omne vitae tempus eius
auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab ho- mine
proficiscebatur, de quo Ne- pos in Vita Alcib. haec tradit:
disertus (fuit), ut in pri- mis dicendo valeret, quod tanta erat
commendatio oris atque orationis, ut nemo ei posset
dicendo resistere. His, adde verba illa, quibus Pericle
Socrates dicitur plus in dicendo valuisse. Periclem autem peritissimum
di- cendi fuisse accipimus, cfr* Cio, de Orut. III. , 54* In
eius labris veteres comici, etiam cum illi maledice- rent,
leporem habitasse dixerunt, tantamque in eo vim fnisse, ut iu
eo- rum mentibus, qui audis- sent, quasi aculeos quos- dam
relinqueret. o ovx av xi$ otoixo iv Ipol iveivoti. Probatam
ha- bes bis verbis levitatem Alcibia- dis supeibiainque eam, quam
scri- ptores Veteres passim tradunt* Ceterum cave eodem
significatu dici censeas iv rivi ivttvai et elvai Zivi. Conferri
possunt hae dicendi formulae cum Latinorum : alicui inesse vel in
aliquo inesse et esse ali- cui. Ut elvai zivi ita Latino- rum esse
alicui adhiberi solet, cuhi alicui aliquid esse dici- tur non addita, quae
inter possi- dentem et rem, quae possidea- tur, intercedat,
ratione. Evtivat contra iv rivi et Latinorum in aliquo inesse de eo
plerum- que dicitur, cui aliquid est, quod cum ipsius naturu ,
ingenio , in- dole artissime sit coniunctom. Platonis verba
Schleiermacherus reddidit : w os einer nickt in mir suchen solite.
Haec nostratium dicendi formula apprime respon- tfiuvTtp avullyuv fih>
ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv u ovtog xsXevh , £xh8ccv 8's
&sc£l& cj , tijg Tifiijs t% vtio zav tzqVjSv. dQajzsrsva
ovv avtov xal qisvya , xal ozav Z8a , alGyyvouai za wfiokoytj^iva.
xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv C det Platoni*
sententiae, sed verbi ivetvat iv tivi nativam vim non exprimit. Ea
ut emineat magis, verba sic reddiderim: Was einer wohl nicht leicht
meinem Wesea eigentliiimlich glauben mochte. xij 5
ttftijs xrj s v it 6 xgjv 7t o X Xco v. Nequis forte scribendum censeat
trjS aito xeov 7toX~ A cor, ut honor signiiicctur, qui a populo
proliciscatur : amant Graeci substantivorum passivam, quam vocaut,
notionem ab activa discernere atque, ut exemplo utar XifiijS
vocabulo, accurate disiuu- gere honorem , qui ab aliquo in uliquein
confertur, ab honore, quo aliquis aliquem dignatur. Ti/S xi- ji)}S
igitur idem significare atque tov XifiadSat addita vjto praepositione
indicatur. Sed liberior etiam huius praepositiouis usus est. Haud
raro enim cum verbia neutris coniungitur, quae verba possuut aliquo
modo, quoniam per se spectata neque actionem indicant , neque
itaSoS aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Haec nomina
enim utrumque significare possunt et actionem et itaSoS, ut recte
dicautur per se spectata neque hanc neque illam uificarc. Sed ita
ditfert vn 6 praepositiouis usus in nominibus substantivis et in
neutris verbis, ut illis addita notionem, quae ipsis inest,
extollat, cum his coniuncta notionem novam quasi pa- riat, quae notio no
utris verbis proprie non inest. cfr, Hora, II. p. 319.
iv$a xtv avxe TpdoeS dpifi- (piXoov vtc *Ax<xtG>v
" IXiov eiSavEfiTjticcv avaXxei- Xfit Sajievxs? Adde II. p.
S36. cridooS pkv vvv ySe y dp?ft- qjiXoav vn *Axai(vv
"IXiov eteavafiijvoa, avaXxei- y6i SafievxaS. His locis
, quibus alia addi pos- sunt innumerabilia, edoceare, li- beriore
vno praepositionis usu elfici dicendi brevitatem , quae sane
gratissima est et venustis- sima. Ad nostrum locum ut revertar,
statim intelligitur, quid Alcibiades confiteri cogatur a So- crate,
et cuius rei pudor illum hoc conspecto subeat. Nimirum qui rtoXXov
ivdei/S convinci- tur esse (vide p. 216. A.), is se percolere
debet, non admi- nistrare civitatem , quod fecit Alcibiades populi
aura dele- ctatus. ij 8 £o)S dv i8 oipt h. e.
rfSoifi7\v dv avtov ISqjv. Vides igitur, magis ad adverbium, quam
ad optativum modum IStiv ver- bi av particulam pertinere. Id
probatur etiam eo, quod omisso adverbio dictio existeret pror- sns
non ferenda: xal izoXXaxiS ptv i&oifi dv avtov pp
ovxa avftQQMtois' tl 6* av rovto yivoito, sv old\ on itokv fiel^ov
clv «%9olgif]v , cj^tb ovx b%g) S xi XQrjGttpa t Tovtcp r (3 dvftQcina.
xcd vito piv di] xav ccvArjfidtav itat lyco occa dAAoi itoXAot xoiavxa it
BTtov&aOiv vnu tov 8 b rov 2 <xxvqov. iv dvSpcditoiS.
Nulla enim ad- est caussarum cohaerentia , per quam fieri possit ,
ut Alcibiades Socratem inter vivos non vide- ret. Adest, ubi
gavisurum se esse Alcibiades dicit, si non vi- deret Socratem inter
vivos. Ita- que quid de Platonicis verbis rfdicjS UV VSoifii
statuendum sit, iam vide. Brevitatis studio t/SkcoS i8oif.it ita
positum est, ut duo liaec verba unam notionem efiiciant, quacum av
particula com- mode consocietur. Simul sup- plendum aliquid
relinquitur, quod quid sit, ex ipsis jjSkcDS av iSojfii verbis
elicitur. Oratio enim expletior audit r tjSkcoS dv i'8oiftlj tl
idotfit. Similis ver- borum structura in Piat. Lachete occurrit p.
182. c. V. fin. Aa- XtjtoS 8’, tl n napa xavxct Akyei, ndv avxoS
ijdkool cotov- CaifUy quae verba explicatius enarrata audiunt : ndv
avxol ?}- 6kcoS dnovdatju , tl dxovuaifii AaxrjxoS, tl r i Ttapd
Tama Af- yti. Satis autem docet haec enar- ratio verborum, quae tl
duplici- ter atque diversa potestate (wcnn, ob) posito satis
ingrata est, quantum orationi admiss? illa verbo- rum structura
suavissimae brevi- tatis accedat. no Ai) pti2,ov dv
dx$oi* fiijv. Pro fitigov scriptum ex- spectaveris fiacAAov.
Iliickertus nd h. 1. : ut piyotj inquit, verbis iuuctum est valde,
v. c, Hom. II. /i. 2u. A.oS 81 roi ayytXol et/u
oS avtvSev £aj v, fit}' a 7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu et v.
333. gjS icpccc. *Apytioi 81 ftty iaxov K t r. A.
sic etiam fiei^ov magis, ve- hementius. Dictum pro fiti- Zov
dv &x$oS txoifu , — Fru- stra rationem quaeras, cur a- pud
Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur nostro loco fitigov
dv dx$oi- ftrjv non tam positum sit pro fitigov dv dx^oifiijVy quam
po- tius idem atque illud significet. In caussa hoc esse reor,
quod Graeci haud raro verba co signi- ficatu adhibebant, quem satis
in- epto nomine, vocant Grammatici praegnantem. MkyaK w)-
8txea igitur non tam est : v ai 1 d o providet saluti tuae, quam
magnam tui curnm agit. Eodem modo 9 Apyttot fiky Iaxov explicandum
est : Sie schrieen gross h. e. sie erboben grosses Geschrei.
Plura huius usus exempla laudata reperies anuotat. p. 87,
coite ovx ott XPV - dcofiai. Pro xPVoMfiai libri omnes
XplfeOfLat exhibent, quam lectionem lluchertus, nimis rcli^ giose,
ut solet, in textum recepit. Sed quid facias in contexta oratione scriptura,
quam ipse, qui eam recepit, explica- Cap. XXXIII. "AXkct
de epov axovGccre, tyto aixatiu avrov , xal ryv oSg 3 (loiog
re tCziv otg dvvcc[uv io s %avpc(Oiav bilem atqne rei
describendae ac- commodatam negat ? Certum quidem est, scriptores haud
raro formula dicendi nsos esse gjSts ovh Hxv oti xPV^o^ioctj
cuius exempla Stallbaumius laudavit ad Piat. Gorg* p. edit. 85 ( .
, sed haud perinde est, coniunctivo an futuro utaris. Ac nostro
quidem loco si xPV<S°M<xi scribitur, ne- scire se praesenti
hora Alcibiades confitetur» quid cum Socrate faciat, facturum
autem aliquid sese esse uua promittit* Quae sententia quam inepta
sit atque ab huius loci .sensu aliena, nemo non videt. Contra
con- iunctivo adhibito penitus nesciri ab Alcibiade, quid in
universum dc Socrate consilii capiendam sit, quaeve eligenda ratio
homi- nem tractandi, exprimitur. Quae sententia, quoniam aptissima
est huic loco , quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem
codicibn non recipiatur, XPV^°M°^ autem ineptae sententiae lectio
non reiiciatur, caussam equidem non reperio. neti vito j.tlr
8 y tcov av- \y p dz w — V7C 6 tot j Se tov Sazv pov. Av
Xypaxa Socraticos sermones significare, Satyrum Socratem, nemo
mirabitur , qui Socratis cum Marsya comparationem legerit. Ordinem
verborum quod attinet, proprie dicendum erat xai V7cd ply Si } tgov
otvArjpdrcov tov tov tov 2£aTi>pov. Sed de industria Al-
cibiades hacc verba verbis com- pluribus interpositis seiunxit, ut
maiore vi afficiantur verba rovSe tov Scnvpov . Vide de hac
seiunctione verborum annotat, p. 59., p. 129. , al. Ceterum
imo praepositionem non sine vi re- petitam habes. Nam cnm ea
eius potestas sit, nt cum Ttd - $ovS notione plerumque
couiun- gatur, ideoque ipsa quasi colore imbuta sit notionis
illius: dupliciter posita haec praepositio non quidem 7td$oS duplex
ex- primit, sed ndSov ST vehementiam,- qualis descripta est p. 215*
E. noXv pot paXkov y td>v xo- pvfiavTicdyrcjv y re xapSia ny-
Sqi xal Sdxpva ixxeltat. aWa 5 & i pov ctxov- 6 at e. Vulgo
aAAa Sy legitur; praeterea codices nou pauci pov pro ipov exhibent.
Riickertns inde di pov edidit annotaus ad h. 1. Nobis, inquit,
nulla in pronomine vis esse visa est , propter quam codicum
lectionem mutaremus. Itaque Si pov dedimus : — Miror, Biickcrtum ita
iudicare potuisse. Etenim qnao hucusque narrata sunt ab Alcibiade, ea,
siquidem homini fi- des habenda est, et aliis acciderunt* Ea igitur satu
nota esse Alcibiades contendit, adeoqne ni- hil facere ad Socratis
indolem accurate cognoscendam, nt prae- i%H. tv yag la ts, ori
ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u' D dXXu tyco drjZadn , tjielxsQ vgaxs
yag, on ter Re neminem censeat ipsam cognitam perspectamque
habere. Quod igitur none Alcibiades probaturus est, id se
tautummodo expertum' docet atque se esse unum, ex quo audiri possit
vera Socraticae indolis atque naturae descriptio. Nihil igitur
certius est, quam ipov scribendum esse, non fiov. Et quoniam mala
mo- do commemorata etiam alii per- pessi sunt, haud dubiam est,
quin nova quaedam relaturus Al- cibiades dXXct dixerit, non aX.-
Xci ; ea autem mala, quoniam malis supra commemoratis oppo- nuntur
necessario, etiam di recte habet, non 8t}, Nobis quidem de
scripturae veritate aXXa 6k ipov y vel aXAct 8* ipov, quod Bekkerus
habet, ita persuasum est, ut etiamsi omnium codicum de- esset
auctoritas, verissimam censeremus. Sed adminiculo suo non eget scriptura illa.
Florentiui enim codices aliique libri pauci quidem sed non mulae
notae eam repraesentant. ev yap idxe. Qui ad ver- ha p.
208. C. xal r/, u>S7tep ol xeXeoi dotpidxcA , Ey tdSi , iqrrj
sophisticum orationis colorem, quem Plato verbis cu Sittp ol do-
<pidxctl indigitavit , in verbis ev id$i deprehensisse sibi visi
sunt, Wolfius, Astius, Schleiermache- rus , ii in verbis ev Idxe
nihil, quo Sophisticam artem odoratos esse coniicias, annotarunt.
Con- cedimus quidem, heri potuisse, ut sophistae 1 insto saepius
illa dicendi formula uterentur, sed non ideo sophista sit vel
sophi- sticam artem imitetur, qui hanc formulam exhibet in
oratione, praesertim cum id facit, ut fecit Diotima . semel,
d XXd iyta dyXcodco , $- neinep ij p&a prjv. Cum em-
phasi verba pronuntianda sunt dXXa iycj 8yXGD6co sc. oloS id nv
atque inprirais iyoS pronomen, quod ue exhibuisset quidem Plato, si in
praecedentibus scripsisset aXXa de pov axov- daxe , Ceterum supra
annotavimus ad verba p. 2 15. D. iycj yovv , co ctvdpeS , ei p>)
ipeX- Xov xopidy 8o£,eiv peSvetv, ei- Ttov opodaS d v vpiv olat
8?) jciitovScL X. T. A* , Alcibiadem noluisse primum, quid ipse
per- pessus sit atque adhuc patiatur Socrate auctore malorum,
enarrare, post consilium mutasse loquendi lubidine abreptum. Ea consilii
mutatio ne forte artiheiosior videatur atque minus ex humanae naturae
indole petita: omnium rerum difficillimum esse solet initium. Eo superato
gaudium cor subit, quia superareris atque ani- mus olterius
progrediendi. Post ne infectum relinquatur, iu quo aliquid operae
consumseris, totum opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima
memoria versuum e Goethii Fausto peti- torum , quos cnm Platonis
ver- bis iiteiitep ijpBtdprjv comparare possis : Das
Mogliche soli der Ent- schluss Beherzt sogleicb am
Schopfe fasseu Er will cs dann nicht fahren lasse
n Und wirket w ei ter, tveil er must. HaxQatyjs (gauxtog
diaxtirai rav xctXi 5v xai «eI x&ql rovrovg EOzl xai butiickipam. ,
xai av ayvotl mxUz a xai i/jmrixojf Sidxeirat roov xa\djv.
Annotat Rucker- tos ad h. 1.: Genitivus tgdv xa- \65v pendet ex
ipooTtxdjS e more Graecorum vocibus derivatis eundent casum addendi ,
quem ver- bum secum habet . Eodem modo de hoc structurae genere
Mat- thiaeus disseruit Gramm. ampl. 540- p. 648. Possis
etiam ita tibi rem explicare, ut ipeo- xixvS SidxEttiSai unam
notio- nem if^xv verbi efficere censeas atque eius structuram
assumere. Ceterum nemo non videt, ipeo- TixcoS StaxEitiSai multo
gra- viore significatu esse, quam ipav verbum. Apprime enim
Latinorum perdite amare respondet, qua formula dicendi inprimis
comici Latini usi sunt. Mirari autem licet Graecae illius et huius
formulae diversitatem. Nam quod Latini adverbio, Graeci verbo
expresse- runt, quod Graecis adverbio, La- tinis verbo indicatum
est, xai av ayvoel itavxa xai ovdhv o 16 e v , coS 1 6
uXVM a a vx o v. Vulgo haec verba ita edebantur, ut nulla post avrov
interpunctione po- sita verba r 6 6xi)f*ct avrov ad
subsequentia traherentur. Qui- buscum ut aliquo modo conve- nirent,
H. Stephaniis scribendum coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov ov
deiXffYGoSeS, Haec scriptura Fischero probata est et Bastio et
Wolfio; recentioribus interpretibus merito ea displicuit» Longum est,
omnes ingenii coniectnras repetere, quibus hunc locum docti viri
sollicitaruut. Stallbaumius omnes loci difficul- tates sublatas
putat recepta, quam Bekkerus et Schleiermache rus post avrov
posuerunt, interpunctione. Videlicet, vir doctissimus ait, csf xo
<$XVl l0C carro v significat; quemadmodum eius forma et habitus
est h. e, queoadmodum ipsa eius forma et habitus prodit. Eadem
Riickerti sententia est, quae cur nobis non placeat, paullo infra
dicetur. Priusquam enim singula verba adeamus , totius loci sententia
paullo accuratius examinanda est. Omnis Alcibiadis oratio in duas partes
dividitur: altera res continet convivis satis notas, sed quae ad
cognoscendum Socratis ingenium haud mul- tum faciunt, in altera
commemorantor, quae ex Alcibiade so- lum audiri possunt fefr. p.
216. C. «?AA a 81 ipov axovdars) e® quibus solis ad Socratici
inge- nii indolem cognoscendam audi- tores ducuntur. Ac de
poste- riore illa orationis parte infra dicetur ; prioris initium
verba sunt opaxe yap. Quae verba praecedentibus opponuntur ;
tv yap fdtE, oxt ov8e\s vpdov rov- x ov y ty y ai 6x Et. Tangi
igi- tur videtur opdxE verbo incogi- tantia convivarum, qui,
quod oculis cernant, id credant, cum non debuissent credere,
contra quod debuissent, nou videaut. Iam ad particula, quae in
ver- bis repentur xai av ayvoEiy indicatur et haec et subsequen-
tia verba eadem conditione, quam praecedentia, poni, ut expletior
oratio audiat: xai o par e , oxt ayvoE i x. r. A. de qua vi av
particulae vide annotat. Nura cum hac orationis confm- (XvSlv ocdsv , log
to (>XW a ocvtov. tovto ov Gcifoivcj* 6sg; Gqjodga ye. tovto yag ovrog
negLpapAyTcxi, cogiteg 6 tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev 6s
avorfitig n otiijg , ofetfte , ysuti , iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu ,
aacpgodi J- mationc satis convenire censes verba cjS to <SXVl ia
clvtov , quemadmodum ipsa eius forma et habitas prodit? Sed
hoc ut mittam , turpi vultu protervoque Socratem fuisse acci- pimus
, fatuo a nemine scriptore traditum est. Neque cura turpi- tudine
atque protervitate vultus fatuitatem coniunctam esse necesse est. Recte
autem inspectis Platonicis locis , ubi inscientium Socrates et vero
etiam fatuitatem quandam animi ostendit ( cfr. annotat, p. 290.)»
doceberis, ver- bis atque libera rei confessione, non forma et habitu
vultus cor- porisque id fieri. Nemo igitur oculis cernere potnit ,
sed auri- bus tactum percipere inscitiam Socratis, ut male xal av
(opd- Tf)gd$ to 6XVM a ccvtov verba coniungi censeas. Verba
autem ayvoei TCavia xal ovSev oldev etsi aliquo modo defendi
possunt, tameu habere, quod of- fendat, prudeus lector intelliget*
Deleta autem litterula una et tautologia nobis quidem ingra-
tissima removetur, et commodiore sensu coS To 6xtyM a ocvtov verba
afficiuntur. 'Scribendum nimirum esse censeo : xal av ayvoei
navTa xal ovSh oldev , cJs" to ( 5XVM a ocvtov. Iam sensus
est totius loci: Oculis vestris videte (atque
credite), Socratem iuvenes pu1cros perdite amare semperque iis se
adiungere eorumque summa admiratione teneri, et rursas omuia
nescire, ac ne scire quidem, qui ipsi sit habitus externus h, e. ne
curare quidem corporis cultum et vestitum. Olim coS to 6XW& avrov
convertendum censebam: wie cr sich das Ansehen^giebt, quae
conversio optime conveniret cum opdre verbo. Sed Alcibiades hoc
loco narraturus, qqge in Socrate oculis cernantur, cum pulcrorum iuvenum
studium comme- morasset, quod revera simulabat Socrates, et
inscitiam, quam interdum vel gloriabatur, incuriam corporis, quapi
immunditiem vocare possis, nullo modo silentio transire potuit. Satis
notum enim fuit, Socratem raro lavasse, rarius capillos compsisse
atque omniuo ceteram corporis curam adeo neglexisse, ut v. c.
Aristodemus cum lotum conspexisset atque calceatum Socratem,
insolentiam rei meratus ex eo quaereret: quonam iret ovteo xaXoS
ye- yevrj pivoS . Vide Sympos. p. 174. A. Ceterum dxt/poc vocabulum
de cultu corporis atquo de vestitu significando Graecis in usu
fuisse, satis docere pos- sunt Plauti verba Amphitr. Prol. V*
116.: Nunc ne hunc ornatum vos xneum admiremiui Quod ego huc
processi sic cum servili djjqpa Veterem atque antiquam rem
novam ad vos perferam: Propterea ornatus in novum in- cessi modum.
v>;g; iGxe , oxi ovx’ , tl rtg xaAos loxi, jitXti avxaJ ovSev, kU.u
xatacpgovtZ xoOovxov , o6ov ovd’ av tlg olrj&tit], e ovx’ tl xi s
irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd xijirjv iyav xuv vito itkrfiovg
jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa Sequentia verba rovto ov
(Sei- Xtjvc38eS ambigua potestate di- cuntur, ut iis ad alteram
partem orationis paratum aditum habeas, qua verum de Socratis
ingenio iudicium continetur. ^SsiXrfVco- 8eS enim de externa figura
ita dicitur, ut Socratis vultum indicet similem fuisse Silenis; et
ad cetera, quae praecedunt, verba tractum Socratem similem
Silo— norum perhibeat. Iam iudicare possis de verbis (Sqpodpa ye,
quibus titramque 6ei\ijvaoe5 voca- buli relationem Alcibiades sibi
probari indicat. Sed alteram tantummodo verbis sequentibus exprimit
hoc agens, opinor, ut subita novae rei commemoratione, ud quam rem
audiendam animi convivarum minime parati essent, acutissimi iudicii
admirationem et gloriam certius atque celerius assequeretur.
rovto ydp — 7tepifl&- pXijrat, rdp particula du- plici
relatione hoc loco posita est , ut et ad rovto GeiXtjvg)- 8eS
pertineat et, ad notaudum convivarum errorem, qui Socratem talem esse
putaverint, qualem oculis viderint, ad verba referatur p. 216. C. ev yap
fore, Zri ov8elS v/uav rovtov yi- yvojtixeu Sensus est:
Namque miram hanc Silenorumque protervitati atque im-
munditiei consimilem for- mam ille induit Sileno- rum instar, in
artificum officinis sedentium, qui intus reconditas statuas
deorum pelle x sua conte- gunt. 7to6rj^ f oVe6$e t
ye/tei. Haud raro mediis interrogationibus verborum interponuntur
secundae personae singularis atque pluralis numeri, quibus provocantur,
qui rogantor, ut ipsi uua rem interrogatam iudicent, atque quid ipsis
videatur, aperiant. Hic dicendi usus Graecis haud infrequens, neqae
a nostratium more alienus est. Duo autem snnt, quae verbis hoc modo
interpositis efficiuntur: gravitas au- getur interrogatae rei, et alacritas
interrogationis amplificatur. Compluria huius structurae ex- empla apud
Graecos scriptores Stallbaumius attulit ad h. 1., Ruckertus ad
Piat. Symp. p. 202. B. d A. A a nat aqxpovEi oX. r. A.
Haec proYsus conve- niant cum Diotiinae praecepto laudato a Socrate
p. 210. B. &vo? ro CcpoSpa rovto^ar- Xdtjoti xauxppuvijdavra
xa\ tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quae insequuntur verba ovd av tiS
scribae alicuius imperitia in ot;- dfl? dv mutata sunt, quam
lectio- nem unus exhibet codex Bek- keri. Alibi notavimus ovSs tls
significare prorsus nomo, de quo significatu sub v. ou6£ ei?. Haec verba etiam ibi
exhibere amant scripto- res, ubi allectatam orationis gra- vitatem
rejvacsenUut. Possis ea 23 ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t«
xal qpag ovdlv tlvat, tlgavEvi^uvog Se xal icai^av nonna w filov itQog
tovg av&ganovg duratei. tSxovSaOavzog de avzov xal avo i-
Z&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e tu ivzog dyalfiaza' a te' lyto
ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza titia xal SI 7 jjpvtfa
«&>» xal ndyxala xal tiavfiudza , Sgzt nouy h. 1.
convertere: nemo gen- tium. Verba convertit Stall- baumius:
quantopere nemo quis quam crediderit. xal i/fiaS ovSlr
elvat, Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS scribendum censuit XlpaS.
Non recte t neque placet verborum conversio Stallbaumiana :
atque nos, qui talia appetamus» nullo in numero haben- dos
censet. Verba convertenda sunt potius : atque nos, qui talia
possideamus, flocci pendit. Loquitur enim Alcibiades , homo ditissimos
atque o- xnoium rerum honore, quas mul- titudo admiratur, abundans.
Qui cum se contemtum a Socrate vidisset (cfr. p. 219. A.
seqq.), insuetae rei experientia motus verba proTert xal rjpaS
ovSkv elvat. Sed ne ingenuitatem Al-, cibiadis forte non agnoscas,
ani- mique nobilitatem, TjpaS ovdlv tlvcn verborum magis etiam,
quam nos fecimus supra , lenienda est interpretatione asperitas.
Signi- ficare igitur contendimus: omnes, qui talia possideamus iisque
gloriemur, floc- ci pendit. tlpovevopevoS Si xal 7t
algor, cfr. Cic. de Orat. 2. Urbana etiam dissimulatio est, cum
aliter sentias ac loquaris. In hoc genere Fannius in annalibus suis hunc
Aemiliaoum fuisse et cum Graeco verbo appel- lat eYpojya , sed uti
ferunt, qui melius haec norunt, Socratem opinor in hac tlpoveia
dissi- mulautiaque longe lepore et hu- manitate omnibus
praestitisse. Adde Cic. de off, I. c. SO : de Grae- cis autem
dulcem et facetum fe- stivique sermonis atque io omni oratione
simulatorem, quem rf- poora Graeci nominaverunt, Socratem accepimus, v
ta £vt of dyaXpata. Respicit Alcibiades ad Silenos in
artificum officinis sedentes, quos idem dixit p. 215. B. 8tj (aSe
8totx$ivraS ostendere ayaXpa- xa J&ecav. Hinc explicatur fa-
cillime, qui fiat, ut cum drtov- Sctuai verbo avoix$yvai verbum
coniungatur. Sileni eaim cum aperiuntur, fraus detecta est
Silenique nihil nisi capsulae esse reperiuntur rerum divinarum.
Recte Ruhnkenitis ad. Timaei L. V. Pl. ayaXpa proprie dici mo- net
quodeunque grata sui specie oculos delectet. Recte igitur
Stallbanmins anno- tat : ra ivtoS ay aXfiat a intelligi species
illas vir- tutis in animo Socratis conspicuas. Praeter alios,
qui Platonis locum imitati siut, scriptores, idem Ciceronem laudat Legg.
I. 22. Qui se ipse norit, aliquid se sentiet habere divinum
mgenium- xiov elvai Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS-
yyov[itvos de avrov ionovSaxivai iit l r y Ifiy aga Sgficuov yyy-
adfnjv tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov &avfiaUTov, cjg vxdg- %ov [tot
%ttQiaa[iiv<j Etoxgdrct nave’ ccxovGai, oGa- n cg ovrog fjdct.
itpgovovv yccg drj ini ty i aga &av- (idoiov ocJoi/. zavxa ovv
diavoy&als, ngo tov ovx que i n N s e sunm sicut si-
mulacrum aliquod dedi- catum putabit. nai jioi ido£ev. In
aliquot codicibus pro pol legitur Ipoi, quod Bekkerus in ordinem
ver- borum recepit* Iniuria , ut vi- detur. Ey g> pronomen in
prae- cedeutibus verbis necessaria de caussa positum esse,
videlicet ut aliis, qui forte dyaXpaxat io Socrate latentia
spectaverint, Al- cibiades se opponeret, extra du- bitationem
positum est. Sed ideo non necessarium est , ut et in sequentibus
verbis pari gravitate pronomen exornetur. Plane alio verbo accentus
orationis ponen- dus est , quem si tenaciter in pronomine posueris
atque ipoi scripseris, vide, ne sensus effi- ciatur ab huius loci
natura alie- nissimus. Diceret enim Alcibia- des holi ipoi
i6o&£Y non alio sensu, ac si opinaretur, esse posse illorum
dyaXpdxoov spectatores, quibus ea non divina, aurea, pulcherrima et summa
admiratione digna videantur. <2sta itoirjr kov — o
tt xaXevoi 2ajxpdtrjS h. e., ut illico Socrati me eman-
cipatum censerem, neque quid ego, sed quid ille vellet, faciendum
puta- rem. Pro xehevot vulgo xe- tevst legitur. Illud ex
optimis codicibus recentiorum editorum consensa receptam est.
Zppaior fiyrjtfd prjv el- V au De Zppdtov vocis signi- ficatu vide
annotat. p. 88. Ce- terum Schol. Bodl. , quem Kuk- kertus laudat,
haec habet : ip- paiov ru dnposdowfxor nipdoS ano xcov ir xalS oSoi
X anap- X&r t aS ol odoinopot xare- 65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS
odols ZSoS ijv ISpvoSai tov * Eppijv , itap o xa\ ivodioS
\iyexai. Quod sequentia attinet noti evrv - Xrjpct ipov SavpadTov,
ud haec verba Riickertas, Duplicem , in- quit, video pronominis
expli- candi rationem y vel ut in ipov vim inesse dicas , quod
Alcibiades sibi hoc, non aliis contigisse gaudeat j Socratis ut amorem
ex- citaret: eximiam meam fortunam; vel ut pronomen possessivum pro
dativo usurpatum interpreteris : eximia mihi hoc fortuna contigisse .
Qua- rum utram praeferam , nescio. Neutra nobis placet.
EvTV£ipACt ipov eodem modo dictum est, quo nos dicere solemus:
meiu gutes Gluck. v itppov ovr yap St/. Pro
Sij vulgo r/drj legebatur. Illud fiekkero debetur, qui id ex optimis
codicibus restituit. De ironica 6rj particulae potestate vide Indices sub
v. 6i/. Rem quod attinet, iuprimis conferendus est locus Piat.
Alcib. 1, p. 104. A. xa yap vndpxovxd tSoi peyaAxt 23
* EiaQcog ccvtv axol.ovftov fiovog fisz’ avtov ylyvEG&ai, tote
dzozk^zav tov axbkovftov fibvog (SwEytyvof tyv. B Ssi yap zgog vpag
zuma r afai&ij eItcelv. alia ZQog- e%ete tov vovv' neti tl
ipEvSofiai, ZwxQccTEg , l£tisy%s- CWEyLyvo^rjv yap, avdgtg, pbvog povco ,
xal (pjirjV avTLxet diakli;E<f&at, avtov poi, cczeq dv Igatityg
zai- ducolg iv igrjpla diaXz%%Elri , xcd tyaiQOV. tovtov 6’ oi3
pdl.cc lylyvETo ovdiv , alti uszeq zlvjftzi , Scate- ri vai ,
gq$T£ jiijSevoS SettiSaif ano tov dcopazos dp&apsva xs-
Aevtgovtci eis xrjv iftvxrfy ' olei ydp 8 i/ elvat npootov per xaX-
kitixoS te xal pkyi6xoi* xal xovxo fic v 8 ?} navxl drjXov iSalv,
uxi ov ipevSy. 07 *x eImSgoS dv ev cixo- XovSov povos per*
aw- xov y. Haec verba ne falso in- terpreteris) Alcibiudemqae
forte statuas solum Socratem ita convenisse, nt semper tertius adesset:
Athenienses ditiores domo non exibant, quin servam sccum ducerent,
qui, si quid opus esset in via, id curaret. Hinc factum est, ut
Alcibiades quoque tum ad alios, tum ad Socratem nunquam solus
accederet , sed semper pedisseqnunt una adduceret. ansp.dv —
SiaXsxS Opinabatur Alcibiades , Socratem talia sibi dicturum esse,
qualia soleat , ubi solus sit cum amasio, umator dicere, atque
vehe- menter gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis p,
217. A. 6 j? vndpxov poi x<*pi- tiapkvco 2coxpdz£i it dive axov
- dat, udanep ovxoS y8et. Sole- bant enim amasii amatoribus gratificaturi
obsequii praemia sibi expetere, neque se dare, nisi, quicqnid
expetiexint, consecuti t essent. Cfr. Piat. Menon, p.
76. B. , ubi haec leguntur: M. aXX f insi8dv uot <Sv
tovt 9 tinyS, oo 2rixpa- teS , ipdS 6oi. 2. xdv
xaxaxExaXvppkvoS nS yvotr/, oJ Mevgjv, StaXeyo - pkvov 6ov , oti
xaXoS ei, xal ipadxal 6oi hi eldiv . M. tl 8?} ; 2. oti
ovdlv aXX* rj inirar- teiS iv roiS XoyoiS' unsp noiovdiv ol t
pv<p<5vTES, UTE tvpavvEvuviES , ccdS dv iv g opa
&)6iv. aXX* c SfnEp eIgjSei, 8ia- \£X$£ } iS [av] poi —
ctm- c ov. Annotat Stallbaumins ad h. 1. : Pertinet, inquit, dv
particula ad universam sententiam ideoque connectenda est cora
verbo prin- cipe enuntiati coxeto , ita ut in- dicet actionem
saepius repetitam: solebat identidem disce- dere, de quo loquendi
genere optime disseruit Rostius Gramm. 120. 5. c. p. 460.
Itaque non est quod cum Astio corrigamus arra poi , aut cum
uno cod. Yiudob. dv deleamus. — Perscripsi integram viri do-
ctissimi annotationem studioseque legendam Symposii lectori- bus
commendo. Nobis quid do sr. 35? jrfolg [ av ]
fwi 6vvt]{iiQtv<Sag (yycro (\xiav. (itra ruvra GvyyvfivafcGdcu
trgovxaj.ov/ujv avzov xai G wt- c yi>y,va£6[t>]v , Sg x t
ivrav&a mouvcov. Gvvcyv(ivatcro ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis
ovSsvog nuQovzog. xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/
dh ovSccfiij ravTij tjvvtov , ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei
ctr6pt xaza ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ iy/.iyiiQr[xr}, akka
iaziov IjSt] , ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quaeris,
hoc est: Contra Alcibiadis vo- luntatem contendimus esse istud :
solebat identidem disce- dere, quem haud verisimile est, cum, quod
speraret, saepius non evenisset , quoties cura Socrate
congrederetur, toties exspectasse avtixa SiaXeZedSai avrov x. t. A.
Etenim quem saepius spes frustrata est , is sensim sensimque ei diffidere
solet atque lae- tissimam , quam antea habuit, exspectationem ex
animo removere. Igitur si saepius rem il- lam factam accipias, vereor,
ut etiam xai ixaipov verba satis bene habeant. Verborum ordi-
nem quod attinet, dv particulam eo loco positum habes, quo mi- nime
exspectaveris, Iam cum necessarium non sit, ut res ab Al- cibiade narrata
saepius facta esse cogitetur, eius autem repetitio cum singulis ALCEBIADE
verbis no conveniat quidem satis, nihil ve- riti codicum
auctoritatem, quos in falsissimis interdum consen- tire vidimus, av
particulam un- cinis includendam curavimus. tivyyvfivacledS
at itpo v- HaXov pijv avrov . Vide quae annotavimus ad verba
xai 7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’. Rem quod attinet,
semel fastam esse contendimus. Nam quod paullo infra legitnr
TtpoZfitu.- A ais ito7(\axiS ovdevoS napov- roS , ita intelligendum
est, ut, dum GYMNASTICA cxerceicnt So- crates atque Alcibiades,
saepius non aff uisse docearis, qui una se exercerent aut luctantes
specta- rent. xai ti deiXiyBiv, IJac formula dicendi
uti solent, qui sunt animo commotiore, remque sibi injucundissimam
quam fieri potest paucissimis verbis enarrare cupiunt. Accentus
autem orationis in Xkysiv verbo po- nendus est, quod praegnanti
si- gnificatu positum idem fere de- notat atque doXtxov xataxtl
- VBiv tdv A oyov. Quae sequun- tur verba ovdlv yap poi : nXiov
rjy , recte Stallbaumius interpre- tatur: nihil enim pro ficicbam.
xa\ ovx — iit e tSijit e p lyx£X&ipVxy. Haec prorsus
conveniunt cum verbis supra le- ctis p. 216 0 aAXa iym 6y- XadcJ,
izeinep i/pbdptjr, ad quae verba vide auuotut. p. S50. aXXd
idt iov IjSrj ti idti to itpayya. Solent haud raro Graeci
scriptores commemorato eo , quod faciendum sit, addito- que, quod
non faciendum sit, 358 nAATSINOS
xcriLovfiai Stj ccvtov ftQog zo GvvSukvhv , dzc^yag tog- itCQ ipadzrjg
itaidixoig ImflovtevQV. xat fioi ovSe D zovzo za%v vnfjxovGtv , ofiag S ’
ovv %Qova indaftrj. ixudrj da atplxtzo to xquzov , Semv/jGag andvai
Ifiavltzo. xal tote fiav ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov. av&ig da
ijctflovAtvGctg , httiSt] idcdiixvyxu , SisXsyo- fitjv 7 to(i$o) ztZv
vvxzav , xcii IzEiStj tfiovhEzo ajrta- quasi , quid faciendum sit
, non commemoraverint, id verbis paul- lisper immutatis atque aXXa
par- ticula adhibita oppositionis augendae gratia repetere. Idem
igitur significant verba £8o£ii pot iniSexkoy elvai rw avdpl xat a
to xapzepoy et IdxkoY i)8tj t L idn to itpaypa, Exemplum est huius
structurae p. 210. O. pexa Sk toL imrrfdsvpocxa hei xaS iiet6xt}paS
ayayeiv , %ya i6y ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai fiXkncov itpos txoXv
i/Stj to xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory — d A A.* liti to
txoXtj itkXayoS xexpap- pkvoS x. T, X . Wyttenbachius Bibi. Crit.
V. I. P. I.p. 50. scribendum coniccit aXX Itiov hti to itpaypa,
quafc scri- ptura eo nomine nobis improba- tur, quod cuiu
praecedentibus verbis, quibuscum convenire de- bet, poi iitiSerkoy
eirat rcJ dvdpl xaxa rd xaprepov , multo minus, quam aXXa
IdxkoY t/St}, tI idn to itpdypa f conso- ciutur. Idtkoy verbum quod
at- tinet, ub Idtiv derivatum esseceo- seut iulcrpretes , ut seusus
sit; videndum est, exploran- dum est. Vide Butttnuiini
Grarnm. ampl. T. II. p. 116* Nobis «b tidkycn semper deri- vandum
cs»e videtur, neque tamen sciendum e * t recte converti. sed
faciendum est, nt sciam. Vide annotat, p. 207«, p. 169. al. vSitep
ipadxijS 7 t aid txojs kitiPovXevcov. cfr. p. 213. C. xal xov
2co- xpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai , opa, et pot InapwiiS' ce? ipdl
o TOVT0V ipcoS xov av^pooitov ov (pavXoy Ttpaypct ykyover x.
T. X. t quae verba nostris expii- cautur. Xpoyco , quod sequitur
est: multo tempore prae- terlapso. rd TTpdoxov,
dsinvifdaS. Olim posita ante T o TtpdxTOY di- stinctione haec verba
cum se- quentibus iungebantur . Quod ita recte fieret , si semel
venisset Socrates atque tum initio quidem abire post coenam
voluisset , post- ea vero a proposito destitisset . Quum autem tum
revera disces- serit , fuit utique ita distinguen- dum, ut Jactum
est inde a Bek- kero, llitckert. It 6 (i f> 00 TQOV Y v X
T 00 V h. C. in multum usque noctem* cfr. Piat. Protag. p. 310. C.
xai Ixi per iyextlprjda evSvS napd dh levat, 'intixd poi Xiav
nop- facd £8o£e zdoy vvxxuv elvai, ad quem locum Stallbuumius
lau- dat p, ed. 24.1 Aeschinem adv. Ctcsiph. $. 122. for} 6h
7tO{5()u rijS r)pkpa$ ovdrjS* Ceterum ne vcu, <Sxt]m6(iEvos , ou
otiis tirj, XQOSTjv&yxaGa avtov fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj
ixo/iivy ijiov xMvy , iv yitfQ IStinvu , xai ovSslg iv ta olxrjfiau
tiklog xa9- tjijSsv rj ijfis ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E
xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv Xtytiv tb 8 ’ iv- ttv&ev ovx av
nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov ( iiv , tb Xsyofievov , otvog avsv
ts acudcov xai fisxa pluralem numerum mireris, vv- hteS non
noctes sunt, sed horae nocturnae, de quo significatu vvxxeS yocis
vide Stullbaumii annotat, ad Piat. Phileb. p. 158. Quod sequitur
xai inEtdi) ifiov- Xexo dnikvat, eodem modo, ut praecedens amkvai
ifiovkEto non convertendum est: abire vo- lebat, sed velle se
abire dixit. Vide annotat, p. 169. et p. 207. , * t
dxrjnx optv of , ori eXrj. Timaeus habet L. V. Pl.
^MjittOfiEvoS. npoq>adi^6pevoS. Kecte. Etenim qui ipse non habet
in se, quo aliquid probet aut ex- cuset , eum niti oportet in re
extrinsecus petita , h. e, npo- tpadet rivi- iv ty lx» /tcvy
l)iOv xXivjf. De horum verboram significata supra dictum est
an- notatione p. 838. ct 334. Prae- ter locos illic commemoratos
con- fer etiam R. Kubnerum ad CICERONE, TUSC. DISP., ubi laudantur Pind.
Olymp. I. init. prjd' 'OXvpniaS aya- ya (pkpxepov avdddopev
ibique Boeckhii annotat, p. 104. , Cic. T. D. I. 1. $. 2. : quae
tam ex- cellens in omni genere virtus In ullis fuit, ut sit cum
maiori- bus nostris comparanda ? xaXtiS aif A kyetv. Scriptum
exspecta- veris primo obtutu naXdjS av Hx<n ojSte npoS
ovuvovv Ac- xxkov elvai, Kai pro gjSxb po- sito vario modo verba
explicari possunt. Facillima explicandi ra- tio videtur ea , qua
post xai , Eivat verbi optativus subintelli- gitur. Optativum autem
sty recte omitti posse contendimus tura, quum antecedit, ut hoc
loco, alius verbi optativus modus , ex quo ille facillime eruitur.
Explica- tius igitur enarrata verba au- dinnt: pkxpt pev ovv 8r)
Ssvpo tov Xuyov xaXdtS dv %x ot C° iX eyov) xai eltj npoS
ovxtvovv Xkyeiv . itp&xov filv, — olvoi avev x £
naid&v xai pexa ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus proverbium :
olvoS xai aXjfSeia, ad quod hic respicit Alcibiades, Cfr. Athenaeus
II. p. 37. E, $i\6xopo$ 8k tprjdLV, oxi ol ni- yovxeS ov pdvov
havxovS kpipa- vlB,ov6tv ol xivkS eldiv , aXXa xai xgjv dXXoav
txadxov dva- xaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayov- xes. oSev Oivof xai
d\?}$eia Xkyexai . Idem II. p. 38. B. Anr tiphanis versus laudat
hos: Kpvtyai, $eidia, anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,
nX?}v Svoiv olvov xe nivoav eis ipoora t*
kpitEdQJV. 1 itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V
l<Sai ZaxQutovs %ov vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot
tpalvezui. apcporspa fiTjvvEi ydp dito tc2v (3\EUpd.TGDV
7ca\ to5v A oyaov rav$\ g)$te tovs dpvovpivovS fia\l($TGL
roVTOVS XatCKpaVEiS avrovs iroieiv . Schoh praeter notissimum oivo
S Tioci aXrjSsia, quod dici ait £n\ t<uy iv fteSj/ x t}v
ciXt/Seiav Ac- yovrcov, alterum proverbium lau- dat : ro £v ry
xapSine rov v?j- q>ovroS ini ry yXd>66y rov pt- &VOYTOS,
Illud proverbium nostro loco ita laudatur, ut verba addita sint dvtv re
naldcov xal pexa Ttotidooy , quod additamen- tum vera crux fuit
interpretum omnium, Ficinus habet: Vinum «t cum pueritia et sine
pueritia est veridicum. In conversione Schleiermacheri legitur : Bis
hier- her nnn kdnnte man die Sacho noch unbedeiiklich iedermann
er- sahlen ; das folgeude aber wiir— det ihr wohl nicht von
mir Jioren, tvcnn nicht zuerst nach dem Spriichwort der Wein
mit o d e r ohoe Kinder die Wahrheit redete. Prorsus eo- dem modo
Schulthessius verba reddidit hoc tantum a Schleier- tnacheri
discrepans conversione, quod naidoov nomen Knaben convertit.
Stallbauniius verbo- rum sensura esse ait: vinum efficit, ut verum
dicatur, sive PUERI epuli s intersint, sive noa intersint; h. e,
virium non pueros tan- tum, sed alios omnes n d verum proloquendum
s u- C1 tnt. Aliter nobis videtur de limus loci explicatione
statueu- dum'esse. Accurate tenendum quae hio narret
Alcibiades, ea ita proferri f ut errores exponantur auditoribus, in quos
ille olim inciderit, et quibus prae- senti tempore non amplius
ob- noxius sit; Colligitur hoc cum ex «diis locis, tum e verbis
p, 217. A. yyovpevoS 8'e av rov £<jnov8axivai fnl ry £py
d/pa Bppaiov ?}yrj6dp?/v elvat x. r. A. fieri autem solet haud
raro, ut aliquis, quem dirus error olim vexabat, ubi ab eo
'liberatum se sentit, ipse in errorem illum quo- dammodo illudat.
Neque pugnat hoc cum aestimatione ea, quam, qui nunc vivant,
significantius quam rectius, egoismum vocant. Nam qui erravit,
errorem autem agnovit atque correxit, is magna cura hilaritate animi
alium, atque fuerit antea, se nunc esse intelligit. In errorem igitar illudens
aliquis, cui olim obnoxius fuit, non tara in se illudit, quippe ab
errore liberato, quam alteri illi, qni errore devinctus fuerit
atque qaasi ob- caecatus. Non mireris igitur, Alcibiadem ipsum sibi
illudentem induci verbis p. 217. A. Itppo- voyv yap 8 rj ini ry
copae 5av- padtov u6ov y neque mirum, eundem etiam verbis olvoS av
ev re 7t ai 8 cov x al pera itai - 8 cjv tjv uXrjSpS gravius in
se invehere. Respicit enim ad er- rorem illum Alcibiades, quo
ex- istimabat, fore, ut servo remisso, quem secum habere solebat,
So- crates opportunitate loci gavisus ad AMATORUM modum secum
col- loqueretur. cfr. p. 217. A. ravra ovv SiavojjSets, xpd rov
ovx eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos pet avrov yiyvEdSai ,
tore unant pnw %av dxoXovSov po- ht bl to rov 8q%&tvtog vito
rov cos sea9og v&\£i t%u. (patii yaQ itov rcvcc rovzo itu&ovza
vix iftiktw voS Cweyiyv6f.n]v. — tivveyi- yvoprjv yap , —
jiovoS juovWfXal difirpr avxlxa StaAl^euSai av- xov ficn aizEp ctv
ipatinjt nai- dixoiS iv iprjpia diaXexSeirj, nat Hxaipov. Ad hanc
igitur rem respicieus, cumque errorem tatis lepide taugeus,
Nunquam, inquit, hoc ex mc audituri essetis (j&v — vxovtiart)
si proverbio illo vinum, quod neque praesentiam neque
absentiam servorum curat, non esset veridicam. litEixa a<p av
l6ui — epalv erat. Cum praecedat eI pi} Trpwzov pev — r\v ,
scriptum exspectaveris btElxa — aStxov /tot itpaivero. Cavendum est
autem, ue quis loquentis scribentisvc uegligentiae imputet, quod augendi
sententiae yigoris caussa commissum est, ut incepta verborum
structura re- linqueretur. IlpGJTov plv — iVrcz- xcl hoc loco Lat.
vim habet: c u m — tum potissimum, istud potissimum autem
mutatione structurae efficitur. Ceterum dtpavidai verbum minus
«apte 8ch)eiermacheras reddidit: ver- bergen, neque rectius
Scholt- hessius: verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti
verbo expressurus erat. Facinus illud nemini nisi Alcibiadi atque
So- crati notum, neque verisimile erat, Socratem quidem cuiqnnm eius
narrationem facturum esse. Intolligit igituf Alcibiades, rei memoriam prorsus
perituram esse, nisi ipse eam divulget. Iam dcpavtunn verbum quid
significet, inteliiges. Est enim , quod nos dicimus, etwas der Kenntniss
der Welt giiuzlich s entziehen. Ad V7CEprj(potvov Uuckcrtus ;
vnepij- <pctvov , inquit, voci h* 1. grata quaedam ambiguitas
est ab ea- que persona , quam hic Alcibia- des agit, minime aliena.
Homo enim , qui sentiret quidem veri- tatis vim, quae ad morum
honestatem spectat, at uon agno- sceret, ne se cogeretur accusare,
nonne Socratis hoc facinus po- terat pro superbissimo habere? immo
debebat, qui tantam suam pulcritadinem tam foede contemaisset. Ne multis
hanc sen- tentiam perstringam, quae meo quidem iadicio falsissima
est, ct qua prorsus pervertitur scripto- ris consilium, verba
laudare suf- ficit p. 217. A. i<pp6vovy ydp tir) ini xjj
&poL Savjiddwv odov. iri 6'e r 6 rov drjxSir- XoS
x. x. A. Triplex caussa est, cur Alcibiades cum convivis
impertiendum censet, quibus modis Socrati sit insidiatus. Vini hausti vim
veridicam iu supe- rioribus commemoratam habes atque augendae Socraticae
laudis studium. Tertio loco viperae morsus commemoratur, quo ct
sd laborasse Alcibiades narrat. Nescimus quidem , quid facere soleant
atque loqui , quos Vipera momordit. Non dubium est au- tem, quin
Alcibiades eos iusuniu quadam corripi significet, qua circumacti et
agant et loquantur, quod sanis hominibus non possit non mirum
videri. Et qneniam ipsum se gravioris viperae morsu 218 Uyuv olov
r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig , wg f. tovois yva- Oofitvo Jg ze xal
OvyyvatSoutvois , el itixv izoXfia &quv rs xul Xiyuv vito rijs
odvvtje • ly® ovv Stdtjyu,tvos ts vito ttXyuvoziqov xcii ro aXyuvozczzov
wv av ttg Sij%9sli] — z rjv xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o zt Sei avzo
vvouaOta xXtjyels zs xal S>ix&tls vad zmv Iv (fiXoColaesuro indicat,
vehementiore in- sania se circumactum describit, qua fecerit atque
locutus sit, quod paullo infra exposituro ha- bes. Morbo igitur,
cui obnoxius fuerit, facta et dicta excusatum iri sperat convivis,
quippe qui eosdem illius morbi dolores per- pessi sint. Qui si non
perpessi essent, nunquam se commissurum fuisse, ut ipsis illorum narrationem
exponeret, iyoS ovv SeSijy pivoS" x. r. X. Stallbaumium
audi egregie de horum verborum structura disserentem : Anacoluthia,
inquit, prorsus egregia et rei ipsi accommodato, quippe quae
loquentia impetum animique commotionem , qua de illo dolore loqui- tur,
plane exprimat et veluti imagine aliqua repraesentet. vxo dXyetvor
ipov xal ro dXystror arov, Suspecta nobis est xai vocula, quae
quam- quam explicari potest, tamen, quod vehemeutissimae orationis
impe- tum paullo impeditiorem reddit, huic loco minus convenire
iudicamus. Amant autem veteres commotius loquendi genus edituri
copula addita nulla verba iuxta ponere, qualia sunt vno aXyei -
vozepov ro dXyeivozazoY. In- terposuit, si quid video, >caL, qui
desiderabat, quorsum praecedens re referret. Dicturus autem Al-
cibiades erat: iya o&v 6e6rfy- pevos re xal nenXtiyplroS
vno dXyeivozepov ro dXyeiYOtazov X. r. X.j sed mutata inter
lo- quendum voluntate xal nenXijy- pevoS vetba reticuit, atque
iis sequentibus exhibuit nXrjyeis re xal An fortasse rectio-
rem verborum juncturam censes esse : iyco ovv bedrjypevoS re
— xal — nXi/yeis re xal 8rjx$ets ? Non crfdo equidem, ideoque,
ut quid rectius esset, interpunctione rectiore legeutium oculis
indica- tum sit, post ovopadai comma ponendum curavimus,
* xi] y xapdiav y a p — - ovo patiat. Sensus est: Die Worte
des Socrates erregen ei- nen unerklarbaren , heftigen Schmcrz : man
weiss nicht, ob mati korperlich oder geistig oder wie sonst leidet:
gewiss ist nur das Geftihl der Verletzung und der Zerrissenheit,
o*l ^ovrat x. r. X.*Exov- rat verbum ne careret casu suo,
Rostius V. D. comma delendum censuit post dyptcozepov , idque post
aqwovS ponendum curavit. Quo facto vide, ne orav XdfiooY- tat
verba' admodum frigeant. Neque necessarium esse contendimus, ut Ex £( 5$
at verbum, ubi firmiter inhaerere signifi- cat, rem , cui inhaerere
aliquid dicitur, semper adiunctam ha- beat. Graeci eodem modo
at- que nos : Welcheschreck- (pia Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s
aygiditEgov , vlov Iwyjs (ii] acpvov s oxav Adfiavtcu, xal itoioiiai
i)gdv te xal Hyuv ortovv — xal ogcSv av QcdSgovs, ’Jya9covas,
’EQv£iud%ovg , JlavGavlas , 'jQiazodrjuov? te xal ’Aqi- u crocpuvag'
EaxQar rj fil avrov r t SeI xal Xiyuv, xal oooi aAAoi ; xavces yag
XEXOWavqxcnS xrjg qwloOocpov lichcr ais Nattern haften, w e
d n sie einmal orst an einem iugendlichen Her- z e n Anhalt
gefunden ha- be n . xaVApidxoqxxv aS. Vulgo
'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod. Bodl. habet, idque cum Gramma-
tici praecepto convenit in Bek- heri Anecdot. III. p. 1131^1 81 xal
xovxo yirudxEiy, Zti ol \ Axxixol iiti xd)V Eis 7/? , eis ovs i*oVr
cor x ?}v yEvixrjy , xal iic\ xqdv xcqjct x 6 E$oS 8ia x ov a
icoiovdi tfjr alxia- Tixrjv xooy nXrj^vyxixcoy , olor 6
Ar\yLOd^brt\S , x ov drjpod^i- vovS , xovS drjpiodSiyaS , o ’Aptdxo<pdvrfS
, xov *Apidxotpa - yot;? , xovS *Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus
eodem modo plurali numero poni cen- set Engelhardtus ad Piat.
Menes', p. ed. 204., quo nostrates haud raro de singulis viris
loquentes plurali numero utantur. Hoc recto quidem annotatum ,
sed inde nou iuteliigitur , qui fa- ctum sit , ut et Graeci et
no- strates singulorum hominum no- mina plurali numero
exhibeant. Neque tamen diu quaerenda est huius dicendi usus caussa.
Brevitatis enim studio ut Graeci, ita nos pro: indem ich Manuar
sehe, wie Agathon , Eryximachu» cet. dicimus omisso verbo, quod
plurali numero positum est, atque ipso illo uumero ad nomina propria
translato : indem Ich Aga- thone, cet., sehe, Scoxpdxrj 8%
avtovXiysiY. Ne mireris, cur So- cratem hic commemoret Alcibia-
des, nbi non nisi eorum mentio erat facienda , qui eodem modo atque
Alcibiades Socratici ser- monis aculeis laesi sunt : Alci- biades
hoc agit, ut ostendat, se nou nisi cum iis mala, quae perpessus sit,
impertire, qui ipsi iis obnoxii fuerint. Iam cum re- censeret
omnes, quos sibi socios putaret morbi illius , Socratem forte
conspiciens, quid istunc, inquit, commemorem, morbi auctorem? Ceterum
versus laudare iuvat petitos ex epigrammate Meleagri, quibus Diopysii
alicuius amator non nisi eos alloquitur, qui ipsi amoris flammam
sense- rint ; Meleagr. Epigr, XVIII, "WvXpOTtOtai
6vSEpCOXES , vdoi <p\oya x r/y cpik6%ai8a of3are, xov
mxpov yevda- . flEVOl flijLlXOS , Ipvxpoy vdcop yiipaif
ifryxpoy , xaxoS t ctpxi xccxEidrjS lx zioroS xy ‘MV aepl
xpaSiy . Quibas auditis omnes, qui non auiant, hominis
insaniam ride- bunt videlicet frigidam sibi circa praecordia
circumfundi iubentia. tijS <pi\o6oipov pavias XE xal
ftaxxdaS. Haec verba fiavlag te mu (iety.ydag' Sio ftdvtES uxov6e<S9e.
avy- yvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi xat roig vvv
Xeyo[tivoig. ot da olxircu , xcil il' r tg «AAos toti /ti-fiq- P.og te )
icti dyQoixog , avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv fatl&tif&t.
Cap. XXXIV. 'EheiSi] yaQ ovv , io kvSqeq, o ts kvyv og
C xei , xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi XQtjvai fit/div xomU.Eiv
noog avzov , akV tAao^aowg eixeiv d f wi praecedentibus
explicantur p. 218. A. nXrfyeis re xal fo/jfSeis' vito rav iv
<pi\o6o(pioL Xoycov, ol SI ohikx cli x. r. A. Cum in
superioribos dixisset Alcibia- des p. 217. E , vinum veridicum esse
sive servi narrationi inter- sint , sive non intersint, nunc rursum
servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi quidem audiant, Num forte sibi
contradicere censes hominem ebrium ? Non credo , # quamquam
contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit Alcibiadi quoque,
quod Ovidius ait: Nitimur in vetitum semper cu- pimusque
negata, atque ut magis pateat, vinum etiam servis praesentibus veridi-
cum esse, servos, quos tibi finge arrectis auribus adstitisse
cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad audiendnm alacriores reddit
atque paratiores. IIoc efficitur etiam eo, quod ad versum Orphicum
Alcibiades re- spexit : cpSeyZopai ols SifiiS fori • S vpotS
S* iitiSetiSt (tiftrj- Aoi, qua re animadversa quan- tam omvuiuin
ctuses luis .e ex- spectationem futurae narratio- nis
? yijSlv TtOtxiXXElY itpoS avtov. Vide annotat, p. 99.,
tibi de icoixiXoS nominis significatu dictum est. Possis itotxiX- A elv
li. 1, explicare : non ob- scure, quod Stallbaumio pro- bator, sed
ambigue loqui, quaudoquidem varii coloris oratio ita comparata est, ut
quem colorem habeat, nescias, et quou- iam huiusmodi oratio
comploret colores, qui cum significa- tionibus comparantur,
repraesen- tat, complures significationes ha- bere h. e. ambiguam
esse recte dixeris. Facile autem iotelligi potest, qui colorem cum
Significatione orationis veteres com- paraverint. Ad consuetudinem
enim respexerunt AMANTIUM, qui floribus arte consertis sibique invicem
missis exprimere solebant,' quod claris verbis indicar* me- tus
prohibuit aut pudor. Non obscure anlem floribus missis, sed
ambigue, quid vellent, ex- primebant, vel nihil omnino, ut videtur,
exprimebant, sed e mo- do atque ratione, qua, cui mise- runt, is
flores exciperet, missos- 'm
idoxn. xal UTtcrv xivyGag avzov. UtixQaz tg, xcc% tv- dn$ ; — Ov
drjza, ?; d’ os- — Olo&cc ovv a (101 6 tSo- Kica ; — Ti (laluSza ;
i'ipy. — £v ijiol doxus , >}v d’ iyto , ifiov igaOrris a^tog ytyovivai
(lovog , . xal (ioi (palvu oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd>
81 ovxaoi i/to' mxvv dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo
XaglfcO&ai xal tl' xi alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto y xav
(pllav xav Ifiav. ifiol (ilv yccg ovdtv lou, xge- D GjivxeQov xov a>s
oxi fiilx usxov ifis yivLo&ai, zovxov 8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0
vSivu xvquozcqov ilvui Gov. iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy
%uql£6[ie- qae interpretaretur , voluntatem eius explorare
solebant» xal einov xivf/das av- xov. De xiveiv verbi
sicnifi- cata vide annotat, p. 29. , ubi etiam hic locus laudatus
est. xi paXidx a ; Itpr/. Ma - Xtdxa interrogationi additum
ef- ficit, ut is, qui interroget, cu- riositatem prodat sciendi,
quid sit id, quod modo audive- rit , aut quo sensu dicatur, cfr.
riat, Menon, p. 80. D. 2. 7tcf vovpyoS e 1 , cS Mlvcjv t xal 6- X
iyov iZTjTtdxrjtiaS pe. M. xi pdXidxa , c3 2ooxpaxt5 ; xai
poi tpaivei oxvelv pvT/dSijv ai icpds pe. cfr* Alcibiad. I. init.
2. nai KXei - viovy olpaL <Se SavpaZeiv , oxi 7rp(Zxo's ipadx?js
dov yevope~ voG y xcjy aAAcov nexccvplvcDVy povoS ovx ctnaXXdxxopai
, xal oxi ol plv dXXot 8t o^Aot» iye- vovxo 6ot SiaXeyopevoi ,
iyaa xodovuov ixcov ov8l irpoZ~ einov. iy co 81
ovxcodl 7t:dvv avo?/ xov . Praeclare Stallbaumius ad h. I. : Quae
inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl &X 60 j ea de more
advvSixcoS adduntur. Quam loquendi rationem , quum nou te- nerent grammatici
, pro scripserunt , quod in vett. editt. migravit.
6v8iv Idxt xpedfl vxe- p ov . Mihi nihil antiquius est, proprie :
nihil, cui malim primi loci honorem concedere, quam huic. Vide
annotat, p. 128. xovxov 8’ olpal pot dvXXi/itxopa x. x. X.
Sensus est : neminem esse rcor, qui mihi integrae huius
reiadiutor te sit potior. In oinuibus fere codicibus pov legitur
pro poi , quod Stallbaumio unice probatur propter structuram
dvXXtxpfiavEiv verbi* Coniongitur enitn plerumque cum genitivo rei
atque cum dativo personae. Hiickertus dativum pronomidis cum elvai
verbo cohaerere censet. Dativus pronominis commodi potius, quem vocant, dativas
est, atque recte ad totum verborum complexum re- fertur. Apposite
Stallbaumius vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg , rj %agi^6pBvog
tovg tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag pdXcc tlgovtxmg
xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl {pile ’AXxifhadr] 9
xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9 E bixeq abj&ij tvy%avsc qvxcl a
A iysig xegi epov, xal t ig i(tv* iv ipol dvvaptg , <5V qg dv dv
ytvoio dfislvav, dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i xal vijg
xaga dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv avto
xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog dvxl xiXXovg y ovx
oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ , iXX laadat Xenoph. Memor. II. 2.
12* ira — ctyaSov doi yiyvrjxca dvAXt/nz&p* i
dprjxavov te xdWoC o- p gStjS a y . Locus admodum salebrosus,
quem sine novorum codicum accessione nunquam ita restitutum iri
puto, ut, quid Plato scripserit, legere tibi videare. Ia Bodleiano
cod. aliisque perpaucis pro re legitur roi, Aid. Bas. alii non
pauci rl exhibent, quod Bek- kerus recepit colo post a/uivGov
posito. Aliam rationem Schleier- macherus iniit, qui dpijxavdv te
cet. verba cum praecedenti- bus 8i’ rjS dv dv ykvoio ajxei- vgdv
connectenda censet hoc sen- su: — wenn das wahr ist, was da von mir
sagst , und es eine Eigenschaft in mir giebt, durch welche da
besser werdea konn- test, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir
erblick- test, die deine Wohlgestalt um gar vieles ubertrifft. Stallbau-
mius veterem lectionem, h. e. zl 9 retinendam ceoset eamque distinctionem
singularum orationis par- tium edidit, ut verba dpTjxavov te cet. e
praegresso ehtep aptentur. Sententiam verborum hanc esse ait: videris
profecto non contemnendas esse, si quidem vera sunt, quae
dicis de me, hoc est, si in me vis quaedam inest, quae te reddat
meliorem atque cernere in me potes et conspicere immensam p ul cr i C ud
i ne m tuaque formositate multo praestantiorem. Recta Stali-
bauraium via incedere mihi qui- dem persuasissimum est, sed est
tamen, quod me male habeat; av particula cum ei potest quidem coniungi ,
uti docueruut , quos /itallbaumius laudat, Schae- ferus Melett.
Critt. p. 50., Ap- parat. ad Demosth. III. p. 155., Schneiderus in
Addoud. ad Xe- noph. Politic. p. 472., Heindor- fius ad Protag. p.
535., Herman- nus ad Vig. p. 830., sed admo- dum dubitari potest,
num ea hoc loco Plato usus sit, ubi verba praecedunt 6i' tfS dv dv
yi- voio apeivov. Quis enim non videt, av particulam, quae in
his verbis comparet, facillime ad no- stra verba transferri
potuisse ? avtl 6 6 $tjS aXr}$ eiav HtzXcovh. e.,
Stallbaumius in- avr\ tioJ-rjg aAqfteiccv xuAcov xx aoftai iiti%siQBig ,
xal 210 tg) ovrt %qv 6sa xaAxetav dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’ ,
cS fiaXCiQLE , ttflBLVOV tiXOTCEL, (ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv
G)V. ij rot rrjg diavoiag oipig aq%ttai o£i fiAixsiv, oxav tj
tixiv dppaziQV tijg dx^iijg Aqyuv liuxsLQy* <5v di xov- rav Hxi
Jto$QCO. Kayco axo v<Sag> Tct fiiv tcccq* Ipov, i(prjv, tttvz 9
Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag Bifnjxai tj cog dia- voovfuxi ' 6v di avxog
ovxgj (IovAevov , o n OoL xs &qi(5xov xal ifiol rjyBt. *Ak A f y
£cprj y xovxo ys sv AiyEig. Iv yCCQ TG) IsUOVU ZQOVCp POVAEVOIIEVOL
TCQa^OyLBV o Sv qnit, arx\ xaAdav, a 8oxd xa * A a elvai ,
xxadSai imxeipels xa - A*r, a l6xiv aJs aArfScoS. In proximis
alludit ad Ilom. II, «?. t. 234. m Ev$r* avte FXavxcj
KpoviSjjS (ppira* i&iAexo ZevS ds npoS Tvdeidtfv 4i
o/u/Sea xevx** upsifie Xpvdea x a Axei&v 9
hxaxopfiot ivveapoicov. r\xot x ijs dtavoiaS oif>iS
X» X. A. Errant interpretes, qni potant, verbum reperiri verna-
culum, quod xoi vocabulo re- spondeat. Neque probem , quae
Stailbanmii sententia est, ailir- mandi vim et significationem ha-
bere xoi vocabulum in sententiis communibus. Significat potius,
sententiam, cni additum sit, communem esse, eamque ideo et alias et nunc
valere. Rectissime Schleiermacherus spretis vocabulis, quae xoi
particulae respondere arbi- trati sunt interpretes , j a , j a doch,
aliis, verba reddidit: Das Auge des Geistes f ii n g t erst an
scharf zu sehen, wenn das leibliche von seiner Schiirfe schon v e
r- lieren willj minus apte, quae sequuntur, hoc modo annectit:
und davon tiist du noch welt entfernt. Fines enim sententiae communis hoc
additamento sub- latos habes atqne omnem seuten- tiam cum reliqua
oratione male commixtam. Recte in contexte oratione colo praemisso
scribitur 6v 81 xovxaov hi xoffyao. Re- stat, ut verbo commemorem
Rtik- kerti opinionem censentis , xoi h. 1, argumentationi
inservire, cuius loco etiam ydp particulam poni licuerit. Qua
ratione Rtikjcertns vehementer errat, si Pro- methei verba in Aesch.
Prom* Vinct. r. 700. explicanda censet, A iy\ ixdidadxs' xois
vodovdl xoi yAvxv ( ro' Aotuov akyoS npovZeni- (SradSat
xopcoS. cZ>v ovdlv a AA«? efpq- xa ix. X . A. cfr, p. 218. C.
:UdoiU yoi xpijvat itoi- xiAAeir xpos avxov, aAA' iAev-
SipcoS eindv a poi idonei. Sensus est: Dixi, quae dixi, neque
quicquam eorum aliter, atque sentio, edi- ctum est. 6v
8 i avxoS ovtoo ftov - Aevov. Verba convertit Fici-* B tpalvrjxai
vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv aU.uv uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc
axovOas re x«l tlmav, y.al dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov
Ojirjv. xal dvciGxdg ye , ovdh Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi,
K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov xovxo — xal yug ijv nus : tu
autem ita dei i b e- ra, ut et tibi et mihi m e- lius fore censes.
AvxoS vocabulum reddere omisit, iu qua positus est acceutns
orationis. Alcibiades enim cum dixisset, quid sibi videretur, ne
ulterius progrederetur atque nimiae auda- ciae crimeu fugiens : tu
autem, inquit, quasi meam senten- tiam non aperuissem, ad
meam voluntatem pror- sus non respiciens, ipse te cum
delibera. axov6aS re xal e Iit id v. Exspectaveris fortasse
inversum ordinem participiorum, quem re- vera in conversione
exhibuit Schleiermacherus ; Nach dieser E ede und Antwort. Felicius
rem expediit Schulthessius; Das war die Antwort auf meiue
Ucde. xal atpels &S7tep fiiXy, ' Inteilige x ovS
Xoyovf. Solent enim ^ verba Stallbaumii sunt, quae vel acute vel
acerbe in ali- quem dicuntur, cum telis com- parari. Similiter
Latini dicunt verba iacnlari, vibrare, torquere. — cfr. Piat.
Pro- tag. p. 34-2. E. ei ydp iScXei xiS Aaxedaipovi&v tc.l
cpavXo- rccTcp tivyyevEtiSai, x d y\v no\- Arr iv xols XoyoiS
evprjdEi av- rov (paivvptvov , terra:, oitov av rvxv tdSr A
eyojiircoV, kvk- fiaXe pijfia dt,iov Xoyov fipaxu xal dvvedxpappkvo
v ooSizep 8ei- voS axortusi/js ; Similis Grae- corum
Latinorumque dicendi usui formula est, qua nostrates ntnn- tur de
bullis paparum: deuBann- strahl schleudern. Ceterum pauciorum codicum
lectio est pkXij, vulgo fitXet legitur, quod emen- dandum esse
Abreschius Lect. Aristaen. p. 207. primus vidit. d p <pti
6 aS rd Ipdxiov xo i p avxov xovxo. Libro- rum plurimorum lectio
est X ov- xov j vulgo xovxo, quod et Fi- ciuus habet iu
conversione: sur- gensque ue verbum quidetn ulte- rius loqui
permisi: et hunc amictum, quem videtis, circumdans (erat enim liiems
) snb strato huius pallio veteri recubui. Vulgatam lectiouem reieccrunt
editores, quod non veri- simile esset, Alcibiadem eodem pallio usum
esse, quod aliquot annis ante gestasset. Sed vide, ue praepostera
haec sit xovxo vocabuli interpretatio. De eo- dem quidem pallio
verba acci- pienda sunt Piat. Protag. p. 335. D. xal Itpa xavxa
elncov avi- 6xdpt)v cd? dniGQY. xal poo dvioxapivov iTuXapfitxvixai
6 KaXXiaS xi}S x&ipoS xy 6et,nx t xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo
zuv zplficovoS zovzovl, xal thcev w verba nostri loci non item.
Tovio enim nihil aliud significare vi- detur, qunm Alcibiadem tum
trni- poiris simili pallio indutum lu- isse, atque quo nunc
utatur. Quiil igitur proh.bet, quominus yU/lUV — VICO TOV
TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt, TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu
dcafiovico wg txb/9ag xai &av(ia<STtp , xartxdfuiv tijv vv/.vce
okt/v. sml ov&s C ravta w Zoixgareg , Igdg ori lpivSofiai. 7
iou)okv- rog de brj Tuvtce i/iov ovrog toGovtov TCtgityLvtTo^
censeamus, pallio suo, quali hibertio tempore uti consuesceret,
iudutum Alcibiadem Socraticum te- gumentum subiisse? Tov- tov autem
lectionem ideo improbamus, quod dubitari nequit, quin alius verbi
participio usu- rus fuisset Alcibiades, si expri- mere voluisset,
se Socrati in lectulo iacenti pallium superim- posuisse, Sin forte
statuas, Al- cibiadem eodem pallio, quo ipse esset indutus, etiam
Socratem involvisse, repugnantem ordinem verborum habebis, quatenus
qui- dem scriptum esse deberet: vito tov Tpiftoova xaraxXivels
tov rovrovt, a/uputia? r o ipatiov ro ipavzov tovzov x. r. A.
vito tov Tpifiaova. Schol. ad h. 1. Tplficjv , inquit, idrl
(StoXij TiS foveto Grpitla cj$ ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/td-
tiov itaXatov xai zezpip/iivov. Hoc scholion iam Fischerus im-
pugnavit annotat, ad h. 1. rectissime, Non est autem dubium, quin recta
sit Stallbaumiana rpi- fSoov vocabuli interpretatio: pal- lium longo
usu detritum, quale solebant gestare philosophi. Hinc iocum
expeudus Aristophanicum in Nubb. v. 175. ed. Reisig. atque risum
auditorum , qui cum audissent, Socratem nocturno tempore lunae vias
atque cursum ore hiante spe- ctantem a stellione maculatum esse,
iiuuc etiytra pallio illo detrito privatum docerentur, quod ille in-
ter docendam deposuerat. Ver- sus Aristopliauici adhuc non sa- tis
emendati, ut videtur, ab in- terpretibus hoc modo scribendi snnt
: M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov ovx tjv hCntpaZ .
2. elev • zl qvv npos xa\<piz inaXapydaTO ; M.
xaxd xijs rpait&tyS xara- nadaS Xenxijv t ecppctv xdutftaS
ofteXidxov , eira diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpa- tiov
vipdXezo. Quoniam autem sentit Strepsia- * des, a discipulo
aliquo pallium ablatum esse, pa^TjTUVy inquit, h. e. discipulus
esse cupio So- craticus, ut eodem modo aliquid furari discam,
xa\ o v 8 £ T a.v x a, do 2 co- xpctx£& Bekkerus post
zavza posuit au, quam voculam vulgo edi solitam Stallbaumius ex
plu- rimorum codicum ' auctoritate ta- cite expunxit. Eam reposuit
in texta Ruckertus. Iuiuria. Nam si scriptum exstaret : xai
ovx ipels av , gJ 2boxpaxa $ , ozi zavza ifievSopat, illa
particula vix csrcre possemus. Oude zavza autem cum legatur, ov6i
voca- bulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur.
todovtov itepieyiv et o. Ia his rodoviov dictum est
8ai- xzixuS et per quandam exclama- 24 ts xa\
xaTS<pQ 0 VT]as xid xaxtyikaae xijg l(t!jg agas xu\ vfigioe' xaljteg
ixsivo ye $(ir]v xi elvat , a SvSqis Sr/MOtai' dixocaxal yag laxe xrjg
Eaxgaxovg vxsgr t - tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg , fid &eag ,
ovSlv £ xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxga- xovg ij
tl (iexcc nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflv- regov.
tionem , ut sigpificet: mirum quantum me vicit. S t a 1 1 b.
Dubito, nura huias structurae ex- empla reperiantur apud scripto-
res. Ut nobis videtur, aliam verborum structuram camque le- gitimam
quidem Alcibiades in mente habuit, qua altera quaedam enuntiati pars per
«oSfce par- ticulam praecedentibus annexa ef- fectam tov
iCeptysvid^at de- scriberet. Fortasse ita dicturas erat :
noiydavxoS 8 'k x avtct ipot 1 ovxoS rodovrov leepieylvexo , <3
sxe xal xaxatppovydai xal xa- xaytXdoai xrjS if.njs &paS xal %
'fipidai. Amat autem interdum oratio concitatior legitimae ora-
tionis vincula spernere, atque prout in buccam venerint, verba
verbis adiungere, id quod no- stro loco factum est. xalitep
ixeivo <ppyv n ttvai. cfr. p. 217. A. ig>pd- vovv yap 8rj ixl
xy upa $av- paOtov odor, quibus verbis opti- me expositam babes ,
quid sit, quod nostro loco adhibitum est rl slvai . Discas autem
ex huius loci sententia repetita, quanti olim Alcibiades
formosi- tatem suam uestimaverit, Cete- Tum ne mireris , Ixetvo
vocis neutrum genus positum esse, non femininum : exeivyr nihil
aliud denotaret, quam xyv cjpav> ixei- vo coptra paullo latioris
signi- ficatas est atque cum emphasi ad verba refertur : #
ipy wpat. f)v8lr itepixt ot£pov, Colon ponendum curavimus
post itepixxdxepov, quo vigorem ora- tiouis incredibiliter augeri
sen- ties, atque quoniam fortiora sunt, quae sunt breviora,
sententiae vim maguo opere corroborari. Scitote etiim, Alcibiades
inquit, nihil praeterea. Quae sequuntur verba, praecedentibus
verbis explicationis caussa addita, de more adwdtXGjS an-
nectuntur. y el pexa icatpoS. Ne- pos ad hunc locum
respiciens, Vit. Alcibiad. c. 2, In e ante, iuquit, adolescentia
amatus est a multis more Graecorum, in eis a Socrate, de quo mentionem
facit Flato in Symposio. Nsm- que eum induxit comme-
morantem, se pernoctasse cum Socrate, neque ali- ter ab eo
sarrexisse, ac filicfs a parente debuerit. y aSeXipov it ped
fivri- pov. Ne mireris, hoc loco ira- trem natu maiorem
commemo- rari, cum possit sola fratris no- tio ad rem sufficiens
videri : npedftvxipov non ideo additum est, ut significetur, quod
de fra- Cap. XXXV. To St] (lixa rovr o riva o&is&e fie
Siavoiav £%uv, ^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v
rovrov tptioiv re xai eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct dv&Qejncf)
roLOVtu , oZ » eyw ovx av afirjv note Iv- rv%elv tlg <pqom]0lv xai elg
xaQrtQMV ; wg re ovff’ oza>g tre natu maiore valeat, id
non item de fratre natu minore va- lere , sed ad Socratis
aetatem Alcibiades respiciens , cum cum patre atque fatre natu
maiore comparat. riva ofedS- £ jie 6ia- voiav De
interroga- tionibus mediae orationi inter- positis saepius
iara diximus. Vide annotat, p. 60. Paullo supra eo- dem modo p.
216. D. legitur SvSoSev 8k aroLxStkk TCoOrjS ot- e6$e ykfiEi f a
avtfJES Ovpno- tat, 6<*)<ppo6vv?]S ; Efficitur autem his dicendi
formulis, ut at- tentiores ad rem auditores red- dantur, aut, quod
in nostrum locum cadit , ut rei narratae vis amplificetur.
xrjv xovtov (pvdiv. Verba convertit Schleiermaclierus : und
doch aucb an des Manues Natur — mich erfreute. Dubito, num
vernaculum nomen Graeco nomini satis respondeat. Solent
Graeci commemorato nomine aliquo, quod totam aliquam rem in se
conti- neret, per xi — Ticd — nat eas eius partes annectere, quae
in- primis extollendae sint atque ur- gendae. Igitur verba
convertenda censuerim : da icb mich verachtet glaubte, und doch des
JY1 annes ganzem Wesen besonders seiuer besouuenheit und
Charakterfestigkeit mit aller Liebe zu- gethan bin. olo) i
yco ovh av gj p r) v nox\ iv xvxeiy. Proprie verba hoc ordine proferenda
erant: olco iyco cjprjv ovh av nox E ivxvXElV , quod moneo, ut
facilius iutclligas, quorsum av par- ticula referenda sit. Amant
au- tem Graeci verbum dinitum , o quo alia quaedam verba
apta sunt, mediis illis verbis inter- ponere haud raro, quo
ordine verborum vis enuntiati magnopere augetur. Ceterum ut
eximiam laudem Socratis, ita non parvam aequalium vituperationem
his verbis contineri senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv. Prorsus
eodem modo ovv in su- spensa oratione reperitur in PJat, Protag. p.
322. G. ipeara ovv *EpyfjS Aia, xlva ovv xponov doitf SbtTfv nal
aioc 5 av$pco~ 7l0iS. Noli, Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1.,
Ovv sollicitare, quod Stephanus vacare iudicabat. Indicat enim
ratiocinationem lo- quentis, qui quasi secum con- silia pectore
agitans inducitur. Quippe ea est virtus linguae Grae- cae, ut
multa, quae alii populi nonnisi oratione recta possunt enuntiare,
ea etiam oratione ob- liqua exprimere valeat. Quod quid sibi velit,
hoc uno exem- 24 * m ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai
uaoan(jTjd'th]V Ttjg tovrov <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V
avrov tvxvgow. E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov
rcrparog i]v Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug , «a te difiijv avrov
fluvio ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>],
xaraSiSov^a- (dvos ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog
p!o satia patet. Recta enim ora- tione dici aic debebat ; irroS
ovv opylgGjjjai nat ctnuOzrpTj^co rijS rovrav dvvovtiaS ;
quomodo igitur ei irascar ei usque consuetudine mc absti-
neam? Quae convertens Alci- biades in suspensam orationem eleganter
retinet voculam igi- tur, quae animi consilia agitan- tis gravius
indicium facit, ov6’ ony itpoSayctyol- fl 7J V ac V TOV Evito
p ovv . TlpoSctyeiv riva sensim sensimqne aliquem sibi assuefacere, lente
aliquem sibi conciliare praeten- tis quibnsdam illecebris
significat. Hinc iudicabis de <x7C0(Srepri^Eii]v verbi significatu,
quod illi oppositum est» Ceterum opyiZoifiTjv verbum primo obtutu habet,
quo ollendaris, quandoquidem haud verisimile est, Alcibiadem ob
repulsam a So- crate acceptam eidem non iratum fuisse. Fortas sq o
pyrgo iprjv xa\ dno6rep7f$eirjv positum accipere possis pro
dpyiZoptvos ano- dzepijSelrjv y nt sensus sit totius loci : »o dass
ich weder weiss, wie ich mich in hochster Auf- wallung seiuer ganz
erledigen, noch wie ich mich seiner allge- mach bemaclitigen soli.
His adde, quae supra leguntnr p. 216. B. ^paicEttvco ovv avrov xal
<psv- yco et quae sequuntur. ev ydp ori xpy)pa- di
re. Vulgo ye legitur pro re, quod e septem codicum aucto- ritate,
quorum in numero Bod- leianus est, Bekkerns, Stallbau- xnius, alii
iu ordinem vetborum receperunt. Riickertus ye vul- gatum reposuit
annotans : Non haec est sententia: Et pecunia eum capi non
posse mlellige - banij et quo solo cet., iramo po- tius haec:
quomodo eum mihi conciliarem , non videbam , Probe enim sciebam ,
pecunia quidem eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum captum iri
pu- taveram , id ejju gerat . Vereor equidem, ut praecedente
Xpr/padi ye non w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius scripturae
nullum iu codicibus vestigium comparet. arpGoroS rjv navraxy
7f dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern Telamonis lilium invulnerabilem fuisse
, compluribus locis narra- tur. Vide Nitsch. mythol. YVor- terb.
Ortam puto inde fabulam, quod in Iliade Aiux non vulne- ratur;
pugu&Ds licet fortissime cum fortiss.inis. Riickert. Ad re-
ctiorem verborum interpretatio- nem navraxy verbum spoute du- cere
videtur, quo) verbo de scuto immenso monemur, quod gerens Aiax ab
omni telo tutus erat, 8 tau i<p evy i //£. Haec paucorum
librorum lectio est , i r iun 0110 a t . 373
rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi ctncivta Ttgovytyovu, xnl f utcI
T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav lyivvto Xvivrj } cal
(JvvtffiTovfisv txd. Ugcoxov /ih' ouv xou; itovoig ov fiorov fuoiT
ittQtijv, tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav. ojcote yovv avayxcc-
O&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg,
2Jo '« quam editores immerito reiecisse videntur. Plurimi
8iene<pevyei pe exhibent, quod Stallbaumius, unus Siatetpevyei
pe , quod Bekkerua iu textam recepit. Nolo, quod dedi, tanqaam
certum atque ex- tra omnem dubitationem positum lectoribus
commendare , dedi tamen, quod Alcibiadis animo ap- prime convenire
videbatur. Ille enim rem actam neque quicquam spei sibi relictum
esse docens haec ait: Experientia do- ctas sum, eam
pecunia inalto minas commoveri posse, quum Aiacem, scuto immenso
tectam i‘erro vulnerari, et qua re sola eum capi putabam, eam
eludeus elapsus est, tavtd te ydp poi. Nemo interpretum de
ydp particula quicquam annotavit, quae quo iure h. I, posita sit ,
non statim intclligitur. Schleiermacliems in conversione eam
prorsus non reddidit: Dies nun war alles frii- licr gesebehen cet.
Dubitari au- tem nequit, qnin verbis, ad quae relationem habet ,
praemissa sit, de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp. Consuetior
ver-*- horum ordo foret, opinor: Jial pera tavta — tavtd te ydp
poi uTtavta npovyeyovai — <5tpa- teia ijfiiv eis Tloridaiav
iyi- veto n. r, A. Potidaeam urbem quod attinet fttqno bellum,
quem contra incolas eius gesserunt Atheniensis, andi
Riickertum an- notantem ad hunc locum: Potidaea Corinthiorum colonia in
Pal- lene paeninsula ad sinum Ther- maeum postquam
Atheuiensiuin dominationem pertulit cum cete- ris illius orae
civitatibus ali- quamdiu, defecit 01. 86. 2. a* Chr, 435. belloque
pressa per quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. 37. 3- a
Clir, 430. In horum igitur aliquem amiuin incidunt, quae hic
ab Alcibiade narrantur. o jr <5 r e yovv ar ay xct •
6 3 e i?j per. Rursum locum ha- bes, in quo edendo novorum codicum
auxilium maxime desideratur. Quam edidi, Stallbaumianae editionis lectio est,
quae me- liorum codicum auctoritate nititur. Sed cum vulgo legatur
ondtav yovv avayxatiSefo/pev, quis audeat, praesertim cum exempla
reperiantur apud bouos scriptores onotav cum optativo coniuncti, vide
Mattii. Giamm. ampl, $. 521. Aun. I. p. 1007., quis aipl eat,
inquam , utra lectio verior sit, cum aliqua certe veritatis specie
dijudicare ? Tovv in codicibus melioribus, quorum auctoritate
nititur 6 itote lectio, omittitur. Quod, quoniam vix abesse potest
, si receperis , co ipso oitote lectionis auctoritatem infringes.
Optime autem yovv ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv
r av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv , td % akl.a ,
xcd nlvtiv ovx t&tkav , unor’ avuyxuGfrtlti, n dv- rag IxQ&t ei,
xal i 6’ ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart] (itfrvovra ovSslg noinot’
icogaxtv civftQoiJtav. rovrov fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og
i'<fe<S&ai. ngog 6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig — 0uvol
ydg av- Stallbnmnius explicat: Confir- mat yovv ,
inquit, ut Latinorum i certe quideui, antecedentia cum aliqua
restrictione, hoc est ita, ut indicet, hoc certe, quod nunc
commemoretur, veritatem s eorum, quae antea dicta sint, sa- tis
testari ; sed nlia etiam posse afferri^ quae tamen nunc reti- cenda
esse videantur. dn o\ e i cp % k v x sS 7tOV, Astius
drtoArfipSiifxeS scribendum coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia
ordinem verborum receptum est. Sed codices miro consensu
ditoAEi<p$ivxE$ exhibent, quod, quoniam explicari posse arbitramur, in
textu retinuimus. Rectum quid esset, Heusdius vidit, qui
scribendum coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ; sed mutatione nulla opus
estj e sequente enim afStxetv infinitivo 6ltov genitivus facillime
ad dito- AtupSiv T£$ suppletur, FICINO habet ; et si quo in
loco, ut accideresolet i u bello, ccfro meatus deficeret*
iv r* av tais ev G>xiaiS. Ad haec quoque verba recte referuntur,
quae praecedunt; ola 6q ini dxpaxeiats, h. e. pro varia fortuna belli.
Militum enim ea fortuna, ut nunc omnium rerum felicissima copia
abundent, nunc no habeant quidem, quae ad sustentandam vitam
necessa- ria suat. Huiu? rei fortunam nemo Socrate melius perferre
potuit. navxaS in patet. Rarior structora est npatEiv verbi
cum quarto casu ea de caussa , quod Graeci hoc verbum saepius
prae- gnanti, quem vocant, quam pro- prio significatu adhibere
sole- bant, Kpaxelv ttvoS enim idem fere est atque npaxovvxa
elvai XtvoS, victorem esse ali- cuius, de quo significata
vide annotat, p. 87. KpcciEiv xivd contra proprio significatu
adhi- bitum prorsus dicitur ut LATINORVM vincere ali que ni.
ov 8 eIs nd nox e hd pa- ne v. Codicum auctoritate motus , in
quorum numero Bodleiauus est, Bekkerus kapdxei in textum recepit, quae
lectio item Riickerto probatur. Non placet. Non enim haec est mens
Alci- biadis , Socratem tum temporis a nemine 'visum esse vino
gra- vatum , sed nunquam gravari vi- no dicitur in universum ,
eius- que rei luculentissimum indicium mox convivas habituros esse
Al- cibiades promittit, Seivot yap avxoSi x ei ~ p
dives. XEipwveS articulo suo privatum latiore significatu acci-
piendum est, ut verba, couver- <S zo&>
yup&veg — ftav padia elgydteto xtx te $ AAa , xai fs itote ovtog
Tiayov oTov Suvmutov , xal xavtav y ovx 1'iiivtov EvSo&ev, >] , d
tis ittoi , i)p<piEOpivav xe &av(icc6xa Sij ooct xal vxoSsSepivGni
xai IvEikiypEvcov xovg xoSag Eig xikovg xal uQvaxlSag , ovtog 6 Iv
xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv totovrov, olov xeq xal XQortQOV
eIoj&ei <poQUv , awnoSrycog Se Sia tov xqv- tcnda sint :
denn W i n t e r in dortigcr Gegeud sind fiirchter- lich.
ra te aXXa, xai itote. Haec dicendi brevitas etiam paul- lo
supra in verbis conspicitur tu re dXX a, xal itlveiv ovx Xgov, quae
explicatius audire Stallbaumius docet annotat. ad lu 1. t a re
aXXa, xal 8t} xab rovto , ori nireir — itavta S ixpdtei. Alias
breviloquentiae exemplum in sequentibus verbis continetur xai itote
ovtoS na- yov olov 8 eiv ot dt ov , ubi. explicatius verba enarrata
sonant: *xai note ortos itayov toiov- roUy oluS biti 8eivbtatoS ,
de quo loquendi genere vide Mattii. •Oranira. ampl. §. 473- Ann.
2. p. 885. Ceterum vulgo legitur ortoS tov nayov. Bodlciani
cod, aliorumque paucorum auctorita- tem secuti Bckkerus ,
Stallbau- inius alii articulum e textu re- iecerunt. Utramque
lectionem commode explicari posse , nemo dubitabit, atque
sententiam si spectas, perinde tere esse cense- mus , utrum addatur
an omitta- tur articulus. In huiusmodi locis codicum auctoritas cum
ma- xime valere debet. Igitur et nos articulum omisimus, quem
Rii- ckertus in textu reposuerat. t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6
o -$ev «c. e tabernaculis, quorum notio facillimo mento suppletur.
"Ev8oSev Scliieicrmache- rus convertit hinaus. Recte quidem e
nostra loquendi consuetudine; aliam Graecorum fuis- se, H.v8o$ev vocabuli
notio do- cet, Etenim Graeci quicquid scripserunt dixeruntve , eius
quasi imagiaem quandam ante oculos habuerunt prius, quam
scribe- rent loquerenturve. Dicturus igi- tur Alcibiades : neminem
militum e tabernaculis exiisse , rdm ita proponit, ut imaginem ante
oculos habuisse coniicias militum o tabernaculis exeuntium. Hinc
HvSoSev vocabulum Explicabis, Convenit cum nostro loquendi usu,
quod legitur p. 174. E. ol y\v ydp evSvS n<n8d uva IV- 8o$ev
dnavti\6avta dytiv x. r. X. Innumerabiles autem loci opud
scriptores Graecos reperiuntur , quibus illa ingenii indoles probatur. Cfr.
praeterea an ->notat, ad verba TLxpr\ ydp ofc ScoxpatTf . p. 16.
, eis niXovS xal apru- ni 8 a S. Schol. ad h. 1. nlXoS
Ipdtior IB» ipiov ntXrjdecoS yi- voperoVy eis vetav xal *«/*<»“
VGor afxwav . dpvccxideS 8e apvGov HotSia. Suidas, apva- xlS t
inquit, ro' tov apvoS xqd- 8tov , to pefd xvv ipicov 8eppa r.
dra/.AOv quov Ijcoqbvsxo tj ol akkoi vitoSstisfiivoL oi dl
tiTQCCTUJTCCl VTttfikeitOV CCVtOV UQ XCCZCC(pQaVOVVTCC c (Stpiuv.
xai ravta plv drj tccvzcc. Cap. XXXVI. Olov A’ av tu 8
’ ipeUs xal ixX r/ xapTEpoS avi/p Nostrum locum frustra, ut
vide- tur, Valckenarius ad Herod. III» p. 199. 95. Musonium
imitatum esse censuit apud Stob. I. p. 17. 51., cuius verba laudare
invat tamen : ov8a/icuS xaXov ovte iuS/fusdi noAXai?
xaTadxinEiv TO dGOpa ovts TOLlviaiS XOCXEl- Xeiv ovre x f tpttS te
xal no8aZ nepiSidEt niXoov rj v<padpaTGyv tivgjv paXaxvvsiv.
Quod sequitur, ovtos 8* LATINORVM respon- det: hic, inquam, quo
verbo pronomini addito, ut 8i particula, vis augetur pronominis et
filum orationis verbis interpositis compluribus dissectum
rediutegratur. V7Z £ fi\E7t OV CtVTOV (Di xotr atp pov
ovyt a d<pav . Limis oculis eum intuebafitur, quum eos suae
ipsorum mollitiei pude- ret, odeo que Socratis p a- tieutiam et
fortitudinem moleste ferrent, quippe quem ipsos despicere
opi- narentur. Ceterum Socratem algoris ct caloris fuisse patientissimum
testatur etiam Xenophon Memorab. I. 2. 1. ct I. 6. 2. al. Stallb*
Conferri Rii- ckertus iubet annotatione ad h. 1» Piat. Criton. p.
53< B. xal odoi - 7CEp XljdoVTOLl TtoV aVTGDV TCU- Xeoov f
vuopkbfrovTai Ce 8 ia~ tpSopta yyov/uvoi r uv vegov, olov 8*
a v 1 6 8 3 l’ p £ £ e X. t. A. Versus Homericus est, culus
initium Alcibiades immutavit, ut versus cum cetera ora- tione melius
consociaretur. Legi- tur autem in Odyss, IV. v. 245. dk A*
olov to 8 * lpz£,E xal irXrf xapTEpoS dvrjp SrjftGj ivi
TpoSaov , uBi nu- &X € T£ nt/par ’ Axaioi . ixei ini
drpar e laS, Solent Graeci, quando cum gra- vitate aliquam actionem
descri- pturi sunt, huic praemittere vo- cabulum, quod actionis
rationem in universam indicaret, post actionem ipsam accuratius
defi- nitam exhibere. Sic legitur p» 177. E. ndyrcfS /tt/ 8id
piSr/S nou/dad^ai Ti/v iv tgj napdvn dvvovdlav . dXX ovra>,
nivov- taS TtpoS ?}6ov)jv, ad quae ver- ba vide annotat, p. 43.
Idem valet de locis, quorum mentio- nem graviorem ita faciunt
scri- ptores, ut praemisso verbo, quod iu universum locum aliquem
si- gnificat, accuratiorem loci de- scriptionem exhibeant. Sic
igitnr hoc loco ixsl — ini drpaTtiaS legitur, quo docearis, ad
Poti- dneam gestum esse, quod nuuc Alcibiades narraturus sit.
£vvv 07 } d ctS — e\6t )/ xci 2,7/TCk jv, Socrates aliquid
cum animo suo reputans a primo maue narratur meditabundus constitisse,
atque re non feliciter pro- ccdeute , quasi defatigationem
exe! norh Eithjt (StQcctslag , fil-iov axovdca' £wvcy<5ag yccQ
avtofh Sa&bv n e[6x)]xei 6xojtcov , xai insi- di} ov xqov%(6qsi avtcS
, oyx aviti , (Md efotijxti %7)t&v . xai rjdy f\v iiEtirjuPQla , xai
av&QCMiot, ycfta- vovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco tksyEV , oti
Zco- xganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis
sentiret nullam, in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis
mentunem fa- cit etiam Apollodorus , qui cum Agatho servos
iussisset Socratem vocare p. 175. B. laxe avxov, inquit, £3of yap n
xovx* £*«. ivloxe aitodxcis o7roi dv xvxv %6 xmiev. Quae addit
verba ijtiei 81 ccvxlxa , &s iycjpat, non ita# accipienda sunt,
quasi Apollodorus revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui
enim Heri potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates
meditationum Unem reperturus sit ? Neque ne- sciebat, quippe doctus
experien- tia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum
multum temporis meditando consu- mere. Nihil igitur aliud voluit
ij£,ei 8i avxixcc , ck* iycfypae ver- bis efficere, quam Socraticae
meditationi consulere, ne forte servorum acclamatione turbaretur.
icccl i} 8 r\ — y6$ av ovxo. Non verterim cum Stallhoumio:
und schon war es Miltug , ais mau es er st merkte ; corrumpitur enim, ut
ego existimo, vera sententia addita voce erst, quae in Graecis non
repentur; iromo »*nd schon war es Mittag, und die Leute fingens on
zu merken (malim: und den Leuten fiel es auf ); non enim quautum
tem- poris ante praeterierit , quam sentirent homines, Alcibiades
significat, sed quam diu steterit, et quid acciderit, quod partim
loco movere Socratem debuerit, partim rei augeat miraculum. Idem
verba significant, ac si narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen
perseverabat; iam sentiebant homines; at non discessit. Hanc
Riickerti annotationem, cum idem indicare intellexissem, atque quod ipse seraper
de huius loci explicatione statuendam censerem, viri doctissimi assensu
gavisus , integram recepi. Zajxp axi]? l&> IgdSiv ov
q> p ov x l % a v xi $ d x tj x e . Haec tanquam ipsa verba
laudari censemus hominum Socratis axo- Tclctv mirantium. Hoc
colligere possis e structura verborum, quum si forte ad firmaudam
sententiam nostram facere negas, ei certe non repugnare concedes.
Hoc sa- tis nunc nobis. Suhest enim gravius aliquod argumentum ,
quo ipsa hominum illorum verba laudari probemus, tppovxi^GJV par-
ticipium. De quo quoniam pau!- lo fusius dicendum est , longio- rem
autem explicationem plagellae huius angustiae non capiunt, in Comment. de
Piat. Symposio disseremus. xeXe vx g 3 vxeS 8k xtves Xt
ov 'i&YGor. Consentaneum est, non Athenienses, quibus mas
«78 6i uves «w 'Javtav , htuSt) ttiniga Suxvrfiavtts, D nal
yctQ &{qo s rore yi rjv , yctutvvia i£evtyxu[itvoi tlfia (itv iv Z(p
i)v%Ei uct&ijvSov , a(ia 8s ItpviatTov avzov, st xal njv vvxza
t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc fitXQi eas lytvixo xal tjkioe
dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv ille Socraticus notissimus
erat, nunc observatum ivisse e taber- naculis atque sub dio
lectulos stravisse; sed Ionum, qui una cum Atheniensibus Potidaeam
obsidebant, aliqui narrantur, cum ex Atticis militibus de more illo
audissent, nt oculis viderent, quod fando audissent, sub dio
pernoctasse. xal ydp SipoS tote y$ T/r. Annotatione p. SI*
indicavimus, solere haud raro scriptores Graecos partem orationis eam,
quae caussam alicuius rei conti- neat, parti orationis rem ipsam
describente praefigere. Exemplum est huius loquendi usus p. 175* C.
xov ovv 'AyaSojya, rvyxd- veir ydp £6x aToy .xaxaHtipe- vov ,
jiovov * devp , £<pt/ (pa- rat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed huuc
locum cum nostri loci con- formatione non recte conferri, vel
obiter instituta comparatio docebit. Quaeritur, quo pacto xal ydp
StpoS tote ye i}v explicandum sit. Tacent interpre- tes, quo silentio non
nihil uni- mus commovetur mens. Num verba tam plaua sunt, ut
explicatione non indigeaut? Schleier- macherus in conversione
exhibet; Eudlich ais es Abend war und n an gespeiset hatte ,
trngeii einige Ionier, denn da- ma Is war es Sommer, ihre
Schla fdecken hinaus, theils um im Kulilen zu schlafen cet., qua
couversione mitigatam habes mutato verborum ordine difficultatem loci, non
item explicatam, SchuUhessius vertendo; es war eben Sommer,
explicaudi genus admisit, quod sane levissimum est. Dillicultatem
enim vdp particu- lae ita, ut ydp reddere omittas, noa expediveris.
Scriptum autem exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS xal, SepoS
ydp tote ye ip', 4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed cave non rectum
ceuseas verbo- rum ordioem, quem libri exhi- bent. Participia
§EWVi]($avT£Z , l&tYEyxdpEVOi, de more advv- 6 etcjS posita
suut, in verbis au- tem xal ydp StpoS tote y£ ?/v, caussae indicium
prae ceteris verbis scriptor, eminere voluit, idqirt) ideo in principe
loco enuntiati posuit, h. e. in initio. Cuius lo- ci quoniam suapte
vi non potest caussalis particula sustinere gravitatem, xal explicativum
prae- positum est, quo illa eodem modo susteutatur atque
Latino- rum enim, addito e t (etenim) fortius iit, atque principi
enuu- tiati loco idoneum. Vide de xal expletivo annotat p. 6. cfr.
prae- terea p. 219. B. ap<pt?<SaS ro IpecTiov ro ipavtov
tovto xal ydp 7/v x £l M ( & v r » A . Contra ubi verbum aliquod
in enuiitiatione parcuthetica conti- netur, quod significatus
gravitate ceteris verbis autecedit, id prin- cipe loco poni solet.
Sic legitur p. 220. A.Seivoi ydp av TuSt — rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI (iovktfi&e
Iv retis f*«- %aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat. ort
yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi evQomjyot,
ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog, rs tgafuvov ovx i&tkav
azohntlv , a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS /udxttiS.
Bene Stallbmiroius orationem hoc modo explendam censet j ei 61'
(3ovA.e6$e axov- Cai , oloS iv x ais puxaii V v % ifjui xal x ov$*
vpiv. Nollem tamen per aposiopesiu verba ex- plicanda esse
dixisset. Certum esse reor , tl particulam aposio- pesin nunquam
admittere» con- ditionalis enim enuntiatio ex ordi e temperatiorum
dictionum est» quae cum aposiopeseos vehemen- tia non conveniunt.
Possis etiam verba ad praecedentia referre p. 220. C. xal xavxa plv
Si/xavccr oiov 6 ’ av x 68* £pt£,e xal izXrj XQtptepoS dvrjp ixel
noxa iitl OTpaxtiaS , aB,iov attovdai. Quae verba cum Alcibiades
hoc modo edixisse sibi videretnr: ei (iov- A e6$e dxoveiv , olor 8*
av xo8 * UpeB,e xal £rA?/ xapxepos avtjp 9 nunc ita perrexit: ei
6fe fiov XetiSe (sc. dxoveiv , olov 6* av x 68 * Bpe&e xal
ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh) iv xal? paxaiS, (sc. ipa xal
tov$’ vplv. y oxe yap fj fiaxv V v - Hia pugna. Ponit
euim rem pro certa otnnibusque nota. Narrat, quorum hic meminit
Alcibiades, Plutarclt. Alcib. p 194. C. F., sed ita , ut aut omnem
materiem ex hoc loco hauriat, aut studiose cum in narrando
respiciat. Riickert, i B, ys i po i xal xdp i- 6 X e ia. Ex
praepositio hoc loco temporali potestate posita est, quod moneo
contra Riickertum, qui annotat ad h. 1. : Secundum quam. Caussam
euim pugna praebuit, cor darentur Alcibiadi virtutis praemia. — Sed
bene monitos lectores velim, ne ix quovis loco temporali potestate
poni posse opinentur. Ponitur tum tantummodo, quum tempo- ris
indicio simul adhaeret notio quaedam, quae ix praepositioni propria
est. Minus accurate Schlciermacherus : hei welchem ( Gefecht
) mir die Heerftihrer deu Preis zuerkanuten ; non rectius Schulthessius :
dena in der Schlacht, wo mir cet.Restat ut de xal vocula dicamus, quam
u nemine interprete explicatam video. Supplemento aliquo opus est,
quo advocato, quid xal si- gnificet, statim intelligetur: ure yap
i/ paxv rjv , y avry, i£ r/S i/ioi xal xdpuS^ua ISoOav. denn ais
ieue Schlacht wnr, die- sclbe, ais die, nach wclcher die Heerfuhrer
mir deo Preis zuer- kannten. x ex pat fiiv ov ovx i$i-
A cdv. Vulgo haec verba inverso ordiue exhibentur) codices plu-
rimi atque optimi texpcofiivov ovx iSiXtov. Vehementer errant, qui
uter verboi*um ordo rectior sit, e sententiae ratione dignosci
posse arbitrantur. Nam uterque, quo se commendet lectori, habet.
Sola igitur meliorum codicum au n a at a no r xai T a ZnXa xai
avtov l[it. xai tyul /xh’ , w £(6xgrt- Tfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac
zagtOzt ia tovg Ozgazrjyovs , xai zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks
igsig (In t luvSojiai ' dkXd ydg tmv tizgazr/ywv xgog z<>
i/wv iit ioifia dzojV.ixuvzeJv xai (iov/.vulvcjv ifiol dtdovca
ctoritas respicienda est, quorara lectionem Bekkrrus, Stallbaumius
alii in textam receperunt. a A Ad tivv 8 ikC a> Ce xai t it onAa
xai avTov i fi i. Priori loco xd oicAa commemorautur ea dc caussa , quam
ex- positam habes annotat, p. 63. De verbrs cum 8ia
praepositione confundit annotat, adip. 7* Verba converterim; und er
braclite WaflVn und Menschen, beides, retteod hiudurch. Ceterum
iucst aliquid his verbis, quod si ab- esset, omnes uno ore
Graecis- mum laudarent atque locis ex Homero inprimis petitis
confir- marent. Nullum in codicibus vestigium depravationis, nihil
igi- tur mutandum, praesertim cum negari nequeat, non minus
Graece dici, quod nunc legitur, quam quod milii in mentem venit
dAAa CvvSikCcoCe xai xd uxAct xai avtov. xai rore.
Annotat Stallbaumius ad h. 1. Ne quis, inquit, in his haereat, xai «d
universam sententiam, non ad solum xoxe referendum est, at
respondeat proximo xai in verbis xai tovxd ys pot ovte fitjjipei. Verita-
tem huitu sententiae Ruckertus agnoscit; nobis aliter de expli-
candis ual tore verbis statuen- dum videtur. Meus Alcibiadis haec «
st . Non solam praesenti tempore se ita iudicare, ut Socratem dignissimum
censeat ptaemiorum Hlornm, sed etiam tum temporis ita se censuisse
atque tussisse quidem, nt duces Socratem pruefniis illis dignentur.
Quae sequuntur verba pepibei at- que ovn ipet* ijxi Tpf.v6opai
nostrum explicationem confirmant. Mkptpei enim ad praesens Alci-
biadis iudicium referendam est, qno Socrate negatur praemio- rum
illorum aliquis dignior esse, verba autem ovx ipEiS oxi ijjEv-
Sopai recte ad verba retuleris ixkAevov Coi SiSovat rapior eia x
ovS CrpaujyovS. itpoS T 6 ipov dZi&pa. cfr. PJat. Alcib.
I. p. 104* B. Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavi- xcDtdxov yivovS Iv
xy Ceovtov itoAei ovCy pcyiCty xaSv 'EA^- ArfvidcDV' xai ivxavSa
itpoS narpoS xk Coi (piAovS xai B,vy- yeveis tcAeICxovS elvai xai
dpi - 6x ov£, ot , et xi 8kot, vmjpexoiev av Coi . xovtoov 81 Totif
xpoS fitfxpoS ov8\v xdpovS ot56* iAax- rovS ' Zvpitdvxarv 81 mv
elnov ptiZoi) otei Coi Svvapiv vitap- TlepixAka xov
AavShtnov, or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk Coi, oS ov povov iv
xy8e xy icoAei dvvaxai itpaxxeiv o n av fiovArjxaiy aA A* iv naCy
xy 'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv noAAolS xai peyaAoiS
ykveCiv, Mutre nsus est Alcibiades Dino- mache, Megaclis filia
celeberrima, patre Clinia, cuius virtus in pugaa ad Artemisium
pugnata zTMnozroN. 881 xdgtGxHa,
avxo g noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv tui /.ajitiv jj
GavTuv. Ixi xoivw , <J avdgtg , cchov 9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj , oxe
ano /JgMov qnyf/ ave- £21 Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag
nagaytvofievog innov . l'zarv , ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv
iaxtdaouivav f inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in Piat.
Alcibi&d. I. init. Alcibiadem allnquens dicit: ' 11 7tcti
KXetriov, Vide, quae de dicendi formulis rtaxpoSev et nal? xivo?
docet Wachsinnthiua in libro: Hellen. Alteithumsk. L I. p. 320.
Beil. 10. i ph Xafielv i} tiavxov. Nihil certius est,
quam Platonem aveo? scripsisse vel ovx av- ToS , uUi
oppositionis rationem habiturus fuisset, quae quanto- pere angeatur
tiCtVTo? scriptura nemo est, quiu videat. Alio loco de hac
structura oppositionis augen- dae caussa admissa locuti sumus. Vide
Indices s. v, Accus. prou. - uf£ ano J //Aio v tpvyy ct r
exGjpei. *Avaxeepeiy proprie est : in locum altiorem se con- ferre,
iuprimisque de piscatori- bus obvuluit, qui undis ora su-
perantibus celerrimu iiiga altiora loca petierunt. Hinc ad rem militarem
tranr.lutum verbum lugam militum describit, qui e peregrina terra,
tanquam undas mare, hostes evomente quasi iu altio- rem atque
tutiorem locum, in patriam terram fugif^es se confe- runt. Deinde,
quMnam, qui na- ves relinqniiut atque mare, cum patriam terram
petituri sunt, al- tiores regiones petuut, factum est , ut redeundi
verba plerumque cum ara praepositione con- iungercutur. — Schol. s. v.
drj- Xtov • x Q opLov xjjS LouaxiaS, Athenienses ad Delium
urbem a Thebanis^prorfio victos Thncyd. \ narrat IV. 76 seqq.
Proelium scimus fuisse Ol. , 1. Idem proelium u Lachete comme- morilnr in
Piat. Lach. p. 181.B. xui ptjv, go Avtiipaxi , p?} atpUoo ye- xavSpoS'
gjS iyos &XX oSl ye avxov iStacdptji' ov povov tov naxlpa
dXXd xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa. iv ydp xf/ and Jr/Xiov
<f>vyy pix ipov cvvavexcjpiti xayaZ <5ot Xiyco, oxi , ei
ol aXXoi iJSeXov rotovxot tlveti , dp$j) av ijpwv 7 } TtoXi? r,r
xal ovx av initia tote xo xoiovxov nxdopa. De re ipsa Engelhurdtus
ad h. I. ed. p. 14 : Cum Boeotorum, inquit, nonnulli imperium
Lacedaemo- niorum aegre ferentes ope Athe- niensium democr&tiam
in Boeo- tiae civitatibus instituere ctipe- rent, inter eos atque
Atheiiieu- sium duces Demosthenem et Hip- pocratem convenit, ut
ipsi Atheniemibus urbes Siphas ad sinum Ciisuenm, et Cbaeroncam
prope Orchomenum Minycum traderent, Athenienses nutem eodem
«lio Delium Apollinis sacrum iu finibus Boeotiae et Atticae vernus
Euboeam situm vi occuparent. Sed ct Demostheni ad Siphas oc-
cupandas profecto res Boeotis iam prodita infeliciter cessit, et
Hippocrates, qui serius, quam convenerat, Delium pervenit, postquam
vallo praemunire atque praeauliu instruere contigit,
Boeo- *t a 4 ijdrj tcov av&Q(07tG)v ovtos n
apa xal Aaxrjg * Xfti 2yw 7 teQitvy%dv & , xal Ida tv ex>ftvg
vtagaxefavopuL rs avTolv ftaQQeiv xal SXsyov , art oi5x djtotefyco
avzoj. Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv EttXQazrj ?;
JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’ ' wnrou £itm*
jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za B HpxpQCov sivat * Sjtsiza Zpoiye
idoxsi , oJ *AQi6zocpavsg — to tfov 6'ij rovto — xal .&cct
diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad De-
lium collectis, turpi clade in fu- gam conversus est. Quos autem
Delii relinquerat Athenienses, castello die post proelium XVII. yi
expugnato, partim interfecti, partim capti sunt exceptis iis, qui
ad naves pervenerunt. xal iyco ns pixvy xdv p» Nota praesens
historicum , quo incredibiliter orationis vigor augetur. Exempla huius
dicendi usus Matthiaeus collegit Oram ni. ampl. $. 504« 1. p, 955.
Eo tempore Alcibiades etiam p. 2 17. C. utitur: npoxaXovpai 8t)
av- tov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~ Xv&S ooSTCEp ipa6xt/S
nai8ixoii inifiovXevGov Hoc tempore utuntur, qui narrant aliquid, non
nt rem de industria tanquam praesentem auditoribus exponant, sed
narratoribus rei memoria abreptis res tanquam praesens obversatur,
tanquam praesentem igitur ex- ponunt. Sed inter loquendum saepe ad
se rursum redeunt et ad auditores, atque temporis rationem agnoscunt, quo
lacto ad praeterita tempora verborum su- bito recurrunt, ut hoc fit
loco nostro: xal idcov ev$vS napa- xeXEvopai te avxolv
Sapptiv xal £A syov. insita ipoiys idoxez — ro* <Sov 6 7 }
tovxo — . Verba ro 6or 81 f xovto lineolia adhibitis a praecedentium
et nb insequentium verborum iunctura seclusimus , no quis forte
haco Verba ex i8oxei apta censeat. Ad iSoxst enim o
JSa?xpdr?/f supplendum est ; Xo 6ov 81} Tov- X O autem absolute
positum est prorsus nt ro' Af yopevov et aliao huiusmodi figurae
dicendi. Ver- sus, ad quem respicit Alcibiades in Nubibus
Aristophanicis fcou- tinetur 561. oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv
080IS xal XM<p$a\pGo napapaXAEiS, ad quae verba Schol.
annotat: fipevSvEt * anotispvvvEiS 6eav- xov iv ro3 6xppaxi xal
xav- pij8ov opaS. xopitdBftiS xal yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem
ad Aristoph. Pac. v. 25. xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsv-
SvEtai xe xal <payEiv ovx a£,ioi annotat: ro fipsvSvEXai
avii xov pkya (ppovEi. ol pb* ano (IpivSovS rosi cpvxov , ol
6f, (iique ialsisflpi quidem, ut pa- tere opinor ex annotat, p.4.
et 5.) pvpov E1S0S , c5 xpi ° v a 1 ywaixES xal in 9 avxcp
piya <ppovov6iv. Timaeus L. V. Pi. fipevSvopevoS •
yavpovpivoS xal uyxvXopsvoS pexa fidpovS. Recte igitur Stalibaumis
f ipev- Ivftads , Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov
, ygifia jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg,
Sijlog <dv ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai xovtov
rov dvdgog, ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio xal doqiaXag dstysi xal ovrog
xal 6 etegog. a%t8bv ydg ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi
axroy- tai , dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C xokld
(uv otw L > tig xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm~ SveCBcn est,
inquit, superbire maguoque cara fastu i u » cedere. Minus recte, at
vide- tur, tcotp^aXfito napaftdX\oov esse ait torvo vultu
oculos huc et illuo coniiciens, Recte Scliol. x avpT/dov
dpti?. Bobus torvum vultum esse nemo concedet, qui huius animalis
oculos accuratius inspexerit. Tavpqdov autem Scliol. dixit, ut
esset, quocum tranquillitas vultus compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem
illa tranquillitas cum incessu superbo, tum oculis iu obliquum
conversis, quales iu ci- coniis persaepe auimad vertimus. Sententiae
nostrae verba favent t/pEpa TtapatixoTzeiov, quibus ma- nifesta
continetur proxime praecedentium explicatio. Miror au- tem, etiam
Stallbaumiura probusso coniecturara Bekkeri , 7t epitixo- irdjv
scribentis, quae, si quid video, e Fichii conversioue hausta est ; deinde
mihi visus est> o Aristophanes, quod et ipse ais, ibi non aliter
quam hic incedere superbus , et o cpl is. quiete omnia
circumlustrans , cauteque examinans singula. Qui cir- cumspicit, non
providentiam solum prodit, quae ipsa apud pro- bos scriptores
circumspectio audit, sed etiam timiditatem quandam animi quippe
undecunque do periculo vitae metneif. Ceterum xal dupliciter posito in
comparutione: xal Ixel duxno peveOSai
wSnep xal £v$a8t, nihil frequentius apud scriptores Graecos.
xal rov? tpiXov? xal xov? ito\£ fiiovS. Eadem re- ligio, qua
scribae propter inso- • quens 7to\Efjlov? scripsere qn- Mov?,
recentioribus impedimento fuit, quominus, quod vulgo le- gitur,
tpL\oi>? iu ordinem ver- borum recipereut. Yide annotat, p.
13. 8f/Xo? cjv — itavv n J/3- fia^Er, Similiter
Apollodorus» qui Socratis incessura imitatus est xgjv ovv yvGopljx
oov xi?, inquit, OKl6$E xaxid GJV p,E 710 P(J G0- Sev ixaXs6Er, x.
r. A. it por p ondbrjv . Annotat Schol. ad h I. npoxpoitdSijv
• TtpoSvflGD?, dpEXadXpETtti , /lEXtZ nporponij? r/ eI?
xovpnpooHiY. Ficiuus verba convertit : Fer. ne enim qui ita
incedunt, nemo eos iuvadit , sed eos , qui efl isa fuga deferuntur.
Tt pronomen indefinitum ad perli- nens, neque Latino neque
vernaculo sermone reddi potest satas commode. Efficitur autem eo,
ut ov verbi potestas paol- lisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal
davfiatiia • akXa t Crv fdv aXXtov iitmjStv- Hurav t u% uv ug xal itigl
ciXlov rouzvra rfjtoi' ro de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai ,
(itjte uxrv uta- X.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV , TOVTO CC^LOV ftttV TOg &aV- ficcrog.
ciog yciQ ’A%iXlivg totius enuntiati ; Denn es ge- schieht
ia wohl , dass auf die, welche sich so im Kriege be- nehmen , fast
nicht einmal ein Angrili' gemncht wird , soudern nur die werdeu
verfolgt , welche ia wilder Hast iliehen. TtoXXa fi\v ov v av
xiS xal d XX a. E nostra loquendi consuetudine Alcibiadis verba
au- dirent: noXXci a\Xa Savpdtita'. Vieles audere wunderbare. II
c- ctius Graeci xal vocula adhibita disiunxere verba , qua re
edici- tur, ut singulum quodque verbum suum pondus habeat
propriamque potestatem accipiat. Persaepe Luiosmodi dictionis
exempla reperiuntur; interdum tamen etiam, «]uue cum nostro usu
loquendi couveniant, reperias. cfr, Symp, p. 195. B, iyoa 81
<Pai8poj xoX- Xd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx bjzoXoydi x . t.
A., quo loco rovzo pronominis vis nou passa est, opinor, ut xai
addito 7toXkct «AA a verba validius emineant. Jb. p. 201. D. y
xavxa te 6o<py yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. praeterea Matth. Gramm,
ampl. 444. 4. p. 830. 22a>xpdxy inaiv e6 at.
"Vulgatae lectioni 2(*>xpdxouS praeferendum ducimus
meliorum librorum scripturam) exquisita **uirn dictio est neque
multo usu protrita inaivetv xivd xi, quam recte comparavit Astiu3
cum formula A dyuv xiva xi. Etiam io-tyivtxo , (i7C£ixcc(S£UV av tl$
fra p. 222. A. e melioribus li- bris recepimus a iyta
2<axpdxy InaivGj. S t a 1 1 b. «AAa xdov p.\y aXXcov
littxydev p ctXGDV. Genitivus cum sequente xoiavxa cohaeret; quod
quo sensu dicatur ut iotel- ligas celerius : expletior oratio audit
: aXXa x&v plv aXXcov Imxybevpdxwv a EAeyov, xdx civ xiS xal
7tF.pl aXXov xoiavxa efjroi. Huius genitivi absoluti qui quidem
argumentum indicet sequentium verborum, multa ex- empla Matth.
collegit Grapnm. ampl. §. 342. 3. p. 650., quae quidem omnia ita
comparata esso videntur, ut e verbis facillime supplendis aptentur.
Dubitari igitur licet, num Graeci genitivo casu ita usi sint, ut eo
po- sito expresserint, quod Latinis ia asu est: quod spectat
ad, quod pertinet ad, cet. roiro d£ibv 7cavroS
SavfxaxoS. Ficiuus vei ba red- didit : Verum illa praecipua io isto, per
quae nemini aliorum hominum neque antiquo- rum neque novorum esse
similis reperitur. Quam conversionem si recte intelligo, Ficinus
sensum verborum esse ait hunc: Praeter ea, quae in Socrate , esse
Alcibia- des dixerit, alia nova esse, quae cum nemine comparari
possint. Sed proreus aliud quid Alcibia- dem dicere arbitror. Agit
nimi- rum de integritate hominis, quam Di t>-
889 «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai
NiiSxoga xal 'Avxrjvoga , dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d aXXovg xara
ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl ytyovt. xrjv uxoidav
av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi avxov , ov8’ iyyvg av tvgoi ug ir/xuv
, ovxs xuv individualitatem vocant recentio- res» Singala
quidem ait , quae in Socrate sint, passim apud alios quoque
reperiri, integrum homi- nem autem si spectes, neminem esse, quocum
Socratem compa- rare possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis
fortissimus , dux Lacedaemoniorum, praematura morte ex- stinctus in pugna
ad Amphipolin 01. LXXXIX. 3. H. e. a. Ch. 422- Ceterum nota
iuversum no- minum ordinem, quo in altero enuntiati membro Achilles
priori loco positus est, in altero poste- riori Nestor et Antenor,
quo no- minum ordine hoc, opinor, indi- catur I Antiquitas viros
habet, qui cura nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari
pos- sunt, rursum nostris temporibus sunt et fuertfnt, qui antiquitatis viris
similes esse reperiuntur. oloS ovrodl ykyove xrjv dtonlav av$
pGoitoS, Ovxo 6 i paullo infra accuratius definitur verbis
avxoS" xccl ol Xoyoi avxov , quibus verbis ad- ditis
Alcibiades aditum paraturos est ad ea commemoranda, quae in
superioribus commemorare omisit» Sic paullo infra eodem modo legitur :
avxov , — avxov xal XovS XoyovS. Laudat Stallbaumius apposite Piat.
Criton. p. 50. E. ovxl rpikxipoS rjtiSa $ot>- Aof, avxos te xal
ol 601 izpo- yoroi; Soph» Oed. Coi, v, 452* iita&oS p\v
OlSlitovf xa- xoixtldai avxoS xe naidks $r* aib*. et v.
864. xoiyap 6l , xocvtov xal yk - "vo? ro 6ov
Becov d txavxa A evddojV "HXtos doitj filov
xoiovxov . In hoc genere dicendi quoniam copulam bis
posuisse videantar veteres, Riickerti industria etiam nostro loco
dupliciter poni iubet, atque revera edidit avxov xe xal xovS A
oyovSf quae scriptura in aliquot codicibus comparet» Potuisse
Platonem copulam bis ponere nemo negabit, qui ex- empla supra
laudata legerit $ sed cur non item dicere licuerit Grae- cis avxov
xal xov* A 6yovS> frustra rationem quaeras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ
V TCaXai gj v. Suspicionem moverit haec verba depravationis, quae
fieri potuit facillime, ut e praecedentibus verbis p. 221. C. r 6
ptjdEvl avSpoditGov opotov elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE
Xgdv vvv ovxojp, huc transfer- rentur. Suspiciosa autem verba sunt,
non, quod cum rls pronomine indefinito coniungi debeant, tjuo facto sane
sententia existe- tet neUtiquam probabilis, neque, quod nimis
remotum sit iyyvs iromen, ex quo genitivi illi pen- dent, — tantam
autem vim habet kyyvf principe enuntiati loco po- litum, ut
huiuamodi structurae vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o
Xeya> txxei- xagoi rtg ttvxw , av^ganav fiiv /ir/devl, toij da
2,'ec- Xrjvolg xal EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX
VII. ICal yag ovv xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov.
pondus facile sustineat, — sed Platonem scripsisse arbitror,
si verba addidisset ovte rc ov vvv ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva
ovd lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor. Ficinus exhibet in conversione: Sed
qua- lis Socratis est qoalisque eius mira dicendi ratio, nemo
prope ad eius similitudinem accedet ne- que veterum neque eorum ,
qui nunc sunt. el ptr) dpa. Post dpa cod. Bodleianos
aliique pauci ei ha- bent, quod Bekkerus et Stall- baumius in
ordinem verborum re- ceperunt. Atque hic quidem ad ei firj apa e
praecedentibus repetendum censet: evpoi xi$. Ad- modum dubito, num
cuiquam lentorum placere possit, quod hoc supplemento edicitur, dicendi
genus impeditissimum. Riickertus alterum hoc ei e textu semovit.
Recte, ut videtur. xal yap ovv xal. Duplex xal ne quem
offendat hoc loco : xal yap ovv xal ex eo dicendi genere esse
contendimus, de quo supra dictum est annotat, p. 5. et 6. Recte autem
nobis vide- mur ibi annotavisse, prius xal in liuiusmodi dicendi
formulis ex- pletivum esse, atque particula- rum quarundam
levitatem ita ag- gravare, ut principis in enuntia- tioue sedis
gravitatem sustinere possint. In harum particularum numero etiam
particula caussalia est , quam veteres nunquam in enuntiationis
alicuius initio posuere. Alteram xal diximus gravitate quadam verbum, cui
praepositum sit, ornar j , quae cum aflirmatione sit coniuncta.
Iatr» cum supra Alcibiades dixisset p. 215. A. iav pivxoi dvaut
- fivjjdxopevoS aWo a\\o$ev A i- ycj, pTjStv Savpadyf,
verisimile est, eundem nunc ad ea respe- xisse, atque exemplo malam
me- moriam comprobasse. Kal yap ovv xal verborum paullo
dilfi- cilior vernacula conversio est. In Schleiermacheri
conversione legi- tur l Und dies habe ich gleich zuerst noch
ubergaogen , quod cum Graecis verbis minus con- venire arbitror.
Mens Alcibiadis respicientis, quod accurate tenendum est, ad verba p.
215. A. , haec est : Denn da ist ja nun der Beweis, dieses habe
ich zn Anfang ausgelassen. T oiS dioiy ojiev oi$. Sae- pius
iam de usu verborum annota- vimus, quo omittuntur alia quae- dam
verba, quorum additamen- tum, secundum nostram loquendi
consuetudinem si rem iudicas, ad rem necessarium est. Ut exem- plo
utar, dioiyexai dicitur pro 8iolye65ai Svvaxai, dioiyojii- vovS pro
StoiyeGSai dvvapti- vovSy quibus exemplis statim edo- cearis , qua
conditione hujusce- modi omissiones Graeci scripto- res admiserint.
Fusius (ie hoc dicendi genere supra diximus an- notat. p. 169., p.
207. , al. ei yap t5e\ei zt$. Haec ion xal ot loyoi avxov
otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg xolg dwiyofiivoig. tl yag IfthXet, xig '
xav Eaxgdxovg e uxoveiv Xoycov, qiavEitv av itaw ytkoloi x 6
xcgmov’ xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa ^a&ev rtegia/ixe-
%ovxui Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg yag plurimorum atque
optimorum co- dicum lectio est, prae qua multo deterius est, quod
vulgo edeba- tur ISlkoi, Diximus de ei par- ticula cum indicativo
coniuncta, praecedente vel subsequente opta- tivo et av 'annotat,
p. 38. ibi- que potestatem huius structurae explicavimus. Supra
Alcibiades dixit p. 216. A. xal In ye'rvv Hvvoid' ipavzoo , ozi, ei
i$6- Xoifit itapexwv za atra, ovx av xapZ7fp//(Saipi x. r. A. et
panllo infra filat ovv oa?nep ano zdav 2 'eipjjvcov , inidxopevo?
za arae oFxojuai tpevyoov x. z. A. , quae verba ideo laudo, ut
melius per- spicias, qui fiat, ut Alcibiades potissimum dicat ei
yap iSehei T i? x. z. A, h, e, denn wenn ei- ner wirklich das Ilerz
hat , die Reden des Socrates zu veroeh- roen. Quivis alius, qui non
ex- pertus esset, quae sibi accidisse Alcibiades narrat, non
dixisset ei yap i$£\et zi? x, z. A, 2azvpov av xivavfipt-
6tov 6opav, h. e., Stall- baumius inquit, ol A oyoi avxov totavza
ovopaza xal firjpaza ixovtiiv &snep av ei SZwSev 7tepiapn^x
otyTO 2azvpov ziva vfipidxov dopav : sermones eius talibus
nominibus et verbis compositi sunt, quasi Satyri quadam irrisoris
pelle extrinsecus amicti sigt. Porro ne quis av particulam
suspectum habeat, verbo omisso in oppositione po- sita,
sententiam hoc modo explicandam censet : oia av efrf Sazvpov zi?
ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo magis pateat, propriam dictionem cum tropica
per elegantem quandara breviloquen- tiam conflatam esse, interpunctio-
nem post nepiapnlxovzai vulgo positam delevit* Riickertus im-
probata hac omissione interpunctionis comparationis significa- tionem in
ziva' pronomine in- definito deprehendisse sibi vide- tur verbaque
convertenda censet 1 talibus nominibus et ver- bis extrinsecus
involuti sunt, quasi Satyri quadam pelle» Ficinus habet in
conversione; Nomina quippe et verba exteriori aspectu Satyri
cuiusdam contumeliosi habitum prae se ferunt. Satis nobis displi-
cet ziva pronomen indefinitum, neque, quomodo interpretibus satisfacere
potuerit istud: Satyri quadam pelle , intelligimus ; Ficini
pronomine offensi liberior conversio: Satyri cuiusdam pelle; sed ne
hoc quidem , si in Graecis legeretur XiVot , setia bene habere
videtur. Respicitur enim ad Marsyam , cuius men- tionem supra fecit
Alcibiades. Av autem particula admodum du- bito , num recte
explicari possit* Pone recte a Stallbaumio explicatam esse: o£nf av eXrj
2a-> rvpov xi? vfipidtov &opd : hoc certissimum est,
enuntiationem addita hac av particulae notione frigidiorem fieri
atque langui- njATaNOs I xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal
dxvroropoug xal (IvQGodtipae , xai au dia dSorem.
Itaqne non dnbium eat nobis, quia verba dv ttva depra- vata
sint. Scribendum est: tot- avtct xal 6v6f.ta.ta. xal faijfiatct
HZaoSev 7t£piafi7texovtai f 2arv- pov avtixa vftptdtov 8opav . Quam
facile avtixa , cuius vo- cabuli usum non intelligereat librarii, in av
tiva mutari po- tuerit, ipse, lector, vides. Adhi- buere autem
illud vocabulum scriptores ia exemplis argumentisque afferendis atque in
comparatione haud raro. cfr. incerti auctoris Alcib. II. p. 138. C,
tSsnep tov OiSinovv avtixa <pa6\v evB»a~ 6$ai SieXidZat ta na
- tpoHa tovS vlelS x . t. X. Ibid. p. 189. B. navtaS ovv av
<pdv - reS , oj AXxifiidSrj, rovS a<ppo - vaS ftaivedSat,
opSwS av (pai- tjpev. avtixa tc ov ddov 77 A 1 - xtootcov et tiveS
tvyxdvovdtv acppovLS ovteS, &Snep eidi, xal tgjv iti
npedftvtipoov. Ibid. p. 144. C. ovxovv ol firjtopes a y- rixa, ytoi
eldotes &vftfiovXev- etv rj obfSevteS eldivai x. t. A. Piat.
Protag. p. 359. E. aXXd fikvtoi , i<prf, co 2c6xpateS, ntiv ye
tovvavttov idtlv ini a ol te deiXol ipxovtai , xal ol av - 6peioi.
avtixa eis tov noXe- ftov ol fiev iSeXovdiv levat, ol 0 61 ovx
iSiXovdtv. Piat. Gorg. p. 472. D. avtixa npcotov,nepl ov vvv 6
Xoyos idrl, dv ?}yet olov te eivai, elvat ftaxapiov avdpa adixovvta
te xal d6t- xov , etnep x. r. X. fii loci ac- curate inspecti satis
docent, per avtixa vocabulum exempla af- ferri talia, qualia
loquentia animo illico offeran- tur. Quoniam autem exempla, tov
avtav ta avtct <pai- quae loquentis animo inter lo- quendum
offeruntor, non sem- per aptissima sunt neque omnium optima , quae
afferri potuissent : avtixa vocabulum indicat, alia exempla
reperiri posse fortasse, quae rectius nunc laudentur, sed
loquentem, quod primum ipsi se obtulisset, id exhibuisse, Inest
simul caussae indicium , cur ex- emplum laudatum scriptoris ani-
mum primum subierit. Sic io Alcib. II. p. 139* B. quoniam cum
Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai Alcibiadis per avtixa vocabulum
exempli caussa laudantur. In Piat. Prot. p. 559. E. SelXqjv et
avSpeicov nomina ultro ad bellum laudandum loqoen- tem duxerunt. Rem
extra dubitationem ponit , ut alios locos praetermittam , Piat. Gorg.
p. 472. D. avtixa npdotov , nepl ov vvv 6 XoyoS idtiv. Neque
mirum , Socraticos sermones cum Satyri pelle addito avtixa vocabulo
comparari , cum ipse. So- crates paullo ante cum Marsya comparatus
sit. Iam nostro loco avtixa pro dv ttva ubi posue- ris, verba
vertenda sunt: So1che (b. e. so litcherliche) Worte und Satze
haogen auswen- dig durum heram, eben eine wahresSatyrfell.
Ce- terum quod Stallbaumius censet nOn opus fuisse in hac
compa- ratione 00 S particula : coS 2atv~ pov dv ttva vftptdtov
dopav, quoniam et Graeci, et Latini scriptores haud raro eam
appo- sitioni vim tribuerent, ut habe- ret simul comparatiqpis
signifi- cationem : coS particulam nostro loco ne ferri quidem
posse con- veta* leyuv, agrs SltEigog «ai dv<njTog Sv9qox og
zdg &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id av av 222
Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav foret : quasi Satyri peJle
amicti sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut Satyri
pelle r er er a amicti dicantur* Recte igitur a nobis in conver-
sione additam nomen : wahr. Eodem modo loci explicandi sont,
quos Stallbaumius laudat annotat, ed h. 1.: Aristopb. Aw. y. 169.
et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvX- XoS vitoxddxcov ipeiS t ad quae
yerba frustra Scliol. X sinet 81, Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS ai-
CxpovpyiaiS nexr}vo6s. Tibuli. I. 1. 7» ipse seram vites rusticus,
quo loco illud ipse aeram quasi rusticus ad- modum ieiunum foret.
Horat. 6erm. I. 1. 99. hunc liberta • ecuri divisit medium
for- tissima Tyndaridarum. ovovS yap xavSTjXlovS
Scliol. s. v. navSrjXiovS * xovS fipaSeiS , inquit, voijdai r) a -
<pvels ano navSavoS, oS idxiv tvoS, elprjpkvoi , oS naXiv ano to
ov xav^njXiGov , xcjv inixiSe- fikvcov avtqS inindpnxcev B,v- Xa)v
, xovxidxi daypdxoov, ovo - paP t Exai ovxcoS. Idem sub T,
fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS ipyapopkvovS nal paXazxov - taS,
Socraticum hunc morem, res vilissimas atque tritissimas cum aummis
miscendi multi loci Pla- tonis repraesentant. Sic io Piat.
Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov,
<paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov rivoS ht Mei/S elpi. xrjv yap
$epaneiav (sc. rc5v Seobv) oviccd G vritlfit rjvxiva ovopapaS. ov
yap itov Xkyeif ye , oleti nep nal ai nepl za aXX* Sepanetai eidi,
toiavxrjv nal nepl xovs SeovS. Xkyopev yap itov , olor (papev , innovS ov
naS inidxaxat Scpaneveiv , aXX’ d inmxoS. r\ yap; E. navv ye,
2. r\ yap itov Innixi} Inncov Sepaneia; E. vai. 2. ov8k ye nvvaS naS
inidxaxat Sepanev- €iy , aXX* d xwipyenxds. E. ovxgos. 2. ij yap
nov nvvrjye- xim } xvvgoy Sepaneia; E vai. 2. t\ 8k ye fiorjXaxim/}
^ocov ; E. navv ye. 2. rj 81 6 q odtoxnS re xal evdkfieia Segov c o
Ev- Svtppov ; ovxooS XkyeiS \ E. i- ycoye. nal dnvxoro
fiovS cfr. Piat. Gorg. p. 490. E. rov dxv- toxdpov IdcoS pkyidxa
Sei vno - Sijpaxa xal nXetdxa vnoStSe - pivov nepinaxeiv. K. nola
vno- Sipiaxa tpXvapeiS ix cor; quae Callidis verba optime
transtulit Stallbaumius annotat, ad h. 1. p. ed. 157. Was liast du
nur, dass du doch immer von Schuhen achwazzest. Quae seqnuntur
ver- ba xal dei 8id xcov avtcevxd avxa (paivezai Xkyeiv
optimo probantur Callidis verbis in Piat. Gorg. p. 490. E. cos dei
xavxa XkyeiS , gj 2cdxpaxeS. 2. ov po~ vov ye, cJ KaXXixXetS ,
aXXa nal nepl xdev avzaov. K. vi} rovS Seovf, dxexy&s ye
ael tinvxkaS xs nal nvatpkaS nal payeipovS Xkycev nal
ipcxpovS ov8lv navet coS nepl xovxcoy rpiiv dvxa xov Xoyov.
StotyopkyovS dhiScev av xiS. Bekkerua pro av, quae omnium
librorum lectio est, av in ordinem verborum recepit. Eum secuti
sunt Astius et Din- dorhus. Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog
«vrinv yiyvv/isvog ngcorov pev vovv fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav
koycov, inuta ftu- otdtovg xal nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg
E%ovcag zcd Ini TtktiOtov ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov
ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu, xcdco xayadqi iOECidcu. Tavt’ istiv
, « avdgeg , a lya Evxgdr-q incava’ pcv particulam etiam eo
nomi- ne improbare, quod, si eam exhibuisset scriptor, alio loco
po- puisset : 8iozyo/.iivovs av idejy. Male autem {Scov av
ex- plicat : idv TiS I8y: si quis forte viderit. Nihil enim
certius est, quam IScjv dv idem significare atque el fdot dv,
quam dicendi formulam frustra negantur scriptores Graecos interdum adhibuisse,
Alio tempore explicatius de idv TiS fd#, eI tiS I801 dv, Similibus
dicendi formulis discemus, nunc hoc tantummodo an- notare iuvat , eI
particulam cum optativo et ay coniungi, ubi heri aliquid pouitur,
quod vix heri possit, et quod si fiat, ex insperato accidisse
putatio dum sit. h# 1 irroS ccvzgjv yi- yvopEvoS. Haec
verba Schlei- ermacherus convertit: Wenn sie aber eiuer geoflhet
sieht u n d inwendighineintritt. Hecte quidem verba Graeca conversa sunt,
sed haec ipsa vehementer dubito, num bene se habeant. diotyojxevovS participium
satis docet, Alcibiadem ad Silenos respicere in artificum officinis
collocatos, Iam si quis (jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri,
epistomio ab utrius- que lateris foramine remoto ad alterum foramen
propius acce- debat, non in concavum Silenum descendebat ;
scribendum Igitur videtur esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy yiyvojievoS. De
ivtoS , iyyvS , al. saepissima in libris commatatione vide aunotat. p.
122, fiOYOVS evpjjaci TGOV X6ya)v. MuvovS Statlbaumius
eodem modo dici censet, atque p. 215. C, pova HaTExzGSoti ItoiEi ,
h. e. eximie. Sed vide annotat, ad haec verba p. 341. Hoc potius
Alcibiades dixisse censendus est: Solum Socratis sermonem in se habere, quod
vodv h. e. iutelligentiam fere divinam prodat. Quod ita dici ab
Alcibiade nemo mirabitur, qui quidem legerit, quae p. 215. D. et E»
de Socratico seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus ad- ditum censet propter
oppositio- nem sophistarum, quorum ora- tiones extrinsecus quidem
splen- deant , magnamque veri speciem prae se ferant, intus autem,
si quis accuratius exploraverit, omni veritate careant. Dubito,
num hac ratione ivdov vocabuli po- testatem satis recte
explicatura habeas, "Ev8ov potius additum, Ut lector moneatur
significantius, sermones Socraticos cum Silenis comparari, qui in
artificum of- ficinis sedentes intus in se simu- lacra recondita
habeant deorum. pdXXov 8 e . MdXXoy 8e eius est, qui
arctioribus finibus circamscrih^t, quae proxime prae- i
by'Cyo<j[c zrMnosioN . 'acu ccv, 8 (lificpofifu <Svf
lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e. xal (dvtoi ovx Itis fiovov ratha
nsxolrjxev , alia xa i XccQfildtjv rov riavxuvos xal EvftvSr]fiov rov a
ho - xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov c5g sgaGTrjs
xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’ Iqu6tov. a 6rj xal Ool Isya, a
’Jyd&cn>, fitj locata- cedentibus minus accurate
erant atque latius patentia enarrata. Vide annotat, p. 15. tavx*
£dtlv y qj avdpeS — v (5 pld ev* Vulgo iuterpun— ctio comparet post
pipqiopai, quam BekJcerus iu textum rece- pit, Stallbaumius
delevit, Riicker- tus post dvppi£>aS transponen- dam curavit.
Nos et post dvp» pl&<xS et post av 3 quod cum in- aequente
eluor arctius coniun- geudum est , comma ponendum curavimus. Sensus
est: Haeo sunt, o viri, quae mihi iu Socrate laude uda
videntur et rursum dixi vobis, laudationi vitupcrium adjungendo, quanta
superbia necum egerit. Quam Wolfins foci interpunctionem pro- bavit
: a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa t xal av a pkpcpopai. tivppl&ctf
vfiiv eItxov , a pe vfipidav , ea ne rectam quidem sententiam fandi
t. X a ppiSijv rov r\av - xcdvoS. J)e Gharmidc.
Glauco** uis lilio, vide Plat. Charmidem p. 154. seqq. , p. 157.
seqq., Xenopb. Memor, III. 7., Sympos. III. 9-> IV. 29. coli.
Wytten- Lach. ad Select. Princip. Ilistor, p. 411. Iuvenis fuit et
genere nobilissimo Gritiarum oriundus et praeclara animi indole
praeditus. Enthydemus intelligitur Dio- clis filius j idem est , qui
cum Socrate colloquens inducitor apud Xenoph, Mera. IV. 2.
40* Male eum Wolfius confudit cum Eu- thydemo Sophista, cuius
nomine Platonis dialogus Euthydemus in- scriptus est. Stallb.
itaiSixa fiaXXov avr of. Socrates hominibus pulcris ita
insidiari solebat, ut eorum amore captum se simulans ipsis
vehementissimum amorem iniiceret sui. Respicitur ad hanc rem iu
Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS tovxoiS psvxoi toSe XeyG i, oxi
XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo 6]pjltu % g3 2<nxpocteS , ro plv
dor £y<v , dv Sk xovpov . ov yap Idxiv oncoS ov itaidaya)-
yijdco ds ano xijsde trjS rjpi- paS, dv 6* vit * ipov itaiSa-
yayrjdEi. 2. yevvale , ice- Xapyov apa 6 ipoS ipnoS ov- 6lv dioidei
9 si itapa dol £v- VEaxxtvdaS tpeoxa vitoitXEpov vito tovtov Ttakiv
$Epa7tEV- dsrau / a 8?j — pr) £Za7tata- d$ai vico
tovtov. Bodle- ianus codex, in quo interdum manifesta indicia
correctoris nou indocti reperiuutur , ttiaitaxa,- dSe exhibet ,
quod quamquam aptum est et bonum , tamen recte postponitur lectioni
vulgatae. Per epexegesin enim pt } iZartaxadSeii verba praecedenti
relativo pronomini apposita sunt, idque genus dicendi , quoniam
i jiaathnoz raO&cn vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav
Tca&yfiu- xav yvovtct tvXaptj&yvai , xal (itj xotzd vqv
71uqoiuluv, SgitEQ injTCiov, xu&bvrci yvuSvat. Cap.
XXXVIII. C Ehtbvtog Srj xccvvu xov 'Alxifhudov , yikma ys- vlaftcu
Ini xy na^Qyisla ccvxov , on idoxei in Igco- xixws i%uv xov Suxquxovs.
xov ovv Eaxqccxij, Ntj- suum quoddam pondus habet, Graecia
adamatam est magno opere. Eius ut unam exemplum alleram, legitur io
Sophocl. An- *ig. v. 446. 8v 8’ tini poi pfj pijxoS j
aAAd dvvxopa ySyS xd xrjpvx^ivxa , prj npatfaetr r a8e ;
Ceterum quod relativum prono*, mea attinet, quod ad praecedens
tia semper refertur secundum praecepta grammaticorum, prae- clare
Stallbaumius annotat, ad b. 1. Plene, inquit, Alcibiades dicere
poterat sicj ex quibus quae consequuntur, ea etium te moneo,
videli- cet ue ah hoc decipiaris, oxctxd rtjy TC a p oiplpr.
Respicit Alcibiades ad Hom, '11, XYIJ. v. 32. et XX. 198.
aXKd d’ iytuy dvaxooptj* davxa xe\eva> IS nXr/^vv
liycu , pt/8’ mV- xioS tdxad’ i/tuo nplr xi xaxdv naSietv-
fie- X$tr di xe yi/nios lyra, $cho]. nd Ii. 1. annotat; fiexShr
Si Xf. vyttiQf iyvay ini reo r peia xu naSelr dvviivxajy xd
apaptrjpa. figd xd avxd txipu papoipia' d «Atetifr n Ay- yeis y ovy
ipvdft. qxxGt ydp aXiia ayxidxpevorxa, inei~ Sdy dnddtp xo 5
A Ivoo xov ix$vv, xtf x n Pl npotayaydvxa xaxi- Xeir , ira prj
<pvyg . xvvxo 61 dvrtjSatS noiovyxa vno dxop- xtiov icXr/yrjvat'
xal tine onXti- yels yovv cpvdetS, xal pr\- yixt npoSayeiy ig
ixetvov xtjv Xtipa. — "E<Sxi xal xpixrj opalo- idv prj
naSyS, ov prj p a- Sr/S. iXix^t/ 61 ini Tipatrof Xov ptdavSptdnov
ptjxhi npoS- tepirov x ovi xoXaxaS, Apud Hesiodum legitur, quod
propius etiam videtur ad Platonis verba accedere Opp, 216. naStdy
Si Xt vr/moS lyvat, ini xy nafi/tr/dlce av- xov. Ipse
Alcibiades p. 217, E. xd 8' ivxtvSttv , inquit, ovx av pov
tjxovdaxe XiyovxoS, el ptj npdxor pb> xd A eydpeyov ol- yoS avev
xe nalScov xal pexa naiSatv r/v dXt/Btjs, quibus verbis napfttjdiay
excusari mani- festum est. xdy ovv 2<» xpdrijt Mira
arte , quae sequuntur, excogitata sunt atque praecedentibus an-
nexa- Etenim cum orationem Alcibiades finiisset^ quae ingen- tem
cautineret Socratis laudem, fieri non potuit, quin Socrates aliquid
responderet. Exspectabas urio fer« quid responsurum esse, % m q>t tv (ioi tipxs Ig,
tpavai , <o ‘AhufiiaSri’ ov yctg Sv nors ovza xouipcSg oxvxXty
X£QifiaU.6[isvog utpavloai ivt%siQu; ov evexa zavza navza dgtjxag, xal
cSg tv uaQtQycp drj Uyov ixl zetevpjs avxo Edjjxag, tog ov navza
zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai h fya&ava tiucpaXluv , olofitvog
deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs- o vog allov , 'Aya%ava 6'i vxo Oov
iguodai xal ftijd’ i(p' tvog aU.ov. alX’ ovx tXadtg , akla zo
UazvQixov quale, qui laudantur, edere so- lent, modestiae
documentum. Id si Socratem proferentem indu- xisset scriptor,
verendum 6aue erat, ne rerum ab Alcibiade ex- positarum fides
imminueretur vel vis atque vigor infringeretur. Contra si nihil
respondeutem fe- cisset ad laudes illas , neminem esse arbitror,
qui Socraticum si- lentium non superbiam et arro- gantiam sit
interpretaturus. Ne igitur ad laudes Socrates respon- deat atque ne
superbire videatur, finem Alcibiadeae orationis ag- gredientem
Piato fingit, atque a laudatione animos auditorum fe- liciter
deflectentem. Qua ratio- ne id fiat, exponere nolo} ipsi lectores
verba examinent, stu- diose singula expendant, Plato- nisque
artificium, quod ipsi de- prehenderint perse nserintque, ad-
mirentur. ovx a xopip 00 ^ h. Stall- baumius inquit, tam
scite artificiose. Idem xo/iqfrev- e6$ca rectissime annotat. ad Piat,
de rep, IV, p. 4 36. D. de ora- tione festiva , arguta et ad ca-
piendos auimos auditorum apta interpretatur Timaei laudans L, V.
Pl. p, 154. seqq. Verba *«- kAo>7 nepifiacXXopevoS esse docet
multis orationis ambagi- bus usus. Fortasse ad Alcibiadis verba Socrates
respicit p, 215. A. iav fUvxoi dvajJtipvTj- tixopxvoS aWo aWoSev
XSyco, fiTjdlv SavpdtiyS' ov yap xi fipSiov xrjv (??jv axoxiav
gj< 5 * ftovn evnopooS xai itpeZrjS xa- xapi%pij6au De
a<pavi6ai ver- bi potestate supra dictum est an- notat. p.
561. x.al cJ s iv itaptpyop tdi} particulae ironicam
significationem. de qua vide Indices s. v. 6rj, etiam ex hoc loco
cogno- scere possis. Sensus est ver- borum : Et scilicet
quasi praeter propositum at* que consilium tuum, r ov
ipl xal 'AydSoora § iap aWeiv . cfr. Piat. de. rep. VI. p, 498. C.
firj 6ia- fiaX\e, jjv 6* lyw, i/ih xal Spa- Qvpayov apxi (plXovX
yeyovo- xaf, Qvdfc Ttpq % ov i%$pov$ ortas, oiofteros
6elr tfil. D. (Uiv verbi potestate supra dictum est annotat, p, 12.
Non sino acerbitate hoc loco positam est, simulque vanitas opinandi
Alci- biadea perstringitur: indera du dir einbildest, ich miisse
uuura- giinglich cet, Prorsus eodem tpodo Alcibiades paullo infra
p. 222- E, oiexai pov 6elv nav- raxi KBpuwccu \
.* I Oov dQC!(ia tovto xal OeiXrjvixbv xataStjkov lyivEto. '
bAA’ , tJ <plle 'Ayaftuv , fitjdlv ‘nUov avttp ytvrjtai, «AAa
naoa<S>isva£ov , oxag ifih xal al [lydels 6ia(id At; Tov ovv
Ayd&uva. tlmlv , Kal firjV, i b ZdxQatEq , xiv- dwt vug cckrj&rj i.tyuv
’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xate- E xltvrj Iv pii 1(o sftou rs xal tSo v
, Zva %aq\q jj/iag 6iu- JLufiy. ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd
xagd dAAa ro Sarvpixdv 6ov 8 p a p a tovto xal
SeiXtjvixoy . Recte intelli- pet haec verba qui meminerit, non nisi
ante actis fabulis tragicis Spapaxa 2atvpixa edita esse. Duo autem sunt,
quae iis commemoratis Socrates reprehen- dit. Alterum, quod in
fine orationis Alcibiades posuerit ea, quae primarium locum
obtinere debuissent, si apertius sensa sua ille depromere
voluisset. Alterum , quod Satyri Silenorumque comparatio ea taatum de
caussa instituta sit, ut orationis finis Alcibiadisque consilium
facilius tegi possit atque velari. Satyricum illam poesin quod
attinet, apud Zenob. legitur: tqvS Sazv- povSv6TEp6v 28o%tv ccvToiS
npQ- EtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy liti- \avSavE(5Sai t od $eov.
Probat hanc sententiam Wachsmuthius in libro: Hellen.
Alterthumslr. II.2. p. 412. : Ais die Tragocdie des urspriinglichen voti
Dionysos haudelnden Inhalts sich entdussert hatte, und wie eia
freigewahltes und au den Dio- liysosfesten nur ausserlich hinzu-
gefiigtes Kuustgcbilde erschien, vrurdp, man mogte sogen aus ei- ucr
Art von religiosem Bedenken tmd zur Eriuneiung an die an*-
fftnglichc Beschafienheit des Chors das satyrische Drama
eingefiihrt, das freilich rait seineu StolTeu auch nicht nuf
den Kreia dio- nysischer Mythen beschrankt, und dessen iunerer Ton
und Haltung tveder von dem tragischen Ernste noch dem komischen
Scherze streng gesondert war, dessen ei- genthiimliches Weseu daher
wohl nnr in der Wiedereinfiihrung des ehemaligen Satyrchors zu
suchen sein mochte. pTjdlv itXkor avTQj yk - vrjxai ,
h. e , Stallbaumius in- quit, opa, pt) te TcKtov avTGj ykvijrai.
Dubito, nui n hao ratione veiba recte explicata sint. Scriptum
certe exspectaveris : pt/- 8lv tc\Lqy atheo ykm/rai, xal
xapadxF.vdctov , oizgdS ipk xat Ce pt/SsiS 8iafid\y. Non recte enim
in eadem enuntiatione consociari videntur opa — d A.A. d
itapaCxeva£ov> Mj/81y — yk- vr/xai in eum potius cadere videtur, qui
suarum rerum certissimus eloquitur, quod non sit futurum: Oewinn soli er
da von tilcht huben, \ Zvct x&pl* vpds 8ia- Xdfty, Dictum
hoc eleganter cum amphibolia qqadam, ut et de spatio possit
cogitari et do animorum disiunctione, Stallb. a\X’ ei pt/ ti
dAAo, g5 $ avpaCiE, Alcibiades cum Socratem se potiorexn esse
anim- adverteret in capiendis homi- num animi;, oj SavpdCu
op- ztmiiozion fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai. Tlavv yi , <pavcu
rov Ha- XQattj , Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv , cl~ mlv
rov ’AXxi(iiadt]v , ola av na<S% co vxo rov uv&q<6- jcov.
o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl (itj n aXXo , o)
&avuc((hE , Iv pioco rj(i<av tu 'Ayu&avcc xataxslo&ca. 'A
XX’ aSvvazov , (pavae, rov JkaxQanj. <Sv filv yccQ lui httjVEGas
, 8b t fi’ i(i's av rov Ixc dt^ta pellatione usus est, cnias
po- testatem aut non explicarunt in- terpretes , aut non satis
recte* Gav/iageiv verbum haud raro ita adhibetur, ut rem
magicam significari indicetur. Sio in Ari- stoph. Nubb. v.
180. ri 6t/t* ixetvov rov QaXrjr Sav/HxZojxev 5
De Thalete praestigiatore sermo est, quem axpov pr\xavix6v vocat
Schol. ad hunc locum. Gav- fiaxa praestigiae sunt. cfr. Plat. de
rep. VII.p. 514. B. xap* 7jv (sc. 060 ^) TEtxlov ita -
poDxodoppjnirov y coSTtep xolG $CtVpaTQ7tOlOlS 7CpO XCk)V
CLV- $pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa - 1 ppaypaxa , vitlp gov t a
2av- paxa SewvvaGiv. Sic etiam, opinor, SavpadioS hoc loco ita
ab Alcibiade adhibetur, 'ut prae- stigiatorem significet Socratem,
quippe qui mira arte hominum animos deliniat atque vel nolen** tes
ad se trahat. figi 5* ij.th av rov iit\ 8 b£,zol. Vulgo avxov
legitur pro av xoY, quod de Bekkeri coniectura hodie omnibus
probatur. Patet autem, a principio ita consedisse Agathonem atque
Socratem, ut hic ad Agathonis dextrum latus cubaret. Alcibiade
accedente, quem medium inter utrumque consedisse rrperimus, ordo
hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus consedit Socrates, ad sinistrum
Agatho. Iam cum laudasset Alcibiades Socratem, et hic quidem
Agathonem iuxta con- sidere iussisset, patere opinor, ad dextrum
latus ipsum considere iussisse quippe hominem lauda- tione
ornaturus. Iam iutelligitur, «juid verba significent iv p&6a»
7JJ.IUV, Rogat enim Alcibiades, ut Agatho ad sinistrum latns
Socratis considat, quo facto ille medius inter Alcibiadem atque
Socratem consideret. Ilaic Socrates: Vellera quidem, inquit, tibi
obse- cundare, si possem; sed non possum ego. Etenim me
laudando tu, qui es magister bibendi, legem edidisti, secundum
quam dextrorsus alter alterum laudare debet. Necessitatem igitur
milii impo- sitam vides Agathonem laudandi. Iam.si medius
inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum abiret. Sed non
sperandum est, qui modo a te laudatus sit, eum alteram
laudationem ex Agathone auditurum esse. Sine igitur, Aga- tho
ad dextram iuxta me considat, eiusque lauda- tioni ne
invideas. QV 6?} 7tov i fih za\iv iitatv i (Sex at. Supra
diximus *\ (o ixaivuv. tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav ,
ov 6rj nov ifih Ttctiw Incuvidtrox , nglv in’ tfiov (iaU.ov
inaivt&ijvau aM.’ EaOov , d datfi6vis , xal [l t) <p&o- S33
vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal yag naw
iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov , cpavat rov ‘Jya&ava, 'AXxifiuxSrj
, ovx Ead’ onag av Iv&ade (tilvaifu, akka neturos (ia?.lov
fiiravaetTjOofiat , Zva ino JEaxgaxov g Inaivs&a. Tath’ bulva ,
(pavae rov 'AAxipucdrpv , ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog rem
da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica- dis fortunam commiseratos dltione
annotat, p, 98. Provocat xisae videri possit: Wchc, vrehe, entem
plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier dicium, qni his
voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um ita, ut rem extra
dubitationem alles den Platz wachseln , damit positam esse una significet.
Jif Socrates mich lobt. Diilicile est eutem voculae irouica potestas ad
diiudicandum , utra explicatio satis manifesta est converti con- rectior
sit. Hoc unum certum tra eum, qui forte, quod certis* est, contra
Alcibiadem haec omola simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si
commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam
veSijvat positum cohaeret cum laetitia Agathonis , non dubium dicendi
formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit eius esse, qui
ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia, xavxct ixeiva — ra
tlao- Sora, Diximus de xavxa i - XEiva verbis annotat,
p.309., ixeiva autem dicitur, quia ad aliquid plerumque, quod prius est
cum acerbitate respicitur, curavimus licet commate sequente; ea enim vis
est syllabae finalis , quae accentus vigorem paullisper infringi non
patiatur. , % , IOV iov Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov,
quorum animus subito com- 0 ^ cctzoXqoXexev . inoretur,
laetitiamque non mi- Sed perrara sunt xovxo duplici- nus , quam
tristitiam exprimit. ter positi exetppla. Aliqua eaque Interpretes
laetitiam iov iov vo- perpauca exempla Matthiaeus lan- culis Agathonem
prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471. 11. trantur, neque nos huius
expli- p, 874. Ceterum non diu quae- catiouis veritatem negamus : hoc
renda fuit vernacula dictio, qua- tautummodo contendimus , etiam cum
Graeca verba comparare posde contraria animi commotione sis : Da haben wir das
alte Lied. boo loco voculas accipi posse, Satis trita haec hominum
iuferio- quatenus quidem Agutho Alcibia- rem ordinum locutio , cui
eadem l Ad praesentem rem respicient Strepsiades in
Aristoph. Nubb. v. 26, ait ; supra annotavimus p. 15. Couvertenda
igitur verba sunt: ante quam a me potius (rectius) lau- datus sit.
' iov iov t tpdvai x 6 v 'AydSaova, *lov scribendum
xaldiv petaXafciv dSvvcnov Skhp. xai vvv , tj? evao- qo£ xal
niAtavwi loyov evpev , ogTB n cap uwr<p voviovi xaraxeuS&aa. Cap.
XXXIX. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog xtctaxuOoptvov stupa b ta
HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s xapcttitag ryxuv scap.stoD.ovg
ixl rag fhjgag , xal ixixvyfivtuq avtaypi- vaig, kfciovtog uvog tig to
uvtcxpvq, scoQtveti&at scapi atque Graecis verbis ironia
ple- rumque admixta est. ojS evitopcj$ xal itt vov
Xoyov . Duo suut, quae miratur Alcibiades , unum , quod tam facile
rationem invenit, alte- rum, quod tam probabilem et ad persnadendum
aptam. Riickert. Tov plv ovv — i£al- <pvrjf. Supra iam
diximus anno- tat. p. 318. de artificio, quo ad- hibito scriptor
noster, quae su- bito gesta esse narrantur, noa solum igacicpvTiS
vocabuli usu exprimere, sed actionum felicis- sima iuuctura
legentium oculis quodammodo exponere soleat atque vividissime describere.
Sio cap. XXX. initio legitur: e/- novxoS 61 ? ravta tov
2ojxpcc- rovS tovS jxlv inaivetVf tov 6& *Api6To<pavrf
Xkyeiv tl liztxet- pelv , oti ipvtj6^Tf avrov \£- yoDV 6 2ooHpd
T7/S izepi tov Ao- yov , xal iZaitpvTjS %. r. A. Eodem modo hic
lB,cd<pvr\S vo- cabulo actionis alicuius narratio praemissa est,
cuius exitum eodem studio , atque illic Aristophanica verba,
lectores prosequuntur: cum subito factum esse commemora- tur, quod
illius actionis tenorem illico interruperit. xoifiatitdf
Ijxeiv TCajjt - froAAovf. Grex comissatorum nemine
vocanto poetae cabicaluin ingressus incredibiles turbas excitat
ordinemque omnem convivii pervertit. Noli mirari, quod ali- qui
ipsi se iuvitasse narrantur atque non vocati multo cum strepitu in
Agathonis domicilium' !r* rupisse. Lenaeis enim Dionysio sacris
vino solebant largius se invitare homiues , ebriique per plateas
vagari atque intrare, ubicunque fores adopertas reperi- reut, Neque erat,
qui liuius rei miraretur insolentiam. Viui enim hausti virtus haec
est, ut homiucs cum hominibus arctius coniungat, omnesque sibi amicissimos
reddat. Adde Agathonis liberalitatem, quam qui norunt, eo minus
dubitarunt invocati eius domicilium adire. £B,ioytoS tivoS xo
&v nxpvs, ico p ave 6$ at. Cum aliquis eorum, qui apud
Agathonem essent, exire vellet, pessulo re- tracto fores aperiebat,
atque per ens iam exiturus erat, cum continuo turba comissatorum intro se
coniecit. Dubitant interpretes, utrum ad sequentia an tui
praecedentia referenda sint verba eis to avTtxpvS. Sohleier-
machcrus exhibet in conversione: iodem einer hinaosgegaogen ih- 6(pag xal xataxXivtG%ai , «ai dogvflov ficata
aavza elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl avayxa&G&ai. nl-
vuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv , EgvlLy.ayov xal tov OaldQov xal
aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios oi%eG&ui aiubvraq , 2 <5 e
vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv navv xoXv , ats fiaxguv uov wxtuv
ovabav, l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav fidi] aXixxgvbvav aSov- tav
l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg xa&evdov- nen entgegen, waren sie einge- drungen.
Apud Ficinum legitur: nam pauIlo ante quis coutra exierat. Stnllbaumius
contra elS z 6 dvnxpvS cum TtopeveCSai con- jungens verborum sensum
esse ait: recta ad ipsos accessisse, quod explicandi genus minime
probamus, neque placet, quod exhibuerunt, qui paullo supra laudati
sunt. ’EZi6vroS nvoS eis to avzixpvS imaginem proponit
comissatorum, contra ni- tente eo, qui iam exiturus erat, aditum vi expugnantium»
Comma igitur, quod Riickertus post i%idvzoS TivoS ponendum curavit,
recte expunxisse nobis videmur. dvayxd2e6$ ai ziveiv na
pitoXvv olvov. Frustra subiectum quaeras, quod ad d~ vayxaZeGSai
referas ; quare Rii- ckertus auuotat. ad h. 1. explicandum esse censit:
Se et reliquos cogi coeptos esse. In recta, inquit, oratione avay -
9ide}£6$ai foret rJvayxaZopsSa, Non se enim solum intelligere
Aristodemum videmus ex eo, quod aliorum statim mentio fit ita, ut
lioc quoque ad eos pertinuisse appareat; de solo coepto accipi-
endum esse item docent sequentia, ubi, quibus quisque viis necessitatem aut
eviturit aut pertulerit, edocemur.
Rectior loci explicatio haec est: avayxa- &6Sai verbum
absolute positam est, ut idem fere significet atque dvdyxyv elvai.
Haec bibendi nova lex quibus displicebat, ii clanculum abierunt,
quod moneo, ne quis forte Ruckerti sententiam probet censentis : de
solo coepto dvayxd$e6$ai verbnm accipi- endum esse. rov
p\v ovv 'Epvgipa- XOV . Eryximaehum et Phaedram recte scriptor abeuntes
fecit. Conf. verba p. 176. D. /pol plv yap 8rj zovzd ye olpai xaza-
SyXov yeyovivai ix zijs latpi- xijS , ori r oiS av^poS- icoiS
y piSy i6rl' xal ovte av- zoS Ixcjv elvai noppaa iSeXy- 6ctif.n dv
itieiv , ovte dWoo 6vp- ($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal xpai-
TtaXaivza Izi ix zrjs nporepalaS . 9 JXXd pyv, £<py cpavai vno\a
- fiovza $aZ8pov rov Mvfifiivov- 6iov , iytayi 6oi etoSa nei-
$e6Sai ze xal azt r av ftepl iatpixijs XlyyS. dttiovz
at , 5? dfc vtcvov Xafieiv, Vulgo legitur uitidv - zas oUxaSe
vtcvov Xaftelv, Opti- mi codices illud habent. Ut iuter se
conciliaret utramqne lectionem, Comarius scribendam coniecit:
aniovzaS oixade , ,2 vtcvov Xafleiv. Sed verisimillimum vi- detur,
olxa8e glossema esse, quod ras xal ol%ofitvovg , 'Ayaftava 8s xal
'Agiotoipavti xai 2-axQdtrj In fiovovg iygrjyoQtvai , xal nuvtiv ex
qnulrjg [leyubjg ini da| ia. rov ovv Hay.Qazrj aviolg HialeyeG&cu.
xal ra ixiv ulla 6 AgLGroSrjfiog ovx iqyq (isfivi}6&at. rcov loycov
ovre yag t| ag^ijg nagayevi- tfOttt , vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi
xeqxilaiov Etpij, 0 mgogavayxa&iv rov Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig,
rov tcvrov avdgog elvca xofiipSiav xal tgaycpSiav ini- sciolus olim
margini ad scripserit, videlicet ut intelligerent lectores,
Eryximachum atque Phaedrum •ivisse domum. axe paxpcov rcor
rv- xxoor ovdair. cfr. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 2,
au Zev ftadi\e v, x 6 XPW a TGJY VVXTQdV
06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6 pa- pctxoS dvredtaA^ai xaS
rvxraS avayxrj 6ux to xoiovxv xcnpcS xmoniitteir xd Aiorvdta.
t/Stj dXexx pvo va>r ddor- xcor. Haec ut recte intelligantur,
tenendum est, incolas terra- rum versus Orientem sitarum ante solis
ortum exsuscitari solere, qui gallorum gallinaceorum cantu
iudicatur. cfr. Aristoph. Nubb. v. 4. xal pr\r TtaXai y dXexxpvo -
ros jjxovd ’ iyoj' ol 6 olxixai fiiyxovtiiy Igitur tardius se
surrexisse Ari- stodemus narrat, utpote qui, cum galli gallinacei
iam cecinissent diesqne illuxisset, somnum expulerit.
iZeypoperos di idelr. De nominativo participii vide an-
notat. p. 22., qua explicatum reperies, cur participii structura non ad
praecedens £ pronomen directa sit. Positum autem illud prono- men
est, quod obiectum est, non aubiectum enuntiationis»
xa^evSovtaS xal olxo- filr ovS. Fipinus, quem receu- tiores
interpretes omnes secuti sunt, verba convertit: Somno ex- citum
invenisse, quod alii quidem partim dormiebant partim discesserant. — Qui
sciunt, quum saepe xai et ?j in libris commutata re- periantur
propter scripturae com- pendium, quo alterum vocabulum ab altero
interdum vix dignoscitur, nimiae audaciae eum non accusabunt, qui forte
scribendum censuerit : xaSevdorxaS rj ofro- jxevovS. Cogitari potest
etiam xai prima xaSevSorxaS participii syllaba Absorptum esse, ut
integra verba audiant: xal xa$ev8or- xaS xal olXouirovS . Sed
nihil mutandum videtur. Praecedente euim personarum
distinctione, Graeci quippe orationis leniter ac leviter
procedentis studiosi actio- num distinctionem non admise- runt.
Quam si addideris, vah, qnautum morae verbis inferes! *Ay a5
cor a xai ' 'Api - 6 x.o <p a rrj xal 2. Egregie haec
Socratis temperantiam , moderationem et constantiam de- clarant , qui
quum per totam no- ctem cum hominibus epularum amant issimis
bibisset, tamen sobrius neque vino vigiliisque con- fectus a convivio
discessit. Ne talia quidem negligenda sunt iis, qui de dialogorum
Platonicorum <Sxa6dai stoieTv, xal xov xtyyr) XQayuSonoiov ovxct
xai KU/iuSonoiov tlvut, xavxa dq dvayxa£ofievovs ccvrov$ xal ot5
<S<po8Qa faopivov$ wOt xal hqcoxov ftev xaxadaQ&eiv xov ’AQi6roq>avri,
^8r/ 81 Tjiiegag yiyvo- (jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv ZaxQaxt]
xcczaxoLfirj- davx’ ixetvovg, avaiSxdvta aicdvai , xal avtog &
gittQ eludet, foetidat , xal eXdovxa elg Avxetov , axoviipa-
ftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav diaTQifhtv, xal o vra
StaxQhpavta elg ttixigav olxoi avanavetidau argumento et consilio
prudenter iudicare volunt. S t a 1 1 b. xa> ptp Siar xal
xpaytp- Siar initixatiSai noielv. Facillime intelligitur, qui
factum sit, ut de hac materie Socrates disputarit. Ipsa Lenaea
aasam dederunt de poesi ac de variis eius generibus disserendi, et
quum Socrates cum Aristophane disse- reret, comico poeta suae
aetatis celeberrimo, et cum Agathone, qui tragoediarum granditate
nobilem se fecit, colloquium quasi ultro eo delatum est, ut
inprimis de tragoedia atque de comoedia quae- stiones
instituerentur. Ceterum frustra Stallbaumius eorum sen- tentiam
impugnat, qui e Schol. ad Aristoph. Ran. v. 84. aliisque locis colligunt,
Agathouem non solum tragoedias sed etiam comoedias scripsisse. Nam
quod etiam Agatho hoc loco narratur Socrati oblocutus esse
censenti, et comoedias et tragoedias posse ab uno eodemque poeta
scribi, id Iride , ne parum validum rei argumentum sit. Quid, si
Agatho comoedias scripsit revera, quas ipse tragoediis a se
scriptis multo deteriores esse intelligeret, nonne fortius
potuit quippe experientia doctus Socraticam illam senten- tiam
impugnare ? x p ay gj$ oit oiov ovxa xal x a pu>8on oior
elvau Vulgo TpayGoSionoiov et xgo/zco- SzoffotoV, quae formae ab
At- ticorum usu alienissimae sunt. Moeris habet :
xoDpcodoitoioS' ! 'Atxixg xcoptpdiojzoioS' 'ivi-
\7fVlX(k>S> xal avxoS , toiitep slco- Sei,
exedSat. cfr. p. 173- B. xapayeyorei 6* iv xjj tivrov - 6 i(f
2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv toti /uxAtdta xdov xoxe, gJ S ipol
6oxet. xal ovxa eli Av - Xtiov. DE LYCEO, GYMNASIO extra
urbem sito vide Wucbs- muthii librum ; Hellen. Alterthumsk. II, 2. p. 56.
Ibi Socra- tem versatum Stallbaumius an- notat propterea , quod
sophistae in eo scholas habebant, quorum inscitiam solebat
couviucere , et quod plurimos illic adolescentes nansciscebatur,
quibuscum sermo- nes instituere posset. EXCURSUS Scribendam
confecimus p. 179. C. : xa\ xovx* ipyatictpivTj r<> ipyov ovxcj
xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov dr^pcaxoiC, a XX a kolL Scois , goSxe
noXXdav itoX Xa -noti xaXa ipyadctplvwv evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav
xovxo yipaS ol 3eol, IB, AiSov nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv
ixeiyrjs ctveitiav avay~ xad$krx e £ tgo Ipyco. Ad haec verba
Scholiastes annotat : *AXxrjdxiS 7 } IleXiov Sv- ycexrjp vnopcLvatiot
vn\p tov l8iov av8poS XEXsvxydoct 'HpaxXkovS lni8r]pi)davroS iv ry
©ExxaXin. Stadco^sxai fiiadapkvov xovS *5o- viovS SeovS xal dcpeXofiEVOv
xrjv yvvaixa. Hic mythus veras esse videtur; quod Phaedrus dedit, mythi
artificiosa interpretatio est. Vix intellexit autem Scholiastes , quam
utilis ille mythus faturus esset explicationi verborum supra laudatorum.
Confirmat enim fiiadapkvov participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem
au- tem quod attiuet , doceri possis herois mentione , quomodo olim
populi mythos genus hominum eruditius interpretatum sit. Recte nobis
annotatione p. 71. indicasse videmur: Phaedrum hunc mythum pro consilii
sui ratione ita interpretatum esse, ut Alcestidis virtutem cum Herculea
virtute compararet, alteramque Alteri substitueret. Quo cla- rior
res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in artis operibns haud raro
eruditorum , quam populi iudicium secutos esse magis, AMORIS imaginem gemmae
incisam infra addendam curavimus sub Nr. I, Petita haec imago est e
Winckelmanni libro: Monumens inedits de l’antxquite Tom. I. Paris. Pellis
leonina, qna Amor indutns est, et clava, quam gerit, Herculis insignia
sunt. Claves quid sibi velint, iam videamus, Winckelmannus I. 1. p. 200.
haec habet : L’Amour portait ces cies ou pourouvrir qtfer- mer a
son gre 1’appartement de Venus, ou pour de- signer les plaisirs, dont il
etait le dispensateur, On peut-dtre aussi pour faire al Iasion aux cies
portes» par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil in nostram
26 f ' X *o t ~ . imaginem cadif, qnn«
audaciam, constantiam, duritiem, non dnlce* risn» Cupidinis prodit.
Rectius igitur « laves gerere AMOREM censeas et clavam et leoninam
pullem, quod Herculea vi inferos deos cogendo Orci p u r t n s
recludit. De altera, quam apposuimus. Imagine Winckelmannus sio fodicat :
Cette pierre gravie reprisente un petit amour avec un Jiam - beau allumi,
hatant sa marche pour embrasser un jeune homme extriment afflige , et
dunt on aperpoit lea efforts pour fuir . Cette al ligor ie peut
assur ement a' interpreter de diverses mani eres , et prepare des torturcs a
Vcaprit des savans , Pour moi 9 j'y vois tout simplement l'
expression de la passion de V amour dont le disespoir est temperi par un
rayon d' csperance* La jeune homme, abandonni par l’objet de ses tendres
affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au , dont il s ’
enveloppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de son
corps plii en avant etait , selon Aristophane Lysistr. r. 1002, propre d
ceux qui, marclrant la nuit , portaient une lanterne , et tachaient d ’
empecher le vent d J en eteindre la lumiere, Le rocher, qu'on
aperpoit, devient le symbole de V expedient 9 qiCil a choisi pour se
donner la mort. Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir , L’Amour
en arrete /* ejfet sinistre en faisant briller Vcspirance d ses yeux ;
son Jlambeau allumi de- vient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui ,
blessee par V Amour, va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour
elle. Les deux passions contraires de V espirance et du desespoir sont
designees dans ce jeune homme , d*un cote, par V attitude de son bras ,
qu*il tient iloigne de son visage , et de l ’ aut re coti , par son
second bras , qui embrasse V Amour. Habet haec huius imaginis
explicatio, quo admodum sese com- mendet. Quaeritur tamen, num
infertilissima illa rupes non etiam de vilitate unius rei amoris
intelligi possit; fax certe elata et me- dia in imagiue posita non spei
solius symbolum est, sed etiam my- steriorum, Iam cfr. p. 209, E. Tama
p\v oZv x a. Ipooxixa tdaP, gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea
xai litonrixd, cov evena xcri xavxa Zdxiv , Iav xiS opSaiS per ovx 016’
el oloS r* av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo
itpdypa apx^d^ai pkv vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpco
- xov phv, iav opS goS ijyijxat d ijyovpevoS , kvo£ av xgov Oaopa-
xojv ipav xal ivravSa yevvdv XoyovP xaAovS , liteixa Sei avxov
xaxavorjdat , oxi xo xctXAoS xo liti oxgoovv dcdpaxi xgj liti Ixipo)
dofpaxi abeXtpov Idxi x. r. X. Etenim non sine caussa duo Amores ab
artifice exhibiti sunt, alter laterna, alter face insignes. Necessitas
autem illa nimium unius corporis amorem remittendi quantos dolores
amatoris animo afferat, amatoris effigie vividissime 26 *
i expressam habes» Iam ipse, lector* vide, atram imago tibi pro-
posita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis accipiat* necne. Nos unam
boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc opus est, •i quis primum
initiationis gradum superare cupit. Quem ubi supe- raverit * laetius,
liberius * circumspectius incedet , id * quod alte- rius Amoris figura
repraesentatum est» Flamma autem facis* ven- tis circumagitata, mox
nimium effulgens, mox paene exstincta, supe- rato primo initiationis
gradu laternae inclusa temperatius quidem? sed aequabilius
fulget. Legitur p. 193. A. xal itpo x ov t wSitep \£ym , ev 7/pty *
wvl 8& Sta xrjy dSixiay SicpxiC^ifpey vito xov Seov , xctSditep
'ApxadeS vito AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur interpretes ad definiendum
tempus, quo Symposium Plato conscripserit. Alii post 01. XCVIII. 4.
conscriptum censent, quo tempore scimus Mantineam a Lacedaemoniis
eversam esse, alii ante hoc tempus compositum potant, sed denuo
editum post 01» XCVIII. 4. Concidet haec temporis definitio simulatque
est demonstratum, verba depravata esse, ad quae illa defiuitio
directa est» Age igitur primum de anachronismo videamus verborum xa
Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit. Anachronismos passim
admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi annotationem ad Plat.
Menex. p. 236. Eos cur admiserit, daplex caussa cogitari potest. Aut
negligentia fecit atque per obli- vionem, aut de industria et assequendi
alicuius finis studiosus» Atque iu Meuexeno quidem Socratem de re
loquentem inducens, quae post huius mortem facta est, anachronismum
admisit, acer- bissimi ludibrii commodissimum vehiculum. Etenim in
oratores invehitor, scriptores laudationum locis communibus refertarum quibus
data occasione facili negotio atque satis leviter rei adaptatis ntercutor.
Ipsa audi Platonis verba cap. II. init,: xot\ fiijv, <a Me- y{£eve,
itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw dito- SrijtSxeiv. xal yap
racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs rvyxa- vn, xal iay xivtjS riS cov
reXevrt/ey, xal inaiyov av Ervx* xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov 6oq>oiv
re xal ovx elxy ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov XoyovS
xapedxev a<5 pev cor , o? ooro xaXmS inaivo v 6 1 v, tSste — xal ta
hpoSoyra xal t a pij — s tepl txa'6rov XlyovteS, xaXXuSr d xai toti
ovopou >t xoixlXXov- TtS, yoqt evovdtr 1 } p <2v taS t/ivxaS x. t.
X. Iam cam dixisset Menexenus, oratoris electionem subito fieri, quo
facto orator non possit non subitaria oratione uti, Socrates omnibus oratoribas
orationes, napepya otiosi temporis, recondita facere conten- dit, atque
ipse huiusmodi orationem, h. e , sententiis communibus refertam profert,
quam, quo acerbius vituperiura sonet, ab Aspasia sibi traditam narrat.
Intelliges , opinor, anachronismi acumen. Ad nostrum locum ut revertar,
nihil reperitur, quo anachronismum excusare possis. Huc accedit, quod omnem
verisimilitudinem Platonicae narrationis ita pervertit, ut et habitum revera
sjmposinm docearis et non habitum. Negligentiane igitur anachronismum adhibitam
censeamus atque maculam artificio praestantissimo additam? Credant, qui
velint, nobis nunquam persuadebitur. Sed mittamus anachronismum ,
comparatio per verba xaSanep 'ApxaSeS vno AaxESaipoviatY instituta quid
sibi velit, videamus. Nolo ApxadtS nomen nimiam premere j fieri enim
potuit, ut avijp *A^rjvaloS de Mantineae eversione illa loquens pro
MavtireiS diceret ApxaSsS, sed, si eodem modo propter iniuriam homines dissecti
esfce narrantur a deo, quo modo Mantineenses in varios pagos distributi
sint a Lacedaemoniis, merito tertiam, quod vocatur, comparationis quaeras.
Caussam dissectionis si spectas: hominibus dissectis iniuria, qua ipsi
utebantur, perniciei fuit, Mantineen.sibus iniuria Lacedaemoniorum;
diremtum ipsum quod attinet, homines bifariam divisi sunt, Mantineenses
Xenophonte teste Hell. V. 2. 7. TETpaxi/ > auctores diremtus his dii,
illis Lacedaemonii fuere, divisi hic sunt omnes homines, illic Mantineenses.
Una restat dis- secandi dirimendique ratio. Utrique et humanum genus et
Manti- neenses vi et ferro dissecti sunt. 8ed num verisimile est, eius
rei describendae gratia, quam ia praegressis expositam habes, et
quae ipsa per se intelligitur, allatam esse Mantineae eversionem a
Lacedaemoniis patratam? Ut paucis rem absolvam, scripsisse Plato videtur: yvvl
8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv vno tov Seov, xa- Sdnep 'ApxabeS
aito Aaxe8aipov}<aY . Arcadiam inter et Lace- daemonctn scimus
montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terrae arctior coniunctio
prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse videtur xaSansp *Apxd8eS ano
Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur, qui naturalem firmitatem alicuius
fissurae describebant atque impossibilitatem , (venia sit verbo,) restituendae
integritatis. Annotatione p. 806 et 807. Platonis verba, quae leguntur, hoc
modo scribenda censuimus: pera 81 r a iititrj8&vpara iit i ra( imCnjfiaS
dycty&v , 7va {8y av bn&cijp&v xaAAo?, xa\ fiXiitcov npoS
itoXv ydrf tu xaXuv , pi\xkxi tu irap ' lv \ , wsnep 0 ixiryfi
ctyaitcSv itaiSaptov xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iitt- rrjdev/xaxoS
hrof, SovXevarv qiavXoS y xai opixpoXuyoS x. r. X. Constans omnium
librorum lectio est c ZsitEp olxkxT/S, quod Stall- baumius ceteroqnin
optime de huius loci explicatione meritas hoc modo explicandum censet, ut
apte additum dicat, quod, qui unius tantum rei admiretur pulcritudiuem , is ei
tanquam servus emancipatus rideatur. Sed scripsisset, opinor, Plato, si
hoc exprimere voluis- set, ooSTttp dudXoS. JovXoS enim nomen proprium est
de contu- meliosa servitute, quam hoo loco requirimus, et quae
explicatius descripta est a Pausania p. 183. A. ei ydp — iSlXoi rtoieir
olaxep 01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te xat
dvxipoXi/tiEis: iv tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS xal
xoifiijCEif iit\ SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8 av
8ov- Aof otldeif x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura Latinorum
familiaris confertur, de quo Macrob. Satum, I. 9.: nam et maiores,
inquit, nostri omnem dominis invidiam, omnem 6ervis
contumeliam detrahentes dominum patrem familias, servos familiares
appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum discrimen hand
raro Graecos scriptores neglexisse, atque multis io locis olxixrjS
posuisse, ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de servis
lo- quentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco reperitur. Quoniam
igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad o lxk~ Tt/S
scripturam ducti sumus, quae et a corruptionis verisimilitudine maxime
commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog. Gr. Melcagr. Epigr.
XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita apta reperitur, ut haud
sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret, excogitari possit. Nota
vis est amo- ris, Ea amatorum animi ita percellantur turbanturqae , ut
vitam non vitalem putent atque da salute desperent, si forte
repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt, inveniant, at eius
ani- mum sibi concilient, qnem amant, neque, ut propitium sibi
reddant, a precibns abstinent et a suppliciis, Quid multis? Huiusmodi
ama- torem simillimum esse reperimus homini, qni in summa vitae versans
discrimine ad deorum aras confugit, auxilium rogans, et vitam et salutem j
apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci desunt, quibus de AMATORE AMASIUM
perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris «etatis scriptoribus in usu fnisse
probemus, J Apud seriores saepis- sime reperitur, v, c, apud Meleagrum
Epigr. IV. v 9 6., Aathol, Gr. lacobsii T. I. p. 4., quod epigramma,
quoniam falsissime a Iacobsio explicatum est, de rectiore carminis
explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus hoc modo apud Iacobsium
leguntur; npoSoxai tfrvxv*> tcoo^qov xrJvef, ailv £v ££$3 KvnpidoS
otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi, Tfpnadax 1 aAAov "Epoox ,
apves Xvxor, ola xopoovrj dxopnloy, cJs - r kfppy nvp vnoSocXnopeyoy. 6pa$'
o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira Sdxpva , itpos 6* Inkxijy
avxopoXelcs taxos; onxadS Iv xctXXet, xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv,
axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS "EpwS. Argumentum epigrammatis
Iacobsius ait esse hoc! Poeta in oculos invehitur, novi semper amoris
novique cruciatus auctores. Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse;
Invehi in oculos poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc
mutata consuetudiuo amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis
disticho secundo, quod huc modo scribendum est; i}pna0av 9 aXXoy
"Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj dxopnloy, c Js xktppij nvp
vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum
verborum esse ceuset uovura AMOREM
rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quae explicatio
cum praecedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non
convenit. Quid euim sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris
insidiari soletis, novum amasium rapuistis ; nonne frigero sentis atque
languere ? AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum
indicet, ut, qui antea amator fuerit puerorum, is nunc subito amasius
factus esse perhibeatur. Gopferri possis Aeliani Var. Hist. II, 12. xal x
<£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ) , r/pa 61
ipGoxa Sxepor , roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur. Insequentia exempla
nostram interpretationem comprobant. *! ApveS Xvxor enim nihil aliud
siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Saepissime cum lupis amatores
comparantur, cum ovibus amasii. Vido Stallbaumium ad Piat. Phaedr. p. 241
V., Iacobsium ad Anthol. Gr. Ad luporum atque ovium comparationem, quae in
proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt ola xopoovtj
dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim, quod debilius
natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x nata maius dlcl
superasse. Nihil aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius,
qui, ot opud Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam
servitutem In se suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura
sio scribendum esse putat: 6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01
vevoti6peva xdxe daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce.
censetque, suos poetam alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et
itoXvfiavlav incuset. Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et fortasse
vera; quamvis et sic aliquid relinquitor, quod palatum paullo morosius
offendat, cum e}px xi/S in hoc imaginum contextu vix satis apte mentio
fiat. Recte Iacobsius xey et sequentem coniunctivum improbat, non recte
pro ixlxrj v fortasse scribendum esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator
est, ad quem, poiita frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt.
Iam intelligetur, quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum
est: Gj7ttd65 *Iv xaXXei, tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t axpoS ii
nl ipvxijs idx t pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum
, quibus insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma
eius, qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros
mi- sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond
necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della
natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai
maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato
o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo
della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo.
Keywords: idealismo Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus,
sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo,
origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il
soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia,
‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow –
correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --. Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade –
analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone, Ficino, il convito, convivium, Pausania,
Alicibiade, puerile, uomo puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il
maschio, il vocabolario dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator,
amatore, amatum, amicus, amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario
latino, il vocabolario transliterato, erote, il vocabolario translato, il
vocabolario in Toscano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The
Swimming-Pool Library. Colombo.
Grice e Colonna: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio
Colonna’ -- giles di roma, Rome,
original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he
studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was
censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing
to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris
to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of
Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that
essence and existence are really distinct in creatures, but described them as
“things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and,
early in his career, that an eternally created world is possible. He defended
only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna
supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that
was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article
as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims
here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a
thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and
created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in
compostes, including man. Grice:
“Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the
“Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my
favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano,
O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano
e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo
di Bourges Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio
Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono
tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.
Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello
al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della
monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di
ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un
contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche
sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente
ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo
nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per
il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino
quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e
autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito
una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”,
saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De
Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto
al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia
papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per
la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne
stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele
gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la
sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale,
di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro
sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il
loro sovrano bene in diletto corporale. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere ricchezze. I re ne
i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i
principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo
di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere
forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle
uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare
el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone
dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione,
è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze
e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella
volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come
l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à,
alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono
apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali.
Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere.
Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e
ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare
loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e
come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei
reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere,
e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo
la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo
chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la
temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa
che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere
paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù
che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi
la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come
è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere
larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n
quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come
è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco
affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande
affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che
conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che
l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose
quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante
condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai
prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù
che l'uomo chiama virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore
ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di
grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il
filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re
ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà,
ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi
essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di
sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che
si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che
cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero
o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di
sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la
quale' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i
prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte
le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre.
Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei
re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e
donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e
come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare.
Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i
prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come
avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli
à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente
contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente
avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad
alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed
alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti
detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini
fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali
costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare, e come ei.re e i
prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e
quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei re e i prenzi ei debbono
ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che
costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che
costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che
modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie, e come li re
e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL
GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in
compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia
perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene
questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à
assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente
si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli
posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina,
e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in
matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina,
e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una
femmina. Un uomo die bastare a una femmina, e che una femmina si die chiamare
contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a
lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di
ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né
i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni
temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò
e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella
maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere
nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti.
Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo,
ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto
fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono
nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo
die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono
portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente
adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano
essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina,
e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo
non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere
curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed
ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre
governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il
quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe
governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale
dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo
debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone
maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le
scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il
figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del
figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare
e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come
il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo
acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della
femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in
giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die
avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo
die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo
die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die
insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi.
L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser
sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della
villa del’uomo, die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei
re e dei prenzi, e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia
abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere
possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non
vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla
vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo
die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel
quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono
desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante
maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima
mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e ch'ei re ed i prenzi
la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice
ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere
è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è
loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune
genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono
alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per
l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti
nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai
loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai
fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i
prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e
quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e generalmente che il
gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi
nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita
per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della
villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale
dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città.
Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non
debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti
mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione
debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle
ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima
gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die
cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come
l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse, al governa mento
delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare
le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come
quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a
cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non
die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice,
come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le
città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo
disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le
città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e
quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di
signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e
' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è
la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il
bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched
e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che
per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali
ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità
per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le
cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l
re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore
signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non
sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si
debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose
che’ l buono re die fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica.
Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua
signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino
sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie
signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi
debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei
soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel
quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene
fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali
cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice
che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che
consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice
quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in
quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose
donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die
fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel
quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare
che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa
muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante
cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e
drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice,
acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’
sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto
natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e
ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai
reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica
istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno
publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante
opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere.
Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per
un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co
la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del
Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è
utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è
reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale
dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli
v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al
popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino
guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il
popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante
nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra
loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e
temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei
prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere
essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e
da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori
combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che
debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il
fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei
migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere
a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel
quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o
quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna
ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati
all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed
andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai
battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed
assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste
fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli
e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo
die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice
ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che
l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente
questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli
a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die
fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai
nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le
battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che
l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel
quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é
come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri
si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei
debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non
porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in
quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo
le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può
vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può
menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die
edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo
può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale
dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da
la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno.
Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel
mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che
cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE
piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si
conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto
che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama
piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate
a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi
nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE
BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene
volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA
ragione si è, che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità
che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli
è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo
non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior
cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole
nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne
dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono
ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia
bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi. Donde, se l'uomo
vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e
veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della
piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo
piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono
piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è
tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta
NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono
battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die
volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia
lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di
contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma
quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel
CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione
dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti
gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice
il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti
sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E
questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli
che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in
comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e
piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un
altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due
conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E
perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa
l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere
che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità
de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che
i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di
reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno
infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese,
che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad
un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del
“Il regime del principe”, testimoniato
da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si
distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la
veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella
dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto
alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e
inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da
Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a
un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la
Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia
l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica
(della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul
regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia
fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole
influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di
Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi
tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il
filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella
prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a
tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia
della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri,
la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della
Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti
del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare
raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla
sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou
gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti
trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima
traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate
nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già
ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto
s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del
“Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia
nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia
più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più
informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica,
bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico,
dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli
dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De
regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono
almeno altre cinque). Nella parte prima della Nota al testo si dà conto
della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali
(descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati
preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del
Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi
del copista. L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte
inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in
una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i
testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione
è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto
che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non
per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci,
principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua
antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico
sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività
delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia,
sintassi. Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e
gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows,
but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the
rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani notes, ‘the links with the
Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano, arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4
Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice
medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi ricopertiArcivescovo
di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre
1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus, indicato anche
come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino.
Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor
fundatissimus e Theologorum princeps. Fu discepolo di San Tommaso
d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di diventare generale degli
agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu inoltre il precettore di
Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De regimine principum,
sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. -- è considerato tra i più autorevoli teologi di
ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un
contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche
sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo
filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da
Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam del
1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro
degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e,
dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis
pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una compresenza del duplice
atteggiamento dottrinale e politico; infatti è possibile rintracciare, fra le
opere giovanili, il De regimine principum, opera scritta per Filippo il Bello e
di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello Stato,
erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate,
invece, Egidio Romano afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al
regnum, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale.
La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In seguito alle condanne
di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso, per la sua qualifica di
Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso
dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari del papato trovano nel
pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta
in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza
della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno,
tipicamente medioevale, di compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del
quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto
teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano
spirituale della Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena
che è Civitas Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma
la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e
proprio “partito del Papa”. Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come
proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis.
Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al
fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano
ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere
temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che
coincida con la sua stessa missione spirituale. Opere:Frontespizio delle
In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia
è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana
Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di
Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto
(eredi), Boneto Locatello, In secundum librum sententiarum quaestiones, 1, Francesco Ziletti. In secundum librum
sententiarum quaestiones, 2, Francesco
Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis
commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. De materia coeli, Girolamo Duranti,
Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta,
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Stanford,. Charles
F. Briggs e Peter S. Eardley, A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill,.
Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le
opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio
Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia
dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C.
su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.
Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M.
Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of
Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the
Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura
dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore
Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone
di Beaulie Raynaud de La Porte. NUMISMATIC NOTES AND MONOGRAPHS. ITALIAN
ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR By HARROLD E.
GILLINGHAM THE NUMISMATIC SOCIETY Wonr nl
PUBLICATIONS TheJournal of Numismatics. With many plates,
illustrations, maps and tables. Less than a dozen complete sets of
the Journal remain on hand. Prices on application. The numbers necessary
to complete broken sets may in most cases be obtained. An index to
the first fifty volumes has been issued as part of Volume LI. It may also
be purchased separately for $3.00. The American Numismatic
Society. Catalogue of the International Exhibition of Contemporary
Medals. March, 1910. New and revised edition. New York. The American
Numismatic Society. Exhibi¬ tion of United States and Colonial
Coins. NUMISMATIC NOTES & MONOGRAPHS
Numismatic Notes and Monographs is devoted to essays and treatises on
sub¬ jects relating to coins, paper money, medals and decorations,
and is uniform with Hispanic Notes and Monographs published by The
Hispanic Society of America, and with Indian Notes and Monographs
issued by the Museum of the American Indian—Heye Foundation.
Publication Committee Agnes Baldwin Brett, Chairman Henry
Russell Drowne John Reilly, Jr. Editorial Staff
Sydney Philip Noe, Editor Howland Wood, Associate Editor V.
E. Earle, Assistant . Italy (savoy) Order of the Most Sacred
Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY
AND MEDALS OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY
BROADWAY AT I56TH STREET NEW YORK GrS THE NUMISMATIC
SOCIETY Press of The Lent & Graff Co., New York ITALIAN
ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR By Harrold E.
Gillingham Students have always found the coinage of Italy of
more than passing interest, and the country of the early Romans is still
a far from exhausted field of numismatic research. Few sections of Europe
have had such a varied history. Few have been more fought over.
Greeks, Romans, Vandals, Goths, Franks, Germans, Normans, Span¬
iards, Austrians and the Papal Authorities have had a hand in the
mismanagement of the country’s affairs, and all have left traces of
their influence, but nowhere more defi¬ nitely than in the field of
numismatics. The changing coinage has always been interesting, and
the publication of the Corpus Nummorum Italicorum, undertaken by His Majesty,
Victor Emmanuel III, is a magnifi¬ cent demonstration of the value of
numis¬ matic research. In the time of Augustus, “Italia”
was divided into eleven sections. In the feudal period many of
these had been governed for centuries by members of the same
family. It was a normal condition for these clans to wage war one
upon the other, and this state of affairs existed almost
uninterruptedly until the middle of the Nineteenth Century. “The
destinies of Italy were decided in the cabinets and on the battle-fields
of Northern Europe—a Bourbon at Versailles, a Haps- burg at Vienna
or a thick-lipped Lorrainer, with the stroke of his pen, wrote off
province against province, regarding not the popula¬ tion who had
bled for him or thrown them¬ selves upon his mercy.” Through it all,
the Papacy has exerted a powerful influence. In the early period
such a shifting of control was not to the best interests of the
inhabitants. The Kingdom of Italy, as we know it today, did
not exist, of course, until 1870. With the fall of the French Empire
under Napoleon III, the assistance of France was no longer
available, and Rome came under the dominion of Victor Emmanuel. All
of that gieat mountainous peninsula was united and free. For over
seventy years the country has been governed by a Prince of the
House of Savoy. Its population has pros¬ pered more during that period
than for many preceding centuries. These changing conditions
were not with¬ out effect upon the organisations which we class as
Orders of Knighthood. Many of the Orders of Chivalry founded by the Ducal
or Princely rulers of Italy were named for their patron saints. It
has seemed expedient in this article to treat of the Orders and
Decora¬ tions of all of these changing principalities separately.
Insofar as is possible, any repetition which this course involves
has been avoided. Lucca, the most northern province of
Tuscany, lies between the Apennines and the Mediterranean Sea. Its
principal city, Lucca, on the River Sarchio, is famous for a
remarkable bridge which is said to have been built about 1000 A.D. From
the time of the Narses, in the Sixth Century, Lucca was an
important city. Here and at Pisa, the earliest Italian school of painting
flourished in the Twelfth and Thirteenth Centuries. Lucca became an
autonomous commune from the death of Matilda (1115). In 1314 Uguccione
della Faggiola seized the reins of Government, but later he was
superseded by the powerful Castruccio Castracani. Louis of Bavaria,
after having occupied it by his troops, sold it to a Genoese
banker, Gherardo Spinola; it was seized by John, King of Bohemia,
pawned by him to the Rossi of Parma, sold to Florence, relin¬
quished to Pisa, nominally liberated by Charles IV (Emperor of Germany,
1346- 1^78) and governed by his vicar. Lucca, MEDALS OF HONOUR
5 subjected to endless vicissitudes, managed first as a
democracy and after 1628 as an oligarchy, to maintain its
independence, alongside of Venice and Genoa, and painted the word
“Libertas” on its banner until the French Revolution. In 1805, Napoleon I
gave Lucca to his sister Eliza, who had married Bacciochi. It was
occupied by the Neapolitans in 1814, and from 1816 to 1847 it was
the Duchy of Maria Louisa of Parma (who married her cousin, Charles
IV of Spain), and was ruled by her son, Charles Louis. It later
formed one of the provinces of Tuscany. Under the rule of the
Lombard Dukes, Lucca possessed a coinage of its own. MILITARY
ORDER OF SAINT GEORGE OF LUCCA. Duke Charles Louis Ferdi¬ nand, a
Spanish Bourbon, founded this Order on June 1, 1833. It was called Or
dine di San Giorgio per il Merito Militare, and was awarded for
military services to the Duchy. It was also issued to officers and
privates whose service exceeded three years. The Decoration is a
Maltese cross, enam¬ elled white. It is edged with gold for the first
class, with silver for the second, while for the third class it is silver
without the enamel. In the centre is a white medallion, upon which
there is a gold figure of St. George slaying the dragon, surrounded
by the words AL MERITO MI LI TARE on a green band. The reverse
shows the initials of the founder, C.L., crowned, and the date
183J. The ribbon is bright red with a white stripe. ORDER OF
SAINT LOUIS. Founded on December 22, 1836, by Duke Charles Louis,
and awarded for civil merit. It was reorganized in 1849 by his son,
Charles III, Duke of Parma, a Bourbon, for Civil and Military
service; it is, therefore, classed with the Orders of Parma also. See
page 19. The badge of the first class is a white- enamelled
cross, with heavy gold lines and with a large fleur-de-lis at the tip of
each cross-arm. The obverse bears a shield upon which is an effigy
of Saint Louis in golden armour; the reverse has a shield bearing the
Bourbon crest of three lilies. The second class cross is of silver and
white enamel, NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. 1 Parma Order of Saint Louis while
the third is all silver but without the crown. The ribbon is blue with a
yellow stripe on either side. MEDAL FOR MILITARY
SERVICE. Created on June i, 1833, for officers who had served over
thirty years, and called the Medaglia di Anzianita. The obverse
bears a gilt Maltese cross with the initials C.L. and a crown
above; on the reverse are the Roman figures XXX, denoting the years of
service. The ribbon is blue, with yellow stripes— four of the
former and three of the latter. CIVIL MEDAL OF MERIT. This
Dec¬ oration was also instituted by Duke Charles Louis. It is of
silver and bronze. The initials of the founder, C.L. intertwined,
ap¬ pear on the obverse, and the reverse has inscribed thereon the
words, AI BEN EME¬ RITI DELLA SALUTE PUBBLICA. NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena was then called, was a
Roman colony. For more than twelve centuries there were constantly
changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II (1240-1293), of the princely
house of Este, received the lordship of Modena. The Este family was
one of the oldest of North¬ ern Italy, dating back to about 917
A.D. Through the marriage of an heiress of the house of Welf, of
Bavaria, with a younger son of the house of Este, this family
became connected with the houses of Brunswick and Hanover, from which
are descended the Sovereigns of England, through the house of
Guelph. At various periods, the Estensi received the sovereignties of
Ferrara, Modena and Reggio. The male branch of the family lost the
duchies of Modena and Reggio on the death of Hercules Rinaldo, who died
in 1803. His only daughter, Maria, married Ferdinand of Austria,
son of Francis I and Maria Theresa. Their son, Francis IV, in 1816
became the first Hapsburg duke of AND MONOGRAPHS
IO ITALIAN ORDERS Modena. He died
in 1846, and when his son Francis V died in 1875, the male line of
the Austrian Estensi became extinct and the title passed to Francis, son
of Archduke Charles Louis. Members of the Este family and their
descendants had held the Duchy of Modena almost continuously from
1288 until i860. In that year the territory by a plebescite was
declared part of the King¬ dom of Italy. ORDER OF THE EAGLE
OF ESTE. Founded by Francis V on December 27, 1855, and awarded for
military and civil merit. The number of the members of the Order
was limited to 20 for the Grand Cross, 40 for the Commander Class and 120
for the Class of the Knights. The decoration was surrendered on the
death of the Knight. The insignia is a gold Maltese cross with gold
knobs at the points, white-enamelled and edged with blue. Between the
arms of the cross are gold scrolls, and the letters E.S.T.E. are
distributed in the angles. On the blue medallion is the white-crowned
eagle of the house of Este, surrounded by a NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. J L
Modena Order of the Eagle of Este
white-enamelled band, inscribed PROXIMA SOLI MDCCCLV. The reverse centre
of white enamel bears the figure of Saint Con- tardo holding a
cross. It is surrounded by a blue-enamelled band bearing three
stars and inscribed S. CON TARDUS ATESTI - NUS. The ribbon is
white, edged with blue stripes. When awarded for military merit,
the cross is surmounted by a trophy of arms; for civil merit, by an oak
wreath. MILITARY MEDAL FOR LOYALTY. Francis IV, the first
Hapsburg duke of Mo¬ dena (1816-1846), caused a medal to be struck
and awarded to those of his troops who re mained faithful during the riot
of February 4, 1831. This disturbance was organized by Ciro
Menotti, and forced Francis IV to flee from his capital. It was thought
by some that the Duke was in league with Menotti, but as the Duke
caused Menotti to be put to death when the Revolution was
suppressed, this is doubtful. The silver medal given to his supporting
troops bears the inscription FIDELI MILIT 1 MDCCCXXXI. Within a
wreath of laurel, NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 1 3 and below are two crossed
swords. The reverse is inscribed FRA NCI SC US IV DUX MUTINAE. The
ribbon has three stripes, equal in width; the middle one white, the
side ones blue. CROSS FOR SERVICE. Authorized by Francis V,
May 16, 1852. This medal was awarded to officers who had served 25
years under the banner of the house of Este. It is a silver cross
with a gilt edge. In the centre is the white eagle of Este,
surmounted by a crown and the letters F. V. The reverse bears the
Roma n figures XX V. The cross is surmounted by the ducal crown, and
the ribbon is white, edged with blue. MILITARY MEDAL OF
MERIT. This decoration was created in 1852 for the junior officers
and privates. It is silver. On the obverse appears a bust of the duke
facing left, and the legend FRANCESCO V DUCA Dl MODENA EC. EC.
ARCIDUCA D’AUS¬ TRIA ESTE EC. EC. On the reverse, within a laurel
wreath, PEL MERITO MI LI TARE. The ribbon is blue, edged with
white. AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY. Francis V ap¬
pears to have been in a struggle with his subjects during most of the
thirteen years of his reign. He was compelled to seek refuge in
Austria in 1849, but he returned to Modena after the battle of Novara on
March 24th of the same year. Ten years later he was again forced to
flee. In i860 Modena became part of United Italy. To reward those
of his subjects who had remained faithful to him during his exile, he
created the Medal of Fidelity in 1863. It is bronze, 32mm. in
diameter. On the obverse it bears the effigy of the duke and the
inscription FRANCESCO V AUST. ATESTENUS DUX MUT 1 NAE ; on the
reverse, the words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE IN ADVERSIS
MDCCCLXIIL surrounded by a wreath of oak leaves. The ribbon is of
blue and white horizontal stripes, edged with blue and white.
PARMA. Parma was the Eastern section of Gallia
Cispadane at the time of Constantine. It lies in the Lombard plain, north
of the Apennines, south of the River Po and west of Modena. For the
first fifteen centuries of the Christian era, the many rulers of
Parma were of various nationalities. The duchy came into the possession
of the Far- nese family during the early part of the Six¬ teenth
Century. Eight dukes of that family ruled over the destinies of its
people. From Antonio, who died childless in 1731, the duchy passed
to Charles of Bourbon (Don Carlos), Infante of Spain, who became
King of Naples in 1735. Both Austria and Spain governed it at
various times. At the Con¬ gress of Vienna in 1815, the duchy was
granted to Marie-Louise (daughter of Fran¬ cis I of Austria), second wife
of Napoleon I. She died in 1847. Spanish and Austrian rulers again
came into possession. Charles III, a Bourbon and the grandson of
Victor Emmanuel I of Sardinia, reigned until his assassination. During
the regency of his son Robert, Parma was incorporated in the Kingdom of
Italy. ORDER OF CONSTANTINE. Authori¬ ties differ with regard
to the date of the insti¬ tution of this Order. It has been said
that it was founded by Constantine the Great about the year 313
A.D. Others give credit to thle Byzantine Emperor Isaac II (Isaac
Angelus Comnenus), and fix the year as 1190. This seems the more probable
date. The Order is also called the Order of Saint Angelus, the
Order of the Golden Chevaliers, and the Military Order of Constantine
of Saint George, it being under the patronage of that Saint and
Martyr. Late in the Seventeenth Century its control appears to have
been sold to Francis I (Francis of Farnese), Duke of Parma, who became
the Grand Master. The Order came into high repute because of the
rules he observed in its distribution, and also because of the
large domains he conferred upon it, including the church of the
Madonna della Steccata at Par¬ ma. Clark attributes its revival to
Charles V. In 1734 or 1735, after the extinction of the male
line of the Farnese family, the heir to the Duchy of Parma, Infante Don
Carlos (son of Philip V of Spain and Elizabeth Far¬ nese), became
the Grand Master. He trans¬ ferred the Order to Naples when he
ascended that throne. It was abolished in Naples by Joseph
Bonaparte in 1806 but continued in Sicily. Revived in 1814, it remained
in existence until the unification of Italy. Owing to its transfer
to Sicily, it is fre¬ quently classed among the Orders of the Two
Sicilies. The members of the Order consist of Senators, Commanders,
Knights, Serving- brothers and Squires. On August 8, 1922,
the Count d’Caserta of the Austrian line of Bourbons, and a dis¬
tant cousin of the King of Italy through the female line, honoured one
Michael Cangiano, the official Interpreter of the Superior Court of
Cambridge, Massachusetts. Signor Can¬ giano was made a Knight of the
Order of Constantine of Saint George of Parma and of Sicily. This indicates
that the Order has been continued as a Family Order by the old
rulers of those Duchies Pl. Ill Parma Order of
Constantine MEDALS OF HONOUR 19
The insignia is a red-enamelled gold cross, fleurv. On the arms are
the letters I.H.S. V. (In hoc signo vinces). In the centre is the
Labarum, or Standard. Greek letters X and P crossed,and A (Alpha) and
& (Omega). Harold Bayley, in his book entitled Lost Language of
Symbolism, London, 1913, writes,—“The Latin P has the same form as the
Greek letter named Rho. One of the most famous emblems of early
Christianity— known as the Labarum, the seal of Con¬ stantine, or
the Chi-Rho monogram—is the letter X surmounted by a P. The two
letters Chi and Rho are assumed to read Chr, a contraction for the
name Christ, but the symbol was in use long ages prior to Chris¬
tianity.” The first class members of the Order wear a gold figure of
Saint George slaying the dragon, suspended from the cross. The
ribbon is light blue moire. ORDER OF SAINT L OUIS. Charles
III, Duke of Parma, revived this order at Parma, August 11, 1849,
as an award of merit. His father Charles Louis (or Charles II) had
originated the order in Lucca in 1836. There are five classes and
the insignia is a cross, composed of four fleurs-de-lis, bound
together by their leaves. On the centre of the obverse in a
blue-enamelled shield are three gold lilies. On the reverse is a figure
of St. Louis, surrounded by the motto DEUS ET DIES (God and light).
The Grand Cross and that for Commanders and Cava¬ liers of the
first class have a gold figure of St. Louis surmounted by a gold crown.
The cross for the second class Cavaliers has a silver figure with a
silver crown, and the fifth class is of enamelled silver without a
crown. The ribbon is light blue and yellow. MEDAL OF MERIT. Founded
during the reign of Marie Louise. Marie Louise was the mother of
the Little King of Rome who, fortunately for Italy, never reigned.
The medal is silver, 20 mm., and bears on the obverse, AI BENEMER-
ENTI DEL PRINCIPE E DELLO STATO. On the reverse is the head of Marie
Louise and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D. AUSTRIA DUCA DI
PARMA PIAZ. E. GUAST. The ribbon is light blue and light red.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR # 21 SAN MARINO. When
Marinus, the Dalmatian monk, and his companions settled in the
Eastern Apennines, in the third century, they little thought they
were establishing a community with such a future. For a long time
San Marino was something like a buffer state, between hostile
Italian dynasties in that vicinity. In 1631, the Independence of
San Marino was acknowledged by the States of the Church. Napoleon I
preserved its sep¬ arate existence in 1797, and Napoleon III
protected it from the designs of Pope Pius IX in 1854. At the unification
of Italy, 1859-1860, San Marino was still allowed its independence,
and today it is the smallest Republic in Europe. ORDER OF
CHIVALRY OF SAN MA¬ RINO. Sometimes called the Equestrian Order of
San Marino, created on August 13, 1859, by the Council of the Republic,
in commemoration of the fifteenth century of its foundation. The
purpose of its founda- AND MONOGRAPHS ITALIAN DECORATIONS
f Pl. IV San Marino Order of
Chivalry of San Marino MEDALS OF HONOUR
23 tion was to reward those who were promi¬ nent in the
welfare of the country and its people. There are five grades: Grand
Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬ cers and Chevaliers. The badge
or cross, which is surmounted by a gold crown, is a gold-edged,
white-enamelled cross moline with a gold ball at the end of each arm.
Be¬ tween the arms are four gold towers. The obverse centre bears
the effigy of Saint Marino to left, surrounded by a blue band,
inscribed SAN MARINO PROTETTORE. The reverse bears on a gold shield, in
the cen¬ tre, the arms of the country—the three towers. The shield
is surrounded by a blue band bearing the words MERITO CIVILE E MI
LI TARE. The ribbon is of seven equal stripes, four of blue and three of
white. The writer has four specimens of this cross. Two have
full-faced busts of San Marino, with white hair and beard. One has
a younger face to the left, with black beard and hair, while the
fourth has a bust in gold, facing to the left, but on a
white-enamelled field. Two of the specimens bear on the reverse
MERITO CIVILE. Elvin and AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND Lawrence-Archer give the inscription as “Merito
Militare,” while the Catalogue Musee de VArmte has it “Merito
Civile.” Cappelletti and Puca, the Italian authori¬ ties, give the
former wording, and the figure of San Marino facing to the left; and
this, no doubt, is correct. MEDAL OF MERIT. Instituted
on March 22, i860. This is octagonal in form and of gold, silver
and bronze, according to the importance of its award. In the centre
of the obverse is the Arms of the Republic, the three towers, within an
oak and laurel wreath, below which is the word LIBERT AS; around
this is, REPUBBLICA Dl SAN MARINO. On the reverse, within an oak
wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬ pose of the reward is military,
or MERITO , if for civil award. The ribbon is light blue, edged
with red. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 25 SARDINIA, SAVOY AND THE
KINGDOM OF ITALY. Sardinia, one of the islands of the King¬
dom of Italy, is known to have been settled by the Carthaginians in 512
B.C. Thence¬ forward Romans, Vandals, Goths, Saracens, and the
Genoese ruled the island. In the year 1325 A.D, the king of Aragon took
pos¬ session. From that time until 1403 Sardinia was an Aragonese
province. After the union of Aragon and Castile, it became Spanish
and so remained until 1713, when it was ceded to Austria by the treaty of
Utrecht. In 1720 it w r as given to Victor Amadeus II (1666-1732),
Duke of Savoy, in exchange for the island of Sicily, and he became King
of Sardinia; the title of King of Savoy was con¬ ferred upon him
the same year. This title of King of Sardinia and Savoy continued
until the unification of Italy in 1859-1860. MEDAL OF VALOUR.
Created in 1793 by Victor Amadeus III (1727-1796), King of
Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm. AND MONOGRAPHS
26 ITALIAN ORDERS in
diameter, and bears on the obverse a bust of the king facing to right and
VITTO¬ RIO-AM ADEJJS III. The reverse has a wreath of oak leaves,
within which is a tro¬ phy of arms and flags, and the words AL V A
LORE. The ribbon is dark blue. About 1404 Amadeus VIII, (the first
Duke of Savoy), extended his provinces. The teriitory over which he
later reigned extend¬ ed from the Lake of Geneva to the Mediter¬
ranean Sea, and from the River Saone (in France) to ,the River Sesia in
Italy. The Duchy of Savoy also included Nice. This section
remained almost continually in the possession of the house of Savoy until
i860. It is said that Napoleon III had a secret treaty with
Count Cavour, the Italian states¬ man, before the French army went to
assist the Sardinians to drive the Austrians from Northern Italy.
At the Peace table, Savoy, the cradle of the house of that name, as
well as Nice, was given to France. Of this set¬ tlement, Garibaldi
is reported to have said, “That man (Cavour) has made me a
foreigner in my own house.” Inasmuch as the Kingdom of Italy
has NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 27 been ruled by princes of the house of Savoy,
it seems proper to describe, in the subsequent pages, the decorations
generally known as Italian Orders of Chivalry and Medals of
Distinction. ORDER OF THE MOST SACRED ANNUNCIATION. This
Order is the high¬ est in rank and most important of all the
Italian Decorations. It ranks with the Golden Fleece of Spain and the
Garter of England. Authorities differ as to its origin, though many
of them give the year 1362 as the date of its foundation. In that
year, the Order of the Neck Chain 01 Order of the Collar of Savoy
was founded by Amadeus VI, Count Verde of Savoy. His grandfather,
Amadeus V, called the Great, assisted the Knights of the Order of
Saint John of Jerusalem at Rhodes, and compelled the Turks, under
Mahomet II, to abandon their siege of that island in 1310 or, as
some state, in 1315. For this service Amadeus V was presented with
a collar, bearing the let¬ ters F.E.R.T. Fortitudo ejus Rhodum
tenuit (By his bravery Rhodes was held). He was also granted for his
Arms, the use of the white cross of the Crusaders, which later
became the Cross of Savoy (H. W. Finch- am’s “Order of St. John of
Jerusalem in England”). Although authorities differ as to the exact
meaning of these letters F.E.R.T., the above is the more generally
accepted explanation, and is that given by Bernardo Giustinian, the
Italian authority, in 1692. In 1518, new statutes were formu¬ lated
for the Order by Charles III, Count of Savoy. At that time the name was
changed to the Order of the Most Sacred Annuncia¬ tion. Several
changes in the Order have been made by various Counts of Savoy
since that time, among whom were Victor Emman¬ uel II in 1869 and
Humbert I in 1889. There is but one class of Members—Chevaliers or
Knights, whose number, exclusive of the Sovereign and Church Dignitaries
and Princes, is limited. They must also be of the Roman Catholic
faith. The insignia consists of a gold medallion on which is a
representation of the Annunciation, above which is a dove, symbolising
the Holy Spirit. This is surrounded by a group of symbolic
NUMISMATIC NOTES «£ ITALIAN
DECORATIONS Pl. V Italy (savoy)
Order of the Most Sacred Annunciation 30 ITALIAN
ORDERS knots of ribbon (lacs d’amour), on which are numerous
roses, a possible reference to the Mystic Rose. The whole is suspended
from a gold chain, composed of alternate knots of ribbon and roses,
with the letters F.E.R.T. interwoven. The plaque, or star, is
similar to the badge, surrounded by eight rays of flame, with the
letters F.E.R.T. on the sides. The ribbon is blue moire.
(Frontispiece.) ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS. The
Order of St. Mau¬ rice was instituted in 1434, at Ripaille, near
the lake of Geneva, by Amadeus VIII (13^3-1450), Count and first Duke of
Savoy. The Order took its name from the patron saint of Savoy.
Amadeus VIII conferred this Order on ten of his courtiers when they
accompanied him to his retreat at the priory of Ripaille. He was elected
Pope in 1439, taking the name of Felix V, but he resigned in 1448
and retired to the solitude of Ripaille, where he died in 1450. He is
buried at Lausanne. Shortly after his death, the Or¬ der became
dormant. It was revived in NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. VI Italy
(savoy) Order of St. Maurice and St. Lazarus
1572 by Duke Emmanuel Philibert of Savoy, to encourage the Catholics
to resist the Cal- vinistic reforms attempted in Savoy. The Dukes
of Savoy were Grand Masters. The Order of Saint Lazarus was
gen¬ erally supposed to have been founded about the year 1060,
during the earlier crusades, although there was a Fraternity of
Ecclesias¬ tical Knights who as early as 366 A.D. founded a
hospital at Jerusalem to care for the lepers. These were known as
the Knights of St. Lazarus. Elias Ashmole, in his “History of the
most noble Order of the Garter,” London, 1715, writes—“At length,
through the incursion of the Barba¬ rians, and Injury of Time, it (the
order) lay extinguished, but was revived when the Latin Princes
joyned in a Holy League to recover the Holy Land. . . . For in that
Time the Monks of this Order added Martial Discipline to their Skill in
Physick; and for their Services against the Infidels, begat a great
Esteem from Baldwin II, King of Jerusalem, and some of his
Successors.” The Order was inactive for a long period.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
33 In 1490 it was united with the Hospitallers of St.
John at Rhodes, but in 1565 Pope Pius IV restored it and granted
additional privi¬ leges. In September, 1572, Pope Gregory XIII, at
the request of Emmanuel Philibert, Duke of Savoy, restored the Order of
Saint Maurice and united it with that of St. Laz¬ arus, under the
title of the ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS. Pope Gregory
XIII also appointed the Dukes of Savoy Hereditaries and Masters, and
as Ashmole writes—“oblig’d them to furnish out two Gallies for the
Service of the Papal See, to be employ’d against Pyrates.”
There have been many changes in the Or¬ der by the various
sovereigns, but at present there are five grades: Knights of the
Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers and Chevaliers.
The number of the last grade is unlimited. Many foreigners have
been decorated with this grade. The pres¬ ent form of decoration was
established by Duke Charles Emmanuel I (1562-1630). The badge
consists of a white-enamelled cross, treflee, of St. Maurice, conjoined
at the * AND angles with the green Maltese cross of
St. Lazarus, which is ball-tipped at the points. The badges of the
four higher grades are sur¬ mounted by a Royal crown, the size of
the cross and of the crown indicating the par¬ ticular grade. It is
suspended by a bright green watered ribbon. The eight-rayed star of
the Order is silver. In the centre is a reproduction of the badge or
cross, without the crown. MEDAL OF SAINT MAURICE.
Insti¬ tuted for Military services by King Charles Albert, 1 King
of Sardinia, on July 19, 1839. It was intended as further recognition
of those officials who had received the cross of the Order of St.
Maurice and St. Lazarus, and who had served under the flag 11 per
la durati di died lustri” (lustri meaning a five year enlistment,
and died lustri , therefore, fifty years). The Medal is gold, bearing
on the obverse the equestrian figure of the pa¬ tron saint of
Savoy, St. Maurice, holding the flag of the Order in his right hand.
Around this are the words S. MAURIZIO PRO- NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR
35 TETTORE DELLE NOSTRE ARMI. The reverse is inscribed
as below, AL C A V A LI ERE MAU RIZIA NO
PER DIECI LUSTRI NELLA CARRIERA MI LI TARE
BENEM ERITO space being reserved for the name of the
recipient. There are two sizes of the medal. The larger, 55 mm. in
diameter, is for Gen¬ erals or Admirals who had received the higher
decoration of the Order of St. Maurice and St. Lazarus, and the smaller,
39 mm., for officers who had received the lower grades of the same
Order. The ribbon is green, the same as for the Order. ROYAL
MILITARY ORDER OF SAVOY. Founded at Genoa, on August 14, 1815, by
Victor Emmanuel I (1759-1824). Its pur¬ pose was to reward acts of valour
and magnanimity. The Order was modified on September 28, 1855, by
Victor Emmanuel II, later king of Italy, who also changed the
decoration to the present form. There are five classes: Knights of
the Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers and
Chevaliers. The cross, which is white- enamelled with curvilinear tips,
is edged with gold. It rests upon a wreath of laurel leaves. On the
red background of the medal¬ lion is the white cross of Savoy,
around which on a circular band are the words AL M ER 1 TO MI LI T
A RE. The reverse medal¬ lion of red enamel has two crossed swords,
points up, above which is the date 1855, and on either side, the initials
V. E. The cross of the first three classes is surmounted by a Royal
crown, that of the fourth class by a trophy of flags and arms, while the
fifth class cross has but the suspension ring. The ribbon is blue
moire, with a red band in the centre. The star, which is of silver,
has eight rays; in the centre is a duplication of the obverse of
the decoration, without the crown. Prior to 1855, the star or plaque bore
the motto AL MERITO ED AL VALORE. CIVIL ORDER OF SAVOY.
Founded at Turin, on October 29, 1831, by Charles Pl.
VII Italy (savoy) Military Order of Savoy
38 ITALIAN ORDERS Albert (1798-1849), King of Sardinia
and Savoy. During most of his reign of eighteen years, he was at
war with Austria. Follow¬ ing the revolution of 1848 in France, he
began war for the Independence of Italy but was compelled to abdicate in
1849 after his defeat by the Austrians at Novara. The object of the
Order was to rewaid ‘those of other professions, not less useful than
that of the army, who have become through long and profound study
the ornaments of the State to which they have rendered important
service.’ There is but one class to the Order, known as
Knights, and it is seldom conferred on foreigners. The decoration is a
light blue Savoy cross edged with gold. The medallion on the
obverse is white with a gold rim; in the centre are the intials of the
founder, C. A. The reverse has AL MERITO CIVILE 1831 , in
gold lettering on a white field, on the centre medallion. The moire
ribbon is of three equal stripes—light blue with white either side.
ORDER OF THE CROWN OF ITALY. Created on February 20, 1868, by Victor
Pl. VIII Italy (savoy) Civil Order of
Savoy 40
ITALIAN ORDERS Emmanuel II (1820-1878), the first King
of United Italy, to commemorate the annexa¬ tion of Venice to that
kingdom. This is sometimes called the Order of the Iron Crown.
Doubtless the origin of the name arose from the fact that at the
coronation of Agilif, King of the Lombards (592-615), a crown was
used, composed of gold and precious stones, inset with a band of
iron which was said to have been forged from a nail of the true
Cross. Tradition says that this crown was kept in the Cathedral of
Monza and removed to Mantua in 1859. When Napoleon I became King of Italy
in 1805, it is said he was crowned with this crown. The Order of
the Iron Crown of Italy, founded by Napoleon I in 1805, was
abolished in 1814, although revived in Austria in 1816 by Francis I as
the Austrian Order of the Iron Crown. The first distribution
of the Order of the Crown of Italy, as founded by King Victor
Emmanuel II, occurred on April 22, 1868, when the heir-apparent,
Humbert, married Princess Marguerite of Savoy. There are five
classes of the Order—Grand Pl. IX Italy
Order of the Crown of Italy Cordons, Grand
Officers, Commanders, Officers and Knights. The grade of Knight or
Chevalier is frequently conferred on foreigners. The insignia is a
white-enam¬ elled cross-pattee edged with gold, and convex, with
knots of gold cord connecting the arms. In the blue-enamelled
medallion is a gold crown. On the reverse medallion is the crowned
eagle of Savoy. On its breast is a red shield, bearing the white
cross of Savoy. The ribbon is of red with a white stripe in the
centre. The star of the order, for the highest grade, is of eight silver
rays, on the centre of which is a gold crown on blue field,
encircled by a white band, in¬ scribed VICTORIUS EMMANUEL II REX I
TALI A E MDCCCLXVI. This device is surmounted by a crowned eagle bearing
the Arms of Savoy on its breast. The star of the Grand Officer is
an eight-pointed silver star, on which is a reproduction of the
Cross. ORDER OF INDUSTRY. By a decree of May 9, 1901, Victor
Emmanuel III created a Decoration called the “Cavalieri del Lavoro”
(Knights of Industry). It is awarded to those prominent or
proficient in the Industrial, Commercial or Agricultural work of
the Kingdom or of its Colonies. The decoration consists of a
green-enamelled Savoy cross, edged with gold. On the obverse is a
white medallion, bearing the words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901 The
reverse medallion bears the initials of the founder, V. E., in gold on a
white field. The rib¬ bon is dark green with a red stripe in the
cen¬ tre. There is but one class to this order, and its award
carries with it no particular privileges. COLONIAL ORDER OF THE
STAR OF ITALY. Founded in 1911 by King Victor Emmanuel III. Its
purpose was to reward those deserving of especial recognition who
were prominent in the work of the Colonies. There are five classes to the
Order: Knights of the Grand Cross, Grand Officers, Com¬ manders,
Officers and Chevaliers. The decoration consists of a
white-enamelled star of five points, edged with gold and ball-
tipped. On the obverse medallion of red, is the gold monogram (V. E.) of
the founder, with crown above. A green-enamelled circle AND
MONOGRAPHS 44 ITALIAN
ORDERS has at the bottom of it 1911. On the reverse red
medallion are the words AL/ ; MERI TO /COLO NI ALE in gold letters.
The ribbon is red, with narrow white and green bands on either side. All
grades of the star have a crown above, except that of Chevalier,
which is plain. The plaque, j which is worn by the first and second
classes only, consists of thirty-five silver rays, on which is the
uncrowned star described above. MILITARY CROSS FOR SERVICE.
On November 8, 1900, Victor Emmanuel III authorized a cross for long and
faithful service, called the “Croce per anzianita di servizio Militare.”
It is of gold for Officers, and of silver for the troops. The
decoration is a Maltese cross; on the obverse, a medallion bearing
the Royal cipher V E crowned, and on the reverse Roman characters,
denoting years of service —XXV for the Officers and XVI for the
troops. If the officers have served forty years and the troops
twenty-five years, the Roman characters vary accordingly, and the
cross has a crown above. The ribbon is green, with a wide white stripe in
the centre. NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. X
Italy Colonial Order of the Star of Italy
46 ITALIAN ORDERS MILITARY MEDAL OF VALOUR. As
early as 1793, during the war between Pied¬ mont and France, Victor
Amadeus III, King of Sardinia (1727-1796), created a Medal of
Valour. This was awarded for individual acts of bravery, and was
struck in gold and in silver. Victor Emmanuel I revived the award
in 1815, at the time of the downfall of Napoleon I, but abolished it
in August of that year when he created the Military Order of Savoy.
When Charles Albert was King of Sardinia and Savoy, he reinstituted
the medal in 1833, for acts of valour not sufficiently important to
war¬ rant the M ilitary Order of Savoy. From the time of its
inception to 1887, it was always awarded in gold or silver, but in that
year Humbert I decreed that a bronze medal should be given for acts
of valour of a lesser degree. This medal ranks in Italy almost as
highly as does the Victoria Cross in Great Britain or the Medal of Honour
in this country. It is frequently called the Sar¬ dinian Medal of
Valour. The earliest model was 38 mm. in diameter, having on the
obverse the bust of the king facing to the NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XI Italy
(savoy) Military Medal of Valour 48
IT A LI A N ORDERS AND right and
the words VITTORIO AMADEUS III. The reverse had a wreath of oak
leaves, within this is a trophy of arms and flags and the
words AL V A LORE. About the time of the Crimean war, the design was
changed. The size was reduced to 33 mm. The obverse has the Arms of
Savoy, surmounted by a crown in an oval. Below are a palm and
laurel branch, tied at base with a ribbon; and around the whole,
the words AL V A LO¬ RE MI LI TARE. The reverse has two laurel
branches tied with a ribbon, with a space in the centre for the
recipient’s name. The name of his campaign is placed on the outer
edge. The ribbon has always been a dark blue moire. Victor Emmanuel II
caused a number of these medals, in both gold and silver, to be
given to the British and French troops who took part in the Crimean
war. Two of these are in my collection, and have been awarded to
Frenchmen. The reverse has the name and title of the recipient en¬
graved at the centre, while around the outer edge of one are the words
SPEDIZIONE D’ORIENTE 1855-1856, in relief. The second specimen has
the same words en- NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 49
graved. The Musee de VArm'ee of Paris has a medal with the
recipient’s name engraved and GUERRE DTTALIE 1859 in relief. This
was for the war with Austria. Another has in relief CAMP A GNA DELLA BASS
A ITALIA 1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of Boston, has in his
collection a variant of this Medal of Valour. It is but 25 mm. in
diameter. The reverse has around the edge, outside the wreath, in relief
, the words GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬ TRIA. Many of
these medals have been awarded to the men of other countries who have
assisted Italy in her campaigns. It was a Military Medal of Valour, of
gold, which General Diaz placed upon the grave of the un¬ known
American soldier at Arlington on Nov¬ ember 11,1921, by order of the King
of Italy. CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬ thorized by King Victor
Emmanuel II on April 3, 1851. It was given in gold, silver and
bronze. Under a decree of April 29, 1888, Humbert I authorized a bronze
medal also. These are awarded to civilians for per- AND
MONOGRAPHS 50 ITALIAN ORDERS
AND sonal acts of courage and valour, such as rescues at
fires and at sea. The medal is 34 mm. in diameter, bearing on the
obverse the Arms of Savoy in an escutcheon, with a Royal crown
above. Around this at the top are the words AL VALORE CIVILE. The
r everse has a wreath of oak leaves, with space in the centre for
the recipient’s name. The writer’s medal is engraved D’ONOFRIO GIO.
ANTONIO CERVINARA (AVEL- LINO) 22 XBRE. 1868. The ribbon for this
medal is of the Italian National colours. Three equal stripes—red, white
and green. NAVAL MEDAL OF VALOUR. Insti¬ tuted in March,
1836; modified in 1847, and again by Victor Emmanuel II in i860, to
reward the men of the Navy for heroism. In 1888, Humbert I established
three grades, gold, silver and bronze, according to the character
of the award. The obverse bears the Arms of Savoy on a shield, with a
crown above, and encircled by a palm and laurel branch tied at the
bottom; and round the outer edge is the motto AL VALORE DI MARINA.
On the reverse is an oak NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR wreath (less full than that of the
Military medal of Valour) with a reserve in the centre for the name
of recipient and mention of the act for which the medal is awarded.
The ribbon is dark blue moire, with one wide and one narrow white stripe
at each side. MEDAL OF MERIT FOR PUBLIC SAFETY. This
decoration was first insti¬ tuted on September 13, 1854, by Victor
Emmanuel II and was called “La Medaglia di Benemerenza per i Benemeriti
della salute pubblica” Its purpose was to reward the services of
volunteers in epidemics of contagious diseases and those who took
part in other ways beneficial to the health and safety of the
public. It is given in gold, silver and bronze. On the
obverse is a bust of the King to left, around which is inscribed UMBERTO
I RE D'IT ALIA. On the reverse are oak and laurel branches,
surrounded by the words SALUTIS PUBLICAE BENEMERENTI- BUS. A
reserve at the centre is left for the name of the recipient. On the
earlier models the bust and title of Victor Emmanuel AND
MONOGRAPHS II appeared on the obverse,
and the reverse motto read AI BEN EMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA .
The ribbon is light blue, edged with black. MEDAL FOR
VETERANS GUARDING THE TOMB OF THE KINGS. This medal was authorized
on July 14, 1879, and altered on January 1, 1880. It was established
to honour the veterans of the war of 1848-1849 who guarded the tomb
of Victor Emmanuel II. It is 30 mm. in diameter and of silver. The
ribbon is blue with a white stripe in the centre, with one edge green and
the other red. The first model has on the obverse a wreath of
laurel with a superimposed, five- pointed star bearing at the centre the
bust of the King and the words UMBERTO 1° RE D’lTALIA; on the
reverse, VETERAN! 1848-49 / GUARDI A D’ONORE / ALLA TOMB A DEL RE /
VITTORIO EMA- NUELEII. After the death of Humbert I, Victor
Emmanuel III altered the medal. The obverse bore his own bust and title,
and the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870 /GUARDIA D’ONORE /
ALLE TOMBE NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XII Italy Veteran
Guard of the Tomb of the Kings 54 ITALIAN
ORDERS DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E UMBERTO I. A
specimen of this design is in my collection. LIFE SAVING
MEDAL. Authorized by Royal Decree on March 8 , 1888 . This
decoration is awarded to those, not in the Navy, who have risked their
lives to save others from drowning, or shipwreck, or for other
forms ot personal valour at sea. It is issued by the Ministry of the
Marine. The medal is in silver and in bronze only and is not to be
worn on the person. The obverse bears the effigy of the King, facing
left, and the inscription VITTORIO EMANUELE III RE D J IT ALIA. The
reverse has two circles, one within the other; in the outer circle
occur the words MIN1STERO DELLA MARIN A, while the inner one is left
blank for the name of the recipient, the date and the statement
regarding the occasion of the award. MEDAL OF MERIT.
Authorized by a Decree of May 6, 1909. This medal was awarded to
all persons, including many NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIII
Italy Medal of Merit 56 ITALIAN ORDERS
AND foreigners, who from philanthropic or charitable motives
went to the relief of the inhabitants of Sicily and Southern
Calabria at the time of the earthquake of December 28, 1908. It is
34 mm. in diameter, and was issued in gold, silver and bronze. The
obverse bears the effigy of the King, facing left, and the words VITTORIO
EMA- NUELE III. On the reverse, the inscription TERREMOTO / 28
DICEMBRE 1908 /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬ rounded by a wreath
of oak leaves. The ribbon is green with a white stripe on either
side. A variation of this medal was issued, bearing on the obverse the
bust of the king surrounded by the inscription VITTORIO EMANUELE
III RE D’I TALI A. The reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO- RA TI V A /
TERREMOTO / C ALABRO SICULO/28 DICEMBRE /1908. The ribbon for this
has 5 stripes, alternately white and green. The writer
possesses an interesting medal, for the official issuance of which no
authority has been found. It is of silver, 33 mm. in diameter. The
obverse bears the head of NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 57 the King of Sardinia and
Savoy, facing left, with A CARLO ALBERTO at the sides. Under the
bust, the letters S.J. (probably standing for Stephano Johnson).
The reverse reads I VETERANI/ITALIANI /IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA
SUA TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark blue with a yellow
stripe each side. It is believed that these medals were given to
the veteran soldiers of Charles Albert who made the pilgrimage to
his last resting place. The Abbey of Superga was founded by Victor
Amadeus III near Turin. In its church rest the remains of the Princes of
Savoy. Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in 1849. His body
was buried on the heights of Superga. Italy later recognized his
devotion, and pilgrims still journey to his tomb. CRI MEAN M
EDAL. Italy was not back¬ ward in awarding what are commonly known
as Campaign or Service Medals but which the Italian authorities style
“Medaglie Commemorative.” That for the Crimean war was the first.
It was authorized on October 22, 1856, and was issued to the
Piedmont AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
troops serving during that campaign under General La Marmora. The medal
is of silver, 35 mm. in diameter. On the obverse appears the effigy
of the King, facing left, and the inscription VITTORIO EM AN U ELE
II. The reverse has in large letters, in relief, CRIMEA/1855-1856. The
ribbon is light blue with a narrow gold edge. Some authorities
assign a ribbon of the Italian National colours—red, white and
green. MEDAL FOR THE LIBERATION OF SICILY. This medal was
issued to com¬ memorate the dethronement of Ferdinand II and the
union of the ancient Kingdom of Sicily with the Kingdom of Italy. As
a result of that insurrection, Garibaldi with his thousand troops
landed at Marsala, and in three weeks was master of Messina. The
medal (30 mm.) is of silver and bronze. On the obverse is the bust of the
king and the words VITTORIO EM AN U ELE; below the bust, the
initials S.J., probably standing for Stephano Johnson, the maker. The
re¬ verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI SA VOIA / LIBERAZIONE DI
/ SICILIA NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 59 1860. The ribbon is red,
with one white and one green edge. STAR OF THE THOUSAND. Here
might appropriately be mentioned a unique dec¬ oration. On January
9, 1861, General Turr went to the island of Caprera to carry to
that great Italian patriot, General Giuseppe Garibaldi (1807-1882), the
Star of Honour which his famous thousand companions had offered
him. It is a gold star of seven points, loosely set with diamonds. In the
centre on a blue-enamelled field in letters of gold is ARTURO (a
star which is said to protect any one with an ideal). On this is
super¬ imposed a gold Trinacria, the emblem of Sicily. This is
surrounded by an enamelled band of white, green and red, inscribed
in letters of gold I MILLE AL LORO DUCE (The thousand to their
chief). This was the only decoration which that great General
consented to wear; and after his death at Caprera on June 2, 1882, the
star was given by his sons to the Quirinal Museum in Rome where it
may now be seen. AND MONOGRAPHS
6o ITALIAN ORDERS MEDAL OF THE THOUSAND,
or MARSALA MEDAL. Issued by the city of Palermo, and authorized by
the Italian government in 1865. It was presented to the troops of
Garibaldi who entered the City in i860, and is called LA MEDAGLIA
DEI MILLE. The obverse has in the centre an eagle with raised
wings, standing on a fillet inscribed S. P. Q. R. Around this are
the words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬ BALDI (To the brave men who
were led by Garibaldi). On the reverse within a wreath of laurel is
IL MUNICIPIO/PALERMI- TANO / RI VENDICA TO / MDCCCLX. Around this,
outside the wreath are the words MARSALA CALATAFIMI PALERMO. The
medal was issued in silver and in bronze. The ribbon is bright red, with
a gold stripe each side, and on the face of the ribbon is fastened
a silver Trinacria , the emblem of Sicily. MEDAL OF ITALIAN
INDEPENDENCE. This decoration was authorized in 1862. It is of
silver, and 32 mm. in diameter. On the obverse is the head of the king,
to left, NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XIV Italy Medal of
the Thousand 62 ITALIAN ORDERS around
which are the words VITTORIO EMANUELE II RE D’I TALI A The reverse
depicts a standing female figure, symbolizing Italy, holding in her right
hand a spear, and in the left, a shield with the Arms of Savoy.
Around the whole is in¬ scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA E V UNIT A
D’IT ALIA. The ribbon is composed of six narrow stripes of the
National colours—green, white and red. Bars or barrets are issued in
silver to be attached to the ribbon, as follows: 1848- 1849 (war
with Austria), 1855-1856 (Cri¬ mean War), 1859 (war with Austria),
1860- 1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and the Campaign in
central Italy), 1866 (war with Austria), 1867 (Campaign against
Rome), and 1870 (Capture of Rome). MEDAL FOR UNITED ITALY.
This medal was authorized in 1883. It is 32 mm. in size, and of
silver and bronze. On the obverse is the effigy of the King and the
words UMBERTO I RE D’lTALIA. On the reverse, within a laurel wreath the
in¬ scription UNITA/D’ITALI A/1848-1870. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XV
Italy Medal of Italian Independence
ITALIAN DECORATIONS Pl. XVI Italy
Medal for United Italy MEDALS OF
HONOUR 65 The ribbon has a broad green stripe with
a white and a red stripe on both sides. Unlike the British
campaign medals, few of the Italian medals are inscribed on the
edges. The writer has a group of three medals, inscribed PHILIP
FIGYELMESY COM ANDANTE USSERI UNGHERESI. These are for the Campaign
of United Italy, Liberation of Sicily, and for Italian Inde¬ pendence.
MEDAL FOR AFRICA. Created on November 3, 1894; sometimes called
the “Medal for Abyssinia.” It was awarded to the forces of the Army
and Navy which took part in the operations in Abyssinia, especially
in that portion bordering on the Red Sea, called Eritrea. This included
the campaign of 1887-1897 against Menelik II, who was the Negus of
Abyssinia. The medal was issued in bronze, 32 mm., and bears on the
obverse the crowned head of King Humbert I, facing right. On the reverse,
within a laurel wreath, are the words CAMPAGNE D } AFRICA. The
ribbon is red with blue borders. Silver bars, suitably inscribed,
AND MONOGRAPHS 66 ITALIAN
ORDERS were issued to the troops taking part in the
following expeditions, viz: Campagna 1887- 1888, Saati, Dogali Saganeiti,
Keren, Asmara, Adua, Agordat (1890), Halat, Serobeti, Agordat
(1893), Kassala, Halai, Coatit, Campagna 1895-1896 and Cam¬ pagna
1897. MEDAL FOR THE FAR EAST. Au¬ thorized on June 23, 1901,
and also known as the “Medal for China/’ or the “Medal for the
Boxer Uprising.” At the time of that unfortunate affair, when so many
of the Nations went to the relief of their lega¬ tions at Pekin,
Italy was among the first. To all those taking part in this
expedition, and to those who remained as guardians of the territory
until the end of the year 1901, this medal was given. It is of
bronze, 32 mm., and bears on the obverse the effigy of the King
facing left and the words VIT- TORIO EMANUELE III RE D’lTALIA; on
the reverse, within a wreath of laurel, CINA 1900 - 1901 . The ribbon is
yellow, with four dark blue stripes. Another medal for China is
exactly like the above, excepting NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl.
XVII Italy Medal for Africa
68 ITALIAN ORDERS that the reverse bears
the word CINA only. This was given to the troops and sailors who
served in China from December 31, 1901 to April 1, 1908. The ribbon
is similar. MEDAL FOR THE TURKISH WAR OF 1911 - 1912 .
But a few years ago Italy and Turkey were fighting desperately for
the control of Tripoli, a section of Northern Africa which had been
under Turkish rule for several centuries. It was at this time that
Germany all but precipitated a Euro¬ pean war by insisting upon certain
methods of settlement. Fortunately conflict was averted by the
treaty of Lausanne. To commemorate the triumph over Turkey and to
honor those engaged there, a silver medal of 32 mm. was authorized on
November 21, 1912. The medal was issued to all men of the Army and
Navy who took part in the operations against the Ottoman Empire,
whether in Africa or in Turkish territory. On the obverse of the medal is
the head of the King, facing right, and the inscription, VITTORIO
EM A N V ELE. III. RE NUMISMATIC NOTES
Pl. XVI 11 Italy War Cross
70 ITALIAN ORDERS D* I TALI A. On the reverse, within
a wreath of laurel, the words GUERRA / ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 .
The ribbon is of six narrow blue and five narrow red stripes of
equal width. MEDAL FOR THE WAR IN LIBYA. The treaty of
Lausanne did not stop all war operations on the part of Italy. The
tribes of the newly acquired Colonial possessions continued to make
trouble. To reward the troops taking part in such campaigns, a
silver medal of 32 mm. was authorized on September 6, 1913. This was
identical with the Turkish war medal, except that the re¬ verse
bears the words GUERRA/IN LIBIA. The ribbon is of the same design and
colour. WAR CROSS OF ITALY. Authorized in 1918. It was
awarded to those worthy of official recognition during the World
War, but whose service was not of sufficient im¬ portance to
warrant the Medal of Military Valour. The Decoration is of bronze,
38 mm., in the form of the Savoy Cross. On the obverse is inscribed
MER 1 T 0 Dl NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIX
Italy Medal for the World War 72
ITALIAN ORDERS GUERRA , above which is the King’s
crowned monogram, V. E. and III. On the lower arm of the cross is an
upright sword entwined with a branch of oak. The reverse has a.
star in the centre surrounded by rays. The ribbon is dark blue with
two white stripes. MEDAL FOR THE WORLD WAR. Created on July
29, 1920 and made from captured Austrian cannon. It is bronze, 32
mm. On the obverse appears the hel- meted bust of the King, encircled by
the inscription, GUERRA PER V UNIT A D' I TALI A 1915-1918 and
three branches of oak leaves. The reverse has an allegorical figure
of Victory, standing on a support borne by two helmeted soldiers, and
the inscription CONIT A NEL BRONZE N E- MICO (Coined from enemy
bronze). The ribbon has eighteen narrow stripes of green, white and
red—six of each colour. Bars were issued to be worn on the ribbon
to designate the years of service in the war. These bear the dates
of 1915 , 1916,1917 and 1918 . NUMIS M ATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl.
XX Italy Medal of National Gratitude
74 ITALIAN ORDERS VICTORY MEDAL.
Created on De¬ cember 16, 1920, but not issued until 1922. The
medal is bronze, 36 mm. As with the Victory medals of the other allies,
the winged Victory is the dominant feature. This figure stands
facing on a triumphal chariot drawn by four lions. The reverse shows
a tripod above which two doves of peace are to be seen. At top the
inscription GRANDE- G VERRA-PER-LA-Cl VILTA . In field, at each
side of tripod MCMXIV-MCMXVIII, below, in two lines, AI COMBATTENTI
BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬ CIATE. The badge is suspended by
the rainbow ribbon as are all the Victory medals. MEDAL
OF NATIONAL GRATITUDE. This medal is awarded to mothers who lost
sons in the World War. The obverse shows an allegorical figure presenting
a wreath to a fallen warrior. Standing alongside is another female
in an attitude of grief. The reverse has an inscription in eight
lines IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL DOLORE / TI RINASCE “0 BEAT
A” / NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXI Italy
Victory Medal 7 6 ITALIAN ORDERS
AND NELLA GLORIA / E IL VIVO EROE / “PIENA DI GRAZIA” / E
PECO. The ribbon is grey with center composed of narrow green,
white and red stripes. MEDAL FOR WAR ORPHANS. This medal has
also been authorized but no information has been received concerning
it. ITALIAN UNITY MEDAL. This medal has not as yet been
distributed and details concerning it are lacking. It is to be sold
and the money received is to go to the widows and mothers of those killed
in the war. MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS, Notice has been
received that a medal will be issued shortly to those who
volunteered in the World War. CROWN OF MERIT. At this
writing, and before any confirmation could be secured, advices have
come that the Councils of Ministers have proposed a decoration to
be awarded to clerks and workingmen who have remained faithful to
their employers for NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 77 twenty-five years or more.
Presumably this medal is intended to stimulate a spirit of co¬
operation between the employed and em¬ ployer. No decision as to the
design has been announced. Several of the municipalities of
Northern Italy issued medals to honor those who aided in the
efforts to free that country during the strenuous days of 1848-1849. None
of these medals of the cities are official medals, and consequently
few if any of the authori¬ ties mention them. They are inserted here
in order that the numismatist may have some facts relating to them.
Como had a medal inscribed on the ob¬ verse, COMO LIBERATA NELLE
GLORI- OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848 . The reverse bears the Arms
of the city and the words AL VALORE DEL CITTADINO. Bologna
issued a medal inscribed VIT¬ TORIO BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 . On the
re¬ verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA DIO SI PONE ALLA SUA
TESTA. Livorno’s medal bears on the obverse AI V A LOROSI
DIFENSORI DI LIVORNO 10 E 11/5 18 49. The reverse bears the
AND MONOGRAPHS 78 ITALIAN ORDERS
AND Arms of the State and the words MUNICI- PIO DI LIVORNO.
The ribbons for the above medals are red and white. Milano
likewise had a medal to show her appreciation of the efforts of her
citizens for freedom. It bears on the obverse a figure of Victory
and the dome of the Cathedral. The reverse has the Arms of the State
and the inscription COMMUNE DI MILANO. The ribbon is red and
yellow. Cadore, Vicenza and Brescia are also said to have
issued medals, but a dependable description has not been obtainable.
During the war of 1848-1849 against Austria, and the several
Principalities of which Italy is now composed, Rome, too, became
involved. At the time of the Insurrection of 1848, Pope Pius IX fled
to Gaeta, where he remained until 1850. On February 9, 1849, Rome
was declared a Republic. To those who took part in the
Insurrection, and who aided in the formation of the short-lived Republic,
as well as for connection with subsequent events, Rome awarded
several medals. As with the others, authentic information is difficult to
obtain. NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR 79 MEDAL OF MERIT. Issued for the
battle of Vicenza on June io, 1848. This medal was of both silver and
bronze, and 30 mm. in diameter. On the obverse within a wreath of
oak leaves, the Arms of the city of Rome—a crowned shield, bearing
the letters S. P. Q. R. (Senatus Populus que jRoman us —The Senate
and the people of Rome). Around this device is the inscription
ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI. On a plain reverse is the motto, P
VGNA STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA TA / IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL
VIII. The ribbon is of equal stripes of magenta and yellow—the
colours of Rome. MEDAL OF MERIT (Rome). Issued in silver and
bronze. The obverse has in the centre, the she-wolf with Romulus
and Remus. Around this is BENEMERITO DELLA PATRIA, with an oak and
olive branch beneath. The reverse has in the centre a group of
flags and a trophy of arms, surrounded by the inscription INDIPEN-
DENZA ITALIAN A 1848 . The ribbon is similar to the preceding.
AND MONOGRAPHS 8o ITALIAN
ORDERS MEDAL OF MERIT. Struck in silver and bronze, and is
said to have been issued by the Republic of Rome to those who dis¬
tinguished themselves during the Insurrec¬ tion of 1848. It is 30 mm.,
and has on the obverse the she-wolf with Romulus and Remus,
standing on a pedestal, bearing the letteisS. P. Q. R . The reverse reads
AL MERITO, surrounded by an oak wreath. The ribbon is magenta and
yellow. Another medal is described by one au¬ thority as a
reward to the combatants of 1848. It is 23 mm., bronze, and bears
on the obverse an allegorical female figure, holding a spear in her
right hand and a cornucopia in her left. At her feet is a globe
surmounted by an eagle. Above is a rayed .star. On the edge is
inscribed REPUBLIC A ROM AN A. On the reverse is the motto ALLA
VIRTU CITTADINA within an oak wreath. This is surrounded by the
inscription LA P ATRIA RICONO- SCENTE. No ribbon is described.
According to Padiglione still another Medal of Merit was issued in
commemora¬ tion of September 20, 1870, when Rome was
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. XXII Rome. Battle of Vicenza Rome. Medal of
Merit 82 ITALIAN ORDERS AND admitted
into the Kingdom of Italy. Scul- fort, a French writer, says this medal
was given to commemorate the proclamation of the Republic of Rome
in 1848; although preference is here given to the Italian
authority’s version. The medal was issued in silver and bronze, 30 mm. in
diameter. On the obverse is a shield bearing the Arms of the City,
surmounted by the she-wolf with Romulus and Remus. This device
rests upon two crossed battle axes and an oak wreath. The reverse bears
within an oak wreath ROMA /RIVENDICA TA ,/AI SUOI/LIBERATORI,
surmounted by a star. The ribbon has narrow alternating stripes of
magenta and yellow. Some rib¬ bons have nineteen stripes; others
have eleven. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 83 THE TWO
SICILIES Even more so than with Italy proper, Sicily has been
a battle-ground from the earliest times. And this condition, as is
usually the case, has made the numismatics of Sicily of great importance.
Before the period of coinage, the Sikels dwelt in the land. Later
the Carthaginians disputed with the Greeks for its control, both
yielding ultimately to the Romans. In addition to the struggles
between the Normans and the Spaniards for its possession, it had to
with¬ stand the onslaught of the Saracens. Sicily, especially
in the mediaeval period, has shared the fate of the kingdom of
Naples, or, as they came to be known, the Kingdom of the two Sicilies—a
title which in itself is a commentary of the relative importance of
Naples. After the Lombard rule in the nth century, the
Normans,under Count Roger, brought about a consolidation of Naples
and Sicily. The conquest dates from 1130 A.D., when he assumed the
title AND MONOGRAPHS 8 4
ITALIAN ORDERS AND of King of Naples and Sicily. There
were two periods of separation—1282 to 1442 and 1458 to 1504, but
after the last-named year the two kingdoms remained under one crown
until the unification of Italy in 1861. It is unnecessary here to dwell
upon the constantly changing rule for the two king¬ doms more than
to mention the conflict between the House of Anjou and of Aragon
through the 14th and 15th centuries. Under Charles VIII (from 1494), the
French ruled, while between 1504 and 1707 the Spanish were in
control. They were followed by the Austrians (until 1720). After
that date Spanish Bourbons held possession. The Napoleonic
rule on the mainland dates from 1805, while Ferdinand IV con¬
trolled the island of Sicily. The downfall of Napoleon at Waterloo saw
the two kingdoms again united under the Bourbons. The wars for the
independence of Italy, and the efforts of Garibaldi in 1859 and
i860, finally brought both sections into the Kingdom of Italy and
under the rule of the house of Savoy. NUMISMATIC NOTES
M EDALS OF HONOUR 85 ORDER OF THE
SHIP. In 1269, St. Louis founded in France the Order of the Ship or
of the Double Crescent. Upon his death in 1270, his brother, Charles
d’Anjou, established this order in the Kingdom of Naples. Owing to
the design of the collar, this order is sometimes given a third
name— The Order of the Sea Shell. The insignia was a gold collar of
scallop shells, alternating with double crescents. From this was
suspended a medal with a ship as its design. The motto is NON CREDO
TEMPORI. Clark, an Eng¬ lish writer, describes an order founded in
1382 by Charles III, King of Naples, called the “Order of St.
Nicholas,” while Elias Ashmole styles it “The Order of the Argonauts
of St. Nicholas.” Both give the motto as NON CREDO TEMPORE
Apparently, therefore, this is a survival or a later form of the
Order of the Double Crescent. ORDER OF THE CRESCENT. Favine
states that this order was founded in An- giers, France, in 1464, by
Rene, Duke of Anjou, King of Jerusalem and Sicily. Ashmole quotes
St. Marthes as giving 1448 AND MONOGRAPHS
86 ITALIAN ORDERS AND as the date for
its foundation. Rene was unable to hold his island kingdom very
long. The order was not popular, and those honoured with it were
afraid to wear the badge. The insignia consisted of three gold
chains from which is suspended a gold crescent, bearing three letters in
red, L.O.Z., which signify, according to Favine, L’oz en croissant
(Praise by increasing). To the crescent were attached gold tags
indicating the battles and feats of honour in which the knights had
been engaged. 2 Aragon controlled the Island Kingdom of
Sicily from 1282 to 1442. In 1351 Louis I, King of Sicily, founded the
ORDER OF THE STAR to replace that of the CRESCENT MOON. This
insignia was a Maltese cross, in the centre of which is an eight-
pointed star. This Order seems to have been discontinued in 1394.
Giustinian, the Italian writer in 1692, gives a list of eighteen
Grand Masters of the Order of the Crescent Moon and of the Star from 1268
to 1667. This would seem to indicate that the Orders described
above were connected or continued by the several rulers under different
titles. NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR OO ^4 ORDER OF THE SPUR. Founded
in 1266 by Charles d’Anjou, King of Naples and Sicily, to
commemorate his triumph over Manfred near Benevento. The insignia
is a white-enamelled cross, each of the arms having double points.
A spur is attached at the base. The Order was shortlived.
ORDER OF THE KNOT OF NAPLES. Created in 1351 by Louis of Taranto
when he married the Queen of Naples. This was also termed the
“Order of the Holy Spirit of the Right Desire.” It ceased to exist
after the death of the founder. The insignia is a knot of cord entwined
with i gold thread. ORDER OF THE REEL AND LIONESS
(Naples). This Order, of short duration, was instituted by partisans of
the house of Anjou, during the troubles of 1386-1390. The insignia
is a yarn reel and a lioness, the significance of which is difficult to
learn. Clark, writing in 1784, states that the followers of Louis
II, Duke of Anjou, were divided into two factions, one of which
wore AND MONOGRAPHS
88 ITALIAN ORDERS AND on its arms an embroidered
reel as a sign of contempt for Queen Margaret, widow of Charles
III, who desired to hold the reins of government. This faction took the
name of “Knights of the Reel.” The other, the Knights of the
Lioness, wore on its breast the figure of a lioness with feet tied,
indi¬ cating that it looked upon Queen Margaret as one tied by the
leg. ORDER OF THE ERMINE (Naples). Founded in 1463, by
Ferdinand I (1423- 1494) Aragon, King of Naples, at the end of the
war which he had been waging against John of Anjou, Duke of Calabria. He
was led into this war by his brother-in-law, Marinus Marcianus,
Duke of Sesso, who conspired to murder Ferdinand. Marinus Was not
only pardoned for his treachery but was admitted into this Order. The
motto was MALO MORI QUAM FOEDARI (Death is preferable to dishonor),
and the patron was St. Basil. The badge is a gold ermine suspended
from a gold chain. Au¬ thorities differ as to the exact date of
both the creating and discontinuance of this Order.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 89 ORDER OF THE GRIFFIN (Naples).
Attributed to Alphonse by Perrot and by De Genouillac. The date of its
founding is given as 1489. As Alphonse died in 1458 and was
succeeded by his son, Ferdinand I, who reigned until 1494, it may,
therefore, have been instituted by Ferdinand. No descrip¬ tion of
the insignia can be found. ORDER OF SAINT MICHAEL (Naples).
This Order is likewise attributed to Ferdi¬ nand I, and the insignia is
described by Ashmole as an oval, bearing the word DECORUM . No
other record has been found. ORDER OF SAINT JANUARIUS (of
the Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by King Charles of Sicily
(1716-1788), to cele¬ brate his marriage with Princess Amelia, daughter
of Augustus III of Poland. Charles was of the Spanish Bourbons, and
second son of Philip V. His army had conquered Sicily, and he
became its King in 1735 at the age of eighteen, having previously
borne the titles of Duke of Parma and Grand-Duke AND
MONOGRAPHS 90 ITALIAN ORDERS
of Tuscany. In 1759 he became Charles III of Spain, at which time
he resigned his Neapolitan and Sicilian Kingdom in favor of his
son, Ferdinand. Charles formed the Noble Order of the Immaculate
Conception of the Virgin Mary, often also called “The Order of
Charles III of Spain.” It was he who, as King of Spain, joined France
in sending assistance to the American Colonies in their war of
Independence. At the Peace Treaty following that conflict, he
recovered Florida for Spain from England, to whom it had been ceded
in 1763. Saint Januarius (San Genaro), for whom this Order is
named, was the Patron Saint of Naples. Relics of this Saint, to
whom miraculous cures are attributed, are pre¬ served in the
cathedral named for him in that city. When the French invaded
Naples in 1806, the Order was abolished in that country, though it
continued in Sicily, whither Ferdinand had fled. It was revived
after 1814. At the present time it is classed among the non-active Orders
of Italy. There are two classes: Knights and Honor¬ ary Knights.
The badge of the Order is a NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXIII Two
Sicilies Order of Saint Januarius ITALIAN ORDERS
AND gold Maltese cross, enamelled red with white edges; gold
Bourbon lilies in the angles. The obverse centre has a figure of
the patron saint, San Genaro, clad in a red robe and hat, with an open
book in the left hand. The reverse shows an open book and two
receptacles partly filled with the mirac¬ ulous blood of this martyr. The
ribbon is bright red. The plaque is of silver, the same design as
the cross, and bears the words IN SANGUINE FOEDUS (the Covenant in
Blood). ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT CHARLES. Instituted by
Royal Decree of October 22, 1738, by King Charles, its purpose was
to reward citizens and members of the army and navy who had shown
exceptional zeal and fidelity to the crown. This Order supposedly never received
the Apostolic confirmation of the Pope, and according to an Italian
writer, Ruo, was shortlived, all record of its existence having
been lost when Charles, its founder, assumed the throne of Spain in
1759. The decoration is a fou r-armed cross, each
NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR 93 arm terminating in the form of a lily,
and the whole surmounted by a royal crown. The centre medallion
bears the image of Saint Charles. No description of the reverse is
given. The ribbon is violet. ORDER OF SAINT FERDINAND and OF
MERIT. Founded on April i, 1800 by Ferdinand IV, King of Naples (also
Ferdi¬ nand III of Sicily and I of the Two Sicilies). It was
instituted in commemoration of his having been restored to his Kingdom
after the defeat of the French by the united forces of England,
Austria, Russia and I Turkey. The object of the Order was to
reward the Neapolitans who had remained faithful to the King and his
monarchy. Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of the first
foreigners to have this Order bestowed upon him. He was made a
Knight of the Grand Cross. Like the Order of Saint Januarius, this was
suppressed in Naples when the French under Joseph Bonaparte
controlled that country. It was continued in Sicily until 1814 but is
said to have been definitely abolished in i860. AND
MONOGRAPHS 94
ITALIAN ORDERS There were three classes: Knights of
the Grand Cross, Commanders and Chevaliers. The cross of this Order
is a gold star of six branches, in the form of rays. In the angles
are Bourbon lilies. The whole is surmounted by a crown of gold. The
gold-centred medallion bears a figure of St. Ferdinand in Royal robes
and crowned, holding a laurel wreath in the left and a sword in his
right hand. The encircling blue-enamelled band is inscribed FI DEI ET
MERITO. The reverse centre of gold is inscribed FERD. IV. INST.
ANNO 1800 . The plaque of the Order is similar to the obverse of the
cross, without the crown. A dark blue ribbon with red edges is used
for suspension of the cross. MEDAL OF HONOUR. By a decree of
July 25, 1810, Ferdinand IV added a gold and silver Medal of Honour. This
was 33 mm. in diameter, with the obverse similar to the cross. The
reverse was inscribed FI DEI ET MERITO. This was worn with a
similar ribbon. Officers and privates of the Army and Navy were awarded
this medal for distinguished services. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXIV Two Sicilies Medal
of Honour 96 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF
MERIT FOR LOMBARDY. Ferdinand IV instituted a medal of silver for
the Neapolitan troops who assisted him in the campaign in Lombardy
against the French in 1796. This was 38 mm., bearing on the obverse
the helmeted effigy of the king and the title, FERDIN. IV UTRI
SICILIAE REX P.F.A. ( P-Pio , devout, F-Forte, brave, A-Augusto ,
august). On the reverse, within a laurel wreath, FI DEI/ REGIAE DOM
US / PA TRIAE / PROPUG- NA TORI /OB / EG REGIA FACTA . In the exergue,
E. V.A/MDCCXC VI. MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This medal was of
gold and awarded by Ferdi¬ nand IV to the troops who distinguished
themselves in the Siena campaign in 1797. On the obverse is the helmeted
effigy of the king and his title FERDIN AN DUS IV UTRIUSQ. SICILIAE
REX P.F.A. On the obverse is an allegorical figure of a woman
crowning a soldier with a laurel wreath. Surrounding this, an
inscription reads MI LI TIB US BENE DE REGE AC PATRIA MERIT 1 S. In
the exergue is NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR 97 E. V.A./MDCCXC VII. The ribbon is
blue and white, edged with narrower stripes of blue (Sculfort, p.
176). MEDAL OF HONOUR FOR THE SIEGE OF GAETA. When Napoleon I
sent his brother Joseph Bonaparte to rule over the kingdom of
Sicily, Ferdinand IV fled to Gaeta. This fortress was gallantly de¬
fended in 1806 against the French under Marechal Massena, but was finally
forced to capitulate, and Ferdinand fled to the island of Sicily.
To reward those who valiantly assisted him to hold his kingdom,
Ferdinand IV instituted this Medal of Honour. It is 35 mm., and was
struck in both gold and silver, and is suspended from a deep red
ribbon. The obverse of the medal has a bust of the king facing to
right, the head wearing a helmet, laurel wreathed and surmounted by
a dragon. The inscription is FERDI- NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX.
The reverse has in the centre a view of the fortress of Gaeta, surrounded
by the motto, MERITO ET FI DEI CAJETAE DEFEN - SO RUM 1806 .
AND MONOGRAPHS 98
ITALIAN ORDERS AND ROYAL ORDER OF THE TWO SICI¬ LIES.
Created on February 24, 1808, by Joseph Napoleon, when King > of
Naples It was issued in three classes: Grand Officers,
Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬ rat, when ruler, modified the Order
in 1811; its purpose was to reward those who had assisted in the
conquest of the country. The decoration is a red-enamelled star of
five points, ball tipped and with gold edges. Above this is the Imperial
eagle surmounted by a crown. In the centre medallion is the Arms of
Sicily, a Trinacria or Triquetra, having a face in the centre. This
me¬ dallion is surrounded by the title, JOS. NA- POLEO SICIL. REX
INST 1 TUIT. The reverse medallion bears a prancing horse, the Arms
of Naples, encircled by a blue- enamelled band inscribed PRO RENO V A
TA PATRIA. The ribbon is dark blue with a red stripe in
centre. Following the death of Murat on October 13, 1815, the
Kingdom was restored to Ferdinand IV, who changed the design of the
above decoration. The star was at¬ tached to the surmounting crown by a
lily N U M I S M ATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 99 (replacing the eagle). The obverse
medal¬ lion contained the Arms of Sicily and of Naples, surrounded
by the inscription FERDINANDUS BORBONIUS UTRI- USQUE SICILIAE REX
P.F.A. (Pio Forte Augusta). The reverse medallion had in the centre
a Bourbon lily and the motto FELICITATE RESTITUTA X. KAL.JUN. 1815
. The ribbon was changed to azure blue with a red stripe in the centre.
This Order was finally abolished in 1819 and replaced by the “Order
of Saint George of the Reunion.” MEDAL OF HONOUR FOR THE PRO¬
VINCIAL LEGION. On March 29, 1809, Joachim Murat, instituted this medal
for the Provincial Legion. It is of silver and bronze, and bears on
the obverse the effigy of the King, facing to left, encircled by
the words GIOACCHINO NAPOL. RE DELLA DUE SICIL. On the reverse is a
group of fourteen flags and a royal crown, the outer flags bearing,
respectively, the words SICUREZZA/INTERNA. Around this device is
the inscription ALLE LEGIONI AND MONOGRAPHS
IOO ITALIAN ORDERS AND
PROVINCIALI 26 MARZO 1809 . The ribbon is light blue moire. Ruo,
the Italian writer, states that the inscription on the obverse is
Gioacchino Napoleone, but the previous description is taken from a
medal and various French authorities. MEDAL OF HONOUR FOR
NAPLES. Murat authorized another Medal of Honour on November i,
1814, to reward the guard of Naples for its devotion to his cause. It
is of gold and silver, in the form of a wreath of oak and laurel
leaves, tied with a ribbon and surmounted by a crown. Superimposed
on the wreath are two crossed flags, enam¬ elled in the colours of the
kingdom. On the obverse centre medallion of white is the bust of
the king, facing to left, and the title GIOACCHINO NAPOLEONE (or
GIO¬ ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the re¬ verse medallion are the
words ONORE ET FEDELTA. The ribbon is magenta. The Medal for Civil
Merit is similar to the above, except that the reverse is inscribed
ONORE ET MERITO. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR IOI MEDAL OF
HONOUR. After the death of Murat at Pizzo, a medal of 38 mm. was
authorized by Ferdinand IV. It was issued in gold and silver, and worn
with a bright red ribbon. On the obverse is a crowned effigy of the
restored king, facing to left, and the inscription FERDINANDUS IV
UTRI USQUE SICILIA E REX P.F.A. The reverse has in the centre a large
Bourbon lily, surrounded by the inscription OB EGREGIAM URBIS PITH
FIDELITA- TEM. In the exergue, POSTRIDIE NO¬ NAS OCTOBRIS/ANNI R.
S./MDCCCXV. MEDAL OF HONOUR (Sicily). By de¬ crees of August
9 and 30, 1816, bronze medals were authorized and awarded to
soldiers and sailors who were faithful to the cause of Ferdinand IV. This
is a green- enamelled Maltese cross with gold Bourbon lilies in
each angle. The centre medallion bears the effigy of the king to right,
and the words FERDINANDO IV INSTITUI 1816 . The reverse has in the
centre a lily and the inscription CONSTANTE ATTACCA- MENTO. This
was worn with a red ribbon. AND MONOGRAPHS
102 ITALIAN ORDERS SECURITY GUARD MEDAL.
Created on May 30, 1816, and issued in gold and silver; it was worn
with a Bourbon red rib¬ bon. The medal is surrounded by a wreath of
oak leaves and surmounted by a crown, attached by laurel branches. On
the obverse is the effigy of the king surrounded by the title
FERDINANDO IV RE DELLE DUE SI Cl LIE P.F.A. The reverse bears a
lily and the motto ALLA GUARDI A Dl SICUREZZA. In the exergue, PER
LA GIORNATA DE 22 MAGGIO 1815 . ROYAL MILITARY ORDER OF
SAINT GEORGE OF THE REUNION. This order was created on January 1,
1819, by Ferdinand IV. It commemorated the reunion of Naples and Sicily,
and was awarded for valour, military distinction and loyalty. There
are four classes: Knights of the Grand Cross, Commanders, Officers
and Chevaliers, the decoration varying in size according to the
grade. This Order was discontinued in i860, with the formation of
the present Kingdom of Italy. The insignia is a red-enamelled cross,
fleuree, with i NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXV
Two Sicilies Order of Saint George of the
Reunion 104 ITALIAN ORDERS AND concave
arms. Two gold swords cross at the angles, and a wreath of
green-enamelled laurel connects the arms of the cross and the
swords. The medallion bears a figure of Saint George slaying the dragon;
around this is a blue-enamelled band inscribed IN HOC SIGNO VINCES.
The reverse is the same, with the word VIRTUTI above. The ribbon is
light blue moire. The decora¬ tion of the Knights of the Grand Cross
is distinguished from the other grades by a gold pendant of St.
George and the dragon. The Chevalier’s cross has no such pendant;
and on the reverse is the word MERITO. MEDAL OF ST. GEORGE. In
addition to the “Order of Saint George of the Re¬ union,” gold
medals were awarded for heroism in war, and in silver for continued
service. These are 28 mm., bearing in the centre the figure of St. George
slaying the dragon, encircled by a wreath and the words VIRTUTI or
MERITO according to the purpose of the award. The obverse and
reverse are the same. The ribbon is blue with yellow edges.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
105 ORDER OF CONSTANTINE, (described on page 18). Instituted
in Naples and Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph Bonaparte abolished
it in 1808, although it continued in the island of Sicily. Upon the
return of Ferdinand IV to Naples in 1814, it was restored in both
Kingdoms. ROYAL ORDER OF FRANCIS I. Francis I, upon the
death of his father, Ferdinand IV, became King of the Two Sicilies
on January 4, 1825. He was of the Neapolitan branch of the Bourbon
family. On September 28, 1829, he founded the Royal Order of
Francis I. Though usually conferred as a reward for Civil Merit,
the army was not debarred from its honours. There are five classes:
Grand Cross, Com¬ manders, Officers, Knights and Chevaliers. The
fourth and fifth classes receive, re¬ spectively, the gold and silver
medals, described later. This Order was discon¬ tinued in i860 when
the Kingdom of the Two Sicilies became part of Italy, though, as a
family Order, it was continued for a while longer. The decoration is a
four-armed, AND MONOGRAPHS
io6 ITALIAN ORDERS AND double-pointed cross of
white enamel with gold edges, surmounted by a gold crown. Bourbon
lilies of gold are in each angle. The medallion is larger than in most of
the other Orders. In the centre, on a field of gold, appear the
initials of the founder, F.I., with crown above. These are surrounded
by a laurel wreath of enamel. On the blue encircling band are the words,
DE REGE OP TIME MERITO. The reverse bears the inscription
FRANCISCUS PRIMUS IN- STITUIT MDCCCXXIX, within a green wreath. The
ribbon is bright red with blue edges. The star or plaque of the
order is a silver cross without the crown, and with the same centre
medallion. The gold and silver medals, worn by the fourth and
fifth classes, are 36 mm. in diam¬ eter, bearing on the obverse the
portrait of the founder, within a laurel wreath, and the inscription
FRANCISCUS I.D.G.UTRI¬ USQUE SICIL. ETHIER. REX. The reverse has
three Bourbon lilies in the centre within a wreath, and the motto DE REGE
OPTIME MERITO 1829 . The ribbon is dark red with blue edges; not as
wide as that for the Cross. NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXVI Two Sicilies
Order of Francis I io8 ITALIAN ORDERS AND
MEDAL OF CIVIL MERIT. Authorized by royal decree of December 17, 1727.
It is of gold and silver and worn with a red ribbon. The obverse
bears an effigy of the king, and the title FRANCISCUS I.D.G. REGNI
UTRIUSQUE SICIL. ET HIER. REX. On the plain reverse is engraved the
name, date and cause of award. A medal similar to this was awarded during
the reign of Ferdinand II and may be found with either of the
following inscriptions: FERDI- N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬
LIA E ET HIERUS. or FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.
Another MEDAL OF CIVIL MERIT was issued, 44 mm. in size. On the
obverse are busts of Francis I and Queen Maria Isabella, facing to
right, surrounded by branches of laurel. On the reverse is a Bourbon
lily, crowned. MEDAL FOR MESSINA. Francis I was
succeeded in 1830 by his son, Ferdinand II, who died in 1859. Ferdinand
II instituted the Medal for Messina for troops faithful to him, in
that city, during the Revolution NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR
109 of 1847. It is of bronze, and 30 mm. On the obverse,
within a wreath of oak and laurel leaves, is the word FEDELTA with
one Bourbon lily. The reverse reads, MESSINA 1 SEPTEMBRE 1847 . The
ribbon is light blue and white. A variant of this medal has on the
obverse the effigy of the king and the words FERDINANDO II RE DEL
REGNO DELLE DUE SICILIE; and on the reverse the word FEDELTA.
LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand II also created a bronze medal for
Long Service. It is 38 mm. and bears on the obverse the king’s bust
on a pedestal, surrounded by implements of war and flags. Above is
FERDIN ANDO II. The reverse reads LODEVOLE SERVIZIO MI LI TARE DI
25 ANNI. The ribbon is red. MEDAL FOR THE SIEGE OF MES¬
SINA. After the long siege of the citadel of Messina in 1848 by Ferdinand
II which resulted in his reconquest of Sicily, a com¬ memorative
medal was authorized by the king. This was to reward the troops who
AND MONOGRAPHS no
ITALIAN ORDERS had taken part in the campaign. The
medal for the senior officers was of gold and enamel, 35 mm. in diameter.
On the obverse within a green-enamelled laurel wreath, is a
pentagonal fort; in the corners are five bombs, the flames of which
rest upon the wreath. In the centre is the fleur-de-lis of the
Bourbons, in relief. The reverse is similar, except that in the
centre of the pentagon is the legend, ASSEDIOJ DELLA 1 CITTADELLA /
DI MESSINA / 18 ^ 8 . The ribbon is red. For the junior officers
and soldiers the medal was of bronze and of the same size, without
enamel. Obverse and reverse are identical, and the medal was worn
with a red ribbon. A variant of this medal has a plain reverse, no fort,
or bombs, but with the same inscription in relief. MEDAL FOR
SICILY. Created for the troops who, under the leadership of Filan-
gieri, suppressed the Insurrection of 1848- 1849. This is of bronze-gilt,
and displays the effigy of Ferdinand II facing to right within a
wreath of oak leaves. Outside, the wreath are two draped flags, the whole
is NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. Two Sicilies Siege of
Messina Long Service Medal, Ferdinand II 112
ITALIAN ORDERS surmounted by a Bourbon lily. The plain
reverse has CAMPAGNA DI SICILIA 18 J/. 9 , in relief. The ribbon has
three equal stripes of light blue and white. MEDAL FOR
CAMPAIGN OF 1860 . Francis II came to the throne of Sicily in 1859,
about the time of the Garibaldi campaign for the Independence of
Italy. His reign was short. The Medal for the Campaign of 1860 was
created by him for those troops who were loyal to him and opposed
to Garibaldi. It is bronze, 37 mm., and bears on the obverse the effigy
of the king, facing to left, within a wreath of oak leaves.
Surrounding this is FRANCESCO II RE DELLE DUE SI Cl LIE. The
reverse bears the words, TRIFRISCO, CAIAZZO, S.MARIA,S. ANGELO,
GARIGLIANO, sur¬ mounted by three Bourbon lilies. Around this
inscription appear the words, CAM¬ PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The
ribbon is red with a blue stripe in the centre. CAMPAIGN OF
EASTERN SICILY. Authorized in i860. It bears on the obverse
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXVJ1I Two Sicilies Medal for Sicily, Ferdinand
II the effigy of Francis II facing to right, and the words
SICILIA OCCIDENT ALE/ APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse, within
a wreath of laurel, the words AL V A LORE. This is bronze, and 27
mm. in diameter. A variant of this medal was issued without the
likeness of the king on the obverse. MEDAL FOR THE DEFENSE
OF CATANIA. The obverse bears the effigy of Francis II, a trophy of
arms, and the words CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse, within a
wreath of laurel, the words AL V A LORE. MEDAL FOR
GAETA. Issued to the refugees who fled to Gaeta with the Royal
family in 1860-61 when Garibaldi entered Naples. The medal is silver, 36
mm., having on the obverse the jugated busts of the King and Queen
Maria Sophia of Bavaria and the words FRANCESCO II—MARIA SOFIA. The
reverse shows a view of the city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in
the exergue. A variation of this medal has NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXIX
Two Sicilies Medal for Gaeta, Francis II
on the reverse the fortress of Gaeta only, with the same
inscription in the exergue. After the Garibaldi campaign of
1860- 1861 for the freedom of Sicily, and after the Royal family
had given up the Kingdom of Sicily, Francis II by a decree dated
March 12, 1861, authorized medals for all his soldiers who took
part in the second siege of Messina. It appears that dies were made
but only one medal is known to have been struck. That rests in the famous
Ricciardi collection in Naples. The writer is in¬ debted to Sig.
Guido de’Mayo’s article in the May-June 1922 issue of Miscellanea
Numismatica, which describes this medal. It is silver, 35 mm., and
bears on the obverse the jugated busts of the King and Queen,
facing to left (similar to the Gaeta Medal), and the titles, FRANCESCO
II— MARIA SOFIA. The reverse has a design of the pentagonal
fortress of Messina; in the corners of the pentagon are five bombs,
the flames of which rest on the wreath which surrounds the fort. In the
centre is the Bourbon fleur-de-lis. The exergue reads CITTADELLA DI
MESSINA 1860-61. The ribbon is given as red with blue
stripes. MEDAL FOR SICILY. This is said to have been awarded
to those who took part in the uprising against Ferdinand II in
1848, in the movement for a United Italy, but the purpose of this
award cannot be verified from the several authorities consulted. It
was issued in silver and bronze, 30 mm., and suspended from a ribbon of
the Italian National colours—three equal stripes of green, white
and red. On the obverse is an allegorical figure of Sicily, armed with
a sword; at her feet is a shield with the Arms of Sicily, while in
the sky, a brilliant sun bears the Arms of Savoy. In the distance is
Mt. Aetna in eruption. The reverse has in the centre SICILIA/1848.
Around this is the inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO
D’lTALIA. AND MONOGRAPHS
118 ITALIAN ORDERS AND TUSCANY
Tuscany, the ancient Etruria, lies south of the Apennines. On the
east it was bounded by the districts of Umbria and the Marches,
while to the south lay the section known in Classical times as Latium,
but which later, with the rise of the Church, was usually known as
the Papal States. None of these provinces had boundaries that were
fixed for any great length of time, and their geographical history is
very com¬ plicated. Between the ioth and 16th
Centuries, Tuscany was composed of several self- governed communes
or Republics, the most important of which were Lucca, Pisa,
Florence and Siena. The Medici family was a dominant factor in the
government for a long period. In 1735 the country came under
Austrian rule. Francis, Duke of Lorraine and afterwards Emperor of Aus¬
tria (1708-1765), became Grand Duke of Tuscany. He succeeded John Gaston,
the last of his line, and thus the Duchy passed NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR 119
from the control of the Medici and into that of the Hapsburg
family. This had been arranged by treaty. The Hapsburgs
continued in control until the entrance of the French in 1799 under
Napoleon I, though the battle of Waterloo in 1815 brought back once more
their rule in the domain. Ferdinand III (1769-1824) was succeeded
by his son, Leopold II, who lost the Duchy of Tuscany when the
constit¬ uent Assembly voted for its inclusion in the Kingdom of
Italy on August 16, i860. From that time all the Orders of Tuscany
have been discontinued. ORDER OF SAINT STEPHEN. This Order
was founded at Pisa in 1561 or 1562, by Cosimo I de’ Medici, Duke of
Florence, afterwards the first duke of Tuscany, to commemorate his
victory over the French at Siena. The battle took place on St.
Stephen’s day, August 2, 1554 (or August 6 accord¬ ing to some
historians). The inhabitants of the city and the troops under Henry
II, after withstanding a siege of fifteen months, finally
capitulated. In 1567, Pope Pius V AND MONOGRAPHS
120 ITALIAN ORDERS granted Cosimo
the title of the first Grand Duke of Tuscany. The Order was named
in honour of Stephen IX, Pope and martyr, once bishop of Florence,
on whose festival Cosimo de’ Medici gained his victory. It is said
to have been discontinued in 1565, but Elias Ashmole states that new
statutes were approved in 1590. He also lists it as one of the
Orders extant in 1715; though Hugh Clark informs us that the Order
was “revived in 1764 and put on a respectable footing.” Whatever
its status in the interval may have been, the Order was reorganized
in 1817 by Ferdinand III, Grand Duke of Tuscany (1769-1824), and
its regulations were altered by him at that time. The insignia is a
red-enamelled, gold- edged cross, similar to that of the Knights of
Malta. In the angles are golden fleurs- de-lis and above the cross is a
ducal crown of gold. The ribbon is bright red. ORDER OF SAINT
JOSEPH. Founded by Ferdinand III on March 19, 1807, when as Grand
Duke of Wurtzburg he was ad¬ mitted to the Confederation of the
Rhine. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXX Tuscany Order
of Saint Stephen Upon the downfall of the Napoleonic control
of Tuscany in 1814, Ferdinand restored the Order in Tuscany when he again
assumed control of the Duchy. The Order was for meritorious service
and was awarded to civilians, ecclesiastics and the military,
whether native or foreign. Generally the honour was confined to those of
the Roman Catholic faith. There are three classes: Grand Cross,
Commanders and Knights. The Decoration of the first class is
silver, a double-pointed, six-armed cross, with rays between the
arms. An oval medallion in the centre bears the figure of St.
Joseph; around this on the band, likewise of silver, is the motto
UBIQUE SI MI LIS (Everywhere the same), with a branch of laurel and
oak. In the lower centre of the band is the letter F. The cross of
the second class is gold, and similar to the star of the first
class, though smaller. It has white-enamelled arms, and the rays
and the medallion band are of red enamel. It is surmounted by a
gold crown and a suspension ring for the ribbon, which is bright red,
with a white stripe at each edge. The reverse medallion
NUMISMATIC NOTES _ ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXXI Tuscany Order
of Saint Joseph AND has in the centre S.J.F .1807
(SanctoJosepho Ferdinando —Dedicated by Ferdinand to Saint Joseph).
The third class cross is smaller and worn with a narrower ribbon.
ORDER OF THE WHITE CROSS. Instituted by Grand Duke Ferdinand
III in 1814. This was a decoration solely for the military faithful
to him. It is sometimes called the “Cross of Loyalty.” A MEDAL OF
HONOUR was also founded in 1816 for those who had distinguished
themselves in the Duchy. No description of these two insignia is
obtainable from the several authorities consulted. MILITARY
MEDAL. Authorized in 1815 for distinguished service. It was awarded
only to junior officers and soldiers. This medal is silver, bearing on
the obverse a bust of the founder facing to right, and the title
FERDINANDO III.A.D.A.GRAND. DI TOSCANA. The reverse has in relief
AI PRODI E FED ELI TOSCANI 1815 . (To the brave and faithful Tuscans.)
The ribbon is half red and half white. LONG SERVICE MEDAL.
Founded in 1816 and issued to junior officers and sol¬ diers. It is
bronze, 37 mm., and bears on the obverse two crossed swords, with a
shield bearing the letter F superimposed. Above this device is a crown,
and below is 1816, the date of its creation. The reverse reads, in
relief, AL LUNGO E FED EL SERVIZIO. The ribbon is half red and half
white. MEDAL OF MILITARY MERIT. This was founded by Leopold
II on May 19, 1841, and bears the effigy of the Duke and the words
LEOPOLDO II GRANDUCA DI TOSCANA. The reverse has in relief FI DELTA
E V A LORE. The ribbon is half red and half black. ORDER OF
MILITARY MERIT. In¬ stituted on December 19, 1853, by Leopold II.
The decoration is a five-armed white- enamelled cross of gold on a gold
laurel wreath, which is surmounted by a gold crown. The obverse
medallion is inscribed L II. surrounded by the words MERITO
AND MONOGRAPHS 126 ITALIAN
ORDERS MILITARE. On the reverse medallion, 1853 records the
date of its creation. The ribbon is of red and black in equal
stripes. MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold II for the war of
Italian Independence. This was a service medal for his troops
taking part in that campaign. It is bronze- gilt, and bears on the
obverse the effigy of the Grand-duke and title LEOPOLDO II GRANDUCA
DI TOSCANA. On the re¬ verse within a laurel wreath is the
inscription GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA / ITALIANA/18^8. The loop for
the ribbon is a wide bar-like affair, similar to that for many of
the Italian medals. The ribbon is blue, bordered with two red
stripes. MEDAL OF MERIT. Attributed by but one authority to
Ferdinand IV. Issued in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.;
silver, of 49 mm. and 30 mm., and bronze, 45 mm. in diameter, according
to the impor¬ tance of the award. On the obverse is a bust of the
Grand-duke and FERDINANDO IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-
NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXXII Tuscany Order
of Military Merit, Leopold II verse bears the inscription AL
MER1T0 within a wreath. The ribbon is dark blue with black stripes
at the sides. LONG SERVICE MEDAL. Instituted by Leopold II in
December, 1850, for officers of the Army who had served at least
thirty years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross, having in the
centre medallion of silver the head of Leopold II to left, encircled
by LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the reverse medallion is the word
ANZIANITA, with a crown above. No information concerning the ribbon
is obtainable. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXXIII Venice. Defence of
Venice, 1848 Tuscany. Long Service Medal
VENICE At the time of Augustus, there was no
city of Venice, and Padua was the chief city of the district which has
since come to be known as Venetia. This district occupied the
Northeastern section of that country from the Alps on the North and East
to the Adriatic Sea, and to the River Po on the West. From the
Sixth and Seventh Cen¬ turies, after the foundation and the growth
of Venice, it developed a considerable com¬ merce with its island domains
and became a great maritime power. For many centuries an
independent Republic was maintained, governed by a Senate and a Doge,
elected by the people; his authority, however, was limited.
Constant wars with neighboring peoples and with the Turks did not
exhaust the wealth of Venice; and until the Eight¬ eenth Century
Venice wielded great in¬ fluence in European politics. The Republic
was unable to withstand the French army, however, and on October 17,
1797, was divided—one half of the territory going to
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
131 Austria and the other half to the Cisalpine
Republic; the Ionian Islands went to France. For a thousand years the
Venetian Republic maintained its independence, and exhibited a form
of government which commanded universal admiration. ORDER OF
SAINT MARK. Probably founded early in the Eighth Century.
Giustinian, writing in 1692, states that Domenico Leoni was the first
Grand Master of the Or dine di San Marco in the year 737. He also
lists a number of the Grand Masters from that date to 1688, and gives
several authorities. Other writers fix the date of its origin as
828, when the remains of Saint Mark were taken from Alexandria to Venice.
No exact information is obtainable as to the discontinuance of the Order,
though Ashmole indicates its existence in 1672, as does Clark in
1784. The insignia is a gold chain to be worn around the
neck. From this a gold medal¬ lion is suspended. On the obverse is
the Arms of Venice—the winged lion of St. Mark, seated with a sword
in the right paw, and with the left paw resting on an open
book, on which is the motto PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS (Peace
to thee, Mark, my Evangelist). The reverse is believed to have been
plain, although Ashmole asserts that it had the name of the Doge
then living as well as a portrait—if that is what may be understood by
his words “a particular impress.” This Order was conferred by the
Senate or by the Doge, and later was called the Order of the Doge
of Venice. On late forms, the insignia was changed to a blue-enamelled
cross, on the centre of which was a medallion with the above
described Arms. The reverse bore the effigy of the reigning Doge, sometimes
represented as on his knees receiving a standard from the hands of St.
Mark. All recipients of this Order had to show records of noble
birth and were known as the Knights of Saint Mark. MEDAL FOR
THE DEFENCE OF VENICE OF 1848 . This medal was issued in 1849,
during the second year of the short¬ lived Republic of Saint Mark—as
Venice was at that time called. It was of silver and bronze,
27 mm., bearing on the obverse the Arms of the Republic. Around this
are the words INDIPENDENZA ITALIAN A. On the reverse is the cross
of St. Maurice surrounded by VESSILLO DI VIT TORI A 18^8. The
ribbon is crimson with a narrow gold stripe at each side. (PI.
XXXIII.) MEDAL FOR BRAVERY. Also issued in 1849. It was of
silver and bronze, but 32 mm. in diameter. The obverse has the lion
of St. Mark and GOVERNO PROVI¬ SO RIO 1848-49. On the
reverse, within an oak wreath, are the words DI FEN SORE DI
VENEZIA. The ribbon is red with gold stripes at the sides.
MEDAL FOR THE CIVIL GUARD. Authorized in 1849. It was silver
and bronze gilt, oval in form, 40 mm. by 34 mm. On the obverse
appear two crossed flags and the words GUARDI A Cl VIC A VENETA.
The reverse reads VV/ VI TALI A. The ribbon is yellow.
OBSOLETE ORDERS The following Orders listed by the several
authorities consulted, as having been formed in Italy, have long been
discontinued. Order of the Golden Star of Venice, date not
given. Order of the Golden Stole, date not given. Order
of the Royal Crown of Mantua, was, according to Genouillac, created in
771 by Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind, King of Saxony),
in honour of his marriage with Adalgise of Lombardy, daughter of
Gisulf, due de Frioul. Order of the Eagle of Italy. Created
February 15,941, by Hugo II of Gonzaga, to perpetuate the memory of his
marriage with Princess Elizabeth of Gonzaga and Lom¬ bardy. New
statutes were formed for the Order in 968. Order of Holy
Mary, Mother of God. Founded in Italy in 1233. Its creation is
attributed to Bartholomew, Bishop of Vincenza. The purpose of its
foundation was to quell the discords which arose NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR
135 between the Guelphs and the Ghibellines and also to
defend and support the Roman Catholic religion. It was approved by
Pope Martin IV, who placed the knights under the protection of St.
Augustin. It was called by some the “Order of the Brothers of the
Jubilation,” later the “Order of St. Mary of the Tower,” and the “Order
of the Chevaliers of the Mother of God.” 3 Archer states that this
later Order was founded in 1737. Towards the end of the Sixteenth
Century the Order had entirely disappeared. Order of the Black Swan
of Italy, founded in 1350 by Amadeus VI and other Italian Princes,
for the purpose of preventing feuds, then so prevalent. Order
of St. George of Genoa. Founded in 1472 by Frederick III of Germany.
It was to reward the Genoese for the reception he received during
his journey to Rome, where he received the Imperial Crown. The
Order was short-lived. The badge is a plain red cross suspended from a
gold chain. This Order is not to be confused with the Order of St.
George of Austria, founded in 1468 by the Emperor Frederick III.
and monographs Order of St.
George of Ravenna. Founded in 1534 by Alexander of Farnese (then
Pope Paul III). Its award was confined to those who defended the city and
its vicinity from the attack of the Moslems or Corsairs. On the
death of its founder it ceased to exist. Cappelletti says it was
suppressed by Gregory XIII. The insignia was a red-enamelled star of
eight points, over which was a gold ducal crown. Order of the
Lily. Founded in 1546 by Alexander of Farnese. Order of the
Lamb of God of Tuscany. Founded in 1568 by John III. Order of
the Redeemer or of the Precious Blood of our Saviour. Founded in 1608
by Vincent (IV) Gonzaga, Duke of Mantua. It was in honour of
the marriage of his son Francis with the Princess Marguerite, the
daughter of Charles Emmanuel I, Duke of Savoy. The Order survived about
a century and lapsed in 1708 on the death of Ferdinando Gonzaga,
Duke of Mantua. An attempt was made to revive it in 1847 but
without success. The insignia was an oval medallion, in the centre of
which were two angels in adoration. Around this was the
motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO. Order of the Conception. Instituted
on September 8, 1617, by Ferdinand 1 of Gonzaga, Duke of Mantua, in
honour of the conception of the Virgin and placed under the protection
of St. Michael the Archangel. Like many other Orders founded about
this time, the members swore alle¬ giance to the Church and agreed to
fight against the infidels. Order of the Virgin or the Order
of the Virgin Mary the Glorious. Created in Italy by three
gentlemen of Spella, named Peter, John the Baptist, and Bernard,
surnamed Petrignani. The Order was approved by Pope Paul V in 1618,
and placed under the protection of the holy Virgin. The mem¬ bers
agreed to defend and uphold the Roman Catholic religion and make war on
the in¬ fidels. No record has been found of the discontinuance of
the order. Order of Saint Rosalie of Palermo. Founded in 1634
by Alderon de Carreto. iCharles Albert (1789-1849) was of the line
of Savoy-Carignano which was founded by Thomas Francis (1596-1656),
son of Charles Emmanuel the Great. Carignano, a town in the province of
Turin, was in 1630 bestowed by Charles Emmanuel I upon his son
Thomas Francis, who was known as the Prince of Carignano. The present
reigning king of Italy is of this house. Ency. Brit. Vol. XXI, p. 342 and
Vol. 5. p. 105. 2 “At this Crescent was fastened as many'
small Pieces of Gold fashion’d like Columns and enamell’d with Red,
as the Knights had been engag’d in Battels and Sieges; for none could be
adopted into this Order unless he had well trod the Paths of
Honour.” Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter, 1715, p. 69.
3 Ashmole, 1672, p. 80. ‘‘It was approved and con¬ firmed by Pope
Urban IV, anno 1262, and the Rule of St. Dominick prescribed to the
Knights.” Armani, E. Insegne Cavaileresche e Meda- glie del Regno
d'ltalia. Rome, 1915. Ashmole, Elias. The Institution, Laws
and Ceremonies of the Most Noble Order of the Garter. London
1672. Ashmole, Elias. The History of the Most Noble Order of
the Garter. London 1715. N U M ISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 139 Burke, Sir Bernard.
The Book of Orders of Knighthood and Decorations of Honor. London
1858. Cappelletti, Licurgo. Ordini Cavalle- reschi. Livorno
1904. Cibrario, Luigi. Descrizione e Storica degli Ordini
Cavallereschi. 2 vols. Torino 1846. Clark, Hugh A. A Concise
History of Knighthood. London 1784. Cuomo, Raffaele. Ordini
Cavallereschi antichi e moderni. 2 vols. Naples 1894. Elvin,
C. N. Handbook of the Orders of Chivalry. London 1893.
Favine, Andrew. The Theatre of Honour and Knighthood. London
1623.—Translated from a French Edition of 1620. Genouillac,
H. Gourdon de. Diction- naire historique des ordres de Chevalerie.
Paris i860. Genouillac, H. Gourdon de. Nouveau
Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris 1891. Giorgio,
Florindo de. Dellc cerimonie Pubbliche della onorificenze della nobilta
e de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net Regno delle Due
Sicilie. Naples 1854. Giustinian, Bernardo. Historic degli
Or¬ dini militari, etc. Venezia 1692. AND MONOGRAPHS
140 ITALIAN ORDERS AND J.
S. The History of Monastical Conven¬ tions and Military Institutions,
etc. London 1701. Lawrence-Archer, Major J. H. The
Orders of Chivalry. London 1897. Mennenii, Francisci. Deliciae
Eqyestrivm sive Militarivm Ordinvm et Eorundem Origines, etc.
Coloniae Agrippinae 1638. Perrot, A.-M. Collection J Historique
des Ordres de Chevalerie. Paris 1820. Puca, Antonio. Gli
ordini cavallereschi del Regno dTtalia. Naples 1879.
Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due Sicilie. Naples 1910 and
1913. Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi .... instituti nel
regno delle Due Sicilie. Naples 1832. Saint Joachim. An accurate
historical account of all the Orders of Knighthood, by an Officer
of the Chancery of the Order of Saint Joachim. London 1802. (Said
to be by Sir L. Hamon). Sculfort, Lieut. V. Catalogue;
Decorations et Medailles du Musee de VArmee. Paris 1912.
Trost, L. J. Die Ritter- und Verdienst Or den, Ehrenziechen und
Medaillen aller Sou- ver'dne und Staaten. Wien & Leipzig 1910.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR Lucca Civil Medal of Merit. 8
Military Service Medal. 8 St. George, Order of. 5
St. Louis, Order of. 6 Modena Cross for Service.
13 Eagle of Este, Order of. 10 Fidelity Medal. 14
Military Medal for Loyalty. 12 Military Medal of Merit.
13 Parma Constantine, Order of. 16 Medal of
Merit. 20 St. Louis, Order of. 19 San Marino
Medal of Merit. 24 Order of Chivalry. 21 Sardinia,
Savoy and Kingdom of Italy Africa, Medal for. 65 Boxer
Uprising, Medal for (Medal for Far East). 66 China,
Medal for (Medal for Far East)... 66 AND MONOGRAPHS
Civil Medal of Valour. • 49 Civil
Order of Savoy. • 36 Colonial Order of the Star of
Italy. • 43 Crimean Medal. ■ 57
Crown of Merit. • 76 Crown of Italy, Order
of. • 38 Far East, Medal for. . 66
Industry, Order of. ■ 42 Italian Independence
Medal. 60 Italian Unity Medal. • 76
Liberation of Sicily, Medal for. • 58 Life
Saving Medal. • 54 Marsala Medal (Medal of the
Thousand). 60 Medal of Merit. • 54
Medal of Merit (Battle of Vicenza). • 79 Medal
of Merit (Rome). • 79 Medal of Merit
(“S.P.Q.R.”)... . 80 Medal of the Thousand.
60 Military Cross for Service. • 44
Military Medal of Valour. . 46 Most Sacred
Annunciation, Order of. . . . 27 National Gratitude,
Medal of. • 74 Naval Medal of Valour. •
50 Public Safety, Medal of Merit. • 5i
Royal Military Order of Savoy. • 35 St. Maurice, Medal
of. • 34 St. Maurice and St. Lazarus, Order of. .
. • 30 Star of the Thousand. • 59
NUMISMATIC NOT E S MEDALS OF HONOUR
Turkish War of 1911-1912. 68 United Italy, Medal for. 62
Valour Medal. 25 Veterans Guarding Tomb of the Kings
Medal. 52 Victory Medal. 74 War Cross of Italy.
70 War in Lybia Medal. 70 War Orphans Medal. 76
War Volunteers Medal. 76 World War Medal. 72 See
also Obsolete Orders. 134 The Two Sicilies Campaign of
1860. 112 Civil Merit, Medal of. 108 Constantine, Order
of. 105 Crescent, Order of the. 85 Defence of Catania,
Medal for the. 114 Double Crescent (Order of the Ship). 85
Eastern Sicily, Campaign of. 112 Ermine (Naples), Order of
the. 88 Francis I, Royal Order of. 105 Gaeta Medal. 11
4 Griffin (Naples), Order of the. 89 Holy Spirit of the
Right Desire (Order of the Knot). 8 7 Knot (Naples),
Order of. 8 7 Lombardy, Medal of Merit for. 96 AND
MONOGRAPHS Long Service Medal. 109 Medal of Honour. 94
Medal of Honour (1815). 101 Medal of Honour (Sicily).
101 Messina, Medal for. 108 Naples, Medal of Honour
for. 100 Provincial Legion, Medal of Honour for the 99
Reel and Lioness, Order of. 87 St. Charles, Royal Military
Order of. . . . 92 St. Ferdinand, Order of, and Order of
Merit. 93 St. George, Medal of. 104 St. George of
the Reunion, Royal Military Order of. 102 St.
Januarius, Order of. 89 St. Michael (Naples), Order of. 89 Security
Guard Medal. 102 Ship, Order of the. 85 Sicily, Medal
for (Ferd. II.). no Sicily, Medal for (Nationalist). 117
Siege of Gaeta, Medal of Honour for the. . 97 Siege of
Messina, Medal for the. 109 Siena, Medal of Merit for. 96
Spur, Order of the. 87 Two Sicilies, Royal Order of the.
98 Tuscany Long Service Medal. ^5 Long
Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES Medal of 1848. 126
Medal of Merit. 126 Military Medal. 124 Military
Merit, Medal of. 125 Military Merit, Order of. 125 St.
Joseph, Order of. 120 St. Stephen, Order of. 119 White
Cross, Order of the (Cross of Loyalty). 124 See also
Obsolete Orders. 134 Venice Bravery, Medal for.
133 Civil Guard, Medal for the. 133 Defence of Venice
of 1848, Medal for the. . 132 St. Mark, Order of. 131
Obsolete Orders Black Swan of Italy, Order of the. 135
Conception, Order of the. 137 Eagle of Italy, Order of the.
134 Golden Star of Venice, Order of the. 134 Golden
Stole, Order of the. 134 Holy Mary, Mother of God, Order of the. .
134 Lamb of God of Tuscany, Order of the... 136 Lily, Order
of. 136 Precious Blood of Our Saviour (See Order of the
Redeemer). 13b Redeemer, Order of the. 13b AND
MONOGRAPHS 146 ITALIAN ORDERS Royal Crown of Mantua,
Order of the. . . 134 St. George of Genoa, Order of. 135
St. George of Ravenna, Order of. 136 St. Rosalie of Palermo,
Order of. 137 Virgin, Order of the. NUMISMATIC
NOTES Numismatic Notes and Monographs 1. Sj'dney P. Noe. Coin
Hoards. 1921. 47 pages. 6 plates. 50c. 2. Edward T.
Newell. Octobols of Histiaea, 1921. 25 pages. 2 plates. 50c.
3. Edward T. Newell. Alexander Hoards — Introduction and
Kyparissia Hoard. 1921. 21 pages. 2 plates. 50c. 4. Howland
Wood. The Mexican Revolu¬ tionary Coinage 1913-1916. 1921. 44
pages. 26 plates. $2.00. 5. Leonidas Westervelt. The Jenny
Lind Medals and Tokens. 1921. 25 pages. 9 plates. 50c.
6. Agnes Baldwin. Five Roman Gold Me¬ dallions. 1921. 103
pages. 8 plates. $1.50. 7. Sydney P. Noe. Medallic Work
of A. A. Weinman. 1921. 31 pages. 17 plates.
$1.00. 8. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands.
1921. 8 pages. 4 plates. 50c. 9. David Eugene Smith, LL.D.
Computing Jetons. 1921. 70 pages. 25 plates. $1.50.
10. Edward T. Newell. The First Seleucid Coinage of Tyre. 1921. 40
pages. 8 plates. $1.00. Numismatic Notes and
Monographs (Continued) 11. Harrold E. Gillingham.
French Orders and Decorations. 1922. no pages. 35 plates.
$2.00. 12. Howland Wood. Gold Dollars of 1858. 1922. 7
pages. 2 plates. 50c. 13. R. B. Whitehead. Pre-Mohammedan
Coinage of N. W. India. 1922. 56 pages. 15 plates.
$2.00. 14. George F. Hill. Attambelos I of Characene.
1922. 12 pages. 3 plates. $1.00. 15. M. P. Vlasto. Taras
Oikistes (A Con¬ tribution to Tarentine Numismatics). 1922.
234 pages. 13 plates. $3.50. 16. Howland Wood. Commemorative
Coin¬ age of United States. 1922. 63 pages. 7 plates.
$1.50. 17. Agnes Baldwin. Six Roman Bronze Medallions.
1923. 39 pages. 6 plates. $1.50. 18. Howland Wood. Tegucigalpa
Coinage of 1823. 1923. 16 pages. 2 plates. 50c.
19. Edward T. Newell. Alexander Hoards— II. Demanhur Hoard.
1923. 162 pages. 8 plates. $2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna.
Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore
naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier
implicature. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library. Colonna.
Grice e Colonnello: l’implicatura conversazionale della
voce di Boezio – vox significativa – voce che e segno – parola usata metaforicamente
– nome, voce che e segno – significativa -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Benevento). Filosofo italiano. Grice: “I
like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has philosophised about
‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about
‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of
‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks more than one, if
the plural is of any guide!” Insegna a
Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia,
esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta
è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della
fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.
Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura,
Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e
necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza”
(Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa”
(Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli);
Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia
ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce,
Armando, Roma); Martin Heidegger e
Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente,
Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi”
(Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia
e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine). Primum oportet constituere,
quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio et enuntiatio
et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum
NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem haec primorum
NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae similitudines, res etiam
eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta de anima, alterius est
enim negotii. est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus
sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam necesse est horum alterum
inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim et divisionem est falsitas
veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia sunt sine conpositione vel
divisione intellectui, ut homo vel album, quando non additur aliquid; neque
Titulus ex nisi quod de gr. in lat. om. hic, hahet in
suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem SIGNUM hoc est:
hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel
esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum tempus. Nomen ergo est
vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars est
significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus nihil per se
significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero non
quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in
illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed
nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam
naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati
soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero
nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut
negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque
talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis
quidem eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum
neque falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim
neque verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus
cuius pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur
nota. dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est
currit vero verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de
altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit
vero et non laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de
aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit in
finitum verbu, quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non
est. similiter autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi.
differt autem a verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero
quod conplectitur. Ipsa quidem secundum se dicta verba nomina sunt et
significant aliquid. constituit enim qui dicit intellectum et qui audit
quiescit. sed si est vel non est, nondum significat; neque enim esse
signum est rei vel non esse, nec si hoc ipsum est purum dixeris. ipsum quidem
nihil est, consignificat autem quandam conpositionem, quam sine conpositis non
est intelleger. Oratio autem est vox significativa; cuius partium aliquid
significativum est separatum, ut dictio, non ut adfirmatio. dico autem, ut homo
significat aliquid, sed non quoniam est aut non est, sed erit adfirmatio vel
negatio, si quid addatur. sed non una hominis syllaba. nec in eo quod est sorex
rex significat, sed vox est nunc sola. in duplicibus vero significat quidem,
sed non secundum se, quemadmodum dictum est. Est autem oratio omnis quidem
significativa non sicut instrumentum, sed, quemadmodum dictum est, secundum
placitum. enuntiativa vero non omnis, sed in qua verum vel falsum inest. non
autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est, sed neque vera neque
falsa.et ceterae quidem relinquantur; rhetoricae enim vel poeticae
convenientior consideratio est; enuntiativa vero praesentis est speculationis.
Est autem una prima oratio enuntiativa adfirmatio, deinde negatio; aliae
veroconiunctione unae. necesse est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo
esse vel casu. etenim hominis ratio, si non aut est aut erit aut fuit aut
aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. quare autem unum
quiddam est et non multa animal gressibile bipes neque enim eo quod
propinquedicunt ur ununi erit, est alterius hotractare negotii. est autem una
c. oratio enuntiativa quae unum significat vel coniunctione una, plures autem
quae plura et non unum vel inconiunctae. nomen ergo et verbum dictio sit sola,
quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo
interrogante vel non, sed ipsum proferentem. harum autem haec quidem simplex
est enuntiatio, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his
coniuncta velut oratio quaedam iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox
significativa de eo quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa
sunt. Adfirmatio vero est enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio
alicuius ab aliquo. quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod
non est esse et quod est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt
extra praesens tempora similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare
et quod quis negaverit adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni
adfirmationi est negatio opposita et omni negationi adfirmatio. et sit hoc
contradictio, adfirmatio et negatio oppositae. dico autem opponi eiusdem de
eodem, non autem aequivoce et quaecumque cetera talium determinamus contra
sophisticas inportunitates. Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia,
illa vero singillatim; dico autem universale quod in pluribus natum est
praedicari, singulare vero quod non, ut homo quidem universale, Plato vero
eorum quae suntsingularia: necesse est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut
non aliquotiens quidemeorum alicui quae sunt universalia, aliquotiens
autem eorum quae sunt singularia. si ergo universaliter enuntiet in universali
quoniam est aut non, erunt contrariae enuntiationes. dico autem in universali
enuntiationem universalem, ut omnis homo albus est, nullus homo albus est.
quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariae, quae
autem significantur est esse contraria. dico autem non universaliter enuntiare
in his quae sunt universalia, ut est albus homo non est albus homo. cum enim
universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non
universale, sed quoniam universaliter consignificat. in eo vero, quod
praedicatur universale, universale praedicare universaliter non est verum;
nulla enim adfirmatio erit in qua de universali praedicato universale
praedicetur, ut omnis homo omne animal est. opponi autem adfirmationem
negationi dico contradictorie, quae universale significat eidem, quoniam non
universaliter, ut omnis homo albus est, non omnis homo albus est nullus homo
albus est, est quidam homo albus; contrarie vero universalem adfirmationem et
universal negationem, ut omnis homo iustus est, nullus homo iustus est.
quocirca has quidem inpossible est simul veras essehis vero oppositas contingit
in eodem, ut non omnis homo albus est est quidam homo albus. quaecumque igitur
contradictiones universalium sunt universaliter, necesse est alteram veram esse
vel falsam et quaecumque in singularibus sunt ut est Socrates albus, non est
Socrates albus; quaecumque autem in universalibus non universaliter, non semper
haec vera est, illa vero falsa. simul enim verum est dicere quoniam est homo albus
et non est homo albus, et est homo pulcher (probus) et non est homo pulcher
(probus). si enim foedus (turpis, et non pulcher (probus); etfit aliquid, et
non est. videbitur autem subito inconveniens esse idcirco quoniam videtur
significare non est homo albus simul etiam quoniam ut om. esfet est © (xat
habent Arist. codices praeter duos) pro v.aX6q et cctaxQos in editione prima
posuit pulcher et foedus, in editione secunda probus et turpis jiemo homo
albus. hoc autem neque idem significat neque simul necessario. Manifestum est
autem quoniam una negatio unius adfirmationis est; hoc enim idem oportet negare
negationem, quod adfirmavit adfirmatio, et de eodem, vel de aliquo singularium
vel de aliquo universalium, vel universaliter vel non universaliter. dico autem
ut est Socrates albus, non est Socrates albus. si autem aliud aliquid vel de
alio idem, non opposita, sed erit ab ea diversa. huic vero quae est omnis
homo albus est illa quae est non omnis homo albus est, illi vero quae est
aliqui homo albus est illa quae est nullus homo albus est, illi autem quae est
est homo albus illa quae est non est homo albus. Quoniam ergo uni
negationi una adfirmati opposita est contradictorie et quae sint hae dictum est
et quoniam aliae sunt contrariae et quae sint hae et quoniam non omnis vera vel
falsa contradictio et quare et quando vera vel falsa. Una autem est adfirmatio
et negatio quae unum de uno significat vel cum sit universale universaliter vel
non similiter, ut omnis homo albus est, non est omnis homo albus; est homo
albus, non est homo albus; nullus homo albus est, est quidam homo albus, si
album unum significat. sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel
om.T aliquis MT est homoalb us ed. II. Ar.: h. a. est codices (hae) Mc locus in
paucis admodum codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex Boetii
expositione natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est.
quoniam aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum
est. duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram
D, falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum
et om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est
positum, ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen
tunica homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio
una. nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc
autem nihil differt quam dicere est equus albus et est homo albus.
si ergo hae multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima
multa vel nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his
necesse est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his
ergo quae sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel
falsam esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram,
illam vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in
his vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse;
dictum autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam
si omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel
esse vel non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat
hoc idem ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum,
si omnis adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus.
nam si verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album
vel non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel
negare; et si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut
adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a
casu nec utrumlibet nec erit nec non erit, sed ex necessitate nomen
quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est
autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui
dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret;
utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si
est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum
fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum
est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse.
quod autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem
inpossibile est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt
necesse est fieri. niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu,
non ex necessitate. at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut
quoniam neque erit neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit
negatio non vera et haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram.
ad haec si verum est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse;
sin vero erit cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit
utrumlibe, ut navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non
fieri navale bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et
huiusmodi alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in
universalibus dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse
est oppositarum hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse
in his quae fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit
neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho,
non erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et
quod hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio
et negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non
dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at
vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt;
manifestum est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit,
ille vero negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit
nec in millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni
tempore sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et
unumquodque eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando
enim vere dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est
verum erat dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non sunt possibilia:
videmus enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus
aliquid et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile
et non, in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et fieri
et non fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc
vestem possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter
autem et non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset
possibile non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam
dicuntur huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt
vel fiunt, sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio,
alia quare quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego:
etiamsi non b: uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E
habeatest erat habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur —
exteritur codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est
Tvero magis quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum,
alterum vero minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est,
quando non est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod non
est necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario,
quando est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod
non est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse
est et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario.
dico autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse
futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum
esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter
orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic
se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est
similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper
sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem
contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet
et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum
est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum
banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae
sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non
esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio
signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A
omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post
quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine,
unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem
dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed
infinitum nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non
currit non verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine
et verbo vel ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio
vel negatio. est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi,
verba ex his sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima
adfirmatio et negatio est homo, non est homo, deinde est non homo,
non est non homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non
homo, non est omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est.
quando autem est tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. dico autem ut est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen
vel verbum in adfirmatione. quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae
quidem ad adfirmationem et negationem sese habebunt secundum consequentiam ut
privationes, duae vero minime. dico autem quoniam est aut iusto adiacebit
aut non iusto, quare etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod
diciturex his quae subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est
iustus homo; est non iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est
enim hoe loco et non est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum
in resolutoriis dictum est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel
innominabile codices item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est
inf. nom. et uerbo erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo
erunt] enim sunt huius disposita. similiter autem se habet et si universalis
nominis sit adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus;
omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter
angulares contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae
oppositae sunt, aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est
iustus non homo, non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non
iustus non homo. magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra
illas ipsae secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus
est non convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic
posita ac si est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo;
currit omnis non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non
omnis homo sed non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale
significat, sed quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est
currit homo, non currit homo; currit non homo non currit non homo.
haec enim ab illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel
nullus nihil aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine
veladfirmat vel negat. ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria
est negatio ei quae est omne est animal iustum illa quae significat
quoniam nullum est animal iustum, hae quidem manifestum est quoniam
numquam erunt neque verae simul neque in eodem ipso, his vero oppositae erunt
aliquando ut non omne animal iustum est et est aliquod animal affirmatio
sithaec ac uero non om. non ullus T ergo et opponi apponi E ut E, om. ceteri et
om. quoddam et est —iustum om.B c. iustum. sequuntur vero hae: lianc quidem
quae est nullus est homo iustus illa quae est omnis est homo non iustus illam
vero quae est est aliqui iustus homo opposita quoniam non omnis est homo non
iustus. necesse est enim esse aliquem. manifestum est autem, quoniam etiam in
singularibus, si est verum interrogatum negare quoniam et adfirmare verum
est, ut putasne Socrates sapiens est? non; quoniam Socrates igitur non sapiens
est. in universalibus vero non est vera quae similiter dicitur, vera autem
negatio, ut lO putasne omnis homo sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens.
hoc enim falsum est. sed non omnis igitur homo sapiens vera est; haec autem est
opposita, illa vero contraria. Latin. (16a.) Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα,
ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet
constituere quid sit nomen et quid verbum, postea quid est negatio et
affirmatio et enuntiatio et oratio. First we must define the terms 'noun' and
'verb', then the terms 'denial' and 'affirmation', then 'proposition' and
'sentence.' ↵Ἔστι μὲν
οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ
φωνῇ. ↵ καὶ ὥσπερ
οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταί• ὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων,
ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά.Sunt
ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae, et ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce. Et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec eaedem voces; quorum autem hae primorum notae, eaedem omnibus passiones
animae sunt, et quorum hae similitudines, res etiam eaedem.Spoken words are the
symbols of mental experience and written words are the symbols of spoken words.
Just as all men have not the same writing, so all men have not the same speech
sounds, but the mental experiences, which these directly symbolize, are the
same for all, as also are those things of which our experiences are the images.
περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, —ἄλλης γὰρ πραγματείας•De his
quidemdictum est in his quae sunt dicta de anima -- alterius est enim
negotii.This matter has, however, been discussed in my treatise about the soul,
for it belongs to an investigation distinct from that which lies before us. — ἔστι
δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ↵
ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ᾧ ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν
θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ• περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε
καὶ τὸ ἀληθές.↵Est
autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso,
aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce;
circa compositionem enim et divisionem est falsitas veritasque.As there are in
the mind thoughts which do not involve truth or falsity, and also those which
must be either true or false, so it is in speech. For truth and falsity imply
combination and separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ
συνθέσεως καὶ διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρω↵πος ἢ λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ
τι• οὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δ’ ἐστὶ τοῦδε• καὶ γὰρ ὁ
τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι
προστεθῇ ἢ ἁπλῶς ἢ κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba consimilia sunt sine
compositione vel divisione ↵intellectui, ut 'homo' vel 'album', quando non additur aliquid;
neque enim adhuc verum aut falsum est. Huius autem signum: 'hircocervus' enim
significat aliquid sed nondum verum vel falsum, si non vel 'esse' vel 'non
esse' addatur vel simpliciter vel secundum tempus.Nouns and verbs, provided
nothing is added, are like thoughts without combination or separation; 'man'
and 'white', as isolated terms, are not yet either true or false. In proof of
this, consider the word 'goat-stag.' It has significance, but there is no truth
or falsity about it, unless 'is' or 'is not' is added, either in the present or
in some other tense. Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ κατὰ συνθήκην ↵ ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ
σημαντικὸν κεχωρι- σμένον• ἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθ’ αὑτὸ
σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa
secundum placitum ↵sine
tempore, cuius nulla pars est significativa separata; in 'equiferus' enim
'ferus' nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est 'equus
ferus'.Chapter 2 By a noun we mean a sound significant by convention, which has
no reference to time, and of which no part is significant apart from the rest.
In the noun 'Fairsteed,' the part 'steed' has no significance in and by itself,
as in the phrase 'fair steed.' οὐ μὴν οὐδ’ ὥσπερ ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως
ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοις• ἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ οὐδαμῶς τὸ μέρος ση↵μαντικόν, ἐν δὲ τούτοις
βούλεται μέν, ἀλλ’ οὐδενὸς κεχωρισμένον , οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης τὸ κελης.At
vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in compositis; in
illis enim nullo modo pars significativa est↵, in his autem vult quidem sed
nullius separati, ut in 'equiferus' <'ferus'>.Yet there is a difference
between simple and composite nouns; for in the former the part is in no way
significant, in the latter it contributes to the meaning of the whole, although
it has not an independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the word
'boat' has no meaning except as part of the whole word. ↵τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει
τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον• ἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ
ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum
placitum" vero, quoniam naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota;
nam designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The
limitation 'by convention' was introduced because nothing is by nature a noun
or name-it is only so when it becomes a symbol; inarticulate sounds, such as
those which brutes produce, are significant, yet none of these constitutes a
noun. τὸ ↵ δ’ οὐκ
ἄνθρωπος οὐκ ὄνομα• οὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα ὅ τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ
λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν• — ἀλλ’ ἔστω ὄνομα ἀόριστον.↵ 'Non homo' vero non est nomen;
at vero nec positum est nomen quod illud oporteat appellari -- neque enim
oratio aut negatio est -- sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man' is
not a noun. There is indeed no recognized term by which we may denote such an
expression, for it is not a sentence or a denial. Let it then be called an
indefinite noun. ↵τὸ δὲ
Φίλωνος ἢ Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis'
autem vel 'Catoni' et quaecumque talia sunt non sunt nomina sed casus
nominis.The expressions 'of Philo', 'to Philo', and so on, constitute not
nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι
δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἢ ἦν ἢ ἔσται οὐκ ἀληθεύει ἢ ψεύδεται, —τὸ δ’ ὄνομα ἀεί,— οἷον
Φίλωνός ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν• οὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀλη↵θεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio
autem eius est in aliis quidem eadem sed differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit'
vel 'erit' adiunctum, neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut
'Catonis est' vel 'non est' -- nondum enim aliquid neque rerum dicit neque
mentitur.The definition of these cases of a noun is in other respects the same
as that of the noun proper, but, when coupled with 'is', 'was', or will be',
they do not, as they are, form a proposition either true or false, and this the
noun proper always does, under these conditions. Take the words 'of Philo is'
or 'of or 'of Philo is not'; these words do not, as they stand, form either a
true or a false proposition. ↵Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν σημαίνει
χωρίς• ἔστι δὲ τῶν καθ’ ἑτέρου λεγομένων σημεῖον.Verbum autem est quod
consignificat tempus, cuius pars nihil extra significat; et est semper eorum
quae de altero praedicantur nota.Chapter 3 A verb is that which, in addition to
its proper meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any
independent meaning, and it is a sign of something said of something else. λέγω
δ’ ὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δ’ ὑγιαίνει ῥῆμα•
προσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ ↵ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν,
οἷον τῶν καθ’ ὑποκειμένου.Dico autem quoniamconsignificat tempus, ut 'cursus'
quidem nomen est, 'currit' vero verbum -- consignificat enim nunc esse -- ; et
semper eorum quae de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in
subiecto.I will explain what I mean by saying that it carries with it the
notion of time. 'Health' is a noun, but 'is healthy' is a verb; for besides its
proper meaning it indicates the present existence of the state in question.
Moreover, a verb is always a sign of something said of something else, i.e. of
something either predicable of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει
καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα λέγω• προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει,
τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα οὐ κεῖται• ἀλλ’ ἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ↵ ὅτι ὁμοίως ἐφ’ ὁτουοῦν ὑπάρχει
καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος.'Non currit' vero et 'non laborat' non verbum dico;
consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiae autem huic
nomen non est positum; sed sit infinitum verbum, quoniam similiter in quolibet
est vel quod est vel quod non est.Such expressions as 'is not-healthy', 'is
not, ill', I do not describe as verbs; for though they carry the additional
note of time, and always form a predicate, there is no specified name for this
variety; but let them be called indefinite verbs, since they apply equally well
to that which exists and to that which does not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν ἢ τὸ ὑγιανεῖ
οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματος• διαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα
προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν πέριξ.Similiter autem vel 'curret' vel
'currebat' non verbum est sed casus verbi; differt autem a verbo quoniam hoc
quidem praesens significat tempus, illa vero quod complectitur.Similarly 'he
was healthy', 'he will be healthy', are not verbs, but tenses of a verb; the
difference lies in the fact that the verb indicates present time, while the
tenses of the verb indicate those times which lie outside the present. αὐτὰ μὲν
οὖν καθ’ αὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά ↵ἐστι καὶ σημαίνει τι, —ἵστησι γὰρ ὁ λέγων τὴν διάνοιαν, καὶ ὁ ἀκούσας
ἠρέμησεν,— ἀλλ’ εἰ ἔστιν ἢ μή οὔπω σημαίνει• οὐ γὰρ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν
ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν. αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν,
προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν ↵συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι.Ipsa
quidemsecundum se dicta verba nomina sunt et significant aliquid -- constituit
enim qui dicit intellectum, et qui audit quiescit -- sed si est vel non est
nondum significat. Neque enim 'esse' signum est rei vel 'non esse', nec si hoc
ipsum 'est' purum dixeris: ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam
compositionem quam sine compositis non est intellegere.Verbs in and by
themselves are substantival and have significance, for he who uses such
expressions arrests the hearer's mind, and fixes his attention; but they do
not, as they stand, express any judgement, either positive or negative. For
neither are 'to be' and 'not to be' the participle 'being' significant of any
fact, unless something is added; for they do not themselves indicate anything,
but imply a copulation, of which we cannot form a conception apart from the
things coupled. ↵Λόγος
δέ ἐστι φωνὴ σημαντική, ἧς τῶν μερῶν τι σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον, ὡς φάσις ἀλλ’
οὐχ ὡς κατάφασις.Oratio autem est vox significativa, cuius partium aliquid
significativum est separatum (ut dictio, non ut affirmatio);Chapter 4 A
sentence is a significant portion of speech, some parts of which have an
independent meaning, that is to say, as an utterance, though not as the
expression of any positive judgement. λέγω δέ, οἷον ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλ’
οὐχ ὅτι ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (ἀλλ’ ἔσται κατάφασις ἢ ἀπό↵φασις ἐάν τι προστεθῇ)• ἀλλ’ οὐχ
ἡ τοῦ ἀνθρώπου συλλαβὴ μία• οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι
νῦν μόνον.dico autem ut 'homo' significat aliquid (sed non quoniam est aut non
est; sed erit affirmatio vel negatio, si quid addatur) sed non una 'hominis'
syllaba; nec in hoc quod est 'sorex' 'rex' significat sed vox est nunc sola.Let
me explain. The word 'human' has meaning, but does not constitute a
proposition, either positive or negative. It is only when other words are added
that the whole will form an affirmation or denial. But if we separate one
syllable of the word 'human' from the other, it has no meaning; similarly in
the word 'mouse', the part 'ouse' has no meaning in itself, but is merely a
sound. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς σημαίνει μέν, ἀλλ’ οὐ καθ’ αὑτό, ὥσπερ εἴρηται.In
duplicibus vero significat quidem sed non secundum se, quemadmodum dictum
est.In composite words, indeed, the parts contribute to the meaning of the
whole; yet, as has been pointed out, they have not an independent meaning. ↵ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν
σημαντικός, οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ ὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην• ἀποφαντικὸς δὲ
οὐ πᾶς, ἀλλ’ ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει• οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει, οἷον
ἡ εὐχὴ λόγος μέν, ἀλλ’ οὔτ’ ἀληθὴς οὔτε ψευδής.Est autem oratioomnis quidem
significativa non sicut instrumentum sed (quemadmodum dictum est) secundum
placitum; enuntiativa vero non omnis sed in qua verum vel falsum inest; non
autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque vera neque
falsa.Every sentence has meaning, not as being the natural means by which a
physical faculty is realized, but, as we have said, by convention. Yet every
sentence is not a proposition; only such are propositions as have in them
either truth or falsity. Thus a prayer is a sentence, but is neither true nor
false. οἱ ↵ μὲν οὖν
ἄλλοι ἀφείσθωσαν, —ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς οἰκειοτέρα ἡ σκέψις,— ὁ δὲ ἀποφαντικὸς
τῆς νῦν θεωρίας.Et caeterae quidemrelinquantur (rhetoricae enim vel poeticae
convenientior consideratio est; enuntiativa vero praesentis considerationis
est).Let us therefore dismiss all other types of sentence but the proposition,
for this last concerns our present inquiry, whereas the investigation of the
others belongs rather to the study of rhetoric or of poetry. ↵Ἔστι δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς
κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις• οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ εἷς.Est autem una primaoratio
enuntiativa affirmatio, deinde negatio; aliae vero coniunctione unae.Chapter 5
The first class of simple propositions is the simple affirmation, the next, the
simple denial; all others are only one by conjunction. ↵ἀνάγκη δὲ ↵πάντα λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος
εἶναι ἢ πτώσεως• καὶ γὰρ ὁ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν μὴ τὸ ἔστιν ἢ ἔσται ἢ ἦν ἤ
τι τοιοῦτο προστεθῇ, οὔπω λόγος ἀποφαντικός (διότι δὲ ἕν τί ἐστιν ἀλλ’ οὐ πολλὰ
τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, —οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι εἷς ἔσται,— ἔστι δὲ ἄλλης
↵ τοῦτο
πραγματείας εἰπεῖν).Necesse est autemomnem orationem enuntiativam ex verbo esse
vel casu; et enim, hominis rationi si non aut 'est' aut 'erit' aut 'fuit' aut
aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. Quare autem unum
quiddam est et non multa 'animal gressibile bipes' -- neque enim eo quod
propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc tractare negotii.Every
proposition must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which
defines the species 'man', if no verb in present, past, or future time be
added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a footed
animal with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that
the words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry,
however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ
εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἢ ὁ ἓν δηλῶν ἢ ὁ συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν
ἢ οἱ ἀσύνδετοι.Est autem una oratioenuntiativa quae unum significat vel
coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae.We call
those propositions single which indicate a single fact, or the conjunction of
the parts of which results in unity: those propositions, on the other hand, are
separate and many in number, which indicate many facts, or whose parts have no
conjunction. ↵τὸ μὲν
οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον, ἐπεὶ οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι
τῇ φωνῇ ὥστ’ ἀποφαίνεσθαι, ἢ ἐρωτῶντός τινος, ἢ μὴ ἀλλ’ αὐτὸν ↵προαιρούμενον.Nomen ergo et
verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce
enuntiare, vel aliquo interrogante vel non sed ipsum proferentem.Let us,
moreover, consent to call a noun or a verb an expression only, and not a proposition,
since it is not possible for a man to speak in this way when he is expressing
something, in such a way as to make a statement, whether his utterance is an
answer to a question or an act of his own initiation. τούτων δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν
ἀπόφανσις, οἷον τὶ κατὰ τινὸς ἢ τὶ ἀπὸ τινός, ἡ δ’ ἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον
λόγος τις ἤδη σύνθετος.Harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut
aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta, velut
oratio quaedam iam composita.To return: of propositions one kind is simple,
i.e. that which asserts or denies something of something, the other composite,
i.e. that which is compounded of simple propositions. Ἔστι δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις
φωνὴ σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται.Est
autem simplexenuntiatio vox significativa de eo quod est aliquid vel non est,
quemadmodum tempora divisa sunt.A simple proposition is a statement, with
meaning, as to the presence of something in a subject or its absence, in the
present, past, or future, according to the divisions of time. ↵ Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις
τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός.Affirmatio vero
est enuntiatio alicuius de aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab
aliquo.Chapter 6 An affirmation is a positive assertion of something about
something, a denial a negative assertion. ↵ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι
ὡς μὴ ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον
ὡς μὴ ὑπάρχον, καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ ↵τοῦ νῦν χρόνους ὡσαύτως, ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι
καὶ ὃ ἀπέφησε καταφῆσαι• ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη
καὶ πάσῃ ἀποφάσει κατάφασις.Quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et
quod non est esse et quod est esse et quod non est non esse, et circa ea
extrinsecus praesentis temporis similiter omne contingit quod quis affirmaverit
negare et quod quis negaverit affirmare; quare manifestum est quoniam omni
affirmationi est negatio opposita et omni negationi affirmatio.Now it is
possible both to affirm and to deny the presence of something which is present
or of something which is not, and since these same affirmations and denials are
possible with reference to those times which lie outside the present, it would
be possible to contradict any affirmation or denial. Thus it is plain that
every affirmation has an opposite denial, and similarly every denial an
opposite affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι•
λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι ↵τὴν
τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, —μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα ἄλλα τῶν τοιούτων
προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις.Et sit hoccontradictio,
affirmatio et negatio oppositae; dico autem opponi eiusdem de eodem, non
autemaequivoce et quaecumquecaetera talium determinamus contra sophisticas
importunitates.We will call such a pair of propositions a pair of
contradictories. Those positive and negative propositions are said to be
contradictory which have the same subject and predicate. The identity of
subject and of predicate must not be 'equivocal'. Indeed there are definitive
qualifications besides this, which we make to meet the casuistries of sophists.
↵Ἐπεὶ δέ
ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθ’ ἕκαστον, —λέγω δὲ καθόλου μὲν ὃ ἐπὶ
πλειόνων πέφυκε ↵κατηγορεῖσθαι,
καθ’ ἕκαστον δὲ ὃ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν ↵ τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον,— ἀνάγκη δ’ ἀποφαίνεσθαι ὡς
ὑπάρχει τι ἢ μή, ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί, ὁτὲ δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον.Quoniam
autemsunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim (dico autem
universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod non, ut
'homo' quidem universale, 'Plato' vero eorum quae sunt singularia), necesse est
autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non, aliquotiens quidem eorum alicui
quae sunt universalia, aliquotiens vero eorum quae sunt singularia.Chapter
7Some things are universal, others individual. By the term 'universal' I mean
that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by
'individual' that which is not thus predicated. Thus 'man' is a universal,
'Callias' an individual. Our propositions necessarily sometimes concern a universal
subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ τοῦ
καθόλου ὅτι ὑπάρχει ἢ μή, ἔσονται ἐναντίαι ↵ἀποφάνσεις, —λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ
καθόλου ἀποφαίνεσθαι καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός•
— ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι
δηλούμενα ἔστιν εἶναι ἐναντία, —λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν
καθόλου, οἷον ἔστι ↵
λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος• καθόλου γὰρ ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς
καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει• τὸ ↵γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλ’ ὅτι καθόλου.Si ergo
universaliterenuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae
enuntiationes (dico autem in universali enuntiationem universalem ut 'omnis
homo albus est', 'nullus homo albus est'); quando autem in universalibus non
universaliter, non sunt contrariae, quae autemsignificantur est esse contraria
(dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia, ut 'est
albus homo', 'non est albus homo'; cum enim universale sit homo, non
universaliter utitur enuntiatione; 'omnis' namque non 'universale' sed 'quoniam
universaliter' consignificat).If, then, a man states a positive and a negative
proposition of universal character with regard to a universal, these two
propositions are 'contrary'. By the expression 'a proposition of universal
character with regard to a universal', such propositions as 'every man is
white', 'no man is white' are meant. When, on the other hand, the positive and
negative propositions, though they have regard to a universal, are yet not of
universal character, they will not be contrary, albeit the meaning intended is
sometimes contrary. As instances of propositions made with regard to a
universal, but not of universal character, we may take the 'propositions 'man
is white', 'man is not white'. 'Man' is a universal, but the proposition is not
made as of universal character; for the word 'every' does not make the subject
a universal, but rather gives the proposition a universal character. — ἐπὶ δὲ
τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθές• οὐδεμία γὰρ
κατάφασις ἔσται, ἐν ᾗ τοῦ κατηγορου↵μένου καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν
ζῷον.In eo vero quod praedicatur universaliter universale praedicare
universaliter non est verum; nulla enim affirmatio erit, in qua de
universaliter praedicato universale praedicetur, ut 'omnis homo omne
animal'.If, however, both predicate and subject are distributed, the
proposition thus constituted is contrary to truth; no affirmation will, under
such circumstances, be true. The proposition 'every man is every animal' is an
example of this type. ↵
Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς τὴν τὸ καθόλου
σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός—οὐ πᾶς ἄνθρωπος
λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός—ἔστι τις ἄνθρω↵πος λευκός• ἐναντίως δὲ τὴν τοῦ
καθόλου κατάφασιν καὶ τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος—οὐδεὶς
ἄνθρωπος δίκαιος•Opponi autemaffirmationem negationi dico contradictorie quae
universale significat eidem quoniam non universaliter, ut 'omnis homo albus
est', 'non omnis homo albus est', 'nullus homo albus est', 'quidam homo albus
est'; contrarie vero universalem affirmationem et universalem negationem, 'ut
omnis homo iustus est', 'nullus homo iustus est';An affirmation is opposed to a
denial in the sense which I denote by the term 'contradictory', when, while the
subject remains the same, the affirmation is of universal character and the
denial is not. The affirmation 'every man is white' is the contradictory of the
denial 'not every man is white', or again, the proposition 'no man is white' is
the contradictory of the proposition 'some men are white'. But propositions are
opposed as contraries when both the affirmation and the denial are universal,
as in the sentences 'every man is white', 'no man is white', 'every man is
just', 'no man is just'. Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal
identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced
by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical.
Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where
again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST
PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords:
la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’
Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The
Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita,
vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction,
thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement.
Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily
behaviour, brain state, different from bodily movement, voce, ‘vox
significativa’ ‘voce significativa’, voce che e segno di… la voce dei animali,
uso metaforico di ‘voce’ – the voice of Alighieri, la voce di, la voce di
Mussolini, la voce di, voice, etimologia di voce. phone, phonic, suono – voce e
suono – immagine acustica del suono, riconoscimento della voce, voce come
sinonimo di parola, o espressione – una ‘voce toscana’ -- ‘la voce umana’ – ‘sine voce’ – the voiceless
– voce come schema distintivo – voiced and voiceless – nome come voce, verbo
come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO dell’afezione dell’animo, ma
SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello”
– The Swimming-Pool Library. Colonnello.
Grice e Colorni: l’implicatura
conversazionale della diadologia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as
the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the
golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a
socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians.
Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we
would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his
tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a
Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto
Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo,
del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona
al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come
raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto
intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di
lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista
ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese
e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse
amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli
anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo
goliardico per la libertà di Basso e
Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si accosta alla divisione milanese
del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese,
che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa. Incontra Croce, con il quale
conversa a lungo. Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna,
Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice
"La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di
Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per
l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al
liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui
conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini,
Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica che Giovanni Gentile
diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad
affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica
kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi
potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando,
come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni
concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia
che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce
come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi,
incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali
pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza
ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in
Italia e all'estero”. La sottolineatura
sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita
appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea
politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i
suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni
confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si
ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione
alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e
unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto
ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto,
auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento
sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali
avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le
dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto
ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni
recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di
trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: C. e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica
tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi
nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente
il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e
se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo
redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo
direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e
dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Pochi giorni prima della liberazione della capitale,
venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della
famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da
tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità
di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la
dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose
attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare
del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo
fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di
sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo
con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta.
Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è
semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista
Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione
del Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni,
in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze,
Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista,
in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai,
L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della
Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente
fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo
riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la
tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la
diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è
stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della
nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle
falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti
(o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del
quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme
con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti
giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti,
Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca
di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. […] le vie battute per
uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una
riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che
dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il
positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che
passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat,
Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario
Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi
et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri
Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della
filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data
di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di
aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è
accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento
intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9.
Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile
sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve
la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe Fachini,
«Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome, nel
corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che
io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva
convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare.
Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei
tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a
profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con
ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel
Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i filosofi
professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi,
cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e
preparazione fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i
miei contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I
temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per
la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di
un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi
all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione
fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora
innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo
seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento
alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste
del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (a
cura di), C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma,
Lacaita. “Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta,
con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni.
Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo
collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente
mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui
ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di C. 5
scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma
fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime,
concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i
fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per
chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello
di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente
avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una
collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi,
più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche
con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e
floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la
metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me.
Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in
quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe
Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» –
si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata
quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La
nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei
quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire
la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della
costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei
riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui
specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi
comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in
tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una
sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il
programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi.
Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»: “Sigma”
è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di C.
e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non
altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di
sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C.
e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista filosofico.
Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il
programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà
le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e
Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di
una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La
Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop»
(“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi,
Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate, Collaborazione con Vaccarino,
b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla “FS”,
seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario. La conoscenza
unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi riguardo a questa nota. Rileggendo
la tua edizione riveduta della conoscenza unitaria penso che possa andare come
presentazione anonima, specie se sarà da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche
dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un
discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme
dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in
genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però vita breve, e dopo sei numeri una
nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu
dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana,
un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo
milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana
(come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione
anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento
negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di
Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e
«Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale
delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con
precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le
conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza
personale, che C. sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a
tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni
epistemologiche. La più gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli
cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di
«Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a
vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a
sua volta, scrivendo a Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani
su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili
per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente
“condannata” e che quelli di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo
esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e
filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di
riuscire a dedicare a questo argomento19. Rievocando poi il Progetto di una
rivista di metodologia scientifica – da C. discusso fra gli altri con Ludovico
Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata.
Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo
avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza,
gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La
conoscenza unitaria. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in
«Analisi». Si tratta di C., Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi
a Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M.
Quaranta, La scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di
FS destinati alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C. 7 cora Somenzi ha sottolineato come esso
corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni,
da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di
storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat
e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della
riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni
fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia
difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a
dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò
che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare
di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della
filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non
è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva
parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni
metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano.
Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va
ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come
quella di Borgese, che C. e compagni
chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano
allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra
influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che
spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo
dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di
estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese,
d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum
universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di
problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto
lavori su L’estetica d’Ardigò. 21 V.
Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società», Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 Tagliacozzo,
L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente:
«Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la
prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse
Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe Hegel, ma non fu mai
hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista.
Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana
nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi,
p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e
L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi
a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più complesso, e forse
maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero Martinetti, col quale
l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato dell’individualismo
leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz;
l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico;
l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra
individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero
martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del
filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di
individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua
organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido
Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra,
nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico,
Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di
Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli,
Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a
cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è
tuttora inedito. È lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come
si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è
nato ad esempio lo studio su Croce. All’università si dà continuamente
battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per
discutere coi compagni e col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli
piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia
filosofica). Sul rapporto fra C. e Borgese rimando a Riosa, Borgese e C. tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota,
C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri
due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo
studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo
stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse
uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in
questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le
sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda,
a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia
della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda
la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale
poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare
riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di
malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel
libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti
intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni
scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei
contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte
dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il
quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si
svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C.,
L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo
occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello
spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui
cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun
ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo
entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non
pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo
procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure
inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo.
Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti:
studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi,
si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga,
talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera
riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso
cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per
trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano
una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al
fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista,
può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. C., La malattia
filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito,
in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli
empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Guzzardi, il quale,
esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius
e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti.
C., spiega Guzzardi, trova una valutazione positiva di questo pluralismo,
nonché delle filosofie dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach,
nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza
allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali circostanze,
secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere
approfondite, che l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo sia da
collegare a Martinetti e Pelazza (L. Guzzardi, Lo specchio della natura. C. e
la cultura del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e Rota).
Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C. nella
recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato fra i
meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli
sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno
si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui
Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva
costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione
Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione
Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò
all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non
è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il
principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una
coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto
di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col
particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e
di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo
tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso
che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta
intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C.,
L’estetica di Croce. Cfr. Cerchiai,
L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai.
Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla
questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e
l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto
l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero
sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici
possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte
insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come
un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche
di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si
possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico” così
identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole
osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di
adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di
«renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non
imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non
può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo
dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti,
pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente
l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto.
Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un
sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande
raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in
esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco
connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano
a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza
sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si
spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il
contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue
lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori,
apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di
là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per
il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di Benedetto
Croce, cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e
universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme
possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione
complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non
pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso
giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni, Nota bio-bibliografica, in
G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del
sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra
rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti
metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e
l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi
aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua
volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il
carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella
realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento,
applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto,
quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere
come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e
questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello
spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36.
L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di
schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle
diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo
forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva
anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là
dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade
di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che
l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con
la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo
passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di
svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria
«operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul
mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla
“conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli
presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza
di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega
così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre
espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La
risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui
la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue
fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando
animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due
angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia
effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria
non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente
nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune
relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C.,
Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in
questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere
definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati
i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di
Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali
scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma»,
è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo
della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi
«Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo
di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti
stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi
pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne
pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per
iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi
emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che
con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura.
Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto
nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di
sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello
successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di
inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi
di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame.
Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra
qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La
seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata
sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita
(in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno
evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico
ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno
anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo,
che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi
che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia
filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa
biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V.
Somenzi, C., cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei
titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli
di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti
universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella
biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza,
l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della
relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di
campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la
costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione.
In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è
coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», nel
1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più
consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare,
dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei
filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze;
Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il
ritorno alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e presumibilmente
appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver
pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui
sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I primi tre scritti
appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla
rivista di metodologia scientifica progettata con Geymonat. Questa, oltre a
note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una
sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C. indica per
l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il
testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione
romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività
(anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica),
il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività
ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea
di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere relativo delle
categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di
modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo
C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere
coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così C., «non
significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i
dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e
del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno
precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato
Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli
scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza
e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di
considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente
attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez.
5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen.
28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il
Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo
nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma»
non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di
Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo
comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio
di identità. Cfr. infra, la Nota del
curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il
fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in
nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme,
modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi
naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi,
«determinate forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro
di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione”
della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche
cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento
scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del
secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro
intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio
necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene
perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti
della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria
definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce
quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere
a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa
libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze
implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare
le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto
di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano
irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica,
pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua
autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma
anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno
delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri
compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei
grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire
un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e
guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue
[…]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il
punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il
momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera
alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel
quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il
dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A.
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli
pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è
Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così
scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che i tempi stiano maturando per un’edizione in
volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo tanti decenni,
per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati, che fu studioso
per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima
della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su
mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi»
e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi
tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima presso l’editore
Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che
ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua
disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa
contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del
curatore. Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra,
«comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai
vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento,
che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali
e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo
Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado,
attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti
di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta
tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di
«presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61,
lo stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in
qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal
modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza
confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a
Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior
vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo
sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già
stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati
con fare accogliente e passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee
sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di
scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo
teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere
del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La
malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile
attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò
sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che,
trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli
ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei
dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C.,
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua
formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella
ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr.
nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le
trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo
elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E.
Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni
in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a
stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi.
Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita
ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della
pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a
trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente
segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in
Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali
sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore
indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a
penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la
conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume.
Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono
conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di
Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi
dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della
meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori
scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno
compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima
uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia,
pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche
grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi, la
genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però
sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività
professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste,
enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos
(Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in
economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione
del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si
evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già
iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a
ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso
foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono
tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del
Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento
di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che
mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque
scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto
si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento
qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare
le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto
ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La
determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la
distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea
generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione
non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure
assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria
non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi
rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia
euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale
impostazione del problema differisce un poco da quella classica della
relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi
di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di
attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in
esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di
passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i
sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e
questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1
FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate,
5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli,
Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione
“5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava
il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività.
I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il
secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle
virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano
l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a
Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La
relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E.
Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come
unità di misura fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per
poi dedurne le altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere come unità
primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un
dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del
concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno
dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di
Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni.
Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al
programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La
“scoperta” di C., cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di partire da una
concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola
però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla
interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai
concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un
chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali
concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni
scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza
moderna». C. 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe
probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla
gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in
maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello
dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le
leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni
qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente
il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo
saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8
L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi
riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma
presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della
teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo
seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo
sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie
1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie 1942-2000, 1, C. e Cotone,
b. 3, Colorni). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio
d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non
soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come
soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile
considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e
dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come
delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti
un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto
all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro
moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto
dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà
dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si
tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze
plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto
nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato
dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel
sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo.
Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la
sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo
successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia
identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale
velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della
forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter
esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo,
sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè
essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché
due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto
a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve
essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni
limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente;
e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e
dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2, il quale parte però da
premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza
per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni
dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di
Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale
di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1,
Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, Nel
dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7
(cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e
un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano
e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione
dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i
principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo,
rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo
servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più
profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a
studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e
l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la
rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla
teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di C. sulla
teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività
generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla
quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti
metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle
definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla
nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali
oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione
concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la
linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in
tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale”
(Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei
fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato
ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere
definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente
definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza
ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente
la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli
accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente
geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è
opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile
studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non è detto che
si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare
contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol
realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3,
Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2,
Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato
a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il
titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine,
scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo:
«Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora,
mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta,
mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni
reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id.,
Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In
una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e
indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma
di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del
proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik
der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista
molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata
nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di
Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale
commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori,
letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia
da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo
trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa
linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato
a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie
(Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di
propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide;
e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato
osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un
altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque
scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui
porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un
mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale
serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza
di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale
è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità,
ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li
utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano
ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo
scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno
strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il
risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per
accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle
(Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli
dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo
della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e
di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un
ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o
l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle
tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua
ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3,
Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-
2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel
dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E
MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta
esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS
rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello
dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara
identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua
fortuna, o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi
tesori, li utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E.
5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7
di aprirle (Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo,
invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con
la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio
Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria
accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave.
Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è
tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il
correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno
e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo
sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia
completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli.
Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo,
simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili
con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si
rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta.
In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma
sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17
potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto
di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e
provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato
solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non
doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio
scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro.
Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca;
lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni,
ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti,
cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco,
non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a
distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai
propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai
posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue
intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla
cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è
enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro
sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11
necessaria accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto FS: già compiuto E. parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS:
sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di
cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In
poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o
maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare
nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi
suoi FS: nei suoi E. scuoterlo FS:
smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore
(come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e
che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a
racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose
sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza
dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre?
Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a
costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma
nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e
Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico
si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà
per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora
costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta
quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La
filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe
proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un
certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il
più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo
il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che
ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo
realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto
l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e
interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire
alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però
poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà
stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun
nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della
realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di
una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra
mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da
Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30
d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E. Queste righe, e quelle immediatamente
successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana,
ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla
grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa
dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare
il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36
oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS:
mente E. Eugenio Colorni vuta ad un
nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci
contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un
passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo
realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione
del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte
e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si
accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo
un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un
certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla
natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma
questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non
la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa
qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non
conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua
attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla
ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza
che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà
secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino
alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un
tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della
divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera
come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la
conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per
lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte,
Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si
legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli
scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica
del mondo […] che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto
negli sviluppi dell’attualismo» (Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista
critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto
né l’oggetto il soggetto, a mano nel
testo FS: l’uomo parte e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura
un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un
“estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro
vantaggio”; E. 44 “un cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E
E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati
utili e teorico FS: o teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua
attitudine ad FS: dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua
mente ricerca FS: Ma, nella sua mente, ricerca
dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica
in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha
di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e
“categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela
rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne
considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di
fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato,
di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe
impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo,
causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle
cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a
priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti
gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi
del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono
senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive;
e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta
sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo
proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia
stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno
continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo
costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere
nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di
acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito
della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti).
Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi,
proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato
con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie
che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo
stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non
scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti
di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del
reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54
impossibile FS: assolutamente impossibile E. elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero
ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E.
60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli
che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie, contentandosi FS:
categorie; contentandosi positivisti),
oppure FS: positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E.
64 Newton, e FS: Newton e di FS:, di I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece,
E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire
realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi
soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle
leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza
residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema
li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse
alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno
disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e
trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più
che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad
andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74
questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma
egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali
Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le
illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la
realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca
di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà,
fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si
affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle
categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte
del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non
essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove
non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza
della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo
bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è.
Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più interessanti e
fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella
costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio
quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e
non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente riferimento
all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E. 70 se FS:
che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS:
disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con
FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola
FS: parola, E. 78 A capo in E. essere FS:
esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti
metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state
descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un
valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale
ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria
indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare.
Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di
rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di
compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della
realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna
conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la
constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad
attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la
nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non
ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera
inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad
uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo
della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo,
inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e
Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati
che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse
un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva
ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni
infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal
carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo
abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella
ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito.
Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente
tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo
incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così
ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema,
come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla
nostra indagine91. Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che
si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà
neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La
parola 82 risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E.
84 imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS:
misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla
possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica
teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo
seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al
metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non
vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel
mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui
quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da
noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La
riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo
compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri
campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua
facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in
possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o,
se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro
uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che
dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle
categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre,
finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata
completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli
scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il
superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio,
trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale,
volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le
leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che
si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto
come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno
realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato
positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma
sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno
alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto
Kant. dei FS: quei E. campi senza FS:
campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS:
logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E. di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS:
che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di
arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle
diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base
stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di
procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini
che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al
contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà
al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per
muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della
propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS:
kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma
l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del
reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza
inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità
alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando
ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il
tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul
metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui
si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra
le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è
accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è
continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie
fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che
non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe
un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da
quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto
cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di
retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine
della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia
imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze
dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento
delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè
dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle
categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto
forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di
crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto
da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno.
L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è
sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un
fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle
singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è
stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del
reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove
teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo
che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono
alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non
consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una
tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una
“categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle
esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da
questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del
testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra §
3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti
metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione
del suo substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr.
p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per
un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri
una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della
conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente
umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare
che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle
classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non
si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro
o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra.
Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le
cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e
accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il
lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo
spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da
quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli
possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili.
L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si mostra così come l’ultima fase
di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa
nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma
delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a
superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie
lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte
alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale.
Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui
tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo
cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le
cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già
fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per
immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi
movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al
mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema
affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo
nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana
tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza,
distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno
consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra
impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo
antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non
siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le
esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non
vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo
storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il
senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia
del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e
fisica teorica (p. 206), ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale
che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni
grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista
morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le
pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi,
estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed
infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a
noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò
che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non
devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la
terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai
pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il
mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma
si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di
ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione
silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo
punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in
senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E
per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia
di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di
far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un
assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di
essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano,
meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione
causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla
maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere
problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al
nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di
esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente
costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del
lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione
che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a
quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare
su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di
Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo,
misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano;
analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto
così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio
colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da
Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre
immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A
bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant
parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni
subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in
lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre
frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un
capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria
conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed
inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve
anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che
combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà
di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio,
neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di
una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in
vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e
purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su
se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo
della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse
il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove
categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare.
Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante
tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo
piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere
con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a
meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto
serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali
mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si
veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di
esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura
dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa
a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della
chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo
rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha
abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e
malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si
volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto,
e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il
rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli
aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo
professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria
analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli
aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti
metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il
tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto
pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le
tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che,
con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio
dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente,
solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni,
quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un
dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo
rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di
capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e
mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad
ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria.
Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è
probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di
arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso
la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi
dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza.
Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto
utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali
con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze
quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una
nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito
vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare
dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti
diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la storia di questo scritto in
relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del
curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle
scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle
prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola
ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri
del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche
cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover
dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il
coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di
prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione
ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la
pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi
stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare
l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una
dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua
ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole,
apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato,
l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le
medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete
almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come
veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi,
un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e
malvagio. Il vostro C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da
giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di
cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di
analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già.
Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto.
Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un
quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo
già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a
mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché
le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti
quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad
una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le
ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli
s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il
quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico
senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi
noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza
in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e
dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più
specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe
schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri
filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6;
sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in
modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e
avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua
accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa.
Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale
bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del
mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la
psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due
guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da
Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63).
E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia
l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave
è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare
la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo
unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna
scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di
osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non
genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza
stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al
noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno
di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che,
inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con
fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della
loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e
confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli,
desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso
(come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa
fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito
naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a
meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti,
piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi
mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri
Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati
presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica,
Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria
metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia
leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico.
Intendiamo 'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun
pro- blema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra
conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rap- porti fra
conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al sofista
dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose » è estraneo a
Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua essenza divina od
umana, secondo le sue leggi razionali o em- pn iene. Egli parte dal dato
di fatto del mondo in tutti i suoi aspetti, che vuole scrutare,
comprendere, ridurre a unità, a formule semplici e facilmente
apprendibili, trasportando nel campo filosofico e metafisico
l’atteggiamento onde i suoi grandi predecessori o contemporanei,
Copernico, Galileo, Newton, ave- \uno improntato la loro indagine del
mondo fìsico: un ten- tativo di visione complessiva, armonica, coerente
di tutti i latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano
una spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.
A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di
Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo
principio posto inizialmente come unico valido. . me ! ltre con la
filosofia cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella
formulazione e nello sviluppo dei vari pro- ficui 1 , egli se ne
differenzia però fondamentalmente per la sua concezione essenziale del
mondo come un complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un
principio unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente
problematico, la cui esistenza e le cui leggi debbano venir
dimostrate e dedotte. Se in que- st'ultimo atteggiamento si vuol far
consistere la linea diret- trice del moderno gnoseologismo e in genere
della filosofia mo- derna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz
si discosta, tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del
pensiero greco, in un atteggiamento che potremmo avvicinare a
quello di Aristotele. La filosofia (sapientia) consiste
essenzialmente nella co- noscenza perfettissima della natura. E da che
cosa, se non dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza
non solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura spe-
ciale che essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa non si è
limitata a creare ima volta le cose dal nulla, ma continuamente le crea e
risuscita ? Devo dire che, quando ebbi compreso tutta la forza di questi
ragionamenti, esul- tai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra
finalmente volersi l’appacificare con la religione; con la quale,
non per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari de- gli
uomini, o anche a causa di espressioni e termini mal scelti, sembrava
male conciliarsi. Cessino dunque gli uomini pii e accesi dallo zelo della
gloria divina, di aver timore della ragione; basta che si studino di
raggiungere la ra- gione retta.... E i filosofi, dal canto loro,
tralascino di riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare
come vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e
materiali, nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la
natura. (Dialogo Pacidius Philalelhi). Questo studio
oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione
unitaria del tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in
cui fede e ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e
scienze metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò
cui egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.
Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia univer- sale è al
centro dei suoi pensieri. L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause
materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la
sapienza dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così
costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per
necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è dunque bisogno li
filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo
delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma
rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione,
per così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande re-
pubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o
nemici) le altre creature agli schiavi. (Lettera al Thomasius).
In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di
considerazione del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere
inizialmente il labirinto del continuo e del movimento, che avvolge nelle
sue complicazioni tutti gli ingegni, è impresa di grande importanza per
stabilire i fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria
degli scettici ; per dare una solida base alla geometria degli indivisibili
e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di tanti e così importanti
teoremi; per elaborare un" ipotesi fisica di coerenza universale;
infine, e questo è l'essenziale, per arrivare a dimostrazioni
assolutamente geometriche, e finora mai raggiunte, sull intima essenza
del pensiero e sull eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di
qui sgorgano le fonti della bontà e dell’equità, del diritto e
delle leggi, così chiare e limpide, così piccole d’estensione e insieme
profonde di contenuto, da poter valere come grandi volumi, e da poter
bastare alla soluzione di qual- siasi problema, con una compendiosita
stupefacente per []. CON LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO
LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di cui il volgo, io erodo, non ha
neppure 1’ idea (1). (Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus
abstracti, 1671, pref., G. IV 226). A quest’ idea della coincidenza
di ogni forma di realtà e di ogni metodo d’ indagine nella suprema
armonia e coerenza della natura, si riallacciano i progetti, perseguiti
da Leibniz lungo tutta la sua carriera, di un’organizzazione sistematica
delle scienze, di un’ Enciclopedia in cui di tutto il sapere si
desse una visione complessiva, concordante e concaten antesi in
tutte lo sue parti; progetti, questi, che richiamano alla Pansofia
eomoniana (2) e per realizzare i quali Leibniz si fece promotore di
società scientifiche e fondatore di accademie. Quest'armonia, però,
come si è visto, non deriva in alcun modo da un concepire tutte le
scienze come prodotto dello spirito umano, quindi soggette alle leggi di
esso; essa è l’espres- sione di una realtà divina oggettiva, a sè stante,
con le sue leggi concordanti e armoniche. La scienza scopre questa
unità noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito, che
corrispondono, in virtù dell armonia stessa, alle leggi del mondo.
Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà oggettiva può
presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione « verità di fallo
; anno questi i due modi di essere del reale, retto ciascuno da leggi
proprie, ciascuno con proprie inconfondibili caratteristiche, cui
corrispondono poi anche i due diversi modi di apprensi one del reale:
razionale e sensibile. Ecco due defi- nizioni di questi due tipi di
verità, prese da due opere distan- tissime per data e per
argomento: Le verità di ragione sono necessarie, quelle di
fatto sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono
(1) Quale sia il significato (lei termini .j ni adoperati (continuità,
indi- visibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito.
(2) Giovanni Amos Comenio (1592-1670), noto principalmente nel
campo della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica Magne r, concepì il sapere
come un'or- ganizzazione di ogni elemento della conoscenza secondo leggi
universali (Pansofia), trasformando il concetto di enciclopedia da quello
di una semplice raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria
dei dati stessi. Leibniz conobbe ed apprezzò grandemente le sue
opero. quelle che io chiamo con nome generale identiche, poiché
sembra che esse non facciano che ripetere la medesima cosa, senza
insegnarci nulla. Esse sono affermative o ne- gative. Le affermative sono
sul tipo delle seguenti: Ogni casa è ciò che è. e in qualsivoglia esempio
A è A, lì è B; io sarò quel che sarò; ho scritto quel che ho
scritto.... Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre,
sono pure suscettibili di tale identità; e io considero afferma-
tiva anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica: se A è non-B, ne
segue che A è non-B. Similmente se non-A è BC, ne segue che non-A è
BC.... Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono
rette o dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei disparati.
Il principio di contradizione è in generale il se- guente: una
proposizio-ne è vera o falsa. Il che contiene due enunciazioni vere: l
una che il vero e il falso non sono compatibili nella medesima
proposizione, ovvero che una proposizione non può esser vera e falsa ■
contemporaneamente ; l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del
falso non sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo fra il
vero e il falso; o, in altri termini, che non è possi- bile che una
proposizione non sia nè vera nè falsa (2). Óra. tutto ciò è vero anche in
tutte le proposizioni partico- lari immaginabili, come: ciò che è A non
potrebbe essere non-A,... Quanto ai disparati , sono quelle
proposizioni che di- cono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di
un’ altra idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa
che il colare, oppure che uomo e animale non sono la me- desima cosa, per
quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto questo si può stabilire
indipendentemente da qualsiasi (1) Leibniz, come molti altri,
chiama « principio rii contradizionc >; quello che dovrebbe essere
chiamato più esattamente « principio di non contra- dizionc ».
(2) È questo il principio che si suole chiamare del «terzo
escluso», prova o dalla riduzione all' assurdo o al principio di
con- tradizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da non
aver bisogno di analisi: ma in caso contrario c’è pe- ricolo d’
ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e tri- latero non sono la
medesima rosa, si cadrebbe in errore: perchè, a ben considerare, si vede
che i tre lati e i tre angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il
rettangolo quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa,
si sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro lati può
avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre dire in astratto che
il triangolo non è il trilatero, o che le ragioni formali ( 1 ) del
triangolo e del trilatero non sono le medesime, per dirla coi filosofi.
Sono espressioni diverse della medesima cosa. Taluno, dopo
aver ascoltato con pazienza ciò che ab- biamo detto finora, la perderà
infine, e dirà che noi ci divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che
tutte le verità identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli
- derrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste ma- terie. Le
dimostrazioni di logica, per esempio, procedono dai principi dell -
identità : e i geometri hanno bisogno del principio di contradizione
nello loro dimostrazioni per as- surdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso
delle propo- sizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi
di ragionamento. Segue lo sviluppo di queste tesi e altre
considerazioni sul- I applicazione del principio di contradizione ai
procedimenti logici. Ciò mostra che anche le pili pine e
apparentemente inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande
utilità (1) TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto
tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano. nei
procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare che non si deve
disprezzare nessuna verità.... Quanto alle verità primitive di
fatto, sono le esperienze immediate interne di una immediatezza di
sentimento. (Nuovi saggi, 1701 segg., IV, 2, § 1).
Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria (1) si rivolge a
teoremi, o proposizioni di verità eterna, che hanno validità non per
arbitrio di Dio, ma per loro propria natura. Quanto alle proposizioni
singolari e per cosi dire storiche, come p. es. « Augusto fu
imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle proposizioni clic
sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sul- l’essenza ma sull’
esistenza, e che sono vere quasi per caso, cioè per arbitrio di Dio. come
p. es. « tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di
tali pro- posizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo il
caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da un'altra
osservazione attraverso un teorema. A tali osser- vazioni si riferiscono
tutte le proposizioni particolari che non siano inverse o subalterne di
una universale (2). È chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che
dell’ indivi- duale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il
pro- fondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi
degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti e le
ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni è uno solo: la
definizione (3). Ma quando di una cosa si deve dire ciò che non si desume
dalle sue stesse viscere, (1) I/artc combinatoria, cui questo
passo si riferisce, verrà presa in considerazione in seguito.
(2) Inverse o subalterno di una universale sarebbero per esempio le
prò posizioni particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere
ana- litico. (3) Aristotele tratta nei libri Topici dei
«luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto i quali ciascuna cosa può venir
considerata. Ivi tiene anche conto dei cri- teri di probabilità, di
induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo venzono trattati nei
due Analitici. p. es. che Cristo
è nato a Betlemme, nessuuo potrà arri- vare a tali proposizioni
attraverso le definizioni, ma la materia sarà fornita dalla storia, e i
testi sovverranno alla memoria. (Ara Combinatoria, 1000, G.
IV, 69-70). Lo verità di ragione si fondano dunque su puri principi
lo- gici ; quelle di fatto invece sull’esperienza. Le une
riguardano 1 'essenza, le altre V esistenza-, quelle il necessario,
queste il con- tingente. Le verità di ragione sono
analitiche. Esse non tanno ohe svi- luppare ciò che è già contenuto nelle
viscere di ciascun con- cetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra
conoscenza delle cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo.
Le scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche; i principi
su cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del terzo escluso,
che poi si riducono tutti al principio di identità. Le verità di
fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da esse derivano il
predicato non è, come in quelle di ragione, già contenuto nel soggetto:
vi si aggiunge come qualche cosa di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce,
ma che non gli appar- tiene necessariamente per la sua stessa essenza; la
cui presenza deve invece essere concretamente constatata, sperimentata
vol- ta per volta. Ad esse si applica 1’ induzione ; di esse si
occu- pano le scienze naturali, quello storiche, tutte le indagini
che partono dal dato concreto e contingente. Si reggono, queste ve-
rità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente. (Ofr. p. 17
ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di ra-
gione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della as- soluta
certezza e necessità, o dell’ impossibilità del contrario; esse
costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà poggia, un
punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra parte, però, hanno
una staticità che non permette loro alcuno sviluppo nè variazione:
rimangono immobili nella loro fissità. Le verità di fatto, invece, sono bensì
casuali, contingenti; non dipendono da nessuna legge a priori ; ma
appunto questo carattere di non poter venir dedotte da principi già
conosciuti, quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente
perce- pibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che
è nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione
della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire
che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di relazioni,
di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi la cornice, la forma
della realtà: e le verità di fatto il conte- nuto, la realtà stessa in
tutti i suoi particolari. E infatti, le verità di ragione vengono da
Leibniz concepite piuttosto come relazioni che come cose-, il che egli
esprime col dire che le ve- rità di ragione, necessarie, ci dànno la sola
'possibilità delle cose, che non implica ancora affatto la loro realtà
effettiva. Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può
im- maginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse av-
venire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o dovesse
divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe nuli’ altro che la
necessità e non vi sarebbe nè scelta nè provvidenza.
(Polemica pubblicata nel Journal de# Savants, 1697, G. IV, 341).
Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione, può
assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che
rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la realtà; la
quale poi concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò che noi
vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto, che si svolge e manifesta
entro l’ambito segnatole dai principi della ragione (infatti qualsiasi
fatto concreto non potrebbe de- rogare al principio di non
contradizione). Tali principi però potrebbero inquadrare infinite altre
forme di realtà, diverse da quella di questo mondo, concretamente
esistente. È questo il principio dell’ infinità < lei mondi possibili,
cioè dell’ infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di
ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi
realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili,
in- tendo che non implichino contradizione, così come si pos- sono
fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia possibili.
Per essere possibile basta che una cosa sia intelligibile. (Lettera
al Bourguet, 1712, G. Ili, 558). È chiaro quale sia un’ idea vera e
quale falsa. Vera è un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa
quando implica contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la
co- nosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risol- viamo
una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni di riconosciuta
possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è di contradi ttorio...; a
posteriori quando sperimentiamo at- tualmente resistenza della cosa:
infatti ciò che esiste o è esistito attualmente, è senz'altro possibile
(I). E ogni qual- volta si ha una conoscenza adeguata, si ha la
conoscenza della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a
termine, se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è
certamente possibile. (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et
'de in, 1684, G. IV, 425). Alle verità di ragione c di fatto
corrispondono anche i due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma
quelle verità ap- partengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale.
In questo senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee
chiare e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di
ragione. Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi
evidenza conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.
Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la nostra
percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del fatto che il circolo
sia la figura di massima area con dato perimetro non sarebbe secondo lui
altrimenti ricono- scibile se non attraverso la chiara e distinta
percezione che noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse
con- formato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara e
distinta percezione del contrario, il contrario sarebbe vero. Questa è la
sua opinione, che io non approvo punto. E non è assolutamente vero quel
suo principio metafìsico universale, che di tutte le cose che pensiamo o
di cui ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del
po- li) Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi
della possibilità, ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili
fuori dal campo dell’attualmente esistente. ligono di mille lati o
dell'ente sommamente perfetto: prin- cipio col quale, come armato dello
scudo di Achille, egli disprezzo non senza arroganza tutti coloro che
dubitarono delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale
argo- mento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi
fosse anche 1' idea di cose impossibili, p. es. del movimento sommamente
veloce; fra le quali cose impossibili, coloro che vogliono opporsi alle
sue dimostrazioni porranno anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per
parte mia. clic altro è l'ente sommamente perfetto e altro il
movimento sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di
Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a compimento, vi
debba aggiungere molto di suo. (Frammento del 1077 (1), 0. IV,
271-5). Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con queste
af- fermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al
cri- terio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne
». E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente
sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova ontologica
dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente somma- mente perfetto, egli
dice, potrebbe essere contradittoria, come quella della velocità massima
o del numero più grande di tutti (iflee contradittorie, queste, perchè
sarà sempre possibile con- cepire una velocità o un numero maggiori di
una qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si
potrà mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque,
non basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità,
di- mostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle
nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne di
ragione. (1) Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal
prof. Ritter, direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia
delle Scienze di Berlino. (2) La prova ontologica, clic
Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta (1033-1109), afferma che Tessere
sommamente perfetto deve contenere, fra le sue perfezioni, anche
resistenza: quindi esiste. Tale prova considera quindi l’esistenza come
un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo. L'obiezione di Leibniz contro la prova
ontologica si ferma generalmente a questa dichiarazione di incompletezza;
e non mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente
perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esi- stenza.
Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità di ragione e
quelle di fatto appartengono a due sfere diverse e - per cosi dire -
incommensurabili, sì che non sia possibile far rientrare l’una nel campo
dell’altra. Ma in generale non si può dire che Leibniz si
preoccupi troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto che
il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti
fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità armonica.
Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non una conclusione cui
egli arrivi. Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c
di fatto ( Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si
contrap- pone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori
l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della
sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di
fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dal- l'arbitrio
divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono rappresentato, in
queste verità, relazioni assolute regolatrici dell’ univorso, tali ohe in
esso si devono inquadrare perfino i decreti della volontà divina. Si è
già visto che le verità di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o
ma per loro propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti
di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza. È necessario che
tutto si rifaccia ad una qualche ra- gione, nè ci si deve fermare finché
non si arrivi alla prima.... (1) C'fr. per esempio, Meditazioni
metafisiche, Risposte alle seste obbie- zioni,!). U: «...lo dico che è
impossi bile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la
determinazione della volontà di Dio.... in modo che que- sta idea del
bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l’altra. Por
esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse creato nel
tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o
non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti
per aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per
il fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò
meglio così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli
ha voluto che i tre an- goli di un triangolo fossero necessariamente
uguali a due retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di
tutte le altre cose». E iiuale. è
dunque l’ultima ragione della volontà divina? L’ intelletto divino. Quale
la ragione dell' intelletto divino? L’armonia delle cose. Quale
dell'armonia delle cose ? Nulla. Per esempio, della proposizione 2:4=4 :
8 non si può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa
volontà divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea
delle cose. i (Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II,
I, 117). L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità
di ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito
segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità di
/atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto libero della
sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che
sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimen- tiamo.
sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza
necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e
uniformi in sé stessi, e in- differenti a tutto, avrebbero potuto
ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine.
Bisogna dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è
tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza
che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa (1), e che, per
conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa sia
intelligente: poi- ché dato che questo mondo che esiste è contingente,
es- sendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti al-
l'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di altri mondi,
bisogna che la causa del mondo abbia avuto rapporto e riguardo a tutti
questi mondi possibili, por determinarne uno. E questo riguardo o
rapporto di una (1) Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione
dell’ FI tea di Spinoza: Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia
invaivi t existenliam; vive id, cujus natura non potest concipi, nini
existensv. sostanza esistente con semplici possibilità, non può
essere altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne
una non può essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie. Ed è la
potenza di questa sostanza che ne rende la volontà efficace. La potenza
tende all'essere, la saggezza o l' in- telletto al vero, la volontà al
bene. E questa causa intel- ligente deve essere infinita in tutti i modi,
e assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché
essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è con- nesso.
non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è la fonte
delle essenze, la sua volontà è l'ori- gine delle esistenze. Ecco in
poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo
mezzo, l'origine delle cose. (Teodicea, 1710, § 7).
Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto di
Dio , le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra le infinite
possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di
non contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in
questo, Leibniz si oppoue a Cartesio, il quale ritiene che la materia
assuma tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo
dei Princip { rii Filosofia (parte III, art. 47): a Poiché la materia
assume successiva- mente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo
ordi- natamente queste forme, giungeremo infine a quella che ap-
partiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere alcun
errore per colpa di una eventuale falsa i potesì " ( 1 ) . Leibniz
risponde: Non credo che si possa enunciare una proposizione
più pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve succes-
sivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si (1)
Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano
effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole
idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una
netta separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da
questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il
problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al
principio delle verità di fatto. I. - VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO
17 possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto biz-
zarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia, che non sia
accaduto o che non debba accadere un gior- no.... È questo, a mio avviso,
il 7rpwxov tpeòSoq (primo in- ganno) e il fondamento della filosofia
atea, la quale non tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di
Dio. Ma la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfe-
zione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto nella
morale. (Lotterà al Philippi, 1080, G. IV, 283-4). Il
principio di ragion sufficiente. La realtà contin- gente posta in atto da
Dio è il mondo sensibile che noi speri- mentiamo. Per la giustificazione
di esso, le immutabili leggi della logica non sono sufficienti. TI mondo,
la realtà di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da
quello che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio
lo- gico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è
il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion suffi- ciente,
quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale alla sua
causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla causa jprima, cioè
Dio. 11 principio universale nihil esse sine catione (1)
risolve quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene,
del cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato (cur
factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non possa render
ragione. (Frammento sulla Selenita Media, 1677, C. 25).
(L) È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione
fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di
ra- gione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la
forma generalo che regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si
contrappongono invece a queste ultimo, e si fondano sul principio di non
contradizione. La somi- glianza di due termini dal significato così
differente e quasi opposto, deriva ila un diverso uso del termino «
ragione ». Nella locuzione principio di ra- gione » osso equivale a «
motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica , servendoci del
gran principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma che
nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che nulla accade
senza che sia possibile a colui che conosca sufficientemente le cose, di
dare una ragione che basti a determinare perchè è così e non altrimenti.
Posto questo principio, la prima domanda che si avrà il diritto di
porre, sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché
il nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inol-
tre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si possa rendere
ragione del perchè esse debbano esistere così, e non altrimenti.
Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo non si
può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle
loro rappresentazioni nelle anime : poiché, essendo la materia
indifferente in sè stessa al movimento e al riposo e a questo movimento o
ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del movimento e
ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento at- tuale
che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un
precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare:
poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella
ragione suf- ficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione,
sia fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in una
sostanza che ne sia la causa o che sia un essere ne- cessario il quale
porti con sè la ragione della sua esistenza : altrimenti non si avrebbe
mai una ragione sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa
ultima ragione delle cose è chiamata Dio. ( Principe# de la
nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 002). La causa FINALE E il «
mkiliore ». Dio è dunque la causa o ragion sufficiente rii tutte le
verità di fatto, cioè del mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli
scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano,
proprio questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?
Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una ragione
determinante. In virtù di questo principio, che ci conduce oltre i limiti
raggiunti dai nostri predecessori, Dio non cambia mai volontà e operazione
senza averne qual- che valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta
è di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di giudicare
(per quanto povere creature si sia) se vi può essere una ragione o no.
Quando la volontà di Dio è im- piegata da sola, senza che nella natura
delle creature vi sia la ragione di questa volontà, nè il modo del suo
ope- rare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco oppor-
tuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i pianeti si
muovessero in linea curva senza essere spinti da altri corpi Ogni volta
che noi conosciamo qual- che cosa delle opere di Dio, vi troviamo
dell' ordine. (Lettera allo Hartaoekcr, 1711. G. Ili, 52D).
II principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per
risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi lieve
essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo mondo, non ha
agito arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio della sua
azione. Non ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo agire; e
questa ragione che. determina la sua volontà, è i l criterio del massimo
be ne, della massima perfezione. A q uest o criterio Dio si è
ispirato nel creare il mondo, e a questo criterio si deve ricorrere
dunque come alla ultima ra- gione di tutta la creazione. Il bene e la
perfezione come motivo dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{
è±. Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause
finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes nei Principi
di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto per mezzo di esse che tutto
si debba determinare, poiché la causa efficiente delle cose è
intelligente, avendo una volontà e perciò tendendo al bene.
(Lettera al Philipp!, 1080, 0. IV, 281). Dio mette in opera,
dunque, uno solo degli infiniti mondi possibili ; ma è retto da un
criterio in tale creazione. Questo criterio fa sì che il mondo da luf
scelto sia il migliore fra i mondi possibili. Questa infinita
saggezza, unita ad una bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno
di scegliere il migliore; poiché, come im male minore è, in certo senso,
un bene, cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa
ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche cosa da correggere
nelle azioni di Dio, se vi fosse modo di far meglio. E come in
matematica, quando non vi è nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di
distinto, tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile,
non avviene addirittura nulla ; si può dire lo stesso a proposito
della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che la matematica :
che, se non ci fosse stato il migliore (opti- mum) fra tutti i mondi
possibili, Dio non ne avrebbe pro- dotto nessuno. Chiamo mondo tutta la
serie e tutto 1 in- sieme di tutte le cose esistenti, affinchè non si
dica che più mondi hanno potuto esistere in differenti tempi e in
differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli tutti insieme come
un solo mondo, o se volete, come un universo. E quando si riempissero
tutti i tempi e tutti i luoghi, resta pur sempre vero che si sarebbero
potuti riempire in una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di
mondi possibili, di cui Dio deve aver scelto il migliore, perchè
egli non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione.
(Teodicea, 1710, § 8). Dio dunque non scoglie
arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un principio - il principio
del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la realtà del
mondo. In che cosa consiste questo principio? Che cos’è il
«migliore», questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di
mas- sima realizzazione, di massima perfezione, di massima
felicità, bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei
limiti della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza
pos- sibile. Discende dalla perfezione suprema di Dio che,
produ- cendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possi-
bile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo ordine; il terreno,
il luogo, il tempo meglio organati; il massimo effetto prodotto coi mezzi
più semplici; il mas- simo di potenza, il massimo di conoscenza, il
massimo di felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell'
universo. Infatti, dato che tutti i possibili pretendono all'esistenza
nell intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni, il risultato
di tutte queste pretensioni deve essere il mondo attuale, il più perfetto
che sia possibile. Altrimenti non sarebbe possibile rendere ragione del
perchè le cose siano andate così piuttosto che in altro modo.
( Pricipes de la Nature et de la (brace, 1713-14, G. VI, 003).
È un mio principio, che tutto ciò che può esistere ed è
conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio exi- atendi a
preferenza di tutti gli altri possibili, non deve essere limitata da
altra ragione, se non da quella che non tutte le cose sono conciliabili
fra di loro. L' unica ragione determinante è dunque ut exislant / totiora
, quae plurimum involvant realitatis. (Ii'rammonto del 1070,
C. 530). Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche
cosa piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande prin-
cipio che nulla avviene senza una ragione, così come deve esservi anche
una ragione per cui esista una cosa piut- tosto che un' altra. Tale
ragione deve essere in qualche ente reale o causa. Infatti la causa non è
altro che una realis ratio , e le ve- rità di possibilità e di necessità
(cioè di cui viene negata la possibilità del contrario) non produrrebbero
nulla se le possibilità non si fondassero su qualche cosa di
attual- mente esistente. Questo ente poi dovrà essere
necessario: altrimenti si dovrebbe ricercare di nuovo (contro l'
ipotesi), di là da esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no.
Quel- l'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e in una parola
lo si suole chiamare Dio. Vi è dunque una ragione per cui 1
esistenza debba pre- valere sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium
est exi- stentificans. Ma quella causa che fa sì che qualche
cosa esista, cioè che la possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che
ogni possi- bile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si
può trovare in generale una ragione di restrizione all esistenza
dei possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un inizio di
esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente necessario attualmente
esistente, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per la quale potesse
possibilmente giungere ad at- tuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i
possibili esi- stano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero
com- possibili. Ma poiché vi sono alcune cose che sono
incompatibili con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano
al- l'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non solo
relativamente al medesimo tempo, ma anche uni- versalmente parlando,
perchè nelle cose presenti sono im- plicite le future.
Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili che pre- tendono
all' esistenza, deriva questo almeno, che esista (1) Traduciamo
così il termine existilurire.
quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza il massimo
numero di cose, cioè la serie massima di tutti i possibili. E questa
serie unica è determinata, così come tra le linee è determinata la retta,
tra gli angoli l'angolo retto, tra le figure e i solidi quelle di massima
capacità, cioè il circolo e la sfera. E come vediamo che i liquidi
si raccolgono spontaneamente in gocce sferiche, così nel- l'
universo esiste la serie di massima capacità. Esiste dunque la
massima perfezione; e non consiste se non nella quantità di realtà.
Inoltre la perfezione non si deve soltanto ravvisare nella materia,
cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio, la cui quantità sarebbe
sempre costante in qualsiasi modo, ma nella forma o varietà.
Ne consegue che la materia non è ovunque simile a sè stessa, ma
viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non otterrebbe tanta varietà
quanta . le è possibile.... Ne consegue anche che ha prevalso
quella serie dalla quale derivava il massimo di pensabilità
distinta. E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e
bellezza a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio
plu- rium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti
bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere l una
dall'altra. Cade così il concetto eli atomo e in generale di
qual- siasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione di
una parte dall'altra. E ne deriva universalmente che il mondo è un
y.óapoc. un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare
massimamente chi comprenda. Il piacere di chi comprende (voluptas
intelligentis ) non è altro infatti che la percezione della bellezza,
dell' ordine, della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa
di disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,
assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci
dispiace nella serie delle cose, ciò deriva da un difetto di
comprensione. Infatti non è possibile che ciascuno spirito comprenda
tutto distinta- mente; e a chi osservi solamente alcune parti
piuttosto che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso.
Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la giustizia,
non essendo la giustizia altro che un ordine o perfezione riguardo agli
spiriti. (Frammento, G. VII, 289-90). Necessità e
libertà. - Anche questo criterio di perfezione, di bontà, di armonia è,
aqalogamente alle verità di ragione, assoluto, oggettivo, a sè stante,
indipendente dalla volontà di Dio, imposto dalla necessità delle cose.
Dio sceglie il migliore: ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti.
Siamo qui in presenza della celebre questione della conciliazione fra
neces- sità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il nostro
argomento, e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a
que- sto proposito Leibniz si oppone a Cartesio. Contro
coloro che sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio o che le
regole della bontà e della bellezza sono arbitrarie. Io sono molto
lontano dall'opinione di coloro che so- stengona che non vi siano affatto
regole di bontà e di perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che
Dio ne ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la
ragione formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo
che egli ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito
e trovarle buone, come testimonia la Sacra Scrittura (1), la quale non
pare si sia servita di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che
la loro eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se
non si fanno riflessioni su questa semplice denomina- zione esteriore,
che le riattacca alla loro causa. E ciò è (I) Leibniz allude qui
al racconto del Co p. I della Genesi , in cui a cia- scun atto della
creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero,
in quanto proprio attraverso la considera- zione delle opere si può
valutare chi le ha operate. Bi- sogna dunque che queste opere portino in
sè il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi sembra
estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori
(1), i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà
che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli
uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non
sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si
distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua
gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe
ugualmente lodevole facendo tutto il con- trario? Dove sarà dunque la sua
giustizia e la sua sag- gezza, se non rimane che un certo potere
dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la
defi- nizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, ap-
punto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche
ragione di volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla
volontà. È per questo che io trovo anche molto strana l’espressione di
altri filosofi (2), i quali dicono che le verità eterne della metafisica
e della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,
della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di
Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo intelletto,
il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non ne dipende
la sua essenza. Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto
far meglio. Non posso neppure approvare l’ opinione di alcuni
mo- derni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio
(1) Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione
che Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e
turbata da preconcetti. (2) Cartesio (cfr. ibid.).
(3) Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta
perfezione, e che egli avrebbe potuto agire assai meglio. Poiché mi
semina che le conseguenze eli questa concezione siano assolutamente
contrarie alla gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni,
ita mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire im-
perfettamente, agire con minor perfezione di quello che si sarebbe
potuto. E trovare a ridire sull' opera di un ar- chitetto il mostrare che
egli avrebbe potuto farla meglio.... Questi moderni credono anche
di provvedere così alla libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta
libertà quolla di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana.
Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna
ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è opinione
poco conforme alla sua gloria. Per esempio, suppo- niamo che Dio scelga
fra A e li. e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo
a B: io dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto
lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione
che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio non faccia
nulla per cui non meriti di essere glorificato. ( Discours de
métaphysique, 108G, §§. Il, III). I l criterio della, bontà e del
«migliore», non è dunque con- seguenza della volontà divina: è piuttosto
la volontà divina che si ispira a questo criterio, il «piale ha una
validità ogget- tiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione.
L'azione di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della
possibilitòj dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del
«piale essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da
epiesto finalismo, da questo principio del « migliore », della
bontà, che costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo
i lati dunque, essa si trova determinata: e questa determina- zione
costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione. Necessità nelle
verità di ragione, dunque, poiché i principi di esse sono inderogabili,
tali che non potrebbero venir con- cepiti diversi da «piel che sono;
necessità anche nelle verità di fatto, in quanto la loro ragion
sufficiente non può non essere il principio della suprema perfezione e
bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la
volontà divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra
di loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione
fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai medesimi
principi che le altre, si baserebbero sulle medesime leggi. La necessità
di fatto ha invece caratteristiche sue proprie. Essa non implica quella
impossibilità «lei contrario che è es- senziale caratteristica della
necessità di ragione. La necessità morale. - La necessità di
ragione è una legge regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di
fatto e la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e
questa ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario
sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo
distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo
inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.
Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna
pure distinguere fra una necessità che ha luogo perchè l’opposto implica
contradizione, e che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed
una neces- sità olio è morale , che fa sì che il saggio scelga il
migliore, e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.
La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai futuri
contingenti dalla supposizione o ipotesi della pre- visione e
preordinazione da parte di Dio.... ....11 bene, sia vero sia
apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare, senza
imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio,
sceglie il mi- gliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto
a perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio sceglie
fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe im- possibile, contro T
ipotesi; poiché Dio sceglie tra i pos- sibili, cioè fra vari partiti, dei
quali nessuno implica con- tradizione. Ma dire che Dio non
può scegliere se non il migliore, e volerne inferire che ciò che egli non
sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la
neces- sità metafisica e la necessità morale, le essenze e le esi-
stenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua essenza, poiché
l'opposto implica contradizione; ma il con- tingente che esiste deve la
sua esistenza al principio del migliore, ragione sufficiente delle cose.
Ed è per questo che io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e
che vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità
assoluta nelle cose contingenti. Ed ho mostrato a sufficienza nella
mia Teodicea che questa necessità morale è felice, conforme alla
perfezione divina, conforme al gran principio delle esistenze, che
è quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la
necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande principio dei
nostri ragionamenti, che è quello delle es- senze, cioè quello dell’
identità o della contradizione; poiché quello che è assolutamente
necessario è l’unico possibile fra i vari partiti, e il suo contrario
implica contradizione. (Polemica col Clarke, 171ò, G. VII,
380-391). Bisogna distinguere tra il necessario e il
contingente, quantunque determinato. E non solo le verità
contingenti non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non
sono sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere che
vi è differenza, nel modo di determinare, fra le con- seguenze che hanno
luogo in materia necessaria e quelle che hanno luogo in materia
contingente. Le conseguenze geometriche e metafìsiche necessitano, ma le
conseguenze fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il
fi- sico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario
rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno altra necèssità
che quella del migliore. Ora Dio sceglie libe- ramente, benché egli sia
determinato a scegliere il meglio. E, poiché i corpi stessi non scelgono
(avendo Dio scelto per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati
agenti necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non si
confonda il necessario col determinato, e non si vada ad immaginare che
gli esseri liberi agiscano in una ma- niera indeterminata: errore,
questo, che ha prevalso in al- cuni spiriti e che distrugge le più
importanti verità, ed anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza
ra- gione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè altre
grandi verità potrebbero essere ben dimostrate. (Nuovi Saggi, 1701
scgg., 11, 21, § 13). Su questo argomento della necessità e libertà,
come su mol- tissimi altri con questo comiessi (origine del male e sua
giu- stificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.)
si imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto del
pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare: ([nello della Teodicea.
Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costi- tuita là
realtà. Le une assolute, necessarie, imi versali, ma di una universalità
astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale delle possibilità, delle
essenze. Le altre concrete, tangibili, esi- stenti, ma insieme
contingenti, individuali, tali che la loro esistenza non può venire
ilimostrata a priori, nè discendere matematicamente da alcuna forma
inerente alla costituzione del reale. La necessità morale, basata sul
principio ili ragione e finalistico, non elimina, come si è visto, la
contingenza: non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità
di ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario. Il
problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche nel campo
del contingente; o, in altri termini, la ridu- zione del principio di
ragion sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella
del principio di non contradi- zione. La sostanza individuale sarà la
soluzione di questo pro- blema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo
modo, e sempre nell’ambito della sua concezione oggettivistica della
realtà, una sintesi di universale e individuale. La
carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una certezza
matematica in tutte le cose conosciute, in modo ila eliminare tutto ciò
che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni ragionamento a un calcolo.
È questo il fondamento di quella Scienza generale, Caratteristica, Ars
inveniendi di cui egli va- gheggia 1 idea, a partire dal suo primo
scritto del 1666 sul- V Arte Combinatoria, fino alla fine della sua
vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono
uno di quelli che pili ha approfondito la scienza ma- tematica; ed ho
scoperto metodi e procedimenti comple- tamente nuovi, che portano questa
scienza di là dai limiti che le erano stati prescritti. 1
saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia ed in Inghilterra: e
mi sarebbe facile darne ancora molti altri ; ma io non faccio gran caso
delle scoperte particolari, e ciò che desidero maggiormente è di
perfezionare l’arte d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi
che soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende un’
infinità di soluzioni.... E poiché ho avuto la fortuna di
perfezionare considere- volmente l'arte d' inventare o analisi dei
matematici, ho cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per
ri- durre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo che servirebbe
a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è possibile ex datis , posto
cioè quel che ci è dato o conosciuto. E quando le conoscenze date non
bastano a risolvere la que- stione proposta, questo metodo servirebbe,
come nelle ma- tematiche, ad accostarsi il più possibile alla soluzione e
a determinare esattamente ciò che è pili probabile. Un tale
calcolo generale formerebbe nello stesso tempo una specie di scrittura
universale che avrebbe i medesimi vantaggi che quella dei cinesi, perchè
ciascuno la potrebbe intendere nella sua lingua. Ma supererebbe
infinitamente la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche
set- timane, avendo essa caratteri ben collegati secondo 1 or- dine
e la connessione delle cose; mentre i cinesi hanno una infinità di
caratteri secondo la varietà delle cose, e occorre la vita di un uomo per
imparar tiene la loro scrit- tura (1). (1) I caratteri
cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della sua
caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici
egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate, ma l'oggetto
stesso che essa Questa scrittura o lingua (se si rendessero
enunciabili i caratteri) potrebbe essere presto accolta nel mondo,
per- chè la si potrebbe imparare in poche settimane, e forni- rebbe
un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe di glande importanza
per la diffusione della fede e per 1 istruzione dei popoli lontani.
Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi; giacche questa
medesima scrittura sarebbe una specie di algebra geneiale, e darebbe modo
di ragionare calcolando, sicché, invece di discutere, si potrebbe dire:
contiamo. E si tro- verebbe che gli errori di ragionamento non sono che
errori di calcolo, riconoscibili mediante prove, come nell’ arit-
metica. Gli uomini avrebbero così un giudice delle
controversie veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere
se è possibile decidere la questione j>er mezzo delle conoscenze
che essi posseggono già, e quando non fosse possibile soddisfarsi
intieramente, potrebbero sempre determinare ciò che è più
verosimile.... J ci giungere dunque a questa scrittura o
caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna
cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le nostre
parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni confuse, si è
obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui nozione sia
precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non un'espressione
distinta dell’ idea della cosa. E avendo io studiato con cura
non solamente la storia e le matematiche, ma anche la teologia naturale,
la giu- risprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti questo
progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per
rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse più
filo- ne;. e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come
quelle chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita
citata in J. Bakuzi, Leibniz et l' organisation reXigieuse de la terre,
Paris, 1907, pp. 82-3). esempio la definizione della giustizia per me è
la seguente : La giustizia è la carità del saggio, o una carità
conforme alla saggezza. La carità non è altro clxe la benevolenza
generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità è lo stato
di gioia durevole, la gioia è un sentimento di perfezione, la perfezione
è il grado di realtà. Penso di poter dare definizioni analoghe di
tutte le pas- sioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è
bisogno. E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esat-
tezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre le definizioni
delle cose, ne segue che essi ci daranno modo di ragionare calcolando,
come ho appunto detto sopra. Ma per portare a termine un progetto
di tanta impor- tanza. il quale fornirebbe al genere umano una specie
di strumento così adatto a perfezionare la vista dello spirito come
gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà molta meditazione ed
un poco di assistenza. (Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I
), il. Vii, 25-27). È principalmente per attuare questo vastissimo
progetto che Leibniz propugnò durante tutta la sua vita la
fondazione di società di scienziati ed accademie. Il progetto rimase
sem- pre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi
com- piuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per
raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri " dalla cui
composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza uma- na, è un
metodo di scomposizione delle idee che troviamo di fronte a noi già
composte, partendo dalle loro definizioni (2). (1) Data
comunicatami dal prof. Ritter. (2) Ecco la primitiva formulazione
di questo metodo nella giovanile Arte Combinatoria: i
L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si ri-
solva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi
clementi si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione
dei termini della definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini
indefinibili; poiché „ non di tutte lo cose si deve ricercare la
definizione » (*). E questi ultimi (*) In greco nel testo:
citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi
dimostrazione. Co- nosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun
concetto, si potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il
predicato rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi
ele- menti costitutivi. Di qualsiasi cosa, nulla ci può
essere dimostrato, nep- pure da un angelo, finché noi non conosciamo i
termini costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità
tutti i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i ter-
mini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricer- cato comprendono
i mezzi che sono stati necessari per produrlo. (Initia et
specimina scientiae generali 8, G. VII, 62). termini non si
comprendono più per definizione, ma per analogia (** (***) ). Tro- vati
tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si indichino con segni
qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pon- gano
non solo lo cose ma anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini
composti variano in distanza dai termini primi, a seconda del numero di
termini primi di cui si compongono - cioè a seconda dell’esponente della
combinazione, - si facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in
cia- scuna classe si pongano i termini che constano di un ugual numero di
ter- mini primi. I termini sorti da una combinazione di due non si
potranno indicare altrimenti che scrivendo i termini primi di cui si
compongono; c poiché i termini primi sono indicati da numeri, si scrivano
due numeri che indichino i due termini. Ma i termini derivati da una
combinazione di tre o anche da una combinazione di maggior esponente -
cioè quelli che sono nella classe terza e seguenti - si possono indicare
ciascuno in tanti modi diversi quanto sono le combinazioni che compongono
il suo esponente, con- siderato non più come esponente, ma come numero Per
esempio, siano alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9;
sia un termine com- posto della classe terza, cioè formato da una
combinazione di tre, p. es. dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano
nella seconda classe le seguenti combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7;
3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico che quel dato termine della
classe terza si può scrivere o cosi : 3. 0. 9, (**) Per «
analogia» Leibniz intende un modo di apprensione più imme- diato e
diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio un’ im-
magine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono
coi sensi. (***) Questo significa che i termini semplici non
si devono intendere so- lamente come dati concreti, di fatto, sensibili,
ma comprendono anche dati astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera
natura di questi termini semplici o molto poco chiaro, o Leibniz si ò
espresso in proposito sempre in modo vago e impreciso. Criterio della
verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del sog- getto; e
questo rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale criterio vale
solamente per le verità di ragione ohe sono ana- litiche. In esse sole il
predicato è già contenuto nel soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che
si afferma (predica) a propo- sito di una cosa deve essere già nella cosa
stessa. Se io dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due
retti, non faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di
triangolo, una qua- lità già implicita in esso. Il predicato (essere
uguali a duo retti) fa parte già a priori del soggetto (angoli di un
triangolo). Ma posso io affermare che nel concetto di Giulio Cesare,
per esempio, sia già contenuta, a priori, l’azione di passare il
Rubicone? La proposizione: «Cesare passò il Rubicone» non è analitica, il
suo predicato cioè non è già compreso nel sog- esprimendo tutti i
suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o, in luogo degli
altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 op- pure
8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene
usato fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il
cui numero superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e
quello inferiore o denominatore il numero della classe. (*) È più comodo,
nell’ indicare i ter- mini oomposti, di non scrivere tutti i termini
primi, ma gli intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi
intermedi di scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi
consideri quella determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti
i termini primi. Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i
soggetti 0 i predicati, sia affermativi sia negutivi, sia universali sia
particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti 1 suoi termini
primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i
termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il
termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione
dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si
predicano, o si potranno anche trovare i composti che di esso si
predicano, se si conser- verà l’ordine nel formare le combinazioni. Se
invece il termine dato è indi- cato corno una composizione di composti, o
in parte di composti, in parte di semplici, tutto ciò che si può
predicare dei composti che lo compongono si può predicare anche del
termine dato (**).... In tal modo sara facile inda- gare per mezzo del
calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto dato
». (Ara Combinatoria, 1666, 0. IV, 64-6). (*) P. es.
5/2 . 3 significa la combinazione del termine semplice 3 col ter- mine
composto che ha il quinto posto nella seconda classe; e cioò, secondo la
lista indicata sopra, con 6.9. La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il
termine composto 3.6.9. (**) Questo ò, in sostanza, lo schema
dol procedimento sillogistico, in cui «iò che si predica del termine più
generale si può predicare anche del parti- colare in esso contenuto. getto,
ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contin- gente. Questa
proposizione appartiene alle verità di fatto. Ora, sarà possibile
una dimostrazione rigoros.a in questo campo, se ogni dimostrazione è,
come si è visto, un semplice calcolo per stabilire che i termini
componenti il predicato fanno parte del complesso dei termini componenti
il soggetto? Leibniz dice a volte c he la dimo strazione, quanto alle
propo- sizioni di fatto, da solo IìT probabilità e non la (■ertezza. Ma
egli tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione
logica di queste verità, e di far rientrare anche esse nella re- gola del
predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli si serve del
principio di causalità, cui sottostanno tutte le verità di fatto. « I
termini dell effetto ricercato - si è visto - comprendono i mezzi
necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, com- prende già nella sua nozione
tutte le cause che 1 hanno deter- minato. E, reciprocamente, potremo dire
che la nozione della causa racchiude in sè già implicitamente tutti gli
effetti cui darà luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene
alla serie delle cause e degli effetti, ed è insieme effetto e
causa, si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se
le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli effetti cui darà
luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta- con- terranno le
loro cause e i loro effetti, e così via, lino alla causa prima del tutto
e causa di sè, cioè Dio; sicché ciascun singolo dato e collegato,
attraverso tali rapporti causali, con tutto l’universo. La
conoscenza di tutti questi infiniti nessi causali è su- periore alle
forzi* dell ingegno umano, il quale perciò si contenta di ricorrere
alFesperienza del dato di fatto, rinun- ciando a dedurlo dalle sue cause;
sarebbe però, in linea di principio, possibile. Le
proposizioni certe per sè stesse sono di due tipi; le ime hanno la loro
validità nella ragione — e cioè nel con- tenuto dei loro termini e io le
chiamo « note per sè stesse » ■ o anche « identiche »; le altre sono di
f'atdoT e ci sì ma- nifestano attraverso esperienze indubitabili; e tali
sono anche le testimonianze immediate della coscienza. Ma vera-
mente anche le proposizioni di fatto hanno le loro ragioni, e perciò
potrebbero essere risolte nella propria costiti!- II. zione ( 1 )
: ma noi non potremmo conoscerle a priori attra- verso le loro cause, se
non conoscendo la totalità del- l'universo (cognita tota serie renivi) :
il che supera la forza dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a
posteriori, sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire ri-
guardo a cose per le quali manchiamo di una sicura scienza, è preferibile
che almeno sappiamo di sicuro che una certa proposizione è
probabile. ( Praecoynita <id Encyclopatdiam, G. VJI, 44).
L’apprensione per via sperimentale e il metodo della pro- babilità
derivano dalla imperfezione della conoscenza umana. In linea di
principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può avere una nozione
analitica, a priori, tale che contenga in sè già sviluppati tutti i
predicati, cioè tutti gli effetti e le cause. Il segno di una
conoscenza perfetta si ha quando non c'è nulla della cosa trattata di cui
non si possa render ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non
si possa predile l'avverarsi. (Frammento De la Hagense,
G.VIJ, S3). Ora, tale conoscenza a priori dei contingenti, se è
impossi- bile alla mente umana, non è impossibile a Dio che li ha
scelti e li ha messi in atto. Di qualsiasi verità si può
rendere ragione; infatti la connessione del predicato col soggetto o è
evidente eli per sè, come nelle proposizioni identiche, oppure si deve
spie- gare, il che avviene con la scomposizione dei termini. E l'unico
c massimo criterio della verità, beninteso nelle pro- posizioni astratte
e non derivanti dall' esperienza, è di ri- solversi nell' identità (ut
sit rei identica vel ad identicas revoca bilia). Di qui si possono
dedurre gli elementi della eterna verità e il metodo in ogni problema,
purché si sap- (1) Oioè potrebbero essere considerate come
analitiche. pia procedere in modo altrettanto dimostrativo che
nella geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a priori e al
modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno di esperienza, ed
ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre da parte
nostra quasi nessuna cosa è conosciuta adeguatamente, poche a priori, e
le più per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di cono-
scenza si devono usare altri principi ed altri criteri. (Ve
Synthesi et Analysi universali, G. VII, 295-296). Qualsiasi cosa
creata, dunque, nella sua considerazione a priori, così come è nella
mente di Dio, contiene in sè come predicati tutti gli altri contingenti
che sono stati o saranno in una qualsiasi connessione causale con essa:
in una parola, tutto il suo passato e tutto il suo avvenire. Ciò che
erano i termini semplici nella costituzione dei concetti di ragione,
sono, nelle verità di fatto, questa serie di cause e di effetti.
Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come sog- getto di
infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza indivi- duale: essa
racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua comprensione, con gli
infiniti suoi collegamenti, tutto l'uni- verso . Per
distinguere le azioni di Dio e delle creature, viene spiegato in che
consista il concetto di sostanza individuale. Poiché le azioni e
le passioni appartengono propria- mente alle sostanze individuali
(actiones sunt mppo- sitorum), sarebbe necessario spiegare che cosa sia u
mutale sostanza. E pur vero che quando si attribuiscono piìi
predicati ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attri-
buisce come predicato a nessun altro, lo si chiama so- stanza
individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione non è che
nominale. Bisogna dunque conside- rare che cosa significhi l'essere
attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è evidente che ogni
vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando
una propo- sizione non è identica, quando cioè il predicato non è
compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia compreso
virtualmente (1) : ed è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che
il predicato è nel soggetto. Così oc- corre che il termine del soggetto
comprenda sempre quello del predicato, in modo che colui che intendesse
perfetta- mente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il
predicato gli appartiene. Posto ciò, possiamo dire che la natura di
una sostanza individuale o di un essere completo è che la sua
nozione sia così compiuta, da bastare a comprendere e a farne
dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione si attribuisce.
Mentre l’accidente è un essere la cui no- zione non comprende affatto
tutto ciò che si può atti i- buire al soggetto al quale si attribuisce
questa nozione. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro
Magno, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza deter-
minata ad un individuo, e non comprende affatto le altre qualità del
medesimo soggetto, nè tutto ciò che è com- preso nella nozione di quel
principe; mentre Dio, vedendo la nozione individuale o /«eccetto* d
Alessandro, vi vede nello stesso tempo il fondamento e la ragione di
tutti i predicati che gli si possono veramente attribuire, come per
esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a cono- scervi a priori (e
non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o per* veleno;
cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. Inoltre, quando si
consideri bene la connessione delle cose, si può dire che vi sono da
ogni tempo nell’ anima di Alessandro resti di tutto ciò che gli e
(1) Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è contenuto
nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso (espressamente).
Nelle proposizioni di fatto, invoee.il predicato è contenuto nel soggetto
in quanto collegato ad esso da una relazione di causa ad effetto
(virtualmente). accaduto, e segni di tutto ciò che gli accadrà,
perfino tracce di tutto ciò che accade nell’universo; benché non
appartenga che a Dio di riconoscerle tutte. ( Discours de
métaphysiqtu:, 1080, § Vili). A questa stregua possiamo dire che
l’atto di passare il Ru- bicone non si aggiunge alla nozione di Cesare
come qualche cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. Cesare, per chi
in- tenda, questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in
sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, compreso l'atto
di passare il Rubicone: il quale, quando si attuerà, non sarà che la
conseguenza necessaria delle cause che 1" hanno prodotto, quindi lo
sviluppo ili ciò che era già contenuto in esse. Libertà e
causalità. - Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che si è visto
poc’anzi a proposito della determinazione di Dio a scegliere il
«migliore», il problema della libertà. Se ogni fatto contingento è
presente nella mente di Dio, non cesserà esso di essere contingente ? Non
sarà per ciò stesso ne- cessario, predeterminato? E non cadrà così anche
qualsiasi libertà nell azione dell uomo, la quale si svolge nel
campo delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni
responsabilità umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo
pro- blema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa
una distinzione fra connessione necessaria e inclinante.
Poiché la nozione individuale di ogni persona comprende una volta per
tutte ciò che mai le accadrà, si redono in essa le prove a priori dell'
avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui è avvenuta una
cosa piuttosto che un'altra ; ina queste verità, benché sicure, nondimeno
sono contingenti, in quanto fondate sul libero ar- bitrio di Dio o delle
creature, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni che inclinano senza
necessitare. Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che
può nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra. Abbiamo
detto che la nozione di una sostanza indivi- duale comprende una volta
per tutte tutto ciò che le può mai accadere, e che, considerando tale
nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di
essa, come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le pro-
prietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con ciò distrutta
la differenza fra le verità contingenti e le ne- cessarie, che non vi sia
più alcuna libertà umana, e che una fatalità assoluta venga a regnare su
tutte le nostre azioni come su tutto il resto degli avvenimenti del
mondo. Al che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che
è certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i futuri
contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede; ma non si riconosce,
dicendo ciò, che siano necessari. Ma, si dirà, se qualche conclusione si può
dedurre infalli- bilmente da una definizione o nozione, essa sarà
neces- saria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve
accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente nella sua natura
o nozione, così come nella definizione del circolo sono comprese le sue
proprietà, la difficoltà sussiste ancora. Per risolverla in modo
plausibile, dico che la con- nessione o consecuzione è di due specie : l’
una è assoluta- mente necessaria, e il suo contrario implica
contradizione (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità
eterne, come quelle di geometria). L’altra non è necessaria che ex
hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sè stessa è
contingente: e ha luogo quando il contrario non implica contradizione. E
questa connessione è fondata non sulle pure idee e sul semplice
intelletto di Dio, ma anche sui suoi liberi decreti e sull'ordine
dell’universo. Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare
diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la
libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua no- zione, poiché
noi supponiamo che la natura di una tale nozione perfetta di un soggetto
sia di comprendere tutto, affinché il predicato vi sia compreso, ut
possit inesse sub- jecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa
no- zione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa
non gli conviene se non perchè Dio sa tutto. Ma si insisterà che la sua
natura o forma risponde a questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto
questa parte, gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere
invo- cando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno
ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di Dio, e
poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma, bisognerà in ogni modo
che vi rispondano. Ma preferisco risolvere le difficoltà che
giustificarle con l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò,
servirà a chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento
di applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che ciò
che accade conformemente a questi precedenti è sicuro, ma non necessario:
e se qualcheduno facesse il contrario, non farebbe nulla d’
impossibile in sé, quantunque sia im- possibile (ex hypothesi) che ciò
accada. Poiché, se qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta
la dimo- strazione in virtù della quale potrebbe provare questa
con- nessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la sua
fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la dittatura futura di
Cesare ha il suo fondamento nella sua nozione o natura: che vi si vede
una ragione per cui egli ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che
di arrestar- visi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la
gior- nata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e
perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò fosse necessario
in sé stesso, nè che il contrario impli- casse contradizione. Press’ a
poco come è ragionevole e si- curo che Dio farà sempre il migliore,
benché ciò che è meno perfetto non implichi affatto contradizione.
Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo pre- dicato
di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei numeri o della
geometria, ma che essa presuppone l’ordine delle cose che Dio ha scelto
liberamente, e che è fondato sul primo Ubero decreto di Dio - il quale
comporta di fare sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e sui
decreto che Dio ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura
umana, cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò che
parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su questa specie di
decreti è contingente, benché sia certa; poiché questi decreti non
cambiano affatto la possibilità delle cose e, come ho già detto, benché
Dio scelga sem- pre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò
che è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso,
sebbene non accadrà ; perchè non è la sua impossibilità, ma la sua
imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è necessario, di cui sia
possibile l’opposto. Si sarà dunque in condizione di risolvere
queste specie di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti
esse non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le altre
che si sono mai riferite a tale materia), purché si consideri bene che
tutte le proposizioni contingenti hanno ragioni per essere piuttosto così
che altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a
priori della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano che
la connessione del soggetto e del predicato di que- ste proposizioni ha
il suo fondamento nella natura del- l’ imo e dell'altro: ma che esse non
hanno dimostrazioni di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate
che sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,
cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugual- mente possibili
: mentre le verità necessarie sono fondate sul principio di contradizione
e sulla possibilità o impos- sibilità delle essenze stesse, senza
riguardo, in ciò, alla volontà libera di Dio o delle creature.
( Discour « de métti physique, 1086, §X1II). D’altra parte,
Leibniz usa anche altri argomenti per sal- vare la libertà e la
responsabilità in questa connessione causale universale. Libertà non è
sempre necessariamente un contrap- posto di determinazione
causale. Quanto al libero arbitrio, sono dell' opinione dei
tomi- sti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia
predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però non impedisce
che noi abbiamo ima libertà esente non solo dalla costrizione, ma anche
dalla necessità: ed in ciò la nostra situazione è analoga a quella di Dio
stesso, il quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché
non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se egli non avesse
da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico possibile, egli sarebbe
sottomesso alla necessità. Piu si è perfetti, più si è determinati al
bene, ed anche più liberi nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e
conoscenza tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei
limiti della perfetta ragione. (Lettera al Bayle, G. Ili,
58-9). Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi
in rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in sé
stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di con- seguenza che il
loro legame sia sempre di una vera ne- cessità. cioè che la verità la
quale stabilisce che un fatto è conseguenza dell altro, sia necessaria.
Ed è questo prin- cipio che bisogna applicare particolarmente alle
azioni volontarie. Quando ci si propone una scelta, per
esempio di uscire o di non uscire, il problema è se, con tutte le
circostanze interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impres-
sioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora in istato di
contingenza, o se io sia necessitato a scegliere, per esempio, di uscire.
Cioè è da domandare se la proposi- zione vera ed effettivamente
determinata: « in tutte queste circostanze prese insieme io sceglierò di
uscire », sia con- (1) Il principio ohe il mondo sensibile sia
retto dalla leggo di causalità appartiene alla tradizione ari»toteliea,
ricevuta da Leibniz attraverso la scolastica. tingente o necessaria.
A ciò io rispondo che è contingente; perchè nè io nè alcun altro spirito
più illuminato di me potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità
impli- chi contradizione. E supposto che per libertà il' indiffe-
renza & intenda una libertà opposta alla necessità (come ho or ora
spiegato), io accetto tale concetto della libertà. Poiché sono
effettivamente d'opinione che la nostra libertà, così come quella di Dio
e degli spiriti beati, è esente non solo da coazione, ma anche da una
necessità assoluta; benché essa non possa essere esente dalla
determinazione e dalla certezza. Ma io penso che in questo
argomento sia necessaria una grande precauzione, per non cadere in una
concezione chi- merica che urta contro i principi del buon senso: la
quale sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equi-
librio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che io ritengo
chimerico. Bisogna dunque considerare che que- sto legame di cui ho
parlato, assolutamente parlando non è punto necessario, ma che non jier
questo è men vero; e che in generale, ogni volta che. in tutte le
circostanze prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi
carica da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che que-
sto partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno sempre il migliore
conosciuto, e se un partito non fosse mi- gliore dell'altro, essi non
sceglierebbero nè l'uno nè l’altro. Nelle altre sostanze intelligenti, le
passioni spesso terranno luogo di ragione, e si potrà semine dire,
riguardo alla vo- lontà in generale, che la scelta segue la jiiù grande
incli- nazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le
ragioni vere o apparenti. So bensì che qualcuno immagina che ci si
determini qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che Dio
scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene, e che l’ uomo
scelga a volte senza motivo e contro tutte le sue ragioni, disposizioni e
passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione
che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è
uno dei massimi principi del buon senso che nulla accada senza
causa o ragione determinante. Così, quando Dio sceglie, lo fa
secondo il criterio del mi- gliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il
partito che l'avrà colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede
meno utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è divenuto
piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per analoghe
ragioni di gusto depravato; le quali però non per questo saranno meno
determinanti, anche quando non fossero concludenti. E non si troverà mai
un esempio con- trario a ciò. Così, quantunque noi abbiamo
una libertà di indifferenza che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai
una indif- ferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni
determi- nanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci la sce-
gliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e sempre portato
infallibilmente al migliore, per quanto non vi sia portato necessariamente
(se non per mia necessità morale), noi siamo sempre portati
infallibilmente a ciò che ci colpisce di più, ma non necessariamente.
Poiché il contrario non implicava alcuna contradizione, non era
punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché nè che creasse
particolarmente questo mondo: benché la sua saggezza e la sua bontà ve lo
abbiano indotto. (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).
Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile pensare
che la previsione dei predicati contingenti da parte- di Dio non
contraddica alla libertà. P reveder e non significa predeterminare. Dio
sceglie fra i possibili una serie nella quale soiuTdpaT contenute
determinate azioni col carattere di li- bertà. Nello sceglierle, egli non
le crea nè le determina: non fa che metterle in azione, attualizzare la
loro possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli
sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali
mantengono, nella serie attuale come in quella possibile, la loro
caratteri- stica di libertà. Dio inclina la nostra anima
senza necessitarla ; non si ha il diritto di lamentarsi, e non si deve
domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il peccatore Giuda sia
ammesso all' esistenza a pre- ferenza di altre persone possibili. Imperfezione
originale prima del peccato e gradi della grazia. Quanto
all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono moltissime considerazioni
assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui. Ciò nonostante, ecco che
cosa si può dire all' ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle
nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite;
egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro es- sere, in modo
che i pensieri ci arrivino spontaneamente o liberamente nell'ordine determinato
dalla nozione della nostra sostanza individuale, nella quale essi si
potevano prevedere fin dall’eternità. In più, in virtù del suo
decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente,
esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti particolari,
riguardo ai quali questo bene apparente ha sempre qualche cosa di reale,
egli determina la nostra alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza
però ne- cessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell’
in- differenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed ha il
potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto la propria
azione; l'uno e l'altro partito essendo e rima- nendo possibili.
Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sor- prese
dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare riflessioni, e di
non agire nè giudicare in determinate oc- casioni, se non dopo aver
maturamente deliberato, fi vero però, ed anche è assicurato da tutta f
eternità, che qualche anima non si servirà affatto di questo potere in
una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri
che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum sono
ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum. Ora quest’anima,
un poco prima di peccare, avrebbe mo- tivo di lagnarsi di Dio come se
egli la determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di Dio in
questa ma- teria imprevedibili, d’onde sa essa di essere
determinata a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?
Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe pro- porre condizione
più agevole e piii giusta; così tutti i giudici, senza cercare le ragioni
che hanno disposto un uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a
consi- derare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse
è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete voi stessi:
forse no. E senza pensare a ciò che voi non potete conoscere e che non
può darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che
conoscete. Ma qualche altro dirà : D onde consegue che
quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è
facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché Dio vede
dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea posseduta
da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque se non
questo problema: perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non
possibile nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda
non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in gene- rale si deve dire
che, poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il
peccato che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura
nell - universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma
questo ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è
com- presa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili
(1). (1) Questo concetto del male come parte integrante e
necessaria dell’ar- mnnia universale, sarà il tenia fondamentale della
Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa
scelta, non si può, durante il nostro passaggio su que- sto mondo; e
basti saperlo, senza comprenderlo. Questo è il momento di riconoscere
altitudinem divitiarum, la profondità e l’abisso della saggezza divina,
senza voler sviluppare problemi di dettaglio, che implicano
considera- zioni infinite. Si vede però bene che Dio non è la
causa del male. Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza
degli uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima, ma
ancor prima vi era una limitazione o imperfezione originale connaturale a
tutte le creature, che le rendeva soggette al peccato e capaci di errare.
Così non vi è mag- gior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che
riguardo agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opi-
nione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del male sia nel
nulla; cioè nella privazione o limitazione delle creature, alla quale Dio
rimedia graziosamente col grado di perfezione che gli piace di dare. Questa
grazia di Dio, sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue
misure, è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo effetto
proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non solo a
preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla salvazione, supponendo
che l’uomo si unisca ad essa per quanto dipende da lui. Ma essa non è
sempre sufficiente a superare le inclinazioni dell' uomo, perchè
altrimenti egli non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla sola
grazia assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che lo
sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze. (Discount de
mélaphysiqne, 1 080, §XXX). (I) L supralapsari sostenevano, contro
gli infialapsari, che la predeter- minazione divina si esercitasse anche
prima del peccato originale (sujrra lapsum, prima della caduta) e che
quindi il fallo di Adamo non fosse stato compiuto per un atto di libera
volontà. Leibniz, con questu sua concilia- zione di predeterminazione e
contingenza o libertà, rende ozioso il problema, 4. — Leibniz, La
monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità, libortà, previsione
predeterminazione, che rientrano piuttosto nell’ambito della Teodicea, il
punto essenziale toccato qui è V universalità della sostanza indimdmle
che, con lo infinite connessioni che rac- chiude in sè, diviene
l’universo stesso visto da un particolare punto di vista. Essa comprende
il proprio passato e il proprio avvenire, e insieme il passato e
l’avvenire di tutto l'universo; raggiunge cioè il massimo del
l'universalità: è una visione to- tale, complessiva del tutto.
E d'altra parte conserva tutta la sua individualità. 11 punto di
partenza è sempre il singolo dato di tatto, specifico, parti- colare,
contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane ben chiaro e visibile
come capo dell’ immenso filo svolgentesi al- I' infinito, al seguito di
tutte le connessioni causali. Rimane e garantisce un punto di appoggio,
una possibilità di percor- rere ordinatamente tutto 1’ interminabile
cammino. E d’altra parte ammette la possibilità di infiniti altri punti
di partenza. Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di
fatto, cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da
un diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’uni-
verso è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di esso: ma da
ciascun particolare si ha la possibilità di risalire alla totalità nel
suo complesso. In questa unione di particolare e universale nella
sostanza individuale, sta la prima grande scoperta di Leibniz, il nu cleo
fon damentale del concetto di monade. Un altro campo del! attività
di pensiero loibniziana è la filo- sofia della natura; campo ben distinto
da quello che si è visto fin ora, e trattato con strumenti e metodi di
tutt’altro genere. I problemi qui analizzati hanno particolare affinità
con quelli dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza
o meno degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento,
del- l’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di
questi problemi dai principi generali della sua filosofia
metafisica: li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi
propria, seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo
di ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di
ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate soluzioni e
ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto con le soluzioni
ottenute negli altri campi, giungendo così a sintesi sempre più ricche e
comprensive. La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz
nella filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla
giova- nile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E
nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fon- damentali
in questo campo. Egli comincia come atomista, al seguito del Gasa elidi
(1592-1G65), il quale rinnovava le dottrine di Epicuro e di Democrito, e
concepiva la materia in tutti i suoi aspetti come formata dalla varia
combinazione degli atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona
questa teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di
continuità. È questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si
applica non solo alla considerazione della materia, ma anche a molti
altri aspetti della sua speculazione. Per esso non esistono arresti,
interruzioni, distacchi nello sviluppo delle cose. Per esso natura non
facil saltus. Applicato alla considerazione logica del mondo sensibile,
questo principio è il fondamento del passaggio inin- terrotto dalla causa
all’effetto e dall’effetto alla causa, senza ammettere posto una volta il
miracolo iniziale della creazione - nuove creazioni ex novo, nuovi
miracoli. Per questo princi- pio tutto il mondo è comiesso in tutte le
sue parti; sì che dal- ì’una si può, attraverso un procedimento
ininterrotto, passare a qualsiasi altra. Nulla avviene ad un
tratto. Una delle mie grandi mas- sime, e delle più ricche di
applicaziomi, è che la natura non fa mai salti : 1' ho chiamata legge
della continuità;.... e l’uso di questa legge è molto importante nella
fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e
viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi
movimento nasca immediatamente dal ri- poso, nè vi giunga se non
attraverso un movimento più piccolo; che non si possa mai finire di
percorrere alcuna linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea
più piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora le leggi
del movimento, non abhiano affatto osservato questa legge, credendo che
un corpo possa ricevere in mi istante un movimento contrario al
precedente. Tutto ciò permette di stabilire che anche le percezioni
evidenti^de- rivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per
essere osservate. Giudicare altrimenti significa non cono- scere a
sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle cose, che implica sempre e
ovunque un infinito attuale. (Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione.
G. V, 49). Applicato alla considerazione del mondo materiale, il
principio di continuità stabilisce che la materia è divisibile all’
infinito, e che non è possibile concepire un arresto in questa
divisibilità, o pensare un elemento che sia indivisibile e possa
rappresentare un punto ili partenza per la costituzione dei corpi.
Viene così a cadere la dottrina dell’ atomo (1) come elemento primo
e semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della
materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è concepito
come composto di parti. Poiché il continuo è divisibile
all'infinito, qualsiasi atomo sarà, in certo modo, come un mondo di
infinite specie, e vi saramio mundi in mundis in infinitum. (
Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti, 1671, G. IV, 201).
Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali e piante
o altre specie ancora, e non vi è atomo che non contenga un mondo di
creatine, poiché tutto è diviso at- tualmente all' infinito.
(lettera al Burnott, 1699, G. Ili, 250). Il movimento. La
materia, dunque, non è formata di atomi: è divisibile all’infinito,
continua, omogenea, tale che mai si potrà arrivare all’elemento più
piccolo di essa. D’altro lato, essa non è riducibile a pura estensione,
come voleva Car- tesio (2). Tale concezione, che terrebbe conto nella
materia dei soli elementi geometrici e la considererebbe solo in
funzione dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La
ma- teria è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza,
movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza. Che la natura
normale della sostanza corporea sia co- stituita dall’estensione, mi pare
sia affermato da molti con grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato;
certamente, non derivano dal l’estensione nè il movimento o azione,
nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura che regolano
il movimento e l’urto dei corpi. E veramente il concetto dell'estensione
non è primitivo, ma risolubile (1) "ATOfioq significa appunto
indivisibile. (2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del
mondo da Lio, prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane
(principio spi- rituale) e ree exietcne (principio della materia).
in altri. Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un tutto
continuo in cui coesistano vari elementi. E, per dir tutto, all
estensione, il cui concetto è relativo, è necessario qualche cosa che si
estenda o sia continuo, così come nel latte la bianchezza, nel corpo ciò
stesso che ne costituisce l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque
esso sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo
Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni naturali e
matematiche), cho spazio vuoto e pura esten- sione siano un solo e
medesimo concetto: nè, a mio giudi- zio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2)
possono spiegarsi con la pura estensione, ma solo con un soggetto dell’
estensione il qualo non solo determini, ma riempia anche uno
spazio. (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum
eurtesianorvm, prima del 1692, G. IV, I)a che cosa derivano,
ora, queste qualità della materia? Questa azione, questa resistenza etc.,
in cui consiste l’essen- ziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa
derivare tutte le qualità della materia dal movimento. La
materia prima è la massa stessa, nella quale non è nuli altro che
estensione e àvTiTtmta, ovvero impene- trabilità: ('estensione le deriva
dallo spazio che riempie; ma la vera natura della materia consiste
nell'essere alcun- ché di denso (crassum) e impenetrabile, e in
conseguenza tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si
muova (dato che l’uno dei due deve cedere). Questa massa con- tinua
che riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri- ti) Cristiano
Huvobns (1629-1695) grande scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria
della luco e primo applicatole del principio del pen- dolo alla
costruzione degli orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente
influito sullo sviluppo dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c
cor- rispondenza dura da iranno della loro conoscenza a Parigi (1672)
finn alla mor- te della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto
dalle leggi di Huygens sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla
costituzione della materia. (2) Antitypia è il termine usato da
Leibniz por indicare la compattezza e impenetrabilità della
materia. mangono in quiete, è la materia prima, dalla quale
ogni cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto si
dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe’ infatti nessuna
diversità, ma una pura omogeneità, se non vi fosse il movimento....
Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo che la forma
non sia altro che figura, troveremo di nuovo una mirabile concordanza.
Infatti, poiché la figura è il limite ( terminus ) del corpo, per formare
le figure della materia sarà necessario un limite. E per far sorgere
vari limiti nella materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità
delle parti, dato che (piando le parti sono discontinue, ciascuna di esse
ha termini separati (infatti Aristotele de- finisce i continui come
quelli il cui limite è uno (1)); ma la discontinuità, in quella massa
inizialmente continua, può essere prodotta in duplice modo : o
togliendole insieme an- che la contiguità, il che ha luogo quando avviene
una se- parazione fra le parti, in modo che si produca un vuoto;
oppure conservando la contiguità, come quando le parti, pur rimanendo
accoste, si muovono tuttavia in direzioni diverse: così per esempio due
sfere, comprese l una nell'al- tra, possono muoversi in direzioni diverse
e tuttavia ri- manere contigue cessando di essere continue. Di qui
è chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discon- tinua
o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser state create
contemporaneamente alla materia; se invece la massa è inizialmente
continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento perchè
dal movimento deriva la divisione, dalla divisione il limite delle
parti, dai li- miti delle parti le loro figure, dalle figure le forme,
quindi dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni
tendenza alla forma è movimento: e questa è la so- luzione della
contrastata questione sull’origine delle forme... (1) lu greco nel
tosto: uv Tà cacata sv. Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come
mutamenti si enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: ge-
nerazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, e mutamento di
luogo o movimento. I moderni ritengono che tutti questi mutamenti si
possano spiegare attraverso il solo mutamento di luogo. E la cosa è
chiara quanto all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di
quan- tità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo e
si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare attraverso il movimento la
generazione e la corruzione e l’ altera- zione.... E tanto la generazione
e la corruzione quanto l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi
sottile movi- mento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò
che riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno
bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli specchi; e
questa è la ragione per cui la spuma dell’acqua è bianca, constando di
innumerevoli bollicine che sono al- trettanti specchi.... E chiaro da ciò
che i colori derivano dal semplice mutamento di figura e di situazione
nella superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne
avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qua- lità. E
invero, se le qualità mutano a causa del solo movi- mento, per ciò stesso
muterà anche la sostanza: mutati infatti tutti gli elementi (perciò anche
alcuni di essi) si elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la
luce o il calore, avrai eliminato il fuoco. (Lettera al
Thomasius, 1669, 6. J, 17-19). Tutto dunque deriva, nella materia,
dal movimento; e senza il movimento, quando cioè sia in quiete, essa
perde ogni sua solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di
materia. Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu
consistenliam quiescentis ». Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra
opinione, sembrando a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non
necessiti altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io sono di
opinione contraria : questo glutine è il movimento. .... Ciò che è in
quiete è spazio vuoto. (Lettera ali’Oldenburg, 1671, Ale. II, I,
166-7). Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore
o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda perchè i
corpi abbiano le parti più o meno coerenti: af- fermo che non si deve
cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si
muovono insieme. Si muovono insieme perchè in una così grande varietà
di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni
modo necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro
vicine, altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che
queste parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche
sì che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la
causa permane. La causa è la combinazione stessa dei mo- vimenti generali
: e i movimenti generali permangono sem- pre. Li turba dunque chi muti
improvvisamente un qual- siasi effetto da essi prodotto e stabilito, e
nel quale tutta la natura consente. Ne deriva chiaramente che la
pres- sione esterna è la causa prima della solidità, e che la
quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa prossima, ma
soltanto quando deriva da una causa esterna permanente. Così dunque come
la concomitanza, cioè la quiete o il movimento cospirante costituiscono
il corpo solido, analogamente il movimento vario delle parti costi-
tuisce il liquido. E questo è il principio della diver- sità specifica
nei corpi, e del fatto che alcuni sono più densi degli altri, cioè più
solidi o composti di parti so- lide più grandi. Questa tesi è anche
confermata dal- l’esperienza. (Lettera a Onorato Fabri,
1677, G. IV, 250). li. «conatcs». — Il concetto di materia
dun que si dissolve in quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora,
tale creazione di materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del
movi- mento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?
Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già
negati in nome del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di
partenza, rendendolo privo di esten- sione: considerandolo non più come
la particella più piccola di materia (la quale sarebbe pur sempre
materiale, estesa), ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di
inesteso. In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine
del- lo Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e
l’ inizio derTìTTTvtrnrnto. Vi sono degli indivisibili o inestesi,
altrimenti non sa- rebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento
cor- poreo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ ini-
zio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento 0 di un
tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare 1 inizio, indicato
da una linea ab il cui punto mediano sia c, e il mediano fra a e c sia d,
e quello fra a e d sia e, e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte
sinistra, verso il lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può
to- gliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli si
può togliere ed, e così via; non si può mai dunque considerare come
inizio ciò a cui si può togliere qualche cosa dalla parte destra. Ciò a
cui non si può togliere alcuna estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio
del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto,
il conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è
inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che non ha parti,
e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui
estensione è nulla, cioè ciò le cui parti non hanno distanza fra di loro,
la cui grandezza non è da considerarsi, è inassegnabile, è minore di
qualsiasi gran- dezza die possa avere un rapporto non infinito con una
altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna- Iòle: e ciò è il fondamento del metodo
di Cavalieri (1) e dimostra in modo chiaro, la verità di quel suo
principio per il quale si concepiscono dei rudimenti, per così
dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi asse-
gnabile.... 11 conatus sta al movimento come il punto allo
spazio, cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine
del movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debol- mente,
sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propa- gherà il conatus all ’
infinito per tutto ciò che gli si op- pone nella materia, e perciò
imprimerà il suo conatus a tutte le altre cose : nè si può negare che,
quando anche cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e per-
ciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un inizio di movimento
a tutto ciò che gli si oppone, an- che se venga superato da questi
ostacoli. Così in cia- scun corpo vi possono essere contemporaneamente
più conati contrari.... Nel tempo di una spinta, di un urto,
di un incontro, i due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero
sono nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due
corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell altro,
comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a unirsi
con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei due
corpi sono perciò all inizio dell unione, cioè i loro estremi si
uniscono: dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.
Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui ter- mini sono uno
(2), sono continue o coerenti, anche pel- li) Bona vkstuka
Cavai.ihri (1598-1(147), autore della Geometria indivisi- hiliurn. ebbe,
eoi suo concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero
matematico di Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il
principale precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta
al Leibniz e al Newton. (2) In greco nel testo. Cfr. sopra,
p. 55. definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un
solo luogo, l’una non può essere spinta senza l’altra.
(Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti, 1071, (i. IV,
228-30). Corpo e spirito. — il conatus è dunque, per così dire, l'
ini- zialo punto di contattoTra “materia e movimento: l'atto in cui
il movimento, applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna I' inizio
del corpo. Ma che cos’ò il movimento rispetto alla ma- teria, se non un
principio spirituale? La lisica tratta della materia e della unica
affezione risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè
del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una figura e
situazione delle cose buona e a lui gradita, for- nisce alla materia il
movimento. Infatti la materia di per sè è priva di movimento. Principio
di ogni movimento è lo spirito. (Lotterà al Thouiasius,
l(i(iU, U. I, 22). Così Leibniz, in una formulazione ancora
immatura: e, giunto al concetto di conattie . in esso egli fa consistere
il principio dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts
nello spazio, dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma
di memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito
come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto allo
spazio. Nessun conato senza movimento dura più di un istante,
se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il
conato, quello è nel tempo il movimento del corpo: qui si apre la porta a
chi vorrà proseguire verso la vera distinzione di corpo e spirito, che
non è ancora stata spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens
momen- tanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi
di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario ; due
elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al piacere o al
dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione,
cioè la comparazione e quindi Y ar- monia ; perciò il corpo manca di
memoria, manca del senso delle azioni e delle passioni, manca di pensiero
(cogitatio). (llypothesis physica nova, Theoria motus abxtracli,
1671, (!. IV, 230). Come le azioni del corpo consistono nel
movimento, così consistono le azioni dello spirito nel conatun o,
per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche lo spirito
stesso consiste propriamente soltanto in un punto dello spazio, mentre il
corpo comprende spazio, li questo, per parlare popolarmente, lo dimostro
dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d : incontro di tutti i
movi- menti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato
che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro, prendo insieme la
sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e ne conchiudo che è oro,
bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in cui tutte le linee della
vista, dell’udito e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi
dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sa-
rebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò non sarebbe
sempre intimamente presente a sè stesso e così non potrebbe anche
riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni. Eppure in ciò
consiste proprio l’essenza dello spirito. Posto dunque che lo spirito
consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da questi
principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose
riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di
tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora
aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la
verità della religione, della provvidenza divina, dell im- mortalità
della nostra anima e la possibilità di molti su- blimi misteri (come
quello della giustizia divina, della predestinazione e della presenza nel
sacramento). Ed io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo
più chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche
benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano
l’ateismo oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.
(Lettera al duca ili Hannover, 1671, f!. I, 52-53). Da questo
contatto fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trao le
sue prime conclusioni verso la fun- zione della spiritualità nel mondo
fisico, e 1 importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento
corporeo e materiale. Sono capace di dimostrare dalla natura del
movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non
può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga lo
spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sè
stesso, che nessuna azione su sè stesso può essere movimento, che
l'azione ilei corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito
non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è
indi- visibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro con-
corrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le
impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un
piccolo mondo concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee
così come il centro con- siste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte
del centro, nonostante che il centro sia indivisibile. Così può
essere spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.
(Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il). La
conservazione della forza. — Queste sono le teorie fisiche del giovane
Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che egli abbandoni il suo concetto
del movimento come essenza dei corpi, e lo sostituisca con quello di
forza. Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza
della quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movi-
mento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da un altro, sì
ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre costante: intendendo
per quantità di movimento il prodotto della massa per la velocità.
Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane
costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza
viva 0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa
per il quadrato della velocità. Quale sia la portata di
questa scoperta nel campo fisico, non è il caso qui di notare. Per
intendere l'uso che Leibniz ne farà in questioni filosofiche e
metafisiche bisogna osservare che I azione motrice non rappresenta più
come la quantità di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un
luogo ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato ef-
fetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza.
Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama
energia. In generale la forza assoluta deve essere stimata
per 1 effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto
violento ciò che consuma la forza dell'agente, come, per esempio,
imprimere una certa velocità ad un corpo dato, elevare un corpo
determinato ad ima determinata altezza, etc. E si può giudicare
comodamente la forza di un corpo pesante, attraverso il prodotto della
massa o della pesan- tezza per 1 altezza alla quale il corpo potrebbe
salire in virtù del suo movimento.... Quando un corpo pesante ha
progredito discendendo liberamente, ed ha acquistato im- peto o forza'
viva , le altezze a cui questo corpo potrebbe allora arrivare non sono
affatto proporzionali alle velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è
per questo che nel caso della forza viva le forze non sono affatto come
le quantità di movimento, o come i prodotti delle masse per le
velocità.... Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è
la forza viva assoluta - quella determinata dall'effetto violento
che può produrre - che si conserva, e non già la quantità di movimento.
Poiché se questa forza viva potesse mai aumentare, si avrebbe un effetto
più potente che la causa, oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico,
cioè mi movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e
qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la forza potesse dimi-
nuire, essa perirebbe alla line completamente perchè, non potendo mai
aumentare, e potendo però diminuire, an- drebbe via via decadendo : il
che è senza dubbio contrario all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo
conferma.... Adesso mi piace di guardare la questione da un
altro punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di
qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento, cioè la
conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la regola generale che io
stabilisco. Qualunque cambiamento possa accadere tra corpi concorrenti,
qualunque sia il loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi
concor- renti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione
motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, v i deve essere
durante questa ora tanta azione motrice nel- T universo o in dati corpi
che agiscono fra di loro in un sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante
un'altra ora qualsiasi. Per comprendere questa regola,
bisogna spiegare la va- lutazione deh' azione motrice, tutta diversa da
quella della quantità di movimento, intesa la quantità di movimento
secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione motrice
possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 ef- fetto formale del
movimento. Tale effetto formale o essen- ziale al movimento consiste in
ciò che è cambiato dal mo- vimento, cioè nella quantità della massa
trasportata, e nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa
massa è trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento, o
il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo era lì, ora è qui:
il corpo è tanto grande e la distanza è tanta.... Bisogna ben
distinguere quello che io chiamo 1 effetto formale o essenziale al
movimento, da ciò che ho chiamato più sopra l' effetto violento. Poiché 1
effetto violento con- suma la forza e si esercita su qualche cosa di
fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in
sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva: poiché la
medesima traslazione della medesima massa si deve sempre continuare, se
nulla dal di fuori non F im- pedisce. È questa la ragione per cui le
forze assolute sono come gli effetti violenti che le consumano, ma non
già come gli effetti formali. Ora sarà più facile d'
intendere che cosa sia F azione mo- trice: bisogna diuique stimarla non
solo per l’effetto for- male che essa produce, ma anche per il vigore e
la velocità con la quale essa lo produce. Si vogliono far
trasportare 100 libbre alla distanza di un miglio; questo è
l’effetto formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora,
un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia di quella del
secondo, essendo doppiamente rapida, su ili un medesimo effetto....
Questa definizione dell azione motrice si giustifica ab- bastanza a
priori, perchè è chiaro che in un' azione pura- mente formale presa in sè
stessa, come è qui quella di un corpo in movimento considerato a sè, vi
sono due punti da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato,
e la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che colui che
produce il medesimo effetto formale in minor tempo, agisce di più.
(Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21).
La forza come attività. — La forza, l’energia, è dunque sostituita
al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva trasla- zione dei corpi HaTun
luogo all’altro, Leibniz sposta il centro della attenzione su ciò che
della traslazione è la causa, su ciò che contiene già in sè - per così
dire - il movimento allo stato potenziale, e lo produce. Il movimento
perde così realtà a favore della forza. La forza viene considerata come
assoluta e il movimento come relativo. Bisogna sapore
anzitutto che la forza è qualche cosa di assolutamente reale, anche nelle
sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche
cosa dell’ente di ragione, e non sono veri e reali per sè stessi,
ma solo in quanto attributi divini involventi 1* immensità, l’ eternità,
l'azione o la forza delle sostanze create. Ise con- segue che non esiste
un vuoto nello spazio nè nel tempo, che il movimento separato dalla
forza, cioè quando non si considerino in esso se non le caratteristiche
geometriche, cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è
altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movi- mento, rispetto ai
fenomeni, consiste in una semplice rela- zione-, il che fu anche
riconosciuto da Cartesio, quando definì il movimento come una traslazione
dalle vicinanze di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel
trarne le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le
regole del movimento come se il movimento fosse qualche cosa di reale e
assoluto. Bisogna dunque ritenere che, quando più corpi qualsiasi sono in
movimento, non è pos- sibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in
quali di essi sia un determinato movimento assoluto oppure la
quiete; ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in
quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori. (Specimen
Dynamicum, parte 11, M. VI, 247). 1 1 movimento è relativo: la
forza sola è assoluta. E il concetto di forza ha, molto più che quello di
movimento, una chiara impronta di attività. Pare che in esso il conatus
degli scritti giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua
realiz- zazione. Abbiamo altrove avvertito che negli esseri
corporei vi è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima
del- l’estensione : la forza della natura, riposta ovunque dal-
l’autore supremo, la quale non consiste soltanto in una semplice facoltà,
come si contentavano di dire gli scola- stici, ma anche in un conatus o
sforzo, il quale avrà il suo effetto pieno se non sia impedito da un
conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri sensi;
e, a mio parere, può essere dimostrato per via ra- zionale ovunque nella
materia, anche là dove non è evi- dente ai sensi. Che se questa forza non
si deve attribuire a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia
im- messa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1' intima
natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze, e
l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non indica altro
che la continuazione o diffusione di una so- stanza già data, la quale
tenda e si opponga, cioè resista. Nè importa che ciascuna azione corporea
derivi dal mo- vimento, e il movimento non derivi se non da mi
altro movimento esistente già da prima in quel corpo o im-
pressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il tempo) non
esiste mai, a considerare la cosa rigorosamen- te; giacché non esiste mai
tutto, non avendo parti coe- sistenti. E nulla vi è in esso di reale, se
non quel quid istantaneo che consiste nella forza tendente al
mutamento. A ciò dimque si riduce tutto ciò che è nella natura cor-
porea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al di fuori
deH’estensione. (Speri intra Jji/namicum, M. VI, 235).
11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva clic
supera, la materialità ed ha carattere spirituale. Tò Su o
ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva e attiva. La forza
passiva costituisce propriamente la ma- teria o massa, quella attiva la
entelechia (5) o forma. La forza passiva è la resistenza stessà^per la
quale il corpo resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al
mo- li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il
termine usato da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata.
Leibniz lo riprende per definire l’aspetto attivo della sostanza e della
monade. Questo termine 6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili
monade. C’fr. Monadologia, §§ 18, 48. vimento. e per la quale
avviene che un altro corpo non possa subentrare al suo posto senza che
esso ceda: d altra parte, esso non cede se non ritardando alquanto il
mo- vimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseve- rare
nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da non scostarsene
spontaneamente, ma anche da resistere a ciò che tende a mutarlo. Così vi
sono due resistenze o masse: la prima, quella che chiamano antitypia o
impene- trabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia
naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del suo epistolario
riconobbe dal fatto che per essa i corpi non accolgono un nuovo movimento
se non per forza, e perciò resistono al corpo che li preme e ne
indeboliscono la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo, oltre all'esten-
sione, non vi fosse tò Su jo gtxó , cioè il principio delle leggi del
movimento, per il quale avviene che la quantità delle forze non può
essere aumentata, e che un corpo non può essere spinto da un altro corpo
se non diminuendo la forza di quello/ La forza attiva, che si
suole anche dire senz altro forza, non è da concepirsi come la semplice
potenza volgare della scuola, cioè come ima recettività di azione, ma
implica un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché, se non
vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propria- mente consiste
l'entelechia, mal compresa dalla scuola: una tale potenza infatti
comprende 1 atto, nè permane una semplice facoltà, benché non sempre
proceda direttamente all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone
un im- pedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice,
primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La forza attiva
primitiva, che vien chiamata da Aristotele la prima entelechia
(è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio comune forma della sostanza,
è il secondo principio na- turale che, insieme con la materia o forza
passiva, costi- tuisce la sostanza corporea; la quale è in sè un
unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come per
esempio vi è grande differenza tra un animale e un gregge di animali. E
perciò questa entelechia è o un'anima, o qualche cosa di analogo
all'anima, e sempre attua na- turalmente qualche corpo organico, il
quale, quando fosse preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o
allontana- tane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un ag-
gregato di molti, insomma un artificio della natura.... La forza
derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus, cioè conatus, o la
tendenza, per così dire, ad un qualche movimento determinato, attraverso
il quale la forza pri- mitiva o principio dell'azione viene modificato.
Quanto a questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la
medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia di- stribuita in piìi
corpi, rimane sempre nella medesima quantità complessiva, e differisce
dal movimento stesso, la cui quantità non si conserva..,. A
stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte ragioni, e
principalmente l'esperienza stessa, la quale mo- stra che nella materia
vi sono movimenti i quali devono bensì essere attribuiti originariamente
alla causa univer- sale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e
speci- ficamente devono essere spiegati attraverso la forza posta
da Dio nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione ha dato ai corpi
una legge di aziono, non è altro se non dire che ha dato ad essi qualche
cosa in virtù di cui quella legge sia osservata; altrimenti dovrebbe
sempre egli stesso procurare continuamente per via straordinaria
l'osservanza di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa
che ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato ad
essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che la forza
derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale, perchè sono soggetti a
mutamento. E ogni modo consiste in qualche modificazione di alcunché di
pexsistente, o me- glio di assoluto. Come la figura è in certo modo
una limitazione o mo- dificazione della forza passiva o massa estesa,
così la forza derivativa e l'azione motrice è in certo modo una
modifi- cazione non già di qualche cosa di puramente passivo
(altrimenti la modificazione o limite conterrebbe più realtà di ciò
stesso cho è limitato), ma di qualche cosa di attivo, cioè dell'
entelechia primitiva. Onde la forza derivativa e accidentale o mutevole
sarà una qualche modificazione della vìrtus primitiva essenziale che
perdura in qualsiasi sostanza corporea. Perciò i cartesiani, non
riconoscendo alcun prin- cipio attivo sostanziale modificabile nel corpo,
furono co- stretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a
trasferire l'azione nel solo Dio: un Deus ex machina, principio
tut- t' altro che filosofico. ( Frammento del 1702, >1.
VI, 100-103). Valore metafisico della forza. Questa entelechia,
que- sta forza di qui è formata la materia, che ne costituisce anzi
la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo all'anima. La
materia ha essenzialmente in sè il principio del mo- vimento, ma secondo
me ciò non si deve intendere se non nel senso che vi sono delle anime nella
materia, le quali sono indivisibili e indistruttibili.
(Lettera al Burnett, 1704, G. Ili, 200). E questo principio
delTanimazione della materia che spinge Leibniz ad una considerazione del
mondo corporeo diversa da quella puramente meccanica: che gli fa vedere
in esso, attra- verso il principio spirituale, un elemento finalistico e,
attra- verso questo, la mano di Dio. Devo dichiarare
inizialmente che a mio parere tutto avviene meccanicamente nella natura e
che, per rendere una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno
par- ticolare (come per esempio della pesantezza o della ela-
sticità), bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi
stessi della meccanica e le leggi del movimento sorgono a mio parere da
alcunché di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che dalla
geometria e che non si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo
spirito lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella na-
tura, oltre alla nozione di estensione, convenga impiegare quella di
forza, che rende la materia capace di agire e di resistere. E per forza o
potenza non intendo il potere o la semplice facoltà; che non è se non una
possibilità pros- sima di agire e che, essendo come morta, non
produce neppur mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori Ma
intendo qualche cosa di mezzo fra il poterete l’azione che implica imo
sforzo, un atto, un’entelechia, poiché la forza passa per sua virtù
all" azione finché nulla ne la impedisce. Questa è la ragione per
cui io la considero come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo
essa il principio dell azione che della sostanza è il carattere
essenziale(^l) Così io vedo che la causa efficiente delle azioni
fisiche deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto
lontano da coloro che non riconoscono nella natura se non ciò che è
materiale o esteso, e che perciò si rendono sospetti con qualche ragione
presso le persone pie. Ri- tengo pure che il concetto del bene o della
causa finale, I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si
possa anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni
naturali; poiché l'autore della natura agisce secondo il principio dell
ordine e della perfezione, con una saggezza alla quale nulla si può
aggiungere: e ho mostrato altrove, a proposito della legge generale
dell" irraggiamento della luce, come il principio della causa finale
basti spesso a scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia
trovata la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi.
Tì) (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee»,
primo abbozzo, 1(395, G. IV, 472). La vera scienza tìsica deve
essere tratta dalle sorgenti ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l'
ultima ragione delle cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle
scienze, così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi
delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità della filosofia,
tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi finora sono riusciti a
dedurre, dalla considerazione delle proprietà divine, verità di qualche
importanza nella scienza. Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti
da questi esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione
in essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teo-
logia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si debbano
rifiutare le cause finali e la considerazione di uno spirito
sapientissimo che agisce secondo bontà (onde la bontà e la bellezza
diverrebbero arbitrarie o soltanto re- lative a noi e non attribuibili a
Dio: opinione quella, di Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece,
dalla conside- razione dello spirito, si possono dedurre principi
essenziali della fisica. (Principium quoddam generale, M. VI,
134). In questa organizzazione divina del mondo noi vediamo
la forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più atomi
corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e indivisibile, ma privo
di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali stanno al confine fra
materia e spirito, potendosi sviluppare in ambedue le direzioni ; e
racchiudono in sé una forza che permette loro una spontaneità di sviluppo
verso l’universale. In tale spontaneità e attività consiste il carattere
spirituale degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina
al- l’ anima e all’ io. Poiché è necessario che vi sieno
nella natura corporea delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe
affatto (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della
bontà e dell’ar- monia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per
Spinoza invece la bontà è un rapporto della creatura individuale alla
Sostanza assoluta, cioè Dio. Tri molteplicità uè aggregati,
bisogna che ciò che costituisce la sostanza corporea sia alcunché di
rispondente a ciò che si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e
tuttavia agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza
parti, non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,
sarà qualche cosa di sostanziale. (Syitcmc un uveali, primo abbozzo,
I 695, G. IV, 47ii). Costituzione e funzione della monade. - Si sono
stu- diati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della
filo- sofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e
il principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il primo,
derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo dal rigoroso
pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione di questi due
principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi hanno in comune è il
fatto di racchiudere ambedue in sè, allo stato potenziale, un infinita
possibilità di sviluppo: la sostanza individuale, punto di partenza di
una catena di causo e di effetti che racchiude nelle sue maglie il
passato e l’avvenire di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo
corporeo, forza capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo
carattere spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità.
Dei due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente lo-
gico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di uni-
versalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro manca: e
la monade sarà un principio spirituale e universale insieme, ma pur
concreto, tale che di esso consti effettiva- mente il mondo esistente. La
monade è « l’atomo della natura e 1 elemento delle cose ». Ad essa
vengono dati da Leibniz nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc.,
a seconda delle varie occasioni in cui ne parla. (1) Monade
ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato anche da
Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è però
sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo
di Epicuro, benché fornito di parti, è ima cosa unita nel suo interno,
mentre l'anima, quantunque senza parti, racchiude in sé un gran numero, o
meglio un numero infinito di varietà, per la molteplicità delle
rap- presentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappre-
sentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto. (
Osservazioni al dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 544). Le monadi
sono i principi primi c più semplici onde è costituito il mondo: non sono
materiali, ma da esse deriva tutta la materia: sono individuali,
molteplici (in quanto sono sempre punti di vista particolari presi
sull’universo, e i punti di vista possono essere infiniti); e d’altra
parte ciascuna rac- chiude in sè una visione del tutto.
L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivi- sibile e
indistruttibile per natura, poiché la sua nozione involve tutto ciò che
gli deve accadere; e ciò non si po- trebbe trovare nè nella figura nè nel
movimento, che im- plicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario -
come potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale,
sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono questi i soli veri
esseri compiuti, come avevano ricono- sciuto gli antichi e soprattutto
Platone, il quale ha ben chiaramente mostrato che la sola materia non è
in sè sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto, o
ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale, non può essere nè
fatto nè disfatto dall'avvicinamento o dall'allontanamento delle parti,
procedimento puramente esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire
preci- samente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre
quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a darci qualche
conoscenza delle altre per analogia. (Lotterà all' Arnauld, 1086,
G. 11, 76-7). Non so se sia possibile spiegare la costituzione
dell' anima meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero
ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità esprime tuttavia
la molteplicità, cioè i corpi, e che li esprime il meglio possibile
secondo il suo punto di vista o il suo rapporto ; 3.° che così essa è
espressiva dei fenomeni secondo le leggi metafisico-matematiche della
natura, cioè secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla
ra- gione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una
imitazione di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che
essa è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto
attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle distinte, essa e
limitata. Invece tutto è distinto nella so- stanza sovrana, dalla quale
tutto emana, e che è la causa ilcll esistenza e dell ordine e, in una
parola, l'ultima ragione delle cose. Dio contiene 1 universo
eminentemente, e l'anima o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo
specchio centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche
dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti questi mondi si
accordano e sono rappresentativi dei me- desimi fenomeni, secondo
rapporti differenti; e che questa è la maniera più perfetta di
moltiplicare gli esseri quanto è jiossibile, ed il meglio
possibile. (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72). Il
concetto di sostanza individuale è stato formulato da Leibniz por la
prima volta nel Dìscours de Méta physìque del 1686. La parola monade è
introdotta da lui nel 1696. Verso il mezzo della sua vita, cioè, egli è
giunto in possesso dell’ele- mento fondamentale onde per lui è costituito
il mondo. Tro- vato questo, il problema che gli si pone è di spiegare,
attra- verso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come
nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della
scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il pensiero
umano, e poi, attraverso la varia combinazione di essi, formare di nuovo
ogni possibile concetto, così ora un’ in- dagine analitica nel campo
logico, fisico, metafisico, ha condotto alla nozione di monade come
sostanza semplice, costituente il mondo. Si tratta ora di mostrare
concretamente come il mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni
fenomeno di esso sia spiegabile attraverso le combinazioni, le
modificazioni, i diversi aspetti delle monadi. Inizio e fine
della monade. - Donde nasce la monade? Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la
sua origino? Noijl è possibile concepirla come derivata da ini
qualsiasi ente naturale: essere prodotta significa sempre in qualche
modo essere causala ; c, poiché essa comprende già in sé tutta la
serie infinita delle causo e degli effetti, non si può attribuirle una
causa al di fuori di sé stessa: qualsiasi sua causa sarebbe sempre
compresa nel suo interno. Analogamente, non è con- cepibile neH’ordine
naturale la fine della monade; implicando tale fine un interruzione nella
serie delle cause e degli effetti, che è invece continua e infinita.
L’origine e la fine delle monadi deve essere dunque ricercata fuori
deU’ordino causale dell' universo; o piuttosto si può dire che le monadi non
hanno ori- gine: sono nate insieme con l’universo stesso, sono
concreate ad esso; e il creatore di esse è il medesimo creatore
deH'uni- verso: Dio. Quanto all' inizio e alla fine di
queste forme, anime, o principi sostanziali, bisogna dire che esse non
possono avere origine se non dalla creazione, e non possono aver
fine se non da un annullamento compiuto espressamente dalla potenza
suprema di Dio.... Così queste forme non comin- ciano nè finiscono
naturalmente. E perchè non avrebbero esse il medesimo privi egio degli
atomi, i quali, secondo i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi?
Tale privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente una
sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indis- solubile. Dato ciò,
bisogna credere che queste sostanze sono state inizialmente create
insieme col mondo. (Syslème noiweau, primo abbozzo, 1605, G. IV,
474). Così (eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora
creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive
delle sostanze sono state create insieme col mondo e che sussistono in
eterno. (Syntènu nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479).
Individualità e universalità della monade. - Lo monadi hanno in se
stesse il doppio carattere di essere ciascuna un elemento costitutivo del
mondo, e insieme di implicare cia- scuna, in se, 1 assoluta totalità di
sviluppo del mondo stesso. 11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna
monade è, da un certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo
punto di vista : questo è il criterio che permette di conservare e
con- ciliare quelle due caratteristiche. Ciascuna monade mantiene
la sua individualità* e la sua distinzione dalle altre, in quanto implica
e rappresenta il medesimo tutto, ma da un diverso punto di vista. E i
punti di vista sono infiniti; così sono in- finite le monadi. L
individualità della monade si concilia in tal modo con la sua
universalità. Benché ciò possa parere paradossale, è impossibile a
noi di avere conoscenza degli individui e di trovare il mezzo per
determinare esattamente l'individualità di qualsiasi cosa.se non
prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze possono ripetersi;
le piti piccole differenze ci sono insen- sibili; il luogo e il tempo,
lungi dal determinare, hanno anzi bisogno di essere essi stessi
determinati dalle cose che contengono. Ciò che vi è di più notevole in
questo principio, è che Y individualità involve l'infinito; e sola-
mente colui che è capace di comprendere ciò, può aver conoscenza del
principio di individuazione di questa o di quella cosa: principio il
quale deriva dall" influenza retta- mente intesa di tutte le cose
dell' universo le une sulle altre. E vero che non sarebbe punto così, se
il mondo fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma in tal
caso non vi sarebbe pure alcuna differenza tra due in- dividui differenti
aventi la medesima figura e la medesima grandezza. [Nuovi
Saggi, 1701 s.gg., ILI, 3, § «>. Proprio Inaili versali tà della monade è ciò
che garantisce la sua individualità. Due atomi di ugual forma e
grandezza, con le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero
indistinguibili 1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere
indi- stinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere
due, implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:
e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ in- finito che
necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun altro punto di
vista. Due monadi perfettamente identiche in tutto il complesso dei
rapporti implicati, non sono concepi- bili: sarebbero una sola e medesima
monade. È questo il prin- cipio che Leibniz chiama della identità degli
indiscernibili. Per esso ogni monade ha garantita la sua individualità e
inconfon- dibilità fra tutte le altre. K eli grande
importanza in tutta la filosofia e anche nella teologia il principio che
non esistono denominazioni puramente estrinseche; e questo a causa della
connessione delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e
solo locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che
interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così non è
possibile che vi siano due atomi simili per forma e uguali per grandezza
: per esempio due cubi uguali. Queste sono nozioni matematiche, cioè
astratte, non reali. Tutto ciò che è differente deve distinguersi per
qualche cosa; e la sola posizione non basta a differenziare le cose
reali. Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia pura-
mente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi siano atomi,
altrimenti vi sarebbero due cose che non dif- ferirebbero se non
dall’esterno. In secondo luogo, se la sola posizione presa per sè non
costituisce un mutamento, ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia
pura- mente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la
quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono se non
relazioni che risultano da altre cose che costi- tuiscono per sè stesse
il mutamento. Così, essere in un determinato luogo, astrattamente
parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente
bisogna che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel
luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza implica anche
un modo di esprimere in sè la cosa distante, di agire su di essa, e di
essere da essa affetto. Ed effet- tivamente la posizione implica un grado
di espressione.... Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal
principio fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;
principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene feci cenno: - j’
en ay esté frappe - mi scrisse. (Frammento, C. 8-10).
Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel carat- terizzare la
struttura della monade. Essa contiene in sè tutto il proprio sviluppo
futuro, insieme con lo sviluppo del mondo. Ma quello che determina la sua
particolarità e il suo valore, è di contenerlo non esplicito ed esteso
nel tempo e nello spazio, ma implicito, in modo pregnante, allo stato
potenziale. Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade,
attualmente sviluppato, tutto il suo svolgimento completo,
perderemmo, per così dire, il vantaggio essenziale della monade:
avremmo di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e
inaf- ferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel
rac- cogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di
con- tenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito sarebbe
Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione. Ora, come
si svolge e quale aspetto assume concretamente, nella monade, tale
implicazione della totalità ? Assume l’aspetto di forza o appetito da un
lato, di rappresentazione dall'altro. Ciascuna monade ha una
rappresentazione di tutti gli stati futuri che essa contiene in sè, e
contemporaneamente ha un impulso, una tendenza che la spinge a passare a
questi futuri, dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge,
nel- I - individuo, il passaggio all'universale. (1) Antonio
Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola cartesiana e
giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corri- spondenza
col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo
stato di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare di
luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro cambiano nel modo
piìi semplice e più uniforme che il loro stato permetta. Come mai allora
(mi si domanderà) c'è tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta
va- rietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo (così
come lo si i mm agina, benché veramente non esista in natura), quantunque
sia composto di parti, non ha nulla che determini varietà nel suo
tendere, poiché si sup- pone che queste parti non mutino i loro rapporti
reciproci ; mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una
ten- denza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti dei
quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a seconda di ciò che
esso contiene; e questi pensieri si tro- vano tutti insieme nell'anima,
in virtù del suo rapporto essenziale con tutte le altre cose del mondo. E
anzi, è fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impos-
sibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o parte dell'
universo deve rappresentare tutte le altre; Sic- ilie 1 anima, quanto
alla varietà delle sue modificazioni, non deve paragonarsi all'atomo
materiale, ma piuttosto all universo, che essa rapprasenta dal suo punto
di vista, e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta
in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione con- fusa e
imperfetta dell' infinito). 11 sentimento del piacere, per esempio,
sembra semplice, ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare
troverebbe che esso implica tutto ciò che ci circonda e
conseguente- mente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la
ragione del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima
ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che essa rappresenta.
Infatti i rapporti meccanici che sono sviluppati nei corpi, sono riuniti
e, per cosi dire, con- centrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi
in esse 0. — Leibniz, La monadologia. la loro origine. È vero che non tutte le
entelechie sono, come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non
tutte sono fatte per essere membri di una società o di uno stato di
cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini del- l'universo. Sono
mondi in compendio, a modo loro: sem- plicità feconde ; unità di sostanze
; ma virtualmente infinite, por la molteplicità delle loro modificazioni;
centri che esprimono una circonferenza infinita. (Polemica
col Bayle, 1712, G. 1 V, óti2). Non potrebbe Dio forse dare
inizialmente alla sostanza una natura o forza interna che le faccia
produrre ordi- natamente (come in un automa spirituale o formale,
ma libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò che le
accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che essa avrà ; e ciò
senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ? Tanto più che la natura della
sostanza richiede necessa- riamente e implica essenzialmente im progresso
o un cam- biamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di
agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa dell"
universo in modo esattissimo (benché più o meno di- stinto), la serie
delle rappresentazioni che l'anima produce in sé risponderà naturalmente
alla serie dei cambiamenti dell’universo stesso. (Syxtème nouveau,
lt>95, G. IV, IS.">). Una monade, in sé stessa e in un
istante, non può essere distinta da un'altra, se non per le sue qualità e
azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue per-
cezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che sta al di
fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il suo tendere da una
percezione all'altra) che sono i prin- cipi del cambiamento. Infatti la
semplicità della sostanza non impedisce la molteplicità delle
modificazioni che si devono trovare insieme in questa medesima sostanza
semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rap- porti
rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un centro o punto, per
quanto semplice, si trova un' infinità di angoli formati dalle linee che
ad esso concorrono. ( Principe « de la Mature et de la Grace,
1713-14, G. VI, 598). Tn tal modo si viene anche a configurare il
concetto di rap- presentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz
lo tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione
delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione. 11
pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima, non ha luogo nella
figura e nel movimento, i quali non possono mostrare il principio d ima azione
veramente in- terna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri
semplici, altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per
aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che so- stanze, ed esistono
piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piut- tosto moralmente o razionalmente
che fisicamente) per parlare con Democrito. E se non vi fosse
cambiamento nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle
com- poste, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella
realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle cose semplici
sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel pensiero, e si può dire che in
generale la percezione è V espressione della molteplicità nell' unità.
Ella non ha bi- sogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla
immate- rialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammi-
revole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste conside- razioni con la
mia ipotesi particolare, mi pare che l'una serva a dar luce alle
altre. (Lotterà ni Bayle, 1702, G. Ili, 69). (1) Piotro
Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il principale
rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo. Fondatore delle 1
Volt- velles de la republique des lettres, autore del Dictionnaire
historique et crilique, ebbe col Leibniz lunghe od interessantissime
polemiche su vari argomenti, quali l’ipotesi dell’armonia prestabilita, e
il problema della conciliazione fra fede o ragione. I pensieri sono
azioni; e le conoscenze o verità, in quanto sono in noi, anche quando non
vi si pensa, sono abitudini o disposizioni; e noi sappiamo molte cose
alle quali non pensiamo punto. ( Nuovi Saggi, 1701 segg. I,
I, § 26, G. V., 79). Mi meraviglio, Signore, che Ella insista nel
volgere le mie opinioni in modo completamente diverso da ciò che io
intendo. Ella pretende che, secondo me, noi non facciamo altro che
accorgerci di ciò che avviene dentro di noi. Non so d onde Ella abbia
ricavato quest’ idea; io ritengo in- vece che noi facciamo tutto ciò che
avviene in noi. (Lettera al Jaquelot, 1701, G. VI, 567).
II pensiero come unità della molteplicità e come azione: ecco due
concetti che saranno propri della filosofia idealistica postkantiana, cui
Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento del concetto di monade
come spirito. Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz
trae anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la nega-
zione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano, si era
opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto viene aU’anima
esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori, come segni che si imprimano
su di una tabula rasa. I Nuovi saggi sull’ intelletto umano di Leibniz
sono tutti destinati ad una presa di posizione di fronte alle tesi del
Locke. Di essi verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo
no- tare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi
soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è in- nato
allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ra- giono. È
innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima, intesa come monade,
cioè tutta la serie dei rapporti di causa e di effetto di cui essa ha
rappresentazione. Tutto ciò costi- tuisce il contenuto dell’anima, e non
viene ad essa dal di fuori ma fa parte di essa già fin dalla sua
creazione; tutto 1 uni- verso, insomma, è già insito a priori
nell’anima. Ma l’anima non ha nozione attuale di tutto questo suo
con- tenuto. Il campo della sua conoscenza è limitato e si estende
IV. - LA MONADE 85 solo a ciò che le è pili
immediatamente a contatto. Come si concilia questo con la sua
universalità e con l’innatismo? Leibniz ricorre a* questo proposito alle
piccole percezioni o per- cezioni insensibili, le quali non cessano di
influire sull’anima, pur senza giungere alla sua coscienza. Esse
appartengono bensì dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha
con- sapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto
innatismo di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia di ragione
sia di fatto, con la limitazione attuale delle nostre conoscenze. Le
piccole percezioni permettono a Leibniz di con- cepire la monade limitata
insieme e universale. La questione dell’origine delle nostre idee e
dei nostri principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna
esser molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di po- ter
dire che le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili vengono dal
nostro proprio intimo.... Non sono affatto fa- vorevole alla tabula rasa
di Aristotele; e vi è del giusto in ciò che Platone chiamava
reminiscenza. Vi è anzi di piii, giacché noi non abbiamo soltanto una
reminiscenza di tutti i nostri pensieri passati, ma anche un
presentimento di tutti i nostri pensieri futuri. È vero che ciò avviene
in modo confuso e senza distinguere questi pensieri, press’ a poco
come quando io odo il rumore del mare: odo allora il rumore di tutte le
onde particolari che compongono il rumore totale, pur senza distinguere
un'onda dall'altra. Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato :
cioè die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni
(sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più indipendente
di quanto non si pensi; benché resti pur vero che nulla avviene in essa
che non sia determinato, e che nulla è nelle creature, che non sia
continuamente creato da Dio. (Suri' Essay de l'entendement
liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i). Si tratta di
sapere se l' anima in se stessa sia compieta- mente vuota, come delle
tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo
l'opinione di Aristotele e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi
è tracciato derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure
se l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni e
dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle varie
occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e anche con la Scuola e
con tutti coloro che prendono in questo significato il passo di S. Paolo
(Rom. 2,15), dove egli dice che la legge di Dio è scritta nei
cuori.... Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel
nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così dire - a noi
stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità, la sostanza, la
durata, il cambiamento, l'azione, la per- fezione, il piacere e mille
altri oggetti delle nostre idee intellettuali? Ed essendo questi oggetti
immediati al no- stro intelletto e sempre presenti (benché non possano
esser sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei
nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci
sono innate con tutto ciò che ne dipende? Mi sono servito anche del
paragone di una pietra di marmo che abbia delle venature, anziché essere
tutta unita come le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano
tabula rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette
vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole è in un marmo,
quando questo marmo è completamente indifferente a ricevere questa figura
o qualche altra. Ma se vi fossero delle vene in quella pietra, elio
indicassero la figura di Ercole a preferenza di altre figure,
questa pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come
innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario un certo lavoro
per scoprile queste vene e polirle, elimi- nando ciò che impedisce loro
di apparire. E in questa guisa le idee e le verità ci sono innate come
inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non
come azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche
azione, spesso insensibile, ad esse rispon- dente.... D'altronde, vi sono
mille segni i quali mostrano che in ogni istante vi è in noi un' infinità
di ■p ercezio ni, prive però di appercezione (1) e di riflessione, cioè
cam- biamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo
perchè le impressioni sono troppo piccole o troppo nume- rose o troppo
unite fra di loro in modo da non aver nulla che lo distingua partitamente
; ma, unito ad altre, non mancano di produrre il loro effetto e di farsi
sentire per lo meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì
che noi non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di una
cascata, quando vi abbiamo abitato vicino per qualche tempo. Ciò non
significa che tali movimenti non conti- nuino a colpire i nostri organi,
e che non avvenga anche nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma
queste in- pressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive
dell'attrat- tiva della novità, non sono abbastanza forti per
attirare la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali sono
rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione richiede
memoria, e spesso, quando non siamo per così dire ammoniti ed avvertiti
di prestare attenzione a talune delle nostre percezioni presenti, le
lasciamo passare senza rifles- sione e senza neppur notarle; ma se
qualcuno ce ne av- verte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un
qual- siasi suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e ci
accorgiamo di averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava
di percezioni di cui non ci eravamo ac- corti immediatamente, derivando
in questo caso l'apper- cezione solo dall' avvertimento venuto dopo un
intervallo sia pur minimo.... Non si dorme mai tanto
profondamente da non aver qualche sensazione debole e confusa, e non si
sarebbe mai svegliati neppure dal più grande rumore del mondo, so
(1) Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir:
accorgersi) Cfr. Monadologia , 8 14. ss non si
avesse una qualche percezione del suo inizio, che è piccolo; cosi come,
neppure col più grande sforzo del mondo, non si romperebbe mai una corda
so essa non fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi
minori; per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non
appaia. (Nuovi .Saggi, 1701 segg., Prelazione, G. V, 42 47).
Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo nel
volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante notale come lo
sviluppo del concetto di monade influisca di- rettamente anche su tutti i
problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche
dello spi- rito. Universale, priva di estensione, eterna,
indistruttibile, dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come
la pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa è
spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia, il mondo
materiale sia il mondo spirituale la devono assu- mere come punto di
partenza. Da questa concezione della monade come elemento costitutivo del
mondo, e dall’ impegno di giustificare tutto attraverso essa, sorgono
nuovi sviluppi. Non si tratta più ora di studiare questo principio
sostanziale nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire
nel mondo. I problemi che si pongono a questo proposito si
possono ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la
suprema sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle
varie monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura
corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevol- mente
collegati. Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rap-
presentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria
realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe alla tendenza
e alla rappresentazione che caratterizzano la divinità. Per questo
riguardo la monade non è diversa da Dio. L) altro lato essa è una
creatimi di Dio; e il suo aspetto di creatura consiste proprio nel punto
di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale
rappresentazione ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile
che alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,
passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua
rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto
corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo che due
panorami di una città da punti di vista diversi si corrispondono senza
influenzarsi a vicenda. Questa comple- tezza della monade chiusa in sè
stessa, è espressa da Leibniz con due detti celebri: il primo, che le
monadi non hanno fi- nestre', il secondo, che basta all’esistenza e
universalità della monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo.
Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti
che egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la
natura propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una,
corri- sponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una
agisca immediatamente sull’ altra. È in primo luogo
chiarissimo che le sostanze create di- pendono da Dio, il quale le
conserva, anzi le produce con- tinuamente per ima specie di emanazione,
così come noi produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio
volge, per così dire, da tutte le parti e in tutte la maniere il
si- stema generale dei fenomeni ch’egli crede bene di produrre per
manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli aspetti del mondo in tutti
i modi possibili (poiché nessun rap- porto sfugge alla sua onniscienza);
ne consegue che il ri- sultato di ciascuna visione dell’universo da un
determinato punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo
in modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di rendere il
suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E poiché la visione
di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì le nostre percezioni : ma ciò
che ci inganna sono i nostri giudizi, che dipendono da noi.
Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ulti- me
affermazioni, che ciascima sostanza è come un mondo a parte,
indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’ infuori di Dio. Così tutti
i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci potrà mai accadere, non è che
una conseguenza del nostro essere. E poiché questi fenomeni conservano un
certo or- dine conforme alla nostra natura, o. per così dire, al
mondo elio è in noi - onde possiamo fare osservazioni utili a
regolare la nostra condotta e giustificate dall' avverarsi dei fenomeni
futuri, e possiamo spesso arguire senza errare 1’ avvenire dal passato .
basterebbe questo per dire che tali fenomeni sono veri, senza
preoccuparsi se essi siano fuori di noi e se anche gli altri li
percepiscano. Tuttavia è pur vero che le percezioni o espressioni di
tutte le so- stanze si rispondono vicendevolmente, in modo che cia-
scuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi che ha osservate, s’
incontra con l' altro che fa altrettanto ; così come, quando più persone
si sono accordate di trovarsi insieme in un determinato luogo e in un
determinato giorno, lo possono fare effettivamente se vogliono.
Ora. nonostante che tutti esprimano i medesimi fenomeni, non per
questo le loro espressioni sono perfettamente simili, ma basta che siano
proporzionali: così come vari spetta- tori credono di vedere la medesima
cosa, e infatti si in- tendono vicendevolmente, per quanto ciascuno veda
e parli secondo la misura della sua vista. Ora solamente Dio
(dal quale emanano continuamente tutti gli individui, e il quale vede l'universo
non solo come lo vedono essi, ma anche in modo completamente
diverso) è causa di tale corrispondenza dei loro fenomeni, e fa sì che
ciò che è specifico di uno sia comune a tutti; altrimenti non vi sarebbe
alcun legame. Si potrebbe dun- que dire — in certo modo e in senso
esatto, per quanto lontano dall'uso comune che una sostanza
particolare non agisce mai su di un'altra sostanza particolare nè è
affetta da essa, se si considera che ciò che accade a cia- scuna non è
che una conseguenza della sola sua idea o nozione completa ; poiché tale
idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime tutto l’universo.
Infatti, niente ci può toccare se non pensieri e percezioni, e
tutti i nostri pensieri e le nostre percezioni future non sono che
conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri e percezioni
precedenti; in modo che, se io fossi capace di considerare distintamente
tutto ciò che mi accade o mi appare in questo istante, vi potrei vedere
tutto ciò che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non ver-
rebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche tutto ciò che è
fuori di me fosse distrutto, purché non ri- manesse se non Dio e io
stesso. ( Discovra de métaphysique, 1686, § XIV). La
differenza fra la monade e Dio consisto dunque in ciò, die la monade è
rappresentazione del mondo da un solo punt o di vista; mentre Dio li
raccoglie e riassume tutti in sé. E <|uesto è anche il fondamento
dell’accordo delle monadi fra di loro, pur mantenendo ciascuna la sua
autonomia e in- dipendenza. Le percezioni confuse e l’azione
reciproca delle mo- nadi. - Ma anche per un altro lato si distingue la
monade da Dio: perla minor chiarezza e precisione della sua
rappresen- tazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il
concetto delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a
dimo- strare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e in-
distinta - di tutto il contenuto del mondo, queste fanno ravvisare in
tale incoscienza e confusione la causa della im- perfezione propria di
ciascuna monade. Nella rappresentazione delle monadi sono contenuti
bensì tutti i legami di causa ed effetto che costituiscono
l’universo: ma non come percezione chiara, distinta, perfettamente
svi- luppata. Man mano che ci si allontana dal punto di partenza
che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna monade, tale
percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva dalla
imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è il luogo, per
così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé gli infiniti punti di
vista, la rappresentazione dell’universo nella sua totalità è sempre
perfettamente chiara e distinta. Le percezioni dei nostri sensi, quand'
anche sono chiare, devono necessariamente contenere una qualche
sensazione confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo
sim- patizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri
: e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto, non è
possibile che la nostra anima possa por mente a tutto
particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le nostre sensazioni
confuse sono il risultato di una varietà di percezione assolutamente
infinita. Così il mormorio con- fuso che vien udito da chi si avvicini
alla riva del maro deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli
onde. Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto a
costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che ec- cella al di sopra
delle altre, e se esse producono press’ a poco impressioni di uguale
intensità o ugualmente capaci di determinare l'attenzione dell'anima,
l'anima non può ac- corgersene se non confusamente. (
Discoltra de mélaphysique, J 080 , § XXXHI). La differenziazione
nella chiarezza della percezione è dunque ciò che costituisce
l'individualità di ciascuna monade e ciò che differenzia le monadi una
dall’altra. E anche spiega, in certo qual modo, come si possa parlare -
impropriamente però - di azione, di una monade sull’altra.
Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che agiscano su
di noi, ciò che percepiamo in un certo modo, bisogna considerare il
fondamento di questa opinione e ciò che vi è in essa di vero.
L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non
nel- l’accrescimento del grado della sua espressione , unito alla
diminu- zione di quello dell'altra , in quanto Dio le obbliga ad
accordarsi. Ma senza entrare in una lunga discussione, basta
ora, per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, os-
servare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i
fenomeni che esprimiamo più perfettamente; e clie attribuiamo alle altre
sostanze ciò che ciascuna di esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza,
clie è di esten- sione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata
per il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal modo
dunque si può concepire che le sostanze si impe- discano e limitino
vicendevolmente; e quindi si può dire in questo senso che esse agiscono
l’ima sull'altra e sono obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una
all'altra. Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti
l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la virtù di
mia sostanza particolare è di bene esprimere la gloria di Dio; ed è
questo l'aspetto onde ossa è meno li- mitata. E qualsiasi cosa, quando
esercita la sua virtù o potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e
si svi- luppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un
cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effetti- vamente ogni
cambiamento le tocca tutte), credo che si possa due che quella che per
questo cambiamento passa immediatamente ad un maggior grado di perfezione
o ad una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e
agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfe- zione, mostra la
sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre che ogni azione della sostanza
che abbia una qualche per- cezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni
passione un qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere
che un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore in
seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire o nell’
esercitare la propria potenza e provando piacere. (Discovra de
méiuphysique, 1686, § XV). Le percezioni confuse come corpo. -
Percezione distinta è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione
confusa l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito
delle leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce
l’azione come il principio spirituale, e la passione (o passività)
come quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,
rappresentano nella monade il principio corporeo. Ho già detto che
da un punto di vista rigorosamente metafisico, considerando come azione
ciò che a va- iene alla sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo,
tutto ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poi-
ché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non è possibile che
una sostanza creata abbia influenza sul- l’altra. Ma, considerando come
azione un esercizio di per- fezione, e passione il contrario, non vi è
azione nelle vere sostanze se non quando la loro percezione (e io
attribuisco percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta;
e non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di modo che
nelle sostanze capaci di piacere e di dolore, ogni azione è un avviamento
al piacere, e ogni passione al dolore. ( Nuovi Saggi, 1701
segg., II, 21, § 72). Le ideo e verità innate non possono essere
cancellate; ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato
attuale) dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso
ancor pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di
illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" in- telletto
e darebbero calore alla volontà, se le percezioni confuse dei nostri
sensi non si impossessassero della no- stra attenzione. È questa la lotta
di cui parla la Sacra Scrittura e anche la filosofia antica e la
moderna. ( Nuovi Saggi, 1701 segg., 1, 2, § 20). Si ha
ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturba- zione o passione ciò
che consiste nei pensieri confusi, in cui vi è dell' involontario e dello
sconosciuto ; ed è ciò che nel linguaggio comune si attribuisce non
ingiustamente alla lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri
confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono la no-
stra imperfezione. (Polemica eoi Bayle, 1702, G. It , olio).
D’altro lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio con-
temporaneamente alla definizione delle percezioni confuse come provenienti
dalla natura corporea, riafferma che esse non hanno nulla di essenziale
che no distingua la natura da quella delle percezioni distinte; che è
come dire che la natura corporea non differisce essenzialmente dalla
natura spirituali'. Si concepiscono generalmente i pensieri
confusi come di un genere completamente diverso dai pensieri distinti, e
il nostro autore (1) giudica die lo spirito sia più unito al corpo
attraverso i pensieri confusi che attraverso quelli distinti. Ciò non è
senza fondamento, poiché i pensieri confusi indicano la nostra
imperfezione, le nostre pas- sioni, la nostra dipendenza dall' insieme
delle cose este- riori o dalla materia, mentre la perfezione, forza,
do- minio, libertà e azione dell’anima consistono principal- mente
nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men vero che, in fondo, i
pensieri confusi non sono altro che ima molteplicità di pensieri in sé
stessi uguali ai distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente
non eccita la nostra attenzione e non è distinguibile. Si può dire anzi
che nelle nostre sensazioni ve ne è com- presa insieme una quantità
veramente infinita. E in ciò consiste proprio la grande differenza fra i
pensieri confusi e quelli distinti.... . Così non
bisogna punto concepire le sensazioni contuse come qualche cosa di
primitivo e di inesplicabile ; altri- menti le si mettono press’ a poco a
pari con le antiche qua- lità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle
quali non si farebbe (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di
una Connotane de soy , nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in
polemica. (2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica
Becondocuiognisensa. zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che
si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si
volesse sostenere tale differenza essenziale; e ciò non sarei) he che
spostare la difficolta. E, quantunque sia vero che la loro
spiegazione completa superi le nostre forze a causa della troppo
grande molteplicità che esse implicano, non si cessa tuttavia di
penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che fanno scoprire in esse
i fondamenti dei pensieri distinti. La luce e i colori ci forniscono
esempi di ciò. Queste sensazioni confuse, non sono neppur esse
arbitrarie; e io non sono d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più
e seguita dal nostro autore, che non vi sia somiglianza o rapporto
fra le nostre sensazioni e le loro tracce corporee. Direi piuttosto che
le nostre sensazioni rappresentano ed espri- mono perfettamente tali
tracce. Taluno dirà forse che la sensazione del calore non assomiglia al
movimento: sì. senza dubbio, non assomiglia a un movimento
sensibile quale quello della ruota di una carrozza; ma assomiglia
all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli organi che ne sono
la causa; o piuttosto non è se non la loro rappresentazione. Così la
bianchezza non assomiglia a uno specchio sferico convesso, e tuttavia non
è che 1' insieme di una quantità di piccoli specchi convessi quali si vedono
nella schiuma, guardandola da vicino. E se noi potes- simo sempre
scoprire con la medesima facilità la causa delle nostre sensazioni,
troveremmo che essa si riduce sempre a qualche cosa del genere.
(Addition à l'Explication du systeme nouteau, dopo il 1700, G. IV,
674-0). Corporeità nella monade. Immortalità. - Si è giunti
dunque a concepire il corpo come un semplice aspetto dello spirito: o
meglio, corpo e spirito come due diversi aspetti della per
penetrare in noi. Tale concezione faceva di ogni sensazione alcunché di
primitivo, originario, irresolubile. Le varie sensazioni derivano invece
per Leibniz dal differente comportarsi di un’unica sostanza, e la
differenza fra confuso e distinte — cioè fra anima e corpo - è differenza
di grado, non es- senziale. 7. — I.kihniz, La
monadologia. sostanza semplice originaria, o monade; la quale non è
in sè corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto aumenti o
diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o come corpo. Le
percezioni possono infatti divenire da confuse di- stinte, e
viceversa. Oltre alle percezioni di cui l'anima ha ricordo, essa ne
ha una quantità infinita di confuse, di cui non viene in chiaro; e
attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e giunge a pensieri
distinti diversi dai precedenti : perchè i corpi che essa rappresenta
sono passati d’ un tratto a qual- che cosa che colpisce fortemente il
suo. Cosi l’ anima passa qualche volta dal bianco al nero o dal sì al no,
senza sa- pere come, o almeno in modo involontario. Poiché ciò che
i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono in essa, si
attribuisce al corpo. E non Insogna dunque meravigliarsi se un uomo che
mangia un dolce, e si trova punto da un qualche animale, passa
immediatamente, suo malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale
era già in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso
prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva già la sua anima,
ma insensibilmente. Tuttavia a poco a poco F insensibile passa al
sensibile, nell' anima come nel corpo ; e così l’anima si modifica da sè
anche contro la sua volontà; poiché essa è schiava, attraverso le
sensazioni e i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del
suo corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque per
quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte succedono i dolori
senza che l'anima ne sia sempre avver- tita o vi sia preparata; come per
esempio nel caso che l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore;
op- pure, se fosse per esempio una vespa, quando una di- strazione
ci impedisce di fare attenzione al ronzio della vespa che si avvicina.
Così non bisogna punto dire che non è avvenuto nulla di nuovo nella
sostanza di questa anima, per cui essa passi alla sensazione della
puntura: sono i presentimenti confusi o, per meglio dire, le dispo-
sizioni insensibili dell'anima che rappresentavano la dispo- sizione alla
puntura nel corpo (I). (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702,
G. IV, 5-10-7). Discende anche necessariamente da tutto ciò che
ogni mo- nade, e perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E,
poiché ogni monade è eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è
immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di morte, a ligoie,
nella natura, non si può parlare, ma solo di una com- posizione e
scomposizione di vari elementi semplici tra loro. Io ritengo non
solo che queste anime o entelechie ab- biano tutte con sè un qualche corpo
organico proporzio- nato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno
sempre e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non solo
l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è ana- logo all anima e all
animale, per non fare questioni di parole) permane, e la generazione e la
morte non possono essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura
ci mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per
aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il terrò, ne il
fuoco, ne tutte le altre violenze della natura, qualunque rovina portino
nel corpo di un animale, non pos- sono impedire all'anima di conservare
un qualche corpo organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e
l'artificio, è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e
orga- nizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve
sempre conservare traccia del suo autore. Questo mi fa pensare anche che
non vi sia alcuno spirito separato (I ) Quanto è qui affermato
contraddice solo in parte all' ipotesi dell’ar- monia prostabilita,
secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi sepa- rati, privi di
influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima sono qui intese
non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici nel- l'anima di
ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz a volte
attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere nettamente
corporeo. (Cfr. pp. 94 ss., 110 ss.). completamente dalla materia,
salvo l'essere primo e so- vrano (1). . (Lettera a Lady Mnsham,
1704, G. Ili, 340). In natura e secondo un rigore metafisico, non
vi è nè generazione nè morte, ma solo sviluppo e involuzione di un
medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un salto ec- cessivo, e la natura
uscirebbe troppo dal suo carattere di uniformità per un cambiamento
essenziale inesplicabile. L’esperienza conferma tali trasformazioni in
alcuni animali, nei quali la natura stessa ci ha mostrato un piccolo
saggio di ciò che essa nasconde altrove. L' osservazione anche
permette ai più accorti osservatori di notare che la gene- razione degli
animali non è altro che un accrescimento ag- giunto alla trasformazione;
il che consente di giungere alla conclusione che la morte non può essere
se non il con- trario; consistendo la differenza solamente nel fatto
che in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e
nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde, l'esperienza
mostra anche che un numero troppo grande di piccole percezioni poco
distinte, come quelle che ven- gono quando si è ricevuto un colpo alla
testa, ci stoi- disce: e che in un deliquio avviene che noi
ricordiamo - e dobbiamo ricordare — così poco di tali percezioni,
come se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola del- T
uniformità ci deve permettere di non giudicare diversa- mente anche della
morte degli animali, secondo l'ordine naturale; poiché la cosa è facile a
spiegarsi in tale ma- niera già conosciuta e sperimentata, ed è
inesplicabile in qualsiasi altra maniera. Non è intatti possibile
concepire come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione del
principio percettivo, nè la sua disgregazione. ( Lettera alla
regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, G. IH, alò). (1) Cioè Dio,
in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui tutto ò
realizzato. Gerarchia delle monadi. - La concezione delle
percezioni distinte e confuse come criteri di perfezione o
imperfezione, dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le
varie monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni
distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e propria
gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi staili della
vita vegetativa, i superiori le più alte vette della spiritualità. La
monade dell’uomo sta al culmine di questa ascesa; e ciò che le
attribuisce tale titolo di nobiltà sono le percezioni riflesse, onde essa
giunge alle idee astratte, all’auto- coscienza, alla memoria di sè che le
garantisce la conservazione dellasua personalità individuale. AI di sopra
di tutto poi, come percezione sommamente distinta e completa, e oggetto
pure di ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio.
Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una sostanza
vivente. Così non vi è solamente vita dapper- tutto, imita alle membra o
organi, ma questa vita si mo- stra in un' infinità di gradi nelle monadi,
dominando le une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha
organi così bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo e
distinzione nell' impressione che essi ricevono, e quindi nelle percezioni
che rappresentano tali impressioni (come per esempio quando, per la
conformazione degli umori degli occhi, i raggi della luce sono
concentrati e agiscono con maggior forza), allora ciò può giungere fino
al sentimento ( 1 ), che è una percezione accompagnata da memoria,
della quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire
occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato ani- male, così come
la sua monade è chiamata anima. E quando quest’anima s’ innalza fino alla
ragione, essa è qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli
spiriti, come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a
volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime (1)
Questo termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con la
parola « sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro
per- cezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa
ricordare, come nel caso di un sonno profondo senza sogni, o di uno
svenimento. Ma le percezioni divenute intera- mente confuse si devono
sviluppare di nuovo negli ani- mali.... Così è bene far distinzione fra
la percezione, che è lo stato interiore della monade che rappresenta le
cose esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza
riflessiva di quello stato interiore, e non è data a tutte le anime, nè
sempre alla medesima anima.... Vi è nelle percezioni degli animali
un legame che ha qualche somiglianza con la ragione, ma non è
fondato che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla cono- scenza
delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui è stato colpito, perchè
la memoria gli rappresenta il do- lore che questo bastone gli ha
prodotto. E gli uomini, in quanto empirici, cioè nei tre quarti delle
loro azioni, non agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo
che domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale espe-
rienza: ma solo l'astronomo lo prevede per via di ragione. E anche questa
previsione fallirà una volta, quando la causa del giorno, che non è
eterna, cesserà. Ma il vero ragionamento dipende dalle verità necessarie
o eterne,come quelle della logica, dei numeri, della geometria, che
costi- tuiscono la connessione indubitabile delle idee e le conse-
guenze immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze non si
osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che co- noscono queste verità
necessarie, sono propriamente quelli che si chiamano animali ragionevoli,
e le loro anime sono chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di
compiere atti riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io,
so- stanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità imma-
teriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle scienze o dello
conoscenze dimostrative. ( Principe* (Iti la nature et de la yruce,
1711-14-, I». VI, 599-bOl). Differenza fra gli spiriti e le altre
sostanze, anime o forme so- stanziali ; e dimostrazione che V immortalità
di cui si vuol sostenere l’esistenza, implica la memoria.
Supposto che i corpi che costituiscono unum per se, come l'uomo,
siano sostanze e abbiano fonile sostanziali, e che le bestie abbiano
anima, bisogna riconoscere elio tali anime e forme sostanziali non
possono perire com- pletamente, non meno che gli atomi o le ultimo
parti della materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giac-
ché nessuna sostanza perisce, per quanto possa mutarsi. Esse esprimono
tutto l’universo, benché più imperfetta- mente che gli spiriti. Ma la
principale differenza consiste nel fatto che esse non conoscono ciò che
sono, nè ciò che fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non
possono scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di
riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse non posseggono
alcuna qualità morale : ne deriva che, passando esse per mille
trasformazioni - press’a poco come un bruco si muta in farfalla - ciò
equivale per la morale o pratica ( 1 ) a dire che esse periscono. Si può
anzi dirlo, da un punto di vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono
per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò che essa è, e
potendo dire quella parola io che ha un così pro- fondo significato, non
solo permane e sussiste metafisica- mente anche piii delle altre, ma
rimane la medesima anche moralmente, e costituisce il medesimo
personaggio. Giac- ché è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la
rende passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità
ciie si richiede nella morale e nella religione non consiste nella sola
sussistenza perpetua che appartiene a tutte le sostanze; poiché, senza il
ricordo di ciò che si è stati, non (1) Morale, ha per Leibniz e
per tutti i filosofi del suo tempo anche il si- gnificato di pratico,
contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la nooessità morale
si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla neces- sità di
ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del contrario.
avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato qualsiasi debba
divenire ad un tratto re della Cina, ma a condizione di dimenticare ciò
ch'egli è stato, come se nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto
agli ef- fetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se egli
dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel me- desimo istante
al suo posto un re della Cina? Cosa che questo privato non ha alcuna
ragione di desiderare. Eccellenza degli spiriti, che Dio considera
a preferenza delle al- tre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio
che il mondo , ma le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che
Dio. Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni natu-
rali che Dio conserverà sempre non soltanto la nostra so- stanza, ma
anche la nostra persona, cioè il ricordo e la co- noscenza di ciò che noi
siamo (benché la conoscenza distinta ne sia a volte sospesa nel sonno e
negli svenimenti), bisogna unire la morale alla metafisica: cioè non
bisogna soltanto considerare Dio come il principio e la causa di tutte le
so- stanze e di tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte le
persone o sostanze intelligenti, e come il monarca asso- luto della più
perfetta città o repubblica, quale è quella dell' universo, composta di
tutti gli spiriti insieme; essendo Dio stesso insieme il più completo di
tutti gli spiriti e il massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti
gli spiriti sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio
la divinità. Ed essendo la natura, il fine, la virtù e la fun-
ziono delle sostanze nuli’ altro che di esprimere Dio e l’uni- verso
(come è già stato spiegato a sufficienza) non vi è ragione di dubitare
che le sostanze che lo esprimono con conoscenza di ciò che esse fanno, e
che sono capaci di conoscere grandi verità riguardo a Dio e all'
universo, non lo esprimano incomparabilmente meglio che quelle
nature che sono o brute e incapaci di conoscere le verità, o com-
pletamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze
intelligenti e quelle che non lo sono è così grande come quella che c’è
fra lo specchio e colui che vede. E poiché Dio stesso è il
piii grande e il più saggio degli spiriti, è facile comprendere che gli
esseri coi quali egli può, per così dire, entrare in conversazione e
perfino in società comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue
volontà in modo particolare e in guisa che essi possano conoscere ed
amare il loro benefattore, lo devono interes- sare infinitamente pi fi
che il resto delle cose, le quali non possono essere considerate se non
come strumenti degli spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone
sagge hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra
cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione che possa
avere un’anima, per altri riguardi contenta, è di vedersi amata dagli
altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio, questa differenza: chela sua gloria
e il nostro culto non pos- sono aggiungere nulla alla sua soddisfazione;
non essendo la conoscenza delle creatine se non una conseguenza
della sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o
dall’esseme in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e ragionevole
negli spiriti finiti, si trova eminentemente in lui. E come noi loderemmo
un re che preferisse conservare la vita di un uomo che quella del più
prezioso e più raro fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto
dubitare che il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi
non abbia il medesimo sentimento. Dio è il monarca delta più
perfetta repubblica composta di tutti gli spirili-, e il suo principale
intento è la felicità di questa città di THo. Effettivamente
gli spiriti sono le sostanze massimamente sus*cettibili di perfezione. E
le loro perfezioni hanno questo di particolare: che non si intralciano a
vicenda, anzi si aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere
i più perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale tende
sempre alla massima perfezione universale, avrà più cura degli spiriti e
darà ad essi non soltanto in generale ma anche a ciascuno in particolare,
il massimo di per- fezione permesso dall'armonia universale.
Si può anzi dire che Dio. in quanto è uno spirito, è l'origine
delle esistenze; altrimenti, se gli mancasse la vo- lontà per scegliere
il migliore, non vi sarebbe alcuna ra- gione affinchè esistesse un possibile
a preferenza di altri. Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli
stesso uno spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli
può avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a sua
immagine, appartengono quasi alla sua razza e sono come i figli della
casa, perchè essi soli possono servirlo li fieramente e agire
coscientemente ad imitazione della na- tura divina: un solo spùito vale
tutto un mondo, perchè non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si
comporta al modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni so-
stanza esprima tutto l'universo, pine le altre sostanze espri- mono
piuttosto il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono piuttosto Dio che il
mondo. E tale natura così nobile degli spiriti, ohe li avvicina alla
divinità quanto è possi- bile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga
da essi gloria infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o
piuttosto gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti
per glorificare Dio. Questa è la ragione per cui quella
qualità morale di Dio che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo
tocca, per così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È in
ciò ch'egli si umanizza, ch'egli soffre rapporti umani, eh' egli entra in
società con noi, come un principe con i suoi sudditi; e tale rapporto gli
è così caro, che lo stato felice e fiorente del suo impero, consistente
nella massima felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la
suprema delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la
perfezione è per gli esseri. E se il primo principio del- l'esistenza del
mondo fisico è il decreto di dargli il mas- simo di perfezione possibile,
il primo disegno del mondo morale o della città di Dio, clie è la parte
pili nobile del- l'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità
pos- sibile. Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non
abbia ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano
vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi con- servino sempre
la loro qualità morale, affinchè la sua città non perda alcuna persona,
così come il mondo non perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti
saranno sempre ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di
ri- compensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene
all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più perfetta,
nella quale nulla può essere negletto. Ingomma, essendo Dio
contemporaneamente il più giusto e il più benevolo dei monarchi, e non
richiedendo se non la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi
sudditi non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per
renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo amino.
Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammi-
revoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che Dio
prepara a coloro che lo amano. I filosofi antichi non hanno
abbastanza conosciuto que- ste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha
espresse di- vinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare,
che gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così il
suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle cose umane: egli
ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella perfetta repubblica degli
spiriti che merita il titolo di città di Dio, di cui ci ha scoperto le
leggi ammirevoli: egli solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale
esattezza abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoc-
cupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragio- nevoli che
gli sono infinitamente più care; che tutti i ca- pelli della nostra testa
sono contati; che cadranno il cielo e la terra, prima che sia cambiata la
parola di Dio e ciò che riguarda l'economia della nostra salvezza; che
Dio ha più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta la
macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò che può distruggere
il corpo ma non può nuocere all' anima, perchè solo Dio può rendere
l'anima febee od infebee; che le anime dei giusti sono nella sua mano al
coperto da tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di
- esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene
dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo pa- role oziose,
anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato: infine, che tutto deve riuscire
per il maggior bene dei buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che
nè i nostri sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla
che si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo
amano. ( JJiecours de mélaphysique, 1(180, §§ XXXIV- XXXVII).
Così termina il Discours de métaphysique : nel quale, dal principio
della differente chiarezza di percezione nelle varie monadi, si giunge ad
una gerarchia degli esseri, e alla defi- nizione deU’anima o della
personalità umana in sè e nei suoi rapporti con la natura divina. Tale
costruzione permette a Leibniz uno di quegli sguardi armonici e
complessivi su tutto ("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti
scientifici o filoso- fici, principi morali, dogmi religiosi coincidono in
una suprema armonia. La materia come aggregato. - Si è studiata
finora la natura del corpo come elemento essenziale della monade,
inse- parabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo rii conside-
rare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia può essere
vista anello altrimenti che come forza passiva, ap- partenente a ciascuna
delle sostanze fondamentali onde consta il mondo, o come ciò che vi è di
confuso e indistinto nella percezione della monade. Materia è, pili
concretamente, tutto ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari
aspetti, cade sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla
analizzare più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali,
di monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza ca-
ratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non dipende
dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non esistono unità che
siano puramente materiali), ma dal fatto stesso di non essere un’unità,
ma un gruppo di unità: un <kj - gregaio. Quanto alle forme
sostanziali o entelechie primitive..., io non le approvo se non quando le
si considera sostanze semplici, capaci di percezione e di appetito,
insomma anime, o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che
si potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che tutta
la natura sia piena di corpi organici viventi. Così non ritengo in verità
che una pietra sia essa stessa una sostanza corporea animata o dotata di
un principio di Ilo unità o di vita; ma ritengo che in essa
vi siano dapper- tutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte
di materia nella quale non si trovi un animale o una pianta o
qualche altro corpo organico vivente (quantunque di organico vivente noi
non conosciamo che le piante e gli animali). Così una massa di materia
non è propriamente ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma
un'ammasso e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali
so- stanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di
vermi. ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI,
550). Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola
sostanza di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi
sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi, e tutte le
monadi non sono spiriti. E queste monadi non compongono affatto un tutto
effettivamente unitario. Que- sto tutto, se esse lo componessero, non
sarebbe in nulla uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia
sia un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è un
ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come sarebbe un
esercito, un gregge; e in quanto la si consideri come componente una cosa
unica, è un fenomeno; feno- meno ben reale effettivamente, ma la cui
unità è determi- nata dal nostro concepirla. (Frammento del
1710, G. VI, 025). L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa
in que- sto modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza
consiste appunto nel fatto di essere una riunione di sostanze reali: in
sé stessa, essa è dunque qualche cosa di costruito, (li artificiale.
Quando viene osservata a fondo, si dissolve ne- cessariamente nei suoi
componenti. Leibniz esprime ciò col dire che essa ha natura fenomenica {
1). (1) Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da
Platone per indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una
apparenza. Sembra che a rigore i corpi non meritino affatto il nome
di sostanze; e questa pare esser già stata l’opinione di Platone, il
quale ha osservato che essi sono esseri tran- seunti, i quali non
sussistono mai più di un istante. Ma questo è un punto che richiede più
ampia discussione; e io ho altre ragioni importanti che mi conducono a
rifiu- tare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisi-
camente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il corpo non ha
affatto una vera unità; non è che un aggre- gato, che la scuola chiama
puro accidente ; un insieme, come mi gregge. La sua unità deriva dalla
nostra perfe- zione. È un essere di ragione o piuttosto di immaginazione,
un fenomeno. (Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI,
58(>). I corpi non possono essere sostanze propriamente
dette, poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti di
sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese e perciò non
sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono sostanze immateriali.
( Lettera a Lady Masham, 1705, G. 111.357). II continuo e il
discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi argomenti per dimostrare 1 irrealtà
della natura corporea in generale e la necessità di ricorrere, di là da
essa, a qualche cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista
anche nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La
monade in sè non è estesa; non è considerabile se non come un « punto
metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che da una molteplicità, una
ripetizione: in questo senso essa è puramente fenomenica, così come lo è
l’aggregato. La differenza consiste nel fatto che la materia come
aggregato è discreta , cioè com- posta di un ammasso di unità indivi si
biìn e Féstensione in- vece è continua, cioè divisibile all"
infinito. A maggior ragione essa non sarà nulla di reale, ma un semplice
ordine di rapporti spaziali, così come il tempo è un ordine di rapporti
successivi. Non vi sono se non gli atomi di sostanza, cioè le unità
reali e assolutamente prive di parti, che siano le origini
delle azioni e i primi principi assoluti della composizione delle
cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostan- ziali.
Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché di vitale e una
specie di percezione, e i punti matematici sono i loro punti di vista per
esprimere l'universo. Ma (piando le sostanze corporee sono ristrette
insieme, tutti i loro organi non costituiscono se non un punto fisico ri-
guardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non in
apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono che modalità; e
solo i punti metafisici o sostanziali (costi- tuiti dalle forme o anime)
sono esatti e reali. E senza di essi non vi sarebbe nulla di reale,
poiché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.
( Syslème nourea u, 1695, G. IV, 482-83). Benché la materia
consista in un ammasso di sostanze semplici innumerevoli, e la durata
delle creature, così come il movimento attuale, consista in un ammasso di
stati momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è af-
fatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movi- mento
matematico di momenti, nè la tensione di gradi estremi. Il fatto è che la
materia, lo scorrere delle cose, e insomma ciascun composto attuale, è
ima quantità discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento
mate- matico, la tensione e l’ accrescimento continuo nella velo-
cità e in altre qualità, e insomma tutto ciò la cui valu- tazione
appartiene al campo delle possibilità, è una quan- tità continuata e
indeterminata in sé stessa, o indifferente alle parti che vi si possono
prendere e che vi si prendono attualmente in natura. La massa dei corpi è
divisa attual- mente in modo determinato, e nulla non vi è
esattamente continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta che è
nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata di dividere
come si vuole. Nella materia e nelle realta attuali, il tutto è un risultato
di parti: ma nelle idee e nei possibili (che comprendono non solamente
questo imi- verso, ma anche qualsiasi altro che possa essere
concepito e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente),
il tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la no-
zione dell' intero è più semplice che quella delle frazioni, e la
precede.... Per meglio concepire la divisione attuale della
materia all' infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni
conti- nuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che Dio vi
ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto era possibile di
introdurvi finora, e che così nulla vi è rimasto di indeterminato, mentre
1' indeterminazione è l'es- senza della continuità. Questo apprende il
nostro spirito dalla perfezione divina; e l'esperienza lo conferma
attra- verso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che non vi
si possa osservare qualche varietà, guardandola bene. Un pezzo di pietra
è composto di determinati granuli, e al microscopio questi granuli
appaiono come rocce nelle quali vi sieno mille giochi di natura. Se la
forza della nostra vista aumentasse continuamente, troverebbe sempre
campo per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà attuali, e mai
una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di materia completamente
simili l ima all’altra, sia nel grande, sia nel piccolo.
(Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover, 1705, G. V]], 502-63).
Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spa- zialità (o
temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o materia. E della
materia Leibniz ha due concezioni diverse: da un lato quella che abbiamo
vista al Capitolo 111, come potenza passiva primitiva, come quel
substrato di resistenza, densità, « anti tip' a», al quale si applica la
forza, trasformandola in attività, entelechia; d’altro lato questo
concetto di aggre- gato, composizione, costruzione artificiale posteriore
alla mo- nade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità. Per
distinguere tali due modi diversi di considerare la materia, Leibniz usa
i due termini di materia prima e materia seconda. H.
Leibniz, La mvnailoloi/ia. Nei corpi io distinguo la sostanza corporea
dalla ma- teria, e distinguo la materia prima dalla seconda. La ma-
teria seconda c un aggregato o composto di varie sostanze corporee, come
un gregge è composto di vari animali. Ma ogni animale e ogni pianta, dal
canto suo, è una sostanza corporea, la quale ha in sè il principio dell'
unità che fa sì die sia veramente una sostanza e non un aggregato.
E questo principio di unità è ciò che si chiama anima, oppure qualche
cosa che ha analogia con l'anima. Ma oltre al principio dell’ unità, la
sostanza corporea ha la sua massa e la sua materia seconda, che è ancora
un aggre- gato di altre sostanze corporee più piccole, tino all'
infi- nito. Tuttavia la materia primitiva o presa in sè stessa, è
ciò che si concepisce nei corpi mettendo da parte tutti i principi dell'
unità, è cioè ciò che vi è in essa di passivo. Di qui derivano due qualità:
resistenti a et restitantia vel inertia. Cioè, un corpo non può essere
penetrato, e cede piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza
difficoltà e senza diminuire il movimento complessivo di quello che
lo spinge. Così si può dire che la materia, in sè stessa, involve, oltre
l'estensione, ima potenza passiva primitiva. Ma il principio dell’unità
contiene la potenza attiva pri- mitiva, o la forza primitiva, la quale
non si perde mai e persevera sempre in un ordine esatto delle sue
modi- ficazioni interne che rappresentano quelle esterne.
(Lettera al Burnett, 1699, U. Ili, 260-261). L’anima e il
corpo. Attraverso il concetto di aggregato, Leibniz spiega anche la
costituzione dei .corpi organici e degli animali. TI loro corpo, egli
dice, è un aggregato, con una mo- nade, per così dire, dominante e
ordinatrice, di natura su- jieriore. Tale monade è l’anima e costituisce
l’elemento per- manente di ciascun individuo. Definisco 1*
organismo, o macchina naturale, come una macchina, ciascuna parte della
quale sia una macchina a sua volta (1). Perciò la sottigliezza del suo
artificio va all ? infinito, poiché nulla è tanto piccolo da poter
essere trascurato; mentre le parti delle nostre macchine
artificiali non sono a loro volta macchine. Questa è la differenza
essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni non hanno ancora
considerato abbastanza. (Lettera a Lady Magliari), 1704, G. Ili,
356). lo distinguo: l.°) fentelechia primitiva o anima. 2.°)
La materia prima o potenza passiva primitiva. 3.°) La monade,
composta di queste due. 4.°) La massa, o materia seconda, o macchina
organica, a formare la quale concorrono innu- merevoli monadi
subordinate. 5.°) L'animale o sostanza corporea, la cui unità è determinata
dalla monade domi- nante nella macchina. (Lettera al Le
Volder, 1703, G. Il, 252). E attraverso i due concetti di materia
prima c seconda, si for- mano pine duo concetti differenti di anima. Il
primo, come principio attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua
pas- sività ; l’altro, come quella monade a carattere più
strettamente spirituale, che permane in ciascun individuo, mentre le
monadi formanti la massa del suo corpo variano e si trasformano.
La materia, senza le anime e forme o entelechie, non è che passiva,
e le anime senza materia non sarebbero che attive: poiché la sostanza
corporea completa veramente una, chiamata dalla scuola unum per se
(opposta all'essere per aggregazione), deve risultare del principio dell'
unità, che è attivo, e della massa che costituisce la molteplicità
e che sarebbe solamente passiva se essa non contenesse se non la materia
prima. Invece la materia seconda o massa, che costituisce il nostro
corpo, è tutta composta di parti che sono in sé sostanze complete quando
sono (1) Con la parola « macchina » Leibniz intende qui, come già
altrove, un organismo composito, cioè formato di parti
eterogenee. altri animali o
sostanze organiche animate o attuate a parte. Ma l'ammasso di queste
sostanze corporee organiz- zate che costituisce il nostro corpo, non è
imito alla nostra anima se non per quel rapporto che deriva dall'ordine
dei fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza particolare. £
tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima e il corpo
sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che limo è incompleto
senza l'altro, poiché in natura l'uno non è mai privo dell'altro.
( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3).
Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. - In qualunque
modo la si intenda, sia come materia prima o potenza passiva, sia come
materia seconda o aggregato, la natura corporea ha dunque qualche cosa di
irreale. Nel primo caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così
dire, alla monade; qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è
ancor nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che
sarà un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; poste-
riore, questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppa- mento che
rimanda però sempre alla monade come al suo elemento costitutivo
essenziale. D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla
monade. Essa le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della
sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il quale
necessariamente si deve passare per raggiungere la vera concretezza
deH’entelechia. Questa materia che, analizzata nel fondo della sua
costituzione, si dissolve e perde ogni realtà, puro ha ima parte
fondamentale nel mondo concreto, natu- rale e umano, come se lo
rappresenta Leibniz. La monade è immateriale, si è visto, eppure ritiene
un suo aspetto mate- riale; così non vi è anima senza corpo. Affermato
questo, Leibniz va più in là, dimenticando quasi le sue premesse
che fanno della materia qualche cosa solo in funzione dell’anima; e
cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale, ben distinte da
quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi alla concezione
cartesiana, che aveva sempre combattuto, del- l'anima e del corpo come
due sostanze separate. E, per giu- dtifìcare la distinzione, attribidsce
al corpo la legge meccanica sella causa efficiente, all'anima la legge
vitale della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là dove il
principio della ragion sufficiente, nelle verità di fatto, rimandava
diret- tamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente
all’anima e al corpo. Ciò è giustificabile anche, in parte,
con la natura della monade. Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo
sviluppo futuro dell’uni- verso allo stato di implicazione causale:
l’effetto, cioè, è già contenuto nelle cause che dovranno necessariamente
produrlo. E questa connessione causale puramente meccanica e
determi- nistica, ha carattere materiale. Per tale aspetto, la monade
è materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e neces-
sariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro lato però,
l’universalità si esplica nella monade come rappre- sentazione e appetito.
La totalità dei rapporti è contenuta in essa allo stato di implicazione
pregnante, cosciente e attiva. In questa percezione e appetito, che
Leibniz immagina tendente al bene e retta dalla causa, finale del v
migliore », egli fa con- sistere l’anima. Leibniz fa anche coincidere
questa nuova distin- zione di anima-corpo, con l’altra in cui si
concepisce il corpo come percezione confusa e l’anima come percezione
distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè
attraverso le qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la
figura, e il movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato
vitalmente, cioè attraverso le qualità intelligibili dell anima, quali la
percezione e l’appetito. E nei corpi animati noi vediamo esservi una
mirabile armonia tra vitalità e mec- canismo, se ciò che avviene nel
corpo meccanicamente viene rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che
viene per- cepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua
completa esecuzione. Ne deriva che, conosciute le qualità del
corpo, possiamo curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità
del- l’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte più
facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che avviene nel corpo;
a volte viceversa. E ogni volta che noi usiamo delle indicazioni dell’
anima per essere d aiuto (l) Cfr. sopra, p. 19.
al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo
questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda comunemente, perchè
il corpo non soltanto risponde al- 1 anima nei movimenti che vengono
chiamati volontari, ma anche in tutti gli altri; quantunque, per
l'abitudine che ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene
in- fluenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi
corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima. Infatti le
percezioni del corpo sono confuse, in modo che la corrispondenza non
appare così facilmente. E l'anima comanda al corpo in quanto abbia
percezioni distinte, gli obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma
pure, chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può
essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo e
viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che a volte anche nei
fatti naturali noi ricerchiamo la verità at- traverso le cause finali,
quando non si può giungere fa- cilmente ad essa attraverso le cause
efficienti. (Frammento, C. 12- 13). Separazione dei due
mondi. — Ora, formulata questa di- stinzione, Leibniz rinuncia, in certo
senso, a proseguire per quella via che, attraverso la concezione del
rapporto di causa ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo
aveva condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la
risoluzione dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro. Qui egli accentua
invece la distinzione: corpo e spirito diven- gono due mondi separati,
due entità parallele ma prive di rap- porti fra di loro. La loro
situazione viene ad essere analoga a quella di due monadi distinte: il
contenuto di ciascuna cor- i ispoude a quello dell altra, senza che
perciò si possa dire che I una influisce sull altra (1 ). Così, ciò che
avviene meccanica- monte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella
rappresentazione dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro
o per una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere
stabiliti attraverso un intervento della divinità. (1) Cfr.
sopra, p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro
se- condo leggi meccaniche, e che le anime producono in sè stesse
azioni interne. E non vediamo alcun modo di con- cepire l'azione
dell'anima sulla materia o della materia sull’ anima, nè alcunché di
analogo, poiché non è affatto spiegabile attraverso un qualsiasi
artificio che lo variazioni materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano
nascere una percezione; nè che dalla percezione possa derivare un
cam- biamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e
negli altri corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così, sia l'
inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine della natura
uniforme in sè stessa (per non parlare qui di altre considerazioni), mi
hanno portato alla conclusione die l'anima e il corpo seguano
perfettamente la loro legge, ciascuno la sua separatamente, senza che le
leggi corporee siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi
tro- vino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.
Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo del- f anima col
corpo? (Lettera a Lady Masharn, 1704, G. Ili, 340-11).
L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è quello di
questa corrispondenza del mondo corporeo con quello spirituale. Ma una
così netta distinzione dei due mondi non era necessaria alla dottrina
della monade. Leibniz fu forse indotto ad accentuarla, dal fatto di
trovarsi in pole- mica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di
aver trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro
medesimo problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi
occasionalistica e di applicare la propria, gli fece forse formulare il
problema negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto
non (1) Nicola Malebranche (1638-1713) autore della Recherete de
la viri té h il rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina
che spiegava la corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine
spirituale attraverso un inter- vento continuo di Dio. In occasione di
ciascun fatto avvenuto nel mondo corporeo, Dio, secondo questa dottrina,
suscita la corrispondente rappre- sentazione nello spirito, e viceversa.
Questo problema presuppone natural- mente una netta separazione fra
l'ordine corporeo e l’ordine spirituale: separazione di marca prettamente
cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi
di cui parliamo è quella famosa dell’ armonia prestabilita , di cui
riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni lasciatene dal
Leibniz. I mmaginate due orologi che si accordino
perfettamente. l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima consiste
nella mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda nella
cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro pro- pria esattezza.
La prima maniera è quella dell’ influenza.... La seconda maniera di
far sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi
sempre provvedere da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e
questa è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza.
Infine la terza mainerà sarà di fare da principio queste due
pendolo con tanta arte e giustezza, da potersi assi- emare il loro accordo
per il futuro. E questa è la via del- l’accordo prestabilito.
Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due orologi: il
loro accordo o simpatia avverrà pure in una di queste tre maniere. La
maniera dell' influenza è quella della filosofia volgare; ma poiché non
si possono concepire particelle materiali, nè specie o qualità
immateriali che possano passare dall’ima di queste sostanze nell’altra,
si è obbligati ad abbandonare questa opinione. La maniera dell
assistenza è quella del sistema delle cause occasionali: ma ritengo che
ciò significhi introdurre un Deus ex machina ili un fatto naturale e
ordinario, nel quale, secondo ragione, egli uon deve intervenire se non
nolla medesima maniera nella quale concorre a tutti gli altri fatti della
natura. Così non resta che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'ar-
monia prestabilita attraverso un artificio divino preven- tivo, il quale,
fin da principio, abbia formato queste so- stanze in un modo cosi
perfetto e regolato con tanta esattezza che, non seguendo se non le sue
proprie leggi ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si
accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una mutua
influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la mano, oltre il suo
concorso generale. (Tetterà del 1696, a. IV, 500-501).
Vi è ordine e connessione nei pensieri, come ve ne è nei movimenti;
poiché l’uno risponde perfettamente all'altro, quantunque la
determinazione nei movimenti sia bruta, e sia invece libera o con scelta
nell’ essere che pensa, il quale non è se non inclinato ma non costretto
dal bene e dal male (1). Infatti l’anima, rappresentando il corpo,
conserva le sue perfezioni; e, benché essa dipenda dal corpo (se ben si
guardi) nelle azioni involontarie, ne è indipendente e fa dipendere il
corpo da se stessa nelle altre. Ma questa dipendenza non è se non
metafisica, e consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando
l'altro, o più per 1’ uno che per l’ altro, a seconda delle
perfezioni originali di ciascun individuo (2) ; mentre la dipendenza
fisica consisterebbe in un’ influenza immediata che l’imo riceve-
rebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe. (Nuovi Saggi, 1701 segg.
II, 21, § 12). L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri il
dolore nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane non
dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin dall’ inizio alla
sua anima una costituzione tale da produrre attualmente tale doloro in
esso, e la rappresentazione o percezione che risponde al colpo del
bastone. Ma se (cosa impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la
natura del- l’anima e il corso naturale dello sue modificazioni,
mutasse il corso delle nature corporee in modo tale che il colpo
(1) Cfr. «opra, p. 27 ss. (2) Abbiamo già visto come in
ragione delle sue percezioni più distinte o più confuse, ciascuna monade
partecipi più dello spirito o del corpo, abbi» cioù maggiore o minore
perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss. non arrivasse, ramina sentirebbe
ciò che corrisponde a questo colpo, mentre il suo corpo non lo
riceverebbe af- fatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le
ragioni per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma
non comprendo affatto come mai l'anima del cane che prova piacere
mentre mangia con appetito, passi così subitamente al dolore senza che il
bastone ne sia la causa (come vor- rebbe la tesi scolastica), nè ne sia
causa Dio in particolare (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il
signor Bayle non comprende neppure come mai il bastone possa
influire sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miraco-
losa attraverso la quale Dio accorda continuamente l'anima ai corpi.
Invece io ho cercato di spiegare come tale ac- cordo avvenga
naturalmente, col supporre che ogni anima sia uno specchio vivente
rappresentante l' universo secondo il suo punto di vista, ed
eminentemente in rapporto col suo corpo. Così le cause che fanno agire il
bastone (cioè l’uomo posto dietro al cane, preparato a colpirlo
mentre esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine corporeo contri-
buisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche rappresentate fin
da principio nell'anima del cane in modo esatto sì, ma debole, per mezzo
di percezioni piccole e confuse e senza appercezione, cioè senza che il
cane se ne accorga; perchè anche il corpo del cane non ne è
influen- zato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine delle
nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente al colpo ben
assestato sul corpo del cane, analogamente le rappresentazioni di queste
disposizioni conducono nel- l'anima del cane alla rappresentazione del
colpo di ba- stono: rappresentazione la quale, essendo distinta e
forte (come non lo erano le rappresentazioni delle predisposi-
zioni. poiché le predisposizioni influenzavano solo debol- mente anche il
corpo del cane), il cane se ne accorge ben distintamente: ed è questo che
determina il suo do- lore. Così non si deve affatto immaginare che
l'anima del cane, in questo caso, passi dal piacere al dolore senza
alcuno sviluppo e senza alcuna ragione interna. (Osservazioni al
Dizionario del Bayle, 1702, G., IV, 531-32) - Nel corpo tutto
avviene meccanicamente secondo le leggi del movimento, e nell'anima tutto
avviene moralmente o secondo le apparenze del bene e del male: in modo
che, anche (piando si tratta dei nostri istinti o delle azioni in-
volontarie alle quali sembra partecipare solamente il corpo, vi è
nell'anima un appetito di bene o una fuga dal male che la spinge; benché
la nostra riflessione non possa ben districarne la confusione. Ma se
l'anima e il corpo seguono così ciascuno separatamente le sue proprie
leggi, come si incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca
al- l' anima, e che l'anima risenta del corpo? Per spiegare questo
mistero naturale bisogna ben ricorrere a Dio, così come quando si tratta
di dare la ragione primordiale del- l’ordine e dell'armonia nelle cose.
Ma questo ricorso non avviene che una volta per tutte, e non come se Dio
tur- basse le leggi dei corpi per farli corrispondere alle anime, e
viceversa. Egli ha invece fatto fin da principio i corpi in modo tale
che, seguendo le loro leggi e le tendenze na- turali dei movimenti, essi
verranno a fare ciò che l'anima chiederà quando ne verrà il momento; e
d'altra parte ha fatto le anime tali che. seguendo le tendenze naturali
del loro appetito, giungeranno anche sempre alle rappresenta- zioni
degli stati del corpo. Giacché, come il movimento conduce la materia di
figura in figura, così l’appetito con- duce l'anima di immagine in
immagine. E così l’anima è inizialmente dominante ed obbedita dal corpo
nella mi- sura in cui il suo appetito è accompagnato da percezioni
distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando essa vuole qualche cosa;
ma è soggetta al corpo, pure fin dal- 1’ inizio, in misura delle sue
percezioni confuse. Noi spe- rimentiamo infatti che tutte le cose tendono
al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1 appetito
che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo la sua maggiore o
minore perfezione. E non bisogna affatto meravigliarsi di quest’accordo
primordiale delle anime e dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati
secondo le in- tenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le
anime essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell uni-
verso, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna, essendo essi
perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso. È come se Dio avesse
variato 1 universo tante volte quanto sono le anime, o come se egli
avesse creato tanti universi in compendio, accordantisi nel fondo o
differenziati nel- l'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa
sem- plicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E si può
ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba essere perfettamente
disposta, essendo ciascuna ima par- ticolare espressione dell'universo e
come un universo con- centrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun
corpo, e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da tutti
gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco in poche parole
tutta la mia filosofia. (Lettera alla regina Sofia Carlotta di
Prussia, 1704, 0. 111,340-48). Tale ò l' ipotesi dell'armonia
prestabilita; la quale termina e corona il sistema di Leibniz, ma non si
può dire che aggiunga molto di essenziale alla dottrina della monade. TI
principio qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la
corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello di tutte, pur
senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai rapporti fra anima e
corpo, obbliga ad una distinzione e se- parazione fra l’ordine corporeo e
l’ordine spirituale; mentre proprio nel superamento di tale separazione e
nella sintesi dei due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico
del con- cetto di monade. Ma questa separazione è posteriore
idealmente a quel con- cetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far
agire la sua mo- nade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade
a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal inter-
preta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto ilei suo
pensiero è la struttura interna del concetto di monade : questa sintesi
di universale e individuale, di materia e spirito, ili attività e
passività, che è un punto di arrivo e un punto di partenza nella storia
della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che ima
sostanza semplice che entra nei composti; semplice, cioè senza parti.
2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che vi sono
composti; poiché il composto non è altro che un ammasso o aggrega tum di
semplici (1). •1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè
estensione, nè figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi
sono i veri atomi (3) della natura; in una parola gli elementi
delle cose. 4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione da
temere, e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una
sostanza semplice possa perire naturalmente. ó.° Per la medesima
ragione, non v'è alcun motivo per il quale una sostanza semplice possa
aver principio natu- ralmente; poiché essa non può essere formata per
com- posizione. (1) 1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici,
(la cui cleri vano per composizione tutte le altro cose, è una dello idee
fondamentali di Leibniz. Applicato al campo logico, questo concetto dà
luogo ai progetti di arte combinatoria, carattc- ristica, scienza
generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto di aggregato,
cfr. p. 100 s. (2) Si toglie così olla monade ogni carattere di
materialità. (3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le
particelle mate- riali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che
Leibniz combatteva. Così si può dire che le monadi non possono aver
principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non pos- sono aver
principio se non per creazione, ne fine se non per annullamento; mentre
ciò che è composto comin- cia o finisce per parti (1). 7»
Neppure c'è modo di spiegare come una mo- nade possa essere alterata o
cambiata nel suo interno da qualche altra creatura; poiché in essa non e
possibile trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi
possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito , ciò invece è
possibile nei composti, dove si danno cam- biamenti fra le parti. Le
monadi non hanno finestre pei le quali qualche cosa vi possa entrare o
uscire. Gli acci- denti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle
so- stanze. come facevano una volta le specie sensibili deg
scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non possono en- trare dall’
esterno in ima monade (2). 8° Tuttavia occorre che le monadi
abbiano qualche qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri.
E se le sostanze semplici non differissero affatto per le loro
qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cam- biamento nelle
cose, poiché ciò che è nel composto non può venne se non dagli
ingredienti semplici; e se le monadi fossero prive di qualità, sarebbero
indistinguibili una dal- l'altra. giacché esse non differiscono neppure
nella quan- tità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non
rice- verebbe mai, nel movimento, se non l'equivalente (lei mo-
vimento che aveva già avuto : e uno stato di cose sarebbe y
indiscernibile dall altro. deducono dall’ immaterialità delle
monadi la imposeibilUtà r ^ C,t (2) a N°elS monade,
soggetto eomprendentegt arnese può dire cl/e £ de™ da, di lucri,
se tutto quanto le avviene è già compreso m essa. Cfr. p. 89 ss.
"'O.o Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente da
ogni altra. Poiché non vi sono in natura due esseri che siano
perfettamente uguali, e nei quali non sia pos- sibile trovare una
differenza interna o fondata su di una denominazione intrinseca
(1). 10. 0 Considero inoltre come ammesso, che ogni essere
creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mu- tamento: e anzi
che questo mutamento sia continuo in ognuna. 11.0 Da quanto
abbiamo detto, consegue che i muta- menti naturali delle monadi derivano
da mi j)rinci]iio in- terno, dato che ima causa esteriore non potrebbe
influire sul loro interno (2). 12.° Ma occorre pure che,
oltre il principio del muta- mento, vi sia un dettaglio (3) di ciò che
muta-, il quale deter- mini, per così dire, la specificazione e la
varietà delle so- stanze semplici. v 13.° Tale dettaglio deve
implicare una molteplicità nel- l'unità o nel semplice. Infatti, poiché
ogni cambiamento naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e
qualche cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice vi
sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa non abbia
parti. 14.° Lo stato transitorio che implica e rappresenta
una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non (1) Nei
§3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In quale deve
fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,
riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori.
Questo principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso
punto di vista, secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul
principio dell’ iden- tità degli indiscernibili, efr. p. 78 ss.
(2) Il mutamento nolla monade consiste nello sviluppo c nella
realizza- zione di quanto è già implicito in essa. In questo sviluppo
essa manifesta la sua facoltà attiva o quella conoscitiva: percezione c
appetito. Cfr. p. 78, 80 ss., 89 ss. (3) Traduciamo cosi, non
trovando vocabolo migliore, la parola ilétail, che altri traduce con a
particolarità » o in modo affine. Essa vuole indicare uno sviluppo
completo, disteso e particolareggiato in tutti i suoi dettagli. è
altro che ciò che si chiama percezione (1), da distinguersi y dalla
appercezione o dalla coscienza, come si vedrà in se- guito. A cpiesto
proposito i cartesiani hanno gravemente errato, non avendo tenuto conto
delle percezioni di cui non ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a
ritenere che i soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero
affatto anime di bestie nè altre entelechie; ed a confondere, come
fa il volgo, un lungo stordimento con la morto propria- 1 2 3 4 mente
detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio scolastico delle
anime interamente separate, ed ha pure con- fermato gli spiriti mal
disposti nell'opinione della morta- lità dell'anima (3). *
15.° L’azione del principio interno che determina il mutamento o il
passaggio da ima percezione ad un altra, può chiamarsi appetizione ; è
vero che l’appetito non sem- pre può giungere completamente all’ intera
percezione cui tende; ma ne ottiene pur sempre qualche cosa, e
giunge a percezioni nuove (4). 16.° Noi stessi sperimentiamo
una molteplicità nella sostanza semplice, quando troviamo che il minimo
pensiero (1) La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto
dunque la sintesi dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare
l’unità e immaterialità della monade oon la varietà e mutevolezza del suo
contenuto. Percepire è cogliere una molteplicità e riferirla ad un unico
soggetto. 11 contenuto, diremmo noi. è molteplice, la forma ò una. Cosi è
nella monade; e ciò spiega conio la va- rietà e mutevolezza in essa venga
concepita da Leibniz in termini di perce- zione. Cfr. p. 82 s.
(2) « Accorgersi « traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione
(aptreeptiev) significa dunque l’accorgersi, cioè il percepire
coscientemente, contrapposto al percepire senza accorgersene, come nel
caso delle piccole percezioni. Cfr. p. 87. (3) Cartesio, che
considera ogni attività conoscitiva come razionale, quindi cosciente, non
può attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene nettamente
separata da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti sopra
elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione di
cui non ci si accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che
sia quindi attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di
con- tatto fra la materia e lo spirito. Cfr. pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss.
Vedi anche in seguito, §§ 19 ss. (4) L’appetito ò l’altra
attività della monade, secondo cui essa può pas- sare dall’uno al
molteplice. Cfr. p. 80 ss. di cui ci accorgiamo, implica una varietà
nell'oggetto. Così tutti coloro che riconoscono che l’ anima è una
sostanza semplice, devono riconoscere questa molteplicità nella mo-
nade; e il Bayle non avrebbe dovuto trovarvi difficoltà, come ha fatto
nel suo dizionario, all'articolo Borariua (1). 17. ° Peraltro
bisogna pur riconoscere che la percezione e ciò che ne dipende, è inesplicabile
mediante ragioni mec- caniche, cioè mediante ligure e movimenti (2). E
supposto che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare,
sentire, aver percezione, si potrà concepirla ingrandita, conservando le
medesime proporzioni, in modo che vi si possa entrare, come in un mulino.
E posto ciò, non si tro- verà, visitandola al! interno, se non pezzi
spingentisi vi- cendevolmente, ma nulla di che spiegare una
percezione. E dunque nella sostanza semplice e non nel composto o
nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi, non vi è se non
questo che si possa trovare nella sostanza semplice: percezioni e i loro
cambiamenti. E solo in ciò possono consistere tutte le azioni interne
delle sostanze semplici. 18. ° .Si potrebbe dare il nome di
entelechie a tutte le sostanze semplici o monadi create, poiché esse
hanno in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è
una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti delle loro azioni
interne, e, per così dire, automi incorporei. l‘J.° Se vogliamo
chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e appetiti nel senso generale
che ho spiegato or ora. tutte le sostanze semplici o monadi create
potrebbero essere chiamate anime; ma siccome il sentimento è
qualche ( 1) Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, il Bayle
discute P ipotesi leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo
proposito trova contradjt- toria la. tesi cho una sostanza semplice e
priva di parti sia soggetta a cam- biamento. (2) Ragioni
meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche della pura in viaria.
Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo
immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice
percezione, io acconsento a che il nome generale di monadi e entelechie
basti per le sostanze semplici che non hanno se non la pura perce-
zione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui percezione è più
distinta e accompagnata da memoria (1). 20. ° Infatti noi
sperimentiamo in noi stessi uno stato in cui non ci ricordiamo di nulla e
non abbiamo alcuna percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio
o quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni. In questo
stato, l'anima non differisce sensibilmente da ima semplice monade; ma
siccome questo stato non è dure- vole, e l’anima se ne Ubera, essa è
qualche cosa di più. 21. ° E non ne consegue punto che in tale
stato la sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi
possibile, per le ragioni suddette; poiché essa non può pe- rire. nè può
sussistere senza qualche affezione, che non è poi altro che la sua
perceziome. Ma quando vi è una grande moltitudine di piccole percezioni,
nelle quali non vi è nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando
si gira continuamente nello stesso senso per più volte di seguito
si è presi da una vertigine che può farci svenire e che non ci permette
di distinguere nulla. E la morte può de- terminare questo stato per un
certo tempo negh animali. 22. ° E, poiché ogni stato presente di
una sostanza sem- plice è naturalmente conseguenza del suo stato
precedente, sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire (2);
23. ° dunque, poiché, appena desti dallo stordimento, ci si accorge
delle proprie percezioni, bisogna pure che se (1) La percezione
pura e semplico, incosciente o priva di appercezione tasta a costituire
la monade; ma le monadi più complesse c perfette si di- stinguono appunto
per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza, di memoria eoe.
Cfr. §§ 24-30 e p. 101 ss. (2) Leibniz introduce qui incidentalmente
un suo principio fondamentale: il principio di causalità o di ragion
sufficiente. Ogni stalo della monade deriva da cause e produce effetti, c
se si segue tale connessione causale in tutto il suo sviluppo, si va all’
infinito e si comprende tutto l’universo pas- sato e avvenire. Cfr. p. 17
a., 35 ss. Vedi anche in seguito, § 32. ne siano avute immediatamente
prima, quantunque non ce ne siamo accorti ; poiché una percezione non può
venire in natura se non da un'altra percezione, come un mo- vimento
non può venire in natura se non da un movi- mento (1). 24 . °
Si vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di distinto e, per dir
così, in rilievo e di un più forte sapore nelle nostre percezioni,
saremmo sempre in uno stato di stordimento. E questo è lo stato delle
monadi pure e semplici (2). 25. ° Così noi vediamo che la
natura ha dato perce- zioni in rilievo agli animali, dalla cura che essa
si è presa di fornirli di organi che raccolgono più raggi di luce o
pili vibrazioni di aria per aumentarne l'efficacia con l’u- nione. E vi è
qualche cosa di simile nell'odorato, nel gusto e nel tatto, e forse in
una quantità di altri sensi che ci sono sconosciuti. E spiegherò fra poco
(3) come ciò che avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli
organi. 26. ° La memoria fornisce alle anime una specie di
concatenazioM che imita la ragione, ma che deve esserne distinta. Noi
vediamo che gli animali, quando hanno per- cezione di qualche cosa che li
colpisce e di cui hanno già avuto anteriormente una percezione simile, si
attendono, per la rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi
era unito in quella percezione precedente, e sono portati a sentimenti
simili a quelli che avevano provati allora. Per esempio, quando si mostra
il bastone ai cani, essi si ram- mentano del dolore che esso ha loro
causato, e abbaiano e fuggono. (1) Si riferisce qui al
principio di continuità, secondo il quale natura non facil saliti)). Cfr.
p. 52. (2) Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti,
i tre gradi della gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole
percezioni incoscienti; quelle fornite di momoria, o animali, quelle
fornite anche di ragione, o spi- riti. Cfr. p. 101 ss. (3)
Cfr. §§ 62, 78 ss. E la forte immaginazione che li colpisce e li
com- muove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle perce-
zioni precedenti. Poiché spesso un' impressione forte pro- duce d’un sol
tratto l’ effetto di una lunga abitudine o di molte percezioni mediocri
ripetute. 28. ° Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto
la concatenazione delle loro percezioni non avviene se non per il
principio della memoria; assomigliano, per questo riguardo, ai medici
empirici che hanno una semplice pra- tica senza teoria; e noi non siamo
che empirici nei tre quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci
si at- tende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente,
perchè finora è sempre avvenuto così. Soltanto l’ astro- nomo giudica ciò
per Ada di ragione. 29. ° Ma la conoscenza delle verità necessarie
ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la
ra- gione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e
di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. 30. °
Inoltre, mediante la conoscenza delle verità necessa- rie e delle loro
astrazioni, noi siamo elevati agli atti riflessivi che ci fanno pensare a
ciò che si chiama io, o considerare che questo o quel contenuto è in noi
; ed è così che, pen- sando a noi, noi pensiamo all’essere, alla
sostanza, al sem- plice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso,
col concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti.
E questi atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei nostri
ragionamenti. \ 31.° I nostri ragionamenti sono fondati su due
grandi principi ( 1 ) : quello delia contradizione, in A T irtù del
quale giu- dichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò
che è opposto o contradittorio al falso; (I) Passa ad altro
argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c insieme i
fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio di
non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion
suflìciente o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s. e quello
della ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo clic nessun
fatto può esser vero o esistente, nessuna proposizione veritiera, se non
vi è una ragione suf- ficiente per cui sia così e non altrimenti; benché
tali ra- gioni il più delle volte non possano esserci note. y 33°
Vi sono pure due specie di verità: quelle di ra- gione e quello di fatto
; le verità di ragione sono necessarie e il loro opposto è impossibile;
quelle di fatto sono con- tingenti e il loro opposto è possibile. Quando
una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo
del- l'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fin-
ché si giunga alle primitive (1). 34° Così nelle matematiche i
teoremi speculativi e i canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi,
a defi- nizioni, assiomi e 'postulati, 35.° Vi sono infine
idee semplici, di cui non si può dare la definizione; vi sono pure
assiomi e postulati o, in una parola, principi primitivi che non possono
essere dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni
identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione. 36°
Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle verità contingenti o
di fatto, cioè nell'ordine delle cose dif- fuse nell'universo delle
creature ; nel quale la risoluzione in ragioni particolari potrebbe
procedere fino a un frazio- namento senza limiti, a causa della varietà
immensa delle cose della natura e della divisione dei corpi all'
infinito. Vi è un" infinità di figure e di movimenti presenti e
passati, che entrano nella causa efficiente della mia scrittura at-
tuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e disposi- zioni della
mia anima, presenti e passate, che entrano nella causa finale (2).
( 1 ) È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »;
cfr. p. .'iUtss- (2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati
diversi secondo le oc- casioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa
efficiente rivolta verso l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo,
l’intenzione secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio
non implica se non altri contingenti anteriori o più dettagliati,
ciascuno dei quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè
se ne possa rendere ragione, per questa via non si procede affatto; e
conviene che la ragion sufficiente od ultima sia fuori dell’ ordine o
seriett di questo dettaglio di contingenze, * per quanto infinito esso
possa essere. 38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve
consi- stere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio
dei cambiamenti non si trovi se non in modo eminente, come in una fonte;
e tale sostanza noi la chiamiamo Dio. 39. ° Ora, essendo tale
sostanza ragion sufficiente di tutto quel dettaglio, il quale inoltre è
concatenato univer- salmente, non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è
suflì-V dente (1). 40. ° È da ritenere inoltre che questa
sostanza su- prema, che è unica, universale e necessaria, non
avendo nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed essendo
semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere in- capace di
limiti e contenere la massima quantità possibile di realtà. 4
1 . ° Donde consegue che Dio è assolutamente perfet- to; non essendo la
perfezione altro che la grandezza della realtà positiva intesa
precisamente, eliminando i limiti o confini nelle cose che ne hanno. E là
dove non vi sono confini, cioè in Dio, la perfezione è assolutamente
infinita. cosa è avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je «
ragioni della cosa stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da
causa tinaie serve a Leib- niz per indicare un aspetto più spontaneo,
attivo, spirituale, morale del prin- cipio di ragion sufficiente. Essa si
contrappone in questo senso alla causa efficiente, la quale indirà un
rapporto puramente materiale e meccanico. Cfr. pp. li) s., 1 lfi
ss. (1) Questa dimostrazione di Ilio è basata sul principio di
rugion suffi- ciente. Dio è la causa prima di tutta la serie delle cose
del mondo, delle verità di fatto empiriche e contingenti. Egli non può
però appartenere all’ordine delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe
avere una causa fuori rii sè, e non sarebbe più causa prima. Appartiene
quindi all’ordine delle essenze necessario. Ne consegue pure
che le creature ricevono le loro perfezioni dall' influsso di Dio, ma che
derivano le imper- fezioni dalla loro propria natura, incapace di essere
senza limiti. Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio.
Tale imperfezione originaria delle creature, si riscontra nel- f inerzia
naturale dei corpi (1). 43. ° È anche vero che Dio è non solo la
fonte delle esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto
reali, o di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intel-
letto di Dio è la regione delle verità eterne, o delle idee da cui esse
dipendono; e senza di lui non vi sarebbe nulla di reale nelle
possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe di esistente, ma neppure
alcunché di possibile. 44. ° Infatti, se vi è mia realtà nelle
essenze o possi- bilità, o nelle verità eterne, bisogna pure che questa
realtà si fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si fondi
quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza implica
l’esistenza, o cui basta di essere possibile per essere attuale.
45. ° Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha questo
privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista. E siccome nulla può
impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna
negazione, quindi alcuna contradizione, ciò solo basta per riconoscere a
priori la esistenza di Dio (2). Noi l’abbiamo anche dimostrata per
(1) Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto compatibile
eoi principi della possibilità, determinati dalle verità di ragione. Cfr.
p. 21 ss. Imperfezione è una limitazione di realtà. L’intero complesso
del mondo dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio, rappresenta il
massimo di realtà possibile, ed è perfetto. Solo le cose particolari sono
imperfette, in ragione appunto della loro particolarità. Questa
concezione àia medesima die Leib- niz svolge nella Teodicea.
(2) Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui
aggiunto alla formulazione cartesiana di essa il criterio della possibilità.
Bisogna an- zitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto dell’ente
perfettissimo ò pos- sibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché
esso è effettivamente pos- sibile, ne segue che esso contiene in sé anche
l'attributo dell’esistenza. Cfr. p. 13 ss. mezzo della realtà delle
verità eterne (1). Ma l'abbiamo di- mostrata or ora anche a 'posteriori
(2), poiché esistono es- seri contingenti, i quali non possono avere la
loro ragione ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha
in aè stesso la ragione della sua esistenza. 40.° Tuttavia
non bisogna punto immaginarci, come fa taluno, che le verità eterne,
essendo dipendenti da Dio, siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà,
come sembra aver inteso Cartesio e dopo di lui il Poiret (3). Ciò non
è vero se non delle verità contingenti, il cui principio è la
convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità ne- cessarie
dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono l'oggetto interno
(4). 47.° Così Dio solo è f unità primitiva, o la sostanza
semplice originaria di cui tutte le monadi create o derivate sono
prodotti; e queste monadi nascono, per così dire, per fulgurazioni
continue della divinità, di momento in momento, limitate dalla
recettività della creatura, alla quale è essenziale di essere
limitata. 4 8.° \ i è in Dio la potenza , che è la sorgente di
tutto, la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la vo-
lontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo il principio del migliore
(5). E ciò corrisponde a quello che nelle monadi create costituisce il
soggetto o base, la fa- coltà percettiva, e la facoltà appetitiva. Ma in
Dio questi (1) Ai §§ 43, 44. (2) Ai §§ 37-30.
(3) Teologo protestante (1640-1719). ( I) Questa affermazione
correggo in parte quunto fc stato attenuato ai SS 43 o 44. Le verità di
ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno pure una loro realtà
di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da Dio. Ma la loro
conformazione in quanto principi regolativi dell’universo, ha una validità
a sò stante, indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esi- stenze
o realtà di fatto sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo il
criterio del «migliore». Cfr. pp. 13 ss., 18 ss. (5) L’intelletto
divino Ita come contenuto le verità di ragione; la sua volontà mette in
opera le realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e
perfetti; e invece nelle monadi create o entelechie (o perfectihabies,
secondo la traduzione di questa parola data da Ermolao Bar- baro
(1)) essi non sono se non imitazioni, in ragione della perfezione di
ciascuna. 49. ° La creatina è detta agire verso l’ esterno in
quanto essa ha perfezione, e {Mire da parte di un’altra in quanto è
imperfetta. Così si attribuisce azione alla monade in quanto essa ha
percezioni distinte, e passione in quanto ha percezioni confuse
(2). 50. ° E ima creatura è più perfetta di un'altra, in
quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a priori di ciò
che avviene nell'altra; ed appunto per ciò si dice che l una agisce
sull’altra. 51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta che
di un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che non
può avere il suo effetto se non per 1" intervento di Dio, in quanto,
nelle idee di Dio, una monade pretende con ragione che Dio, regolando le
altre fin dal principio delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti,
giacché una monade creata non può avere influenza fisica sull'
interno dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipen-
denza dell’ima dall’altra. f>2.° Per questo appunto, fra le
creature, le azioni e passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando
due sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni che
l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi ciò che è attivo per certi
riguardi, è passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che
in esso vien conosciuto di- stintamente serve a render ragione di ciò che
accade in un altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che
accade (1) Filologo e filosofo italiano (1454-1403), tradusse in
latino vario opere di Aristotele. (2) Sulle percezioni
confuse, efr. p. 92 ss. in esso si trova in ciò che vien conosciuto
distintamente in un altro (1). 53. ° Ora, poiché vi è un'
infinità di universi possi- bili nelle idee di Dio, e invece non ne può
esistere che uno solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente della
scelta di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che
l’altro. 54. ° E questa ragione non può trovarsi se non nella
convenienza o nel grado di perfezione che questi mondi contengono; poiché
ogni possibile ha diritto di pretendere all'esistenza, in ragione della
perfezione che racchiude. 55. ° E ciò appunto è la causa
dell’esistenza del mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio,
la sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa pro- durre
(2). 5(j.° Ora questo legame o adattamento di tutte le cose
create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni
sostanza semplice contenga in sé rapporti (I) Le monadi, ohe sono
senza Maestre (J 7), non possono agile l una sull’altra. Il contenuto di
ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre, in quanto ciascuna è un
punto di vista preso sul medesimo universo. (§§ 50-57), Ciascuna contiene
nel suo intimo tutto il proprio sviluppo; e tutto le viene dal suo
intorno, nulla dal di fuori. Solo in senso improprio c metaforico si può
parlare d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso punto di vista
dal quale l’ universo viene rappresentato, costituisce la particolare
individualità di ciascuna monade; esso viene indicato dalla di- versa
sfera delle percezioni distinte che rappresentano, per così dije, la zona
centrale di ogni monade, mentre le confusene rappresentano la peri-
feria. (Cfr. § 60). Questa varia collocazione reciproca dei centri e delie
peri- ferie ò ciò che permette una differenziazione fra le varie monadi.
Ora, se si vuol chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni
distinte, e pas- siva la periferia che ha solo percezioni confuse (§49),
si potrà parlare anche di una sfera di attività in ciascuna monade, cui
corrisponde una sfera di passività nelle altro; insomma di una certa
azione ideale dcH’una sull’altra. Cfr. p. 93 ss. (2) I mondi
possibili, cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i prin- cipi di
ragione, sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il
piò perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato
dalla pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di
realtà. Ogni possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior
quantità di esi- stenza può dar luogo. Cfr. pp. 19-24. V. anche S§ 40-42,
46. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno
specchio vivente perpetuo dell'universo. 57.° E come una medesima
città, guardata da diffe- renti punti, sembra diversa ed è come
moltiplicata in prospettiva, analogamente avviene che, per la
moltepli- cità infinita di sostanze semplici, vi sono come
altrettanti universi differenti, i quali non sono peraltro se non
le prospettive di un universo solo, secondo i differenti punti di
vista di ciascuna monade. ò8.° È questo il modo di ottenere il
massimo di va- rietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè il
massimo di perfezione possibile. 59.° Dunque solo questa ipotesi
(che io oso dire dimo- strata) esprime in modo adeguato la grandezza di
Dio. Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Di-
zionario (articolo Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu anzi spinto a
credere che io attribuissi troppo a Dio, e più che non sia possibile. Ma
egli non potè addurre alcuna ragione che dimostrasse 1' impossibilità di
questa armonia universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima
esat- tamente tutte le altre per i rapporti che ha con esse.
00.° Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto, le ragioni a
priori per cui le cose non potrebbero procedere diversamente. Dio
infatti, regolando il tutto, ha avuto riguardo a ciascuna parte, e
particolarmente ad ogni monade; la cui natura essendo rappresentativa,
nulla la può limitare a non rappresentare se non una parte delle
cose; benché sia vero che questa rappresenta- zione non è se non confusa
nel dettaglio di tutto l'uni- verso, e non può essere distinta che per
una piccola parte delle cose, per quelle cioè che sono o più vicine o
pili glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni monade sarebbe
una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modifi- cazione della conoscenza
dell'oggetto, le monadi sono li mitate. Esse tendono tutte confusamente
all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e differenziate secondo i
gradi delle percezioni distinte (1). tìl.° E i composti in
ciò corrispondono ai semplici. Intatti, siccome tutto è pieno (il che fa
sì che tutta la materia sia concatenata (2)), e siccome nel pieno ogni
mo- vimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in ragione
della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo è affetto da quelli che
lo toccano e risente in qualche modo di tutto ciò che accade ad essi, ma
anche per mezzo loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso
è toccato immediatamente; ne consegue che questa comu- nicazione va
a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo risente di tutto ciò che
avviene nell' universo; sì che chi avesse la facoltà di veder tutto,
potrebbe leggere in cia- scun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò
che è avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è
lontano, sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio (3) : ffup.7r.oia
7ràvTa (4), diceva lppocrate. Ma mi' anima non può leggere in sè stessa
se non ciò che vi è rappresen- tato distintamente; essa non saprebbe
svolgere in una sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all'
in- finito. (i2.° Così, quantunque ogni monade creata
rappresenti tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente il
corpo che lo si riferisce particolarmente e di cui essa costituisce
l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto l'universo a causa della
connessione di tutta la materia nel pieno. (1) Ciascuna monade, in
quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è analoga alla divinità.
Solo la minor foiza di questa rappresentazione la rende imperfetta e la
ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio tutto è chiaro e
distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più vicino al
contro, come si è già visto. (§? 49-52) Cfr. pp. 78, 92 ss. (2)
Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della continuità
applicato alla materia. Cfr. p. 52 ss. (3) Ecco un’altra formulazione
della concatenazione universale secondo il principio di causalità,
considerato questa volta nel suo aspetto fisico. (4) i Tutto ù
conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene
in maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso(l).
03.° 11 corpo appartenente ad una monade che ne è l’entelechia o
l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che si può chiamare un vivente,
e coll'anima ciò che si può chiamare un animale. Ora questo corpo di un
vivente o di un animale è sempre organico; poiché, essendo ogni
monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed essendo l'universo
regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che vi sia un ordine nel
rappresentante, cioè a dire nelle per- cezioni dell’ anima, e per
conseguenza nel corpo, secondo il quale l'universo è rappresentato
nell’anima. (>4.° Così il corpo organico di ogni vivente è ima
specie di macchina divina o di automa naturale che supera infi- nitamente
tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina fatta dall’arte dell'
uomo non è macchina in ciascuna delle suo parti. Per esempio, il dente di
una ruota di ottone ha parti o frammenti che non sono più per noi
qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di
macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della
natura, cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle loro più piccole
parti, all' infinito. Ciò de- termina la differenza fra la natura e
l'arte, cioè fra l’arte divina e la nostra (2). 65.° E 1
autore della natura ha potuto operare questo artifìcio divino e
infinitamente meraviglioso, perchè ogni porzione di materia non solo è
divisibile all’ infinito, come hanno già riconosciuto gli antichi, ma è
anche suddivisa attualmente senza fine, ogni parte in parti (3),
ognuna (1) « LI corpo - commenta il Boutroux (eil. eit., p. 178)
-, attraverso lo infinite percezioni confuse relative all’univerBO che
esso determina ncl- l’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del
mondo, che fa cioè comu- nicare lo anime fra di loro». C’fr. pp. 35 ss.,
78 ss. (2) Cfr. p. 114 ss. (3) È questa un’altra
applicazione del principio di continuità alla ma- teria. Cfr. p. 52
ss. 10. — Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche
movimento proprio; altrimenti sa- rebbe impossibile che ogni porzione
della materia potesse esprimere tutto l’ universo. 66. °
Donde si vede che vi è un mondo di creatine, di viventi, di animali, di
entelechie, di anime anche nella minima particella di materia.
67. ° Ogni porzione di materia può essere concepita come un
giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo
della pianta, ogni membro dell' animale, ogni goccia dei suoi umori, è
ancora un giar- dino, uno stagno. 68. ° E quantunque la terra
e l'aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua interposta fra
i pesci dello stagno, non siano punto pianta nè pesce, esse ne
conten- gono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza a noi
impercettibile. 69. ° Cosi non vi è nulla di incolto, di sterile,
di morto nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in ap-
parenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno stagno, ad una
distanza dalla quale si vedesse un movi- mento confuso, un brulichio, per
così dire, di pesci, senza discernere i pesci stessi (1). 70.
° Si vede da ciò che ogni corpo vivente ha una entelechia dominante che è
f anima nell'animale; ma le membra di questo corpo vivente sono piene di
altri viventi, piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua
ente- lechia, o la sua anima dominante. 71. ° Ma non bisogna
immaginare, come fece taluno che aveva male inteso il mio pensiero, che
ogni anima abbia una massa o porzione di materia propria o applicata
ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri vi- venti inferiori,
destinati sempre al suo servizio. Poiché tutti i corpi sono in un flusso
perpetuo, come fiumi; e parti vi entrano e ne escono continuamente.
(1) Ofr. pp. 84 ss., 109 ss., 114 ss. Così l’anima non
cambia di corpo se non a poco a poco, per gradi, di modo che essa non è
mai spogliata ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso
metamor- fosi negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmi-
grazione delle anime; non vi sono neppure anime comple- tamente separate,
nè genii senza corpo. Dio solo è staccato interamente dal corpo.
73. ° Perciò anche non vi è nè generazione assoluta, nè morte
perfetta, intesa rigorosamente, come separazione dall’anima. E ciò che
noi chiamiamo generazione , è sviluppo e accrescimento; come ciò che noi
chiamiamo morte, è involuzione o diminuzione (1). 74. ° I
filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine delle forme,
entelechie, o anime; ma oggi che ci si è ac- corti, per mezzo di ricerche
esatte sulle piante, sugli in- setti e sugli animali, che i corpi
organici della natura non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma
sem- pre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche pre- formazione,
si è ritenuto che, prima della concezione, vi fosse già non solo il corpo
organico, ma anche un’anima in questo corpo, insomma l'animale stesso; e
che per mezzo della concezione questo animale sia stato solamente
di- sposto ad una grande trasformazione per divenire un ani- male
di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di si- mile fuori del campo
della generazione; come quando i vermi divengono mosche e i bruchi
farfalle (2). (1) La menade, elio ò assolutamente immateriale
(§3), non è però priva di un suo aspetto di materialità. La materialità
viene definita da Leibniz in vari modi: come percezione confusa (cfr. p.
91 ss.); come aggregato (ofr. p. 109 ss.). Sempre però come un modo di
essere della monade, un suo particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato
che la monade è eterna e indi- struttibile (§§ 4-6) non si può a rigore
parlare di morte neppure nella materia; si potrà parlare solo di
aggregazione e di disgregazione, di passaggio do uno stato all’altro
(cfr. p. 99, s.; v. anche §§ 70-77). Cosi non si può parlare di una
materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura anima.
Cfr. § 14. (2) Le teorie biologiche del suo tempo servono qui a
Leibniz come so- stegno e conferma delle sue concezioni
metafisiche. 10". — Leibniz, La monadologia. Gli
animali dei quali alcuni sono elevati al grado di animali più grandi per
mezzo della concezione, possono essere chiamati spermatici-, ma quelli
fra di essi che ri- mangono nella loro specie, cioè la maggior parte,
nascono, si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali,
e non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un teatro
più vasto (1). 76. ° Ma questo non era che la metà della verità;
ho dunque ritenuto che se 1 animale non ha mai inizio natu-
ralmente, non avrà neppure fine naturale, e che non solo non vi sarà
generazione, ma neppure distruzione intera, nè morte rigorosamente
intesa. E questi ragionamenti fatti a posteriori e tratti dalle
esperienze si accordano perfet- tamente coi miei principi dedotti a
priori qui sopra. 77. ° Così si può dire che non solamente l'anima
(spec- chio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma
che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina perisca spesso in
parte, e lasci o prenda spoglie organiche. 78. ° Questi principi mi
hanno dato modo di spiegare naturalmente l’ unione o conformità
dell'anima e del corpo organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed
il corpo le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia
presta- bilita fra tutte le sostanze, poiché le sostanze sono tutte
rappresentazioni di un medesimo imiverso (2). 79. ° Le anime
agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini e
mezzi. 1 corpi agiscono se- condo le leggi delle cause efficienti o dei
movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle
cause finali, sono armonici fra di loro (3). 80. ° Cartesio
ha riconosciuto che le anime non possono attribuire forza ai corpi,
perchè vi è sempre la medesima (1) Questa teoria ha il suo
corrispondente nella dottrina della gerarchia delle monadi (jjij 24-30),
secondo cui solo alcune di esse possono elevarsi agli stadi superiori di
animale o spirito ragionevole. Cfr. $ 82. (2) Cfr. pp. 89 ss., 119
ss. (3) Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la
nota a] j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia
cre- duto che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi. Ma
egli credeva ciò, perchè ai suoi tempi non si conosceva la legge naturale
che stabilisce anche la conservazione della medesima direzione totale
nella materia: se egli avesse notato questa legge, sarebbe giunto al mio
sistema del- l’armonia prestabilita (1). 81. ° Tale sistema
stabilisce che i corpi agiscono come se (ipotesi assurda) non vi fossero
anime; che le anime agiscono come se non vi fossero corpi; e che
entrambi agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli
sjnriti,o anime ragionevoli, benché io ritenga, come ho detto or ora, che
tutti i viventi e animali siano in fondo conformati ugualmente (cioè che
l’animale e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non col
mondo stesso), vi è però di particolare negli animali ragionevoli, il
fatto che i loro piccoli animali spermatici, fino a che non sono che
tali, hanno soltanto anime cornimi o sensitive: ma appena quelli che sono
eletti, per così dire, pervengono per ima effettiva concezione alla
natura umana, le loro anime sensitive vengono elevate al grado della
ra- gione e alla prerogativa degli spiriti. 83. ° Tra le
differenze che intercedono fra le anime comuni e gli spiriti, e di cui
già ne ho notato alcune, vi è anche questa: che le anime sono in generale
specchi Questo leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la
direzione totale (o quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento
di direzione, in un si- stema chiuso, deve corrispondere un altro
cambiamento di direzione eguale o contrario-, contribuisce a fare del
mondo meccanico un sistema a sè, chiuso a qualsiasi influenza elio
provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Car- tesio credeva alla
oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz sostituisce la
conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della
direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mu- tare la
dirozionedi un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale
influenza dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e
corpo rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi
come lo sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere
stabilito attraverso l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche
leibniziane, cfr. pp. 62 ss., 65 ss. viventi o immagini dell'universo delle
creatine; ma che gli spiriti sono anche immagini della divinità stessa, o
dell’autore stesso della natura; capaci di conoscere il sistema dell
universo e di imitarne alcunché, per mezzo di saggi architettonici;
essendo ogni spirito come una piccola di- vinità nel suo ambito.
84. ° Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci ili entrare
in una specie di società con Dio, e che egli sia rispetto a loro non solo
quello che un inventore è per la sua macchina (ciò che Dio è rispetto
alle altre creature), ma altresì quel che mi principe è per i suoi
sudditi, ed anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile
concludere che l’insieme di tutti gli spiriti deve compone la città di
Dio, cioè il più per- fetto stato possibile sotto il più perfetto dei
monarchi. 86. ° Questa città di Dio, questa monarchia
veramente universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò
che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di Dio. E proprio
in essa consiste la gloria di Dio; poiché non vi sarebbe gloria, se la
sua grandezza e la sua bontà non fossero conosciute ed ammirate dagli
spiriti; e anche solo in rapporto a questa città divina egli è
propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua
potenza si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una
perfetta armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause
efficienti, 1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra
armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale della grazia,
cioè fra Dio considerato come architetto della macchina dell universo, e
Dio considerato come monarca della città divina degli spiriti. Tale
armonia fa sì che le coso conducano alla grazia per le vie medesime della
natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato
per vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti lo
richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli altri. Si
può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in
quanto legislatore; e che così i peccati devono portare con sè la propria
pena per ordine di natura e hi virtù anche della strattura meccanica
delle cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare a
sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò
non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto
questo governo perfetto, non vi sarebbe azione buona senza ricompensa, nè
cattiva senza castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni,
cioè di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato, che
si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro dovere, e che amano e
imitano come si conviene l’Autore di ogni bene, compiacendosi nella
considerazione delle sue perfezioni, secondo la natura del vero puro
amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si
ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino a tutto ciò che
sembra conforme alla volontà divina pre- suntiva o antecedente, e si
contentino, d'altra parte, di ciò che Dio fa accadere effettivamente per
mezzo della sua volontà segreta, conseguente e decisiva;
riconoscendo che, se noi potessimo intendere a sufficienza bordine
del- l'universo, troveremmo che esso supera tutti i desideri dei
piii saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello che è, non
solo quanto al tutto in generale, ma anche La volontà presuntiva o
antecedente rappresenta ciò che deriva dalla natura stessa di Dio, ohe ò
connaturato con la sua essenza; la vo- lontà conseguente e decisiva
rappresenta l’atto effettivo con cui Dio ha messo in opera la realtà di
fatto: atto non necessario, quindi non prevedibile, « segreto ». Questa
distinzione richiama quella fra le verità di ra- gione, necessarie, e le
verità di fatto, contingenti. Cfr. pp. 6 ss., 10 ss. quanto a noi
stessi in particolare, perchè ci teniamo le- gati, come è giusto,
all'autore del tutto, non solamente come all architetto e alla causa
efficiente del nostro essere, ma anche come al nostro signore e alla
causa tinaie che deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e
solo può procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale
della Teodicea, secondo cui tutto oiò che apparo come malo cessa di
essere tale, quando venga con- siderato in connessione con l'arinonia del
tutto, nella quale anche i lati oscuri hanno una loro funziono, e le
ombreggiature contribuiscono alla per- fezione del quadro. Cfr. p. 4(5
ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo,
l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti
filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano,
ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.
Grice e Conte: l’implicatura
conversazionale del sacrificio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).
Filosofo. Grice: “Must say I love
Conte – he has almost the same talent
for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more
respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it
philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!”
“Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy
qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and
that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he
expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of
conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only
Heidegger did in German and I in English!” Grice: “Conte is what I – and
Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a
Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della
semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive,
validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica
conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il
modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia,
Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti
per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un
paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio
normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi;
Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una
nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino,
Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino,
Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia
del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale
Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli);
“Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui
chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo
parzialmente éditi: Nella parola.
Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica
della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio
normativo). Pragmatica. Filosofia del
diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica
Semiotica Semantica.To undertake to set forth with
any definiteness the ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a
Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an extremely difficult
task.Those, ideas would differ with the individual and the sect, being
determined or varied by a number of considerations and influences — by
locality, education, and temperament. SILIO would not hold the
views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA,
as distinct from various other ‘religions’ tolerated and practised
in different parts, but it is scarcely possible to define the contents of
that ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special
priests and priestly bodies who see to it that certain rites and
ceremonies are performed scrupulously in a prescribed manner and on
prescribed dates. But these are officers of the state – LO STATO ROMANO
-- whose knowledge and functions are confined to the ritual observances
with which they have to deal. They are not persons trained in a
system of ‘theology’, nor are they preachers of a code of doctrines or
morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They
have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer.
Though most well-informed persons will know the prominent deities
in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one
but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of the
total. It is not merely that the deities on the list are so numerous.
There are other reasons for ignorance or vagueness. In the first place,
the line between the operations of one deity and those of another is
often too fine to draw, and deities originally more or less distinct come
to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not
impossible, to make up one's mind whether a so-called deity — such
as SPES — is supposed to have a real existence, or whether it is simply
the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of
fashion, and to a large extent out of memory, while new ones come, or
were coming, into vogue. The state possesses its old-established
calendar of days sacred to a number of deities, and its code of ritual to
be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what
certain priests should wear, what they should do or avoid in their
priestly character, what victims — ox, sheep, or pig — they should
sacrifice, what instruments they should use for the purpose, and in what
formula of words they should pray in particular connections. There is
a standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that
excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the
state religion, to see that its requirements are carried out, and
that no one ventures to commit an outrage towards it. But the state will
not tell you with any precision that you must believe in just so
many deities and no others. It would not tell you precisely what notions
to entertain concerning those deities whom it does officially recognise.
The state dictates no theological doctrine; neither does it dictate
any moral doctrine beyond those which you would find in the secular law.
It reserves the right to prevent the introduction of a foreign divinity
if it finds sufficient cause; but so long as the temples, the rites and
ceremonies, the cardinal moral axioms of the Roman ''religion,'' and the
basic principles of Roman society are respected, the state practises
no sort of inquisition into your beliefs or non-beliefs, and in no way
interferes with your particular selection of favourite deities. Poly-theism
in an advanced commimity is always tolerant, because it is necessarily
always indefinite. What it does not readily endure is an organised
attack upon the entire system, whether openly avowed or manifestly
implied. Even undisguised unbelief in any deity at all it is often
willing to tolerate, so long as the unbelief is rather A MATTER OF PHILOSOPHICAL
DIALECTICS than anything else, and makes no attempt at a crusade.
When a state so disposed is found to interfere with a novel religion, it
will generally be easy to perceive that the jealousy is not on behalf of
the deities nor of a creed, but on behalf of the community in
its political, economic, or social aspect. Let us endeavour to
realise as best we can the religious situation among the Roman population.
Though we are not here directly concerned with the steps by which the
Roman religion had come to be what it was, we can scarcely hope to
understand the position without some comprehension of that
development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the
peculiarities of their worship are due to the retention of old forms
which had lost such spirit as they once possessed. In the infant
days of the nation there had been no such things as gods in human shape,
or in recognisable shape at all. There were only ''powers" or
"influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must
work out his existence. The early Romans and such Italian tribes - as
they became blended with were, as they still are, EXTREMELEY
SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other peoples, are at a
loss to understand what produces a thunder or a lightning, rain, the
fertility or failure of crops, the changes of the seasons, the flow or
cessation of springs and streams, the intoxication or exhilaration
proceeding from wine, and a multitude of other phenomena. Fire is a
perplexing thing; so is wind. The woods are full of mysterious sounds
and movements. They could comprehend neither birth nor death, nor
the fructification of plants. The consequence is a feeling that these
things are due to some unseen agency; and the attempt is made to
bring those powers into some sort of relation with mankind, either by the
compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and
offerings of propitiation, or by promises. A superhuman power might be
placed under a spell, or placated with food and drink, or persuaded by a
vow. Such "powers" were exceedingly numerous. Greatest of
all, and recognised equally by all, was the power working in the sky with
the thunder and the rain. Its presence was everywhere alike, and its
bperations most palpable at every season. Countless others were
concerned with particular localities or with particular functions. Every
wood, if not every tree, and also every fountain, was controlled by some
such higher ''power''; every manifestation or operation of nature
came from such an 'influence.'' There was no kind of action or
undertaking, no new stage of life or change of condition, which did not
depend for help or hin- drance upon a similar power. At first "the
''powers" bore no distinctive names, and were conceived in no
definite shapes. They were not yet gods. The human being who sought to
work upon them to favour him could only do, say, and offer such
things as he thought likely to move them. But in process of time it
became inevitable that these superhuman agencies should be referred to
under some sort of title, and the title literally expressed the
conception. Hence a multitude of names. Not only was there the
ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there was a veritable
multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger
conceptions the power concerned with the sowing of seed was Saturn,
that with the growth of crops was Ceres, that with the blazing of fire
was Vesta. Among the smaller, the power which taught a babe to eat was
Edulia, that which attended the bringing home of a bride was
Domiduca. The ability to speak or to walk was supposed to be imparted by
separate agencies named accordingly. Flowers depended on Flora and
fruits on Pomona. But to assign a name is a great step
towards creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies
began to take shape in the mind of those who named them. This was the
second stage. Jupiter, Ceres, Satmn, and almost all the rest became
"gods." The powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus
— became embodied, like the more modem gnomes and kobbolds. Once
imagine a shape, and the tendency is to give it visible form in an image
"like unto man,*' and to honour it with an abode — a temple or
shrine. The earliest Romans known to us erected no images or
temples, but they were not long in creating them. Particularly rapid was
the reducing of a god to human form when they came into close contact
with the Etruscans and the Greeks. For all the important deities
poetry and art combined to evolve an appropriate bodily form, which
gradually became conventional, so that the ordinary notion of a
Jupiter, a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that which
had been gathered from the statue thus developed. This trouble was not
taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and
local deities, and many of those with quite minor provinces, were left
vague and unrealised. They were represented in no temples and by no
statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of neighbouring
farms into a great city, and from a small settlement into a vast empire,
the little local gods fell into the background. The deities which
concerned the state, and to which it erected temples, were those
with the more far-reaching operations — such as the gods identified with
the sky and its thunders, with war, with fertility, with the sea, with
the hearth-fire of all Rome. The rest might well be left to
localities or to domestic worship. From the early days of
Rome there existed a calendar for festivals to certain divinities
important to the little growing town, and a code of ceremonies to
be performed in their honour, and of formulae of prayer to be offered to
them. The later Romans, in their characteristic conservatism, adhered to
those festivals, to that ritual, and to those formulae, even when
some of the deities had ceased to be of appreci- able account, and when
neither the meaning of the ritual nor the sense of the old words was any
longer imderstood by the very priests who used them. Reflect
a moment on this situation. First, we have a number of deities of the
first rank, housed in temples, embodied in statues, and recognised in
all the Roman world; next a number of minor divinities whose
operations and worship may be remotely rural or otherwise local, and
whose functions are by no means always distinguishable from those of
the greater gods; then a series of more or less un- intelligible
ceremonials carried out by ancient rule in honoiu" of divinities
often practically forgotten ; outside these a number of vague powers
presiding over small domestic and other actions; finally, a
peculiar Roman tendency — in keeping with the last — to erect into
divinities, and to symbolise in statues housed in temples, all manner of
abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,
Health, Fame, and Youth. Reflect agam that, when the Romans, as
they spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or other
foreigners, they met with deities whose provinces were necessarily often
identical with or closely akin Fio. 110. — A
Sacrifice. to their own. Then remember that there is
no church and no official document to define the complete list of
Roman gods. Does it not follow, as a matter of course, on the one hand,
that the importation of new gods was an easy matter, and on the other,
that no individual Roman could draw the line as to the number of
even the old-established deities in whom he should or should not
believe? The guardians of the public reUgion were satisfied if the
due rites were paid by the state to those deities, on those. dates, and
precisely in that manner, which happened to be prescribed in the official
religious books. For the rest they left matters to the
individual. So much it has been necessary to say in order to
account for existing attitudes. We must use the plural, since the
attitude of the state officials is but one of several, and, inasmuch as
the state officials themselves were not a theological caste but
only secular servants of the community administering the
regulations for external worship as laid down in the records, it often
happened that their official attitude had nothing to do with their
individual beliefs. Often they did not know or care whether there
was a real religious efficacy in the acts which they performed ;
sometimes all that they knew was that they were doing what the state
required to be done properly by some one. Cicero quotes a
dictum of a Pontifex Maximus that there was one religion of the poet,
another of the philosopher, and another of the statesman. This is
true, but it is hardly adequate. We must at least add that of the common
people. A well-known statement of more modern birth puts the case —
rather too strongly — that at our period all religions were regarded
by the people as equally true, by the phi- losopher as equally false and
by the statesman as equally useful. We may begin with the ordinary
people of whatever station, who were not poets nor thinkers nor
magistrates. It is an error to suppose that such Romans of the first
eentiu'y were either atheistic or indifferent to religion. Their
fault was rather that they were too superstitious, ready to believe
too much rather than too Uttle, but to beUeve without relating their
beUef to conduct. They did not question the existence of the traditional
gods, nor the characters attributed to them; they were ready to
perform their dues of worship and to make their due offerings, but all
this had no bearing upon their own morality. They believed with the
terror of the superstitious in omens and portents, and in rites of
expiation and purification to avert the threatened evil. They were
alarmed by thunder and lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen
on the wrong side of the road, and other evil tokens. They commonly
accepted the existence of maUgn spirits, including ghosts. They were
prepared to believe that on occasion a statue had bled or turned
round on its base; that an ox had spoken in human language; or that there
had been a rain of blood. There were doubtless exceptions, and
super- stition was less dire and oppressive than once it was. More
than fifty years before our date Cicero had said that even old women no
longer shuddered at the terrors of an underworld, and fifty years
after it the satirist asserts the same of children. But both writers are
speaking somewhat hyper- bolically. Doubtless it had been wondered
how two augurs could look at each other without a smile, but there
is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious
of any- thing to smile at. In the multiplicity of deities the
ordinary people were prepared to accept as many more as you chose
to offer them, especially if the worship attaching to them contained
mystic or orgiastic ceremonies. By this date the populace had become
exceedingly mixed, especially in the capital, and the cool
hard-headed Roman stock had been largely replaced or leavened by
foreign elements, especially from the East. The official worship of the
state was formal and frigid ; it offered nothing to the emotions or the
hopes. Many among the people felt an instinct for something more
sacramental, and especially attractive was any form of worship which
promised a continued existence, and probably a happier existence, after
death. Even the mere mysteriousness of a form of worship had its
allurements. Hence a tendency to Judaism, still more to the Egyptian
worship of Isis and Osiris. The latter made many proselytes, particularly
among the women, and contained ideas which are by no means ignoble
but to our modern minds far more truly ''religious'' than anything to be
found in the native Roman cults. To pass through purification, to
practise asceticism, to feel that there was a life beyond the grave
apportioned to your deserts, to go through an impressive form of worship
held every day, and to have the emotion^-thus worked upon — all
this supplied something to the moral nature which was lacking in the
chill sacrifices and prayers to Jupiter and the other national
divinities. In vain had the authorities, in their doubt as to the moral
effects, tried on several occasions to suppress this foreign worship; it
always revived, and it now held its established place both in the
imperial city and in the provinces, particularly near the sea, for it
was especially a sailors' religion. Rome, like Pompeii, had its
temple of Isis and her daily celebrations. There was, however, no
necessary conflict between this worship and the oflScial religion. It was
quite possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this
particular cult has required mention, must it be taken as belonging to
more than a section of the Roman population. Most Romans would look
upon it and other deviations with acquiescence, some with contempt, and
perhaps some with a shake of the head, while themselves satisfied with an
indifferent conformity to the more estabUshed customs of the
state. Setting aside the devotees of the mystic, the more
ordinary point of view was that between Romans and the established gods
of Rome there is an understanding. The gods will support Rome so long as
Rome pays to them their dues of formal recognition. Their ritual
must not be neglected by the authorities; it is not necessary for an
individual member of the community to concern himself further in the
matter. The state, through its appointed ministers, will make the
necessary sacrifices and say the necessary words; the citizen need not
put in an appearance or take any part. He will not do or say anything
dis- respectful towards the deities in question, and he will enjoy
the festivals belonging to them. If remarkable portents and disasters
occur, he will agree that there is something wrong in the behavioiu* of
the state, and that there must be some public purification or other
placation of the gods. If the state orders such a proceeding, he will
perform whatever may be his share in it. So far he is loyal to the
''religion of the state.'' In his private capacity he has his
own wants, fears, and hopes. He therefore betakes himself
to whatever divinity he considers most likely to help him; he makes
his own prayers and vows an offering if his request is granted. Reduced
to plain commercial language his ordinary attitude is — no success,
no payment. A cardinal difference between the religion of the
Romans and our own is to be seen in the nature of their prayers. They
always ask for some definite advantage — prosperity, safety, health, or
the like. They never pray for a clean heart or for some moral
improvement. Of more importance than the man's moral condition will be
his scrupulous observance of the right external practices. Unlike the
Greek, he will cover his head when he prays. He will raise his hand
to his lips before the statue, or, if he is appealing to the celestial
deities, he will stretch his palms upwards above his head ; if to the
infernal powers, he will hold them downwards. These are the things
that matter. At home, if he belongs to the better type of
representative citizen, our Roman has his household shrine and his
household divinities, whom he never neglects. If he is very pious, he may
pray to them every morning, or at least before every enterprise. In
any case he will remember them with a small offering when he dines. There
are the ''gods of the stores" — his ''penates'' — certain deities
whom he has selected as guardians of his belongings, and who have
their little images by the hearth in the kitchen. There is the household
''protector," or more commonly there are two, who may be
painted under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche
or shrine above a small altar. To these he will offer fruits, flowers,
incense, and cakes. And there is the ''Genius'' of the master of
the house, who is also painted on the wall, or who may be
represented by his own portrait bust or by the pictxu-e of a snake. That
"Genius" means the power presiding over his vitality and health
and well- being. If he is an artisan and belongs to a guild, he
will pay special worship to the patron god or goddess of that, guild — to
Vesta, if he is a baker, to Minerva, if he is a fuller. Out of doors he
will find a street shrine in the wall at a crossing, pertaining to
the tutelary god of what may be called his ''parish,'' and this he
will not neglect. Like all other orthodox Romans he will not undertake
any new enterprise — betrothal, marriage, journey, or important business
— without ascertaining that the auspices are favourable. In a
general way he has a notion that the gods are displeased at certain forms
of crime, and that they approve of justice and the carrying out of
compacts. The gods overlook the state, because the state engages them so
to do, and therefore to break the laws of the state is to anger the gods
of the state. But this is rather subtle for the common man, and
there is generally no understood immediate relation between these gods
and his moral conduct, unless he has sworn an oath by one or other of
them. The purpose of calling a god to witness is to bring upon a perjurer
the anger of the offended deity. But he entertains no such conception as
the modem one of "sin" or of "remorse for sin."
"Sin" is either a breach of the secular law or breach of a
contract with a deity, and ''remorse'' is but fear of or regret for
the consequences. His morality is determined by the laws of
the state, family discipUne, and social custom. For that reason his
vices on the positive side will mostly be those of his appetites, and on
the negative side a want of charity and compassion. He may be guiltless
of lying and stealing, murder and violence; he may be honest and
law-abiding ; but there .is nothing to make him temperate, continent, or
gentle. His avowed code is ''duty,'' and duty is defined by law and
tradition. If this is the religious condition of the conunon-
place man or woman — a blend of superstition, formalism, and tolerance —
it is by no means that of the educated thinker. Such persons were for
the most part freethinkers. Many of them, finding no better guide
to conduct, conform to the "religion" of the state without any
real belief in its gods or attaching any importance to its ceremonies.
They do not feel called upon to propagate any other views, and they
probably think the current notions are at least as good fqr the ignorant
as any others. If they are poets, like Horace or Lucan, they will dress
up the mythology, mostly from Greek models, and write fluently
about Jupiter and Juno, Venus and Mercury, either attributing to them the
recognised characters and legends, or varying them so as to make
them more picturesque and interesting — perhaps even im- proving
them — but all the time believing no more in the stories they are telling^
or in the deities them- selves,* than Tennyson need have beUeved in
King Arthur and Guinevere. The gods are good poetic material and
are sure to afford popular, or at least in- offensive, reading. The poets
doubtless do something to hiunanise and beautify the popular conception
of a deity, but they seldom deUberately set out with any such
purpose. If the educated are not poets, but pubUc men of affairs, they
may beUeve just as Uttle, and yet regard the established cult of the gods
as an excellent discipline for the vulgar and the best known means
of upholding the national principle of ''duty.'' If they are philosophers
they may not, and the Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at
all — certainly not as they are generally conceived — and will
openly discuss in speech and in writing the ques- tion of their existence
or non-existence, and of their character and nature if they do exist.
They will endeavour to substitute for the barren formalism of rites
and ceremonies, or the inconsistent or incomplete traditional morality of
duty, another set of principles as a sounder guide to life and conduct.
Some are monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's own
tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the gods? Then be good. The
true worshipper of the gods is he who acts like them." "Better,"
remarks Plutarch, "not believe in a God at all than cringe
before a god who is worse than the worst of men." In the actual
worship of images none of them believe. One conspicuous writer of the
time says : "To look for a form and shape to a god, I consider to be
a mark of human feebleness of mind." Concerning the schools of
thought and in particular the tenets of those Stoics and Epicureans whom
St. Paul met at Athens, and whom he could meet in educated circles all
over the Roman Empire, we shall have to speak in a following
chapter, when sununing up the intellectual and moral condition of the
time. Meanwhile it should be under- stood that, though a profound or
anything approach- ing a professional study of philosophy was
discouraged among the true Romans — more than once the profes-
sional philosophers were banished from the capital — there were few
cultivated persons who did not to some extent dabble in it, and even go
so far as to profess an adherence to one school or another. None of
these men believed in the "Roman religion" as administered by
the state, although many of them were administering it themselves. The
same man could one day freely discuss the gods in con- versation or
a treatise, and the next he might be clad in priestly garb and officially
seeing that the rites of sacrifice were being religiously carried out
in terms of the books, or that the auspices were being properly
taken. It does not, however, follow at all that because poet
or public man cared nothing for the pantheon and all its mythology, he
was therefore without his superstitions. He might still tremble at signs
and portents, at comets, at dreams, and at the un- propitious
behaviom* of birds and beasts. He might believe in astrology and resort
to its professors, called the ''Chaldaeans." On the other hand he
might laugh at such things. It was all a
matter of tempera- ment. It certainly was not every man who dared
to act like one of the Roman admirals. When it was reported that
the omens were unpropitious to an inuninent battle because the sacred
chickens ''would not eat," he ordered them to be thrown into the
sea so that at least they might drink. The freethinkers were in
advance of their times. "Science" in the modern sense hardly
existed, and until phenomena are explained it is hard to avoid a
perplexity or astonishment which is equivalent to superstition.
Consider now these various states of mind — that of the
people, ready to add almost any deity to the large and vague number
aheady recognised ; that of the poet, who finds the deities such useful
literary material ; that of the magistrate or public man, who,
without enthusiasm or necessary belief, regards reUgion as a thing useful
to society; and that of the philosopher, who thinks all the current
re- Ugious conceptions unsound, if not absurd, and morally almost
useless. Manifestly a society so composed will be one of
unusual tolerance. The Romans had no disposition to force their religion
on the subject provinces of the empire. Their religion was the Roman
religion; the rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish
religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian. Any nation had a
right to the religion of its fathers. Nay, the Jews had such peculiar
notions about a Sabbath day and other matters that a Jew
was exempted from the military service which would have compelled
him to break his national laws. All religions were permitted, so long as
they were national religions. Also all religious views were permitted
to the individual, so long as they were not considered dangerous to
the empire or imperial rule, or so long as they threatened no appreciable
harm to the social order. If a Jew came to Rome and practised
Judaism, well and good. It was, in the eyes of the Romans, a
narrow-minded and uncharitable religion, marked by many strange and
absurd practices and superstitions, but if a misguided oriental people
liked to indulge in it, well and good. Even if a Roman became a
proselyte to Judaism, well and good, so long as he did not flout the
official reUgion of his own country. If the Egyptians chose to worship
cats, ibises, and crocodiles, that was theii^ affair, so long as they
let other people alone. In Gaul, it is true, the emperor Claudius,
predecessor of Nero, had put down the Druids. Earlier still the Druids
had already been interfered with ; but that was because the Druids —
those weird old white-sheeted men with their long beards and
strange magic — were performing human sacrifices — burning men alive in
wicker frames — and such conduct was not pnly contrary to the secular law
of Rome, but even to natural law. And when Claudius finally
suppressed them, or drove the remnant out of Gaul into Britain, it was
not simply because they worshipped non-Roman gods and performed
non- Roman rites, but because they were, as they had always
notoriously been, a dangerous political influence interfering with the proper
canying out of the Roman government. And when we come to
Christianity it must be remarked that, so long as that nascent religion
was regarded as merely a variety of Judaism, it was actu- ally
protected by the Roman power, and owes no little of its original progress
to the fact. In the Acts of the Apostles it is always from the
Roman governor that St. Paul receives, not only the fairest, but
the most courteous treatment. It is the Jews who persecute him and work
up difficulties against him, because to them he is a renegade and is
weaning away their people. To the philosophers at Athens he appears
as the preacher of a new philosophy, and they think him a
"smatterer" in such subjects. To the Roman he is a man charged
by a certain com- munity with being dangerous to social order, to wit,
causing factious disturbances and profaning the temple; and since he
refuses to let the local author- ities judge his case, and has exercised
his citizen privilege by appealing to Caesar, to Caesar he is sent.
And, when a prisoner in somewhat free custody at Rome, note that he is
permitted to speak ''with all freedom,'' and that in the first instance
he is acquitted. True, but the fact remains that Nero
bimit Christians in his gardens after the great fire of Rome, and
that certain later emperors are found punishing Christians merely for
avowing themselves such. Why was Christianity thus singled out? It was
not through what can be reasonably called ''religious intolerance/'
for, as has been said, the Romans did not seek to force Roman religion on
other peoples, nor did they make any inquisition into the beUefs of
Romans themselves. The reasons for singling out Christianity for special
treatment are obvious enough. The question is not whether the reasons
were sound, whether the Romans properly understood or tried to
understand, whether they could be as wise before the event as we are
after it, but whether the motive was what we should call a
religious" one. To allow Epicureans to deny the existence of gods at
all, and to make scornful concessions to the peculiar tenets of
Jews, could not be the action of a people which was bigoted. If there was
bigotry and intolerance, it was political or social bigotry and
intolerance, not reUgious. To prevent any possible misconception let the
present writer say here that he considers the principles of
Christianity, as laid down by its Founder and as spread by St. Paul, to
have been the most humanizing and civilising influence ever brought to
bear upon society. But that is not the point. The early Christians
were treated as they were, not because they held non- Roman views,
but because they held anti-Roman views ; not because they did not believe
in Jupiter and Venus, but because they refused to let any one else
believe in them; not because they threatened to weaken Roman faith, but
because they threatened to weaken and even to wreck the whole fabric of
Roman society ; not because they were known to be heretics, but
because they were supposed to be disloyal; not because they converted
men, but because they appeared to convert them into dangerous
characters. As it has been put, the Christians were regarded as the
''Nihilists" of the period. We are apt to judge the Romans from the
standpoint of Christianity dominant and understood; it is fairer to judge
them from the standpoint of a dominant pagan empire looking on at a
strange new phenomenon altogether misunderstood and often deliberately
misrepresented. Moreover — and the point is worth more attention
than it commonly receives — we have only to read the Epistles to the
Corinthians, to perceive that the early Christian gatherings were by no
means always such meek, pure, and model assemblages as they are
almost always assumed to have been. Some of the members, for
instance, quarrelled and ''were drunken.". There were evidently many
unworthy members of the new communion, and of course there were also
many manifestations of insulting bigotry on their part. The class
of society to which the Christians belonged was closely associated in the
Roman mind with the rabble and the slave, if not with criminals. What the
pagan observer saw in the new religion was "a pestilent superstition,"
"hatred of the human race," "a malevolent
superstition." He thought its practices to be connected with magic.
The intransigeant Christian refused to take the customary oath in the law
courts, and there- fore appeared to menace a trustworthy
administration of the law. He took no interest in the affairs of
the empire, but talked of another king and his coming kingdom, and
he appeared to be an enemy to the Roman power. He held what appeared to
be secret meetings, although the empire rigidly suppressed all
secret societies. He weakened the martial spirit of the soldier. He
divided f amiUes — the basis of Roman society— against themselves. He was
a socialist leveller. He threatened with ruin all the trades
connected with either the established worship — as amongst the
silversmiths at Ephesus — or with the luxuries and amusements of Ufe.
Those amusements in circus or amphitheatre he hated, and therefore
appeared misanthropic. He not only stood aloof from the religious
observances of the state and the household, but treated them with
contempt or abhorrence. Moreover, at this date, he refused to
acknowledge the one great symbol of the imperial authority. This was
the statue of the emperor. When that statue was set up in every town it
was not understood by any intelligent man that the emperor was actually
a god, or that, when incense was burnt before the statue, it was
being burned to the emperor himself as deity. But just as every
householder had his attendant Genius'' — the power determining his vital
functions and well-being — which was often represented as a bust
with the man's own features, so the statue of the Augustus, ''His Highness,"
represented the Genius of that Head of the State, and the offering of
incense was meant as an appeal to the Genius to keep the emperor
and the imperial power ''in health and wealth long to live." The man
who refused to make such an offering was necessarily considered to be
ill- disposed to the majesty and welfare of the Head of the State,
and therefore of the state itself. The Roman attitude towards the early
Christians was partly that of a modern government towards Nihilists, and
partly that of a generation or two ago to a blend of extreme
Radical with extreme atheist. We are not here concerned with the whole
story of the persecution of the Christians, but only with the
situation at and immediately after the date we have chosen. It is at
least quite cer ain that when Nero burned the Christians in the year 64
he was treating them, not as the adherents of a religion, but as
social criminals or nuisances. How far his notions of Christianity
may have been influenced by Poppaea we do not know. At least he believed
he was pleasing the populace. Grice: “Conte quotes from
Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good,
but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity –
surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza
prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep
referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that
Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative
mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale –
the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore
imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting
from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus
cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis
and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his
‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte.
Keywords: il sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della
logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare,
impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright
cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and
Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Conte” – The Swimming-Pool Library. Conte.
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