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Friday, April 26, 2024

GRICE ITALICO A/Z C 4

 

Grice e Catucci: l’implicatura conversazionale d’ego et alter, E ed A – i giocchi cooperativi – Meinong et al. teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” --  Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival Wired di Milano,  e al Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze, L'arte è un progetto? C. Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica C.-Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia C. -AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria C. Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole.  Il Kitsch: ieri, oggi, domani C. Riga - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society C. International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Saggio, Trattato Scientifico  Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata C.  Il corpo e le forme. Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte C. Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C. -Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Foucault's Militancy and Thought C.- Prison Architecture and Humans - Postfazione C. - Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami C. - Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Foucault C. Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione C. -  Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme C. Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo della matematica C.  La vetrata artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro; Mattoni; Gugliermetti; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Ca. Atto di convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC  (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. - I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra C.  L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Foucault e la vita degli uomini infami C. AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design C.; Lucibello, ANANKE (Firenze: Alinea, Preliminari a un'estetica della plastica C.Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design - Antropomorfismo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The name of the present C. DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile C. - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. C. - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto - - Mission to Mars- C.- HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia", universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and Beauty C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning and organization -  Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - Estetica della speranza C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Valéry -Visione e dispersione. La regia architettonica Moretti Catucci, Stefano -  Atto di convegno in volume conference: Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Moretti architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali,  -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua) Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - La terza dimensione C. Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing C. Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. - Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Il lavoro della dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a Foucault C. Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; C.; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone -  Capitolo o Articolo book: Parlare di musica  Costruire, abitare, patire C. - Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio C. Parlare di musica - La proprietà intellettuale come problema estetico C. FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov C. GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Foucault filosofo dell’urbanismo C. Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani C. Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista: «Gomorra» Dizionario di Estetica C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Il colosso senza immaginazione C. Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare C. Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C. - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - Estetica e Architettura C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - (Criticare l’estetica per criticare il presente C.Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza C. Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi La pensée picturale C.  Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario- Tre versioni del misurare C. SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica dell'abitare C. Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela  Ambiguità C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Architettura, teorie della C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Censura Ca. -Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Distruzione delle opere d'arte C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della C.  Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario Dizionario di Estetica - Originalità C/ Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo C.-Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Retorica C. Voce di Enciclopedia  Dizionario book: Dizionario di Estetica - Rispecchiamento C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Storicità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Struttura C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. - Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico C. -Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Estetica e politica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -  Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in musica C. GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan) - Estetica della censura C. Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme C. Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela  - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» C.  Senso e storia dell'estetica - La filosofia critica di Husserl C. Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione C. Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,  Bologna: CLUEB)  LA TEORIA COOPERATIVA Come accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata introdotta da von Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda- mentale per aver reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per aver proposto un cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi dell’economia, delle scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo proposto consiste nel tradurre i problemi in giochi opportuni, nel trovare le soluzioni di questi con le tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre le soluzioni trovate in termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di GIOCO COOPERATIVO dall’esigenza di analizzare il comportamento razionale di agenti che interagiscono in situazioni non strettamente competitive. In tal 15Strategia dominata invece `e quella tale che, ne esiste un’altra che procura al giocatore maggiore utilit`a, qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia dominata non pu`o far parte di un equilibrio di Nash. caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano fare alleanze, formare coalizioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di garantire una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che cosa distingue IL GIOCO COOPERATIVO da quello non cooperativo? Il fatto che si ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo Harsanyi, con Nash, per l’Economia, un gioco `e definito cooperativo se GL’ACCORDI TRA I DUE GIOCATORI SONO VINCOLANTI. In caso contrario, il gioco `e non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la teoria distingue fra quelli d’utilit`a trasferibile e quelli d’utilit`a non trasferibile. Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco d’utlita trasferibile gi`a sufficiente comunque a introdurre le idee principali di questo approccio. Per definire un gioco cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei giocatori, e dal dato, per ogni A N, di un numero reale, denotato con v(A). “A N” rappresenta una possibile coalizione; “v(A)” rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la stessa `e in grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. V `e detta la funzione caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante questa definizione `e di illustrarla con qualche esempio. Due persone sono interessate ad un bene che `e in possesso di una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta meno di chi lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione tra i tre). Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al bene. Gli altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200 e 300. Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono otto: {φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo inoltre porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200, v({1,3} = v(N) = 30017. Consideriamo invece il caso di un compratore (giocatore 1) e due venditori dello stesso bene; la situazione pu`o essere descritta efficacemente ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo caso, quando la funzione caratteristica v assume solo valori zero e uno, il gioco si chiama semplice, e v assume piu` il significato di indice di forza della coalizione (A `e coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non cambia se al posto di 1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia v, si assume che v(φ) = 0. 17 Perch ́e abbiamo definito in questo modo il gioco? Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione {2,3} non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3} possiede il bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva per meno).  Esempio: La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per azioni). Gli Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi cooperativi. Nel caso della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non un’utilit`a. E` naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo della pista piu` lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione. Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) = v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente che `e un problema analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu` complicato, perch ́e non `e chiaro a priori che cosa una coalizione possa garantire per s ́e. Una stima molto prudente potrebbe essere quello che rimane dopo che tutti gli altri creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a per azioni, siamo in presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle coalizioni in grado da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi di votazioni (semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco cooperativo con N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore ad n componenti, ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato dovrebbe essere chiaro: se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e l’utilit`a assegnata (o il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i. Tanto per fare un esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se proponessimo come soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del gioco prevede un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione invece rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino particolari propriet`a. Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di vettori, ad un altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene osservare che la soluzione in genere non `e interessata a quanto viene assegnato alle coalizioni, ma solo a quel che viene dato ai giocatori. Ancora una volta va ricordato che le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui utilizzano per ottenere il meglio per se. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı generale da rendere necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione: qui accenniamo rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve per prima cosa essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale che: 1. xi ≥ v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. SI RICHIEDE CIOE AD OGNI SOLUZIONE DI GODERE DELLE PROPRIETA DI *RAZIONALITA* INDIVIDUALE E DI EFFICIENZA COLLECTIVE. Ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile. Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili proposta sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in questo modello soluzione. Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100) nel gioco dei due compratori e un venditore  ( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e un compratore, mentre in quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). va distribuito (e ovviamente non di piu`). Questa richiesta `e quindi da ritenere minimale. In realt`a, visto che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che esse stesse gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fondamentali di soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto, rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio. Quello dei due venditori e un compratore. Un elemento del nucleo `e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare:  x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0   x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 .     x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1. La prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli individui. Essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2, cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0. Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora x1 = 1. Quindi, il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi. Nel gioco dei due compratori e un venditore, la soluzione proposta dal nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua presenza. D’altra parte questo `e logico. Se il terzo facesse un’offerta minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume esplicitamente, l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A N `e verificata in quasi tutti i giochi interessanti. Anzi, spesso i giochi verificano l’ipotesi detta di superadditivit`a, che cio`e v(A B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = , che stabilisce che l’unione fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i giocatori si metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N).   In questo caso, il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni propongono una soluzione diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono infinite varianti. Una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti sinistri, rispettivamente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno. Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di soluzione molto importante, soprattutto in applicazioni economiche. Per`o il nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di tre giocatori che si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal caso, le coalizioni di due giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire possibili spartizioni anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia soddisfatta della spartizione proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a parole, considera, per ogni possibile imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi. L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora qualunque sia la distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per ogni imputazione x, il lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella che si lamenta maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di utilit`a efficiente che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le distribuzioni che hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle che minimizzano il secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in questo modo si arriva ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata il nucleolo del gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di vendita `e 250, e cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del nucleo. Le condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle coalizioni formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 + x2 + x3) ≥ 3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2 + x3 = 1. Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione dell’imputazione x: e(A, x) = v(A) − 􏰙 iA   intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo; nel gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ): in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata, ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = 􏰚 (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \ {i})]. iAN n! L’indice di Shapley associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i} esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica inte- n!   ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi per giocare, in un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)! rappresenta la probabilit`a  n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ). Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12 fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’ piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente, perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti, ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione di un Parlamento, potrebbe essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti: esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di Arrow. Data una coalizione A, indicheremo con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla coalizione C `e la quantit`a v(C {i}) − v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto che il giocatore porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine d’arrivo dei giocatori. per l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le Scienze Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno dei modi possibili per valutare il potere dei giocatori in un gioco. Per concludere, ecco la risposta che d`a l’indice di Shapley al problema di come suddividere le spese per la costruzione della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2 − 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto significativo ma, per prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio c3, il che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice `e efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il risultato, ha la seguente interpretazione molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1, divide questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello stesso servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1: questa spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista. Il resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno del terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non deve essere considerato sintomo di confusione. La variet`a di situazioni che vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si considerino diverse soluzioni possibili. Sta a chi utilizza questi modelli scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato sensato. Per questo le varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a che servono a descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley ed il nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library. Catucci.

 

Grice e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu accolto nel suo circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla vittoria di Vercelli sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna capitale che lo attende.  Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio Lutazio Catulo.Catulo.

 

Grice e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Porch and a tutor of Antonino. Cinna Catulo. Catulo.

 

Grice e Cavalcanti: l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di C., in Rime. Figlio di Cavalcante dei C., nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.  Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.  La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico.  Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un emblema della leggerezza.  L'episodio figura anche nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.  La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi  Quadro di Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C.. I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.  Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante.  C. e un fine filosofo –  scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.  Il poetare di C., dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.  I versi di C. possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.  Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).  “Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo C. lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a C., egli afferma che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. C. ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che C. mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che C. intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, C. ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. C., dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità.  sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον, comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among the best known Italian  poets a sonnet asking interpretation of a dream. The god of love,  so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed her  with Dante's own heart, and had then departed weeping.   Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a  probable solution of this, and other such distressing visions, a dose  of salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri-  ously. Of their various interpretations that which best pleased  Dante, though not quite satisfied him, was C.’s  " And this," wrote Dante later in the New Life, " was, as it were,  the beginning of the friendship between him and me, when he knew  that I was he who had sent it (the sonnet) to him."   C.s interpretation was in an important particular ambiguous.  Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing that "vostra donna  la morte chedea" To understand this clause as meaning " Death  claimed your lady" is natural, and would make the interpretation  interestingly prophetic; but, whether or not this reading might be  justified symbolically, Dante himself forbids it. For, in spite of his  pleasure in his " first friend's " explanation of the dream, he added :  " The true meaning of this dream was not then seen by any one, but  now it is plain to the simplest." It was easy for him after the event  to read prophecy of Beatrice's death into the dream ; but he expressly  denies to Guido among the rest the prescience. We are bound,  therefore, to take as the interpreter's meaning that there was malice  prepense in the cannibal appetite of the sleeping lady, that she  claimed the death of her servant's heart. No wonder the love god  wept as he carried her off sated !   Irreverent though it be, one thinks of The Vampire of Kipling.  For Guido the gentle Beatrice was as "the woman who couldn't  understand," sucking, asleep, in a sort of diabolical innocence, the  life blood, literally eating the heart, out of her helpless victim. And  Dante, the lover, the victim, approves the picture !   Of course the gruesomeness of this symbolism may be explained  away as merely a conceitfully emphatic reassertion of the ancient  fancy that a lover's heart is no longer his own, but has passed into  the custody of his mistress. Only, the dream then and its interpre-  tation would indeed be a much ado about nothing. And why, at so  customary a happening, should love weep? In fact, Guido's thought  cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a sense,  from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire uplifted  into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of mysticism.   Before attempting to let in light directly upon this dim utterance  it is expedient to recall certain facts in Guido's life and personality.   " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento alio studio " —  so Guido is introduced into the Florentine Chronicle of Dino Compagni,  who knew him personally. Guido could not have been much over  twenty-five when, at the death of his father, his elder brother being  in orders, he became head and champion of one of the two or three  most powerful and aristocratic families in the republic. For gen-  erations the Cavalcanti had been leaders in the state, haughtily  contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic inde-  pendence against those who were willing to sacrifice this for the  dream of a " Greater Italy " united under a revivified Emperor of the  West. To this great feud and to the lesser local feuds which grew  out of it Guido may be said to have been a predestined, yet mostly  a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his life  long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his best  friend ; it certainly killed him before his time.   It married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene-  vento, when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell  with Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent  peace by marrying together certain sons and daughters of victors  and vanquished. Among the rest C. was wedded, or  then more likely betrothed, — for he could not have been more than  fifteen, — to Bice, daughter of the Ghibelline leader, the Florentine  " Coriolanus," Farinata degli Uberti. Seven years before Farinata  had "painted the Arbia red" with the blood of Florentine Guelphs  at Monteaperti; and it had been a kinsman of Guido who com-  manded the Guelphs on that disastrous day. We do not know how  this real " Capulet-Montague " match turned out, — only that Monna  Bice bore children to her husband and outlived him many years,  and that the peace which their union, among others, was intended to  effect did not come to pass.   On the contrary the great Guelph families, in secure  possession of the city, soon quarreled, even connived against each  other with the ever-ready Ghibelline exiles, or with popular dema-  gogues, so great was their common jealousy. Meanwhile, during  the distraction of the nobles, the middle classes had been prosper-  ing ; and coming at last to feel their strength and the weakness of  those above them, they rebelled and crushed the aristocrats.  In the first insolence of triumph they excluded the nobles abso-  lutely from public office, but two years later conceded eligibility to  such nobles as would join one of the Arti, or trades unions. This  virtual abdication of caste C. refused to make. In  vain good easy Dino pleaded with him. I am ever singing your  praises," he wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are,  and brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how  compact with sifted learning your mind is, and how you can run and  leap and outlast the best. Nor is there lacking you high birth  nor wealth ... in fine, the one thing wanting to give scope to all  these gifts and powers is a mere name.   " Ahi! com saresti stato om mercadiere! "   Now almost certainly some generations back the C. had  been in trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had  pleased them to entertain a genealogy reaching royally back into  Germany and descending into Italy with Charlemagne's baronage.  To traverse this pleasing legend with the gross title "om merca-  diere," tradesman, was out of the question : Guido declared himself  irreconcilable.   Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a temperament,  had accepted the situation even cordially, and was taking active  part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido must  have regarded his friend's secession with disgust seems natural. It  was worse than an offense against party; it was an offense against  caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era troppo  tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido. Fastidious,  exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to feel this  consorting of his friend with vulgar political upstarts incompatible  with their own intimacy. And the matter was made worse by its  open denial of their poetic profession of faith in the " cor gentile."  This vulgar folk was that " fango," that human " mud " of which  Guinizelli had written :   Fere lo sole il fango tutto'l giorno,  Vile riman . . .   how might the " gentle heart " mix itself with this irredeemable  "mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a  sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1   lo vengo il giorno a te infinite volte  e trovoti pensar troppo vilmente :  allor mi dol de la gentil tua mente  e d'assai tue virtu che ti son tolte.   Solevanti spiacer persone molte,  tuttor fuggivi la noiosa gente,  di me parlavi si coralemente  che tutte le tue rime avei ricolte.   Or non ardisco per la vil tua vita,   far mostramento che tu' dir mi piaccia,  ne vengo 'n guisa a te che tu mi veggi.   Se '1 presente sonetto spesso leggi  lo spirito noioso che ti caccia  si partira da Panima invilita. 2   1 1 believe that Lamma, in his Questioni Dante sche, Bologna, is the  first to propose this construction of the famous " reproach." It seems to me the  best of all.   2 1 come to thee infinite times a day  And find thee thinking too unworthily :  Then for thy gentle mind it grieveth me,  And for thy talents all thus thrown away.  Whether the two friends again came together in life is not known.  The next situation in which we hear of them is tragic. Dante is sit-  ting among his " first friend's " judges ; Guido is condemned to exile,  and goes — in effect — to his death.   Under the new bourgeois rule civic disorders rather increased than  otherwise. Prime mover of discord was the Florentine " Catiline," as  Dino calls him, Corso Donati. Somewhat ineffectually opposing his  self-seeking machinations were the parvenu Cerchi, powerful only  through wealth and the popularity of their cause. With these also  stood Guido. Hatred, no less than misfortune, makes strange bed-  fellows ; and the hatred between Guido and Corso was intense. Each  had sought the other's life : Corso meanly, by hired assassins ; Guido  openly, in the public street, by his own hand. Violence followed  violence ; the number of factionaries increased, until at last the city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido  was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among  these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with  fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso,  were recalled within the year, it was too late. A few months afterward, Guido died. " E fu gran  dommaggio" wrote Dino.  It was a strange preparation for "gentle and gracious rhymes  of love," — this short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is  but one direct echo of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet  to a kinsman, Nerone C.i. Nerone had made Florence too     To flee the vulgar herd was once thy way,  To bar the many from thine amity ;  Of me thou spakest then so cordially  When thou hadst set thy verse in full array.   But now I dare not, so thy life is base,   Make manifest that I approve thine art,  Nor come to thee so thou mayst see my face.   Yet if this sonnet thou wilt take to heart,   The perverse spirit leading thee this chase  Out of thy soul polluted shall depart. hot for the rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical  deprecation.   Novelle ti so dire, odi, Nerone,   che' Bondelmonti treman di paura,   e tutt* i fiorentin' no li assicura,   udendo dir che tu a* cor di leone.   E piu treman di te che d' un dragone  veggendo la tua faccia, ch* e si dura  che no la riterria ponte ne mura  se non la tomba del re faraone.   De ! com' tu fai grandissimo peccato  si alto sangue voler discacciare,  che tutti vanno via sanza ritegno.   Ma ben e ver che ti largar lo pegno,  di che potrai V anima salvare  se fossi paziente del mercato. Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.  Sacchetti's anecdote of the Florentine small boy who, having slyly  nailed Guido's gown to his bench, then teased him until the irate  gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has   1 News have I for thee, Nero, in thine ear.   They of the Buondelmonte quake with dread,  Nor by all Florence may be comforted,  For that thou hast a lion's heart they hear.   And more than any dragon thee they fear,   For looking on thy face they are as dead :  Bastion nor bridge against it stands in stead,  Nor less than Pharaoh's grave were barrier.   Marry ! but thou hast done a wicked thing,   Having the heart to scatter such high blood,  For without let now one and all they flee.   And 'sooth, a truce-bait too they proffered thee,  So that thy soul might still be with the Good,  Hadst but had stomach for the bargaining.   For the first quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.  In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the pope  has misled him. 2 // aVm 53^     its point in a very human satisfaction at the scorner scorned. Boc-  caccio's novella 1 is more significant, illustrating vividly, if perhaps  by a fictitious occurrence only, the subtle mingling of awe and defi-  ance which Guido inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a  eulogy. " He was one of the best thinkers (Joici) in the world and  an accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a  most engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what-  ever he undertook, and in all that befitted his rank." This character,  together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boccaccio's narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind Ophelia's  character of Hamlet :   The courtier's, soldier's, scholar's eye, tongue, sword ;  The expectancy and rose of the fair state,  The glass of fashion and the mould of form,  The observed of all observers. . . .   But, if we may still trust Boccaccio, " that noble and most sovereign  reason " of Guido was also " out of tune and harsh " with scrupulous  doubt ; " so that lost in speculation, he became abstracted from men.  And since he held somewhat to the opinion of the Epicureans, gossip  among the vulgar had it that these speculations of his only went to  establish, if established it might be, that there was no God."   BOCCACCIO (si veda) does not call Guido an atheist ; that was mere vulgar  gossip. He does not even declare him a convinced Epicurean, one  of those who with his own father   . . . P anima col corpo morta fanno.   Boccaccio's charge is qualified : " he held somewhat to the opinion  of the Epicureans " {egli alquanto tmea della opinione degli Epicurj).  Dante's commentator, indeed, Benvenuto da Imola, is more cate-  gorical and extreme : " Errorem, quern pater habebat ex ignorantia,  ipse (Guido) conabatur defendere per scientiam." Benvenuto is even  remoter in time, however, than Boccaccio ; and his phrasing suggests  at least a mere perpetuation of that vulgar gossip which Boccaccio con-  temptuously records. But can we trust Boccaccio's own testimony?  At least there is no antecedent improbability. Skepticism was  common, especially in the highly educated class to which Guido (Decam.) belonged ; and it was not unnatural at any rate for him to weigh  carefully an opinion held by his own father. Again, there is noth-  ing in either his life or writings to indicate an active faith. Much  indeed has been made of his " pilgrimage " to the shrine of St. James  at Compostella; but the mood of this was so little serious that a  pretty face at Toulouse was enough to change his intention. The  ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his contemporaries  could not take him very seriously as a pious pilgrim; and Muscia  stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there was  no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have started in  a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself imply  a wavering will ? He may have left Florence as a matter of prudence  — Corso tried to have him assassinated on the way as it was. As  for his writings, these, considering the intimate theological associa-  tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of religious  feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if narrow,  Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of "my  Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the  other hand, in his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his  answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend "  had not accompanied him, has beendiscredited after twenty years of  support by its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be sure,  still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his recanta-  tion, still admits the allegorical taking of it to be plausible as a sec-  ondary intention on Dante's part. In any case, even waiving the  confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not impugned ; and  in view of the persistent tradition, and of the antecedent probability  in its favor, the burden of disproof would seem to rest on those who  reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the credibility of  the tradition by assuming it. If the assumption proves to be a factor  in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry, the credi-  bility of the assumption proportionately increases. The argument  is of course a circle, but I think not a vicious circle.   There is also another tradition, which happens likewise to be sub-  sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with  unfaith in religion, so the other charges him with faithlessness in love.   i Inf., X, 60.   Hewlett, in his Masque of Dead Florentines,  has seized upon this supposed fickleness of Guido as Guido's char-  acteristic trait. Guido is made to say :   My way was best.  From lip to lip I past, from grove to grove :  I am like Florence ; they call me Light o' Love.   I am dubious indeed about that literal criticism which surmises a  " family skeleton " in every locked sonnet. Heine assuredly reckoned  without his Scholar when he complained :   Diese Welt glaubt nicht an Flammen,  Und sie nimmt's fur Poesie.   When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded him  with three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly fair  for Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third love  of his. Rossetti the scholar should have known better. Of course  Guido is simply copying a conceit from the Romance of the Rose : the  three arrows are three arrows from the eyes of one lady, not of three  ladies. Again, it is almost worse when poor Guido essays a pretty  pastourelle, which is by definition a gallant adventure between a pass-  ing knight and a shepherdess, to discuss the " peccadillo " in a solemn  footnote ! Yet Rossetti, himself a poet, does so. Nay, Guido's latest  learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his singing "anche i suoi  desideri meno puri e piu umani come nella ballata :   In un boschetto trovai pasturella . . ."   This ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such pseudo-  revelations of a stethoscopic criticism, there are, considering the  meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough besides the  mention of several ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference her  whom Dante calls Giovanna — to accept with discretion sober Guido  Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he inquires of C. concerning the nature, the effects, the virtues of Love :   Io ne domando voi, Guido, di lui :  odo che molto usate in la sua corte ;  Le Rime di C. Bologna. and even the cruder implication in Orlandi's boast of his chaster mind :   Io per lung' uso disusai lo primo  amor carnale : non tangio nel limo.   Reckless feudist, unbeliever, " light o' love," squire of dames, pro-  found thinker, gracious gentleman — a perplexing motley of a man;  it is no wonder that his poetry, reflecting himself, more easily with  its many-faceted light dazzles rather than illumines the understand-  ing. In addition, one has to contend in his more doctrinal pieces,  especially in the famous canzone of love, with a rigorous scholastic  terminology dovetailed into a most intricate metrical schema, and with  a text at the best corrupt. In spots Guido — as we have him — is  as hopeless as Persius; yet we may waive these and still venture  upon a general interpretation.   In general, Guido's love poems hinge upon two parallel but opposite  moods, — a radiant mood of worshipful admiration of his lady, a tragic  mood of despair wrought in him by his love of her. His sight of  her is a rapture, as in the most magnificent of his sonnets, beginning  " Chi e questa che ven ":   Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira  e fa tremar di chiaritate V a're,  e mena seco amor si che parlare  null' omo pote, ma ciascun sospira?   O Deo, che sembra quando li occhi gira   dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria contare :   cotanto d' umilta donna mi pare,   ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.   Non si poria contar la sua piagenza,   ch' a lei s' inchina ogni gentil virtute,  e la beltate per sua dea la mostra.   * Non f u si alta gia la mente nostra   e non si pose in noi tanta salute,   che propriamente n' aviam canoscenza. 1   1 Lo! who is this which cometh in men's eyes  And maketh tremulously bright the air,  And with her bringeth love so that none there  Might speak aloud, albeit each one sighs ? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It contains,  as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love, —  namely, in the lines describing his mistress as   Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize,  (cotanto d* umilta donna mi pare,  ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.)   Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis dominates  Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant of  imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection, of  peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she, the  lovable, in a state of meekness, —   Quiet she, he passion-rent.   The identification of passionate love with a state of wrath is fun-  damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of the  doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to the  query as to the where and whence of the passion —   La ove si posa e chi lo fa creare —  he declares that   In quella parte dove sta memora   prende suo stato, si formato come  diaffan da lume, — d'una scuritate  la qual da Marte vene e fa dimora. 1   " In that part where memory is love has its being ; and, even as light  enters into an object to make it diaphanous, so there enters into the   Dear God, what seemeth if she turn her eyes  Let Love's self say, for I in no wise dare :  Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize.   Words might not body forth her excellence,  For unto her inclineth all sweet merit,  Beauty in her hath its divinity.   Nor was our understanding of degree,  Nor had abode in us so blest a spirit,  As might thereof have meet intelligence.  1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition of Ercole Rival ta, Bologna, 1902.  constitution of love a dark ray from Mars, which abides." Now Dante  conceives love as an emanation from the star of the third heaven, Venus,  along a bright ray : " I say then that this spirit (i.e. of love) comes  upon the * rays of the star ' (i.e. of the third heaven, Venus), because  you are to know that the rays of each heaven are the path whereby  their virtue descends upon things that are here below. And inas-  much as rays are no other than the shining which cometh from the  source of the light through the air even to the thing enlightened, and  the light is only in that part where the star is, because the rest of the  heaven is diaphanous (that is transparent), I say not that this ' spirit/  to wit this thought, cometh from their heaven in its totality but from  their star. Which star, by reason of nobility in them who move it, is  of so great virtue that it has extreme power upon our souls and upon  other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido, on the other hand,  while accepting the notion of love as an emanation, holds the emanation to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along a dark  ray. The power over the soul of this star is no less extreme than  that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather than  of light. It may strike at life itself —   Di sua potenza segue spesso morte. The passion which its influence excites passes all normal bounds in  any case, destroying all healthful equilibrium :   L'esser e quando lo voler e tan to  ch' oltra misura di natura torna:  poi non s' adorna di riposo mai.  Move cangiando color riso e pianto  e la figura con paura stoma. . . . Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the influ-  ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in the  Conv.. (Wicksteed's translation.)   2 It has its being when the passionate will   Beyond all measure of natural pleasure goes :  Then with repose unblest forever, starts  Laughter and tears, aye changing color still,  And on the face leaves pallid trace of woes.  lover, impotent to reach the ever-receding goal of his desire (non   fermato loco):   La nova qualita move sospiri   e vol ch' om miri in non fermato loco   destandos' ira, la qual manda foco.This strangely pessimistic reading of love seems to have struck at  least one of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only  at the apparent slight upon love, but also at the silence seeming to  give assent of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his  Acerba, iii, 1, denies that so sweet a thing as love could emanate  from the planet Mars, seeing that from that planet rather " proceeds  violence with wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore :   Errando scrisse C. . . .  qui ben mi sdegna lo tacer di Danti.   In fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,  apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —   Spesse fiate vegnommi a la mente   l'oscure qualita ch' Amor mi dona —   and proceeds to describe, though not by this name, just such a  " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable from love.  With Dante, of course, the mood is but passing. For him love is  in its essence a beneficent power.   For Guido also it might seem that this tragic wrath of desire is  not incurable. There is a power in meekness to overcome wrath  and to subdue wrath also to meekness. And the meek one is  impelled to exercise this power, to confer this boon, by pity for the  one suffering in wrath. It is the failure to follow this blessed  impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of the  sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that she is one   . . . for whom availeth not  Nor grace nor pity nor the suffering state. . . .   (. . . verso cui non vale  Merzede ne pieta ne star soffrente. . . .)   1 The novel state incites to sighs, and makes  Man to pursue an ever-shifting aim,  Till in him wrath is kindled, spitting flame.  Meekness, grace, pity, the suffering state of wrath — the terms have  a scriptural sound, and of right ; for they are actually scriptural anal-  ogies applied to love. Precisely this poetical analogy was the innova-  tion of Guinizelli, whom Dante called " father of me and of my  betters," — of which last C. was in Dante's mind first,  if not alone. Before Guinizelli Italian poets had accepted the other  analogy of the troubadours of Provence, which applied to love the canon  of feudal homage. For these the lady of desire was as the haughty  baron to whom they owed servile fealty, and whose inaccessible mood  was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming willfully of  her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh canon  of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry built  upon an analogy with it must needs be an affectation. These burgher  poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard girls  were only play barons. Affectation, the pen following not the dicta-  tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the precise charge  which Dante, from the standpoint of the " sweet new style," brings  against the older style. 1 But if as free burghers Italians could not  really feel the alien mood of feudal homage, yet as Christian gentle-  men they could, and should, sanctify their love of women with the  mood of religious awe. There need be no affectation in that. Free  burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute baron ;  Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship, min-  istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom, as the  Psalmist had declared, the Lord has beautified with salvation.   Guido therefore can no more worthily praise his mistress than by  calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further analogy he  sets her above the angels themselves; for the Christ himself had said :  "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in heart." For him-  self, " passion-rent " in his love, the poet speaks as St. Paul, — " we . . .  had our conversation ... in the lusts of our flesh, fulfilling the desires  of the flesh and of the mind ; and were by nature the children of wrath  (filii irae)" And the merzede, the "grace," for which he sues — solu-  tion of wrath by the spirit of meekness — is again in accord with  Paul's promise to these very "children of wrath," — "By grace are ye  saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one  divinity as the other.   i Purg. This is pious doctrine indeed for the righting cavalier, skeptic, Love-  lace I have in a measure assumed Guido to be. Is then his love creed  also a pose, worse than the apes of Provence whom Dante exposed,  because he thus adds hypocrisy to affectation ? Well, if so, the same  Dante would hardly have hailed him as "first friend" in life and  master after Guinizelli in poetry, nor have outraged the memory of  Beatrice by associating her in the New Life with Guido's lady Joan.   The solution of the apparent antinomy lies in the meaning for  Guido of that rnerzede, that " grace," the granting of which by ; the  lady, the meek one, might appease the lover, the one in "wrath."  The term itself — Italian merzede or English " grace " — has a fourfold  significance according as it is a function of the lady, of the lover, or  of the reciprocal relationship between them. "Grace" in her signifies  her beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which through  faith and loving service deserves the boon, or "grace," of her con-  descension to redeem him from his "state of wrath," for which  condescension it would be befitting him to render thanks, "yield  graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante, —  render mercede. Of this fourfold intention of the term the one funda-  mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted by the act of  condescension of the lady : what then is the grace or boon that the  lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire ?   The answer is no mystery. The end of desire is always possession,  in one sense or another, of the thing desired. In the practical sense  possession of the loved one means union, physical or social, or both,  sacramentally recognized, in marriage ; but the sacrament of marriage  allows a more mystical sense, presenting the ideal, hardly realizable  on earth, of a spiritual union which is also a unity of two in one :   The single pure and perfect animal,   The two-cell'd heart beating with one full stroke,   Life.   So Tennyson modernly ; but more in accord with the metaphysical  mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :   So they loved, as love in twain  Had the essence but in one ;  Two distincts, division one:  Number there in love was slain.   To the " gentle heart " there is no love but highest love ; there is  no union but perfect union, wherein two shall   Be one, and one another's all.   Until the "gentle heart " may attain to that perfect union its desire  is unappeased, its " wrath " unsubdued. Tennyson premises it for  the right marriage; but there is ever the doubter ready to remark  that if such marriages are really made in heaven, they certainly  are kept there. Human sympathy cannot quite bridge the span  between two souls: self remains self; and though hands meet and  lips touch and wills accord, there is always something deeper still,  inexpressible, unreachable.   Yes ! in the sea of life enisled,  With echoing straits between us thrown,  Dotting the shoreless watery wild,  We mortal millions live alone.   In vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the  division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man,  each desiring his other half, came together, and threw their arms  about one another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes  in effect goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered  " man-woman " by physical union ; but that consolation the " gentle  heart " must forever regard as of itself inadequate and unworthy.   There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read further into  the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built upon that  — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of a  love extending into a mystic otherworld — at least so Christians read  her teaching — where in the bosom of God all become as one. There  "wrath" is resolved into "meekness" perfectly.   The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of happier men  of which Arnold speaks :   Of happier men — for they, at least,   Have dream '</ two human hearts might blend   In one, and were through faith released   From isolation without end   Prolong'd. But if Guido, even as Arnold, lacked this faith, doubted this mystic  otherworld whither therefore he might not accompany his first friend  to find his Giovanna, as Dante his Beatrice, perfect in meekness,  purged of all wrath, and to learn from her release hereafter from the  dividing flesh, union at last with her spirit at peace ? — if he was of  those, even uncertainly wavered with those, who   . . . F anima col corpo morta f anno ? —   then indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted,  so its grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His  must be a passionate loneliness forever teased by an illusion, a  phantom mate of its own conjuring. And I at least so understand  the concluding words of the canzone :   For di colore d'esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade :   for d'onne fraude dice, degno in fede,   che solo di costui nasce mercede. That is, the only love of which grace is born, entire possession  granted, is love of the dim immaterial idea, — " la figlia della sua  tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls it. Ixion embraces his  Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her " meekness," exists not  in her, but in his glorified ideal of her, " bereft " as that is " of color   1 Bereft is (love) of color of existence,   Seated half dark, it bars the light (i.e. which might make it visible).  Without deceit one saith, worthy of faith,  That born of such a love alone is grace.   Rivalta's reading without in would apparently make mezzo adverbial. The commoner reading, " assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as  a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not substantially  different. The reading in mezzo, however, is more suggestive, as implying not  only the immateriality of the mental fact but also the darkening of the " medium,"  i.e. the imagination, by the " Martian " ray of passion. The assertion of the  invisibility of love is in answer to Orlandi's question restated by C. — " s* omo per veder lo po y mostrare." Question and answer are alike  absurd, however, unless we understand "love" to mean the object loved, which it  may naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's lady.  of existence." Therefore Guido's mood is essentially one with Leo-  pardi's when the latter exclaims :   Solo il mio cor piaceami, e col mio core  In un perenne ragionar sepolto,  Alia guardia seder del mio dolore. 1   Guido has himself described with quaint " preraphaelite " symbol-  ism the process of progressive detachment of the ideal from the  real in the ballata beginning " Veggio ne gli occhi."   Cosa m* avien quand* i' le son presente  ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire :  veder mi par de la sua labbia uscire  una si belladonna, che la mente  comprender no la pu6 ; che 'nmantenente  ne nasce un* altra di bellezza nova,  da la qual par ch' una Stella si mova  e dica: la salute tua e apparita. 2   The imagery here is manifestly in accord with contemporary pictorial  symbolism, in which souls as living manikins issue forth from the  lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it, at  one with that of the so-called Platonic " ladder of love " by which  through successive abstractions the pure idea, the intelligible virtue,  is reached. The following stanza in the same ballata again defines  this "virtue" as "meekness," and again declares it to be merely  " intelligible,"   for di colore d' esser . . . diviso,  assiso mezzo scuro luce rade ;   1 Only my heart pleased me, and with my heart  In a communing without cease absorbed,   Still to keep watch and ward o'er my own smart.   2 Something befalleth me when she is by   Which unto reason can I not make clear:   Meseems I see forth through her lips appear   Lady of fairness such that faculty   Man hath not to conceive ; and presently   Of this one springs another of new grace,   Who to a star then seemeth to give place,   Which saith: Thy blessedness hath been with thee. only instead of the metaphysical directness of the canzone, the poet  employs the theological tropes of the dolce stil.   La dove questa bella donna appare  s'ode una voce che le ven davanti,  e par che d' umilta '1 su' nome canti  si dolcemente, che s' P '1 vo' contare  sento che '1 su* valor mi fa tremare.  E movonsi ne 1' anima sospiri  che dicon : guarda, se tu costei miri  vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1   And now the tragic note in Guido's is explained. It is neither  the polite fiction, the " pathetic fallacy " of the Sicilian school, nor  yet the quickly passing shadow of this life set between Dante and the  sun of his desire.   La tua magnificenza in me custodi,   SI che P anima mia che fatta hai sana,  Piacente a te dal corpo si disnodi.   Cosi orai "So I prayed," writes Dante, triumphant in expectation ; but for those  Che 1 'anima col corpo morta fanno,   there could be health of soul neither now nor hereafter. Wherefore  Guido's text in the analysis of his own passion is in all literalness  the words of the Preacher, — " All his days ... he eateth in dark-  ness, and he hath much sorrow and wrath in his sickness." Until   1 There where this gentle lady comes in sight   Is heard a voice which moveth her before  And, singing, seemeth that Meekness to adore  Which is her name, so sweetly, that aright  I may not tell for trembling at its might.  And then within my soul there gather sighs  Which say: Lo ! unto this one turn thine eyes:  Her virtue to heaven wingeth visibly.   2 Farad., XXXI, 88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as Dante,  but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e Morte:   Nova, sola, infinita  Felicita il suo (the lover's) pensier figura :  Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete,  Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio,  Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1   Poi, quando tutto avvolge  La formidabil possa,  E fulmina nel cor Tinvitta cura,  Quante volte implorata  Con desiderio intenso,  Morte, sei tu dair affanoso amante ! 2   Precisely in this mood Guido invokes death :   Morte gientil, rimedio de' cattivi,   merze merze a man giunte ti cheggio :  vienmi a vedere e prendimi, che peggio  mi face amor : che mie' spiriti vivi   1 Not only are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but even  their figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism  between the soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian  ray of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived his  " dark ray " as a real phenomenon.   2 New, infinite, unique  Felicity ... he pictures to his mind :  And yet because of it the wrath of storm  Foreboding in his heart, he longs for calm,  Longs for the quiet haven  Far from that fierce desire,  Which even now, rumbling, darkens all around.   Then, when o'erwhelmeth him  The fury of its might,   And in his heart thunders unconquerable care,  How many times he calls  In agony of need,  Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si, che quivi,  dov* i' stava gioioso, ora mi veggio  in parte, lasso, la dov' io posseggio  pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi   ancora in piu di mal s' esser piu puote ;  perche tu, morte, ora valer mi puoi  di trarmi de le man di tal nemico.   Aime ! lasso quante volte dico :   amor, perche fai mal pur sol a' tuoi  come quel de lo 'nferno che i percuote ? 1   At other times Guido describes the combat to the death between  his " spirits " of life and love. He enlarges his canvas and, calling  to aid a whole dramatis personae of the various " souls " and "animal  spirits" of scholastic psychology, objectifies his mood into miniature  epic and drama. This mythology of the inner world arose naturally  enough to mind from the ambiguity of the term " spirits," meaning  at once bodily humors and bodiless but personal creatures ; and  in Guido's delicate handling the symbolism is singularly effective.  Only by exaggeration of imitation did it grow stale and ludicrous,  meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte piene di   1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,   Mercy, mercy with clasp'd hands I implore :  Loo^ down upon me, take me, since more sore  Hath been love's dealing : in so evil state   Are brought the spirits of my life, that late   Where I stood joyous, now I stand no more,  But find me where, alas ! I have much store  Of pain and grief with weeping : and my fate   Yet wills more woe if more of woe might be;   Wherefore canst thou, death, now avail alone  To loose the clutch of such an enemy.   How many times I say, Ah woe is me 1   Love, wherefore only wrongest thou thine own,  As he of hell from his wrings misery ?     3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate his  manner in this kind.   L' anima mia vilment' e sbigotita   de la battaglia ch* ell' ave dal core,  che, s T ella sente pur un poco amore  piu presso a lui che non sole, la more. Sta come quella che non a valore,   ch' e per temenza da lo cor partita :  e chi vedesse com' ell* e fuggita  diria per certo : questi non a vita.   Per gli occhi venne la battaglia in pria,  che ruppe ogni valore immantenente  si, che del colpo fu strutta la mente.   Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,  se vedesse li spirti fuggir via,  di grande sua pietate piangeria. 1   It transpires then for Guido as for Leopardi that the only grace,  the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is verified   1 The spirit of my life is sore bested   By battle whereof at heart she heareth cry,   So, that if but a little closer by   Love than his wont she feeleth, she must die.   She is as one dejected utterly ;   The heart she hath deserted in her dread :  And who perceiveth how that she is fled,  Saith of a certainty : This man is dead.   First through the eyes swept down the battle-tide,  Which broke incontinently all defense,  And by its wrath wrecked the intelligence.   Whoever he that most of joy hath sense,  Yet if he saw the spirits scattered wide,  In his excess of pity must have sighed.  %\   the warning of those who came to meet him when he first entered the  court of love :   Quando mi vider, tutti con pietanza  dissermi : fatto se' di tal servente  che mai non dei sperare altro che morte. 1   In reality, he knows the futility of any appeal to his lady for aid.  She is indeed the innocent occasion of his suffering, but of it she is  a mere passive spectator, hardly understanding it, and certainly help-  less to relieve it ; and so Guido himself describes her in the sonnet  beginning " S' io prego questa donna." In the midst of his agony,   Allora par che ne la mente piova  una figura di donna pensosa,  che vegna per veder morir lo core. 2   Here then at last we find the explanation of his interpretation of  Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's heart to his lady,   vegendo  che vostra donna la morte chedea.   She claimed its death not willfully indeed, as the capricious mistress  of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his mutilation, but innocently,  unwittingly, in that her beauty was as a firebrand, her perfection, her  " meekness," a goal of unavailing consuming desire. She is helpless  to relieve him, because — and here is the core of the matter — it is  not she, not the real woman, that he loves, but that idealization of  her which exists only in his own mind —   for di colore d' esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade.   Compared with this glorified phantom "nel ciel (that is, into the  intelligible world) salita," the real woman also is but "ira," wrath  and imperfection. So he pines for his lady of dreams, who thus a   1 When they beheld me, unto me all cried   Pitiful : bondman art thou made of one   Such that for nought else mayst thou look but death.   2 " Into my mind then seems it that there rays a figure of a pensive lady, com-  ing to behold my heart die." ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but the real woman,  " the woman who does not understand," is no longer of moment to  him. She is, as it were, but the nameless model to his artist mind.  When that has drawn from her all that is of fitness for its master-  piece, it straightway leaves her for another otherwise completing the  ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives.   Una giovane donna di Tolosa   bell' e gentil, d' onesta leggiadria,   tant' e diritta e simigliante cosa,   ne' suoi dolci occhi, de la donna mia,   ch' e fatta dentro al cor desiderosa   P anima in guisa, che da lui si svia  e vanne a lei ; ma tant* e paurosa,  che no le dice di qual donna sia.   Quella la mira nel su* dolce sguardo,  ne lo qual face rallegrare amore,  perche v' e dentro la sua donna dritta.   Po' torna, piena di sospir, nel core,   ferita a morte d* un tagliente dardo,  che questa donna nel partir li gitta. 1   Plainly it is not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his  ideal woman, of whom Giovanna herself was but a reminiscence, that   1 A lady of Toulouse, young and most fair,  Gentle, and of unwanton joyousness,  So is the very image and impress,  In her sweet eyes, of one I name in prayer,   That my soul's wish is more than it can bear :   Wherefore it 'scapeth from the heart's duress  And cometh unto her ; yet for distress  What lady it obeys may not declare.   She looketh on it with her gentle mien,   Whereunto by the will of love it yearns,  Because that lady there it may perceive.   Then to the heart it, full of sighs, returns,  Unto death wounded by an arrow keen,  The which this lady loosed when taking leave. Mandetta reminds him. In her turn Mandetta will pass also. Then  will come Pinella, or another — what does it matter? What cared  Zeuxis for any one of his five Crotonian maidens, once each in her  turn had supplied that particular trait of loveliness which only she,  perhaps, had to offer, but had to offer only ?   Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in prima  Apresso V alma, che per gli ochi vede,  L' inmagin dentro crescie, e quella cede  Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1   The words are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's. And  it is an idea which, I think, renders perfectly compatible in him con-  stancy in ideal love with inconstancy in real loves. To keep faith  with perfection is to break faith with imperfection. The love of  Guido brooked no compromise. The perfect one might be unattain-  able in this life; perfect union with her, even if found, might be  impossible in this life; there might be no other life than this so  marred by the perpetual " state of wrath " to which his impossible  desire in its impotence doomed him ; yet nevertheless Guido was  willing to be damned for the greater glory of Love.   In conclusion, I would quote a passage from the elegy to Aspasia  of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I con-  ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by its  scholastic terminology and its mixture of chivalric and obsolete  psychological imagery. Especially I would call attention to the  precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in his  mood the loftiest idealization of Woman with the most contemptuous  conception of women. So Hamlet insults, even while he adores.  Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's immortal  rebuke, — when he   . . . volse i passi suoi per via non vera,  Imagini di ben seguendo false.   1 While to the beauty, which first drew my gaze,   My soul I open, which looketh through the eyes,  The inward image grows, the outward dies  In scorn away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism, ultimate unfaith, by the  promise of perfect union with his ideal in paradise. That promise  Guido, like Leopardi, rejected.  Here is Leopardi's confession :   Raggio divino al mio pensiero apparve,  Donna, la tua belta. Simile effetto  Fan la bellezza e i musicali accordi,  Ch' alto mistero d* ignorati Elisi  Paion sovente rivelar. Vagheggia  II piagato mortal quindi la figlia  Delia sua mente, l'amorosa idea,  Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,  Tutta al volto, ai costumi, alia favella  Pari alia donna che il rapito amante  Vagheggiare ed amar confuso estima.  Or questa egli non gia, ma quella, ancora  Nei corporali amplessi, inchina ed ama.  Alfin Perrore e gli scambiati oggetti  Conoscendo, s' adira .  (" Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a gloss  to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath directed  against the real woman, innocent occasion of his illusion and disillu-  sion. Leopardi continues :)  e spesso incolpa  La donna a torto. A quella eccelsa imago  Sorge di rado il femminile ingegno;  E ci6 che inspira ai generosi amanti  La sua stessa belta, donna non pensa,  Ne comprender potria.  (" The woman who does not understand " !)  Non cape in quelle  Anguste fronti ugual concetto. E male  Al vivo sfolgorar di quegli sguardi  Spera V uomo ingannato, e mal richiede  Sensi profondi, sconosciuti, e molto  Piu che virili, in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli  E piu tenui le membra, essa la mente  Men capace e men forte anco riceve. 1   So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns himself  with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last truly  mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have not  somewhere gone off on a tangent, I have described my circle. Guido's  philosophy of love at least fits with the hypothesis of his skepticism,  and a practical consequence of both would be that actual fickleness  of heart to which tradition again bears witness.   1 A ray celestial to my thought appeared,  Lady, thy loveliness. Similar effects  Have beauty and those harmonies of music  Which the high mystery of unfathomed heavens  Seem ofttimes to illumine. Even so  Enamoured man upon the daughter broods  Of his own fancy, the amorous idea,  Which great part of Olympus comprehends,  In feature all, in manner, and in speech  Unto the woman like, whom, rapturous man,  In his false lights he seems to see and love.  Yet her he doth not, but that other, even  In corporal embracings, crave and love.  Until, his error and the intent transferred  Perceiving, he grows wrathful ; and oft blames  With wrong the woman. To that ideal height  Rarely indeed the wit of woman rises ;  And that which is in gentle hearts inspired  By her own beauty, woman dreams not of,  Nor yet might understand. No room have those  Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly  Upon the spirited flashing of that glance  Builds the infatuate man, and fondly seeks  Meanings profound, undreamt-of, and much more  Than masculine, in one than man in all  By kind inferior. For if more tender,  More delicate of limb, so with a mind  Less broad, less vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto.  – l’amore come incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. Cavalcanti.

 

Grice e Cavallo: l’implicatura conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro – fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza.  Si lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Fisico; recatosi per commercio in Inghilterra, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica. Ha intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio.  Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard. Storia e pratica dell'aerostazione, C. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno C. pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il memoriale di Coutts, Old St. Pancras. Il nome di C. è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici di C. comunicato da Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI.  FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec. A voi solo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della vostra nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo. Suo C., Sig. Magellan Nevils Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI C. SULL' ELETTRICITA'. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe. Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. . Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi: Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi, cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto, che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità. Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione. Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della Boccia di Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità.. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici, e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull' influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati.  Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo. Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi: ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al FILOSOFO, all' opulento ugualmente che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine, dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il Lincurio poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era tutto cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità, a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni. Tale fu  Bacone, Boyle, Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata, rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig. Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente, fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Priestley, opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu. accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che ſi chiama boccia di Leida in ventata da Muſchenbroeck. Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento. Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti, di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of Philofophizing. The word FILOSOFIA, though used by ancient authors in senses somewhat different, does, however, in its most usual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philosophy treats of the manners, the duties, and the condud of man, considered as a rational and social beings but the business of natural philosophy, is to colled the history of the phenomena which take place amongst natural things, viz. among the bodies of the universes to investigate their causes and effects; and thence to deduce such natural laws, as may afterwards be applied to a variety of useful purposes. The word philosophy is of Greek origin. PITAGORA, a learned Greek, seems to have been the firfl who called himfelf philosopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies; and the assemblage or fyftem of them all is called the universe. The word “phenomenon” signifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our senses. Thus the fall of a stone, the evaporation of water, the folution of salt in water, a tlafh of lightning, and fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. “Phenomenon,” whose plural is “phenomena”, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the air we breathe; the action and power of our limbs; the light, the found, and other perceptions of our fenfes; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the original piece of wood. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain circumftances; therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible; and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature.  Mary Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in experiments with electricity on the dead  Jamie Doward  It is one of the most famous novels of all time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost as well known as its terrifying central character.  Mary Shelley’s Frankenstein: or the Modern Prometheus was published.  It was the result of a challenge laid down by Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland.  The party had hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should write a horror story.  For days Shelley suffered writer’s block until she came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for experimentation.  But it now appears Shelley’s true source of inspiration for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically generated electricity – that sparked her imagination.  Shelley. Shelley. Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated by science, in particular the creation of electricity. “He was very excited by galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the family sit around the dining room table holding hands, and he’d turn up with some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.”  On one occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at Oxford.  Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that the book was, contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is by her and should be attributed to her.”  Sent down from Oxford for co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got from talking to her husband about laboratories was that they were really filthy places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein. There was something really disreputable about medical science, which Mary Shelley is fascinated in.”  She would have been aware of notorious public experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes. A very Frankenstein moment.”  At the time Mary was writing, the rights of animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford comparable rights to non-human sentient creatures?”  Two centuries on, the novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing questions about matters such as artificial intelligence and genetic modification.  But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully recognised.  “Her reputation has been overtaken by the films, which have oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s intelligent and sentient.  “People need to see this as a novel for today. It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico, filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.

 

Grice e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with food.

 

Grice e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible to a wide audience.

 

Grice e Cazzaniga: l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated once – BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor”; Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). C., “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. C. et al. (Milan: Unicopli),  C., “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in C., La Massoneria,  Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, C. ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come C., il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto C. a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. C. stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle guerre di religione. Per molti cittadini della République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di C. trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di C. è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione  riveli la sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi. THE MASCULINE   CROSS   t PHALLIC WORSHIP     PHALLIC WORSHIP    A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON. The present somewhat slight sketch of a most interesting  subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost,  some of which being issuedfor private circulation only, are almost  unobtainable.   During the past few years several books have been written  upon Phallicism in conjunction with other kindred matters,  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery,  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world.   Many of the topics have received only slight treatment,  being little more than indicated ; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients.   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book, should consult the large  and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,  Kolle, Inman, and other writers.   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject, but the length  of the list prevented its being added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP   Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings.   Among the ancients, whether the Sun, the Serpent,  or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same—the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubt¬  less Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not long  before the emblems lost their pure and simple meaning  and became licentious statues and debased objects.   Hence we have the depraved ceremonies at the worship  of Bacchus, who became, not only the representative  of the creative power, but the God of pleasure and  licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries,  willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in India and  Egypt, and among the Phoenicians, Babylonians, Jews  and other nations.   Sex worship once personified became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience; monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of Isis and Venus on the one hand, and of Bacchus  and Priapus on the other, by appealing to the most  animating passion of nature. This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the  Creator. The one male, the active creative power;  the other the female or passive power ; ideas which were  represented by various emblems in different countries.  These emblems -were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people ;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the.present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the “ Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence through¬  out Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.  “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island. “ They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems.”  The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their re¬  ligious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member (membrum virile), signifies,  “ he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfahl, and pole in English. Phallus is supposed Phallic Worship ii  to be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or  phallo , “ to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to  be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation: a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity. “ If it were discovered,”  says Crawford, “ that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says : Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical representations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship ; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are “ identical  in shape, meaning, and purpose with the * pillars ” set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day ; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring.   The May festival was carried on with great licentious¬  ness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England: “ Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indiffer¬  ently ; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes; and in the  mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, foliowyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.” The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities. PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of “ The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as  “ Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the 'Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature.”According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says  O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superinendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settle¬  ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship. Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “ are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones,’ as they were  anciently * living stones ’ and * stones of God,’ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs are pointed out by Ezek.   B 14. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also. “ Beltus,” says  Inman, “ was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the  females or passive by the principles of “ water,” “ soft¬  ness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬  sented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea ; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies “ to be straight,” “ upright,” “ fortunate,”  “ happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross.    THE CROSS   The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that “ The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.” Another writer says, “ Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of   the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright—the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies * my  Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier; and still further per¬  sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says “ whoredom was committed with the  images of men,” or, as the marginal note has it, images  of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark  —a cross in the form of the letter T—that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judata  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical, and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality—worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad —three in one. The  female was the unit ; and, joined to the male triad, con¬  stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa¬  tion of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross , besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner: Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius ’;  upon the left branch ‘ Belenus ’; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;  under all, the same repeated, Thau.”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter  “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means  (1) the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4)  origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says :  “ Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni,’ which I prefer to write ‘ IOni.’ As Lingam was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight: “ The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concoa Veneris , which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta —a truly immaculate  female—if the truth can be strained to so denominate  a mother. The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum, we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A 1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  “ the Yoni is my God,” or “ I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,”  “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the  heat of love,” or “ the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim . Our “ God is love ” ?  (i John iv. 8).   The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.    26    Phallic Worship    though the language is dressed in the habiliments of seem¬  ing decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 13). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals.  The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :  “ Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2,  and xlvii. 29). This practice evidently arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphe¬  mistic expression thigh, was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges  vii. 30. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator, and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman: “I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship and mysteries. Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive    28    Phallic Worship    punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have “ removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess ; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World , describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Greeks and Romans,    Phallic Worship    2 9   was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, “ It should not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God,’  * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the “pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work: “ The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple.”   Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in i Sam. ii. 22, where “ the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh,  designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible—an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out offensively  bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬  crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times ; and we find that “ holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Idol , selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh per¬  forming a wild and enticing dance ; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to " divine,” sexual, generative, or creative  power; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the  strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ” ; Asher,  “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is  Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is  upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ; Aram,  “ high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my  Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett,  “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan,    “ he stands upright ” ; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously :   “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine, it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked  among the Jews were described as “ inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone, in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh—that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says: “ These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins, which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above—“ born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy; they  called these holes “ Cunni Diaboli ” ( Anacalypsis , p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names  for the same god, the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner. The Liberalia is celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of a Phallus is carried openly in  triumph. These festivities are more particularly celebrated among the rural or agricultural population, who, when the preparatory labour of the agriculturist is over,  celebrate with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time is to bring forth the fruits.  During the festival, a car containing a huge phallus is  drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest matron suddenly lays aside her decency and runs screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.  The Bacchanalian feasts are celebrated in the latter part  of October when the harvest is completed. Wine and  figs are carried in the procession of the Bacchants, and  lastly come the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora , who carry baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carry poles, at the end of which are figures representing the organ of  generation. The men sing the Phallica and are crowned  with violets and ivy, and have their faces covered with  other kinds of herbs. These are followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses run in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingle, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals are carried into the night, and it is then  frenzy reaches its height. Deodorus says, “ In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Mamades, who accompanied him.” These  festivities are carried into the night, and as the celebrators  become heated with wine, they degenerate into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy is exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the streets, striking the women  they met on the hands and belly, which is held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus is celebrated towards the beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mix with the multitude in perfect nakedness,  and excite their passions with obscene motions and  language until the festival ends in a scene of mad revelry,  in which all restraint is laid aside.”   It is said that these festivals take their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus.  It seems not at all improbable that the deities wor¬  shipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Caesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles ; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baa]. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires ; he says :—“ on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis, says this super¬  stitious custom still continues, and that on “ particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially for¬  bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signfied by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob  put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the  same for a place of worship; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were,—always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says:—“ There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . .  We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus.  Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus—who lived in an age before the Trojan war—  which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyroetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an     42    Phallic Worship    altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called kypcethral,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title (“ surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times ; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace—for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬  ordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss , or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several  fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertions of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monu¬  ments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been some¬  thing singular and important; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned at all; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at.  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name .—Pajne Knight’s  Worship of Priapus.    Says Hyslop :—“ The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.” “ One species of  bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Boun’ Diogenes  mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says :—“ The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient limes we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated ; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one.   Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)  says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mulloi, shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the  “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes —feast of the  privy members—and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne , at the end of their  palm branches ; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at Brives ; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places.    THE ARK AND GOOD FRIDAY   The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all tilings sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle  —the Creator; the second, the passive or female, the  germ of all animated things—the Preserver; and the  last the Destroyer: the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent.   “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of    48    Phallic Worship    the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was torn to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle—as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During  the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen—that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The s imila rity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  not according to our present reckoning; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the “ Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot cross¬  bun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion—that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says :—“ In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eoster-  mona, and that the name of the goddess had been frequently given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread ; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment—or other evil influences  which might arise from their former heathen character—  they marked them with the Christian symbol—the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.”  The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date ; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo; its capital being the same  seed-vessel pressed flat, as it appears when withered and  dry—the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horixontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars .—Payne Knight.  Stripped, however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus , by which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of Brt'apuos  (clamorous); the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments ;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing. 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight’s “ Symbolical  Language of ancient Art and Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells ; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades.The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion:—“ Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester them¬  selves from this world ; they lived retired from the towns ;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced  the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten;  the things of the Poojah (worship) lay neglected; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night—attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them ; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said—‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose! Stay with us and we will serve thee; not  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee.’ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrass¬  ment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid—the women, the Pandaram.   “ But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than before. They then performed various penances; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.   “ Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬  selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices ; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire witti indignation against the  human race; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped, which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau, attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand ; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices,  all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims ; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray. BEADS   Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity ; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity ; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre.    THE LOTUS   The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the “ Mymphoea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga; the petals and filaments are the mountains  which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day—I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins's Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where tney are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, likfe other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry , does or ever did prevail.  The sacred images of rhe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc.  The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says :—“ The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of  the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Pbilce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients: We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years); after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became pre¬  dominant in the mind of the Great Creator . In the first    Phallic Worship    63    place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, £ Who is it that produced me ? ’  * whence came I ? ’ ‘ and where am I ? *   “ Brahma, thus kept two hundred years in contem¬  plation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected—again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man  of perfect beauty; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus :—‘ O Bhagavat! since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground.    MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount  Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.  Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris , through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.”   In one oi the smaller temples was an image of Lingam,  “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the “ Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says :—“ Women sought a remedy for barren¬  ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.”   The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex: such as the shell or  Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there¬  fore associated with him in the most ancient oraculai   temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective sub¬  ordinate attributes were on other occasions added:  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name—the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the    Phallic Worship    69    Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant: whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica , which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic orna¬  ments extant; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles. “ The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century, “ shun disputes and believe that  almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de  Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied, “ that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same sentiments and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? ”   The Hindus profess exactly the same opinion. “ They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them, “ but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed—like that of the Greeks and Romans—remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted  whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calum¬  niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated.   These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country, performed them in a manner pleasing to the  Deity. Hence the Romans made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist of ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. “ Even they who worship other gods, says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know it not ''—  Payne Knight.  Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.

 

Grice e Ceccato: l’implicatura conversazionale del plusquamperfectum --  implicatura imperfetta --  il perfetto filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical conjunctions  and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di Rimini.  Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate.  Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed.  Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE, di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita...  L ' Anatomica methodus, di  Laguna, Pisa, Giardini, C., comp: Corso di linguistica operativa. A cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni nel testo. Milano, Longanesi,  lllus. Language and Behavior was published in Italian translation, thanks to C. (cf. Petrilli). C., padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ”, di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di C. - Page 5books.google.com › books· Translate this page · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura di C.. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta delle Macchine) This monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used in...  Foundations of Language, Page 171books.google.com › books 1965 · ‎Snippet view FOUND INSIDE .. with his hand, when he moves the pieces, he performs a manual, a physical activity. Foundations of Language. The two types of activity can be distinguished in a 171 C.. I use an operational approach to mental activity based on C.. TECNICA OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest approaches implemented on a computer (University of Milan). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di C., di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951. Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction, told me that once, after a public discussion of his theory, he overheard a philosopher say: " If Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames, and C.s approach also involved the use of world knowled.  It is the purpose of this paper to define and differentiate the  various uses of the imperfect indicative, to discover if possible  their origin and trace their interrelations, to outline in fact the  history of the tense in early Latin. The term ' early Latin is  used somewhat elastically as including not only all the remains of  the language down to about the time of Sulla, but also the first  volume of inscriptions and the works of VARRONE, for  Varrone belongs distinctly to the older school of writers in spite  of the fact that the Rerum rusticarum libri were written as late  as 37 B. c. But exact chronological periods are of little meaning  in matters of this sort, and the present outline, being but a fragment of a more complete history of the tense, may stop at this  point as well as another.   Before proceeding to the investigation of the cases of the  imperfect occurring in early Latin it is necessary to describe  briefly the system by which these cases have been classified. In  the first place all cases of the same verb have been placed together  so that the individual verb forms the basis of classification. Then  verbs of similar meanings have been combined to form larger  groups. There result three main groups, and some subdivisions, which for the better understanding of this  may be tabulated  thus: Verbs of physical action or state. Motion of the whole of a body, e. g. eo, curro. Action of a part of a body, e. g. do, iacio.Verbal communication, e. g. dico, promilto.   4. Rest or state, e. g. sum, sto, sedeo. Verbs of psychic action or state.  Thought, e. g. puto, scio, spcro.  Feeling, e. g. metuo, atno.  Will, e. g. volo, nolo.  Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. Auxiliary verbs, i. e. verbs which represent such English  words as could, should, might, &c, &c, e. g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course, many inconsistencies. The verb  ago, for instance, may be a verb of action or of verbal com-  munication, but since instances of this sort are comparatively rare and affected no important groups of verbs it has seemed  best not to separate cases of the same verb. Again I. 3 is logically a part of I. 2, or the verbs grouped under  III might perhaps have been distributed among the different  subdivisions of I and II. But the object of the classification, to  discover the function of each case, has seemed best attained by  grouping the verbs as described. By this system, verbs of similar  meaning, whose tenses are therefore similarly affected, are  brought together and this is the essential point. In a very large  collection of cases a stricter subdivision would doubtless prove of  advantage.  There are about 1400 cases of the imperfect indicative in the  period covered by this investigation. Of these, however, it has  been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a  consideration of which the results have been obtained. The  TENSE appears, therefore, NOT TO HAVE BEEN  A FAVOURITE, and its  comparative infrequency which I have noted already for Plauto and Terenzio 3 may here be asserted for the whole period of early  Latin. About three-quarters of the total number of cases are  supplied by Plauto, Terenzio, and Varrone. A study of these 1226 cases reveals three general uses of the  imperfect indicative: the progressive or true imperfect; the aoristic imperfect, and the shifted' mperfect.  Let us consider these in order.  In the following pages I have made an effort to state and illustrate the facts,  reserving theory and discussion for the third section of this paper. These are cases doubtful for one reason or another, chiefly because of  textual corruption or insufficient context. For the latter reason perhaps too  many cases have been excluded, but I have chosen to err in this direction since  so much of the material consists of fragments where one cannot feel absolutely  certain of the force of the tense. The true imperfect shows several subdivisions: the simple progressive imperfect, the imperfect of customary past action, and the frequentative imperfect.   Of these I A and I B include several more or less distinct  variations, but all three uses together with their subdivisions  betray their relationship by the fact that all possess or are  immediately derived from the progressive function. This progressive idea, the indication of an act as progressing, going on,  taking place, in past time or the indication of a state as vivid, is  the true ear-mark of the tense. The time may be in the distant  past or at any point between that and the immediate past or it  may even in many contexts extend into the present. In duration  the time may be so short as to be inappreciable or it may extend  over years. The time is, however, not a distinguishing mark of  the imperfect. The perfect may be described in the same terms.   The kind of action * remains, therefore, the real criterion in the  distinction * of the imperfect from other past tenses. I A. The Simple Progressive Imperfect.   Under this heading are included all cases in which the tense  indicates simple progressive action, i. e. something in the 'doing',  ' being ', 4 &c. The idea of progression is present in all the cases,  but there are in other respects considerable differences according  to which some distinct varieties may be noted. All told there are  680 cases of this usage constituting more than half the total.   I I have chosen progressive as more expressive than durative which seems to  emphasize too much the time.   2 'Kind of action' will translate the convenient German Aktionsart while  ' time ' or ' period of time ' may stand for Zeitstufe.   % Herbig in his very interesting discussion, Aktionsart und Zeitstufe (I. F.  '896), comes to the conclusion that 'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe '  and that though many tenses are used timelessly none are used in living speech  without 'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present participle (and in parti-  cipial adjectives), and indeed the imperfect, especially in subordinate clauses,  is often interchangeable with a participial expression, falling naturally into  participial form in English also. How close the effect of the imperfect was  to that of the present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4  nebat . . . texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2   Of these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In  its ordinary form this usage is so well understood that we may  content ourselves with a few illustrations extending over the  different groups of verbs.  I.i. Verbs of motion.  Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi animus frustra me ire,  quom exibam domo.   1 With the principles of formal description as last and best expressed by  Morris (On Principles and Methods of Syntax) all syntacticians  will, I believe, agree. Nearly all of them will be found well illustrated in the  present paper. For purposes of tense study, however, I have been unable to  see any essential modification in function resulting from variation of person  and number, although some uses have become almost idiomatic in certain  persons, e. g. the immediate past usage with first person sing, of verbs of  motion (p. 15). Just how far tense function is affected by the kind of sentence  in which the tense stands I am not prepared to say. In cases accompanied by  a negative or standing in an interrogative sentence the tense function is more  difficult to define than in simple affirmative sentences. It is easier also to  define the tense function in some forms of dependent clauses, e. g. temporal,  causal, than in others. This is an interesting phenomenon, needing for its  solution a larger and more varied collection of cases than mine. At present  I do not feel that the influence upon the tense of any of these elements is  definite enough to call for greater complexity in the system of classification.  While, therefore, I have borne these points constantly in mind, the tables  show the results rather than the complete method of my work in this respect.In the citation of cases the following editions are used:   Fragments of the dramatists, O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis  fragmenta (I & II), Lipsiae -8 (third edition).   Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti comoediae (editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti Afri comoediae, Lipsiae Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, Turici.   Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae.   Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber, Lipsiae, and H.  Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae extant, Lipsiae i860.   Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad Herennium, C. L. Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres, Lipsiae.   Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I.   Ennius (the Annals), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum libri tres, Lipsiae Varro, A. Spengel, M. Terenti Varronis de lingua latina, Berolini Varro, BUcheler, M. Terenti Varronis saturarum Menippearum reliquiae,  Lipsiae. Id. Amph. 199, Nam quom pugnabant maxume, ego turn   fugiebam maxume.  Lucilius, Sat.,l ibat forte aries' inquit;  I. 2. Verbs of action.  Ex incertis incertorum fabulis (comoed. pall.) XXIV.  R., sed sibi cum tetulit coronam ob coligandas nuptias,  T\b\ ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare,  Turn ad te ludibunda docte et delicate detulit.  Plautus, True. 198 atque opperimino : iam exibit, nam   lavabat.  Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336 (temptabam), Epid.  138 (mittebam); Terence, Andr. (dabam); Auctor ad  Herenn. 4, 20, 27 (oppetebat).  Verbal communication.   Plautus, Men, Quin modo   Erupui, homines qui ferebant te. Apud hasce aedis. tu clamabas deum fidem,  Ex incert. incert. &c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes saxo  sternentem Hectora,  Vidi tegentem clipeo classem Doricam :  Ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam. State.   Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes non erat.  Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est? Pe.   Quom exibam, hie erat.  Varro, R. R. III. 2. 2., ibi Appium Claudium augurem   sedentem invenimus . . . sedebat ad sinistram ei Cornelius   Merula . . .  Cf. also Plautus, Rud. 846, (sedebanf), Amph. 603 (stabam)   &c. &c.   Verbs of thought.   Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent nesciebani, ilico   manserunt.  Plautus, Pseud. 500-1, Non a me scibas pistrinum in mundo   tibi,  Quom ea muss[c]itabas ? Ps. Scibam.  Cf. also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2. 25.  (ignorabat), &c.  II. 2. Feeling.  Plautus, Epid. 138, Desipiebam mentis, quom ilia scripta   mittebam tibi.  Id. Bacch. 683, Bacchidem atque hunc suspicabar propter  crimen, Chrysale,   II. 3. Will.   Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod quis-  que volebat:   In these cases the act or state indicated by the tense is always  viewed as at some considerable distance in the past even though  in reality it may be distant by only a few seconds. The speaker  or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at some  distance and as confined within certain fairly definite limits in the  past. If, now, the action be conceived as extending to the im-  mediate past or the present of the speaker, a different effect is  produced, although merely the limits within which the action  progresses have been extended. This phase of the progressive  imperfect we might term the imperfect of the immediate past 1 or  the interrupted 2 imperfect, since the action of the verb is often  interrupted either by accomplishment or by some other event.  A few citations will make these points clearer:   Plautus, Stich. 328, ego quid me velles visebam.   Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see  what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying  (and still pity) these women.' In the first verb the action is  interrupted by the meeting ; in the second it continues into the  present, the closest translation being our English compound pro-  gressive perfect, a tense which Latin lacked. The imperfect ibam  is very common in this usage, cf. Plautus, True. 921, At ego ad  te ibam = l was on my way to see you (when you called me),  cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr.  But the usage is by no means confined to verbs of motion  (I. 1) alone. It extends over all the categories:   I. 2. Motion.  Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656.   1 In Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-  gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E. Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae, Argentorati  1888, pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage, adding some  examples of similar thoughts expressed by the present, e. g. Plautus, Men. 280  (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common leave-taking  formula). In such cases the speaker uses imperfect or present according as  past or present predominates in his mind, the balance between the two being  pretty even. Verbal communication.  Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus,  Trin. 212 (aibanf).   I. 4. Rest.   Plautus, Cas. 532 (eratn), cf. Men. n 35. Terence, Eun. 87  (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar).   II. 1. Thought.   Terence, Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309. Plautus,  Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As. 385 &c.  II. 2. Feeling.   Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V R.  (sperabam).   II. 3. Will.   Plautus, As. 392 and 395 (volebatn), Most. 9, Poen.Auxiliary verbs.   Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph. 711. Terence, Phor-  mio 52 (conabar).  In this usage the present or immediate past is in the speaker's  mind only less strongly than the point in the past at which the  verb's action begins. The pervading influence of the present  is evident not only because present events are usually at hand in  the context, but also from the occasional use with the imperfect  of a temporal particle or expression of the present, cf. Plaut.  Merc. 884, Quo nunc ibas = ' whither were you (are you) going ? '  Terence, Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis aerumnas   meas,  Haec nuptiae non adparabanfur mihi, Rodenbusch labours hard to show that this case is like the preceding  and not parallel with the cases of volui which he cites on p. 24 with all  of which an infinitive of the verb in the main clause is either expressed or to  be supplied. Following Bothe, he alters deicere to dice (which he assigns to  Adelphasium) and refers quod to the amabo and amflexabor of I230 = 'meine  Absicht'. But there is no need of this. Infinitives occur with some of the  cases cited by Rodenbusch himself on p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn  . . . fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas. 674  Dicere vilicum volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It is true that the  perfect is more common in such passages, but the imperfect is by no means  excluded. The difference is simply one of the speaker's point of view: quod  volui = ' what I wished * (complete) ; quod valebant = ' what I was and am  wishing ' (incomplete). As. 212, which also troubles Rodenbusch, is customary  past.   Nee postulabat nunc quisquam uxorem dare.   Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse in terra atque in   tuto loco :  Verum video. In the last two cases note the accompanying presents, set's and  video.   The immediate past also is indicated by a particle, e. g. Plautus,  Cas. 594 ad te hercle ibam commodum.   There are in all 207 l cases of this imperfect of the immediate  past. They are distributed pretty evenly over the various groups  of verbs as will be seen from the following table: No. of Cases. I. I    Verbs of motion,    26  I. 2  it  " action,  17  I.  3 (i   "verbal communication, 31 I. 4   state, 35 II.  1 it " thought,    36 II. 2 " " feeling,  35  II. 3 " " will, 13  Auxiliary verbs, The verbs proportionately most common in this use are ibam  and volebam which have become idiomatic. The usage is  especially common in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring  outside the dramatic literature represented chiefly, of course, by  Plautus and Terence.   By virtue of its progressive force the imperfect is a vivid tense  and as is well known, became a favorite means in the Ciceronian  period of enlivening descriptive passages. It was especially used  to fill in the details and particulars of a picture (imperfect of situa-  tion). 8 This use of the tense appears in early Latin also, but with  much less frequency. The choice of the tense for this purpose  is a matter of art, whether conscious or unconscious. At times,  indeed, there is no apparent reason for the selection of an imper-  fect rather than a perfect except that the former is more graphic, 1 Somewhat less than one-third of the total (680) progressive cases.   5 These cases are Ennius, Ann. 204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L.  L. 5. 9 (1 case), and Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2.  2 (2 cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these are in  passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially those in auctor  ad Herenn., in epistolary passages.   3 I use this term for all phases of the tense used for graphic purposes.  and if it were possible to separate in every instance these cases  from those in which the imperfect may be said to have been  required, we should have a criterion by which we might dis-  tinguish this use of the imperfect from others. But since the  progressive function of the tense is not altered, such a distinction  is not necessary.   Statistics as to the frequency of the imperfect of situation in  early Latin are worth little because the chief remains of the  language of that period are the dramatists in whom naturally the  present is more important than the past. The historians, to whom  we should look for the best illustrations of this usage, are for the  most part preserved to us in brief fragments. Nevertheless an  examination of the comparatively few descriptive passages in  early Latin reveals several points of interest.   In Plautus and Terence the imperfect was not a favorite tense  in descriptions. Bacch. 258-307, a long descriptive passage of  nearly 50 lines, interrupted by unimportant questions, shows only  4 imperfects (1 aoristic) amid over 40 perfects, historical presents,  &c. Capt. 497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show but  one case each. Stich. 539-554 shows 5 cases of erat. In Epid.  207-253 there are 10 cases.   In the descriptive passages of Terence the imperfect is still far  from being a favorite tense, though relatively more common than  in Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11  imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut. 96-150  only 3.   Another very instructive passage is the well-known description  by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between Manlius and  a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this passage  of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage  describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by  Gellius (IX, n) probably from the same Quadrigarius contains  8 imperfects in 24 lines. Since Gellius is obviously retelling the  second story, the presumption is that the passage in its original  form was similar in the matter of tenses to the passage about  Manlius. In other words Gellius has 'edited' the story of  Valerius, and one of his improvements consists in enlivening the  tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q. Claudius  primo annalium purissime atque illustrissime simplicique et  incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex  et incompta suavitas is due in large measure to the fact that   Quadrigarius has used the simple perfect (19 times), varying it  with but few (4) presents and imperfects (2). A closer com-  parison of the passage with the story of Valerius reveals the  difference still more clearly. Quadrigarius uses (not counting  subordinate clauses) 19 perfects, 4 presents, 2 imperfects ; Gellius,  4 perfects, 9 presents, 8 imperfects. In several instances the  same act is expressed by each with a different tense :   Quadrigarius. Gellius.   processit (bis), f procedebat,   \ progrediiur,  constitit, c congrediuntur,  consistent,  constituerunt, conserebantur manus,   8 perfects of acts in 5 imperfects of acts   combat. of the corvus. Gellius has secured greater vividness at the expense of simplicity  and directness.   This choice of tenses was, as has been said, a matter of art,  whether conscious or unconscious. The earlier writers seem to  have preferred on the whole the barer, simpler perfect even in  passages which might seem to be especially adapted to the  imperfect, historical present, &c. The perfect, of course, always  remained far the commoner tense in narrative, and instances are  not lacking in later times of passages 1 in which there is a striking  preponderance of perfects. Nevertheless the imperfect, as the  language developed, with the growth of the rhetorical tendency  and a consequent desire for variety in artistic prose and poetry,  seems to have come more and more into vogue. 2   The fact that the function of a tense is often revealed, denned,  and strengthened by the presence in the context of particles of  various kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c, &c,   1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5.   s The relative infrequency of the tense in early Latin was pointed out on  p. 164. Its growth as a help in artistic prose is further proved by the fact that  the fragments of the later and more rhetorical annalists, e. g. Quadrigarius,  Sisenna, Tubero, show relatively many more cases than the earliest annalists.  This is probably not accident. When compared with the history of the same  phenomenon in Greek, where the imperfect, so common in Homer, gave way  to the aorist, this increase in use in Latin may be viewed as a revival of a  usage popular in Indo-European times. Cf. p. 185, n. 2. was pointed out in Trans. Am. Philol. Ass. What was there 1 said of Plautus and Terence may here be  extended to the whole period of early Latin. The words and  phrases used in this way are chiefly temporal. Some of those  occurring most frequemly are: modo, commodum ; turn, tunc;  simul; dudum, iam dudum; iam, primo, primulum ; nunc; ilico;  olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ; Ha, 2 &c, &c.  A rough count shows in this class about 120 cases,' accompanied  by one or more particles or expressions of this sort. Some  merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c. Others, as  saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with the  function. Naturally the effect of the latter group is clearest in  the imperfects of customary past action, the frequentative, &c,  and will be illustrated under those headings. Here I will notice  only a few cases with iam, primulum, &c, which illustrate very  well how close the relation between particle and tense may be.  The most striking cases are :   Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem. ilico  Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men.  1 1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum.   id. Merc. 197, Equidem me iam censebam esse in terra atque   in tuto loco : Verum video . . .  id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela mea,   Anus ei <quom> amplexast genua . . .  id. Merc. 212, credet hercle: nam credebat iam mihi.   The unquestionably inceptive force of these cases arises from  the combination of tense and particle. No inceptive* function can  be proved for the tense alone, for I find no cases with inceptive  force unaccompanied by such a particle.   Cf. also Morris, Syntax, p. 83.   5 How far the nature of the clause in which it stands may influence the  choice of a tense is a question needing investigation. That causal, explanatory,  characterizing, and other similar clauses very often seem to require an im-  perfect is beyond question, but the proportion of imperfects to other tenses in  such clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1.   s No introductory conjunctions are included in this total, nor are other  particles included, unless they are in immediate connection with the tense.   4 In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least  Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an error. The  inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is very  common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the phenomenon  discussed on p. 177. There are a few cases in which the imperfect produces the same  effect as the imperfect of the so-called first periphrastic conjuga-  tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro moritur cognatus   senex.  Horunc: ea ad hos redibal lege hereditas.=reditura erat,  English ' was coming ', ' was about to revert ', cf. Greek pi\\a> with  infinitive.   Cf. Phorm. 929, Nam non est aequum me propter vos decipi,  Quom ego vostri honoris causa repudium alterae  Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat &c.  In these cases the really future event is conceived very vividly  as already being realized.   Plautus, Amph. 597 seems to have the effect of the English  'could':   Neque . . . mihi credebam primo mihimet Sosiae  Donee Sosia . . . ille . . .  But the * could ' is probably inference from what is a very vivid  statement. A Roman would probably not have felt such a  shading. 1   I B. The Imperfect of Customary Past Action.   The imperfect may indicate some act or state at some appreci-  able distance in the past as customary, usual, habitual &c. The  act or state must be at some appreciable distance in the past (and  is usually at a great distance) because this function of the tense  depends upon the contrast between past and present, a contrast  so important that in a large proportion of the cases it is enforced  by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived as  repeated at longer or shorter intervals, for an act does not become  customary until it has been repeated. This customary act usually  takes place also as a result or necessary concomitant of certain  conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores nosiri  olim &c, prepares us for a statement of what they used to do.  The act may indeed be conceived as occurring only as a result of  a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier  quidquid dixerat,   1 Some of the grammars recognize ' could' as a translation, e. g., A. & G.   § 277 g-   8 E. g. turn, tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the con-  trasted present.    Idem ego dicebam = my words would be uttered only as a  result of hers. 1   There are 462 cases of the customary past usage of which 218  occur in independent sentences, 244 in dependent. This large  total, more than one-third of all the cases, is due to the character  of Varro's De lingua latina from which 289 cases come. This is  veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the most part a  discussion of the customs of the old Romans in matters pertaining  to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under this  head. Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are  pretty well scattered.   As illustrations of this usage I will cite (arranging the cases  according to the classes of verbs) :   I. 1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat  miles, quom tu Has simul,  Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ?  Terence, Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ?   Pa. Cottidie.  Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum e   sacro auferebat, victi ad aerarium redibat.  I. 2. Plautus, Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis   quam scorto aut saviis. (cf. the whole passage).  Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius, patre libertino natus,  scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore aedili  curuli apparebat, . . .  I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex semper maxumas   Mihi agebal quidquid feceram :  Varro, L. L., 5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili-  bantum ut etiam nunc in castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant,  5. 118, 5. 167 &c.   1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a special  class and the name 'occasional', since it is occasioned by another act. It is  at best, however, only a sub-class of the customary past usage and in the  present paper I have not distinguished it in the tables. It is noteworthy that  the act is here at its minimum as regards repetition and that it may occur in  the immediate past, cf. Rud. 1226, whereas the customary past usage in its  pure form is never used of the immediate past. The usages may be approxi-  mately distinguished in English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure  customary past), and 'would' (occasional), although 'would' is often a good  rendering of the pure customary past. Good cases of the occasional usage  are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist, fragg.  p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases). Plautus, Bacch. 421, Eadem ne erat haec disciplina tibi,   quom tu adulescens eras ?  C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis.   II. 1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam  unius peccati mulierem damnabant, simplici iudicio multorum  rnaleficiorum convictam putabant. quo pacto ? quam inpudicam  iudicarant, ea venefici quoque damnata existutnabatur.   Cato, De ag., 1, amplissime laudari existimabatur qui ita lau-  dabatur.   II. 2. Plautus, Epid. 135, Illam amabam olim: nunc tarn alia  cura impendet pectori.   Varro, R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M.  Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea  non haberent.   III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram, de   industria  Fugiebatis neque conari id facere audebatis prius. Cf. the  whole passage.  Varro, L. L. 5. 162, ubi quid conditum esse volebant, a celando   Cellam appellarunt.  III. Terence, Phorm. 1 90, Tonstrina erat quaedam : hie sole-   bamusfere  Plerumque earn opperiri, . . .  Varro, L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die sistere videbatur . . .  The influence of particles 2 and phrases in these cases is very  marked. I count about 1 10 cases, more than I of the total, with  which one or more particles appear. Those expressions which  emphasize the contrast are most common, e. g. turn, olim, me  puero with the imperfect, and nunc, iam &c. with the contrasted  present.   This class also affords excellent illustrations of the reciprocal  influence of verb-meaning' and tense-function. In Varro there  are 50 cases, out of 289, of verbs of naming, calling, &c, which  are by nature evidently adapted to the expression of the customary  past. Such are appellabam, nominabam, vocabam, vocitabam,  &c. But the most striking illustration is found in verbs of  customary action, e. g. soleo, adsuesco, consuesco, which by their   1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 19.   s Note as illustrations the italicized particles in the citations, pp. 175-6.   3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with note.  meaning possess already the function supplied to other verbs by  the tense and context. When a verb of this class occurs in the  imperfect of customary past the function is enhanced. Naturally,  however, these verbs occur but rarely in the imperfect, for in any  tense they express the customary past function.   It is interesting to note the struggle for existence between  various expressions of the same thought. A Roman could  express the customary past idea in several ways, of which the  most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an  infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these  possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There  are but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect  indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9  of them are imperfects of customary past action. 1 One would  expect to find in common use the perfect of these verbs with an  infinitive, but, although I have no exact statistics on this point,  a pretty careful lookout has convinced me that such expressions  are by no means common. 2 Periphrases with mos, consuetudo,  &c, are also rare. Comparing these facts with the large number  of cases in which the customary past function is expressed by the  imperfect, we must conclude that this was the favorite mode of  expression already firmly established in the earliest literature. 8   I C. The Frequentative Imperfect.   In the proper context 4 the imperfect may denote repeated or  insistent action in the past. Although resembling the imperfect  of customary past action, in which the act is also conceived as   1 Terence, Phorm. go; Varro, R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor  ad Herenn. 4. 54. 67 ; Lucilius, IV. 2, &c.   s A collection of perfects covering 18 plays of Plautus shows but 15 cases of  solitus est, consuevit, &c. My suspicion, based on Plautus and Terence, that  these periphrases would prove common has thus been proven groundless.   8 The variation between imperfect and perfect is well illustrated by Varro,  L. L. 5. 162, ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique  quos obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even  in the perfect the customary past function.   For the variation between the customary past imperfect and the perfect of  statement cf. Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda  nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare  5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35 qua  ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter dictum.   4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated, the frequentative usage differs in that there is no idea  of habit or custom, and the act is depicted as repeated at intervals  close together and without any conditioning circumstances or  contrast with the present. I find only 13 cases of this usage,  7 of which are syntactically independent, 6 dependent. All occur  in the first three classes of verbs. The cases are :   Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos, quia non   visitabam.  Ibid. 432, id tibi suscensui,  Quia te negabas credere argentum mihi.  Rud. 540, Tibi auscultavi : tu promittebas mihi   Mi esse quaestum maxumum meretricibus :  Capt. 917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae modiales   erant :  Cocum percontabatur, possentne seriae fervescere :  As. 938, Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male. Cf.   Mil. Gl. 1410 (dicebaf).  True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum   poscebat sibi ?  Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione epistulas   Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas).  Merc. 631, Promittebas te os sublinere meo patri : ego me[t]   credidi  Homini docto rem mandar<e>, . . .  Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana, repente recessit.  Nee sese dedit in conspectum corde cupitus,  quamquam multa manus ad caeli caerula templa  iendebam lacrumans et blanda voce vocabam.  Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita per  sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per militem  licebat expoliabaniur.  This class is so small and many of the cases are so close to  the simple progressive and the imperfect of situation that it is  tempting to force the cases into those classes. 1 A careful con-   1 How close the frequentative notion may be to the imperfect of the  immediate past is well illustrated by As. 938 (cited above). In this case we  have virtually an imperfect of the immediate past in which, however, the  frequentative coloring predominates : dicebam means not ' I've been telling ',  but 'I've kept telling', &c. Cf. also Pseud. 422 (dissimulabam) for another  case of the imperfect of the immediate past which is close to the frequentative.  In its pure form, however, the frequentative imperfect does not hold in view  the present. sideration of each case has, however, convinced me that the  frequentative function is here clearly predominant. In Plautus,  Pers. 20, E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say how much  of the frequentative force is due to the tense and how much to  the form of the verbs themselves ; both are factors in the effect.  Verbs like mitto,promitio, voco, and even dico, are also obviously  adapted to the expression of the frequentative function.   It is noteworthy that in this usage a certain emphasis is laid on  the tense. In eight of the cases the verb occupies a very em-  phatic position, in verse often the first position in the line, cf. the  definition on p. 177.   I D. The Conative Imperfect.   The imperfect may indicate action as attempted in the past.  There must be something in the context, usually the immediate  context, to show that the action of the verb is fruitless. There  are no certain cases of this usage in early Latin. I cite the only  instances, four in number, which may be interpreted as possibly  conative :   Plautus, As. 931, Arg. Ego dissuadebam, mater. Art. Bellum   filium.   Id. Epid. 215, Turn meretricum numerus tantus quantum in   urbe omni fuit   Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus :  Eos captabant.   Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis ire celerius   coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie subsellium, quod   erat in foro, cake premens dextera pedem defringit et . . .   Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus castra   simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega id   caperet quod capiabat.   But in the second and fourth cases the verb capto itself means  to 'strive to take', 'to catch at' &c, and none of the conative  force can with certainty be ascribed to the tense. In the first  case, again, the verb dissuadebam means 'to advise against', not  'to succeed in advising against' (dissuade). Argyrippus says :  ' I've been advising against his course, mother', not ' I've been  trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is, therefore,  of the common immediate past variety. 1   1 Cf. a few lines below (938) dicebam.     In Auct. ad Herenn., 4. 55. 68, the imperfect is part of the very  vivid description of the scene attending the death of Tiberius  Gracchus. Indeed the whole passage is an illustration of demon-  stratio or vivid description which the author has just defined.  The acts of Gracchus and his followers are balanced against  those of the fanatical optimates under Scipio Nasica: 'While  the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio was  arming himself &c. Though it may be true that the act indi-  cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems  a remote inference and one that cannot be proved from the  context.   If my interpretation of these cases is correct, there are no  certain 1 instances of the conative imperfect in early Latin.   There is but one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and  one of temptabam (Plautus, Mil. gl. 1336). Both of these belong  to the immediate past class, the conative idea being wholly in the  verb.   II. The Aoristic Imperfect.   The imperfect of certain verbs may indicate an act or state  as merely past without any idea of progression. In this usage  the kind of action reaches a vanishing point and only the temporal  element of the tense remains. The imperfect becomes a mere  preterite, cf. the Greek aorist and the Latin aoristic perfect. The  verbs to which this use of the imperfect is restricted are, in early  Latin, two verbs of saying, aio and dico, and the verb sum with  its compounds.   There are 56 cases of the aoristic imperfect in early Latin (see  Table II), 48 of which occur in syntactically independent sen-  tences. Some citations follow:   Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit contumelias.   Adulterare eum aibat rebus ceteris.  Id. Most. 1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare :  Ideo aedificare hoc velle aiebat in tuis.  Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi.  Id. Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere:  Ingenuas Carthagine aibat esse.   1 Faciebat audientiam seems a technical expression, cf. lexicon.   2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, § 233, from Auct. ad Herenn., 2. I.  2, ostendebatur seems to me a simple imperfect and there is nothing in the  context to prove a conative force, cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note the parallel cases of dixit, cf. id. Trin. 1140,  Men. 1 141 &c, &c.   I note but three cases of dicebam:  Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur] fratrem meum esse  scibas ? Do. Parmeno  Dicebat eum esse. Cf. Plautus, Epid. 598 for a perfect used  like this.  Varro, R. R. II. 4. 11, In Hispania ulteriore in Lusitania  [ulteriore] sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime  mendax et multarum rerum peritus in doctrina, dicebat  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duabus  costis . . .  Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos sacrificanti tibi, Varro, ad  tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas ad extremum  litus atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . .  In these cases the verb dico becomes as vague as is aio in the  preceding citations.  Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua mater   fuit,  Pater tuos is erat frater patruelis meus,  Et is me heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat lanam   nauta non erat.  Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio amator.  Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi   non erat,  Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium   viderit. 1  Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius mulieris,   Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat domum.  In such cases as the last the imperfect has become formulaic,  cf. quam maxime poter at, &c.   1 Rodenbusch, pp. 8-10, after asserting that the imperfect of verbs of saying  and the like is used in narratio like the perfect (aorist), cites a number of  illustrations in which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But a  case in which the imperfect force may still be felt does not illustrate the  imperfect in simple past statements, if that is what is meant by narratio.  Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and these are all cases of  aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most. 1002). The same may be said  of the citations on p. g, of which only Eun. 701 is aoristic. J. Schneider  (De temporum apud priscos latinos usu quaestiones selectae, program, Glatr,  1888) recognizes the aoristic use of aibat, but his statement that the comic  poets used perfect and imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted Imperfect.   In a few cases the imperfect appears shifted from its function  as a tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present; or  (2) an imperfect or pluperfect subjunctive.   The cases equivalent to a present 1 are all in Varro, L. L., and  are restricted to verbs of obligation {oportebat, debebaf) : L. L.  8. 74, neque oportebat consuetudinem notare alios dicere Bourn  greges, alios Boverum, et signa alios Iovum, alios Ioverum.  Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis formas ternas ut in hoc  Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam binas . . .  ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam multi-  tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici oportebat.  Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non] dicere  debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.*   The cases equivalent to the subjunctive are confined to  sat &c. + erat (6 cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and  sequebatur (1 case). As illustrations may be cited :   Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti hercle : nam idem hoc homini-   bus sat [a] era\ti\t decern.  Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo  quod esset satis, curarent poetae. = ' would have been,'  cf. ibid. 4. 16. 23 (iniquom erat),  Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = ' might be '   or ' might have been '.  Id. Merc. 983 b, Vacuum esse istac ted aetate his decebat noxiis.  Eu. Itidem ut tempus anni, aetate<m> aliam aliud factum  condecet.  Varro, L. L. 9. 23, si enim usquequaque non esset analogia,  turn sequebatur ut in verbis quoque non esset, non, cum  esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . . This is a  very odd case and I can find no parallel for it.*   1 Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present of  general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times as  equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit = oportet). The perfect  infinitive is equivalent to the present, e. g. in 8, §61 and §66 (debuisse . . .  dici). The tenses are of very little importance in such verbs.   8 Note the presents expressed in the second and fourth citations.   3 The remaining cases are: Plautus, True. 511 (poterai), id. Rud. 269  (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M. (sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23  (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53 (quae separatim dictae infimae erant).  Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical work are included in the historians.  'Including the epic fragments of Ennius and Naevius.  Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted. Ind.Dep. Ind. Dep. Ind.  Dep.  Ind. Dep.  Ind.  Dep .I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c.   (tram 220)   Psychical.  Will  Auxiliaries.   american journal of philology.  Historical and Theoretical.   The original function of the imperfect seems to have been to  indicate action as progressing in the past, the simple progressive  imperfect. This is made probable, in the first place, by the fact  that this usage is more common than all others combined,  including, as it does, 680 out of a total of 1226 cases. This  proportion is reduced, as we should remember, by the peculiar  character of the literature under examination, which contains  relatively so little narrative, and especially by the nature of  Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the  customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage  itself, and also the frequentative and the conative, are to be  regarded as offshoots of the progressive usage of which they  still retain abundant traces, so that if we include in our figures  all the classes in which a trace of the progressive function  remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are true imperfects  (see table II).   Another support for the view that the progressive function is  original may be drawn from the probable derivation of the tense.  Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect from the infinitive  in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of progression  was thus originally inherent in the ending -bam.   Let us now establish as far as possible the relations subsisting  between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D),  turning our attention first to the simple progressive (IA) and its  variations.   The relation between the progressive imperfect in its pure  form and the usage which has been named the imperfect of the  immediate past is not far to seek. The progressive function  remains essentially unchanged. The only difference lies in the  extension of the time up to the immediate past (or present) in  the case of the immediate past usage. The transition between:   ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when   l See p. 175.   2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 § 113, p. 376. Lindsay, Latin Lang.,  pp. 489-490, emphasizes the nominal character of the first element in the  compound, and suggests a possible I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of  Latin -bam, -ids, -bat. He also compares very interestingly the formation of  the imperfect in Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin  formation, except that the ending comes from a different root.   3 Cf. Plautus, Merc.  I saw him at a more or less definite   point in the past)  and ibat exulatum = ' he was going (has been going)   into exile' (but we have just met him)  is plain enough. The difference is one of context. In this  imperfect of the immediate past the Romans possessed a sub-  stitute for our English compound perfect tense, 'have been  doing ', &C 1   In the imperfect of situation also the function of the tense  is not altered. The tense is merely applied in a different way, its  progressive function adapted to vivid description, and we have  found it already in the earliest 2 literature put to this use. In its  extreme form it occurs in passages which would seem to require  nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must guard  against the view that the imperfect is a stronger tense than the  perfect; it is as strong, but in a different way, and while the  earlier writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect  grew gradually in favor until in the period marked by the  highest development of style the highest art consisted in a  happy combination * of the two.   The imperfect of customary past action is, as we have seen,  already well established in the earliest literature. A glance at  Table I would seem to show that it grew to sudden prominence  in Varro, but the peculiar nature of Varro's work has already  been pointed out, so that the apparent discrepancy between the  proportion of cases in Varro and in Plautus and Terence, for  instance, means little. It should be remembered also that this  discrepancy is still further increased by the nature of the drama,  whose action lies chiefly in the present. While, therefore, in  Plautus and Terence the proportion of customary pasts is i,   1 Latin also exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925, te  carens dum hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut sis  sciens. Cf. Schmalz in I. Mttller's Handb.    s In the Greek literature, which begins not only absolutely but relatively  much earlier than the Latin, the imperfect was used to narrate and describe,  and Brugmann, indeed, considers this a use which goes back to Indo-  European times. Later the imperfect was crowded out to a great extent by  the aorist, as in Latin by the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I. Mailer's  Handb.   i The power of the perfect lies in its simplicity, but when too much used  this degenerates into monotony and baldness. and in Varro f , the historians with J probably present a juster  average.   The relation of this usage to the simple progressive imperfect  has already been pointed out, 1 but must be repeated here for the  sake of completeness. If we inject into a sentence containing a  simple progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g.,  if facit, sed non faciebat becomes nunc facit, olim autem non  faciebat, it is at once evident how the customary past usage has  developed. It has been grafted on the tense by the use of such  particles and phrases, expressions which were in early Latin still  so necessary that they were expressed in more than one-quarter  of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth of certain  oft-recurring contexts, and is still largely dependent on the  context for its full effect. Transitional cases in which the  temporal contrast is to be found, but no customary past coloring,  may be cited from Plautus, Rud., Dudum dimidiam  petebas partum. Tr. Immo etiam nunc peto. Here the action  expressed by petebas is too recent to acquire the customary past  notion. 2 The progressive function caused the imperfect to lend  itself more naturally than other tenses 3 to the expression of  this idea. 4   Although the customary past usage was well established in  the language at the period of the earliest literature, and we  cannot actually trace its inception and development, I am con-  vinced that it was a relatively late use of the tense by the mere  fact that the language possesses such verbs as soleo, consuesco,  &c, and that even as late as the period of early Latin the function  seemed to need definition, cf. the frequent use of particles, &c.   The small number of cases (13) which may be termed frequenta-  tive indicates that this function is at once rare and in its infancy  in the period of early Latin. The frequentative function is so  closely related 5 to the progressive that it is but a slight step from   1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men. 729.   s How strong the effect of particles on other tenses may be is to be seen in  such cases as Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro  ac detinet.   4 The process was therefore analogous to that which can be actually traced  in cases of the frequentative and conative uses.   5 Terence, Adel. 332-3, affords a good transitional case : iurabat . . . dicebat  — (almost) ' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47 n. 1. It should  the latter to the former. Latin 1 seems, however, to have been  unwilling to take that step. The vast number of frequentative, 2  desiderative and other secondary endings also prove that the  tense was not the favorite means for the expression of the  frequentative idea. Nevertheless since the progressive and fre-  quentative notions are so closely related and since frequentative  verbs must again and again have been used in the imperfect  subject to the influence of the progressive function of particles  such as saepe, etiam atgue etiam, and since finally a simple verb  must often have appeared in similar situations, e. g. poscebat for  poscitabat, the tense inevitably acquired at times the frequentative  function. We have here, therefore, an excellent illustration of the  process by which a secondary function may be grafted on a tense  and the frequentative function is dependent to a greater degree  than the customary past upon the influence and aid of the context.  That it is of later origin is proved by its far greater rarity (see  Table II).   If the frequentative imperfect in early Latin is still in its infancy,  the conative usage is merely foreshadowed. The fact that there  are no certain instances proves that relatively too much im-  portance, at least for early Latin, has been assigned to the conative  imperfect by the grammars. Statistics would probably prove it  rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed for  the expression of the conative function.   The most powerful influence in moulding tense functions is  context. 3 In the case of the conative function this becomes all  powerful for we must be able to infer from the context that the  act indicated by the tense has not been accomplished. The   also be pointed out that the frequentative imperfect is very closely related to  the imperfect of situation. To conceive an act as frequentative necessarily  implies a vivid picture of it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to  interpret as vivid imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4;  Plautus, True. 506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me  that the frequentative idea predominates.   1 In Greek, however, the imperfect was commonly used with an idea of  repetition in the proper context. This use is correctly attributed by Brugmann  (I. Milller's Handb. &c.) to the similarity between the progressive  and frequentative ideas as well as to the fondness for description of a re-  peated act.   5 Ace. to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative  formations in Indo-European.   8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82, &c. 1function thus rests upon inference from the context- The presence  in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that the  conative function, like the frequentative, was a secondary growth  grafted on the tense in similar fashion, but at a later period, for  we have no certain instances in early Latin. This function of  the imperfect certainly originates within the period of the written  language.   The fact that the preponderance of the aoristic cases occurs  in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this usage  was rather colloquial. This is further supported by the fact that  the majority of the cases are instances of aibam, a colloquial verb,  and of eram which in popular language would naturally be con-  fused with/i«. In this usage, therefore, we have an instance  of the colloquial weakening of a function through excessive  use in certain situations, a phenomenon which is common in  secondary formations, e. g. diminutives. The aoristic function  is not original, but originated in the progressive usage and in that  application of the progressive usage which is called the imperfect  of situation. Chosen originally for graphic effect the tense was  used in similar contexts so often that it lost all of this force. All  the cases of aibam, for instance, are accompanied by an indirect  discourse either expressed (38 cases) or understood (2 cases).  The statement contained in the indirect discourse is the important  thing and aibam became a colorless introductory (or inserted)  formula losing all tense force. 1 If this was the case with the verb  which, in colloquial Latin at least, was preeminently the mark  of the indirect discourse it is natural that by analogy dicebam,  when similarly employed, should have followed suit. 2   With eram the development was similar. The loss of true  imperfect force, always weak in such a verb, was undoubtedly due   1 Cf. Greek iXeys, tjv <5' iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„ (graphic  present). Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183) denies that the Greek  imperfect ever in itself denotes completion, but he cites no cases of verbs  of saying. Although one might say that the tense does not denote completion,  yet if there was so little difference between imperfect and aorist that in  Homer metrical considerations (always a doubtful explanation) decided  between them (cf. Brugmann, ibid.), Brugmann seems to go too far in dis-  covering any imperfect force in his examples. The two tenses were, in such  cases, practical equivalents and both were colorless pasts.   8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause for the frequency of aibat in this use  the impossibility of telling whether ait was present or perfect. This seems  improbable.   to the vague meaning of the verb itself. Indeed it seems probable  that eram is thus but repeating a process through which the lost  imperfect of the root *fu} must have passed. This lost imperfect  was doubtless crowded out " by the (originally) more vivid eram  which in turn has in some instances lost its force.   If the aoristic usage is not original, but the product of a collo-  quial weakening, we should be able to point out some transitional  cases and I believe that I can cite several of this character:   Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn videret . . .?  Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn conspiceret pater?   Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti, quia tuam  gnatam es ratus ?   Quibus de signis agnoscebas? Pe. Nullis. Phi. Quarefiliam   Credidisti nostram ?*   In these cases the tense is apparently used for vivid effect (im-  perfect of situation), but it is evident that the progressive function  is strained and that if these same verbs were used constantly in  such connections, all real imperfect force would in time be lost.  This is exactly what has occurred with aibam, dicebam, and eram.  The progressive function if employed in this violent fashion  simply to give color to a statement, when the verbs themselves  {aibam, dicebam) do not contain the statement or are vague  (eram), must eventually become worn out just as the diminutive  meaning has been worn out of many diminutive endings.   In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper  sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense  stripped of its main characteristic, the progressive function,  though still in possession of its temporal element as a tense of  the past, in the shifted cases both progressive function and past  time (in some instances) are taken from the tense. In those  cases where the temporal element is not absolutely taken away  it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently  due in the first place to the contrary-to-fact idea which is present  in the context of each case, and secondly to the meaning of some  of the verbs involved. In many of the cases these two reasons   1 There was no present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf.  Lindsay, Lat. Lang., p. 490.   'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu </«- in fui &c., then the  fact that it was assuming a new function in composition would help to drive  it out of use as an independent form, eram (originally *isom) taking its place.   3 Cf. Terence, Phorm.; Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339.    are merged into one, for the verbs themselves imply a contrary-  to-fact notion, e. g. debebat, oportebat, poterat (the last when  representing the English might, could, &c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies that the  Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911 Bonus  vaies poteras esse implies that the person addressed is not a  bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of  their chief function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb-  meaning coincides very closely with mode, just as in soleo, conor,  &c, verb-meaning coincides closely with tense. The modal idea  is all important, all other elements sink into insignificance, and  the force of the tense naturally becomes elusive. 2   Let us summarize the probable history of the imperfect in  early Latin. The simple, progressive imperfect represents the  earliest, probably the original, usage. Of the variations of this  simple usage the imperfect of the immediate past and the im-  perfect of situation are most closely related to the parent use.  Both of these are early variants, the latter probably Indo-  European, 3 and both may be termed rather applications of the  progressive function than distinct uses, since the essence of the  tense remains unchanged, the immediate past usage arising from  a widening of the temporal element, the imperfect of situation  from a wider application of the progressive quality. Later than  these two variants, but perhaps still pre-literary, arose the custom-  ary past usage, the first of the wider variations from the simple  progressive. This was due to the application of the tense to  customary past actions, aided by the contrast between past and  present. Later still and practically within the period of the  earliest literature was developed the frequentative usage, due  chiefly to the close resemblance between the progressive and  frequentative ideas and the consequent transfer of the frequentative  function to the tense. Finally appears the conative use, only  foreshadowed in early Latin, its real growth falling, so far as  the remains of the language permit us to infer, well within the   1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.   8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought from  a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler, Uebergang  zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he also con-  siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar meaning of the verbs  themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts, § 3.   »Cf. note.   Ciceronian period. In all these uses the progressive function is  more or less clearly felt, and all alike require the influence of  context to bring out clearly the additional notion connected with  the tense.   The first real alteration in the essence of the tense appears in  the aoristic usage in which the tense lost its progressive function  and became a simple preterite. This usage, due to colloquial  weakening, is confined in early Latin to three verbs, aidant,  dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-  literary in fact, but later than the imperfect of situation, from  which it seems to have arisen. A still greater loss of the  essential features of the tense is to be seen in the shifted cases  in which the temporal element, as well as the progressive, has  become insignificant. This complete wrenching of the tense  from its proper sphere is confined to a limited number of verbs  and some phrases with eram, and is due to the influence of the  pervading contrary-to-fact coloring often in combination with the  meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur lateinischen Syntax, I. Teil,  Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted considerable space to  my article, "The Imperfect Indicative in Early Latin" (American  Journal of Philology). Since Blase  professes to present the substance of my article, except to the  'relatively few' German scholars who have access to the American  periodical, and since he makes a number of errors in mere citation  and statement, it becomes necessary for me in self-defense to make  some corrections. 1 But apart from these errors of detail, which  will be pointed out at the proper places, Blase disagrees with some  of the more important conclusions of my paper and it is with the  purpose of elucidating these views in the light of his criticism and  contributing something more, if possible, to a better understanding  of the problem that I offer the present discussion.   The functions of the imperfect indicative in early Latin may  be summarized as follows:   I. The Progressive 2 or True Imperfect, comprising several  types or varieties:   A. Simple Progressive.   1. dicebat = il he was saying."   1 That such corrections are justifiable is proved by the fact that K. Wimmerer, who  knows my article only through Blase's presentation, reproduces several of Blase's in-  correct statements. I regret the unavoidable delay in the publication of this paper  the less because it has enabled me to use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im  Hauptsatze irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four pages of his article are devoted to a general discussion  of Blase's critique of my views.   2 In this paper technical terms will be used as follows : progressive = German vor  sich gehendes (less exactly fortechreitendes) ; continuative or durative = wiaftrendes;  nature or kind of action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive= schilderndes;  reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation (relative, etc.)= Beziehung, etc. Other  terms are, it is hoped, intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The nature of the action may be either progressive 1 or con-  tinuative (durative). The time is past, but the period covered by  the action of the tense may vary with the circumstances described  from an instantaneous point to any required length. The time  is contemporaneous with, usually more extensive than, the time  of some other act or state expressed or implied. When the tense-  action is continuative and extends into the immediate past or,  by inference, the present of the speaker, I would distinguish a  sub-class :   a) The Imperfect of the Immediate Past:  dicebat—"he was saying" or "he's been saying."  The action may or may not be interrupted by something in the  context. If interrupted, it ends sharply and we may term the  tense the "interrupted" type of this immediate past.   2. The Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in  description) .   dicebat="he was saying" (in English often rendered by  "said").   This is in its purest form a simple progressive imperfect  employed in the vivid presentation of past actions or states.   3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used in  reminiscence).   dicebat=^ u he was saying" (as I remember, or as you will  remember).   In this usage the imperfect is a simple progressive implying  an appeal to the recollection of the speaker or hearer.   B. Customary Past Type.   dicebat="he used to say, would say, was in the habit of  saying, etc."   The nature of the action is the same as in A except that with  the aid of the context there is an implication that the act or state  recurred on more than one (usually many) occasions. These  recurrences are usually at some considerable distance in the past  and contrasted with the present, but cases of the immediate past  usage (Ala)) with customary coloring occur.   i Hoffmann Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the im-  perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der Phase ihres Vollzuges, ein  Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein Vergangenes Sein noch wahrend  seines Bestehens." Impebfect Indicative in Eably Latin 359   C. The Frequentative or Iterative Type.   dicebat = "he kept saying" (at intervals very close together).  This type is like B, except that it has no customary element and  the repetitions refer to one situation within comparatively narrow  limits of time.   The link connecting all these varieties with one another is the  progressive function. 1   II. The Aoristic Imperfect.   aibat = "he said" (equivalent to dixit, aoristic perfect).  The time is still past, but the progressive force is lost.   III. The Shifted Imperfect.  debebat = "he ought" (now).   The time is shifted to the present and the progressive force is  very much weakened, in some cases wholly lost, because of the  auxiliary character of the verbs involved.   For a more detailed treatment of the foregoing classes (except  the imperfect in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select certain points  for discussion by way of elucidation and supplement to what was  said there.   the impebfect of the immediate past   The simplest progressive usage is well enough understood,  but the usage termed by me the imperfect of the immediate past  or interrupted imperfect 2 calls for some remarks. As a type of  this imperfect in its interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam  ego ibam ad te. — et hercle ego istuc ad te. Here the action is con-  ceived as continuing until interrupted by the meeting of the speak-  ers. The fact of the interruption does not, of course, inhere in the  tense but is inferred from the context. Indeed, the interruption  may not occur at all, as will be seen by comparing the second type,  e. g., Stick. 328 f. : ego quid me velles visebam. nam mequidem  harum miserebat. Here visebam is interrupted like ibam above,   1 The nature of the action seems to me the most distinctive feature of the tenses.  In this I differ radically from Cauer, who considers contemporaneousness the essential  feature of the imperfect, cf. Grammatical militans, against Methner,  whose Untersuchungen zur lat. Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the fact that  this imperfect of the immediate past in its interrupted form is still common in Italian.     360 Arthur Leslie Wheeler   but the action of miserebat is conceived as continuing not only up  to the immediate past, but into and in the present of the speaker.  But again this continuance in the present is not inherent in the  tense; it is inferred from the context. The nature of the action  is in both these types still progressive, or more exactly, continua-  tive, but temporally stress is laid on that period of time immediately  preceding or even extending into the present. 1   In this usage the Romans possessed a somewhat inexact sub-  stitute for the English progressive perfect definite, e. g., mequidem  . . . . harumnusere6a/ = (practically) "I've been pitying,"a form  which, like the Latin, may be used in the proper context to indi-  cate that the pity still continues in the present. 2 On the other  hand, the English "I was pitying," superficially a more exact  rendering, does not so clearly indicate this continuance in the  present, though "I was going to your house, etc." is an exact  rendering of Cas. 178.   Blase himself has collected some exactly similar cases, 3 of which  he says:   Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die  zwar in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie-  hung auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae-  ritas? Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist  es nur in Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende  Zeit bis zur Ankunft vor dem Hause gebraucht.   'Blase {Kritik, p. 6) misrepresents my statement concerning this usage. He cites  from my paper Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro-  gressive use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was used  as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes me as believing  that in the immediate past usage the action takes place within exactly defined limits  ("genau bestimmten Granzen"). Here is atwofold error. My statement (Am. Jour.  Phil.) is "fairly definite limits" and refers to the simple progressive  usage, not to the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.   2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express these shades  of thought with greater exactness, e. g., by the combination of a present participle  with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc te carens dum hie fui sustentabam.  Here carens .... fui is exactly equivalent to the English "I've been lacking,"  whereas sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But Latin  did not develop such expressions as carens .... fui into real tenses, and remained  content with the less exact imperfect, cf . also iam diu, etc., with the present. See Am.  Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of  such cases would be interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 :  sum indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.   "Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book had not  reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361   With the first part of this statement I fully agree, but is it true  that in As. 395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die  Vergangenheit, etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort,"  then we are forced to say that the imperfect is used not merely  with reference to the past, but with reference to the present. The  speaker really has in mind both past and present, and uses the  imperfect to express this double temporal sense, the action continuing from the past into the present, because at the moment of  speaking the past is somewhat more prominent. The tense is,  therefore, as explained above, only an approximate expression of  the thought. Had the present been more prominent, other elements being equal, some expression like iam diu volo would have  been employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the speaker  has in mind both beginning and end of the action is not capable  of proof. It is true, I think, that the speaker has usually no  definite point in mind at which the action began. He simply  indicates the action as beginning somewhere in the past and con-  tinuing in the present. But in the very numerous "interrupted"  cases he has in mind a sharply defined end of the action. Blase's  criticism seems justified, then, only with reference to those cases  of which Stich. 328, .... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage under no less than three  different heads in his Tempora und Modi. In addition to the  case cited above, As. 392 volebam, which he interprets, as I have  tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed   'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc. 884; quo  nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta-  tierung eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect, "fiir  einen glucklichen Gedanken," though he would not make a special type of this use. It  seems to me so common (about 200 cases) as to deserve the degree of special notice  which I have given it (Am. Jour. Phil He adds in a note: "Hier  tut Blase m. E. Wheeler einigermassen unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der  Sprecher in diesen Fallen Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich  nennt. Wheeler kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken  handelt, der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn konstatiert,"  pointing out also that Blase would be justified only in criticizing the form of my ex-  pression so far as I wished to apply it to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases  where there is no interruption?).     362 Arthur Leslie Wheeler   aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc. 885:  quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of the  tense is essentially the same in all these cases, the only variant  being the presence or absence of interruption which is inferred in  all cases from the context.   Since Blase classifies so many of these cases under the head of  the conative imperfect, a consideration of that usage seems here  in place.   A "conative" imperfect ought to mean an imperfect which  expresses attempted action, but since there is no trace, at least in  early Latin (cf. Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 179, 180), of such  a function, the term is a bad one. 2 Why then retain it, as Blase  does, for those imperfects which express "den wahrenden, aber  nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These imperfects are  chiefly of the type which I have termed "interrupted," where the  context implies it, or imperfects of the "immediate past," where  there is no interruption. 3 In neither case is there anything more  than a simple variation of the progressive (here more exactly  continuative) imperfect.   But most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter-  rupted or immediate past variety. They are simple progressives  in contexts which imply that the action was interrupted 4 or not   liftam occurs often in this use : True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ;  cf . Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70.   2 Blase Syntax, p. 148, recognizes the inexactness of the term by his expression,  "sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by Mutzbauer  (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II, p. 306): "Ungenau  werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von einem Versuch liegt in der Form  nichts" (Grundlagender griech. Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud.,  1905, p. 264 : " In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."   ^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see why Blase  appears to think that there is a difference between his conception of the imperfect  de conatu and mine. Blase says (Kritik, p. 11), after defining these imperfects as  above : " Die hier vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen,  die Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case, so far as Blase  confines his citations to instances of the interrupted type. There is, then, no essential  difference in our interpretation of the function of the tense in these cases. Blase  clings, apparently against his will, to the old terminology to which everybody seems  to object, whereas I would group these cases under a new term which seems to me  more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all the cases that  belong together.   4 1 use interrupted here not of what has been termed the "interrupted" usage,  whose distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past, but as     Impeepect Indicative in Early Latin 363   completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus  simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469:  pallam ad phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis  pariebatur (just like all the other imperfects in the passage —  progressive of the descriptive variety); id.Milo 9: interfectus  ab eo est, cui vim afferebat (simple progressive, the interruption  being expressed by interfectus est) ; id. Ligar. 24: veniebatis in  Africam (progressive, the interruption being implied in prohibiti 1  five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex silvis rari propug-  nabant nostrosque intra munitiones ingredi prohibebant (but  prohibebant is exactly like propugnabant — both were interrupted  by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and note  the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti lenie-  bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of mitigating,  but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:  mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna ....  aderat et Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive  in description — that the act did not succeed is shown by reppulit) ;  Curtius vi. 7. 11: alias .... effeminatum et muliebrieter timi-  dum appellans, nunc ingentia promittens .... versabat animo  tanto facinore procul abhorrentem (again graphic description:  there is here nothing in the immediate context to show that an  effect was or was not produced. In fact versare animum does  not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely  to work on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver-  sare muliebrem animum in omnes partes, where versare sums up  the preceding infinitives, but no effect is produced. So in Cur-  tius, loc. cit. , versabat has the same kind of action as is indicated  by the participles appellans .... promittens, which are summed  up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his et similibus notos  pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat ( again graphic  description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus adiuvabat).   referring to interruptions in the more distant past. Where the interruption belongs  to the immediate past I have so indicated in the following criticism.   1 Surely the hearer in such a case as this would not have connected even the idea  of " nicht zu Ende gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i. e.,  the interruption belongs purely to the context and not the immediate context at that.  This is true of many other so-called conative imperfects.     364 Arthur Leslie Wheeler   Vergil Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic  description = what Juno "was doing" at the time, and only the  outcome of the story proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque ruinas solabar, fatis  contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros .... inse-  quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast in  nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now,  etc. This is one of the transitional cases between the pure custo-  mary part and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil.  XXIV, p. 186, where Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam  petebas partem, immo nunc peto; Men. 729: at mihi negabas  dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante oculos, attines, are  cited. In both of these passages, though there is no customary  coloring, there is the same contrast between continuance in the  past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably  term both of the Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann.  i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common  form of graphic description in Tacitus = the soldiers were being  crowded into .... but (ni) . . . . i. e., the effect was partly  produced, but was prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above).   In all these cases, then, I can see no essential alteration in the  function of the tense. The idea "der nicht zu Ende geftihrten  Handlung" is derived in each case wholly from the context and  there is no reason for making a special category of imperfects  which happen to occur in contexts of this kind. Moreover, the  meaning of the verb has often been overlooked, e. g., prohibebant  (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from the  context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;" cf.  redimebat, mittebatur, versabat, etc.   Whether the idea of real attempted action ever became con-  nected functionally with the imperfect remains to be investigated.  Certainly this did not occur in early Latin, and I doubt whether  it ever occurred. Among the cases cited by Blase are two which  more closely approximate this idea than any others. These are  Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo belli moram  redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut gratia  effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1: reducebat.     Impebfect Indicative in Early Latin 365   It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-  nent in such cases. We regard as more important the attempt  which is implied in the context, but the Romans preferred to rep-  resent the act graphically as in progress, leaving the idea that it  was not successful to be inferred. When a Roman wished clearly  to express attempt (real conatus), he chose a clear conative  expression, 1 e. g., conari with infinitive. In strict accuracy we ought not to speak of a "descriptive"  imperfect, but of the progressive imperfect in description. The  term "descriptive" imperfect would be justified only in case we  could distinguish from the simple progressives those cases in which  the tense is used purely for graphic presentation of actions which  might more naturally have been indicated by the perfect. Such  a distinction may often be drawn, especially after the development  of a consciously artistic style, but the separation would be worth  little since the progressive function is equally characteristic of  both. The tense was chosen for graphic purposes because its pro-  gressive function made it the most vivid of the past tenses.   The chief difference between Blase's treatment here and my  own will become evident from a consideration of his definition  (Hist. Syntax) :   Aber seiner Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein  Tempus der Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine  Stelle hat zur Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend  anderer genannter Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im  Hauptsatz bei Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche  in Beziehung stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten  praeteritalen Handlung.   ! This whole question needs investigation. All the forms of expression of real  conatus should be collected and compared with the tenses as has been done for "cus-  tom" by Miss E. M. Perkins The Expression of Customary Past Action or State in  Early Latin, Bryn Mawr dissertation, 1904.   2 " Reminiscence, reminiscent" are here proposed as equivalents for the German  "Erz&hlung, erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether noun or  adjective, does not, as may the German "Erz&hlung," etc., imply an appeal to the  memory or recollection. Blase points out (Kritik, p. 12) that I misunderstood the  Latin equivalents narratio, etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu  Plautino, Strassburg, 1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung"  into Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.     366 Abthub Leslie Wheeler   This elevates the descriptive power of the imperfect to a higher  position than seems to me justified, unless one defines all cases  having the progressive function as descriptive which Blase evi-  dently does not do, for he makes separate categories of the  "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen, of  the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the action  as progressive.   Again it is to be noted that he speaks of the 'description of  customs,' etc., i. e., he does not regard the use of the imperfect to  indicate customary action as important enough even for a sub-  class, although he makes at least varieties of the reminiscent and  conative uses. I shall take up this point more fully below, 2 merely  remarking here that the cases usually termed customary are fully  as peculiar as those termed by Blase conative and far more  numerous, at least in early Latin.   1 would, then, understand as an imperfect used in description  one which is used in a descriptive passage to present any act or  state vividly to the hearer or reader. What Blase's conception is,  I can not discover. He appears to make a distinction (Kritik,  p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here "narrative"?) and"Schilde-  rung" ( — description), e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt.  497-515, Terence Andr. 48ff., 74-102 — passages which I had  cited as descriptive, 4 he sees "reine Erzahlung, keine Schilde-  rung." On the other hand, in Terence Phorm. 60-135, which I  had also cited, he sees "eine Erzahlung mit einzelnen Situations-  malereien." Without quibbling over our characterization of the   i "Conative" is used in this passage merely as representing Blase's classification.   2 With regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent and  independent clauses I would remark that in the study of probably two or three thousand  cases of the tense I have never been able to see any essential difference in function due  to the presence of a case in a dependent clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten, Gebrauchen") maybe described in a subordinate  clause as well as in an independent clause.   sif " Erzahlung " is here used by Blase in its technical sense as explained on p. 365,  note, my objections are strengthened, for there is certainly no special "appeal to  recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say that the  descriptive presents and infinitives (so-called historical) in the Bacchides passage,  etc., are different from the same usages in, say, Livy, because here the speaker is  supposed to be telling of personal experiences, which is chronologically impossible in  Livy's case.   4 Some of the imperfects are primarily customary.     Imperfect Indicative in Early Latin 367   passages in question let us consider the main point, so far as it  can be discerned in Blase's discussion: that there is to him some  difference between the imperfects in the first group of passages  and those in the Phorm. 60-135. With his characterization of  the latter passage I agree, and I had classified the imperfects in  it as imperfects used in description ("Situationsmalereien"). 1  But what is the difference in the effect of imperfects in this pas-  sage and those in the Bacchides or those, to take a typical passage  from Blase's Tempora und Modi, in Caesar Bell. civ. i. 62. 3 ?  I give the essential parts of the three passages:   Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est puellulam  .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque quod  daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, .... nos  otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum ilico  tonstrina erat quaedam, etc.   Bacch.flf . : dum circumspecto, atque ego lembun conspicor ....  is erat communis cum hospite et praedonibus .... is ... . nostrae  navi insidias dabat. occepi ego opservare .... interea nostra navis  solvitur .... homines remigio sequi, navem extemplo statuimus ....   Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in which Blase expressly characterizes nun-  tiabatur, etc., reperiebat as " schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar  .... hue iam reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat,  possent tamen .... flumen transire, pedites vero ad transeundum  impediuntur. sed tamen eodem fere tempore pons in Hibero prope  effectus nuntiabatur, etc.   To me there is no difference between the imperfects in the  passages of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and  those of the Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All  seem to me to be progressive imperfects in description, some are  also customary (see the collection) and have been classified  under that head as the more important element. Is it not better  to separate such cases as Phorm. 87 operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to group all  together, 3 as is done by Blase?*   1 This term refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify  exactly what he means.   2 Primarily customary.   3 Blase apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,  p. 7 and see below.   4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute my assertion that the words of Quad-  rigarius are not exactly given by Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res     368 Arthur Leslie Wheelek   The usage termed by Blase "erzahlendes," for which I have  proposed in English the term "reminiscent," seems to me to be  closely related to the so-called descriptive imperfect. Blase not  only considers this an important variety {Syn. Ill),  but is inclined to regard it as perhaps an original function. 1  According to his definition {Syn., loc. cit. after Delbriick) the  imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus seiner  personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche Erinne-  rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive and  reminiscent uses, therefore, result from the use of the progressive  function to represent a past act vividly. The reminiscent effect  is due to the fact that in this usage the past acts are restricted to  those which concern the personal experience of the speaker or  hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from  Blase's list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non  vitiosam, ut heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est  plane nullam esse rem publicam. Here Cicero clearly indicates  that he is repeating the substance of his own words of the day  before = " as I was saying yesterday, let me remind you." 2 So  Catullus 30. 7: eheu quid faciant, die, homines, cuive habeant  fidem ? certo tute iubebas animam tradere, inique, me ....  idem nunc retrains te, etc., where the poet reminds his friend (?)  of the latter's advice. In both cases the progressive force is  clear, and, as Blase says, the tenses stand in no clear temporal  relation to any preterite in their context. Now since the peculiar   .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But profecto refers to the content,  not to the exact, words of the passage in the libri annates. And when Gellius gives a  word-for-word citation, he introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba  Q. Olaudii .... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut  quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion of  Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of Quadrigarius is not  given, but Gellius was probably taking the substance of the account from him. I  have excluded this passage from the certain remains of early Latin.   iKritik, p. 15: "War die vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des  Alt-Indischen (vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s ,  § 539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine uralte  Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f.   2 The English imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as fol-  lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like " Warn't I tellin' ye?"  Usually the time is denned by some adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the  contrast between past and present as expressed in both passages by nunc.     Impebfect Indicative in Early Latin 369   appeal to recollection is the distinguishing feature of this remi-  niscent imperfect, it would seem proper to confine the usage to  those cases in which such an appeal is clear. Without discussing  doubtful cases I content myself with indicating those found in  Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent. Plautus  Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past of  the interrupted type). In the same category I would place  Cicero Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo  nunc tamen et agam studiosius et contendam — -except that here  the action of faciebam is not interrupted, but is continued in the  present, cf. agam et contendam. Other immediate pasts are Ovid  Fasti i. 50: qui iam fastus erit, mane nefastus erat; ibid. 718:  si qua parum Komam terra timebat, amet; ibid. ii. 79: quern  modo caelatum stellis Delphina videbas, is fugiet visus nocte  sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si quis Borean  horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit. Varro  R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me absente  patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e  villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive  and (also against Blase) contemporaneous with vidi just above.  dicebat is difficult and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the  exact details given by the speaker ; or did the phrase in annos  singulos influence the choice of the tense ? So in Cic. Off. i.  108 : erat in L. Crasso, .... multus lepos; 109 : sunt his  alii multi multum dispares .... qui nihil ex occulto, nihil de  insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-  bamus, the imperfect seems to be progressive used in description.  In Ovid Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio'  sermo, the imperfect seems to be customary; cf. antiquus and  Paulus s. v. Agonium: Agonium dies appellabatur quo rex  hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam vocabant.   But however much the interpretation of single cases may vary,  this is clear: the progressive force is discernible in all these cases.  It would be better, therefore, to content ourselves with this and  not to discover an additional appeal to recollection, unless such  force is perfectly clear, since the real imperfect function is not  altered whether the reminiscent force be present or absent.   lOf. p. 359.    One more remark needs to be made concerning the remini-  scent imperfect. This category has served as a convenient catch-  all for many cases of the imperfect which are difficult to classify  and especially for those in which it is difficult or impossible to  discern any progressive force, many of which I have classified as  aoristic. To classify these last cases as reminiscent is doubly  wrong ; first, because it usually involves a petitio principii, i. e. ,  an effort to discover imperfect function because the form is  imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-  nected only with instances in which the imperfect (progressive)  function is clear. The shadowy appeal to memory does not exist  as a separate function It has already been pointed out that Blase would not elevate  this variety of the progressive imperfect to the dignity of a sub-  class. The tense, however, occurs so often in the expression of  custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-  ration from other varieties of the progressive. In early Latin  I have counted about 450 instances in which the customary  coloring seems tome the most prominent element (see the table).   Blase (Kritik, p. 9) has objected to my statement ( Am. Jour.  Phil.) that verbs whose meaning implies repe-  tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well adapted  to the expression of the customary past function. He gives no  reason with regard to the first group, vocito, etc., where the mean-  ing is connected with the form. With regard to soleo, etc., he  says only that the reciprocal influence of verb-meaning and tense-  function appears "nicht nachweisbar, da doch der Verfasser  selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich findet,  weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary  past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-  understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too  brief. I did not mean by reciprocal influence of verb-meaning  and tense-function that the tense borrows anything, as Blase  seems to understand me, from the meaning of the verb, but that  when a verb whose meaning implies repetition or custom occurs   i See p. 378 for further remarks.     Imperfect Indicative in Eaely Latin  in the imperfect tense, the expression of custom becomes especially  clear. The meaning of the verb and the function of the tense  are mutually helpful to the expression of the thought. 1 Verbs  like appello, voco, vocito, dico (="name") imply not merely a  single act of naming, but usually many acts at intervals. 2 There  are numerous instances of such verbs in the imperfect (see the  collection) and nothing seems to me to be clearer than that these  verbs are especially well adapted to the expression of custom — •  past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17. 2:  iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162: ubi  cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first case  the tense merely states, while the verb-meaning, together with  the context, gives the idea of custom or habit; in the second  (voeitabant) the verb- meaning is reinforced by the imperfect  tense — both aid in the expression of custom. This does not mean  that a Roman more often used the imperfect tense of such verbs  when he wished to express custom, but that when the imperfect  was used, a clearer expression of customary past action resulted. 3  As to soleo, consuesco, etc., the same principle holds, for cus-  tom and repetition are inseparably connected; but since these  verbs imply by their meaning the very function (custom) in  question, it is clear that the imperfect tense would occur more  rarely. When, however, the imperfect was used, there was, just  as in vocito, etc., a more emphatic expression of the customary  idea; cf. Phorm. 90: Tonstrina erat quaedam: hie solebamus  fere plerumque earn opperiri .... Here tense, verb, and particles  all lend their aid to the expression of the idea of custom or habit.  The same idea would have been expressed less clearly by hie fere  plerumque opperiebamur, or by hie fere plerumque soliti sumus  opperiri, or by hie opperiebamur. In the last form only does the   i Cf . Trans. Am. Philolog. Ass., where I first expressed this  view. That verbs like soleo "dominate the tense" I no longer believe; they  aid the tense, but it is impossible to say whether the tense or the verb-meaning is  more influential in the total effect. Cf. also Morris, Principles and Methods in  Syntax, 1901, p. 72.   2 If the intervals are very close together without the implication of custom, I  would classify as frequentative ; see below.   3 Am. Jour. Phil., and the dissertation of Miss Perkins cited  above.    tense-form become entirely dissevered from the influence of verb-  meaning and accompanying particles, and even here context is  operative. The progressive function inherent in all true imperfects renders  the tense well fitted to express repetition in the past. The repeated  acts may naturally occur at wider or narrower intervals, as the case  may require. All expressions of custom, for example, involve an  idea of repetition, but it is only to cases of the imperfect which indi-  cate an act as repeated insistently, usually at intervals very close  together, that I would give the title "frequentative" or "iterative,"  i. e., imperfects in which this element of repetition becomes more  prominent than any other. It seems to me that the existence of  a few such cases in early Latin is not fanciful. In Plautus'  Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae modiales  erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a single  situation is described wherein the parasite repeatedly and insist-  ently asked, kept asking, whether, etc. There is something more  than mere progressive force, on the one hand, and there is no  idea of habit or custom, on the other. The primary element of  the tense is here repetition. When, therefore, Blase sees in As.  207 ff. repetition, he is right, for repetition in a general way is  present in all cases of the customary imperfect; but he is wrong  in viewing repetition as the more important element. The more  important element seems to me custom and in accordance with  this we ought to classify these cases as customary. 3   iln a review of Miss Perkins' dissertation Woch.f. kl. Phil., 1904, cols. 1277-80,  Blase has since admitted the truth of my assertion with regard to the influence of  verb-meaning: "Die Verbalbedeutung ist massgebend z. B.bei alien Verben, die  'nennen,' 'benennen,' bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der Name  entsteht durch ein gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand gegeben (by  Miss Perkins) fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler bezweifelt habe."   2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud. 540, which was nevertheless  cited, but escaped him because by a misprint the imperfect was not italicized. On the  same page he cites ten passages and says that I "hier uberall gewohnheitsmftssige  Handlungen erkenne." This is very inaccurate, unless "hier" refers to the last two  passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list which I have classified as  customary. My classification of the other eight passages may be seen by referring to  the collection at the end of this paper.   3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that the frequentative  imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere said this and my statement,     Imperfect Indicative in Early Latin 373   the aoristic imperfect  Excessive deference to the principle that a difference of form  implies a difference of meaning and the well-known tendency of  investigators to abhor an exception are chiefly responsible for the  unwillingness of some scholars to admit that the imperfect occurs  in Latin with no progressive force, i. e., as an aorist. While I  can not pretend to criticize this method as applied to Sanskrit and  Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons against  its application, in the same degree at least, to Latin. The situa-  tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and in  Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of the  imperfect in which real progressive force is not discernible, and  the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two verbs,  aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon  arose on Latin ground alone and has its explanation in some  peculiarity of the few verbs concerned. Again the greater wealth  of tenses in Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect   Am. Jour. Phil, "Latin seems .... to have been unwilling to  take that step," implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the fre-  quentative imperfect in early Latin is still in its infancy, etc.," it was naturally not  implied that it ever passed out of its infancy ! The facts in later Latin are not known  because they are not collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both  these errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of no ad-  vantage to separate so-called iterative imperfects from those of customary nature:  " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des gewahlten Tempus aus dem Zusam-  menhange erkannt wird, dass es sich um eine Gewohnheit handelt." To this it must  be answered, first, that it is by no means always, and often not at all, on the basis of  the tense that we recognize the presence of customary action. Such action may be  expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the cases  interpreted by me as frequentative are really essentially different from any other  variety of the progressive, then they should be classified separately, at least until it can  be proved that they belong elsewhere.   1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements. He says of the Greek tenses :  "Man muss sich eben mit der Erwagung begnugen, dass es einem Schriftsteller bald  gut schien, zu konstatieren, bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer  klar machen konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method is  evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt (of Sanskrit)  in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr im Stande." This is at least  safe agnosticism, biding its time until the lost distinctions shall be found. Blase is  in entire agreement even as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf .  Kritik, p. 12.   2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt doch auch eine grosse  Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund fur die Wahl des Tempus nicht  ausfindig machen konnen."     374 Arthur Leslie Wheeler   in those languages a larger number of instances in which it is  hard to differentiate similar tenses, whereas the much narrower  tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the functions  of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated per-  fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance with  this preliterary development we should expect indications of the  same tendency in the literary period. The aoristic imperfect is,  I believe, an illustration of this tendency, resulting from the  merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in  certain verbs. The restricted range of the phenomenon and its  probable explanation (see below) would make it unlikely that we  are here dealing with a survival of an Indo-European confusion.   As illustrations of the aoristic usage I will cite : Plautus Poen.  1069 : nam mihi sobrina Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit),  pater tuos is erat frater patruelis meus. Here there seems to be  no difference between erat and fuit. Ibid. 900: et ille qui eas  vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos Carthagine aibat  esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For other cases  see the collection.   It is quite possible that others may be able to detect true im-  perfect force in some of the cases which I have classified as aoristic.  Blase, though not quite certain of his own classification, has con-  vinced me that I may have been wrong with regard to Varro H. r.  ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania .... sus cum esset  occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax .... dicebat ....  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus costis,  etc. There are so many exact details here that we suspect  Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice-  bat. 1 But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the  total of those which seem to me aoristic, enough remain to establish  this category on a firm basis.   The exact process by which the progressive function became  lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am. Jour.  Phil.) that it is a weakening due to the constant   'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as customary. I  neglected to exclude this from four cases cited from Rodenbusch. It was classified on  my own slips as customary.   2 1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.     Imperfect Indicative in Early Latin 375   use of certain verbs in ever-recurring similar contexts, until  in the case of aibam the originally graphic ' force was used out of  the form and aibam became a mere tag to indicate an indirect  discourse. 2 With eram the vagueness of the verb-meaning and  the frequency of its occurrence side by side with fui were the  chief influences. In contexts where there are many other imper-  fects all of a definite time, these usually colorless verbs naturally  take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208 aibas.   In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase expresses  his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert and  J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-  partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems  absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says  (Quom, pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris-  tic perfect and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der  Unterschied zwischen beiden gering war." "Grering" indicates  that there was to him some difference, even though it was slight.  Schneider's statements are not consistent. In his De temporum  apud priscos scriptores latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases no difference  can be seen between aibat and dixit, and that "aibat aoristi  munere fungi," but he adds that the imperfect represents an act  as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam." Hoff-  mann's supposed refutation is very weak. In the first place he   1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for the reminiscent usage  is due to the speaker's effort to represent a past act graphically.   2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the indirect discourse is  always present or implied (rarely) with aibam. Occasionally the object is represented  by a pronoun. Bacch. 982: quid ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc.   8 Cf. Blase (Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-  holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst werden  kann."   4 But cf. O. Seyffert in Bursian's Jahresb.: " Das Imperf. findet sich.  bekanntlich bei den Scenikern mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede  vom Perf . und bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche  Anderung des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das  eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei den verba  dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende Perfect;" cf. ibid.  LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement that aibat, e. g., Ps. 1083, represents  the lost perfect of aio. In Am. Jour. Phil.  I had overlooked this remarkable  anticipation of my own conclusions. confuses different uses of the tense, asserting, for example, that in  Plautus Tri. 400: aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly  analogous to that in Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat.  commotus est Tiberius, etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus,  donee, etc., and that in the last two cases the imperfect jars on us  because such an action is not usually presented "in der Phase ihres  Vollzugs." Such an application of the tense may seem strange to  a German, but to one who speaks English, it is entirely natural  and could not for a moment be mistaken for anything but a  simple progressive imperfect. To refute such a usage as a supposed  aorist is to knock down a man of straw. The supposed analogy of  these cases to Tri. 400 does not bear on the point, but it may be  remarked that ibam is analogous only in the fact that its action is  progressive and interrupted, but it belongs to the immediate past  type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which may  be taken aoristically, and asserts that the tense is in all used  "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on entirely  inadequate foundation. 2   the shifted imperfect  Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one  class (Kritik) = an imperfect subjunctive with present  meaning; for, as he says, there is no real shifting if the  preterital sense remains. But when he adds 3 that "ein sicherer  derartiger Fall ist weder bei Plautus und Terenz, noch sonst im  Altlatein vorhanden," I can not agree. He accepts as cases  of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra senis casibus  .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia,  and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in patrico  denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque esset  analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset, non,    2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de temporum usu, Saarbriicken,  1877, apparently believes that eram and fui in Vergil are so nearly equivalent that  metrical convenience often decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I  have not seen this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.   S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn der  klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der Vergangenheit in  die der Gegenwart erfahren."     Imperfect Indicative in Eably Latin 377   cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are  real cases of shifting, how do the following differ ? Plautus Merc.  983 e : temperare istac aetate istis decet ted artibus ....  vacnom esse istac ted aetate his decebat noxiis. itidem at tem-  pus anni, aetate alia aliud factum convenit; Mil. 755: insanivisti  hercle (perf. def.): nam idem hoc hominibus sa/[a] era[n]t  decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam quae sunt  futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the present  (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct. ad  Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant. 2  That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei Per-  fekten" (Blase) is accidental. 3   This peculiar shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal (contrary-to-fact) idea  present in the context or in the meaning of the verb (oportebat,  etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also calls attention  to the auxiliary character 4 of the verbs involved and thinks that  the shifting began with verbs of possibility and necessity which  seems a probable view.   In conclusion a few words are necessary with regard to some  general aspects of the subject and its method of treatment. The  original function or functions 5 of the imperfect can not, of course,  be certainly inferred from a syntactical investigation of material  which is relatively so late even with the aid of etymology and  comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184) that the  progressive function was probably original was therefore intended   i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424. For the other eases  see collection.   2 But not iv. 16. 23, which I now see is not shifted.   8 And both are cases of debuerunt! In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion  (loc. cit., p. 181, n. 1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are  shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66. I am glad to find my  view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : " Denn da der Grund der Ver-  schiebung hier vor allem in der Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise  ebenso gut ein debuit wie ein debebat verschoben werden."   «Cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 190.   6 It is uncertain whether the original meaning of the tense was vague, admitting  several uses which gradually became narrowed to one (the progressive), or whether  there was one original meaning which split into several related uses. The facts seem  to point to the second alternative.     378 Arthur Leslie Wheeler   only as a probability based upon the existence of this force in  nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of  the imperfect form. But nothing like proof was claimed for this  theory. Blase is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to  regard the reminiscent usage also as an original one (cf. p. 26,  n. 2), but he rightly says that no statistics can prove which of  these two is earlier. If my view that the reminiscent usage is  rather an application of the progressive than itself a separate  function is correct, then the progressive is older. The existence  of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek certainly  makes it very probable, as Blase says, that it existed in preliterary  Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the same  general origin as the so-called descriptive imperfect — to the effort  to present a past act (here a personal experience) vividly. 1   But the search for original meanings must ever remain within  the realm of theory; nor can we hope even theoretically to reach  any considerable degree of probability in the establishment of  such meanings without the most careful collection and classifica-  tion of the facts within the period of written speech. And this  should precede the appeal to etymology and comparative phi-  lology. What is actually found in any given language, not what  according to comparative philology ought to be found, should be  our first aim. Although I would not minimize the importance in  syntactical study of the comparative method, it seems to me prop-  erly applied only as a supplement, not as the controlling factor  to which all else is subordinated. Indeed, a premature appeal to  comparative philology may result in premature conclusions,  for an investigator whose head is filled with preconceived notions  drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to imagine peculi-  arities in Latin phenomena which he would not have perceived  at all, had he approached by a Latin route alone; and such  peculiarities have little value unless they can be recognized as  Latin without foreign assistance. Once recognized they may,  and often do, receive much additional light from comparative  philology. While it is true, then, that scholars will differ with   •Cf. Am. Jour. Phil., where it was surmised that the descrip-  tive application of the tense was Indo-European.     Imperfect Indicative in Early Latin 379   regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon and  the ultimate classification must not neglect the aid of comparative  philology, yet the chief basis of investigation is agreement among  scholars with regard to the great majority of such cases viewed  as purely Latin phenomena. If this agreement is lacking,  comparative philology can rarely bring reliability to the results. The statistical table shows that this investigation is based upon  a collection of 1,223 imperfects. It has been my aim to exclude  from consideration (and from the table) all passages of dubious  authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170 cases  have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it  must be remembered that much of the literature of the third and  second centuries before Christ is fragmentary and very often  there is not enough context to render classification at all certain.  In so large a body of text it is probable that some cases have  escaped my notice, but most of the ground has been examined at  least twice and such omissions can hardly be numerous or alter  essentially the results. I have subjected the material to a careful  revision and the table differs slightly from that published in  Am. Jour. Phil.  It would seem unnecessary nowadays for any syntactical  scholar to state that he lays no stress on statistics as such, but  when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I have  proved this and that by just so many exact figures, it seems  proper for me to disclaim any such conviction. The fact that  exact figures do not in themselves mean anything does not,  however, excuse one from being as exact as possible.   iCf. Wimmerer Wien. Stud.: "die syntaktischen Einzeltatsachen sind  viel zu sehr umstritten als dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation  und Erkl&rung der Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches  gesttizt werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a "brauch-  bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with reference to my inference that the  progressive function is original: "Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach-  wissenschaft langst festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be  regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine as chief  ies.   2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p. 289.     380 Abthuk Leslie Wheelee   The method of citation adopted in the collection will doubtless  seem to many inadequate. It is especially true, however, of the  classification of tense functions, that very often a large body of  context must be taken into consideration. For this reason very  many of the citations even in Blase's "Tempora und Modi" are  quite useless and misleading because of their brevity. It seemed  best, therefore, to cite as fully as possible in the body of the  article, but in the collection to cite only each form and the place  of its occurrence. Those who are interested in examining a given  usage in detail will in any case revert to the complete context, as  I know by experience. I. Progressive Imperfect  A. Simple Types, including imperfects in description, reminiscence,  and the "immediate" past variety.  Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed. minor, Lipsiae, 1892-96.  Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant .... fugiebam; 251 com-   plectabantur;  aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam;   603 stabam; 711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant;   1095 rebamur; 1096 confulgebant. 14   As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392 volebam; 395   volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889 suspi-   cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931 dissua-   debam. 13   Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179 abibam;  poterat; 376   erat; 424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625   radebat .... croccibat; 667 censebam expectabam ....   abstrudebat; 754 scibas; 827 apparabas. 15   Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat dabat; 297   dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676 nescibas;   683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983 auscultabat   .... loquebar. 14   Capt. 273 erat; 491 obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat;   654 assimulabat; 407 audebas; 913 frendebat. 7   Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432 trepidabant .... fes-   tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar; 594 ibam;   674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat   .... erat.  Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569 adiura-   bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723 quaeritabas;   759 quaeritabam. 9   Cure. 390 quaerebam; 541 credebam. 2     Imperfect Indicative in Early Latin 381   Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam; 214  occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-  stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar;  241 ibat; 409 apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam.  482 deperibat; 587 vocabas; 603 dicebant; 612 aderat. 20   Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195 amabas .... oportebat;  420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564 ferebat; 605  censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636 cense-  bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat; 1042ai[e]bat;  1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072 censebam;  1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136  censebat; 1145 vocabat. 28   Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175 quaerebas; 190 abstrudebas;  191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247 cruciabar; 360  habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat .... quae-  ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15   Miles 54 erant; 100 amabant; 111 amabat; 181 exibam ....  erat; 320 ai[e]bas; 463 dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale-  bat .... amburebat; 853 erat; 854 erat; 1135 exoptabam; 1323  eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat; 1430 habebat. 18   Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar; 257 erat; 787 erat;  806 aiebat; 961 faciebat. 6   Persa 59 poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar;  .... censebam; 262 erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477  credebam; 493 occultabam; 626 pavebam; 686 metuebas. 12   Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485 accidebant; 509 scibam; 525  properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178 aderat; 1179  complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam. 12   Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492 nole-  bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam;  502 aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam;  698 arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas  .... erat; 800 sedebas .... eras; 912 circumspectabam ....  metuebam; 957 censebam; 1314 negabas. 24   Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat; 324  suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-  bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846  sedebant; 956a faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete-  bas; 1186 credebam; 1251 monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat;  1308 erat. 24   Stich. 130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat;  365 superabat; 390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545  erant; 559 postulabat. 11     382 Arthur Leslie Wheeler   Trin. 195 volebam; 212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam ....  quibam; 901 erat .... gerebat; 910 vorsabatur; 927 latitabat;  976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam. 12   True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat metue-  batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;  733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat ....  petebat; 921 ibat. 16   Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2   Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2   Plautus, IA, Total 291  Terence, ed. Dziatzko, 1884.   Ad. 78 agebam; 91 amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153  gaudebam; 234 eras; 274 pudebat; 307 instabat; 332 iurabat;  333 dicebat; 461 quaerebam; 561 aibas; 567 audebam; 642  mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas; 821 ibam;  901 eras. 19   And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60 gaudebam; 62 erat; 63  erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant; 90 gaude-  bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat; 108  curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat;  175 mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat;  533 quaerebam; 534 aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar-  abantur; 657 postulabat; 792 poterat; exit, suppositic. I expec-  tabam. 31   Eun. 86 eras; 87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113  scibat .... erat; 114 addebat; 118 credebant; 119 habebam;  122 eras; 155 nescibam; 310 congerebam; 323 stomachabar; 338  volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378 iocabar; 423 erat; 432 ade-  rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant; 569 erat; 574 cupi-  ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620 faciebat  .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat  .... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000  quaerebat; 1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089  ignorabat. 43   Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-  bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta-  bat; 445 erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta-  bam; 781 dicebam; 785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat;  924 aiebas; 960 aiebas; 966 erat. 22   Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat; 162  erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322  poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422  expectabam; 455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam;  581 rebar; 651 optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23     Imperfect Indicative in Eaely Latin 383   Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat .... supererat; 83 servi-   ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat; 97 erat? 99aderat; 105   aderat; 109 amabat; 118 cupiebat .... metuebat; 298 duce   bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468 erant; 472 quae-   rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570 manebat; 573   commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat ....   quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat; 652   ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam; 760daba-   mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900 iba-   mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013 erat;   1023 erat. 47   Terence, I A, Total 185  Cato ed. Jordan, Lipsiae, 1860.   p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur. Total 2   Dramatic and epic fragments.  Naevius. Bell, pun., ed. Mueller, 1884.   5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65 inerant.   tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98.   I p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant.   II p. 30 VII faciebant .... tintinnabant. 9  Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.   Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant;  87 expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147  volabat; 190 sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307  agitabant; 309 explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408  sollicitabant; 459 parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21  Scenica. 15 eiciebantur; 123 erat; 127 inibat; 251 petebant; 324  scibas.   Saturar. 65 adstabat.   Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8   Pacuvius, ed. Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1   Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V ostentabat; p. 162 VII scibam;   p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat; p. 210 XII commiserebam   .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251 XIII mollibat. 8   Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII hortabar; p. 285   XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4   Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;   p. 120 X videbar. 3   Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II aibat. 1   Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217 XII sup-   ponebas. 2   Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303 II cubabat. 1   Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat simulabat. 2   Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60     384 Arthur Leslie Wheeler   Historicorum fragm., ed. Peter, 1883.   p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72. 27 can-  tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat ....  habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5  erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista-  bat; 138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant;  143. 46 captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant ....  apparebat; 149. 81 mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus  erat .... defendebant; 178. 8 erat .... tegebat; 178. 9 pot-  erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat; 184. 86 erat.   I A, Total 34  Orator, fragm., ed Meyer, Turici, 1842.  p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam .... arbitra-  bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur .... lavabantur.   I A, Total 8  Lucilius, ed. Marx, 1904.  393 stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108  gemebat; 1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175  ducebant; 1187 haerebat; 1207 premebat.   I A, Total 11  Auctor ad Herennium, ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in  C. F. W. Mueller's Cicero, Vol. I, has been compared throughout.  1. 1. 1 intelligebamus .... attinebant .... videbantur; 1. 10.  16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13. 23 defendebant .... erant;  2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2. 2 videbatur; 2.  5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat .... videbat  .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-  bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant ....  erant .... videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote-  rant .... videbant; 4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio-  sus erat, doctus erat, .... amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22  removebas .... abalienabas; 4. 16. 23 damnabant .... ini-  quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19. 26 proderas  .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-  bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas;  4. 24. 34 habebamus .... habebam .... erat .... obside-  bamur .... videbar; 4. 33. 44 adsequebatur .... profluebat  .... erat; 4. 33. 45 pulsabat .... ducebat; 4. 34. 46 videban-  tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41. 53 veniebat ....  occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.   I A, Total 62  Corpus Inscr. Lat., Vol. I.  201. 6 animum .... indoucebamus .... scibamus .... arbi-  trabamur.   I A, Total 3     Imperfect Indicative in Early Latin 385   Varro, De lingua Lat., ed. Spengel, 1885.   5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5. 128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat;  7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59 erant. 8   De re rust., ed Keil, 1889,   1. 2. 25 ignorabat .... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12  ibam; 3.2. lstudebamus; 3. 2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice-  bat .... erat .... cenabamus; 3. 5. 18 dicebatur; 3. 16. 3 erat;  3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat. 14   Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1. 9  findebat. 2   I A, Total 24   Grand Total, I A, 680   B. Imperfect of Customary Action.   Plautus   As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;   208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-   ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-   vectabant. 13   Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2   Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;   429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8   Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3   Cist. 19 dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3   Epid. 135 amabam. 1   Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717   ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123   vocabant; 1131 erat. 11   Merc. 217 credebat. 1   Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat   .... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com -   plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11   Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731   erat. 5   Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat. 3   Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3   Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4   Rud. 389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam.  Stich. 185 utebantur. 1   Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2   True. 81 memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba-   mus; 393 habebat; 596 erat. 6   Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat. 3   I B, Total 84     386 Arthur Leslie Wheeler   Terence   Adel. 345 erat. 1   And. 38 servibas; 83 observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90   quaerebam .... comperiebam; 107 habitabat; 109 conla-   crumabat. 8   Eun. 398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3   Heaut. 102 accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant   .... dabant. 4   Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804   accedebam; 805 negabant. 6   Phorm.  operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364 con   tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6   I B, Total 28   Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan, 1860.  1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....  laudabatur.   Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant .... deverte-  bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur ....  laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat  .... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur.   I B, Total 18   Dramatic and epic.  Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.   Scenica 355 suppetebat. 3   Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I aspectabant .... obvertebant. 2   Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V flabat .... erat. 2   I B, Total 7   Historicor. fragg.  p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128 temptabam  .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-  ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque-  bantur; 123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant  .... educebant .... continebant .... cogebant ....  insuebant.   I B, Total 16   I B, Total 2   I B, Total 1     Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas.  Lucilius, ed. Marx 1236 solebat.     1 Perhaps different versions of the same passage ; cf . Peter. I count them as one  case.     Imperfect Indicative in Early Latin 387   Auctor ad Herenn., ed. Kayser.   4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant .... poterant; 4. 16.  23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-  bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat.   I B, Total 11  CIL. I. 1011. 17 florebat.   I B, Total 1  Varro, De ling. Lat., ed. Spengel.   5. 3 dicebant .... dicebant .... significabant; 5. 24 dicebant;  5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33 progrediebantur; 5.  34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant ....  vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....  colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat ....  advehebantur .... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat  .... putabat; 5. 68 dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur;  5. 82 dicebatur; 5. 83 dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86  praeerant .... fiebat .... mittebantur; 5. 89 fiebat ....  mittebant .... pugnabant .... deponebantur .... subside-  bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5. 95  perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;  5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant  condebant; 5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant  .... vocabant; 5. 108 edebant .... ferebat .... decoque-  bant; 5. 116 faciebant .... habebant .... opponebatur; 5. 117  fiebant; 5. 118 appellabant .... erat .... ponebant; 5. 119  infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant .... ponebant;  5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat  dabant  sumebant erat vocabatur ponebatur erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant  portabatur sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant fiebat erat erat aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur dicebatur  impluebat compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant cenabant exigebant legebant ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant insternebant appellabant operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant auferebat redibat exigebatur; dicebant erant ponebant stipabant componebant pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant dicebat videbatur dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant conveniebant dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur appellabatur dicebant promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat videbatur intererat fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur poterant dicebantur fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant committebant dicebat animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur erat erant erat dicebantur erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat dicebant valebat dicebatur constabat dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil, Lipsiae solebant dicebat poterat .... effodiebat appellabant faciebant vocabant pendebat dicebantur faciebant erant laudabatur providebant dabant dicebant inserebantur vocabant praeponebant putabant appellabant reiciebant hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant dicebant habitabant sciebant alebantur redigebant; credebant habebant serebant pascebant habebat ostendebas accipiebat .... dicebat dicebat dicebant erat pascebantur erat erat  habebant erat laudabant aiebat dicebant vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant appellabant dabat consumebat habebat adgerebant coiciebat erat laborabat  aiebat .... despiciebat Sat. Menipp., ed. Eiese P. erat radebat vehebantur sol vebat loquebantur solebat; suscitabat habebant habitabant. Total  Imperfect Indicative in Early Latin Imperfect of Frequentative Action.   Plautus, Asin. dicebam; Capt.  percontabatur; Epid. mittebat; missiculabas; Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas; Kud.  promittebas;  True. poscebat Ennius, Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total  Aoristio Imperfect   Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;  Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat  ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas; Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant; Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat;  Poen. aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich. aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat; Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect   Plautus, Merc. 6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence, Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant. Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A. Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad Herenn. Varro Except historical works the citations from which are included among the  historians. Laberius and later writers not included.  3 Nepos and later historians not included.   4 Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --  l’aspetto perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.

 

Grice Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of CICERONE, and an expert on divination. According to Seneca, he wrote a book about lightning. Aulo Cecina. Cecina.

 

Grice e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore. He belonged to the Porch. He becomes involved ina plot against the emperor Claudio. He was condemned to commit suicide and his wife encouraged him to go through it by committing suicide first, and passing the knife in the proceeding with the infamous utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto. Cecina.

 

Grice e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Cheilas. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An ally of Pelagius, he argues that because sin is an act of free will, the existence of sin proves the existence of free will. Celestio.

 

Grice e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He composes  a history of medical thought and translated some of the works of Sorano. Celio Aureliano. Celio.

 

Grice e Cellucci: l’implicatura conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone. Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi,  Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento  [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo,  La Cultura. La logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo del nous  nella conoscenza scientifica”, In  Il Nous di Aristotele, ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In  La guerra dei mondi. Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In  I modi della razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria della logica polivalente nell'antichità o la storia antica,  Bollettino della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia. Un colloquio con (e su) C.; La spiegazione in matematica. Periodicodi Matematiche  (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze, Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari  Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica.  Nuova Secondaria. La logica della macchina, in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano,  Del metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti, Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche. Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia. Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o non meccanico? In  L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia della matematica. Laterza, Roma.  C. Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente nell ' ottenere.  Infiniti  LM Prima di addentrarci nelle questioni concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti    Cardinalità di insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10 appartamenti? Infiniti. Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo associato univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e 10.  In termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10}  Infiniti  LM f è un’iniezione di A in B se è una corrispondenza biunivoca tra A e un sottoinsieme di B Siano A e B due insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione, ossia una legge tale per cui   per ogni a A esiste uno e un solo b B tale che f (a) = b.. Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca)    f è una corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b B esiste uno e un solo a A tale che f (a) = b.    Definizione 2 (Iniezione) Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75    LM   Esercizio 1    Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato    Soluzione dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione    (a) corrispondenza biunivoca (b) niente  Questo caso scriveremo |A| = n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli elementi di un insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la nozione di corrispondenza biunivoca.   Definizione 3 (Cardinalità degli insiemi finiti)    Sia A un insieme e n un numero naturale. Diremo che A ha n elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In Diremo che A è un insieme finito se esiste n N tale che |A| = n; Diremo che A è un insieme infinito se non è finito.     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 15 / 75   Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà. Due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.   Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee biunivoche  A a b c d  e f g h B  1 2 3 4  equivalgono a  A a b c d  e f g h B  La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta). La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta).  Questo ci permette di estendere il concetto di "equinumerosità":    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o  sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di "maggiore numerosità".   se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se esiste un’iniezione di A in B    B a b c d  g h A      Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo  |A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi. Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito protagonista di questa storia è l’insieme dei numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla all’Hotel Infinito,  noto per avere infinite stanze.     Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da  alassie, e di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le stanze erano occupate. tutte le g  Soluzione del problema...  Il direttore dec ide di spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2 nella 3 e così via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene spostato lo zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1»  Il problema si complica perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia per partecipare al congresso interstellare dei filatelici  Il direttore, come soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n»  Così, gli zoologi occuparono l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda ottenne il numero di stanza «2n-1»  rimettere tutto in ordine e a chiudere tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos   I costruttori dell’Hotel Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con infinite stanze.    Furono costretti, però, a        Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di infiniti hotel nel suo hotel, già pieno. COME FARE ? Ion propose di usare solo le progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi, nessuna delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due occupanti!  Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia. Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta storia.   Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN}   Soluzione 2 01234 n 7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9 2n+1  L’ultimo partecipanti, che sostanzialmente ci racconta che l’insieme prodotto N × N ha la stessa cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo più tardi. I risultati dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del pensiero. caso descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con infiniti    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75   Povero Euclide! LM Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi n0 termini (pensate n0 grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente la stessa cardinalità di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da Euclide: "il tutto è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300 a.C.) Ricordiamo che Euclide è probabilmente il più grande matematico dell’antichità e i suoi Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale opera di riferimento per la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno degli 8 enunciati di "nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello in cui vengono fissati tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la geometria nota all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo problemMa si era accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire uno essere maggiore o minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo, possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è esatta il giusto attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga agli infiniti mente  Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre? Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A B, allora |A| ≤ |B|. Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a 􏰀→ a è un’iniezione di A in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A B, allora |A| ≤ |B|. Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75    LM   Teorema    Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. In particolare, {p N della forma p = 2m3n, n, m N}, ha la stessa cardinalità di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N. Cardinalità numerabile Quindi la cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola cardinalità infinita". Per questo si è meritata un "nome proprio" e un simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’ NUMERABILE.  Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico.     Diremo che un insieme A è numerabile se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con N.       14/3/18 36 / 75     LM NZQR Ricordiamo brevemente cosa sono per poi confrontare le loro cardinalità. Esistono insiemi infiniti con cardinalità diversa (maggiore) da quella numerabile? Per rispondere a questa domanda usiamo gli insiemi numerici come prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri NATURALI numeri INTERI 􏰁p 􏰂 Q = q , p intero, q ̸= 0 naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni strette:   I numeri interi Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata. Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura disegnare tutti punti equidistanti dal successivo.   -6-5-4-3-2-10 1 2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei numeri naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme numerabile.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75   Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n  2 sen=0oppuresenèpari −n+1 senèdispari 2     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 / 75    Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4  14/3/18 n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678          39 / 75    LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678         -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4   n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Ann  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    14/3/18 46 / 75    -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        Abbiamo così ottenuto che Z è numerabile. 􏰁􏰂 LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali.  􏰁􏰂 (i numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero   01  Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro media).   0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili medie delle medie). 01131 424     113 084828481 Si intuisce che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci: Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci:     Q ha cardinalità numerabile.  Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di "etichettare" con numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto (primo) metodo diagonale di Cantor. Trovare un percorso che passa una sola volta per ogni stellina e numerare le stelline man mano che si incontrano (nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆···11 20 14/3/18 1 → 2 6 → 7 15 → 16 ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ↗↙↗↙ 4 9 13 18 ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ↗↙    52 / 75    Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567 1111111  1234567 2222222 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 e percorrerla con il metodo che abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ·2222222 ↓↗↙ 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile. Questo produce una corrispondenza biunivoca tra A B e N. LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile     Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi numerabili, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei numeri pari e una corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} = A B ←→ N.  Voglia di misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia che i punti corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece scoprirono presto che manca qualcosa...    1  ?    Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22   Quindi, geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali (abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati aggiunti tanti elementi... invece l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità numerabile! R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la stessa cardinalità)    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75   Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo: supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13 a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0, βj ̸=9, j appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero), ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver enumerato tutti i valori nell’intervallo. Quindi sicuramente la cardinalità dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo a dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione.   Esercizio 4    Determinare (geometricamente) una corrispondenza biunivoca tra due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale.  Suggerimento: allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura: a c b d P   P  a c b d  si proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in formule utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca cercata. Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta di “meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia;  −1 1 R     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75     LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1 tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale circonferenza; P   −1 1 R   −1 1 Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P   R     65 / 75   Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza; P    −1 1 R   −1 1 Proiezione stereografica tracciamo la retta per P e il punto della circonferenza; associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione tra la retta considerata e la retta reale; P     R   Se facciLamo questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1) costruiamo una corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta reale. −1 1 Il meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite una semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P  Cardinalità del continuo La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità del continuo. Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali irrazionali algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti interi (ad es. tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali trascendenti: tutti gli altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente tantissimi irrazionali algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle informazioni riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente, si può dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità numerabile; quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente tanti!    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75     QuantLe e quali altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi numerici abbiamo trovato due cardinalità distinte, quella del numerabile e quella del continuo. E’ del tutto naturale porsi due domande: ci sono cardinalità intermedie tra queste due? ci sono cardinalità superiori a quella del continuo? La prima apre una questione particolarmente affascinante (o frustrante, dipende dai punti di vista) che prende il nome di Ipotesi del continuo nda ha una risposta stup ci sono infinite cardinalità (infinite) distinte! La seco efacente:  CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera.   CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale (fisica, ingegneria, informatica...)   CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile nell’ambito della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa.    {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c} {a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda introduciamo una nuova nozione.   Insieme delle parti    Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A sottoinsieme di X}.  Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme formato dai seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)| = 2n > |X|.  Esistono infinite cardinalità infinite   Teorema di Cantor    Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza del Teorema di Cantor, otteniamo che esiste una sequenza di cardinalità infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente.   Partendo da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima, basta iterare il passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · ·    Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x 􏰀→ {x}” è un’iniezione di X in P(X). Quindi |P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione biunivoca tra X e P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con ”x ↔ A(x)”. Consideriamo l’insieme C P(X) C = {x X tali che x ̸ A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 X tale che C = A(x0). Si ha che se x0 C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸ C = A(x0)  se x0 ̸ C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C,  deve essere x0 C = A(x0) Le contraddizioni trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca. Se ne conclude che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca tra X e l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18    74 / 75 Aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können. Insiemi infiniti 1. Introduzione Finch ́e gli insiemi che si considerano sono finiti (cio`e si pu`o contare quanti sono i loro elementi mettendoli in corrispondenza biiettiva con i numeri che precedono un certo numero naturale) la nozione di insieme pu`o fornire un comodo modo di esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto Cantor per primo elabor`o la nozione di insieme per risolvere problemi di quantita` di elementi in insiemi infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si dice che due classi hanno la stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a tra le due classi. In tal caso si dir`a anche che le due classi sono equinumerose. Definizione. Si dice che un insieme A `e finito se esistono un numero naturale n e una biiettivit`a da A sull’insieme dei numeri naturali che precedono n; in questo caso diremo che A ha n elementi. Se ci`o non succede, si dice che l’insieme `e infinito. Se un insieme A `e finito e un altro insieme B `e contenuto propriamente (contenuto ma non uguale) in A allora A e B non sono equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna biiettivit`a tra i due. Questo risultato dipende dal fatto che per nessun numero naturale ci pu`o essere una biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo precedono e l’insieme di quelli che precedono un diverso numero naturale. L’ultima affermazione non si estende agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo con un con- troesempio gi`a considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. I numeri pari sono un sottinsieme proprio dei numeri naturali, ed entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre la funzione che a un numero naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a dai numeri naturali sui numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali sono tanti quanti i numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio dell’insieme dei naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se hanno lo stesso numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un altro o meno. Per fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i numeri naturali che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli insiemi infiniti non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora quando un insieme ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare a dire che un insieme `e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi infiniti porta naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia simile a quella fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse propriet`a degli insiemi finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due insiemi. Diremo che la cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella dell’insieme B, e scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale iniettiva di A in B. Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e stretto n ́e largo. Non `e stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta considerare la funzione identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o accadere che |A| ≤ |B| e anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio quello in cui A `e l’insieme dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali pari. Scopo di queste note `e di studiare le propriet`a di questa relazione. Attraverso essa potremo arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e ci`o che ci interessa. 1  2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e un insieme e B A, allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 􏰈2x se x ≥ 0, −2x−1 sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora |X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0, la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn, xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f: {x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y / Im(f) (altrimenti Y avrebbe n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale iniettiva g : X → Y che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la definizione che ci interessa maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due insiemi. Diremo che A e B hanno la stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A| = |B|, quando esiste una funzione biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la definizione di cardinalit`a, per la quale occorrerebbe molta piu` teoria e che non ci servir`a. Sar`a piu` rilevante per noi scoprire le connessioni fra le due relazioni introdotte. 3. Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti (C1) Se A `e un insieme, allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| = |B|, allora |B| = |A|. (C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|. Queste tre proprieta` sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la funzione identit`a; nel secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a A → B; nel terzo si prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la biiettivit`a B → C. (M1) Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2) Se A, B e C sono insiemi, |A|≤|B|e|B|≤|C|, allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per ≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi. Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤ |B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva totale. Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva h: A → B. Un elemento a A ha un genitore se esiste un elemento b B tale che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b B ha un genitore se esiste a A tale che f(a) = b. Siccome f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un elemento a A oppure b B, possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo al passo (b). Partendo da un elemento a A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che a A0;  3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che a AA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che a AB. Analogamente, partendo da un elemento b B, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che b B0; • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che b BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b BB. Abbiamo diviso ciascuno degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 AA AB , B = B0 BA BB . Se prendiamo un elemento a A0, `e evidente che f(a) B0, perch ́e, per definizione, a `e genitore di f(a). Dunque f induce una funzione h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a). Questa funzione, essendo una restrizione di f, `e iniettiva e anche totale. E` suriettiva, perch ́e, se b B0, esso ha un genitore a che deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a AA, allora f(a) BA: infatti a `e genitore di f(a) e la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una funzione hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva, perch ́e ogni elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente, se partiamo da un elemento b BB, allora g(b) AB e g induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e suriettiva, esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0 hA h−1. Allora h `e una funzione h: A → B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio. Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N → Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 􏰈4z se z ≥ 0, −4z−2 sez<0. Quali sono gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro stessi. Consideriamo x0 = 2 N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 / Im(f), la procedura si ferma e 2 NZ. Consideriamo invece x0 = 4 N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti, perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 N. Poich ́e 1 / Im(g), abbiamo che 4 NN. Studiamo ora x0 = 16 N; siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo x2 = 4 N; siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 N. La procedura si ferma qui, dunque 16 NN. Si lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e infinito, esso non `e vuoto; sia x0 A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste x1 A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠ A, quindi esiste x2 A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di avere scelto gli elementi x0, x1, . . . , xn A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste xn+1 A\{x0,...,xn}. Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la funzione n 􏰀→ xn `e iniettiva. 􏰃 Questo risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 􏰃  4 INSIEMI INFINITI Corollario 3. Sia A N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non `e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e A N. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Un altro corollario `e la caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito. Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme proprio B A tale che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: 􏰈f(n+1) seesistenNtalechex=f(n), x se x / Im(f). La condizione “esiste n N tale che x = f(n)” equivale alla condizione “x Im(f)”. La funzione g `e ben definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x = f(n) per qualche n, questo n `e unico. Osserviamo anche che x Im(f) se e solo se g(x) Im(f). Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x / Im(f), allora g(x) = x; dunque non pu`o essere y Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • SexIm(f),`ex=f(n)perununiconN. Allorag(x)=f(n+1)Im(f). Perci`o g(y) = g(x) = f(n + 1) Im(f) e quindi, per quanto osservato prima, y Im(f). Ne segue che y = f(m) per un unico m N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x = f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che f(0) / Im(g). Viceversa, ogni elemento di A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se allora consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa `e una biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \ {f(0)}, abbiamo il sottoinsieme cercato. 􏰃 Notiamo che, nella dimostrazione precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio si trovi in modo analogo al precedente un sottoinsieme C A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili Il teorema secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a). Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z (insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e numerabile, allora A B `e numerabile. Dimostrazione. Se A B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A B = (A \ B) B possiamo supporre che A e B siano disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora scrivere A = {a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo una funzione f : N → A B ponendo 􏰈an se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) =  4. INSIEMI NUMERABILI 5 E` facile verificare che f `e una biiettivit`a. 􏰃 Teorema 6. Se A e B sono numerabili, allora A B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili, allora A1 A2 ··· An `e un insieme numerabile. Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla prima per induzione (esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩ B = . Abbiamo due biiettivit`a f : N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A B ponendo: f 􏰄n􏰅 2 h(n) = 􏰆 n − 1 􏰇 g 2 Si verifichi che h `e una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo AB = A′ (A∩B)B′; questi tre insiemi sono a due a due disgiunti. I casi possibili sono i seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito. Ci basta applicare quanto appena dimostrato e il teorema precedente. Si concluda la dimostrazione per induzione della seconda affermazione. 􏰃 Il prossimo teorema pu`o essere sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n N, sia An un insieme numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = . Allora A=􏰊{An :nN} `e numerabile. Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perogninN,gn:An →Nunafunzionebiiettiva. SexA,esisteununiconN tale che x An; poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x) Per esempio, se x A2, sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0 Aequindi |N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Il teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due a due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile. Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e numerabile. E` evidente che 􏰉nN An = N × N. 􏰃 Ancora piu` sorprendente `e forse quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e numerabile. se n `e pari, se n `e dispari.  B′ =B\(A∩B)  INSIEMI INFINITI. Un numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo come m/n, con m, n N primi fra loro (cio`e aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che l’insieme Q′ dei numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m e n primi fra loro) possiamo associare la coppia (m, n) N × N e la funzione cos`ı ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′ definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ {0} Q′′. 􏰃 C’`e un altro modo per convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si   1/5 1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1  Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5. Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che, intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci- sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se |A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|.  5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7 Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B. Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un altro esempio: l’insieme N {−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N {−2} non `e suriettiva. Infatti la funzione f : N → N {−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una biiettivit`a. L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo da un insieme X `e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme, allora |X| < |P (X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione totale iniettiva X → P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x X } cio`e la funzione che all’elemento x X associa il sottoinsieme {x} P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva. Consideriamo C ={xX :x/ g(x)}. La definizione di C ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X, dunque si hanno sempre due casi: x g(x) oppure x / g(x). Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c X tale che C = g(c). DunquesihacC oppurec/C. Supponiamo c C; allora c g(c) e quindi, per definizione di C, c / C: questo `e assurdo. Supponiamo c / C; allora c / g(c) e quindi, per definizione di C, c C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e suriettiva. 􏰃 L’insieme P(X) ha la stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con 2X l’insieme delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un sottoinsieme di X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0, 1} definita da 􏰈1 sexA, χA(x)= 0 sex/A. Possiamo definire due funzioni, f:P(X)→2X eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per AP(X)siponef(A)=χA;perφ2X sipone g(φ)={xX :φ(x)=1}. Teorema 11. Per ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g sono funzioni identit`a. Sia A P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={xX :χA(x)=1}=A, per definizione di χA. Sia φ 2X; dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x X : φ(x) = 1}. Occorreverificarecheφ=χB. SiaxX;seφ(x)=1,alloraxBequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x / B e quindi χB(x) = 0. Non essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A P(X) si ha A = g(f(A)), g `e suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e suriettiva e g `e iniettiva. 􏰃  8 INSIEMI INFINITI 6. La cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo l’intervallo aperto I={xR:0<x<1} e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2  1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2 arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti. Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 = 0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri, scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 = 0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 = 0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4 =0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente nei primi tre casi. In generale un numero r I si scrive come r = 0,a0a1a2 ..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0, a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0,  se x = 0.  7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N → I. Prendiamo φ 2N; la tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 / I. Se anche escludessimo questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ) = 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo uno zero fra ogni termine. E` chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale. Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|. Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I, entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤ |2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|. Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N| = |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| = |P(N)|, come voluto. Occorre commentare questo risultato. Per dimostrarlo abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo potuto scrivere esplicitamente una biietti- vit`a di R su P (N). Ma non `e questo il punto piu` importante. La conseguenza piu` rilevante del teorema `e che non `e possibile descrivere ogni numero reale, perch ́e, come vedremo in seguito, i numeri reali che possono essere espressi con una formula sono un insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor Un’altra applicazione del teorema di Cantor porta alla costruzione del cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa espressione vuole indicare l’esistenza di una successione di cardinalit`a infinite ciascuna strettamente maggiore della precedente. Allo scopo basta iterare il passaggio all’insieme dei sottinsiemi, per esempio a partire dall’insieme dei numeri naturali, per ottene- re una successione di insiemi la cui cardinalit`a, per il teorema di Cantor, continua a crescere strettamente: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)| < ··· Si potrebbe ancora andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X, Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora possiamo considerare l’insieme Y1 = 􏰊 Pn(N), nN e si pu`o dimostrare che |Pn(N)| < |Y1|, per ogni n N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di tutte quelle trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2 = 􏰊 Pn(Y1) nN e ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se, dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | < |P(X)|. 􏰃  10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N| < |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che, per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi 3N {2, 5} e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi 4N { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi Z { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi (5N \ {5, 15}) {√3, 25 } e 2N {11, 17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile e sia a / A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P = {I | I N e I `e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme P(3N) `e numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. Cellucci

 

Grice e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden during the principate of Nerone.

 

Grice e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he teaches philosophy in Rome.

 

Grice e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A rich friend of Socrates who enjoyed philosophical discussions. Cefalo.

 

Grice e Centi: l’implicatura conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e varie Questiones Disputatae.  Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI.  Altre opere: “La somma teologica, testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C., Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio di Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino, Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un segno particolare  o particolarizato è quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, id est definire quid sit nomen et quid sit verbum. In graeco habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo ARISTOTELE praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones SIGNIFICANT NATURALITER quaedam voces hominum, ut GEMITUS INFIRMORUM et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis EX INSTITUTIONE humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces NATURALITER SIGNIFICANT, sed ex institutione humana. VOCES AUTEM ILLAE, QUAE NATURALITER SIGNIFICANT, SICUT GEMITUS INFIRMORUM ET ALIA HUIUSMODI, SUNT EADEM APUD OMNES. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES ANIMAE conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: CATONIS autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, “Petrus currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, PLATONE autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam BOEZIO ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus, Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library. Centi.

 

Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calci). Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless..) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P..; Giamblico). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.). Questo e l’ordine, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto).Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E CICERONE lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina – Laerzio -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom.). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val.) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc.). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph.). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven.; Niebuhr, Hist. rom., ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P.; Porfirio, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec.-- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito; Valerio Massimo; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio; Giamblico, V. P. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal. E anco Lampredi trova analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall.; Diodoro Siculo; Valerio Massimo; Ammiano Marcellino. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat  Pythagoras, ec., De Senect.; Tuscul.), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.; Dicearco, ap. Giamblico, V. P.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm.) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str..). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met.) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp.), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir.) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P. ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P.). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor.La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggitori. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il GIOBERTI vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du, tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos? ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia; e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora, vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia, sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente, la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph.,  Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma, la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma, quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi. Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj; tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand' ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano, Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne; ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo, contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone, presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ). Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono, prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma.  Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città; altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini, il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo, e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco, partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e, ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta, 4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio, sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio, Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona, acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale, essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio: conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti, essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra, principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta, poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa, conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo, Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce, non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi: finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia, si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa, come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà. di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice: l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese, e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo, circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine, relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone, che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto, secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o, secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva, e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi, essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti: e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole, siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi. Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più, essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria, ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza, essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre: conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era, quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite, dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo: conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie, diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro, che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro, che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa, passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra, e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui. Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e, attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto, per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio, fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie. Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso, quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie, di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei, finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani, essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed, en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo, quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale, essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e, ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo, e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta, e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te, passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano, fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono; e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono, e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù, altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne; il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono, convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie, discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio, corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora, e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare, ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità, " S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale, Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria, Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni. Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino, presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano, altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno, che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila. Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini, sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo; perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza, anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento, rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei, cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi, dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso; altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte. Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ, e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse: Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo, dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali, aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi, fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo, che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e, avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che, spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro, si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi, ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora, riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo, e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela, coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno, e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro, subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra, come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio.  Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library. Centofanti.

 

Grice e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.

 

Grice e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher in Rome in the time of Nerone. Cerano.

 

Grice e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Only the soul resurrects.

 

Grice e Cerebotani: l’implicatura conversazionale della botanica linguistica –  e il prontuario -- il toscano di Ceretti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lonato). Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname, since a linguistic botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He also played with Morse, which means he was a Griceian, since he was into the most efficient way of ‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro, il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.  Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro, per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si dovevano ricare ogni due o tre anni.  Il teletopometro serve a misurare la distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro monostatico.  Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni, come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale, esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente, comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito; il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario.  In trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica.  Questo strumento permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca), e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse.  Usato per le comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani.  Inventa un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri orologi collegati con la stessa fonte d'energia.  Studia la luce fredda. La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio della luce fredda è anche alla base della tele-visione.  Altre opere: Direttorio e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano (“I () i.ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:(1 ) NI ) () (i I, I S(H: I l 'I ()1: I ANTICHI a) V 1, I ' () N A “. 'I' AI;. 'I'I l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I, l E i FROENAIO  ('n i grande mov/r, l'archi: o c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' - /Xivisione -. 1//a f, ggio in cem, l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l ' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non sono la lingua - Voi: i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria. I mularne un mom/i le//a ne va dell’'intrinseco valore e dell’importanza adunque e valore ancora didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gradevolissimo il PRONTUARIO l/aniera di  la S (17 ) a 62.  Sono agli sgoccioli della povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo mancasse anche quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata.  sicura, un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera dell'uomo può essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile di modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta: DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose, ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla più. Andò poi tanto nn, i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie i propone si come maestri di;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I l CAN/ A  r ci lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g. gr mi. Ai. le dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere, non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro h e rg, vi i ce.re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire, l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi: Il ci  N / A.E stimulato dall’ardore di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e faticoso quanto niun’altro: mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti luoghi del 300 e 500 che più mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti poi che mi vennero per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº luindi nenie a tute le più minuti circostanze del differire che fa IL LINGUAGGIO di riº: d l 'ic: classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle voci, tutti quei momenti del logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera di costrurre che è sol proprietà di ogni scrittura antica e classica, di º cosa all’opposto niente cc:nsine º una cenna volgare e moderna mi notai da prima di ogni penna classica, e di ogni stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di un medesimo assetto e tornio periodale, sia di certe singolarissime  locuzioni: ci; mi sfuſi i denti qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti -, ingr. l Ti s. I e investigandone ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli intimi rispetti e le più riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto veduti e costantemente confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio senno di genera l’eleganza: e sono appunto le parti della prima sezione di questo saggio. Cose di indole organica e che più strettamente si rife riscotto al tessuto periodale: inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche ecc. Parole e forni e notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del DISCORSO e all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria.  E' in 'b e  ci reggi e 1 in to ge s ort che: - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie elucubrazioni scientifiche  v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì, basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche può e re. p v. i, c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla uscita vi si scorgea» (simile a: selle scura el la dii iita via era smarrita) per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro che.... ». E dove: i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne » (simile a: non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº lo vidi inve::: Inp. 1a così: non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss (tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece mi freero dir el vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di noti so che, che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per ecc.. ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì. Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi, e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario, allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato, scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n 0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e nota. Guai alla LINGUA ITALIANA, quando sarà perduta affatto a quei primi padri la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di nobilissima donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella, quanto amorevole, ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta laida di fango, e che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che straziata sì m’hanno, come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere.  Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a me, sotto l’egida e fra le trincee di questi valorosi, di dire brevemente quello che ne sento, ciò è a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere l’opportunità ed il valore non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo DIRETTORIO. Asserendo che nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria, quel garbo, quel CANDORE, quel non so che di soprasensibile che regli antichi, non è già mia intenzione di censurarne le alte concezioni e menomarne comechessia il valore e la spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle metafore e delle immagini, sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia in questa o quella cosa, che del resto, i cn è, vi, p v': c velli rs it:li no, ma che può essere comune e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il valore di una lingua dimorasse sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè ièci traslati, nelle metafore e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne andrebbe del carattere non ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto lingua le varie lingue tornerebbero ad una, e renderebbero immagine di III la sola cantilena che sia suonata ora con uno, ora così altro istrumento, differendo l’una dal l’altra solo quanto può differire il suon di una tromba da quello di: 1): l ri: ti:.I e concezioni, il modo di pensare, la disposizione e l’ordine del le idee sono di una persona che ne ha la lingua, non altro che il suo stile, cioè un fatto suo individuale, una maniera di DISCORRERE secondo intende e sente. Come non può essere che un uomo si cessi la sua individualità e ne prenda un’altra, così sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi lo stile d’altri. Ma la cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone alla nostra ammirazione e vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o, è l'intrinsec. e sei le ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di qualsivoglia stile, dalla quale allo spirito più che al senso quella soavità viene cottel diletto che mal si cercherebbe nella materialità delle voci, è la grazia, quel vago ascoso e nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi stile elegante: simile alla luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e al senso della vista non è solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta subitamente risveglia, e alle molteplici individualità del visibile dà vita e vigoria di ghºzzo infinito, la lingua è rispetto allo stile quello che la luce, la forma sostanziale delle cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e l’essere di tutte le infinite individualità della luce, le quali sono perchè sono i sensi, è un solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori della ragion di quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come al  -  tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente una,  inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda, specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue individualità, così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente UNA, un “non so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle sue individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile più o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza (a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l: ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi.. he cioè la natura, la forma sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato, non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita? Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella, l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e altri  volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico, e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a vita l’originale candore, il sopito e per poco spento GENIO ITALIANO è l’elaborato mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato, e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine, che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile, onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi, l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio, e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di asserire che codesto mio DIRETTORIO è per essere appunto il saggio desiderato, quella scorta sicura ed unica, quella palestra nella giale addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, LE OCCULTE VIRTÙ DELL’ITALICO IDIOMA. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito. nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº, non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo lº::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei.l. It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl! Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº, lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu:I  i poi il tt i tr. ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti:: ti io lº t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti 3llit 8 º A  i el:  tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si s... 'ti i.i....lºli  i; ss ',...... i - i ! i ti&ui  o soli º in l It:ISS º o loti u -  Rutp li ºt toº, ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl lli t..li) op. N..lo slp: 01S, clti, pu Sclip ci, i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s: i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè, si va 1 otIº tifos. º ºlio p: 0.it tios oso.I -05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o º lill A i, 5 ti! Sii ! s ºu (olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit; o tiri uſi:p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W  o  S.- “Si - Si – s S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale  Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel VALORE DEI VOCABOLI e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi i tg ei p..iiil I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p !.lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas  sº Aoin:il nr. - i s Istºnli  a reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i.In 15i giri i rp:5ucu. li odita, uno º Iovi ouault: sti: è o niti: ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI aulluas Ip o piis lgido opuali ti OIAi().L.: St | (l Gisonb Ip guided uso 'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o, aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3 oood: oSod il mio zn glpo. I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e insis AIA e W  ologIpo o Soduco l oillouap bus Uieto n.. nip o Ies gipol.I riolle pº  oluopeA lap e Cisgiº Iap 5 i5sti p.s. p r, iº le p.It, i gol q  -uoo 'oullios opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri  i pure di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui niun atto, niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la Pace. Lungi da me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente meccanico, ma è pur cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio semplice di un corpo animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e che gii è (are a ciò di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico, che tanto sol che intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d. -, uf,3 giui tura o cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo, ma talora si spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto della bella, delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco e della vita non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di certe articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata, l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO, e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione, virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRONTUARIO ti da tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua. ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di dire con brevi istruzioni ed esempi che  ti ammoniscano come e quando rettamente adoperarli. Ti dice quale verbo o predicato sia proprio o meglio convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti, cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti forne da ultimo o più veramente vorrebbe fornirti, e lo fa completamente quando è opera compiuta i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gl’antichi, e dove questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO  cioè ritagli di alcuni vapitoli delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1, i cº II, N cºrsi o 1, i  SEC.) NI): ) (; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI ("I  Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne hanno scritto ii (il lio, il l'1 l. ll (1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità, nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio TOMMASEO), e molto meno di porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia di esempi il dicario che ella IL LINGUAGGIO così dello classico e quello di oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo, collo studio cioè degl’esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V l'elolo a pezzi il dili al dolo.  La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne, la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (doardo, la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere? Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla vita? Scull.:  o una semplice inversione di parole umana cosa è aver compassione degli allilli. Zali.. e me anche quel tanto a loro il vello il fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato.  1. ignal, o poco pi illico irl cosl li e o per dar rassic, valido  V. gl’illel'11lare clic: non llll'olio cagione di... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a 11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma ecc.  L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei mi i licesse, il t....  Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico.  Signor mio, io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la milo..... l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e' mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli renne reali lui....... I; i carri. rispose che ben si ricordava che andalo era ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere: lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il 1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo, si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo, quindi il relativo che e finalmente il verbo: sol per l'amore che io nutro per le, non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi da ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di: per quiet n lo ch. Al, i ciò sara: i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [.. lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r.  Cilf: pronome relativo di quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si attiene posponendolo al verbo e appar  tenenza relativa al primo inciso.  a... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii, le ri sono che la mi all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n...... I3oce. “. Quanti leggiadri gorani, li quali, non l'alli, ma Gallieno, Ip poci di li' o li si illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº, la sera i 1 nºn lo appresso nel l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril, e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna, l rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai, rielen le che le rii li li la I l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel nulli. I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.(nche di esse e il conlessore nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa. Con questa melajora e somma bi erità diciamo: uno aver dipinto  1) Anche la lingua francese offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle; tel brllle au second rang qui s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che non polea star me glio. Davanzati. Quando.... tal cosa verrà ben falla che non si pensa. Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o l?occ (coslui che.... dee essere...(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi ii) si | | il ll es.. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui. Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc. E quello essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ». Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono dai prigionieri con tanta guati liti sei riti. Rocc.a Indò per questa selra gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo. I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. (toslino futc, ct da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. (n broſio: l'uno lullo fiori e legge rezze. l'altro frutti e saldezza, Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul ri le fu mi. I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il tributo per lite » (esari. Due nomi, aggettivi od avverbi relativi ad un sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il verbo. Anche il complemento indiretto disgiungesi talora dal rispettivo diretto, pure frapponendovi i verbo.  c) Gli aggettivi si trovano talvolta framezzati dal sostantivo.  \ l 1 g.... l sl e silli, i - i scolla la, l I l: - Il l  i pez, a il II iscir: \l::: ' s." ;  i viaggi chi blo  s.... il liri. I sing il il suº pensi li stili e li - si si i. II. Il li sºlº lirli resi i vigli, sl 1 il II, Lici II l ' s  l; in ºsservazioni.  Vs sa sono li al rialli, ss nel s', i rºssi,. maestri s, l. I li alll I  castigatori. I 3. l: ln i ritiri il ', con i tiri, l isp, N.. ll delle sue cose era nel suº  i, lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l.  i qui i rolli per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando si n: a 'sso si mossa la si l: Nali,  lº si l ri'il miº l.l l ' i '', un fiero i nº, l un forte. I 3, i.  lº, i  Trori i no, in luogo, le loro i rom: mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni.I)i ſanta ma i tiri lui e di cosi nuova in i pieni..... l3 o. E l appresso, questo non si lanci le la rozza rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto lire' i no mi tr Nl l o r, li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich cosi noti in come li lei i t. snc: lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit.... I 3 c'e' I n uomo di scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e. lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco. l ore. A piè di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò ». Bocc.  Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13,:C.1ncora quegli rampolli che sono occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.«.... oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.« Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi altra ra l il ll, un ali di uli I e. l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so o del lupo si rangolare... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o. I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si...., Stºgli.« Non prima dir parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no... Silvi! i.a I greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile ma...... Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal 'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono, lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE.... quando in luogo di: Il0ml.... prima che e quando a valore di: C0mle prima....; come.... così.. II0Il Si toSto.... che....; appena.... che. il IIIala pcIld.... Che... ;Non selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl., Inl \ 1 Il Sºl la colla illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis, rag olio logica, la Virli, il vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun poco diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo hanno scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril (Il re del 300 e 500 colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i radisca.  Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che..., ma che l' Illo e l'all si ass: il live si. e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl: non.. primat. che.., e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili.  Non lo volle prima al suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il sile) fallo no.  Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con punse e sl, il sl 1, ſtillo  Mentre il vago del primo periodello consiste manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale demolante precedenza di tempo:  prima che:  lasciando cioè il che solo al posto suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel secondo pe riodello la stessa forma: non... prima.. che.., indica invece simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè prima..., con '... così: ecc.  Noli Irli esſendo il considerazioni che, più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo, la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN: Il0Il.... prima.... Che.... ed anche senza la negazione, I)I UN: prima... che …in luogo della forma volgare: Il0m... prima che; oppure:.... prima che  Delºrm inò di non prima mi torri e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl, inola lo Iosse in Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li, osse lui ll, il ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla che i lioli di rºsse con sei il I.lasciano slal e i pensieri....... e gli e li: i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e apparecchio lo le cose oppo lui ne (('un l'ºliº e li ill ci, la r il.Prima prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s. gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato si fosse ogni accusa lo re... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo. Segni. I 1.« e rolera parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese grandissima edificazione ». (es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola andarono, che sei canzonette cºn tale furono . Prima sofferirebbe d'esser e squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in altri consentisse, Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE,  DIMOSTRANTI CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE  Il0II prima l Il0Il...... I10Il Si toSto..... che... ilppella il IIIilla perla.EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI:  C0mle primiù....; C0mle.... prima....; come piuttosto  poichè prima....; come -... così...  slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che, ci. I. Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion, della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re. I 3.Il ct c'Ncat e 5 in bella, per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il sºlo se mio lo sta la a lola. Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha. I lav …l doll, che sarà, io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti liti e li isl il l il c. l 1 l'. Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse al l l. in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l.Non prima al talli lo ri mi li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1. se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut. Segl. Nè prima il rule o che pi ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso (io li ho li sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima, l lorº letto: \ un renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente soggiunse su bilo: \ un quid dia i: a lei le mili il l cle su lislam lidi resl rat clona le mih l'. Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ». Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio ecc.. Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli. Segli Non prima l'innocente colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere. Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare, un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro.  « Non si tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.  E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano innanzi chiaramente come di bello di chi ti o. Cavill a. ()uiri appena ) il che ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede l o l u llo insieme in col mal e latin li li li. I 3: l'1. Appena egli posò il piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i. quiri l'inchiolarono..... Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii, o rinò misert nºn le. l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a.... e'l figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi.... Segn.« Appena era comparsa nel campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito, lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ». ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa ». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella, come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb.  “e promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº in campagna. (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si. che…). 3il 'l.  « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl, è lui la sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che...... l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro. I3 cc. con le prima, lº sl he. Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ).... per le quali parole il mio marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e Aggi U1 1 m te  all' articolo 8  12) Simile alla coes-ruzione tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l' itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r. I s-li alti - Ilpi, a 1 lie della  sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp Io a dire: che udisse.  14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr. e le 11 e le 1 di... II, 'il:lo all'ait, si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1. l)llº I – Il re 1 il ll li si, gol i.  15 Il Corticelli si l plico Ia, il il 1, par. 1, se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso - Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1, si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini, che il grato sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi, prima che, tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire.  16 Qil - o prima 1 e 1::l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo, resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso che,  1, Binda che i ll'en III al clie fa r, ti ra questa o qllelia for Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II: il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o ratto che:..ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int (m.  18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli  l'rim.1 di passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il testº: come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es., del sieguente passo: nè sia chi ne stupisca, perche come l'uomo è vissuto cosi generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni scrittori piu che il diretto: come... così...,  a: a Va assil I lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche negli eseIl pi se gllenti:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III: estrº l e, a Irl III ollire...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. - e ce, aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i s.esse belle come il si.La li la dre, che le tl, l ire l: I 1:. ll ll l: I g il va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il. dI S. l a no esco con lido che cosi or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III, I | 1, come, Zi l', i Vrebbe potuto risal lia l' iller IIl l: illo. ll, cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id), Il Irgli ». I3: l.«...... ll I II li assi. Il ril. ll I 1:1 e-1 r il pil  sapere di V (I, cosi II slla l la legg.. I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1,  come voi ora il I persl 1: i let ss. l la s. l '. I 3: l. e … se li, V. - ti.. ll cosi !) il liti e In Il lidosi come il l V el'elil e la V il si, 13a l.« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole il Il le:is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re: le cosi -: S I lllll liti de Vizi, come li virtll,. lPass: l V.lº, il vero, li, cosi come lei, il... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li.. -. I 3, i.“. - il ilse la V I rl I si sa delle liti.... per le cosi come,  lisa V Vedula trielite: so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr  i li ll li i' l I l: il ct, lì 11. - lo Il Vila: “i sa slla i livi gli in stra quella cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi come questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che cosi fosse servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) (('.«..... rispose che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E son certo che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna come avvisate ». I3 a.« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli ani e li liti in li Il testo esempi di un come.... e...., e sì per mostrare l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l Il s.o come.... e.... alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che la relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che..., precisamente al fora..., e qlla ido, di quando..., tanto....; di che ti sia l all o p III, l i rili pari le lilli e si ra., il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini leva diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e., Iri esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l. 1 litot e 2, 3oCome noi pro lia il e s II h, a e ge')till III: I mie!'e V (Ing Il i: ll' ! ! li,, (si ri.Come pili i vecchia la V. AV relIl mio tilt li in li iori -: l:di. l il bit. ll e pill ripostigli, e più si cerebb il le s II -, e come piti adoperate e liti per ferite e ! ti ve nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo rientate, e pii - empiono,. (.ar.()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il lil re, ti: nel I e  torni bene, e punto illlia n soffra il senso.  l'rima di uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne degli alti li, p la eliri per il III: il clii il 7 Zii e collettivita, di completare e mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia del capit, i gli ºli,,,, il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come, che, -: l li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia che, subito che, li quale il. col... quale, precedute dalle voci modo, via ecc., e quali (lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso, come presso?) e talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e simili, sia de 'I I riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I: Ido li in qualunque marie ra che, e talora anche di uli semplice come (siccome. “e com'è Illisse di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di que” bacherozzoli o F, ronz.  a Come villan che egli era il canili, di lilltalli, gli illò della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier liz. I concia -si: chè egli  era villa li, cosi ſi celido come si lol la r llli Villa lì lì.  ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l 3 ct'. un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi valle hella e  vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di seta e d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser, (iozzi  a.... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce.  E dire il vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III l'il' li lllllg, si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni, Fiºrenz.“ -come pervennero alla città di Gaza li l iuoli inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (il Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo e via come e glieli potesse  ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3. li Il l..... l Ebbe l: nuova come (ialobal era il is l il V..... come ti se lui spesso ad Ira.. I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17 /:ll di ma lo » 13. In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V, si ro Il le? e il V I l come li, il 'll? e lº quale, di ſlal lo fila. e... e di li a 1 lo come li -: -st:: Il  a I.:i giova:le, plai lig il, l ' s -. ll avev. a - la li paglia nei a selva sli tirrita, i ri. I come presso lo ss o il Vlag::l, i cui I l bilo: ll il si se...... l3 e.  I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l so io: l italizi presso di di ver il berga l'? » I 3 i.Veduti e gli allegati i seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la selm plice, passiamo ora agli esempi del collip - come che, in quell'lls, e val(il chilo (li: i rizi:  (*) Notale queste forme: come avete mom e? com'è il vostro nome? Vostro padre corn e ha nome? Sono st m.lli alle tedesche ed inglesi: Wie heissen Sie? Wi e ist der Name? What is the name? ecc.Usane anche tu, e la sera il francesismo: come vi chiamate? ecc. e simili. Si che l'ha anche il Boccaccio questo chiamarsi in significato di aver nome, ma ne us a tm maniera ben diversa e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio. « Domandò Giosefo un buon uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi si chiamasse. Al quale il buon uom, rispose: M a sera qui si chiama il ponte all'oca ». I) al qual esempio ognuno intende che quel si non è particella pronominale riferita a quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the people - e qui si chia:n a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti chiamano, o cosa stmlle. Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi abbonda ogni libro classico: “ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli... “ Cav., ed io non Glan noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec. - Nel tempo d'un Imperatore pietoso e santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore della città di Roma, il quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e molto congiunto al detto Imperatore... Tolse questi mog te, una donna, la quale ave a nome Eufrasia, donna religiosa, e molto temente l ddlo n. CaV. 33  a) L'avverbio come che non ha quel senso di perciocche nel quale tanto frequentemente è in bocca d'alcuno.  Il suo natural significato e d'avvegnache, ancora che, ben che (Bar toli). Notisi però che anche in questo senso trovasi il piu SOVC Ilte, l) Ull al principio del periodo, ma entro a questo acconciamente innestato. In testa al periodo prelerilai: quantunque, quantunque volte, benche, avve gnaCChe ecc.  « AVVisando che dell'acqua, come che ella gli piacesse poco, trovereb º be in ogni parte » Fierenz.  “......e sempre che presso gli veniva quinlo poica (n mano, come e che poca forza l'avesse, la lontanaval o 13o.  "...... ed oltre a questo, come che io sia al titº, io sono inoltro, colite « gli altri, e con le voi vedete, io: io, i s a I r; i vec li a Lioce.  º...... il quale, come che II lotto - ingegnassi di pir, r, salito:ier,  º al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III. Il tono liv st 1. alore di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei le s III sse » l?occ. a Ella ll (lilediCa Il li l' ', conne che li l s, il lit: i rito, se la ll I li « fallo llli crede. 1 e esser III, I » I 3 t.« L'ira in fervelllissili lo Il rore accenti si r.:; e come che e questo -C Vento 1: egli iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1: là con ni:::::: danni s'è nelle donne Veillllº º Bocc.  º...... si è adoperato i 111a Iliera di ri..., come cime inolfi il Liegano, a ((Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I.  «...... e come che gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la pose al famigliare e dissegli: te..... 13 cc.  « I Inalla cosa è aver rimp.issione d gli: Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st, ' quali.... » 13 r.  b) Anche per comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque maniera, e ii che li e la rispettiva. giunzione o pronome realivo, congiuntivº: nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg, Ill. l'I1, come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di tempo s'avvelisso. Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che la superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai » Petrarca.  c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali sia il valore di un complice come i siccome,  « E come che il povero corvo fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz.  3  - - - - - - m: disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu  « Illare, colli e si fa la neve al sole, il limito dll r, proponilla mt, si sarebbe a piegato » Boce.  I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi senza nu Intero, 11, li si vuol leggere i dlli filo e pr. llllll iare con quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll., fece, tra l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. Particelle e compagini a foggia ed uso classico;  avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go - I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio la ale, il va ago. lo il coro lit collega -  1T nel nto gli slo: nrtite i lec.  Ad alculle di sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce le colali particel.... ess, proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11 11 11 -si l i i s ll la III, il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo sl. 1' st 117 -s. l II l' - I lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza, grazil. ori a 111 mil... se li n. I ro. Il cerla maliva pr - prietà di linguaggio... C. rl Icelli. CIl mio ed altri.  Ma vorrei qui rilevare che codesti autori fanno appunto oggetto di particolare osservazione le l ' Vlt i l (..l'.I l.E che non inati, o ti ifici o altro cile di ornamento e di ripieno; men.re le l ' V l l I (I, I l l. e 4 t ), il V º il N I, e le V () ('I IN (i I, NIEI è VI,E, di cui e parola in questo e in altri capitoli del I)II E I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi addietro al tutto igno rato e assai più rilevante che non sia cosa puramen le ori:arm2miale, come quello che adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V del perio dare classic. NON SI (tanto)... CiiE NON...  Per squadernare che io faccia un libro, il derio di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella, strella, evidente e di un garbo tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed usarolila di Irequente scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed anche dei piu recenti, – di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è antica e non invecchia mai.  ltisport pressa poi al 11 sl 1 o: per quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo... all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy  Pochi esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene l'appetito: .... e le giustizial to a sioni in calesine in diverse lor pan li debbono  a re e al rei si nun li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur intenſe non luiuslidisca e generi sazietà. Varchi. E dunqu su penso che l'osse un re libero di carila, che non è si poco site noti avarizi, e, a lui pia, che li lle le cose ci colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in. ch ella non la ceca se medesima. Cavalca. .... m. a e la loro si alla lo alla mia che una paroluzza si che la non  si può dire, che fiori si senta o. liocc. ....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse la donna, il giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a... I c.percio, che egli non c alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il in ii...... ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si, io ci o cali non posso prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa, i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui, in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t. ve mai enti e così ci rendo cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica, che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il. - - E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si" riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli, a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle.; del I n po, la dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l' iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C - sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo si gr. 1 nel, che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo si accal.. per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi, si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo.. S º..... con piacere inci 'dibile del mio stillin, che son d se la trº Sloi (), che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr..... );...a Io ne ho parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non possan ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l... li « Qual luogo è si sui grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1: insidie alla loro incut u lui one's là?, S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una penosissimi a: i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in agonia. se tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse i sei zio di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e mielere il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però tanto di rii li sterile che qualch. n e si ri; i non producesse ». Dav. - « Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non è si difficile impresa che non riesca. Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si interamente che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava essere occill I, r; l uſ gli atll ri. nºn si palesasse ». Dart. – 38 –  NOte  all clrticolo 7. ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1: la..... Il Not so.... but that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l. ll, Willls  ver not so Il 1 l v d... A cºl bu:i tinat i -li si stile  t: 2!) ();: non si u, le motº..... ! ! (r -,, e al I li e !::i ll l: llll rºl, l tall  ll...... o si pºte:to... o tre.... vi il lla  -. v. l i non meno,,, cime VI, ina: qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V i l IV V:) 11 egua i rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l....., l i i 30 (). li è in ſo..! i; iprimo incis, l' ri: Ni: in It:ogo è si s -::  cin e voi i pl: i non te !, trici 1 e ti.  13  n0n Ciii... (anzi, ma...)  l' vi l' non rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti li e ſi ha - - il l e per le  fornire e c i cl: ssi i: I l. E li ul: ssaggio dei  model i i non cli: « E vi la lo il tg ci li:. spicca il I l. non v li e'  viali ecc. il III il s lis.. l si gli e il solo  cile gialnili: li si riliv li i ll ': 1' ll -: il lassiche,  | Non sº, l l: li lilai i ". I sici in l:il guisa, ma luitino, se  lingua a que” gloriosi.  l:s il de vi: il re ciò e,i lire: si oln in he uscir de  condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che definì il non che: Particella e crersalir. e di negazione, e corressero aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola. Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli, di altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse ch'io inal, apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora (C('.Senza inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c, lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38).  Non che io faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena. Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o Esculapio arrieno giudicati sanissimi..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ». Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. «... e non che il desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ». I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da' grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di Dante).  « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò, anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci.. l occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a nolo di Sai, i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n. 1 li s l alti i l. ll. I 3, l.Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l li li, l.. o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r, i ma, ma anzi con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro..... l?arl. - - « l' rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli, illà a lui fattene Nosl e ne rai. I 3 cc.«.... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li domasse che anzi maggio in ente gli inasprì: itl che.... ». I3:art.« Ma non che cessasse con ciò la l. 1, in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º, IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra o. l 31 t ('.a... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e lorda rila dº coi lipi, poi, non che, gli ºli (il malco si juta la cris' il mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell, giudeo si ritornerebbe l'oce.illiri o il rili, e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava, (es. 41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (s.  Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli nacquero. Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13', si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i le bicicl, o. Segn (1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna, se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ». BOCC. «.... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. «.1 dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma? ». Segn. (46). «... non sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale ». Segn.«... al sentirsi rimbombare quellº ch m ! nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47).  NOte e Aggiunte  all'Articolo 13.  (38) Non sarai poi di si corta vista che non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come, disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi stato « presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal che, intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto.  (39) Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('. cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma.... E chi dubitare a dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43) Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e così negli esempi (le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma perfino....(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che a consultare il contes, e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po' diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on \bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine. SE NON SE NON CHE  SE NON FOSSE (che, giù)  forli e li dire costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori, specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l' ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se, salvo che, altrimenti che.  Il Bartoli ragionando di questa ed altre sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa italiana, soggiunge: (((“ () - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più che le parole il suo e Sempio.  L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la gioielli,  º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi del calore, ella ne ſacerat mille pezzi. Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi,. I 'i rel/.()nde non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione, la quale....?... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro luogo: se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone. Passav.« E se non fosse che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ». Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G. Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito. la città di Rologna era perduta per la Chiesa. G. Vill.« Se non fosse il rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (; Vill. (5ſ).« E se non fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori,.... Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.«... e niuno seppe mai il fallo suo, se non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin, dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.  º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart.  Era donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51).  « E non sarebbe rimaso riro capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni rinti e sè schiari ». I3art.  (.... e l'arrebbon linito, se non che un di loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art.  º - - - - - -. ri diò in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò: e se non che tagliarono tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara, coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira » lºart.  « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio. e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art.  NOte  all'articolo 1 f.  (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo torlìa (Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune « Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse stato che i Bonzi la impoverirono a segno che.... oppure: a meno che ella s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la smunsero fino a.... NON  Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come che di buona, anzi  ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ».  Così avvisa il Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non m'acquelai e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a punta di ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non fu fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non nega.  Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me ne passo.  a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e simili,  e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi – dalla particella non.  b, che, commessura di comparazione risolvibile nel suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).  c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro.  Seguono gli esempi divisati, conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi.  « La casa mia non è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC.  « salvo se i Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona. Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo cre  - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto,  l3 cc. º l Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non ri renisse nominato un po' il n till I...... 13,.  « e sta bene accorto che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc.  º e lì la loro lo luna in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano,. 13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º tºndo più animo che a sci co non si appartenera, Bocc. º... Se non ci chi è di rim alo e pli lori che non s no io o l?art. (.... che io ho l'oro lo donna da molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces, 13(Compagni, non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.« Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più cari che io non sono. l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io, (aro.« Ma troppo altro gli incolse che non avere di risalo. Ces. « Perchè dunque sì rall risluti ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però inquiela, li deriderli, disturbarli? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le...... Segm.« Forse a rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che non portare nel suo slam pali irolamo. Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo ch'ella non è o. Boce.  « Dubitando non ella confessasse cosa, per la quale.... ». lRocc. «.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via ». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ». Davanz.  "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ». Bocc. “.... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce. “ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. «... sospettando non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ». I3occ.(0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse (tenendo non forse....) ». Cesari. «... presso in che di letizia non morì ». Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. -  NOte  all'articolo 18,  (55). A prova di quanto atºserisco non basta si alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un saggio: «..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più (più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf«.... nè avete voi più desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2. articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di: di quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte, cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si « sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?» (In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli uomini...)  Alcune altre voci  il cui valore ed uso vario secol ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore.  Nel precedente capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di una forma e ragione tulla interna, coesiva  dirò così e inerente alla struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri classici.  ARTICOLO 4  MISSfil  Delle novità che ci venite a raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce assai è altrettale che molto? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose molissime, non è il valore  4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare. Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s. very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance! Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71).  E disse parole assai a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo. l 3occº.senza le rostre parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13 cc....Spero di tre e assai di buon lempo con le co. lioco. Entrati in ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3 ' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte assai. I 3arl. «... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni il l live) lo. (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele? ». Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere, assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. «..... nel quale erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.«... dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. «... che assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces.  NOte  all'articolo 4  (71) Della frase: essere assai a checchessia (per basilare a,...) che l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori, parlerassi ad altro luogo.  (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc. La forma obbligua assai di, del.... suona talora Ineglio che la diretta. Osservala negli  esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso.  NUIIIII, NIENTE NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc.  Negli esempi che senza più qui allego – alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle proposte voci – vuolsi singolarmente notare:  a) come le particelle negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e sostantivo;  b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la negazione « o particella senza, hanno senso affermativo... Sì che alcuni esempi ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia.  Leggili questi esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui nulla ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a nulla parte ».  a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart.  «... in tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav.  « Se nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav.  senza molti segni che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa, l'iel'eliz. .... di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si potesse appigliare ». Cav.  1 llora disse la 13adessa: se tu hai a disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º....... (.av.  Quando la mia opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna...... o. Martelli.  Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa che ne manchi nessuna e. Varchi.  non intendo però di quella lunghezza asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone, al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna lerare si po le ru m. Varchi.  Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia le compassione alla mia miseria n. Fiorellº.  tssaggiare qua e là un nonnulla di... ». Bocc.  a... alla quale (allezioncella) mi sento attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli essere ch' io a ressi nulla? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.(Come noi facciam nulla nulla, e non hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º... º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1, peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede o. I3ari.«... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio, Bart. « Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima, scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ». Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio ». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ». Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83). « Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade? ». No Vellino antico.«.... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare... ». Bocc.«... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del fatto tito, o... ». Fier.«.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma... ». Bocc. (84). NOte  all'articolo 9  S?, voleva ci lir qualche cosa, alcun che di..... e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s..: 1: es  n i  I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V, niente, ed i ll Il..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile all'avverbi, punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle, in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ((''.E spaurita e sbig || 1o per le pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri nell'altra v.a, la rendogli i parenti  e gli amici carezze e le sta, non si ra! grava niente ». Pass. «....il quale l'est e. Irle lº rili la si vide i pescatori adosso, salito  e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando l'esser in ort, tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a riposare in sul « letto, niente, vevano voglia d'esser consola | I, quando vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua». Cav  Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e quando si unisce col non si pospone al verbo.  (84). No.a anche qui la maniera per niente in quel senso che nella nota precedente.  ARTICOLO 21  IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che)  Quan! inque il significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo, altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici tanto in caso retto che obliquo.  « Molto dee indurre a dolore o al dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati ». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare ». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire.... ». I30cc. « Il che la donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. «... in tanto che a senno di minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.«. (ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. « Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n che con rien che ancor ch'altri si chiuda, Dante.« La confessione per la quale altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a... non solamente i peccati veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ). Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1. si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri. Vill.« Non hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a... che per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ». Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più va ritenuto in condannare ». Bari.... nè teme punto ciò che altri di lei dirà. Segn.... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso, º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del. Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire: altruomo, qualunque alla prºsolia che..... ed altro che ad altra cosa qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra maniera... che, ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia:  Io non so potersi dire di... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed accellarono. Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a capo in parecchie centinaia di migliaia.  Al lllllo simile a questi luoghi del Bartoli è l'altro del Bocc.: « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa altro che laudevole o: e altrove: (AV ea grandissima vergogna, quando uno dei suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che mantener libertà o « morire? ». ſar al Ira cosa).  Bammento l'intercalare non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi ancora menzionare il modo: senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio: senza... altro che: « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i amici che...: « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che brutali o ecc.. IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo: niuno, nessuno, reruno... altro che....: « aspirando a niun fine all ro che nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». «... I rallenendosi con niuna femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di « decreto ». Tom.  c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo ». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui sopra: come cioè la voce altrimenti in molte  guisa ad altre collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in nessun altro modo.  a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.«... e pauroso della mercatanzia non s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri, oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna, e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi,..... ». I3arbieri.« E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che.... ». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ». Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball «... non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. «... non arendo altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ». Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º  trou olto.o un o o Iuliud lop el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo olios cui lu u uutti i litio o.ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “  Isopullios o Iosso otiosso i  “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip:lloti - lllllº º oil. Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o.it: i sºli. Il 1 li tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i lotti e io lº otlos IA ".  eodo]uttlollo outsioloou otus olos: li titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os, ou o alle p letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It, looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli: Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p.olio III lo o.olio o.I l: \ Il “Il d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo.In lon.o utin o 55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N. Ierio. In oiloti in love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | |. ll tº o lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito. el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o Iellios II, lo  (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I -Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA  -I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po  auloIllla Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia, iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani, e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo, tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia, legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere, trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia, di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore, schierati in due di sliIl le classi e solo: I. Voci e il dtsi che comporlot no, e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.  ("LASSE I.  Voci e frasi che comportano reticenza  l: previlegio di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono, di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e lorse più che non si otterrebbe esprimendole.  Molte di colali reticenze sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste non accade occupal selle.  Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori.  Te ne offro, caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno, mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in numero tanti !  ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa ecc.)  L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101).  «... e così dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle).  « Di ciò che... so io grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc.  « Diceva un chirie e un sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC.  (ad ora'  Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli ci abbian luogo? ». Bocc. «... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te, di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ». Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa che).«.... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc. (talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e maniera).  “... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì perfettamente.“... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc. “ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere... Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare ». Fier. 104.() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio, che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita, che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105).... roi l'a re le colta che niente meglio... Ces. talmente, sì bene che...), \ on gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora, che... m. Fiel'eliz.  (t... ... e conchiuso di appiallargli un bel figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente bello e caro, che non vedeva.... « Guarda come ciascun membro se la rassomiglia, che egli non ne perde nulla. Fier. (in modo, il glisa, sì perfettamente. « Per ciò bestemmia, che non par suo fallo. Malin. Se ne scantona, che non par suo allo. Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o. I 3el ll. lilli. « Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non m'arrem mo bisogno, ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un modo di vivere tale che..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio, che non si po - Irebbe dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita passata, che con - - grande empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che piacesse a Dio o. º CaV.  «... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo di domane in prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui, penso mi che immansi  che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - «... e andò la infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero. per disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si reslieno una cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill. (Iale foggiata che...). NOte  all'articolo 1,  i101) Analizza un po' la frase nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di somiglianti, nelle quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella de verbo essere che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose, oggetto di ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in itatori del Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei loro Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e cessa la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca: « Piaceni a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ». (caliz. 29). (104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro; non un, nè il, la cui onis sione dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa adoperata spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a In 1o avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II mezzo del cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che la diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso al tutto  opposto; quello che è causa diventa effetto.  ARTICOLO 2.  flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata  e quando a SS0luta  u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ». Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel modo e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè nel quale si ha o si deve avere un padre. Si osservi di più che ornettesi talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un uomo del saper che il Padre Nugnez ». Bart. – cioè a dire che sia del sapere onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito).  b). Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro verbo (es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così, il più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe o non fu mai la mag giore).  Gli esempi che li reco, disposti in quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di questa e mille altre somi glianti venustà. ... perchè egli chiama rimedii, quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano  a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa V.  « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva la maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107):  a punzecchiò un poco la donna e disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io).  Io non so, disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces.  e però re intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?.  « I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è persona ». lSocc. - -  «... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi: l)av.  ierata del parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ». Bocc.  «... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in quella reverenza che santo ». Bart.  si tiene un santo).  º indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ).  (nel quale si tiene un Padre..., nella quale  “... fare a modo che la madre al lº ºillo quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti.  « Ma di sè non curò punto più che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar. di vivere).  «... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli. Segni.  ºi Iliello che avrebbe curato se non braInasse  “... trendosi a credere che Tºllo a lor si convenga e non disdica Che alle altre. I3occ.... che si conviene e l 1 l I disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così l'arrersi di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro, che io Non l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre; sì che l'ºrch º io non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male, I3 cc'.“ - ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima fortuna che lui, nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol, della sua vita ». Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e promotori del l' idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi... I 3ar[.." l'Ili all'incontro era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi, parendogli la r da mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la greggia... o. I3art. Se io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger. “ La ſan le piangeva forte come colei che arera di che, Boce. “ Le quali ſcortesie, molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le l'anno assai più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano. I loce. (di che doversi sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel che no, Ifoc,« Voi l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che meglio non si poteva cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così l'alcuna persona che ne facesse o sentisse quello che Luigi per amore di Dio  « Dice il Sere che gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di gran mercè).  « E rispose a sè medesimo che mai no o l'assav.  “... e se di niente ri domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer Lambertuccio disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna gl' impose così fece p. Bocc. -  « Tornali a Sacai, si ad una ono loro intorno tutti i cristiani a udire  voda Lorenzo che norelle recasse: ed egli a tutti, che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e proprietà che mai la maggiore ». Ces.... ri con cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti di numero.... Dav. 108).... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ». Fier. li e li avveri sso di peggio.Vli repliche il lorse... V e di mente che si, ma.... Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani, con quella riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine di S. Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni. Bart.  N Ote  all' alrticolo 2.  10), I, I.issi, a lui lo rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur qualche cosa, con quanta grazia. I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven, che due e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho (olillllle e generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere  fare, mettere, ecc.), che !., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci di riol: liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni prenderla alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or vizi, e metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione del popolo ». « Ciò farebbono levando  popolo in Funai come si era fatto in Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a fuoco, e quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi predando, incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti dava albergo, (a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo nostro lombardo: contento, allegro, tristo, afflit, come mai, che fu già menzionato alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non guari dissimili, ARTICOLO 12.  I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE  (mögen, können. diirien)  comportano reticenza ove all'ombra di altra idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero presenti.  Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei dettati dei migliori scrittori.  « E vede ra la bruttura dei peccati suoi, e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. «... ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire.« Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro ». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo nostro compare ci renne in quella... I 3 t.« I)i Giusea, do ho io già meco preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi. I 3 ('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo, e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n. Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con cui: che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche... chi saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '. Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo mai alcun altro (19.trasporta casi dove il vento.... Bari dove voleva il vento). (110). (atlandrini... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò: Che fo? l)isse lº uno: A me pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello. I clie dello io il re?... A me pare l'ori i ba riare a...V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | |.Ella rimase lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l '. (il V: il n.\ 'il' atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro, non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare.Ma se alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat, ad 1 ml mio innanzi che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto all' all I o ”. Cav. avesse potuto..... E fallo questo, gli disse: quello che a me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse ». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer,. I3, c. non saprei qual dei due io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo.... cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc.  « E perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia? ». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere).  NOte  all'articolo 12.  (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i classici e con lume alla lingua tedesca e inglese.  (110) Negli esempi fin qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde, ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con il lique l'azione del III do elit Iro.  i 111) Gustalo, anche negli esempi che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al: mögen, dirfen delle solite forme tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » (oè che noi potessimo Irlai fare V. - sione del testo di S. Iº:nolo: « non ex operibus ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi l'altra (º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato, per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone. rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti', espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi potere, volere, dovere. Il'INDEfINITO DI UN VERB0  obbligato ad uno dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro. Quando e come agli esempi.  “ Ti orºlli (o di notti in ono onor quanti seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare  Sºnº lºro non può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire.  l: I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la  solenne guardia del geloso, non si poteva. I; ci ma di più non si po teva fare).º... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete cose  Che io possa, but N lui il m con lo... (il l'. lo era un asinaccio che non poteva la rila, Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non potendo reggere.Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro. che non doveva e onorare una persona, o fare con una....... Spatccia la mente si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in pole a fare, accadere meglio.....lºra bassello di persona, e pieno e grasso quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo.E già tra per lo gridare, e per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo. I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro).  «... se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ». Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto italiano).  « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove non possano l'ºn li e solo o. I): I V.  (... pendici boscose, per i venti di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art. Segn.  «... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie gne ». Bart.  () [LASSE II.  Voci e frasi cui si attiene il pretermesso  Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore letterale ed esplicito.  Le elissi della classe precedente erano quelle di certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più altre dicono più assai che non faccia il material suono. ().  () A me sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire di altri usi più notevoli.  ARTICoLo 1.  lascio le discussioni intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g' sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro, di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al ra v. e.  ()sserver: li: il come l'essere una al parlicella ora articolata e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto, ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc. ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi.......: guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì.  Si leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più assai che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni, che in materia di eleganza guastano talora, non  che n'aiutino lo studio, ciò è a dire il pratico profitto. (138)  « Mi metterò la roba mia dello scarlatto a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp. e sarò vago di...a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a vedere se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza di preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assali, c. lioccº, º allo scopo di... aſlinchè vi dovessi.....() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed esot minuti e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren litrº nascoso si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo morello a vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore nostre, V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della Itaſſio nº si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.«... disse che egli sarebbe a sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. «... or mi bacia ben mille volte a vedere se lui di rºm o. I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e bruto non a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho mangiato e bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida mi l'accosto. l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi a lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo. Dante. (a fine di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo. lºsop. Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ». Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139.... nondimeno a cautela si ordinò che....... Caro. « Io ro che l campo là do Sul (teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia, per ottenere, o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ». I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141). La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono. Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria: roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ». Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a moglie nella e il là ali Patriot, Vill. (i. i trad. destillandola a esser moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati ». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò, sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i. 142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ». Sacch. cioè fatto per servire a due persone),  Ed assai bene circonda la di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare. I3 # 1 (3).  a V elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier.  a Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi? ». Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella povertà).“... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º ammonimenti a mio proposito ». Pand.«... e molti altri che a narrar li saria fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga. Segn. Sta ma nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì dicesi: Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser ('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina, alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. «... e saranno solleciti a quello che da maggio i sa, i loro coman dalo ». Pand. (a far quello).  « I)i seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir. (con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal malliera....« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. « E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).« Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il meglio ». Sacch. (145).«... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ». Med. Alb. Cr. (Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ». Dante, vanno in modo simile a ruota,(0r chi se lui che ruoi sedere a scranna? ». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale.« La licina prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto: voi, vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom scºrre mai se non a suo senno, I ): ille, Conv. 147.  v  I na gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo, l 3,.\ (ii resse l?omolo a senno suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità,. I ): V.lo roglio del I e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia merita lo. Pass, come mi pare e piace).... fallo a ress' io a senno del mio cane figliuolo e non egli del rec chio padre !. l)av.Dorma ri e da cantar l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le.Ma non si arendo con quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere, perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i 149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare.  ('a mm e rut a tetto, (la zzi.  I Ncio a strada. I3oe('. ... e se la collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ). I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa. l?art. I che sollia e spinge innanzi investendo soavemente la poppa).  « Portava a carne cilicio aspro. Cav. ſrad. a strazio di viva carne  “... faceva asprissima penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o. Cav.  “... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con fede e lealtà di semplice parola. liocc. (par che dica: col nolajo attaccato O appeso alla cintola.  ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a petto e spada  in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav.  « Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote,... si mise a sedere in coro... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le gole)  a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ». Vill. G. a petto, in confronto di....« Ma io credo a rei rene dello pure assai. Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n. Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse...... Bocc. (per rispetto, relativamente a....« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.« Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne? ». Dav. « Dall' età di Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un batter di ciglia ». I)av. (15 l.« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno? tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2.« Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè: tutto il mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla famiglia che siamo ». Cecch.  « Domandò quanto egli dimorasse presso a Parigi: a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc. (153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle sue terre a tre giornate ». Sacch. «... io vi era presso a men di dieci braccia ». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad.  “ Lo l'isloit rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch.  “ Egli è la fantasina, della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse a otto dì alla sua promessa vicini. I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi tempi  « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di morte cagionata da grave e crudel supplizio).c... in un suo orlo che egli la cort ra a sue mani, l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle scale ». Bart. (a forza di..«... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi inaccessibili ». Bart.... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a un corpo: recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica no ». Fra Gior (cioè: « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini).  « I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l' uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente, e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.  Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I;occ.  “ Vicere all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui... (158). -º 1 ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè: la nave commessa a la vela. 159.“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore, l art. 160,“... e mise il mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti a fortuna, senz'altro miglior governo che..., Bart. abbandonati alla fortuna, in balia della....;  1 -  « Non è sì magro cavallo che alla biada non rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe stravaganze tenerci di non le motteggiare. Caro. « E molte volle al fatto il dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, Bocc.ſt Ma dimmi: al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa. « Conoscere all'abilo. alla furella, e simili.  « La città si reggeva a consoli o Vill. (i. (con governo di.... (161. « La della città si resse gran tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con l'autorità del suo con  siglio o senato, lo dicono chiaramente gli scrittori nostri » Bargh. Vin.  Seguono altri esempi di un'a ad altro valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º "gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince ». Bocc. la quale sia da darsi a chi  ": lº º l'"ºn lºrº in su un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I ra”.  “... con le note rele a chi più mi esalli, I; art. tale [llo, ad hoc: chi pil...).  Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo...... Fier eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa. I3 c. (bel Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto » Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi freddi i... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso, l30cc. (sì che facesse pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te. l oce. (cioè: l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla ti le o. (illerardilli.“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio. Vi ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care gioie... ». Doec. cioè: il lallo, per quello che spella, relativamente.....1 Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64.l'ol re, in li a prendere q. c. ad istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V. I 3:ll'1.  I tesla finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col linguaggio di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio.  « lo estimo, ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda altrui o. IBocc. (165).  c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ». I3oce.  lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con sobrieldì m. 13art.  Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare chi non sa m. Fior. Virl. A. M.  « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166.  «... ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc.  « 1 cciò che a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ... ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari, senza metter muore angherie, (iial b.  Ma siccome noi reggiano l' appetito degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168.  «... e len negli ſarella infino a vendemia. I3occ. (169.  « L'ora ju a sospetto; la cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV.  « Da lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare. Bari.  « Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ. (con conſidenza) (170.  «.....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo lo risanatsse di... S.  « Non pensando che li mandassero a processione cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro. Era fornito l' altare a bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... » IBarl.  « Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi (es.  « Arregnacchè a sua colpa la naricella sia fracassata e rolla º l'assav.  « Il peccato nº ha quegli che 'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'. (iiol (l.  « In due maniere sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore; o s'egli le fa, e non perdona a colui che natº lº ". (i l'. S. Gir.  a 1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien voglia di darli un sergozzone n. 13, c.  e Slot che lo: io li lai di medico re al mastro 13anco che è molto mi o (1 mlico. Sacch. i 2;.Signor mio, io son presto a contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri ) la llo, e quel che . (173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e a uno ricchissimo padre e lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue storie, s'accese cla  (I 'nº' Noi ci il bi: i ne'. Salvi i li. I 4. e l not figliol lat.... non essendo ci slui ma, e udendo a molti cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is list not leale..... l oce.  i menduni o alibi due li fece pigliare a tre suoi servitori ». Bocc. ll fece prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per le circostanti parli passa ra rubar faceva a suoi soldati.. l) co.e appresso. Nè lece la rare e sl i picciare alle schiave ». Bocc..... Può e deve per sè dei irare a tutti questi capi infiniti ed efficci - cissimi i corili rli, (al. I 5.a guisa che la veggiamo a questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far veggiamo a coloro che per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa. 13o.Mollo a reali le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri ancora se slalo non fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi a coloro che lollo gli avevano il porco. Docc. I., ol, ndo la r e nè più nè meno che s'acesse ceduto fare al maestrº - ct tal, le... l i r.l mal ripo' a gillossi alla mano di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba) bat i prende e la mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero..... A li apost. | | 6.Sbigottiti per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos tº 7 ti, a peccatori li l': il ril Vlli... l'assveggendosi guastati e a quelli che c'eran d'intorno... ». Boce.... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho ceduto straziare (il mai ») I 3, (-.. goira, di qui e beni che li reali gode) e a questi padri ». Ces: a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ». Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui. Caro.Lasciarsi colge all'obbedienza del superiore, Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente, l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. Ed io roglio che lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli impeti dell'ira trasportare ». 130cc.  t « V assene pregalo da suoi a Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e diroiarla da due cani o Doce. (178).  « ILa giovane sentendosi toccare a: - nºani di c li l il, il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l la erº nell'a mm, quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179).  NO te e Aggiti inte  all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego, divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es. fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i, e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza; II e la fa, zii, il ll - da sè sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte di questo I)irettorio.  I)i più l' a articolata (III en, preti ess: a 1 in li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do, Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1, ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino, corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o for me avverbiali in particolare,  (139). Nota il modo andare a diporto, a diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe intendere anche il modo (divenuto) Volgaro: andare a spasso, cioè non nel significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: (ull'allino, col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo: maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil, e lº iu vaga e lo I e la Irase italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di Irle:lto e perdono continua Iel 1, ne a 1 I test Illlarsi i pc.I? Nota la rase: eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i, (il... SIII il ricevere a servitore. l'elilella, che Griseida non I s se l'all 1', ai loro presi, e per lui el'. ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore... l 3, l 'Il sl, avere a maestro, a padre, a si  giore, l Ne l il roll, il Sesil I allegri da poi che l'elobo lo a signore, l'av. S. Analoghi anche i modi: avere ad o more ad orrore:..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n avrà  ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo, a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es. i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale avere. » (ill 111. l.eli.: avere checchessia a misfatto: « A non « minor misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo ». Bart. avere a niente. Anni 1 -1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp. Cod. Fars.| 13, l. a. arti, lata Ilo, di questo e del seguenti esempi, dipendente lei il l l e V g. In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1 l di sol: Igli, l,, sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd: l'ast di Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e.I 6 Simile: Sopra vestito a bianco come neve, Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a brum le li:lle l'el -, l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno., l'i. e z! modo, secondo, rili e il senno suo. No alo anche lº: li es. I | i le segli no, lui e sto mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui.. che è bello e proprio della Lingua italiana.1 - Si!! i:ll": lo misi a suo senno, a senno, a talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a governo di a.)l º Vl: si ro (i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo, che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto la nota frase di Dante:....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa si vuole (Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. (155 ) Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. (inf. V b. Recare, Parte III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.(159 ) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore Bart, levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta, a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere: essere a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare, cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso, dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ». Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e. In A i a piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.:. Venuta a dunque a con « fessarsi la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc.: « Costoro avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.:. Altre stallino « a giacere, altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo:) Inc it:) veder l:i gli ri: a Inostra ». Petr.; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte il Illbrattate e gli isl, -: i bit, p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i...., (a: « I); pinse un re a (sedere coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren, am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia, e appllini o l'a del c: la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a V el'lno, loli a m - Vlt; tl, i dll re, la zu.165, l 'a di questi esempi st: l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n a preporre talvolta all'infini, o,  a maniera di sostantivo e soggetto comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e dell'articolo, ecc. (166. Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi avvenga il ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani; a mano di alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere d'alcuno.16S) Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento, l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per alcuna « Irli:l vicelli la o lº si... per Vai l'll lno illo, cle andava « a città, l o in illera el tº:ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di un viaggiº (ore. ll e la sºsta di ll'i: in altri, iº fa e non dicessi che va a città; andare a santo;.. ll v. l t. ll li i possº andare a santo, e nè il niun bila il luogo ». Boc.; andare, recare a marito –.... e questa Il l:nti ! nº ll e lo o ire a marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio, Do..:.. lo - a: a re dei di delle feste che io recai « a marito » l 30..: essere a riva di... e l ', a riva di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl al de ll cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione, ma tutti li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo scambiare con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso dicas del In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta evidentemente in luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi verbi: fare, lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono un'azione in infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e il Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione. Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o, come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di cosa  dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che si porti e, altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il n vuºl essere scambiato col da: costruisci ((il comandare, e il 1:1 l 'lie chessia: chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata, l'horen 1 e O ll ricevere materiale involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che llo, con l at Inzi - nzi; Il lil I l e i leti, udendo a, volle precisamente significare l'an. zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire (oli attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11, l I questi capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti: i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II. (179) Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase: sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco? » cioè per rispetto in fatto di...., in quanto a...  Cilf (cong.)  Prima di farmi all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione di  frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi; º coll'accento sta per poiché, perchè -  l' “osi la pensano granai e filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa  prei º solº cui cadesse in animo di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli, che in omaggio a al do Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato estè. Ma se li pur in mia i a V, e  - - irº che questo che di frequentis sillo liso. I pendente ci v. l  - Si p. ssa:ili le intendere o sentire tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi, diro 'll 'i'i, lº sll sl tit, ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo tiri I l ss,,  - i gºl.... l III di strano ch'io abbio di concepire, io non so e  A cdr e sentire nella voce che, adope, sola o al I e di altra voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una, quando in altra forma.  l' essi i S  \ ºpi ilarli poi di questa ini era l' intendere e sentire, ti  Pºi lui appressº i monti e pon i no e l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i  - l\ ini: gli orsi, chi ben la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli cinque differenti manici e di un colal che cong.  | i l. I l a sla al riti il che vo non, sale. I3 cc.  2a Mio fratello è pil dello che pio. :3a... che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona, Boc. ſa « Non era ancora arriva lo che io e gi i partito.. ;)a lº si pensava che ingannando i l i crilin fosse appresso al tutto  signore n. Vill. (i.  Questi esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì, e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis, virtù di elissi, omesso. ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc.  Più malagevole a concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad ollicio di pura e semplice  congiunzione e punto capace di virtù pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è. Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità: « E si pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono transitorio  nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia. I3 cc. \ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali, I3oce. -– a Si ve dova della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor  « misda non la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill. – (Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio... Vill. – « Seco deliberarono che, come prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – «.... la precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso, estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza cagione inge  «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc. Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione,  I 'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico – a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico  il nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio: « E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi? Disse lo Scalza: Che il mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo, questa cosa?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod, que, dass (anticamente anche das si scriveva dass, lh tl ecc. ecc. Talchè io mi figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo,  a cagion d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. – ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº  questa cosa (dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce – ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero  non altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239. Neh! lo ripeto, è una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico che il che cong.;  ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri mastri di nostra lingua  assai solvente. - I di comparazione e recante senso di: di quello che - l. il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili.. llpl calo a lil:inlera e valore dell'avverbio  di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla, di quando in  quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per dacchè 210, poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242)  è notissimo e comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne.  \ iuno dice a trovarsi, il quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e, che se i ri rut ella, l?occ  lo non coglio che lui ne I l a rl pii la coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '.  \ orella non quali i meno di pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc. ... che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori ol) e le dando che li sali non e' di no..... lSocc. \ on le doti più dolore che la si abbia. l occ.  (n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l occ.  \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo. Caro.  « I fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone. Pandolf. che quello del.....  a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà e poi lo queste cose a Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere. I3 cc. allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è.....  (i uan da ra d'intorno dove porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc.  «... gli menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse. Cav.  a... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243). ... precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro.  «... juggì via e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc.  ((...  nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ». Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. -  “ Ma fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce. 244;.  º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che non ti rechi spesa. I'and.  ((...  “ Von posso passare per la strada che non mi regga additare o I;oce. “... e l 'nsò non potere alcuna di queste li e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione ». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete andare a vostro bell'agio ». Fierenz.«... non canterà stanotte il gallo due volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei o. (es. 2..« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art.  « I)onolle che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari, quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce.  « Questo regnò anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V.  « I'(Il li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V.  « Fu ascolto con giubilo unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco presente ). I3art.  NOte  all'articolo 11,  239) Alle congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc. rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo () was ed ora da 0 den – coll1 razioni (riduzioni di was e das, e sono: warum, darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc., 240). Dalla prima volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo.. Essendo limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò  alto Che Ilsi io per te della V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe cenato - e... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi; e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc. 243 Vlla pari e I V rti. S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta può essere soltintesa. Ma sia che quest, che si trovi ad ufficio di finchè, sia che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che vale: finchè, prima che; il second: senza che, Nota anche i tre seglie, nei quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F. e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be, che voi le spezzeret (n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e negllera 1 dl conosce l'Illi.  CHI  In questo e nel segui le n il loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e, per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il tutor, Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il..., e la virtù che viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l'.E sappi alunque che anche la particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni, mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia, ciò è a dire, soggiunge certo lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla anche così: se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra sì fatta guisa? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche del simpatico nostro Manzoni. o  «... la casa mia non è troppo grande, e perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo, senso la r moll o zitto alcuno ». I30(C.« Molto da dolersene è e da piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime o. Passa V.«... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona sua. Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV.. « Quinci si van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.« Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr. (per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior. - Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche la vita un duello... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o, Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario, che si sarebbe scatenato peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca s'acque la ra un poco e... ». Manz.  ARTICOLO 20  Sf (C0mg.)  Anche la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non  completamente espressi. Il che avviene di un se. – a. recante senso:ì così, e in certa forma di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso e si linteso il verbo che lo precede: per ve:  dei e, per sentire, osservare e va dicendo.  Non misteri della lingua al dunque, non licenze degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro sono, all'incontro, che vezzi e gioie.  l;oce. Così l dio mi dea bene, con l'egli è vero, ch'io mi veniva...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che tu fossi  | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un pezzo.  molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si vorrebbe aver miseri  cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona ventura, diccelo come tu la guada  gnasti ». Bocc. « Subilamente corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.«... l'un degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua ». Bocc.«... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo » Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. «... brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per vedere, per sentire se..... Cav.« Corse per tutta la città se per centura la polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate bene... Toccale i polsi se han molo tasta º  il cuore se palpita ». (per sentire...). Segn. (247).  NOte  all'articolo 20  (246). Uno di questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende fiato e soggiunge: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo. Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori ». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i, sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!....  (247) Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire ecc.)  ARTICOLO 24  VENIRE  l)el Vario uso e valore così del verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III." Parle di questo Direttorio.  Quello che ora piacermi merilovare è una certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine, dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla mente che.... (286i.  Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe; e passiamo subito agli esempi.  «... e venutogli guardato là dove questo Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli vide.... « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene role lettera: ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo all'incontro di avervi scrillo.«... spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc.  «... le quali i bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.« V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. «... così andando si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a... facendovi qua e là nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ((S.« Perchè io entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi venne ricordato Lelio. Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a peccato re miale... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare.... Ces.«... gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. «... venne questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a tuo malgrado ado perare..... (287).  NOte  all'articolo 24  (286). IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si, checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et. IParte II.).  (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V (l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà.: Tra. Dizioni e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto C0Struttivo  Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici, recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi.  E però, prima di passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1 e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e leggiadria.  Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl,i, suscettibili cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro.  Intendo qui di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano 13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo, e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte quelle inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime, ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti, dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE  Sono alcuni verbi che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o particella.  Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di una tal malliera e striltli.  ACCIECARE - « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e non si vergogna » Cavalca.  Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ». Cavalca.  Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - -  «....più volte si videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e ghiacciò l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve a tutti di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui causativo to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle chiese, infillo che non alzò l'acqua.... ». Vill.L'altezza del corso del fiume, che per lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua ». Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc. ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre  faceva tant'acqua e le pareva di continui annegare ». I3art.  « Alla guisa che far veggiamo a coloro che per affogare solº quan  « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc. APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu  « triti i sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più appressando in ver la sponda Fuggelni er  « ror ». I): lillte.  « Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante  APRIRE – « La terra aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il tam.ARRATBBIARE – «..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però  a non ardirono più a valti che... » Bart. «...ed all'uscio della casa, la donna che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »«...nel soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha « cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit, lui essere assalito).ASSII)ER ARE – «...assiderarono tutta la notte, senza pallini la ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE - INGROSSARE - -. Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill. Parla di certa serpe di fuoco apparsa in  aria). ATTENERE – «.... lanciato da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ».  Bart. ATTENTARE – «... desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho  a non fanno, che non attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina) eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la stessa frase. I  « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ». – E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.  CALMARE – «.... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave « appunto per poppa ». Bal'.  COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà compunsi ». Dittain.  (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi vellendo costoro cosi  a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui adoperato,  CONFONDERE – «.... onde se si messo nel pianto confondo, maraviglia non « è ». Dittam.  CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la badessa e si contristare, disse « a lei: or che t'è addivenuto, figliu la mia Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi? » (avalca.  CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.  DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi).  I )EI,IZIARIE a.... e se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari.  IDILETTA IXE - Vergognisi chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant.  DIMAGRARE - INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ». Vill.  I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se non al di « del giudizio ». Vill.  DOLERE –. E cortamente di lui tanto dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per rat, duole ». Jac. Tod.  ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò. Vill.a IDC lla sopra detta vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill.  FENDERE - Vnche se ne fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ». Cresc.GLORIARE - –... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella beata  a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE - – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l figliuolo messovisi a  « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi fe  a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE – « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll  « possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta ». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine, inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per soverchio di noia infermò. Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – « Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.  INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«....la quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – «... prestamonto lo menai a lavare ». Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov. aInt.  « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (c.  º llll'altra volta la ino  MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando doventare sinorte ». Dante.  « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte:  « adosso in aggiore », lºore.  « I)ebb no alunque studiare i padri come  ». Fia Ill.  multiplichi  e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga fortunata  ſilli.  -..... que rime 1tlti i cresce a io e moltip  Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando  l)allte.  « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli (li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi Prontuario. I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (tale a lui  a contro il Sallesi ». V Ill.  al s'affr, tti si s old fa di pentire ».  la calca gli multiplicava ognora  a ſalniglia, ! ». lPall.lol  licheranno llaraviglio -:1  fo, l'a ll vita  Ne pentire e  llSciIlllllo ».  V,iere iil  l'laln.  la ll pero in sul nero  e - apore  ». l):) V. (.. ll  noso aleli f. Pianta -  a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto riscalda. Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono nell'i gue: ra  IRIIP AI: AIRE L'inglese to repaire (on I. lo stesso verbo, IParte Il I. « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e sorrossi dentro ».  I30 ('.  «.... tutta la lla V e dis armi: i ta dalle opere in m te, mal  nu:i:a  e dalla tempesta, e.. aver bisogno di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi  a sverl):n l'e ». 13:art.  ROVINARE - Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz.  a Mentre che io rovinava e li è col reva precipitosamente a fiacca collo)  o in basso loco, Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo si  a lenzio parea fioco ». Dallite.  a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino, il  a tanta furia percossa, le gran parte di quel  M:I (Ini:n volli.  e Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ».  a l'asst, l' illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn.  pilona lo  rovino ).  l3,) i t.  rovinare... non è gradi  a lºietro aveva gia preso la china giù rovinando... se non che... »  Cesari. e Clio non rovini, lli vi i l i lil: r.:i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º  a sopra saldisini p.I vini: i I, lov Ilie troverete?. Segn.  SALI) AIRE - It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red.  SBANI)ARE --.... le (-a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li sbandarono, l...  SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o sbigottire, con voce assai piace vele rie, ose.... » I3oce.  SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la annata di lui ad un  e desinare, l: qual, v. d. ll -t: IIIedesima giovane sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi: mandare o menare chicchessia ad annegare, a uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere, I3a t. ccc., cliº li  son frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e li segi:iti a bella cosa a vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! - V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a riguardare ». I3... solº i maravigliose e pau rose a riguardare ». Vili.... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt, il N' -  a stagio gravosa a comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri di ll 1 le; - l. I3, Forl II (ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1, scrivi il 13 arioli, IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1: pia in di....i e, v. altri si av veng: i il: l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l' ignII llo. I ' ' ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma, o creda po tersi mai trovare un verbo:itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non siasi talora uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che i rutissimili (.ss e v. 11 ri. di lirl II i qual. In Forli' ciarl,.le.::i: dimi ed altri la intendono e - i ga: o l Iversalme, sarei tº itato il rigil:i ril: i re corri ti 'i: 1:1, li i leli iti:itti vi si getti: l II l de' verbi: fare, lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare, biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l. Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i lil Il di al front i rili e Inl Itt e il:ì il tro: i:l ll 1: i: li si. I l it,Vli sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati; li, e li:: lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio: Va -- e l og: 1o di suoi a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº. io va ti ucciderla e divorarla a da due cani ». Si di: • i:) I cacciare, 'l'uccidere e divorare che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V., (belle sta, il lil:) di scorretto: velt e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa essere ) u (Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe', cavalliere accusativo agente, ed og gettº, una giovane. Ed oltra ciò si ponga mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi parenti ecc., Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da, e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?  SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave a sdrucire » I30 ('.  SERIRARE rinchiudere ecc., Olm! che dolore ti venne quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi, che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la quale vide visibilmiente gittare lnel poz  u  ( e zo, gridando forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli, nel pozzº ). SM V I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres.  STANCARE a E avvenendomi così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire.... » Fier. TIRARIRE i tirare) --. E come a messagger che porta uliv. Tragge la gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () (corso lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30 ('C'.º..... il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del « leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia....» Voi gar. di Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si riducevano come a « un porto. » Cavalca.  e Un piovºnº i grillorando a scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. » Sacchi,«... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc.  – Nota la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1 t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils. Tirare da uno e cioè sol Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a finirlo in fretta, anche st; pazza idol; tirar giù di una persona (dirne male se, za Ibla discrezione al III ndo,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc.  « Ari ippò l'insegna e trasse:: - la il I grida 'I l... » I)av. “...... e scorrendo per le vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g (111 di (i e II, 1 lli, a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V «.... la vaghezza di ricolº oscere i gran personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il vederli., (es. l ri. TI IRB.ARE –. Il cielo e lill!) io:i turbare. » Nov All. VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE.... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo, temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt, svergrgnò ». I v. Esoi). Conf. Disonorare, svergognare – Prontuario).  V()I,(iERE - V () I, I AI? E. ()r volge, sign(l' In 1, l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº, al di-.  go ». I'et: Noto e 'n ulso anche og  gi(lì, ma chi pensa e vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr. In queste ruote., I)ante. « Il tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito rallentò...» VERBI RIFILESSIVI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO,  L' posto di quello le si è vedi o lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o smesso, render reciproci alcuni verli: he (li la III l'a ll l solo.  I 'alliss, mi li, ci, si.: Il paglia verbo si rive il Ft il naciari, a come forse meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl '::: l'azione nel si ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli alici dicono sul biellivo.  Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di alcuni verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E come altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie: pensarsi, sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi esprimere azione che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per esempio, mi penso, voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io penso: mi vede, chec chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di cordoglio, di crepa cuore, ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare, cominciare, morire. e, che è lo stesso, faccio si che io vegg, entro ecc. E quanti più altri co. strutti e modi, che misteri della lingua si appellano, ci verrebbero piani e ne sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original candore, se l' genio studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei verbi, l'ordine dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.! Sturdiali i seguenti  esempi, e saprai come e con quanta grazia.  V V EIASI Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS ARSI –..... la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che  « era e..... » IBO (('. e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, « Ma io vi ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo lli v'avvisate. » l Bo.CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av.  (()NTINI AI? SI e... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI - « e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - «... e messosi la via tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i.Sempiterne si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):) Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si mori di vecchiaia».  Fioretti. «... e così morendosi in poco d'ora, mostrò quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì.  NEGARSI – « E' il vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a voi cosa ecc., che voi vogliate che io faccia º  BOCC. PARTIRSI (v. Dividere – IProntuario, –... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI – (Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich  denken dei tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil  d'induzione, d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti «...mi disse Parole per le quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“ sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare, escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º...... e si pensò il buon uomo che ora era tempo d'andare.... ». Bocc. SPERARSI –- «... e sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser pace.... ». Bocc.USCIRSI – «....io vi voglio mostrar la via per la quale voi possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove usavano gli altri Inerendaliti ».  TBocc. VERBI CAUSATIVI, cioè INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E FORZA TRANSITIVA.  Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva (imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº:. io h Fei io se stesso, e la sua donna comini  c'Io ct piange e. I 3 º li, o solº a se stesso...:.... cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel regno:  ( Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole passeggiò º due o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano il giorno cerli pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo chi vi per cui rimando aliora le solita te libiche pianure '. Stroc  chi; e ci si dicesi: nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.: rotſionati e discorre e un jail!; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. –... la via che ad andare abbiamo. I ce. passati e il fiume: passare ll no con il coltello dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla dall'altra parte I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc., vuoi per rili li erla p i licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per - con i re un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr: riandare un lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli pareva che fosse riandare l'ulta da capo la sua vita. I; il I., n. ll per reva azione di  rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma lo è di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai verbi al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l ' il lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi sul soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente e inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della rispelliva azi si rie, si gg i è riori: hi la fa, ma a chi la la lare. Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge! I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il cli: i ar. vale: io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali: e il di p. es. cessare chec  chessia torna a questo: fare che una cosa essi, linisca.  (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana, francese ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es: den Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen; einen Freund beschenken; don Feind bedrohen; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria, avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare, attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola, secondo la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto che cessa, v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover!, che si Iacria, ma vale far sì che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato a qua lunque altro che comechessia il comporti.  NI3. – Si fa qui menzione di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie dell'avilo, italico idioma.  (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti: to fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire, to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo: Steigen (ascendere), steigern (far ascendere); folgen-folgern; nahen - nahern (e anche nahen cucire); sinken - se nicen; trinken – tranken, dringen - drāngen; schwanken - schwänken; erharten - erhärten; erkranken - krānken; fallen - fallen, stiche In - stechen; schwimmen - schwemmen; springen - sprengen; wiegen - wagen; einschlafen - einschläfern; liegen - legen; sitzen - setzen; stehen - stellen; rauchen - rauchern; abprallen - ab prelien; fliessen - flössen; schwallen - schwelten, lauten - làuten; (es laPomba so...., es wird gelePomba) ecc. ecc.  Io non so di niun grammatico o filologo il quale parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie, rispetti e relazioni etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto lor potere, e per dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi: stellen di stehen, setzen di sitzen, e legen di liegen.  S'io lavorassi o dettassi comunque una grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi:  I.a – Attivi transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a –. Attivi causativi. – lo guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso  ecc. – Mio l'atto causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc.  III.a – Meutri relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il ragionato testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire: vivere una vita.  tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non toglie al vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo elegante che torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e pºrò altro non è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione o qualità del soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito hai, bella donna, un breve sonno., Petrarca.CESSARE – «...da troppo più erano in lorze, ma il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.«...e cominciò a sperare - e nza sia per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III olt. l 3o t.Così a dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta, Chichibio  cessò la mala ventura e la il 1 ossi col sito -... ». Bove. E se pure i liti e li rig. Vi volesse soprarſi lº  cessatelo con pazienza e sopp rti / i 'le..... l'a ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i s'1-s......it, livºr cessare  la neve e la notte e le sov l instil V a. l ore 11 i. Cristo pregò il lº; i dr. lle cessasse il calice le! l -- i il di lui ».  ( la Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. (:) | Astenersi lº l'a lt 1 l:ì i l. La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c. l.  « l'el cessare i pesi d llllo si, it: i cl l - e gli stessi, con la Illiato ».  (es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari. CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio non  del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima, dinanzi da sè, il Clti i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll.a Chi conviene altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di 1, i: i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat, (1:111 o vi è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase:. Questa piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ». « E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l... V Ill.E questo pellsiero la illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche espositore, ma cau  sativo retto da pensiero, il quale non solo la innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì? DERIVARE. - «.... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle piante, così.... ». Segn.«....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria. Fallire neutro, vale: li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li ''I raro, commellere fallo,  andare a vuolo - si leiler n: - la debolezza vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne..... (es. \ i rolli: il falli la speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1 ratelli.... ». Bart.  « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver, si duro soldo o l)av.« Finite i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.« III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. – IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) - a... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V. b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato « quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE – (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill.  MANCARE - « Questa asprezza delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on f. ll - i vari di questo verbo - Parte III.  MONTAIRE a..... e così in poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria ». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise I'm to raise.  MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella  m'ha morto o lº i.  - - - - - e ln, il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... » Cavalca., Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,.  Mista l'o di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana natura ». (es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.  Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle.... » l)a V. Fra l III olti isl lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili: I l a tºrto e lº iallo el'a lln  sentiero s gli Imbo. (.li e in liesse il 1 l la n o della lacca Là ove piu. he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte,  Il 1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli,, per natural cort sia, o per che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ». Bart.I mi: rilla I e i soldat,, lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo, frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando, trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo, scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben, cioe parsa lo in senso causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W. Il vertreiben, non zul rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al mio pensiero. ') po.. er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa -:: - il l '::: il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se:I l il 1: Irri li vezza il I l ' - I ', gli i filigge, lì:almn Ino di, di illl:: 1:1 re a da passare quelle ». l 'r erni..I )i, he lo n vedi che codesto passare e il rimuovere sopra detto.  I 'I l? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et corpus perdere in gehell ma li ig: tris, Vlath.: ' '|... Il cui numero la loi, scritto essendo completo, ed egli tolse  di I lil: do e lo ebbe perduto senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V.  (!) È ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire: perdere uno, perderne l'avere, la riputazione ecc.  Quì perdere denota azione diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo modo è cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al soggetto co me clessia avviene.  A gli esperti del Breviario romano ricordo la bella discussione di S. Agostino intorno al doppio senso dell'espressione: perdet eam del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o l'altro: colui che ama veramente la sua anima, perchè sia beata l'IOVERE - NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito gentile ». Dante (Convito).a.... e però dico che la belta di quella piove fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette il Giove, Il quale, tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti esempi in strano chi la o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I somali, si rigi il sili, elle lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo si può ſulla via anche a maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la cagi li che il lato priore ». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ». Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci le possessioni. Segn.  Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona, l anti, sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i re di errore il dire come elletri e le till illegali: le stelle pio rono in luenze: i nu voli pio con sassi, e c.  SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla di pipistrello era lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean da ello ». Dante  TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el le;l p. 13ocr'.  VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e venuta al niente  senza colpa dei nermi. I n. Vill.  nell'eternità, darà opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo: oppure: colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro un qualche esempio: «... Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc. «... e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti corsero per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che... » Bart.“ Guarda come ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla, Fler. Nota ancora gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III.  Voci e rnaniere il noleclinabili  Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In.. Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la materia, non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando e con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato, e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita iuvant.  SERI E I.  MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM: IN C: EN FIRA I, E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I (I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I, GI: A l M (N ) (E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI Asl.  Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare: bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le: onnina nºn lo nel modo mi. glio e, possibile ecc. ecc.  COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E.....; CI IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A  l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13, c.« Senza liti, la cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc. . - “..... riprese animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc.. “...... a dorni il meglio che sapevano m. Bart.“..... tutti pomposamente in armi dorate e in vestimenti i più ricchi  a e gai che per ciascun si possa ». Bart.AI,  « Voi l'avete colta che niente meglio». Cos. «.... con quella modestia che io potea la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior modestia ch'io potea. )  - -  POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI "ITO; IN TUTTO; ECC. «.... purissinra l'aria ed asciutta e secca al possibile ». Bocc.« Vi terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ». Cesari, º..... pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº, « ed efficace l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere, ma..... » Ces. « E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete fosse al tutto ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare l'assoluzione..... » Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio « () (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò al tutto di visitarlo personalmente ». Fi, retti.a Malvagia femmina. io so ciò che tu gli dicesti, e convien del tutto l'io sappia...... » Boce.  “..... non ha bisogno delle 11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i l IIll).  PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più che  a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o. e Lo scolare più che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa della donna.... » Boc ('.  “..... il che voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete fare con a Vostro sºllino e col V (Stre ll (Vello ». I30 ('.a Vergine madre, figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso d'eterni i collisiglio.... » I)allte.«.... d'altezza d'allirno e di sottili avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ». IPandolf.a... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart.  PER COS.A I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME  GI,IO IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a.... e quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso: per tutto l'oro del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la calca, là pervennero dove... » Bo(('.« Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una fatica al mondo ». Fiel'enz.  A CHIEI)ERIE \ I, IN(il \: \I. I)I SC) I PR A: (() MIE I)I() VEI, I)ICA:....E'  I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A VIISI IN A: ec....... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo gli capeva che il valesse ». l30 cc.  « Il popolazzi,.. asso, st L. e ti emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. «.... colle l'a II lilli, fierall 'i! te è una favola a dire. Flereinz. « La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li:iltri. sser. In rto, lungamente  pialise ». Doce.  AVVERBI I) I TEMl PO Ass v I I REQUEN I I VI po I (I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE EI) AN('l I E S (' ) N V ENI ENTF VI l.N l'F, A l)() l'ERATI.  Solº, e ben si vel. io il amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l sentire e del pensare rivelano assa i volle, chi li Is I l s, che di gentil e di fino. Ad intendere a che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da non dove si l rais li tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci che venissero sul gale, per quanto equivalenti c  (lell'lls.  I, A I PI? I VI \ (.()S \ \loid 'il: 1 o, e st. In tla prima cosa che faceva, clle dI va, che li l' I, le ill e I e I blie i. (olf. Al llla si Sel ie. I - il I l I so: volte, i vi si va via, la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z:lolo º lº i:li. (n'egli era  a levati, la prima cosa spendº via il rile, i ora zione mentale. » l3: l 't. (o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima giunti (.lle lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima acconsentono º, l):n V (in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione... o V ill I ) \ Iº lº I M.A... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a bello. » I ): l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei primi istanti dell'amor sul.)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in prima andare a Roma ». Bocc.  DI PRESENTE subitamente incontamente).  Matteo Villani elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di: al presente. L'ha il Caro, il Lasca, il Segneri e noi,  altri: « Ma forse che di presente non v'è l'Ics Iso? Segn  di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a... tutte le Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1, l. detto monastero e la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente erano saniati d'ogni info, Irlita., Cav.... e poi le fece il segno della Santa Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a gridare e... » (a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta l'ambasciatº. » Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia la teo. a \ppena avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so ne riscosso ». CesI)I TIRATTO – a...il domandò se..., ed egli di tratto rispo- di si. (-. I) \ INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti.. » I3o:. a Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR INNANZI – «....o tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte cavaliere. » Boicº a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA INNANZI - «...da ora innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... » Bart.  « In fede buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il re, e cioè in nulla ». Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30....dì: Mi seguiterai da oggi a venti di º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI –. E da quell'ora innanzi gli pºrtò sempre « onore e river olza. » Fioret.  I) I MOLTI MESI INNANZI....... con le collli cl) o l or Ill ort, l':n ve: i rii a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e vergog vi e  « confusione la tua mala vita che ti hai fatta da quindi addietro, se a tu ci vivessi conto migliaia d'anni. » Cav.  DI POCO Inolfo) TEMPO VV VNTI... Di poco tempo avanti a marito a vomiltºn lº..... » IBoc ('.  DA POI IN QI A CIIE.... - - « Da poi in qua ch'io servo a stia Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi. »  POI AD UN GRAN TEMPO per buona pozza di poi -, senza che  a poi ad un gran tempo non poteva mai andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON MIOLTO): IP()SCIA \ I) l E, TRE... ANNI. –....benchè il « perfido, che convertito non dalla verita, lira dall'interesse, si era illdotto non ti d essere, lila a filigersi cristiano, poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A lui al che si deve la conversione cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli: sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v. Poi in significato di poichè, congiunzione, Serio 5.) « tue giorni poi lo i lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le mie scritture e dei miei passati allora e poi le tenni occulte, e  e l'inchillse, le quali non chi e la potesse leggere, nè anche vedere ». IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea, la liber. dal au I e - Il giorno di poi  a che Curiazio Materno lo sse il suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo primo ufficio a mano e di poi se ne fù borsa. » Cron.  M () l'(ºll.  - S'arrende Cappiali, si lv ro a dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V Ill.  l) A IPOI CI IE...: POI CIIE.. posi ea quan Ne furono assai allegri, « da poi che l'ebbe il signor Tav rit.  a E molti enºni, quasi me razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno, la molte alle lor, a se, senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo satolli. I3 ).  r. « Quale i fioretti dal lot il no gelo, li lati e chiusi, poi che il sol r e l'imbianca si drizzi in tu! ti: pe: ti il loro stel.. » l)a nte.  - Poi che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di color che saillmo se dor tra la fil sofi a larniglia o l)ante.  IN QUEI, TANTO in quel frattempo i 17 w is henº « Quando -: ti o  a un colore e quando sotto un'altrº allungava sempre la cosa, e secre  e tamente in quel tanto attendeva a In tte, si in I tinto., (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I 'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più volte il portavano. Doce..... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo riguardo ». Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per a rabbia ». I3art.  IN  (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da poi o di poi, scrive il Bartoli, sono avverbi  | - « di tempo come il poste a dei lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve « dopo sè la particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa lingua condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo valere l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice: da poi desinare, o dopo che avrò destinato; da poi  « la colonna, da poi mille anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la colonna, dopo mille anni..... Due testi son prodotti da un osservatore in prova di  « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire innanzi quel  « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) (N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl collo ad una le l gi che e l'azioliali. (iiillo.E fatto questo al padre - i ti e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re ». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore ». l3a) (.FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza solº l'appli -, ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». (a vill.....e lo slle - rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP() ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il '..... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi quanto al ra i vos- li Illi.: I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro rvi. l?oce.Io so grado alla ſor. I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa. Bocc.. – Quell'ad ora, se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1 llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s. (r, l il all ora che - guardali do voi egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci, Bocc. - - Allora che e il coin: sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? «.... cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori (le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \ clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l 'oblio allora che......., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R.... E allora allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ». Fiºr liz. «.... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn. CIII E' CHIE E'. a... fatti ch'è ch'è solº l'1 t.. ri o. I ):) v.  CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re: ni) che re dei rom inni e che a imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e quando  a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco e ci:n nci i un altro..... noi siamo a.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC() (id), l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì. I3art.« I più furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di poco ». Vill.a....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco cominciato « a peccare ». Segn.a... forma generica di teli fare che sul l usa l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a 1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. -. Va, figli la mira, e clla Ina queste mie suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». (a V.Si parla dell'unguento col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel. ionumento. E adunque fuori di dubbio (le la frase a grande ora è altretta le cli a buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io, e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I PRIMI A (III: A (i I? AN VI \ I I IN() -... ll e il colpagno prima che a a gran mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le avviole». I 3:art.A I, I NOi (), V IP () (.() A NI) \ I I: I ) () l ' () I, I N (, () V Nl) \ IRI.. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza d'animo seco pro  pose.... ». I3 cc. e.... (ºd In questo con 1 il tar lì, ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ». Borc.  Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la verità verra pur sopra. Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl).  I)ev'egli telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ». Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere, soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº.  Si dostò il silo mal illnore, e che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e  lesia, rabbia ». Giuberti.  Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad andare di corrieri, sono  sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro ad andare più di due  mesi ». Mold. Vit G. C.  NON MOLTO STANTE; POCO STANTE. perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“ E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “... dissº; e poco stante - e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò la fallace fortuna ». Vill..... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font, che in poco d'ora ruppe un'or ribile tempesta. Barte così i lorendosi in poco d'ora, irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi nell'intimo di se stesso ». Segn.  SEMPRE (il E., 2 ni, olta ch....: per tutto il tempo che...; - so. It als...:  so l' Ilge:ils.. sempre che p -so gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I 30 ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai. Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili,, lº e  - Add II e le forme avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la livinnelli e il tempi, e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro, ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II, la parola Tempo.  AVVERBI I I Morbo A: UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)  A I3U ()N.A FEI)E (red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a ai 1 l' - Il I la lorº ita. ll I)1, ». (.a V.  Di buona fede, con bucna fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f.  ſei eliti dall' Ilegato, ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr, ritente ritrovisi in buona fede »  a 'I'utti gli il milli del boilo enti lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl.  A ſ;I ()NA EQI ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: (o ri lilllari cari l ' s ll lo » lºt),Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto  nome di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ». Salv.  (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA –... In zzando in un tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno di mal talento, stizzito,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne compilerebbero i grossi volumi.  (es. Simili le frasi scrivere in borra, borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - (osa fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc.A FI RORE: A FURIA - Quando il rumore contro il re si levò nella  terra, il popolo a furore corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('. lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente (a furore di popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI ()... prende questo servo e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine: rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I 'SO I. \ NCI VI'().... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ((A (() I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre, IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A RIBOCCO.... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº (l' ) ((º  A (IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a gran pena vi capeva » Cav.A ((i RAN) E ATIC V.... (con le luci tanto confitte dentro di quelli  e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii l'olio in co: Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli... » Segm. duo minuta). ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir. As.  \ MAI O STENTO a mala pena) -.... e a malo stento si tonno ch'ella nol a fe (o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a... tanto che a grande agio vi potea metter la mano  « e il braccio ». Bocc.  A TORTO – « Messer, fa IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto  a lo figliuolo ». I30cc. .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl Isse a coin  a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III. « E certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei « contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.– Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico: per niun verso, per niente, v. Serie seguente).  A CREDENZA (senza proposito, non serialmente e daddovero) –. E'  a debbono essere da sei o sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion (1 edo far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera la morte ai mormoratori ». Segn.  A BALl).ANZA -- a...e questi a baldanza del Signore si il batteo villana  III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo: I) Inini patrocini fretllesi.  A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta ecc.; impunemente)  a....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva ). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ». RO(('.« E perchè tante diligenze? non potea egli averlo a man salva ovun a que volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino).  A MIA POSTA; A TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento  vato sotto A, Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti». BOCC.«.... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che tu tenevi a tua posta ).a... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse Malerno, altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi levare a mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.«... ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia; Gracchi a sua posta, tu non le dar bere ». Malm.  (r  (l\  A  \  \  A .A  V  - Oltre agli altri significati della V o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e però la frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e di sapere se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce.  MIIC), A SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a rili la bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della stella, V it. SS. PP.  "... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li l'Israel a guida della colonna ». Vit. SS IPI.  SECOND A - Venendº giù a seconda di l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! ! util, a (-1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il Ill I e il Il l a dito... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche amico ». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i,  opei a re, lavorare a tentone; il nºda, procedere a rilento. SI PI? () lº() SI 'I'() - Fra - della era te a sproposito, gramma t (a 1 rbitraria..., Mla lizl3 Al RI)()SS(): \ BISI) ()SS() I.el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il lent: fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“... titlito è Irleglio, il dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta  las Iva da Irie reti I ce.. l): V...... tilt. I3rotier.... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V.Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....«... A randa a randa, cioè risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si poteva andar più là un minino che, a IBl1t.  « Quivi fermammo i piedi a randa a randa ». l)ante. «...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. «...e poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior. IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI,l ME (che ll ) m l'i(ove il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a contrallume.  SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo, lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a sesta, com  passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè parlare cal colato, misurato, compassato.  «...e menandogli un gran colpo che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio » Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. « Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad. Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n « molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente, – «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo. Bern. Orl. «...campi divisati Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol, chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'. «... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare, lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino; parlare a miccino.«... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.«... Senza chè qui fra noi I)el buon si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi, da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. «...mangiare un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s. che di lì (r)) amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e pena a coloro che fanno la su  « perbia». Passav. – Retribuet abundanter facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a... schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al fanciullo quando lo fa bramaro la  « poppa ». Fioretti.  « F: l'(a modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti.  entrò in una siepe molto folta, la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un covacciolo o d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la pareggi a gran pezza ». l 3 a... che Villce a pezza le forze il ii il II alla natura ». Ces. «... che a pezza li in poterono i no, l'1:li a liostrº ». Giuli....al qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET - A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire col significato di: a lungo andare, indi a gran tempo e.:: il l: l V a Illel lil - go della Nov..º in cui il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo, l'e  putato uccisº dal 1. l re: ti sºlo i clie: l i vº: lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la lr e 11, se i vi ebber iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l -se che lor e lì i rio « chi fosse stato l'll (iso.Pezza per tratto di teli e ti In e te l: il sito dai classici:...a e le quali, quando a lei i i nip.. - rido e la buona pezza di mot  a te...., l 3,. \ V, l: do ss 1 di buona pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l.... ed i: questo con I lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si ll il V.. desse º lº). Erano a buona pezza pia. Il l... » lº. A I) II, l'NG ()...lila po. I sa – 1, piti il V ".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff.  Io non fu mai. lle solo di gloria Vago, lº vivi, a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli (i rte a catafascio.  \ I,I, I S.ANZA ()ltre i cliest.: se si lal::lo ba nelletti regali... ll !)  e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di co- e dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. «.... se la faceva la maggi. parte le 'a nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie oil... » Bart.  ALI, I SAT(); AI, SOI, IT().... lle resta V a dl di rilli all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.«... e ne rinfocola V a l'iberio, per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il rov in se. l)av.“..... non ga e al solito, Irla cori tlc it to... e co; i visi, benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V (ralli elite cagles lli.... l):ì V.  AI, CONTINU () Sonando al continuo, per la città tutte le campane... » V ill.  AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che Marta s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono appa a recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par « lare Imi conforta ». (.a V.  AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni ne farebbero, gran rumore ». Iºart.  AI.I.A SCOPERTA –..... potè poi mettersi con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – «....nnellare d'attorno bastonate alla disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – «.... appunto culme la nave... sulla quale tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla spiegata quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA –. Tagliare a pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o spicciolati vale: andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O(o dopo si Inossero gli altri bravi e discesero « spicciolati, per non parere una compagnia. » Manz.ALLA SPARTITA –. Le varie scienze brancate non hanno più alcun « Vincolo coinline che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce « fali, vivono alla spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA – Andare alla stagliata per la via più corta i: «.... E vanno giorno e inotte alla stagliata. Non creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – « Ben è vero che quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi alla distesa per tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. « Che lavorio non si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per servizio dello spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – « Ruzzando..... troppo alla sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata e senza ordine niuno, cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata; all'improvviso; alla spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo quel vostro scrivere a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a fanfara – “..... non usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a chius'occhi –. Negligolza dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc.  ALL' AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio... dispensavanº loro a oltrate all'avvenante ». DaV. a.... e fece fare... le monete dell'argento all'avvenante ». G. V.  ALLA MEN TRISTA (a farla bucina) –. Passato il quarto di, Lorenzo, se a condo il consertato, non ritornò; talcli è già altri il farºvano molti, « altri, alla men trista, prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè, certamente credendo che il re, alla men « trista, il disgrazierebbe ». I3art.  ALLA CIIINA – «... i piaceri sono monti di ghiaccio, dove i giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V.  ALI,A BRUNA – « Uscire di casa, ritornare, il sene alla bruna, i di notte « tempo ).PA RTE TERZA  Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo ne deriva e vigoria  (APITOLO I.  Verloi di particolare osserva, Aio1 ne  non quanto all'ordine dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º Cap. 2º, ma quanto alla varia maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un senso e ora un'altro, e quando una frase più che altra concellosa eſlicare e chiara, e quando Ina forma di dire piacevolis ima. In assello di espressioni elegantissime, nulla comuni ad altre lingue e al tutto con forini all'indole, all'original candore dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il carattere di una lingua è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi previleggiati, onde quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo distingue da ogni altro, reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la natura della nazione che lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i sel. I pul, lo li arr, lo li hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al bringen, Schlagen, selsºn, lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er. l i l des hi: al lati e doti lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc. d. I rili esi.Niuno per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese, il tedesco, il francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali verbi. Ma e dovrà poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par liano, lo scriviamo, quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli scrittori nostri del trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono al tutto ignoti, o non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è peggio, non pigliano al rina ſatiri di apprenderli?Mentre nel Prontuario trovarsi in diversi luoghi. “ioè quando sºlº una parola e quando sotto un'altra, l'uso e il significato altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in questo Capitolo sono invece raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e, iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo poi il liv sarne in qualche non lo la I al ria,  i, li i di li 'il ſole e portata loro, due orditi (listi, ci:V ci li pi li, si incli di più ampia sv al l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei 'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis(ºr sor. -  S  1 º  Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata vitalità, e sono: andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare, portare. it jutlatre, sentire, stare, tornare, venire.  Arm ci are  Noli II l via di etill irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si ti sul come e ind, che a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte a lin, ia, gialli rina approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling r. a p. l si la fatica con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr Iriesi e gli anni in istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di quanto scrisserº grammatici e il logi rh, e li arreco subito alcuni sempi colti li i migliori libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere l'uso vario e vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur leggendoli nel tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti le rip. ste ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo, d aitrella!. ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile, dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti. Boce. (410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi delle città: rovinavansi esse cillà..... Dav. ll.(neste cose belle dicerano in pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi pigliare con assalti e di molte col medesim, a dire e più licenza di rubare: aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“. Somiglianº si può dire anche il genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav.  “.... lullo il dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi, cerbi crc. ). (es.  “... e per non andare in troppe parole... Se in.  Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2... ºbbºlo per rili poi ci li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno. I al I. I tempi vanno u mi irli, N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne andava a rumore I3. I 413,... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle l'ira e il giorno... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba. (0 utndo questa cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa..ln questi mutnici e si li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0. I.Ma º non crei propri iani e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain, i monaci qualche li ha o di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a ruba T, il lil.  º mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non irresi ſtiamº mai andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo si e va il capo cantis  sino.... \:.  A chi con in el l e così i ti e mi isl 1 il ris va la vita pºi giustizia i  a... e giudicò che e' lusse al pi p si andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer. Fi, l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro pit (e re... Ci s  a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo...... (: l', n.  a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li Sacchi.  () ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada l'onor vostre, orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso: ne vada pur, (lile. ne ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro. Segli  a Sim il cosa diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital e andrebbe a male se la V era si spirl issa'..... I ... ma in vano andaremo i pri, gli i?.  « Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi sci. che vada il colpo  a vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' alto allora a sdruc. ciolare ». Mar lili. V es.  º I) il nulla º quando Ma io ride che li detti lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli intendea... Sal Isl.  Ortando la cosa fosse andata per lo contrario....... Fier. (416).  “ (r se li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con chi intoli..... I 3el ll.  i na circºla dirà: quell'uomo mi gol in una fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son molte le cose che la bano al gusto e che non vanno (tl e il roll le re. l'orn Ill.  () irando tlcuno o non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole dire: ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e il re parole così lalle o. Varchi. ... l'ira e li cruccio, il 'nendo, andava disposto di lui li rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che la nl o di rivenisse di loro, che anzi non ne andarono  pur leggermente offesi... I3arl. « Quanto all i più sa della lingua ben app s. nelle sue radici, lanto più va ritenuto in condannare ». Bart.... e da principio va ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi alle pristino compagni. Si gri i 19«.... se prorar lo potesse, andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia molta ir pieno, IE A1 at li fre'don ne va poco contento IPull. Mi l'.« Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri Tutti possanza, e a cui l' (cheo s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso ». Monli. «... nè però fu tale La pena, ch'al delitto andasse eguale ». Ariosto, « Si potrebbe indovinare che noi andassimo facendo e forse farlo essi all res) n. 130cc.« Concediamo che spendiale in Noren li con rili, in allegrie e, quel che anco conceduto non andrebbe in men che onesti amori o Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va fatto. Mtilln).a Le ragioni contrarie, a roler che sieno bene e pienamente rifiutate. vanno con chiarezza e con fedeltà esposte. Salv.e dunque non va segnato mai in principio d'alcuna parola quesi 3 segno. Salv.  a... acciocchè resti si potesse e forni di cavalcatura cd andare orrevole. I 3 o. (20. ... o Nseri utili al loro i I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ». Bari « Von area cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire alla buona, cienciosanielle. Fior. Ces.«... perocchè il rigore toglie la con lidenza: e dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è quello di che il demonio si varrà m. Bart.  Con lor più lunga via con rien ch'io vada. Petr. (421. «... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare abbiamo, a carallo. Bocr'.a... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino. Continuare, proseguire. Fier.«... e dove..... da niuna parte il loro cammino a sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando seco, pura º  cheta se ne vanno la lor via. I 3: Illo.... Lu (lor lco se n'andò al suo viaggio... l' 1 r.... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel fatto tuo v. Fior. 122,.... ed ella colal salratichella, facendo rista di non avvedersene,  andava pur oltre in contegno ». Bocc.  «... un vento sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia al giorno. Bart.  a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23. - -« Tulli i cristiani di quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti... Ilari.a... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai c'hiosarlo... T)il rile.«... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re. I30cc.« Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells [ach. « () uei area poco andare ad esser morto. Pelr.  Si notino Jin (il men le le ini (iniere: son..... anni e va per......:  « Io la persi, son quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n. 13occ.  a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole? ». Ariosto.  Vada questo per quello:  «... e non credo errare ad aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con...: 42.1..- - - - - ma i fatti non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito. I3art. - Basti Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... «.... perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto. Bart.  I t  425. Note al verbo Andare  41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno bene,  4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire: distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro che....  i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio pressa  poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato può riferirsi ad a una o poche (se tra moltissime ». Mi par di poter asserire con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) – L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di....; essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc. Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire, battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e l'altro: capacitare, appagare, sodisfare.  418 – Andare, coniugato con certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere, voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito; quell'atto caritatevole va pre  miato e Cc  419 – Nota la questa frase andar ritenuto, guarda i si da.., proceder con riserbo ecc.120 – Anche l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce  agg. partic. o avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or an. Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere, il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota costruzione andare a..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: « quando e dove potrem noi essere insieme?» Doce.424 – Questa maniera è simile all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di..... a perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare  Il suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare - latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue, inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'(il mul) el'.  Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch. mi parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne l'el talmente  Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec. Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e dell'uso.  Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le pietre ra st it ltte- o lºo...37.  "...... Sono posti i primi, quando lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra capo e collo, tra tronco e rami ». Segn.  “...... e ancora raddoppia V. Il dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.  a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi nel  petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in corpo, (:) V.“..... e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia forte.... ». Boce.  « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani.  “..... (con questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri ed orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc. (438).  a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io come ei merita ». I):) V.  « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn.  e Poichè si diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge ». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ». Bart.«.... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza: vi pal' però che vi torlli (olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10, assentianro) t439.« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi o li e la pure si convertirebbe. Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441.E vi dà il cuore di lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non mi dà di piacere a Dio ». I3ari.  S  IVARE IN NEI.: a Essere venuti quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci e prema.... I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra. colito, dava in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva.a Ma su, fingiamo che abbiate tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“..... i quali, quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che...... ». Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri C..... ». Barf. (442).  T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER.....: a... e, dato dei remi in acqua, si rili se', al ritornare ». BO. a... comandò che de' remi dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale talmente) di questo ciotto nelle calcagna,  che cgli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa, e il dir le parole  e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“..... e inginocchiavansegli dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al cervello ». Cav.  «... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia, cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V.  “..... poscia a se ne disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V.  « Cielò ll llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari.  «.... Si chè, (Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. «... vi possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua  dro, ». Segn. A 13.  |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot ciertt. - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte le l"il bill leriº ». Bari.  «.... le altre filsto dessero per mezzo delle nellll ll, il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (Selletta ». l 3ii l'1.“..... Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza ragione ». I):av.  • I) AIR V ()I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto, che.... » lº i c dimen trsi. a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi  I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e  e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces.  l.Alt E I E SPALLE collar le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale io sperº.  armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando le spalle a  questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare » Roce.  I) \ IRE STIR A MAZZATE: e.... i quali cavalli in quel terren il sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci., Dav.  DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco - reranlassen, « Vero e che queste osservazioni.... daranno presa al lettore svagato e  malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C.: «.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i eri. » Balt.  DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. » Caro.  I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero Fiorentino, in casa cui  lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri appresso per vedere perdere lo  Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. » Boce.  DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,  I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A (III (CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi  t...):  e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce.. si diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc.  I ).AIRE NEL MIC), NEI TU () In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t:a Voi date proprio nel mio: l entrare in discussione intorno a questo [. lll tr. » (es. - I 3:ì l'1. l3.  I ) \RI (III: IRII) I 13 E (da e male riut dal ridere: e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui non di lessero le lnascelle. » Boi ('.  I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc. a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'.  I ) \ IX I ) I CC) LIP(). I ) I CC)ZZ() (in... ('('('.: - - Si scagliano di anci, il verso lui e Vanillo a dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “..... e V: Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart.  I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A: º Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l IRIETICC) ecc.  l) Al l I)I IR E, l)| (()NT E e il lilolo) di “Se mi avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da V.  I ) AIRE AI)l)| | | | | () (ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ». Bart.  I) AIA NE' IRI LI, l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e, saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon. l'ier  DARE VDOSSO VI I NO, VI) (N V Cosv (investirlo con parole e con jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ):  con le fa un ser it, che, vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì (Sllo bolt Ill (n. l)il V.  I ) \ IR E AI ) (SSC) \ I ) (N I \ V () IR ) significa: alle mele ri con assiduità).  I ) \ I RI SI |.I.A V () (l V | ) \ I,(il N (): Diasi pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e, sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l  le ricorda a Lucia (lulei ripiglio sgarbato della signora i 15)  I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A (IRI,I ) Il RI: «....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che andar  voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una donna che l'agnolo Gabriello è di lei  Innamorato ». Bocc. Conf Far vista, far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno ecc.) –  l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO:  «... die di mano al coltello e sì l'uccise ». Pass.  “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita ampolla, col marchio.... ce  l'andammo.... ». Alleg.  « Lo duca mio allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le gambe e il ciglio ». Dante.  «... i più severi centurioni dànno di piglio all'armi, montano a cavallo... »  IDaV.  « Draghignozzo anch'ei volle dar di piglio ». I)ante.  DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: «.... braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava,  nelle mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. «... e incominciò ad entrare nel passo della morte e dare i tratti ». Cav.  446). Note al verbo Dare 437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat  lere, percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p. es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie: schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc.  438 – Dànno su per una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di urto.  439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per: concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III). 442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver  tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia beris...).  444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi... (il) el'ardini. – Simile al detto: l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza  che lontano Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa voce addosso: andare addosso a mimici - I bav: l are un processo addosso ad alcuno (Bart. - DaV.) ecc.  445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare, censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi, ml Ila/CCe GCC.  446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare:... e la Madre e tutte le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (sava di questa vita o º av  Fare  Lascio le dissertazioni intorno a questo verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu diosamente analizzali e sviscerali.  A maggior chiarezza di idee e ad agevolarne alche meglio lo studio.  distinguerello sei ordini liere di lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº - aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che faceva, che vede a fare ecc.IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare, ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile dal medesimo. (449).  --- --  I. «..... onde ella amava piu te e l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia il fut.co alle cose urtte. » l3o.- - - - - che io ho trovato dolllla (la III lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. » 130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolves se.... ». Bocc. «.... le dice che se ne guardi; eila noi fa e avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i cittad.  ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11, in (ieri e sl gli li dis  se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando. – Il lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti manda, o Bocc.  « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri fa delle cose  Sozze e della Dl'll tll ra. » (es. a.... e percio' che amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº  andare, con molto maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia (i a Inor del Soldano acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13.'I'll ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle fac  ci tu. ) Bocc. a.... li quali per avventura voi non conoscete come fa egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1, coiile tll escº l' - le Vi, e non fa l' far  beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo io., B º  a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent la che qui  e non faresti. » Bocc.  a... e nol credevano ancor fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza  (indi i lì0m molto), se ll: l caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse  stato l' ll cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf (ll II, il III trite ch'ella di V -- andare il lil 1 l 'a  sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m (il V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che  a fatto non avea il: altra parte. » Bocc.  Ed ecco venire in camicia il Fontarrigo, i quale per torre i panni come  a fatto avea i dalmari, veniva..... l3o a... non v'è oggina, chi ad un amicº, terreno non creda pil di quello,  che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto di lui, che si facessero degli al  a tri. » Balºt. Ces.  « Ma veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi  medesimi già confessato l'avete. l 3o. a Niuna cosa è al mondo che a lui dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a.... ilſſuale non altrimenti gli lol corpi cali di li nascondeva che fareb  be una vermiglia rosa un softil vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava., Fier.  1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll..... » (.es.  a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv.  a Amatemi coln, io fo Vol. (io/ zi. ) !  e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ». lSocc.  S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo d'uomini, sarei blloli gioielliere. I,il Vlati  II. Ed era si gri il de il percuotere che facevano il Sielli e le lololar,, che slavi, la V il 110 Il loro o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i cori e se li 1, l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso facesse le,i di 1 min. 13,.()n l'e (olls gli::. in l. ii dare che fanno per mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che fanno le linesse de gli il ll ' (ssell (lo 'll - I ll. (..:Per esaminar che facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll ratezza º le farebbe ! l... I l di pill roso e maie a milm:a  “ to........ !! (sali 1,3;  -  Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt, il battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl a V a Ill quella dei santo.... Dari. a... al Illale il saporito bere che a Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli viddero fare il lla volta (ll... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia.. ll::lzi... » 13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso, se non  clie...... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp: vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri  Il l: i ver, l.. I 3: l...... ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali.. io -il ebbe il lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te ». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! ! - i lig lio la l et le ia V gg li: la torbida fà per chi gli vilol piglia ', III: ng ſare. l)avanz.  Noli può fare li Ill re: I l e - - al 1ori la lol (III il tal11:1. Sºg Il ..-e egli dice, N 1 il por io può fare ch'ei rion si p it,  e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl!. » Da V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling o  quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155  l Ia' tll a Irli in olii o li or fan sedici anni, i l... (l Slla V a 56  IV. a Suo cimitero di Illelia part la lino (1 Epi:ll'o ti 111 i su: i seglia -  e ci, (le l'anima col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io,  giII il 1 a 1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I) avanz « L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal..., I): v.a La tua loquela ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla quale lo sa lui troppo mio' si o I): inte. i s'ipno, ti appalesa – verráth dich.a I), Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo faceva da Fausto Manicheo si primo mi:i stro: S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori e leggerezze, l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà ». Fier. a Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V., o di siti - 'e gli dai taccia) Colli i clie ha il ll ll gli fa l'i....... 11: li l 3, i ll l 1:1, Illeſ le co; to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i libri li. (s.  i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1, ' - ri - i l. 1,,, l  a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll ' Ina - - a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che ritrovarono a questa maledizione dello scrivere. » Caro ottenere, fare a meno)  « Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì almaramente. » Fieren.  rate che al nostro ritorno la cena sia in essere. » Caro fate in modo,  procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne ineniamo una colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne dici qual più ti piace. » Bocc.  l'areva che non ti l'i sole, il la a Sinigaglia avesse fatto la state. » lºo:. passaio, trascorso (ono fatto fù ii (li chiaro verso la si dl lizzò., Bocc. | - Il sul far della lotte e presso della torricella nascoso. » Bocc. 157)  l'altra urla de l'en li colli l?olna li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. » I)avanz. Colne ogni altro frutto tra  piantasi il noce: fa per tutto viene adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o Da V. 458)  V.. Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel viso un gran punzone. » Boc i 150.  « Onde non è mai raviglia, che la llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi (1 lt; lr sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V. « Ma ancora aspettano di dirle altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e disse. » (a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra, proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola, fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi ». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart.  « Così senz'altro dire, la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo sparviere. » Fi(l'enz.  « E facendomi dal primo dico.... ». Ces. 460).  a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1 rte I. Ca po III.)  a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in Vrebbe lorº limitato il cinguettare. Bocc.« facendosi a credere che quello a lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti, gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio | risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto..... !!, (l'ulse: i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc.  VI. FARE COL SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea, coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. » Cavalca.  F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran senno. Bocc.  Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai:  e Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona  lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces. « Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra, Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate ragione che il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro, illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino, come si mo. -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se: vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona, o (v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante.  \ V EI ) l I () - – I VIR SEM1  I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl....., ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e in colite- io. Boa l l' allora fe vista di: andare a dire all'allergo che egli non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e splendida In nte li riti, va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o, ivi in inet, orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. »  l):n V:ll 17. a E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu. te t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel  a l:n. » i 3 t. E quando i s rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ).. Fatto adunque sembiante d', li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di.. I8o.« Quindi vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -.... e cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol'. » Pocº. 'diedero a vedere, a conoscere) 467,  FARE AI L'AI TALENA, ALI..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE, AI.I E (I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli. « IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.« Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a giudizi, e alle cause, alle vere battaglie. Dav.« E' facevano al tocco, per li avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469)  FARE A CIII PIU'....: FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e Vitelio, con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ». I)a V.a che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a te a chi più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e dopo al parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre complimentavan la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il pricipe che..... Manz.  ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI(U IRTA' con..... a perdonatemi s'io fo così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà colle riputazioni e per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... » (iilib.  FARE ALLE PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con Agrip  a pina. » Dav. « Egli tanto più il 1 furiava, e facea con tutti alle peggiori, fin lì è il re il  a Inandò cacciare come il Il ril):I l I liori li pii l:ì gi. » I3:urt.FARE A MICCINO: consumare, od altro, con gran risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a poco a poco. 170)  FARE A SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti, io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua Maesta. » Fier.  FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e dell'astuto prese carico sopra di e - d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il che udendo la testuggine e volendo far del superbo anzi del pazzo, « senza rico: darsi dei e aminionizioni datele, plena di vanagloria disse.. » Fier. Volelrd, far dell'uomo essendo lo stie, Illalrdano llla e e rovinano « non stilainelli e.. » Fiel'.« Ho fatto tanto del buon compagno che me – il lio acquistati tutti. » Caro.  FARl, \, FARSEI, A CON contentarsi.... stai con lento a....). e Domandò come Silv: la facesse, quello che fosse della moglie e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino all'usanza dell'Indie con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi, d'erbe condite sol di ior mede « Sime. » I3art.  FAIRE I,i,() V.. l) il liut ) Ni lºrº in l. FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. » l80 parlare lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle parole, rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta, l'ufficio.... e º no pur cose (la polmderarsi.. » Fier.  FAI? FORZA AI ) A I CI NO) – FAIR FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una forza da al ll ma l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte: Aiuto, aiuto, che conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc., il « La reina faceva ai giudici forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che incorrendo in contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la cagion gliene comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.). 'FAR FALLO A abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero fallo. » Bocc.F A R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be mer ken – bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui, trionfali dolo ill lor stessi,  a e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver  « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e sian prevenuti che....., e ponderino  bene che....) a Dunque dovrò starmene tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun  « ga fatica...? Fa tuo conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa tuo conto, diceva  il padre, le sono appunto candele. » Gozzi.  FAR BISOGNO A. Q. C.  a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e apparecchiato. » Hocc.  FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc. I)av. I3art.,  I ARE CEFF ().472. a farebbe ceffo a questa fiorentilliera che cosi le propri la nostre appe.  con barbarisino goffo e sllo e cellsll rel'ebbe così. I a V.  l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite perche quella nave qui una volta fè acqua. »  l3al rt. 473;  I AI? CARNIE: I n di ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne veduto quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e gia giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i trat..... » Fierenz. |  FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “ lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere) Crusca (474)FAR GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP().- FAI? E TANT ()Farci il capo vale averci pensato tanto o pen-acchiato o provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco le cose chiare e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo, dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“...... che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di avanzare presto nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù e colla fedeltà si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è chi llell'ultimo altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi ridendo, chi co mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A FARE CO)N..... I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che ho io a fare di tuo farsetto? » l8oce,  Note al verbo  Fare  449, – Non curo di molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi notissimi e frequentissimi an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato di ordinare di fare, e di cagionare di fare  fare apparecchiare checchessia anferlingen lassen – fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten mitchen mich erròthen –  Lessing.  fo0 Anche il to do degli Inglesi ha tra gli altri molli, un uso pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him ho looked belle lham he does nou'.  fol - Quel come lai lu sta per come dispiace a te. Nola inversione illicola di costrullo e dell'ordine l'azione.  4,2, (iozzi chiude parecchie volte le sire lettere così.  3 - Nola anche il secondo: che ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli stà per un verbo del primo inciso sottinteso adoperando..., che adopererebbe..... º, o per l'anzi detto esa m in tre: colla quale esaminerebbe ecc.  4, Per dimolare lo slalo di essere del tempo, dell'aria, del mare sillili, o loperano i buoni scrillori assai sovente il verbo ſul re': come latino i francesi il loro laire. – Guarda come,  i, - Mlodo a lille l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci è pol el sºl le limitinº l'e - esser star bene senza.... ».  fºſi - I granimalici li apprestano indi la regola: « Fare stà per  lº minare, compire, rattandosi di Iempo, e ad esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più semplice la formula che anche il Tuesto caso il verbo far fa pel verbo essere,157) – Nota di questo gruppo le maniere: lorº la state, l'autunno ecc. il farsi del dì, della notte ecc.  458) – Analoghi a questo fare sono i mºdi lar buona proºº, fa, gran prova, provare. Conſ. Pianta. Pront.  459, – Metti a serbo i modi: idr si incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi alla porta, alla fenestra: larsi a credere e simili.  460) – Simile: « E iatlosi dalla in attina venne lo raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche: farsi dappiº, per cominciare dal primo prin cipio.  it:I – Pon mente al senso del pronominale farsi degli esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole intendere come il modo farsi a credere non sia come melle qualche vocabolario, un credere a dirittura ma un accostarsi, recarsi, darsi, inclinare a credere. Simile anche l'altro: larsi a fare checchessia – cioè mettersi prendere a...  4(2 – E' ingegnarsi, studiarsi, faticare ecc., adoperando il senno, l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua. Non gli dar noia.... chè egli la colla cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente adoperar del suo.  463) – Vale operare saviamente, metter giudizio emendarsi. E' modo elittico, simile al precedente ma di significato assai più ristretto e talora diverso. s  464) – Traſduci: mi penso, mi arriso. Si adopera questo: far ragione che..., di..., a più altri usi e significa quando supporre, repu tare, e quando stimar bene, opportuno ecc.; mentre far ra gione con alcuno vale intendersela, fare i conti e simili.  465) – Far conto che, dicono i...ombardi. Simile anche il seguente del Segneri.  466) – Far vista, far le viste di ecc. è altrettale che fingere, dare a vedere (v. Dare); sich stellem als ob....., Miene machem, sich den Anschein, das Aussehen ſi bem. Pilò però significare anche semplicemente sembrare, parere: « non facendo l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo): senso di lar rista, sich slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. » Sacc. « I)avano rista di non tener più conto di lui « che si facessero degli ºltri. » Ces.  468) – Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale spendere senza riguardo.Si fa alla palla di checchessia quando avendone a josa, non si bada a risparmio. Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non guari dissimile e vale traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare a sicurlà de fatti suoi ecc.  467) – Questo modo far veduto pare che abbia un doppio senso, e si usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja di vedere, quanto dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di uccldorli » BOCC.Così pure dicesi: « far vedulo di commettere, di perpetrare ecc. In questo senso usasi anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un beverag 21, e lattogli reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt: otp lºp o  puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp olioIA os IOI o II.) BAIA ost.I I » – (3 li  - ll T. -uui uu.o Idl I « mhop Imi lood ºzuos e.lolu uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip (IIIII O]UIelo.) (UIII º II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il o, o od o lou il timbrº p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli manlaodm oil al pm b  uod mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln() eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli  uol.opu or) p. I: ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti lot ou. Il sopo I oddiº o IliioosLI o IIo N.  tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis (olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II un illup llp, mo:) Iols )llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I Isti.Il '.I]od (OloA [oſ [0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o: OICI e ouuu è Iopulso.Id el ouo ez.Io] el º.it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e “o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb eplau ooo ufos « lama luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA (o.llitt.top non lº pztof l l lo Io: l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o. pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA (mr lo? oso).to.) o un ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po “pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od p osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily  outloollll D o 1 pp out.), lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – (), luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5  l Is o “eso.) eull UI! Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6),  (o topo.to llbollmſ ollo ossols ol ooogl. lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili  iFrenciere (Pigliare)  sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua italiana – quello che si è mola, sin 'I I. (Il les (il n ad (SS (l' \ i re cosi di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1,ºrticolarità di della I i licli, e lassici, q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza, ali di si ! "i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l' hissimi, che ne usano i d, e, l in A, is simo e i I i di classici del medesimi sono da Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo intende, a cargoli d'ese p. Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso: bo i  l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i........  consolazione: prendere p, i ti; i mal. ): i i 'ti li' li ti, prendler guardia. Sospello; lo: l ' s.  losi, i di qualcuno e.: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass. p pºi lº i dire: il fare clic li ssi, i pi nel I e il I i gio EpptI re li. Il sol li: V g: li e lode. I re. E ci l  si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i pir. - di  il Italo.  “.... pil per istrazia, lo li, pr diletto pigliare i: l si  e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione...... il II l r chi alla toll:I n. I),li (1. (...  a Ella d'altra parte o il I e - e clerlo; o secondo l' ill Iorli; i vi, i i miglior tempo del  lo II e il -  mondi è mrendendo il li tl (. Il li l, l si o di non avvedersi di qll st.  a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l  Inattilla va tlitto solo, prendendo di porto i. (illata Hilaldo e I liv. ri.I l ril, 1, E molta ammiarzio i seco prendea,  a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ - jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ',,, - -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde (gli diceva: Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e cos l III li il l: l li, i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril, li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie  a  - I prenderà g -dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:  r  ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl. Bocc. «... e nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel.. ll or loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo: prenderete le! Seilt il'.... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo osaliment.  col) folt:ì e sostit ss i v.  « Menagli questo cammielo e digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende anc..... » (. I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc. « A \ onla I sta i presi -. 3 i ari. o Il re, o la -  sciarlo a B) c. 5? I  V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «....subitamente il prese una vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II, il l l Il l3,Gran duolo mi prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella ne togliesse a fare un altro: rispose « che nò; che non le era preso si ben di lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva - la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto innamorare di sè).  Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di me... » l)a V, 'comince rete,23).Il quale facendo rumore, che molte strade d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a condurre quella, per altro troppo mai -  e gevole impresa ». I3art.  e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. -.... stabilito com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto  « liri che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn.  « Anzi cred'io, che il rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro, lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm.  E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice ia.... o Seg.  Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.  PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º ENI) I.I è IP()IAT ().In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli, prese mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº a li l e, si ill  via l'olio al il 1 l l'olta rsi St...., l il l'1.  1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo, slan zare,  I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa casa nella via... non vi li gitali di litorato le... »  Bocc. a colsero in gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di  lui per tutto il paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i passi dell'uscita succise  Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un tratto presero i passi ». Fiorenz.  1 l? l.N1) EIRE l'N SAI,T (). « e posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte Docc.  I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo, grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...  l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet.  « Ma io mi accapiglio teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in al  a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo Descriver fondo a tutto l'uni  “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o Babbo ». Dante.  I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto prendeano un poco di sonno ). Cavalca.  I 'RESA – Pretesto, molico, Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità, ap picco, buon gitto o  l)Al? PRESA A...... r. l)ai e. a Sesto Pompejo con questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame, vergogna di casa sua....». I)aV.  FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a V.  Note al verbo  Prendere  520 – E' il to take degli inglesi nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up, ecc. ecc.  521 – Conf. voce Partito, Parte l Il.  522 – Notalo bene l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso, pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se  quor). 523 – li alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc. Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una sedia, di un posto ven  duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr  Le vere  Ha molti vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti:  I,EV AIRSI IN CONTI? ()..... . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc.  Coll dollnes a placevolezza levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('.  “ La quale veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte. » BO C'('.  LEV. A IRE I)I V. ANZI  « E non pareva potesse avere niti il 1 Imedi, pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi, ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.  LEV AIRIE I)'INN ANZI V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio. » I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire, sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600).  I.I V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN (() \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. (es. ! (50 l.  I,EV VIXSI IN AI, I'() . ()h Imadre carissimi, noi ti levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà. Cavalca. 60?.  I,I V VIRSI A VI () IR E I,I \ AIR IR l VI ()| è l I (50.3. LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604)  « E ben liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t., V ill. (i.“ Alqualiti discepoli s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (I V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto  (ies Il Nazza l'en lo... (:) V:. Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r. Ciò li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1, V e allo li l al t.  LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI () N E ſe i protra riq lui e  l'iello il palese illello, le. - -s. I lilt lil e i parvoli; e nel se greto rise! V: lui l', lo l ss, levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI ) l'ill. S. (il'.  I l V V | | | | (()N | | (50),  ll el l e levare i conti. lle: vev: i l)i V (llll le ll ' o  sospiro...., Dari  LEV VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle .... pastore, e li e o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l 'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » (vale a  I,lº V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I? \l ll l... l) \ I.l.(i (il l RE, l) \ SCIRI V l.IR l.. e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir si levasse, soffiando inco  Inilli i.... a l?o.  LEV Alt SI \ COIAS \ rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua.lº dicendo queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» (il Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a dell'ilso:  LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I.  e e la madre guata va se fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per  a chè ella non era molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez  « zo degli armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di o,.... » C: Va a.  I,EV Al? E l) \ I, SA (IA ! ) l'() N | E l e il re e la l I e Nilm o U.EV \ I? E \ I, S.V  (IR() I ()NTI: II. N () \ | | | | I.... 13 (I l (rli I.EV AI? SI I)EI, VIENT(); I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un edificio, di un terreno – I.E  V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc.  Note al Verbo  Levare  600 - Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso.. (olle (l'eslerà di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono gli l'iorentini per bli. Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ.  (01 - Simile: salire in baldanza. « I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse durare innanzi alle loro armi » Barl.  (2 - - ()sserva la correlazione (li le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà.  603 -- Simile la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av.  604 Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 – Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i rt,N/lettere (Porre)  fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I.  Al ii l ' - I - volgarissimi 629, nè la  li si l sl i  l  pi. Ma sono alcuni altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo  l | laii (i l I t. ! ! - l - l  - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il vago della frase  il sisl ei s ci, il ss; li il sia, è ad ufficio e valol e  º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i -: i i no del verbo con altre pa  i. \ I soli linelle, che anzi li li  ii considerazioni e all  is | | | i l !  l sl glº: i  \ | | | | | | | | | N A S., VI A V, l SU ). (All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V (il l V l l ' Simili.  mise cinque mila fiorini d'oro contro  a mitic ', i l. -, metter su una cena a lovella da re i.... l 3 -): l l.. i. - i i lo s; i ti sul metter de'  pegni pegnº tra loro messo loro, I, nºtito pegno i - i;. - i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i: lessano che la Verità  l); i V. : l l., (-.  il  \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t' ('.  I mette ld, e più forte illli, Va'. (I t si -  11: -, -1; I l - e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi...... (i  In li vere - i rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I () - VI I I I I I E \ N I \ I () \ | | | | | | | |, A \ | | | | |.. AIETTERE A VIVIII RAZI() N. \ | | | | | | | | | | N SI El ' () e Nilli lli.  Cadde e voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio  le i soldati si li filº roi o li I ): t: Ig it li, eſ. Quel giovane.... fu il primo a mettere in lino agli altri. I3e: 1. (ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli con le spade ». Da V 63 Ali (III, i se mettevi l'amore tuo. F (a Per la qual cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. « Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie. it - lo il I l s. ::: I l lit: i mettono inella moltitudine am.  a me, miser pensiero,.lon gli voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I )d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?  \IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N(\ | | TT | | | | V.. STIt II) A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili.  l?el ſ to loos o il fiel (il V al mette ale, l ' ll I, II ig. Vlorg.  (figura, a III, corre col gra il V el. it:  “...... nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi.. sº i e ai lo schilli e strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit, che chiunque l'udiiva spa.  ve: lta Va ». Cavalca.  Allora qllella stridento, e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.... » (a Val n.  º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e pregare. Cesari.  \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | (i | | () \ | | | | | | | (() NT ().  “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava. Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer. saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti, ('esari.11on perhè alla l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v.  nè i figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV. \ | | | | | | | | | N N | () M ET l'EItE IN ASSETTI, IN Alt NESE – MIET I ERE IN ESSERE di far q. e.  MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par ècril – lo sel clou n.  e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di lar bella grande e lieta est: l. 13,.l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo del colle e del quando,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l ' bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il.... e – l llla la si metteva in essere di baſ taglia. l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta (o poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t.  V | | | | | | | | VV () |, V \ | | | | | | | | V I \ V (V.  lolla li l'al' e sl per ol li tºlti mettevan tavola il s si.ora che l'usato  si meteSser le tavole..  \ | | | | | | | V S |; N V (\I | | | | | | | V l, A l' (C ), Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V,  l le 'il l Illia di Illesle lol o l'agielli soglio li, i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il, (es. i vi G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t, sto lioli i l V lo i prigl n. o l8al l. 635 l  lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la vita in avventura, e lui e il venil -, al site Ina ri. l'8art. esporsi al  pe: i  per i volo li lo del l - l at si  \ | | | | | | | | V |, N | | N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S(() | | | )| |, I N SI | | | (\ | | | V | | V,, Nim ili.  Se.... I certo I (lelli rebl.......... ll tiro e, e ogni forza use; per metterla al niente. I 3. l.(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i letto i ri; 1, l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ o ll -i (V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li..... ll e il V e il messo (es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA, CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av. Bari. Ces.  METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO, UN AI3IT (I )NE ecc. -  e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le qu'il 1 l III I Voll. 13,  a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i pensieri triatli o Bo  MI ETTEI RE IN N ()N CALE \ | | | | | | | E IN I 3 ASS() - MIE I TI lº l: l N S() )() - MIE IT EIRE IN I () IRSl - \ | | | | | | | I: IN IP AI ' ()|.I.  Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non cale ogli i l el-i (. l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza il basso messo. 1)ante.«... mi par necessario definire prima e mettere in sodo il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30.e in altro non volle prender e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo  delle sue galli; la', e.... » I3o  MIETTERE IN V.JA con....  \li raftivella, cattivella, elia non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;  º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r, voler l' il cºlle agli scolari, misura le sue forze cogli -  METTER MI VNO A o per q. c.  “.... e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran colpo...., gli spicca inno il braccio., Fiereni. e Messo mano ad un coltello, quellº apri nelle reni, Bo 3;I All. N l VI (III (S \ () \ Q. C.  - .... pose mente alla sl i 1: 1.  I s e, ponete mente le carni mostre e lui è stallino. » I3 n. 1:.  Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e divili la li l: i les li Se i 1.  Ponete mente effetto i li e le e il via il cºsi della lor debolezza. E  \ | | | | | | | | | | | |,((| | | SSI \ A SI N N () | ) l...... (3,,  e gli misi a suo senno, e iroli  -  \ | | | | | | | S | A N \:3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | | SI SI | | NZ | () \ | | | | | | RSI IN | A | è (Il I (C.llESSIA – MIET | | | RS | S (| | | V () | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V.  dal si misero al ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4, N -- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3:: 1........ i si metie siienzio. l 3 l: i. () il l  i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l.le sia l i lliesto. Meini. S'era messo in prestare Scpra castella, l in tre loro entrate. »  netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl l l: i veri il  si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o.  \I E I I I I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all.  \ | | | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V. I l. SOS I \ NZE ecc. Udas le ben  (''.. ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno, mettiamoci la vita.. (i ll.(i e il (! ! !, il III le pose la sua vita per la nostra redenzione.» (: v. l ':l.«.... e lui beato che fu il primo che ci mise la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo, le no, ci mettiate della sanità. » Cal O.  MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI, l' N I ().  « è istigare alcuno e stimul i r, a dov e dli o la r il il na Inglilia o V Il  a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. (del liti o lill la, o lil a. i litº, - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro,.... r Inti o al Ilici che sia imo. Val li  Nola gli appellativi: commellinale, un teco meco: « d'uli con melli  a male, il quale sotto spezie d'amicizia vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero. Varchi.  METTERSI AL TIEIRZ() I (C. I )].I, (il V | ) \ (iN (). e Andavano dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: -  dagno, a cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i  a o l'edità colltro alla legge, i l): I V.  Note al Verbo  Mettere -. 628 – Eccone un saggio: to set al monuſ li I linellere il niente: lo.. set ad usork (porre in opera: to sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside mettere da parte, - - " lo set one s self (imettersi a....: so se lo m in l. ere giù -  lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt, nettere a terra: lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in alti, ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc.  269 – Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso, mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi, porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc.  i30 – lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi, essendo il succhio... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo: mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira.  631 – Si dice anche, con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1. c. vale proporsi di farla ». (5:32  (5.3.3  (3  (53,  (5.3(5  (5:3,  io m'ho più volte messo in animo.... di volere con questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo.  Neh! questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero. -  Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la tavola.  Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o.  Noli ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a sacco la lingua e lo stile delle mie opere. Giub.  Melte mano in checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col I Muno (al). 2.  (Se il m o l?a l'1 e I.  Al clersi al ritorno re, e simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche mettersi coll'anima e col col lo t... (Si mºlle con l'anima e col corpo al dice al la r l ich '5 st. lºl'. (ii il d.Re care  Sil primo significato è il l di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di votarne il recai ed holl 1 e... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc.  Mia poli III lil al li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es. sia, recarsi a....... liele Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e quando i riliire. I l...., il V (l e va dicendo). .. li Ille-t Il l: l ' 1 tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a condizione di privato. a (a s. .... sol che esso si recasse a prender 11 glie. I3. Vedi modo e sappi -, oli di l: parole il pil i recare al piacer mio. 13o. II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000.. ll e io la sll, di reche a rei a miei piaceri. I3o.il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel. l i r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit '  (1 -  i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - -  l'eputaldo, considerando sullo la r pri... e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill).. niun altro l'olila 11, di sua grandezza il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori il la a gloria. Da V.«... lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla persona che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi e il sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare, bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a piacere, a premio, a riposo, e.... S -:).e generalmente o il lancio, il ril ci rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli non ci dà noia?» Segn. ll – e le: l le, Fi, al di l orlìa 1 di sl, ll la l'ott 1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ', no; i clle Vilì c'ere i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e oltre  - io ho veralmente era, i sse i ll, si era il V V ei lilli, il vi: ill, 'i. I l i pic lo es reit, del re doll i – l.  e/ se \, Va. l. ; le I) i l rist l li, a. l sei za niun risparmio,  N si | | | (V.I RSI | N S.  il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò, e con sembiante  1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li.  | R |,(V | è SI IN VIA N () | V | | Si VI \ N () I RI (AI SI IN (() l.I.t ) (| | | ((II ESSIA  \ oi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete dice: do; lo ſo lot, il l)i lle o il cog el'o... l ' ve. I 33llfli liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle 1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino, e:... o I 31...(olli e il li elobe Il., 1, li lega i recatasi per mano la stanga dell'uscio, lioni e sto prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli ehloe  vinto il ſolito.... 13: l'I.  l: I VIRSI CO) I I ESE teme le mani al petto, per riverenza, di rosione, piu'll.  i let: Illesi, e latto, recandosi cortese disse.... » Sacch.  | V | | | IN |,l (I  Iſetti, il gran tempo, sia i mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo ingen). Giamb.r- a -  li ECARSI UBBIA DI.......  « Per dilungarsi dal morto, e Iliggi l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch.  IRECARSI A MIENTE (Itidui si a memoria, sorreni e.  a Và, e non volere oggi mai piu pecca e. Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere la vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello che dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che il rollo di risori, cioe  Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i (It.all.... » l?assa V.  IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in cui molo, la re un fascio ecc. ).  « Voi siete ricchissili, i giovani, li lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun fallo mi da il cuor di la, e, le.... Bocc.  l? EC.Alº:SELA (o anche recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie, pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13, la consideria oli le c, fatta vi da un ubbriaco).  -in da 11 a V I  Nota al Verbo  Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 – Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a Ilºil, º lº  rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una grande ingiuria a stili, mi di si p o giudizio che ll il  mi debba ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal'.F corta re  Al l lano i rili Is, elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del pari tre latliano, cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere, richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa, l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena: portar opinione. I rl (es. porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido  () i noli e gli ºri Ilde - i tizi ile, lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » (all'o.Nelle passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl l.. ll la V, º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo. lle il 1 l... loli portava. o lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo, 11 le lilt:: via l il 1 l Ces.  I:i natura del l s i porta così e io, il - e lº può altro. » (-. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto un numero « o  d'i!) finite V i..... » (' -. Conservate il vostro, lion spendete piu che portino le vostre facoltà,  fuggite i vizi, seguitate la virtù. » Pandolfini..... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno portasse che... Ces.  a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non sapendo che falsi,  propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc. So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva  di farvi grande. Caro.  l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. » Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o.« Ma Iddio, giusto riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina  -  conoscendo, e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. » Bocc.  -  « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa, (livelli loin l..... I 3,.  le all o!'  « E da quell'ora il li illzi gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I.  E 11 lì è da falsene il raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona sia o C i va. a.  « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti, spesse volte si biasi  mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.«....porterà espresso pericolo di riceve e vergog:i e dal lillo., (iia lill).  a Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett: s tl dl Ill st luoghi. » Segn.  a... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o  Ma sai che e' portatelo in pace. » I 3. « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri si porti di te, e Fioretti.Ajutare  L'aiutare dei pochi esempi che qui arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen, ma si rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno, aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia ecc.  “.... e che l'Inilia cantasse il na. il Zone dal Lillto di l)ione aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata.e Ritornò si notand piu da patira, le da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti.Ma quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature, spacciata Iriente si inti e di l::i i: si iroli e forte aiutato di lavo a recci e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile!:l ajutaio, lº rese nulov, con siglio. I 3 r..... llQlle - le parti si posso lo aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla opportunita, intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva Virtti alle parole.Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e farà buono il lito. » Cl es.. ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai, dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi va, adopera.  Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel de  fettuoso prele, o Passav.  A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da.... ()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l naso ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.« Anche::lolto è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti i 11 st.li idoli gittò il: tel l'a, e iº li ill la cosa gli poterono luocere, nè da lui aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi.  a Pero ('ll è: i Frances lli non atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII  e liardi e dei Toscani; ne il Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572.  e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l...., Boc.Io vò infino a città per a illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o, c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho partito per  n  mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130.  e Alberſ o d'Arezzo era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V;1. SS. Tad.  A.I l I'.Al ' SI A......  a.... Ti o, ipo -olio rimasto dei lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V, di rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi, quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella, Segn. s'ingegnano, pro iº lo trachten, tàchent).  Nota al Verbo  Aiutare 571 – Parla del seno delle donne che per parer più pieno si può..... 572 – Così l'ediz. fior.; – La Cro Sca e La stampa delle Soc. tip.  Class. ital. leggono un po' diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e ritire  \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i ''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo......; Nºn li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo, la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e simili.  lo soli i ll ella sento di me., Rocc. \ V e i tit Illa ira solº ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. (... ll I.  S. Bernardo di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di  º  ll I ligi la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. (olli lel quale - la i vizio della super leia, e non si sente, cade nel  V Iz lo lella lissili la del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè  la co. fusione e la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima  er: il sensibile, l ' s sv.  \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1::: van ls li a grande, e quello che più lor gr. l V il V a el.. ll e-- oteva no sapere, il l ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: (li, il l Illa 'e liti e le atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire, fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (... l 3o.  le: le [lli li elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » (asil.si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se rigli' rdat, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella, oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III - III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi: ' viº, per la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. » I3o.\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, (Irlino al palo con un stio a Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto,  La fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo (iia corilino l:ori vi. ilava e gli dissi » Bocc.  Venuſ o il dl si alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ()11 (:il l)ll a l'ebbero fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio 13o.  « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve: la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse., I3o.a Io il quale sento dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite \ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,.  Ttl st -:) Vissililo, e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3?). Vll'ill ontro chi, colli e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se goli si ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel decorso dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto avanti nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo.  a S. Greg. S. Agost., S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta Chiesa, sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor de genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo (l'isti a 'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril. ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. « Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo) diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino, quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r.  e Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a vivere, e operare. » Caval.  Conferisca gli tutto quelio le ella sente, come farebbe a me proprio. » Casa.  Nota al Verbo  Sentire 2!) Il V el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo  che la non i via Venga il suo l'ecclli ecc.  lo 0 lo che li on s. Il ll grazie del 13 o accio ed altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: « La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe dello gl. ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva, dice: nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib. I.  53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l' aver diſello di.....; e sentir dello scemo è aver poco senno,  aver la qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è predica o di checchessia.  Analogo a questo sentire è il sostantivo sentiva della nota fra se sentita di guerra.  32 .... mia egli con miglior sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I 3art.Stare  Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto, e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e forme particolari dell'uso di questo verbo -, e mi starò contento ad ilculli esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e pensa moderna li crite.  Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno, per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare: stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare: stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles', ei lo slalo, condizioni e cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc.  I qui li II lotti per i clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit. Il ti line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg, si disdire. I3o.e E sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli lle...., I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l.Sillito la vo' veller', s', la dovessi la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici. V el l l ll: l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3,.  Bene non istà a lei il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti (Il'io Sollo, '1: iStà bene l'attelldere il d all1, l'. » l 3 m. Frate, bene sta, io li e me li di roteste cos Ill:..., l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li avesse ricolta dal fallgo. » Do. S78. e Io non son ancilllla alla quale questi ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene., Bocc. -i al ddi allo).2ssendo egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30 ('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1.. l 3o.« At colleerò i fatti Vostri (i miei il III: lliera e le Starà bene. » l'80.  a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a la cosa stava male. » l'8o c.  a.... di che noi in ogni guisa stiam male se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl, li lev si stava.. l)av. N si s si s i s; i liss.. - Si stesse, e l'80. lº l' 1: v. I l il sitº Il le stessero. V...:lle cessassero, si fer  Il luss (l ', -- ero  (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non gli r! Inovesse sin – li pirole l 3.  Per me non iStara -: i sia. » I 3, cº.  l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele  si li, ſi iss, l 3,. S!),.  Senza troppo stare t a il lino e il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1, sich lange besinnen).l ve: i IIIa pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi. 3,Siette al quanti l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1., l lel. Stando pochi giorni.... l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si. la Iltale della Illin molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e la potenzia il I I ) I V - -, l sºl l e.. l 3 SS0'.  l I e Ilio - li - Il d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si... li o 1 i vasi. lº, e lo statti pianamente fino all'i nia tol nata.. liocc.  (.l, polendo stare, via, - ius o è he mal suo grado a terra: i l ier'.Compa il lato l'opera sta altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt,E relet, porrete irrente le carni nostre come stanno.» Bocc.  Staremo a vedere, olle V i governel e le, Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn.. « Non mi state a descriver di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze -  º stomacose. » Segn. 881;. -  lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte moli e dell' Is Ilo ſereno:  STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la serie -  ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a dazi ordi  a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli uomini a niun termine star  e contento. » Bo(C. « A me li li pare buono collli, il quale lo ista contento al suo pro  prio. » Palld.  STAIRE SOPRA SE In ne halten SS2,  a Alquanto sopra sè stette e cominciò a pensare quello che la dovesse o Bo),  Li Volse dire, senza pit | ns. vi clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis, nel volto, per V del e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...: stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.  ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI |, (il V V | | | | | | | | | ((I (). (sillli | | | 3 (- ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI() N E. SI I, IPI N I () | | | | | A (VV VI.I.E I? I A, I) EL (()N V EN I V () I.I. - SI' A | ' I SU I. (VNI) E c'e'.  a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore. » Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart. : gli 1 il ri., l3 l: i.  STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone,  « si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).  STAI? I, IN FIEI)E  a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. » l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es serne lui lo premi tra  SI \ It I A Ll.((il crisi liti, elorca, la II nella liti... reggersi secondo... ) l  Il e no, le tuito, stava a legge ma umettana, gli si ribellò... » Bart.  S I \ I Rl l?I l l N () / e mi e' e la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN  (i \\llº E forſe da la persona SI \ RE IN CEIRV El.I () (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \ A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE I).AI -  I 'OCCIII () (A | | | V ().  \la V to io, che gli stava dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | | | SI' A | R| | N | | N | | N N l.  (o la base del 1 al pil e quasi ai li o sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (liz  Si ponga nelle da li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i c', lino e lo micilio e c.  (il voll:i li in lato veri pla, endogli la stanza, là g: i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come le g. a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31.I ra gli alti Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e in petrò al padr e la stanza stabile nel. Mlea o, e per i o is reti ministri se ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il consolato,... » l)a V.Note al Verbo.  Stare S7S – Questo bene sla è maniera in personale e orna all'altra: () - ſimamente, sono con voi, siamo intesi, basta così ecc.; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. – Simile il modo del  l'uso: ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e simili.  S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od - una cosa dipendere da....  SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco slante se ne - vide il buon esito. I3a rI., se li il climpo del pari orire ess torì un bel figliuolo maschi. I3 cc.  SSI – Simile lo slare dei modi: stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di compassione il  conforlò e gli disse che a buona speranza stesse, perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o. 13ore.  ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- - CC (”.  SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in so spetto. -- I tiri la nel libblos, sostene e, sopraslaT corri a re  Si lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il 90S, pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al lile. l iuscii, l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t.;)(! ).  l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua.  lº a V v l It il il I e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3...l'alto i a | 11 he tutt, torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma predicatori di Cristo. » IBart.. La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere.....() il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la, la Valle, le carni i listinte... Egli era tornato ossa e pelle nuda. » (es: l l'.La caduta di lºietro torno in fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A dunque le parole di Crist, tornavano a questa sentenza... » Cesari,  a tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo, fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima era fuggito per paura mondana....»  ( l'avalca. I, lu go studio della volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella prima Sanità. Io e.  e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò in cenere quel poco a che l'era rimasto, o (es. le e divenir,.Ma il Si Verio tormolle all'abito e al ritirarmento..... I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“ Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare,.... e Sp 111a gli 1 11:1, V., inza, i - II i cd 1, tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. » l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato, tutto.. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill dolli l'a Vea - Il bil II la.... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello., 13, riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi..... I 30.  lIn giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. (i lill allo, a nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V (st Vo Nll II lo, Ca Valca. a lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca.  Simile al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.()NT () T()IANA cioè non c'è errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto, riviene 912.  TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere......  « Coloro i quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando e quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna., Bocc. l'()lº N VIRE IN A (() N (I () \...... stal utile  lºlºsa che se a Dio fosse piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio del Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo., Bart.  l'() I N VI RE IN NI EN I E  lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento convertite tornarono in niente.. I; ) -.  l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ((I | | | )|  la Illal e sa tornandogli alle orecchie., Fier. Il testo la r o' e tornate agli orecchi di.... » l?art.  l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e c.  si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm!  Note al Verbo  Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to turn degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. –  l'his young mall first intended to study Ihe lav, but after W:ards lle l urned Soldiel ecc. ecc.  909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va dicendo.  9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in....  !) | | Nola, la maniera: tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al tutto singolare che vuolsi qui ancora notare.  912 – Tornar con lo simile a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con lo recare all'anima tua  un minimo pregiudizio º Segn.Vernire  Olire alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN....: e il ct rich o V | N | | | | CI I IE(CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c' Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le.  gli il II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle (e-il rl., (iia lill)..... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il danari, preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz.  e assile la Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei, con tutti gli altri st Illi e disagil.clic..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo olfendeva e dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 -: dosi illeri, il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in povertà, il ire gli il li ri.:) V:llieri, c. I I I I I I I 1, divenne a tania triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l. » l' 1-- I v. desiderosi vennero il 1 I l l: V.. le; e...., I 3, «... sino a tanto, he venuta discordia civile tra l ti: io e l'altro paese...., (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V. Zza. » Bo ('.  VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V | N | | | | IN S(I R].ZI () (.() N.. V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N | | | | V..... per renire, di l riraro.  venutasene in somno furore...., l 3, ('. calo il 1 alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe razione. » Fit, l'.Veilezia turbata li. Il testa per lita sarebbe venuta in qualche disor dine. » (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i telli e li fa Vella....» Boc. « Non ostante che tutti venuti fossero in famiglia, uniti che mai strabo -  -, le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi sta pagatore l'Io venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te olltraria alla donna, a quello a che di ve nire intendeva. I 3,.  VENIRE AI) Al Ct N ) che che sia, conseguire, meritare. – VENIR | N (()N (I ) \ ENIRE I 3 EN E ad ai tirio per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | | | V ((N SEI RT () V l'Nllº I; l'()N PUNTO).  Nori gli potea venir molto polti tre li dottrina, ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse acquistal n. » C aro.(Il le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll facevano con lor sen e 11. » I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si levar l'assedio e tutto venne bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo: empo per le foreste e discorrere a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d. ordo li la sto la soro, il to he ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. Fiorenz.ma per le ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in porto che s'incontrò il l.... o IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon punto, al re lo mostrasse. » lºart  V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo, e, v. occorrere, apparire, mo strarsi, affacciarsi. -  Aguzzato lo ingegno gli venne prestamente avanti quello che dir do a vessº. » I Bot (.  « A rispondere assa glon vengono prontissime. » Bocc.  VIENIRE A l) ALCUN () ll. F AIR CIIECCHIESSIA (loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene ora il dover dire. o Boct'.  VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) – VENIRE DEl. CAPRINO e simili - ed anche solo venire per venir fuori uscirne  odore, esala l'e ecc.  E quando ella andava per via, sì forte le veniva del concio che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse, di chiunque ve « desse o scontrasse. » Bot ('. 920).  E se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il pianto loro. » Bove,  Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che ancora ne viene. » Lipp, \ ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere, « Quella che mezzaliani ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc.  VENIRE ALLA MIA, ALLA | UA..... a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill e da hin bringen  \ EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i lobi o delle  promessº e simili)  \ niti il partito il 1 e il l via lo venir meno al debito delle loro promesse.  I)a V. Risl -, si il ve: a 'I 111 ssa: l' 1 si lill la le giova il 18 di:lli,  al quale non intendeva venir meno. B si ti: 11 e 1 li della s la propria ssi,  V EN II I \ (ENI ) (). I ) I (I,N | ) (),.......  e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia ridato la d... [ 1 - Vi - e se l a...... il venne con siderando., I3. Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero lapidando., (ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... (- I ri. L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel venirli stirpando.» Cers.  la lo) l'o a salitificazioli (poll istal Ile! llo!) il Vel difetti, l'Il  Note al Verbo  Venire  ecc. è, in Irli Is. Il li sll l'e 'oli  920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella spiace  storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza o nausca che al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la. scillili, il lills il 1.: -) () s 2".  Altri verbi di particoiare osservazione, del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende talora maggior grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare, apporre, appostare, appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare, conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare, mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare, pensare, perdonare, procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire, rompere, sapere scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare, itscire, vedere, volere.  Accaci e re  Il suo significato con Ilie, e proprio, e lello di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire ecc. Il lorno a questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso anche più che non bisogni. Mla gli all i classici: l i al dissi i vagano il l sless, verbo accadere, in un senso assai pil ial, o elill Icannelli e vario. Gli esempi li diranno come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso, ed altre con cºn il '. venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo, loccare, di parlenere, e si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri, bisognare ecc., ed ora preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl brauchem ecc. (cc. Conſ. Pall. I. Cap. III. E in ende ai ancora come un sifalto acca dere si avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra voce  o quello che egli pressapoco º similica.  IPerche io ho compero un podero e voglio o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a Fiera Inz. come si l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, (c'e'..  lolina illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo',  e.... e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno).  Io potrei, per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della risoluzio. e. (i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e, dicevole, opportuali, i c..  Etl alla donna, a cui il  ll, lº i io li pi i lito, li: ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto conviene, fa d'uopo. Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si vede, essendo ti-, olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta e o l?orgh. lon 1. (t, il gli si app:i: tiene a.... e a III e il rio cadesse il ri; e il vi  11e di ei, avendo rigi a: il che '...., Bo.. t.. ss, - appar lesse, , i so, li i i ll io V  Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r cadde lº do il le?, (es. o o se, a V. Vell veli:.-. ll ii l'.... accada: il la di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le di l: I: (e, p Cirle...., (: l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri..Qll:) !ldo il rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni.. (ri, Zzi. lion, li li la d'ltopt di..... E lic, chi i: istiani - li Iile ! I po a si'l citudine di sal º:: -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl ltsinglliaIlio. è lI::l 'life-ti- iII:, S.....Ali, il non accade, i 1- I lii: i g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.....N li accadrà, -. -i, li d'oro il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in. i ! e col Salinis a.... l) ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil (....Non accade per ta: to i lie i t II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi, i, l1 Il cli..... ll 1: i ', -, Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln... il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o, avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie. l.Il qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. » Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo.A cc orm ciare  la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11. Sgrill I l pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr. (. ll 1 l. ll..... di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce: lesto verbo, costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e figurato.  Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s.... e, a da l idel e.. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con qualita il ll Iel: l i - -, l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol' il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere, ne lar, in olte, sa le a.. si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava, i le, (.es.E' e all'il: ci lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l':  i, il l: -- l tra l ' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si acconci i lil,......... i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I I se li ve: ero a F l'elize. I 3 r. ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido. lle a vela l': i slis- gl tl, e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù, la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo.VI esse l'...... preso, e per acconciar uccelli viene in notizia al -.Acconcia il tuo i i possº esser tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... » Morell. (1. (1, il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i messi a posto”.  Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del verbo Vccon cia e conciare.ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi ecc..  Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:.  Egli verrà la 1 Voi il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi  salà e Voi allora Vi Salil Salso. e colli e slls, vi siete acconcio, così a Irl) do e che se steste e ries. Vi rc II e IIiani a tito, se:iza piu o ai la bestia. »  I 30 ('.  \ ((()N (I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li c'Nslal ciclot I lati si, russº  gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i cech lato.....  Io lo:l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3,.  \ (livelli le li I): 111... a pl i ro a... - l'e. sospil i....  non pote; gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3,.e Io non posso acconciarmi a perdere il fi l'io a file si cal. Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I 11 che Asp), gli lotli. » I): I V.  Io sono acconcio a voler vincere Il -: i cºnti. » I 3. E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i.  Non è ia carli e acconcia di sostenere. r i ve l Fr. (ii in l.  Quanto più se puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali.  i la V l',1: vi  m  a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto, appa  l' chi lt).... i  A((()N (I \ RSI ctconciati e atlcino (() N (I | I ((I l ESSI A conciliarsi, (te  cordarsi pacificatrsi.  \lla fine... s'acconciò col Fiore: il il li:lti i (illelli (li l si allit,  to: Il ssi iI Vleli agli 1. o V ill. (i.  Lo e pri: la II:ito il ole, per racconciarlo con Messer:) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata in parole, con lui s'acconciò per servitore facen  a dosi elli: II; il r l: Fiºmille. » I 3 (.  Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno pºi se ritore.  \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e !:i 'li, l'Isalli, e ci sia  - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno, l l3 - li V. I  distinzione e  \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.  la melitoria e le |! l -, vi  E acconciare nel mio animo, e non ini parea lecita  - l - e--  l - lº s;  - li S liatori. » I 3: u. Lat.  \ (C )N (I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere  l Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc.  Vi es. (acconciasse i fatti dell'anima  t: glla le, e l a li: il 1 e il .. l l: l. sl a i (lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS.  I Pil (ll'.  v((() N (I \ | RS | | | | | | A N | VI \  il n. i da i falli dell'anima.  ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima  Il n al! Si  li: i  pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,  V ((() N (I \ N () \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'.  F.1:  e volesse stare a ctl i l'u.  - I l a bottega. E Vi, l Acconcio con Maestro,  la rasse  i.... l acconciateli  I tl. lillo, a io lì è inil \ l.  (N (I \ I tl. VI (Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l. l i nºn lati lo ecc. su l ich len.  \  ii  farò acconciare i l Illia lii º l i  si tr..... lle tll ci vive: ai. » l 3o. ... Aloi li. m'acconciò questi  ll e g le I); o V el li o, o (a ri. Sll: il l lilli 1, l is s'. ll I  Il 1 littl. I);l V.  lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò l'eli io  lº \ IR E. I ESSI A IN A (C ) N (I ) li.... in vantaggio..., facen do cioè se r, e checchè sia a suoi lini ecc.  l?erg: lilino i lor:i, senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec.. Qui cade in acconcio, I, i: i S. l l si i lºrº di ioso voli in..., se iTorna in acconcio l i -. I l S.,,, i Nºi voi i 11 - i  º se stiti - il re: il 1. º, a tra i -, z º di e, dal e più acconcio ci veniva,  i l ingrºssare il vo. Il V  Ad operare  Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi, di loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I: alopei a e bene, ma le o anche solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre, operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr lati sì, procacciatºre ci: e inali, il ciclopici ai ci... per conferi e, esser utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire.  l eggi a Iuo prò e al dile o al resi.  V i lido col e si e-s, li iii, ol, i quaie avea l adoperato per le a slie III: li I., I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1: ve il nr ad operaio i  i il 1 il lil... 13:1 rl.  Ne ſilesi, gia ch'egli vi adici rosse. l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s..., vis il l i |,, v – i V, 'l 1  l il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv | - li si diporta, Si ccntiene lº: 1 –- verfahri, vvandoli, iti).e.... li oli mi ero la gr. z,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (ri: la no tv e ! 1, governo di vita, ecc.)e il V, e le si illi, o il la il lili, la liene, virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi.. niente ad opera malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº. lo II el'o, il rio, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e...... l: -, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V ssc, adoperò colla famiglia. » (i s. si \'.v)lli: li: Il la l o i ri: le tv l In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1, il l / s la i3 (fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia di m 1, operò con l'apa Gregorio -, hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e, operò talmente con Cesare, s. ll e li perdonato il 1 l id.E tº it, adoperarc no gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo, ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I (- i........ e farebbe opera li. it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id. Io vorrei che i 1, ne faceste opera di villa N.N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua gracilità  Es ) vi il dl -: ma, in egli era il s ii ei cui i valta - at, di si' nza, di compagno, di  luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il riori, ch... » Cesari.  che dunque a soste itali: rito dell'onore adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io:. il fluisce, conferisce, giova,  « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per rientrarle lnell'allini: li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, - Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare, procacciare).  State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse ben  t infinita. » (iiamb pro accia.. ol' 'Isre).  Si moli da ultimo la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....)  lonio (i lissimo e di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon garbo, di de enza e di dottrina Vill  e va l'aspettativa, mi sentii i liar, al c il rilore. (i illh.App orre  Olll' ai valori e ieller. Il proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne........ l () ll il l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo., p e iº le: li ra i sl: i lig il '... di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia | I l il 1ale: cippo i si  Imparano Is, c live, l ' gi! I lag esempi.  I rito 1 a l er... agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi li - e.. Bo,.E- ii e il V o cl II, l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1 at )::: V, le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti: B..E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e  iiii?, 13,  (r, i 'lo: i --: ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare | e e lil iio la c. 1, l Illa.. (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo si, e s'appose, (l'eli t loss (sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia ! 11.  l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non ti apporre sti a cento.. l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le co; 1 o  Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l.go per certo che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o  Nota al Verbo Apporre  5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare  (Dar posta, star a posta)  ''sl - di chicchessia o  si illeso, cioè (lulalido si: s -, l.\ - è issa e il luogo e le tipo  s'. Il V: - s ci si s s' il ct ch ein dei tedeschi,  l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i rt (I sua posta, con I. Parte II (I l. ll  i, i', º i apposio c;uando i lollio. si - i disse l'ogii quella :I - le glali lint re è e....  l'. I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo., (i azi. Appostato il piu ienebroso tempo i l tacite,, lei, ioè nel quale il so: i s - l.: -, i lil a:. ll sell on clie:almente. ll.:is: i............... (si ll e lo appostasse sull'ingresso del Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I:: dove aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo, i. Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o (il l.\ v... l l ego lº appostar gli Austriaci, a..... ti tasse il la a sul pi e-iudizio. » Botta te:I n lo lo i in loli - li alidati i ti.  le r data posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a  Quel mal. Ieri in una siette due anni a posta d'un sold it. » lo c.App urntare  'A | | | | | | | | | Il lo si ' i loli - li ai i. riprei il l 'o r.  tippli il latre il ct cosa al di la uno. l'l'ov l'. (ppm ti litri e li e.... ii.... l'i: il 1 III e appuntiti e un colp, e | illlo presi di illil: l. I gi  i - t ' ' ) - !.....  l; i si. -: i l fu appuntai o  V tº!:lli lo sono, i Padri - -, i::: ' I in pirole., I):ì v.  I  l.... I t'i.- I: - - I., fi, i I l - I li.. I ): I V , le liti, il li  il.... -; l -... l is -si l i - i l. S: 1' iot:  vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la  II, il 1, Ser Appuntini., (S.  S l it  1:  AppuntoSSi che s- i  t..., I ) l V.  Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò  l: 1:1 Vl:.  S. 11, l appuntò un ci: Ip o l:  film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº i.  Avvisare  (Avvisarsi - a v vi sco)  Allego si ripi non del verbo il livo a rristi e  I tir e risapev. le. I vv. 1 i re,  I menſe, il quale in viso a chi og:  g:iela  i Il  lº 1.. i.  s', i lice: i:l  I l il  altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3 l:  ali in lil (:  I )i, ci si lti liasin i d il  il; ºlio rilli - ,, l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº.  i di l: colpire il  l' -. ! ! !:ì 1 -,  i ri'app lº ri: sv )  I s II, V a 1, gl, \ si appuntar noi l - I  l ' ' il il i il  appuntare: eppur un apice, 'i  - e tutto appuntano, a  l -  i; - !:) li... la  isso il pari pt Ito, e noi  la r il riso, il vell,  I tivvisi, e. l' Ili..  issili i i -s (l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri.. loli l'illoleri. Ira del leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a: ci lei e co., il cili i so, se ben in avviso,  I l si ggi ci si po spelli in opera di lingua ed è a  ' s i cli l'oli gli esser:ili le liti e il prelibar l  I  l: !. I si li: al avigliosa gran  !...... v avviº arcno: lei, i - in esser velenosa dive  I il avvisava li ss e passa r. » Bocc. sup  I l.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se; desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II: -i, si l e o lº.i l s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò; s.l, avvisando - ti - r. -I:It i..., Bo,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o.avvisando i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº.l I | tesi. ll e l: e avvisò il vocabo  l'. I ells  l'e li it, S'avvisò a coluso  ss e trova: e di... l... l ' ', | 2,. I atto e deliberò  I l e' s si s i vi e - ssi di vole sapere -: ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3,... l, S  (avvisati - - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I.V -: i -. S'avviso il l li llll:n ſ l /a d'alt lº lì:a: i |....E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. - ll ': i.Il pil), io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra assai  Il l: si Se; ll.  Se gli al riso al ris di un sinificato  ill: i go sl, lº sllo di crisi i '.: i l'avviso, le ''I I I Ilia della sua bellezza il  V i 1 l in tºs, l  \l::lli il II lili il. V e e l o il sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in era avviso, li fosse tempo da clan, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il' gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. » Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi, spedI.. 13 i fattl i s Il ri. al li,.I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso del I a lisca il lº i rt s si s orgea  a Apple la avvisato da lui questo peso il il p. In 11 e-cºit se ne  riscosso a Ces: l'i.  Note al Verbo  Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci - ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei, notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne riscosso (esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il -  | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o che altro cli si limigliari i c.  E a stare  Polli menſo doppio sensº di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me, cioè in è sul lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per..... le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della lingulil.  Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è al  purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i la ro: ra. al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e cresciuti, i il bastiamo a stir : l. bastere;li e.. 13 or sar hl) e ta......  n...... risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a  ta, nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1.  Note al Verbo  Bastare  ) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama  mio per i celi è all'all ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i  Cercare  E il cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l is e, il laga l', col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se ci I citi una perso il ct -. l)i si il cc i col 1 e una città, una terra sigilli passa ossei validi.. ei clo, la co.  li oli al lilli e soli i pi:  ()li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1, e, i li, li i e i buloi. » Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li.\ clotto) etti si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s: il 1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V.I 'e'.rso li corcarne la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior,  n iºgge.a Cli ben cerca tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola ([llesi a breve (r; i t. e S. Iºietro, a (..  º rivolse ogli diligenza - l' e di Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar: utti i mezzi. Inet r. - mi premi per ria - V el'.a Sillitti,.a Augusto cercò di successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il Vere....  e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a falda della Velità. » Fiel'eliz  “ El a Ve lº io cerche molte provincie cristiane, - per Lolibardia, a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en le le ali da 1 lo di Melano a l'avia,  ed essendo gia Vespl o, si s litri l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc.  Mla poi li è tutto il ponente, i senza gia i ſalti:i, ebbe cercato, i 11  t l'ito il IIIa l'e s ile 1:: 1(), i V ess: il n 13,..  «.... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li troverei uno che..., Boc. a A Vell dol' cercata iutta 'a. li col e ssell gia stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle::lz.Tutta la vita si fa a sposa l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3 art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la, ed ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... » (iiil Illb.  C confortare  (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere. Pront.)  (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e. S ºf I larinel è l' p oslo. N i li  per i recari e alcuni esempi.  Ed issa i beni a impa -, I li la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei dotina li lasse B  I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el: otto lil (st 1, assa  preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o.e primi i che di quivi si pr isson, a cio confortandogli il Podestà,  i mi odificarono il grillel statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli spiacevoli, come ll e A 1, e ti º 1 ): Ve lei lo i si. l o.I testo ma i ti o confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G. Vill.V e il nero, il V a 11, l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri. o I): I V.Gcnforto tutti a lasciar. si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin::lli li, Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ('esa ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/ si e io ho dato la carne lli: i.... (il V.\la verido, sto o portata l'. I bias ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i lisse i olte l'ag: ille, e coll a Inaro  pi: il Quai a voi li s oi.. he a cosi i lte cose m'inducete.... »  C o noscere  (FR i cc n cos cere)  (o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I cl.,  significa in l'ulci se il '. 'onosce il no,,, l 'ce lessic clu allro, è di s'ill il 1 I l, is. ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col e la.... è lov e la, il I l il lirla a... i liti rare di averla da..... -  omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo li..... l?iu', il N.......... l ', l ' l?iconoscersi di una colpa, di un  è liſossal l.  s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º non si conoscono  il l fſe 1 l  punto d'architettura.... » (es.  \, il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora  lui da un altro. n l3, l. V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù Cristo. » (si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le nere dalle bianche. » Boc.a.... perchè levati quelli, la plebe irrilla oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av.  « Dal tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It. l):al 11 e.  “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r. -t val del pari. l)av.  º.... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. » l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad.  Correre  (Disc correre)  I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e Iri III li le seguelli esel pi.  e I | rall cesi a ºltrati delit corserc la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585)..... coli in id):i correre il regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I (Ini di Ibi: o il r.) vi Il viate corsa questa preminenza. » (a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6. Me felice s potessi correre questo arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le lesiIII, del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e meraviglia  (l'ogli tl 110. » (1 l'o. a.... queste ragioni mi conforta ono a correre anch'io la mia lancia in  questo al gºl nonto. » Cesari. a Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che  siete giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte. ontado., Bo.si li live sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli 11 corre un intezione di febbri di... - I pessima ragione, ll... (i vzi. Nello st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ), l'eta di Demoste le: il testa ci corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \: corresse spazio di un ora. l3.Corre quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart.  Pe o mezzo a l.it, l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti, e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il  I agii occhi gli corse a --. I3o elle gli SS  E al cor mi corse (ia i colli e persona ſr. I l... l): i.  ln - correva per l'animo e.... » IBart.  (( I il pericolo slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S)  (N () l) l. | 3 | | | ill). (() | | | | | | | | | N V | | (). I | Sl.lº \ l/l () l) l....  In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone. » Caro  i.  se son pi ve lo disco, cre, usato a significatº: cºn lº  ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal.  Mii la- i ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo - i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data a lillire la cos:lº.Note al Verbo  Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e similmente le altre che  seguono: correr una lancia, con i ri il campo ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re lingue alie (i clah r lui ieri, ecc.  Divisare  Senlio questo di risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i licli, pensati si arrivare (cc.  li loro l'illi i i parlare i 'loli i c. v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o, deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che.....  a tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di visata. » Fiel eliz.a.... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il silo reggimento due  rasse gli divisò » a useiirald, setzte. 13o e dagli scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il libro, Ill e li cºl bel ': dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a l'olen  zione del II loli (lo. » I3:ll'1.  «.... ed e-sendo: -s: i feriali lente dalla donna ri vili, le disse che cosi la resse l'il la r la corre Melissa, divisasse., l?o r.  a.... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e (iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato, ti ovaron fatlo., lo.Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati. Ces.di ſilelle sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B...  Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»  lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al volgo. (sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa vi 1..\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl ill::ld. Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri di alzar occhio, non li orli: l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un per il: Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart. do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge in si evole: ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori, con i filisslilli - il milli ntl... Bart.  Ermtrare  Notevoli di questo verbo le manie e bellissime  a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.  lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. » Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.  poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi,  per avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc.  | EN l'It Ali E \ All.SS \, ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA  c'Ca'.  La confessione generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ()I? E, IN ESI | ) EIRI (), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I (), e c (t (lice nulo.  entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a g, ilt i, \ l). go l'e l... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1: era r. ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo: desse li ll, l ' t”. tº ll tº si ri' o 1.... 3 I l Iin una settii malizia entrato, i vo i es -  a l It I lilt il 1 e il -  d ENTIR ARl, ad alcuno Al Al I EV VI (E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l e se è le. llla III It. Fi..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - -.: Ilss II: Il V  tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ |, l N (); | N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N (i | | () SI \ e c. I ) | VI (l N (): EN V IRE NEI. (VIP ) \ I ) \ I (il Nº in cig in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t (red º l ',  Ils. ll lo) I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei III omistero.. (la Valcº.  I, qui ii a o o in a. I riti animi entrò smania nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1. (li paz/ 1. l): i V.  per la qual cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº, e quasi tutto stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra.  a Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li  non poteva andare in pisso, l e ella non ri - --, l al! --  º  )  l'ole e col cºl ll i lili (:: 1, il... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò nel capo li li dove li te: --... lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella lor povertà. e 13,.  I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita. m i quali (t. mi ra.Fuggire  l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili.  N Ss, le Ieggi il 1 l I fuggire.» I 3. « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o. (l III a - l: le fuggia in chiesa e in luoghi di re I: gl -, il l V, il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a quel  li s Il  \lo, lisl (r,, lº; i l 1.  Si il paiolo, e vale l'ergiversare, cer  ir si l gi, scappa! Io, gelli e.  v le lis lo stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.  Guarciare  Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di dirizzar la vista verso il ciggello. Significa quando preservare, difen le re li ulem, bel dilem, 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con siderati e poi non le, gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc.  Dal qual errore desidera il no di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13...I lolio, il --, ti guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel, che gli si con lic Io ad imputridire., Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l'. Dagli amici mi guardi Iddi, he da nemici mi guard'io.», noto proverbio). Ill IIIesso l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato.. º Te, rarissili lo I rate, Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i la guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l 'i:  e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll:  e bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:. - sia II, il  si n. 13, S: l | | | |  º io i ſoli posso credere, le lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera, poi i lr 1 lite. io lion ſarei a lili si alti guarda i  ti piti di sl latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i  Non accade esemplificare il rito al moli li ll Is: (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello oli e presº i il lo  (il V ) \ I RI, V IN IP() (| | | () (V | | | | | N | I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl -  -  nºn lo si ecc'. (il VI I ) \ I V S() I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l. (i l ' A IRI) \ I? I. \ (. \ VII.I? \, e Nilm ili.  Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II lil e o si ri.................. che guarda un all ra:  que!! piagge, le quali gt ai lava, l, l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire  Il suo primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal. d'uno slalo, d'un beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a concessioni di dollli li \la di essi il li:  li ti in resli e il luindi 1 o, (i l  i rili –: l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i v.  a enti e, d. l, poi, i - l  – cioè adoperarlo in compere o si assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i - gli sll'alidell, allf cilie Sand  i.: \ (il suo in un anello investito, il c Valli era: 11.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I ri, Iii: gli tv va, dato  e  s, li ve:lli i l. it: l investire e il.  I li, e la i si l aº, li è per molto  l,  li e li si - ll s: i gli i il tisse, si lº ric:a  li ai tanto i parti e le ore li li: l. Io investisse nelle tempia. » Caro,  «.... liles is a so di il l I e spiaggi (ii Zeila: d,  a dove investi e l II, e l3:ll  Lasciare  Lascio gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì.  | \ S(I \ V | R V | { l N (l \S(I \ | | | | | | | VI (U N ()  tra lo i veri a lasciate far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº.l) Iss le, l io vi sºs l, lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò,  os a bai ei, tanto bella e Vo: li  I \ S(I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire, l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.() a di: se... [llo da pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate  ria. Lasciamo andare, l'air (Illesto e le ini, che,.. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le quai, lascio andare.. Fr. (, i..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne,; -  al: i re si s. ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st - e il top (', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i li: i I l g il 1 li:i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1, lasciamo stare.... / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1, i -: i in ' t:lti li' les. I titºs « Lasciamo stare, l..... ll II, i::. - l l: Iss, l', ' di lt 11t. Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia: l. l s s i M. ss: -, lazio: i re: re. I 3. Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il ! io. e.. l........... () 1: - -. Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l zi, 11 - di e 1, il il: il: il, par i (s; I l i (50!). - 1, V S(I \ I I \ N | ) \ | | | | N (:() N S \ SS (). (VI (li si di lui i lo - e (),. ll lo un man rc vescio antia r gli gi i.ascia l s -.. I) li ve li. I !, i i t -.  e lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'. Vli lascio andare un si fatto tempi orie, (li Il I p. e I3: il FI, r,10.  I, VS (I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V  con lisce nel 'I e a.... Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l...  V ºsci..  ire in dotaria il 1: l ' il solº Irla li hit: l.. Il V l  (il l. Il tir,..... -: i  li' si lascian andare alle vogl e le liti i:  Segni, Arist IR Nota al Verbo  Lasciare  (it), Q Ielo per es., a ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io: liti Iddio non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio. l ' (il d. ed alle la li lasciar scritto nel testamento..... clie..... e la I Cina lasciò che vi e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\ di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I o al no si perarlo: lasciar di fare, ecc. (il l. (''NN (I l ' () mi e't le I e Iºl ll. soli, col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l.  (I ) S I l esso la I l: non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella poli's e..... ll l il..... In generale questo  lasciatmo sloti e che, lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a lasciar andare.  (I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N, ivi, di ques'a ll'ast: la scia i trialo colpi, calci ecc. l.i  v s ital, e fa gr. Il colp.  N/1 arm care  I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma transaliva (man tr. I i l etillo, il soccorsº, Valli e all' ui la promessa ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric.  Il mancare dei seguenti esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai.  e anc, di questo lo endeva la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia, a pill tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello, che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere, e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o.. 621).a Io non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa vostra. » Fiel (liz venir Illello.a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit, nella [llisto il I (i:I lillili le, non le potè mancare.. I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel!, li  Note al Verbo  Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ()sservo i li. di Illes, c del ese, il pi. l' Iso di ill  siſal o mancati e ai sbloiben). I l personale.  N/i a nte nere  Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V: l che è il ', e ci li ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº', si l' eſiſ, i c'; cli) e il clero e slm Ili. (i: la rla  i 'i ll ll 1'.  - manu e nitori di un altra g Cstra l': I l (.:I:. Mante:rere a pianta d'armi, i lil. a.... \, - ri ), l e l'i; e cli), a mantenersi, I te, I? I l. ragioni colle quali essi mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo..... i, li: l 't a r. e semplice (r se I e ! -.... a.... e per chi l'inge o iv h e le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.  N/1 e ri a re  Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche, frequietilissime  622,  tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST (N VTE – MI ENAIA COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani le.... » (ii:lln), (. I meitai:: in Ceip 3, l ità ell.... Fi, Uilz.  (l' - er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per rac i '::: l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò un  fendente e lo tig iato un recellio.. l  i menandogli un gran colpo...  \ | | N, \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N VI A [...... \ l.N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I vant 2 figli di eli. - !. !. I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci pesciatelli di questi paesi ed l.. ssa Iar danno. 2, Fierenz. I: i i li l è l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii !..l. I l v..... I menava tant'acqua:I pm i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini.. (a val n. ll e illlia dell ', o di fuori gliela  "; l., i menando marcia e vermini, e un puzzo intol  l  si, il til - i lº': i  \ | | N V | | Vlt ) (i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per.............. l e, g i | tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l'. ll di 1 l le (lulello lì ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».  º... » lº,  \ | | N V 2, i v 11, 1, 1: i menarlo il Saverio) con c ss; 13 i: del pari. I 3': Mlſ, N.VI è SMI-AN | E  lie il Viglil I |.... l - ne menava smanie, In il a il l: il  b :ljat per poterla va le 13 c.  t 11: me itava smanie.  All.N.Al ' () IR(i () (i LI () (li..  I) esi, it , l.: 1:: il l nenare  orgoglio., I'l' se Fi  \ I f.N AIR E S | | | V (i V | N A  -, l  lorº ! ! ! !, i. nmenava ovu: ii qua si ragiº  e rovina,, (1:: Illi.  \ | | N A |  (i il li. (º 'N.  | 3 | () N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui 'cr. l al 1 l.  A | | N VI, IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ (il .. !. i: l '::l  IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc.  I nne maio il re i re giorni in parole i  I 3 l.  El! l  i  11 il pi meno per lunga ſino  I l.  i rmerava  d'oggi in dimani. B: i  (i:º:  (52  \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. (- i.  i lo si si, l'. I I Ili  Note al Verbo  Menare  S i li cias si i. i issili li e v. " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si, i lr 1 tl, mi e' mai rsu Il le, lilli il la la niglia e fa gli menar su. Si h.  Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil I lili.  L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al l una sl 1 e qui. N. Il cice gi li all'  al i sii isl l'allerile cli li il. I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut, (iiill). N/lutare  Tra r utare, perrr utare)  S li li ma alle li e oggidì, sulla: i la il alla liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una cosa  al li li lu. I - ll 1, i  \ I) Iss l Suff: Inarco: ()  1); 13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o  i mutarci di qui e andarne e. 13o. il l e l'en veder lui  mºnti iava mai gli occhi da lui. m (S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e.i, 1 'la, le col piedli nè con  i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº(- e il telº dove ci permutiamo? »  S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si per  N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l. ll li l la ll al re dal monastero.  t i vi l I  C c correre  e di bisognare, far i sli, i i i s I, -, il ll pal i lide si con i poli e ob, a Valli, incontro, e il 1 l ' ', ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e incontro a... –- vorkom men,  'n l I 'I ml, li mi cºn silli Ill.« Egli occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire « cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei la parola... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.« Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so: la fida |a, scrivere.... » al V Vell:ldo. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit si  le lis- c. ll -- sl ful  (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote Iria Il 1: e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz.  lli ll V e' ('il logli il lil, il to,.  C c cup a re  E | 11 n.... i violsi: esse e occupato da un aſ  ſello, dalla rirti di cliccchessia.  «... I l l da grandissimo sito pi qll st:  giovalle, occupato. I 3o. «.... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e so.  «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori, (iia Irl). Io lili Ss, il l)i, e l Il gla i ll I ssa Il II li  altra volta vi dissi, o il gi:: le pi e in molti i vi: occupato; ch'io  I lli sul pe: lo....» l': -- I v.  C rci in are  con leggi: iri. I l gli allori clas  prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li  (il lill li I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill. cliecchessia ecc. colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll. sporre, s'abilire, di risati e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi l'Irla: orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l'  ('i.  (º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l: st i ta.... lo..... se crdinatc Cine dovessero fare e dire..... I 3,. E st e, con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli, sOrdinò con lui, il V: i villi llles (la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e siccome  egl o avevano ordinato, i. Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi peccati....»  (v. l. E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il lo; i il 1/ Ca Val:i. E li si s. p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle - e il l. crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s. I l Ilioto grigia: - tlil. » I) i v.  Fassare  Nella Sez Io l' 1 l ' 2 (p. 2 Sel e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct.  I soglielli in sl ratio al 1 li: l ' si e li alie e di questo verbo, note volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici.  lli: passa i tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di sotp e, passa la bene, passar notissimi,  sola e simili. I l soli i pll'ic le solo alcli e oggi  (lell' Is.  I: l: vi l le passò tra loro.» I ti it)  Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i  li... o lº i.  E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it  l (',! l /. te lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli  divis: ta.. o l'iter l/.  Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.« Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.. » l'ier Iz. Deside. I va in il caso passa. 13,.  e - l III:: l - l si l sia  sempre mal i Irlato, il che passi,, ni III o li si s -., Sog Il. ()g! li cos: passo al contrario. l. I V. 6, lº,':ls, ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1.  si III dialie i cvelle ci passiamo., s - I 3 i “.. i: -1: l I l. I jel, lo ero il tie-t: -: i Ill 1: II i l:: se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll, st 1, s. ll 1 (- Iº, io -, si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3, ti i? I l bene passare. » (: l V l. 1:i.: l 'N. ll si It... sll (! - I i s l e Ileli |, se ne passava.:I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l'.lo a V ! ! ! ! ! It, passarmi al tutto di muover parola.... (iiill. - Ma per che io ci, l... - Za li Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li: l la lierli lie) - Ss ('ll lo 'll C (i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se, io, Ill. Il lo ! ! ! ! I V (le, l si passava assai leggermente. -. l3 i.  Il II III: 1. ll bh, l' - rili i li li I e il... Ma me ne voglio passare di leggieri. pe. ll 11: - illili allilnali.... po;: quelli li ti  Nolti i ricorsi i lorº li: I ASS \ | | | | | | N () IN VI, I E l va il l per passare ol: ti III lili.... B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - - - p, e vedendo...... - ll I |, il de / Il l l io, s'ils - lli, del a - o e passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v. Iº V SS \ I? I, I ) I V l 'I V  S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re -si l e. (a V al:i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1, lo le tu di questa vita passasti, stil a iº l ', ill: l 3 a  Dopo non guai i spaz, passo delia presente vita. » I3.  Note al verbo  Passare  () () Il passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l.  (i Nola la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('.  (i 12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen ecc.)  (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig, l ' loli e il rall e il till ', loll dal Selle fastidio bliga (('c).  (i i l'. Il ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da  lIl 1 ll I go.. ll ti i lo ) q c'h ('ll.  Ferm sare  Cerlamelle che a definirlo sia, come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll: cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle coscienza, non pensare, – non è Ian, facile e il rarvici e intendere il colme dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità, e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei modi:  a pensarla –- sinonimo di lenlellarla -, sovraslare inne hallen, ille si elen, rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za conchillolere, risolvere o Vellire ad allo;  lo pensare una cosa, cioè indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla  pensando:c) pensarsi, immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche:  d) pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie, Parte 2 Cap. 2.  Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare sopra i na cosa,  di una cosa, che è l'uso ordinario del V b pelsare. ... era li a lui la pensava, l... l), V. lº da il di illi i 21 pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli,. p; estini i ebbe pensato quello che eri da  la ! e, e il Salil il llo il disse. l 8,  a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ n loro il c i i liv - I loss,. i: 1- li il Sel può pensare.» 13,. E si pensò il bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3. Mi disse parole, le qll al 1' mi pensai (li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l ' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si a Va - lo s... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl),, lov e l'll el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi, irrina - ni ndosi. Fiereliz.  Nota del verbo  Pensare  533 -- trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl, (li lico come si è del [. e sta per ci pensiamo.  Perci con a re  (C coro ci cori a re)  Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi. rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc. l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12.  ll I po V e le dosi di III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V, l ' i' / II; di Es po.  N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I I I I I I e l Si l  Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le i:ì li all'ute,  e il l i -, i isl al lilia? e. Ed a 'e la in condonisi di recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che:lol V - si ill o il litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa, i ta, li l... » Segìn. -col e gli... oi, illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el - 1, V., – lla slal'e il nido. » I );l v.  se polesle.., 1 l l i gia che perdonereste a denaro.. Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render beata?»  Fºro cacciare  llo is o V al I e il I e il I l re di pi curarsi, o procu  1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels, VII l essere illeso anche il  I 1 (lo: di malati e il p o ti º lo gi la di più l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del  p, r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii.  (il è per or |, se | -s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '.frastaglia trieli: e vi dico, i lle i procaccerò s. viza la, che voi di nostra e brigata si ete. » I3.Volla procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o. « Il llla e Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de lalnigli, che si li/a. Il dilg 1, procacciasse di su montarvi,  e e L, i lati. Itasse ciò che Vi 1 - - o lº.  r a )ra si procaccia Viati.i:i di avell are agli al s oli, (! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e co., lilolte lag rili. (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia., lº.. ) - I tos, l l Ilsl rios,. a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo si pollici se il dl Il: l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria, i i' si della reli gione, si, ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. (i: i i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che - procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11  e disse loro, a dire i lic va ri-s..... - il  i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. (il via l. e º pe; soli i clie il vºltº il rii (- si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia ben guardato, e  Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e 11est: i stanza li li l: - tra, (. I v Sſare.Procacciando d'aver libri i -1: l silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi coi laici,  e c. l e perso le di l -si l III: ( Ragionare  Notevole l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc. 2, a val I e di disco, ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di checchessia ecc.  e t -, la e 1 l, i -; tiri. I ll zza. ll (iesti ila -s, e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº., Cavalca, a IP Srla e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato m'avete, a che Iriella: il rili al V Ita el l Ila. » I 3.« Come il di Ill venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. » Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di diverse novelle, o Bocc. -.... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di diverse pietre.» Bocc.  E' stato ragionato quello che il maginato, avea di ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla per te.» Sacch.  Nola da ultimo i nodi: entra e in ragionamento v. Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel ragionare, i sul l tgionali e ecc.  e.... e di questi ragionamenti in aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i lori i l a l)io. » B cc.  Rinn a ro e re  Restare)  (ill: il da colli i lill li si l Ill li Ilsill', li, elillica nelle, il Voll)o rima nei '. I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g. I li, che nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13, i.a Madonna, per questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc.a IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn.. () il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - - ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» (es. r .... e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast: li o!' « contro a Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at, e li pil re: che se a ne potesse rimanere. » (es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l: I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di più opporre imp, dillio Io...., (es. “.... ei percossº. Il lin fascio di legno, e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. » Fie A. 537  Note al Verbo  l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il II lil in qualche luogo, è rill  Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll: 1.537 – - Aggi Iligi la frase: l in an rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d. « e cosi gli raccollò IIa lo si era rimasto col giudice.. lierellz. | | - Riparare  giarvisi, ricoverarvisi, prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia, prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc.  e lº co-l facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li  (Illivi ad Isllr: prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino che (ºgli il [..'Irld). o I3,,« Nella quale, Fiesole, gran parte riparavano le sito soldati. Aln. « Nella corte del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. » I3o. «.... e avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei grandi spezza Irnelli i che vi la line, le cellule.... I a r. FRispondere  Si lis: per l en le e, l ali che si appr. pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si st l'1, ed ali e loro entrate,, le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano. l'8 c.E,si i si l:n linzi li o gli rispon deva.... » I I.il rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle, o Ces.  \ la ti tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s  (si d. io, e - ta la io el l altra parle dell'andit, I Gime r spondeva nei cortile..... Vl in 1/.  (::llo iella (.li es, e a tinto dal lato che rispendeva verso la casa parrocchiale, a in la I bitulo, il 1 bugi  a: il ii Il \ l: il la. Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g., di una fi  I solº i di qualche logo.  il ri si il V lente a che il fatto riuscisse, l V e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll. e qui riusci la fede di Il sºlte. lti... » l al [.. 5.3S l..... il che riusciva º;; l'orto della sua casa. I leveliz. !... ll le gabbia e gli altri o il certo I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra una bella pescaia di dettº Villa. » l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed il (s.  Note al Verbo  Riuscire  5:'S -- Nota anche il modo: riuscire nel contº aio (l?art. Fier. Ces: C' ('C'. IRorn pere  assolti alle il c. e di 1, il I e pºi e' ipi di isl, scoppiati e, a Isbrerli li, re nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il 1 ot, la nulli), il ſuo Srl, il l i tic li e si il ()sserva Colle.  spia º la r la e i d g romper nelle I):ì v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna, si i º la ve.... » Bart. Ma:ì colm pass ºli d'ºl - lo d lo c. lI l a zato a rompere in questo lamento. » (il.... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la più Sfornata tempesta... » I3: it..... ll si l il Iss....... si ricco d'a ll sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al romper de' primi alberi 13: e () li liseri e vili e le colle vele, il re i riposare, per lo irill (o di veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi, l)a 1! (Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7: che rcrmpono in mare. 5 (), IPass.  A 11aloghi al I o mi per e silciello, solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi I l -, di risi) di cui i ne sfr millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l (t poi i lil si al I olla e. A vizio di lussuria fui si rotta, (ll iil I  I: i (il bi' -ilm o ill che e' il ci li lo | 1:1,.. ); I l ' e li o di po; con roito parlare disse a I io  -, i di loro chi sono pi posti a go. erno dei legni. li enz.  !, si parti:: rotta ».  a MIozy Iºirellz. In t....ti, i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS.  Note al verbo  Rompere , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al '.Sapere  Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper trovare,...... lill il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº, se per male, saper meglio,  peggio e o il  il I - sapeva ed il luogo della donna, e la  t o!: liss. 13,.  V sapete bene il legnaiuolo, Il tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ... si il gialli avi, le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano bene la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle (i val.i (o si º li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio (a V alcºl.I ll (lº vi o li sapendo la mala volontà di Alberto, (ii:alml). l'er certi ti metti da campi che a gli sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli li Ino; i do ». Cosa ri.  b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore ». I o.Sappi s'ella:): voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se e- l si, val lsi ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it: l. Il tº sappiate come stà ». I3.V e li li io e sappi se con dolci parole il piloi recare al piacer mio a. l 31  \ lorni il meglio che sapevamo l?o l?art.  a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli, l'iol'.  a Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ». Manzoni.Note al verbo  Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di: super gi atolo.... e noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica... Fierenz. --,saper di q. c. –..... In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per..... rale rgli checcles  sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo.  gli Scusava altresi tavolino da scrivere, (es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i li (. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita. ll Ior- e la vi a  a la fortezza degli altri due, gli val-e, gli compe: so. I3: rt.:I III l st 1:1 - lli -, e o l il l:  N velli re º il l il  lii lutti, vo: ebbro piuttosto scusarsi. I), l:iz..... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso I,  pe... li: l '  li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli... (-.  Sp e dire  (Spacciare)  Dicesi | III o spedire che spacciati e negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od eseguirne lo ecc.  I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve: id I e, esilare presto, agevolmente non  E spedirsi, all'incolillo, il senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire  - Il s s', si e' li i  I ispedire erti legozi. lle gli erano assai l | 3: i t  () s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l (- l  a \ si essendo espediti, e partir dovendosi, Messer  (I espedita; e le so, i1 il - ! i, i l 3,  lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i: Il mat. Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI..... In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o  ll Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro, libero, franco di  \ si lss 1 e 2 ti el: - S, (Spacciato se ge il tº l l ) rls, l il s ol'l'eva.. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est.l. I li: il li li di analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi lit l. la sci: lil el l Spetcciarsi lºt'.......  si li util Napoli, il rils.........  Stu ci ia re  Stu ci I co  N sl 1 la sl, slultati e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so, il lendervi con solle  Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo fa rig. I titti i panni i ' iosso gli stracciò: e sì a que sto fatto si studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo, dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore.  No:i lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ». Pass. Forto studiare il l re. ll - ll -si l... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li studi in ben parere, 1 A v. lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni: vi ss v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - (il v; l'. No ! I V il r! - a te, ma studiate il passo, I): Il fe  Analogo a questo studiati e e il - si liv sl ulio le s - le I sei pi  Sta per cultura, affezione, indistria, premi di li solleci il ne.  I bassi, si per 'o litig, e, oli! studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II, e odori | ero III !E fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. (il V: Il l.lº ! ) ll è lo studio il "l: V (", 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -  l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl', el'. lºrosſo si fa tl o studio di vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa «:i va ilzi 11(lo..... r. C -a l'I.Questi pie: i l dicazione.... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n. Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e s ii: i re, i quali i:ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll fortd) ». (es: l'i.(ollsidera, a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e in larni il  | il il 'Si a.....  i. i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed il 1 st ): -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i: - il: zi, d ' 'ta, l o: la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si sfu  diava ». (a val.  1 bello slurli. in re o si riali, per ni. Slare di sl italio è ſl se elilli, il V,le. - I li - ci del liti.......Term e re  (Attero ere)  Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi lilzi ille.  N gli ese, il clie sogliolo:  lº I. I so di lenere per legge e, ritenere, in porta e portare, occupare,: lire, ci si r, si ri:ll.I terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s....., l 3 l:\ e V: l l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V.I le llll:lollo solo ne teneva mille di l.... Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di.....)I i s tengcno, le: l li vuol divenir beato  mo  Bo, ritengono, insegnano).  -, s............. -: teneva i li, i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli ». l)av. (portava, il l, l. S S.,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se -: i e letto a filo il lo ». l ', SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si. 'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l'... I tl V.  º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse.  N potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. »  Il lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li: l.S - e li l silio, e si tiene e per il cosi è adulatore di sè ss., V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il... attaccato, legato, olbligato il  per l'e,.. al c. aver fode, esser a L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente, Ambra. « I'('la, cals! e 1, V s'a tiene il..., l 3a lr. Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla Attenendosene S il li,  gellolt Ztl....).  Si vl it -:: l si. « E pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante sarte, ll l'Int irli  E' pi 1, la volta gl si caricano sopra bufere di vi 1!...., l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere:  i l: NEIt (SCI(), IP ()I? I \ I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'.  i ſicali e le per rielar  l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l. (.. Il lilli lo il 1 ll 1 i gli:iltri i l  ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire, a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll.  Lo Ialo a Illore delle cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti.  Simile: TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco  MI, l' 13e! oli e veri e I l Is rezIo coi Sere.. (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1. » I3 r.  l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per  N S. I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi essa.  E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S:  MI i beni vi prego le vi ricordi il l: III e  l attenermi la promessa. I.  l'ENEI E I) \ N VI CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N. per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V. a 'I'll.t: 'ls V -, cini | Cnea C 9 l l'uno,  V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l (''le. » I 3:.  ch, coll'altro, l 3.  III, i ql el l.... I | Il t. Il  I | NIEIR (IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat  cosa, poi oss. (la e il secreto di  ser lui i c. 1 li tr\la V e V,i In 1 in la di tenerlomi credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un pensiero che  l lo II v.... 3. Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? » Boce.  l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - - Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo ben far nemico, o  I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso atto e piano de Laudesi.»  3 m.  I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che tiene insieme del ri  tirato e del venerando, (il ri.  | | N EI ) \ VI, l N () | N \ (() SA, lu' i lat, i guardarla ('() )llº  dolla, procu i ctta la ecc.  Tengo da te lite o lei lo  'I EN EIR (i It VN I \ \l I (il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ()| I \ S() | | | V. e sillili.  il il l'ono a spendere, tenendo gran  il l'I) leggiando.... »  - z: il l ll dissima famiglia...... ontinua in lite corle, di mando ed I 3 ). Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl, l 'e ivi teneva signoria sopra di loro....» | | (ºl (': l/.  I EN EIt All NI E q c. S.Si Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,  l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I () per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè  I lill I l: e le terrebbe a nnartello, o lº s.  Silll I | \ / solisti, cli, li i rilio a ppa: eliza di vero, e poi lo  reggono al martello. I renzo Vledici,  I | N | | | | V Iº Alì ()],l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora te  nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li.... per mancati e poco, a un polo che.....  l il pcco mi tengo e il 11 si l V: l... l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l.Qll ('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g.. lIl l: ss e ll l: 1. ll lentº. » I3a l.\ III:il t 'ito si tenne, li ll i no! I lºo. po o II lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce. S89)  Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re, e nel parlamento; lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N.. ed all 'i lllolli  le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le Isilli,  Note al verbo  Tenere  S85 - Si inile ſi ſti, slo, le nei c. ss it ella di Illi, Irla il clii: lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | | |.. l..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio sollelizia I cle sia l al dlel', Il si ſti e mi ero lei libri di il.  SS5º - Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica: prendi prende le simile il lencz dei francesi.  SS6 Vlialogo è il modo: esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat) ) le nu lo. I3 cc.  SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I Na'im. (sil I lili.  SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il... I per il lig, dal pascoli loil, lo parole (t' '. ('.  S80 – I radici: lo si si il... o da qual cosa  i, sia | ralleli. Il. obblig: il, che il... E' il tenersi cl Ilia cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui, l ' i', con il l ecc. (i II l la collo e il lido:  Nella lira e bri It i 'i: occo rit... » Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano., all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill lento di coloro, a cui toccano.... l. I 3 ),Qi lel il li illli le l mondo si spenga di fall le, si lle l. ll i non ne tocchi una.. l o. - TI (ccchera il va! ii, li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1. Giul, che non riguarda lo) ()iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello alate.» Bocc. Nill riso si v l.., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo. rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve....... l):ì V.  \ i le li si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc.  Nola al re niti ie e ci si parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li: l occo, locco line  (C VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)  Si occo l: ve li e la sto male. » l'a!. l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti,, V al cell.I l toccarne il 1, lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m I.: si  Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ()((V | | | | |, I ()| S().  i tcccatogli il polso, i' 1, V o li s. Il: le... » l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo trovandogli, tutti per costante ell ss (lilor | o » l 30''.  I N A 13ESTI \ perchè cammini,  \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello., V S. (, l.l'ARE AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ,  « E' facevano al tocco Per chi avea a morir prima di loro. » Buonerotti.  DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO dare un cenno e passa oltre).  I N A TOCCATINA I)I..Rizzasi in più con gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi.  l'() ((C) I )I.I.I.A (..AN II º VN V.  Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. » Vill  l: I I'()((AIRE I N I VV ()|? ().  « Ne i pittori le sºno ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini.  Note al verbo  Toccare  892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e sigilili: mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc.  893 – Simile il modo volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop  pio significato della maniera: tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in Africa..... » Salvini, che essergli forza il farlo. Se così ſia toccheran ni a star e le Mlach..306. « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a navigare sul quo e sſo Irla l'e. Magal. Va l'. () per il.  894 – Si costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare tal alcu no basl 1 i le ec. li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra: l occati sconſille crc. - -: e dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono citati anche dal (il era l'elilli.  895 -- Si ſa gillando uno o più dita, e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere  (Torre)  Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole l'uso il liche il lal senso.  Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia, e li on è altro, a mio  il vviso, ci Il loglie i re Isiliv, cioè la re che al rilolga ecc.  Ollil tit, il... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse non li lall, ll: il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da...., (amb.No orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. «... che pole! (ll gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al letto... I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle slo sllo e Irl, l e ss. r. ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava, 13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ).e tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino di mill' arci li lill, (and l: le altrove. B 90?) Itender enn, Ianto che app, ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante.  si toglievano gli uni agli altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00.... o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o:i sperandovi con rili pro averi, o togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che alcun  “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3... io ti dia, Ili venga a Ito di darſi). 905)  Nola alla ora le bolle illalli, l ':  TOGLIERE () TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi di.....,  e Tiberio tolse a comparire in le; so I, a ! !', e o, e di ndere.... » I) i V.  « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt.  a MI:ì io sono illttavia il di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » (es. ll i.  si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r, slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo, d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov... » (a r.  a Togliendo anzi per la sempre tra i - llai, e li rili: r per quali mille. » I30, c.  TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere.  « l Il cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi le era preso si inen, l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo...., Sacch. a E debbono esser da ci o e i lini, l III lo igani e di quei film ha tolto a liiigar II le. (recl, liz I e V, l: il lil V III in: l di alle 11 e o (a ro. a ciascuno tolse a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. » (iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci, o dello Sf i villa ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch.  'I'()| RSI | )'I N A (()S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I morsi. Nn c / le re 90(5,  Si tolse del tilt to di comparire i.  a Cosi i miei avversari si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla speranza di vincere. » (le-ari.T()| | |? I | )I VITA -- 'I'() IR I)| | | | | | | V | | | | | | | | | | | | VI () NI)() ll ('ciulo l'o,  a ()li re a cento inili, creatur il mare si redo per cerlo. sser stati di a vita tolti, o lo.  a Acciocchè una medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e figliuolo. » I30.  Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.» Label. « vera niente io Illi fa i in V a Il, se i di terra mol tolgo. I 3.  T()RSI I) AVANTI.  a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal to n ebbe con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V F VME – I V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907.  lei li l o, le i vi ve l e li la volta con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene una satolla. » I3occ.  Note al verbo  (T cogliere,  S!)!) - Nola la lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il lui....  4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi levarsi.  901 - VI li ra e il lic.. bella tanto, la quale torna al dire: non gli  a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse...., od all' di s ti riglialle.  !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren loro modo e rut, ci si lal si ch.  903 - ci è ricco gel sole, i VV e li '.  90, cioè si prestavano.  !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re.  !)()(i lº pro isalire le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo: p. I giù smettere Pon gli i ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc.  007 - Si riii: una corpaccia la la ne, prenderne una buona  si ll: l. l 'iel el Z.  U sare  l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'. Rollo nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra lingua. e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè ne dica il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua parlata ecc. ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser solito a l ora i si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il, and pilºgan e.  Notevole anche il modo: esse usato, esse uso di fare, cioè aver l'a bil udine, esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e simili.  (), a avvenne, che usando questa donna alla chiesa maggiore.... » l'80ct'. a S'uscì di casa costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti. » Bocc.« Le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. » Bocc.« ma pure accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto nella casa usava, non potendola ad altro in li!: la 1; i ''i corruppe.... » Bocc. «.... io cercherei qui sta po- - ssi i li !... ciov e ne filmi, nè ruine di piove me li potassolio tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi ſul - -. l'::::) ): l ': - -  « In quel tempo usavano relia coi ti atia li., Fioretti. « non colli e g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni., l 3' r.  (ſ « Si (lio (le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i e !,; - i dile tt - « Vallo. » PO (('.«.... il quale il più del ' t com........ i usava. » Bocc. « Quanto più uso con voi. lii i l'.« Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri li.... Ave id si « adunque quesi a pl (III essi il litº, e l'insieme conti: uamente usando. » Bart.  « senza che, con le era usata di fare, li l --: lì la lite. » Bo.  a º miglii, l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0..  « In quella cav, i 1, dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati di far ria cr:::º, i s; » I30.  « Della quº: l' orizi in e non era usato i (-  a e que.li o n t e li ti o 1: i e i piu « di tali servigi non usati. » l': i  Uscire (915)  (illal'da b l'1!si, e i ti: i usci) e di che che sia: ed aliche uscii e s e 7 il l '.  Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S  « Con la doſe - ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c.  « Se io uscirò di mia natura. l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di veder costei olla gli usci dell'animo ». Bocc.  - E benchè quelle bastona: in avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti la illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di lui.» (par issi, an dl -- elle.. cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l' rola v... esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia...., t, i fillo.  Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ':  l S(| | | | | N (VN V (i N V (ii: l: l. l S(I | Rl, V | 3 V | | V (V e si irrill  a Il [il 1 nº.. ! !::: sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ):,  e filiali nell' l'all ss::  I SCII? E al alcuno (N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, (()N I \I IPI si, il i.  a Ella m'usci con tºn;, rºm r Gb: i to adesso ). BOCC.  Note al verbo  Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº Silllll ((. t ('. N/ e clere  E' elegante l'uso del vello redere per gliardale, in luire, esaminare, scaldaglia e, investigal e, (s.srl.... llle: « Pre il lo non dove ero li ' t..  corsi stili alimente credere, senza « vederne altro. 13, l l lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra parte, che per avventura aveva più ragion che danaro, « fieramente sdegnata, volle vedarla a punta d'armi, e farsi da se giustizia « con le sue mani ». I3art.  « Vedere il vero e il falso l ' pt: 11 i ti: i3a t.  « Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II.. itti « e.... ». Bari.«.... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e le  - - -  « in altra religione pil di gºla o li. I |.  « e vedi con lui insieme i fatti nostri ). I. « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le, pli i a º il pi Inio».  BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le " I to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr: per gl a Il cas.:: i I), i.  « S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917.  Fra i molti altri usi di questo verlo. I l I e voi li ricorderò:  AVER VIST.A con ulla rislut (t l'ºut, li lli il 1 l 3 ). FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [. \ EI ) (I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr, Fare  Note al verbo  Vedere  917 – Notale queste maniere, realer modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co.  Volere  Si usa a) per convenire, dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente, sì al singolare che il plurale -: b per essere per segui re una cosa, mancar poco che....: (per opinati '. a rl'isti e'  Noterai da ultimo il modo voler bene. Il quale si adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta lenº, o cosa simile. 922.  « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 (.  l  « E' opera si grande e malagevole che di io si vuole chiedere consiglio, º  Fior,« Andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe aver misericordia». Rocc. (923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle fatiche, a qual conforto più onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si vuol dire». Bccc. nº n convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere » Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il beneficio si vuol fare con faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a.... e che insegnando egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e profittarne e si vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta o o infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro e fuoco si vuole attutare ». Segn.  « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti d'Arezzo volle ossel tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no. Vill, cioè fu per essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via impedita, per la quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte morir di dolore ». Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la vita). « Gli volle dire che..... –- In:a.... ». Fiel'.  « Pitagora ed altri vollero che esse tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista l'olio, ills e gla l'o; 1 ).  « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che ben gli volesse ». Doce.  « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto Siele ». Bocc.  « V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o.  « Tra lol' 11oli Ill lin: i lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben « matto ». Malma lì i.  « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli lasciò in capº un ca a pollo e le ben gli volesse » l  Note al verbo  Volere  922 –-. \nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali, oltre a molti altri che il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è quello di far l'ufficio di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni altro i b – I rill come, oppure I shall come – secondo cli  l' –.923 – Come il verbo volere sia per lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia alcune volle senso di colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln (loressero dale « il ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro galido la Madre sita che le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve egli era o. Ca valca.Trovo inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi, ado perali in questa follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli inglesi, i quali veri si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio radurli rolere o dove e.CAPITOLO II.  Uso va a rio di alcune altre voci  Olli i Verli di illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo, argomen lo, talalosso, lui nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto, mano, netto, pello, pºi i lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente e vario è par li i lili di elogi rii si rili il. Si lornali o con esse di molte e belle ma nici e e le viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito, quella pu I A /a (li - il cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e classico.  \len Ire le palli elle e le voci in generale della Parte I. di questo Di i 'llo io, li li sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro all'assetto tegli in mi collosi e non li alla si irl Il ct del lisco so, i vocaboli di que sla l'arte, ed il l cie: la p. l rile, sºlo per sè, e precipuamente, for me cloculi e, con l'icienti di lingua. Da quelle le compagini e la curva, da [lles e il salgle e la polpa.  Arm irro co  (illarla come e in tranſ e guisa ne usano i buoni scrittori. Suona press'a poco quando disposizione d'animo, condizione, slalo di essere mo rale, e quando intenzione 926, voglia, mi a. lalento, inclinazione e simili. Son, poi nolev li i modi: a re e, anda) l'animo a...; patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo, la stati l'inimo: nelle e animo, acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl cc: dole ne all'animo; dire l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino; ecc.  già d'e è di 16 a li, i veri l piu animo che a servo non s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in lizio il... » l 3o.... e se tu non li li cuell'animo che e tue parole dimostrano non mi  pas er di vana speranza ». l o.  se dicessimo per correzione e non per animo di disonorarlo ». Mae Struzzo.  « Son testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che teneva « di farvi grande.» Caro.« Con animo di ienersi le liti e li ſale: l it il venisse miglior « fortuna ». Gialnl).  « Il valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe Con animo di ' on oss. l: r. cosa:.  « secondº, che lle.i'animo gli caºgai.  º...... parlit - i li fellone aniins r i pieno di mal i alCºllt ();.  « Così slibiti i la forza di « fargli Inllta: animo ». I.  « IParii-si a dillolti e i S::i,... gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1,; s, di fare a Il « (ora non Ini: - se. I3 ).  « Ed avendo l'animo al di v gli 1 il gione, ed « Ogni giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO.« Non gli va l'animo ad 1 [. a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe l'animo a at o...ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo., l: (: V., lº: V.« Tu badi ad l? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » (es.  « Se pure questo vi è all'animo, i d a li.. r?S. Cesari.  « Ed a Ile liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.  « Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le femmine contro all'animo gli erano.?, lº.  « Se vi basta l'animo di ſei rail. l 'in...... Il 1 li li. ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi l'animo di 1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta l'animo di A ti..... l ie. liz. « Vi basta l'animo di I l Il « atterrirvi?» Sog n.« E mi basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. » Fiel'('ll Z. « A noi non dice l'animo di pa..... i da!. di ti liti libri e si lolloni.» Cesari.a se avrete farne del'a paroli di Vill: il lidi: ) di potere, in que a sta Quaresima, ancor piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si lill, i. e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento e sì tetro, quale si è l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a distinto a tal confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion gli pati mai l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s. Part.  Qì la - i i, ' ' nette 1 - 3::inno:: i ri. » I3(11v. Cell Qll'il. ll - oscia chè così  e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o..... 9.30 « Qlla lido, lili si rivolge per 3 a: rap ità... » Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i: i uli. o l'ierenz  Note alla voce  Animo 92C, Simile al n. inl degl ii i: la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc: i andar all'animo è sil lillio i: sè i ct g ci li chè a grado l'era, di lui facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio per disp. ll si o apacissimi di calun  liare i lolloni º il lor casi di reisi, Giub., andare («Se l  [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno ». I3uonerotti (('('.  929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici: u n t then: cs dal in brigen: se latire l'orl.... Vlt i ti li I l eguali sono le maniere: (la re', di e l'utilimio, il cui oi, i n i cldi il cuore di Venire a il meno con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti si co. e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter condurre » (tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza. (iilll)..N 'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l. Iuantunque suppo sla, dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a: non mi sento punto inclinato, sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri: 'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett. rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol:i, l in lui zzati l'anima, ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e addirittura,  Argorn e nto  « Argomento è voce che ha molte significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo, d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931,  « Qllivi: i foli era chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r. a l'ile f. Ze l iv (): --. » I3....« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B e fa la l la fra il l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y olesse... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«.... a zi, o che il natur:) del III:I e no! p. Iss e, o le la ig it anza de'  Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito  « argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc. o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il...? l): V.  « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio! piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra liti sl lo: alli. » I)alit.  « E d'onde debbono prendere cagi no e argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav.  «.... il quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso  « stato, il quale il March se subit Ilmente prese..... » l. ll Il Illotivo, llli appicco.)Note alla voce  Argomento 931 – « Le malattie delle femmine, prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il  serviziale il più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati».  Aci osso  (A ci cossa re)  Guarda come si unisca a molte idee e ne renda più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi.  « Escono i cani adosso al poverello ». I)ante,  « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. » Boce.  « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933)  « fa che tll gli metti gli ul gli ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante.  « Oll - io veggo porre mano adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore - col piera.... » (a Valca.  « Non pensando che, se fosse chi adosso o indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di loro.» Doce. 1934)  « por gli occhi a dosso ». 13 i c.  « Stammi adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935)  « Recarsi sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa.  a 'I'll rarogli gli occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca.  « No.l, altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui,i della contrada « abbajano adosso.» B, c.  « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso – Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo adosso. (Bocc.)  « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z.  Note alla voce  Adosso  933 – Così dicesi: avere il diavolo adosso Passav), andare, correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca Valca.  934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine.  935 – Stare adosso, in generale significa insistere, importunare.  E a ri ci co  (E a n ci i re)  Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso legittimo di questa voce.  « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ». l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar « bara (l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata repubblica a....» DaV. (940 i liò i S 1: a li i vºli lº s...... II. l. 1 la lo bandire per coià ir,  lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i: e- si io ev, e l.llis i in itine del fra  tello la bardi, e l l i. E 'lo, li - a, noi lo handiamo  a ti: l ':17  Bandire la croca adesso ad uno v addS80.  Note alla voce  Bando  () () I )al band, gli che che sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a morte se vi ritorna.  Testa (capo)  I sei i modi anche oggi con il missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll, lsali (lal V. lgo  Far capo ad uno:) I lil I e i i ti to o: io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le: 1) Inn l a t: o ti li(illi lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº). dºtti, e fecer capo agli anziani del popolo., (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien, ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu' a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch. vi facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui bit si, e sospesi.» B(Imbo.  « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l) I lili i: l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill.  Fare di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do. - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo il 1 l il V, Iz« NCE, sapendo far d suo capo. In Illini i sa del mio, il lo., A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e, i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth.« Affel'Int) non di mio capo, III.) di s.it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le Teologi, li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. » Riel'el)Z.  Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua  « di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: " I)av.  l  la ci sonº e lenti a  Tirare a capo – Venire a capo ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi  « Iniglia.» I3o e'. « Volendo e pil fla III It, i no - e e, o ve le, sa o di troppº fatica,  « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li. « Iº gli 11 Il si verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l).  Ccrrer per lo capo a llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli, la rsi a credere,.  E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, !, V: seve, lie - -; il V t's - o - I lie a famente vivere nella lod povertà o I3o.  Farci il capo - fare tanto di capo V. Verli, Fare (ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e, illt (ve: i re.“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva s pitt,  a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo., Cav: a. « Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn lo  a quello che ell: V. I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto, a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc.  Si usa tanto letteralmente che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero, o briga di cosa, alcuna).  Note alla voce Testa  941 – Di sua testa non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ». M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio (ne ». Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o Fierenz.  A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si voglia cosa, con le: l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e simili: (Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa. M. Vill. di buon capo farebbe ridere).  Dicesi finalmente: senza testa non senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo: fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere, difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia, Prontuario).  Cornto  Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale), domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso, notizia, e anche render ragione dell'operato, arere in buon conto (in buon concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di checchessia, per averne cui i: « Non gli restarono altri ninnici che i suoi figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria, in Letraclit zieh en, il V e il considerazione: « senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la fede. (iiallo. ecc. ecc.  Di molti altri usi di questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti: Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione. « davagli in commende i conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia di un ministro.» Giul).  Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi, i lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele., (iozzi.  Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen). « A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V.  Levare i conti.  º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.» Bart.Fortuna  liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll.... lº.. col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I, buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc. e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui asco di noti e, mare l'ortunoso e simili.  Si crt ti ma i ve: lt, A sì forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st, s, il 1 l e gran fortuna di pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos. Il l tempestosa fortuna esser na º |:) » l. e Ond ei pi, e ne rive in fortuna, l): nte. I.: fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi colpi la batte (na V ('..... I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill, sl -, mi ata la nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o miglior governo che....» Bart. N: \ e li coi reva a fortuna il t:: il e o IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e 'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G. Vil. I bella, li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per « alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'.  Note alla voce  Fortuna  !),() N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente, essere tra civili empeste.Faccia (Fronte)  Adduco esempi di faccia o fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli chiarissimili ed il e lell'uso.  « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li S.,... ll, l el taccia.  « Con qual faccia, s a ci: il I II, - l. Il lidi e « la fede?» (il lido (iiudl ('.  « Adunque con (.. I faccia « add Llcile? ». (iil I l.  a Ol' e il 1 - le fronte il il 1: ' ', i -........  « Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente a ogni In. » (IV al a 95  « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle ', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis? S, - il. .... l  « Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11, Il). 9, è « In prima si coniII e II in o Ill o. I l tanto che i  « manifeslainen e li faccia, e li ri.. « Quel che tu in, l): a l ha fa coia, (i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i. « UOII10 Senza faccia - Il v.i.Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale., Fl'. (1 o l'il. « Don Roi Igo 11, l avrà faccia l:  Note alla voce  Faccia Fronte  951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol [i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I (n le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi: a prima onl, ecc.  952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli lat.  953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce di olio in Toscana per la ri. ligure, e poi, i a dover dire o far cose. Il li li llo ci livelli rili il l ' il.  954 – ci è chi noli la senso di ver: liti e di 1 ss ('.  955 – non si ardirà a far.......  16Fatica (Faticare)  Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo, alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una cosa, a la lira il V V el l con ſali, i pºli, a gre, ai) alicarsi una cosa (cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la licati e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e voll e, i l ligar.  E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n, e in riini della persona, per la fatica il Irla  l pa evano le sue fattezze bel e is si lite, l ',,,,, - (il'er le. In le, i ai altro pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per dil 1 lite si l V a oli, il 1 l quali, essendo cia si -, i faticarono la nave, dove la donna era, e' marinariLa loro si el e, e faticatº o ezia radio gli ali inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii, e ora il mare, ora la terra, cra il cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat.» S. Agost. C. l).  PRT atto  Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si fallo (di tal fatta di tal maniera: li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in fatti: fatto sta che.....: in sul fallo in orielli-: iallo l'arme: uomo Vallo, cavallo jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l. e piacenti porre alcuni esempi di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie osservato oggidi. (ilar la II Il nle iel, l a che va a mente, si adoperi que sta voce alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora torerno della p rs not n 1 micr, ii, ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire ſare, esse e checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc): andatr pei falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar che si faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a me....: disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc. Masopratutto porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran fatto che....; parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un gran fatto ecc.  « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani. » Borr.  « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de' fatti di Calandrino il III -  « E se non era il g... l in 1:1 lit, il 1 l i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni.  « Mossi a col il pass oli del fatto suo.... l  « Come se egli - lo so, o de' fatti ric stri - I ' ': l. i  l -  li i ll it, l.E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro, B « Egli sarebbe necessario che ti l. Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che se nessuno ſi domanda ss e di cosa, l..., o la r. - del fatto iuo...,  a che tu per niente non rispoli il -si -  l: i si v; st: (ii  « non li vede l'e (11, Il li Ildil e. ll tº 1 - in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no], e, a pe fati i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11, l s. « Perseguitava una val Int. a quia li i -  « giungerli, on.le la line - li illa non ve li: l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l.. Flei ei 12.  « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la.  « Se ne sta ritorna, che non par suo fatto. Vi rili.  « Dice le cose, che non par suo fatto. I3 i  « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun altro.» Manzolli.  « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin egli il a fatto suo., Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o, linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part se ne andò i (iesi (ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo fatto, - i: il l... » I3.. « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell':«.... e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne una satolla o, Bocc.  « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone, col qual io discopra il suo pens. ro.» Flei e la.- - - - - e 11: -: la gran fatto. ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo, non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn..... pe. indos I di -s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie, l: i Cielo a voi debba costare qualche  leggie di s. l ' It, i lil II l S. In  cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta! to: Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto: ' ', p s a h si rai slm litato dal pic a col le li,, l ': l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò ad una  a certa ri; l:1. o lº.  I fior enti i: il: i a fiorini d'oro, senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.(gras, a to - I l ini l e.» I3o. E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i 1.1. I vig, l.()il -, vi i: 1 -... sse, e cado: le gran  tolli, i loro i no, mºltº gra.: 1a!! 3. (A, i tl ad. grandi e sanliº.  Note alla voce Fatto  !)(,() si,s, li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente, in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l.  l'Iron, pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu  I no il pic i fi. Mi Vili. -  (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno. Dalle. « I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co  E' Voce Ilsalissimi, si, i 11. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s - che ad al lI'e lillgue 961, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua del p '. (il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i... a no, la tale solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che iene la mano, a quello che li, al per: per a signi  cioè che Ilon V elig l srli. I -, - i.. l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là di o l'uori lilli, soc corso, aiulo, banda, lutto ecc.  « Acciocche a mano di si', il ri non vertisse. I3o ('.  « Venendo a mano il it - - il II, le V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l.  « Molti dei quali lug - I l a mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero.  «I terno forte di II lilli i r... i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'.  « La republic tilt i, in mano. Dav.  « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ('.  « E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della sim mila (li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV.  « Fare i voti in mano di...., l 3:1 i t. Cºs  « Manda il la lizi una marmo l..  « I entulli, Vlt telli, l.li ra: no ci º randi. I: l..  « far guardare a mano di soldati. I  « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub.  « Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata.  « nè Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1, a S. Iplone.... a lºoce. (Lett.)  « Sopra i detti fili si da lol: ill. it e s'ilm  « ponga grossa i lile l'a lt 1:: e io i Irella mano  « di terra, che s'è la [a di sotto. 13 Inv. (e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de la ri; in Iglia l'incon  « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini.... l) o lo veggia, e porgami la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad.  I is: i o, che tenevano mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li-, e tenienc mano molti baroni del Regno.» G. Vill.  !. (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i serrano ine li piu se e, più per ſette che mai avesse  I t. l. ti l a, fere cenno ch'esse (le pie i ! !, l i º S rimise mano e disse que le parole che - il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese).  VI: messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº  I l ott... m Se ntano in altre novelle., Bocc. 966). i:ili º di.oli perdere lo stato suo, mise  mano, l s... Il miº l 'ils li a l e E da', e, Vit. S. Giov. Batta. I ss; Il li i lill I, il I.. ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I.(olis derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l (-: i ri.() la d [.li mi viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta gli fosse. I 3, > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces.  rss e il dover lol dire, con lo costoſi alle mani  Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ (i, e li gli ha fra mano ». l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i la S. » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. (: e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat.  S. ll p il sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e, i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar come coi polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile, i li, o a casfig  rli, a lusingarli;  « altrimenti, se ci piglian la rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl.  (( (( (( (t  « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi dovesse  ceder la mano. » (es.  « Boezio pruova, che l'll in pole, il II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » (il V: il l.« Se tll II letti ll ! !: i lil:) il il l il bassa mano l. I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi p. i, t: a Ilio., (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? (d  alta, Ina - Ierio di vi... i mezza rilano. l'  « Ull chiassº lillo assai fuor di mano. l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. » Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c.  « E quello con lui fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,  impuneInel1te).  (( (t  (I  « Senza che al lillo, Iri: i i, ga e 1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò via.» l?oce.  « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no.  « Vedendo il caso Ill ! I limiti e li -. V - il era vinta della mano Nerone era spacciat. » I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. » Cesari.  « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che gli erano più presso. » (.. V: il 1. 9ti!)  « Va', gli disse dalla mano dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re  « Così tornava per 'o cerchio t. 4 r. Da ogni mano, all'apposito punto.»  Dante Inf. 7, 32 970)  « Così duo spirti, l'uno all'allro chili,  « Ragionava ll di Intº ivi a man dritta  « Poi fer li visi, per dirmi, supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l - Il  -IV » - 'lue AoN « ossip o:ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel « OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5  -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n t al I ti Ip (in on ott oss, il o »: IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on li  tod o p oumul lo), ti: opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils.... N  (pupoIV) optio. Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod: II o II: il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I  lollflot ſpum il: uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1, l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30 l) il pul) lt.)() () 'l l: il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s ..o): I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool, pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul. l I, pp.I: ) « oupul pl oood un lap. tifi oil o sotto ll op.  pddos uoi o! Io e,op is, l lo -ſim:(usu ) « oum il plm lui o il  ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl. ): l o il lo ſi un lp: i -lad pl app:(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps: s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N:ol n. ll o in lui lo pu Inl si.lol::: - -souloootlo otIIIss.Io.A.Iod o letti i l o, on i lou, il miti il: msoo mun oumu to. 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In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più il fl'eno, ed anche guadagna la mano.  969 – Nola singolare costruzione, l 970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap  l'ºssº e con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra.  N etto  E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so! » I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord.; di mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le forme seguenti:  Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che non piangesse qualcuno.» Dav.  Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la vesſa, e aveva la se... » Fiel'enz.  Coglierla netta. « Io non vo' che la colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto, portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie, interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm.  Il netto di una cosa il chiaro, il fatto preciso).  Note alla voce Netto  980 – Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche larla pulita, farle pulite.  981 – Meglio il modo lo scano: mettere al pulito.  Fetto  L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E' dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere.  « Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del veduto Alessandro ». I3o.« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo petto ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per isfogare l petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. «....benchè tu non se' savio nè fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il vostro petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl. (985)  « Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo le fece le tarili o ridere.... che » Boce,  « Le miserie degli infelici anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli occhi e 'i petto ». Bocc.  « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i uscii fuor dell'aura morta  Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto ». I)ante (986).  ma i loro petti empire di far là da poter disputare del bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? » Bart.  «... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. « Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll, Il avete petto (la la re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori inevoli? » Segn.  º...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel petto.... ». Ces.  « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ». I)ante.  Si notino da ultimo lo seguenti li laniere, Stare a petto. « Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. « facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ». Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ». GiaInb.  Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill. « Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. « Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.« Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere ». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce Petto  985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di I)anle e I3occaccio: Contristare gli occhi e 'l petto.  Fartito (sost)  Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo, stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc.  e biasimarongii forte ciò, che egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce.  a Parendogli in ogni altra cosa si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito credeva. Doce.  « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito passar volea.» Bocc.  “.. ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne io ». Bart. (990)  « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991;  a Noi abbiamo da fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc.  a....chè in verità vi dico che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca (cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio si legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca.  « E così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. « Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.« Laonde egli si delllier, il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche « partito; ed ebbe: p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz. « Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc. 99?« E sentivasi si forte il lo!..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a.  a Adunque a cosi fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -.  (( « Ora approssima in dosi Impo cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F vedeva l'1-1: mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli..... (il 1 l.  ſt  a.... dell'anno li. ll irl I e I e - il li fili l'a ll III lo.. lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993  º..... ed essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc.  « Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo.  Si irolillo da Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ». Cavalca.  Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito  990 – A miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem Preis.  991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa e non è punto disposta a cessare i peccati.  º2 - Nolale queste maniere: prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif. Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill.  993 - Era inferna.  994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere, mandare a partito, cioè porre in deliberazione,  Fºarte  Voglionsi notare di questa voce i nodi seguenti:  Salutare, dire, fare da parte di..., per parte di.... (995)  « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... » Bocc.  « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le faccia a reverenza da parte mia ». C sn.  « V. S. gli dica da parte mia, che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett.  Dalla parte di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.).  a Egli era dalla sua parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett.  Lasciar da parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per serbare, per discernere, Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale. « Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 « Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte. Borgh. Tosr. A questo do.. I nn l r noi, posti da parte tu! l i t. In di 1, st i. Va: lli.  Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp:te  – Tener, fare a parte,  Star da parte vale non confondersi con altri.  Tirar a parte è alline a lirar in disparte.  Si dirà: tener conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti.  a Tratto Pirro da parte, quinto seppe il mie li, l'. IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna ». Bo,  « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o.  « Quello che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi.  a Tris - stando i in dispart..... o I Piety'.  a Cl teneva il flz, li i parte, I3 r. ll ! Il.  Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e lui lo:li e 1: lt i tºv - '' i, ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in buon grado, dl-so un inti, li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro colla  a sinistra prendeva gli o. Salv.  Note alla voce  Parte 995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio.» Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra: lasciar sta i c. V. Verloo Lasciare  « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda. Tolim.Storna c co  E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e simili.  Ricordo alcuni modi e l'asterà:  Dare di stomaco il cibo recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi con istomaco o. Call.  Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. « I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. « Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria e l'odio dell'aver i là (p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ». Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).« Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra « stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl.a Tengan per me e do i miuse, conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». (il  NA erso  Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi.» Pelr.: ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la preposizione verso, verso di..... l' 'No ! )..... che del sostant. verso per banda o palle.  « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori d'agricoltura concedono che per un verso le piante si pongono più presso che per altro.» Vatt, Colt). E così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le V, slle cose valli lelle.  Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella delle forme qui appres so, si adopera alcol a a sigllil: l'e: manici di modo, ria modus, ratio).  Per Cgni verso –- Per mium verso - andare per un medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i ri. 11,1 per cgn, mai verso. Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I mali. Varell. El'col.Andando la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g: va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g... FI el'eliz. - e (II), si vi: il 1 l'  II it: i 1, se vanno verso. (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i.. v verso i cui il non vi fu mai ». I 3 l': 1. () rl.  Trovar verso, () ribe, II; s -. 1 (orv... - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:). mi ri. ll It - ir: - si rl:. Mutar verso. « I l in un li versa i Z.  Andare a verei andargli al versc.  Q). l io.... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l..... ll:: V.i i-silli i tii: il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo  « S: si orz: v. li:: Isili andarle ai versa, e !: I)1s, il l. - ir.Di alcune parole ad uso e valore di voci e parti del periodo collegative e talora anche integrative.  E e n e – NA1 a 1 e  al 13 EN E. lasci º si va il riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le, con la mente, l'ulo non le, sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il no per bene di garbo, la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a bene a lilot line ecc..., e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e la cosa piu o meno riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o, e tiene alcuni poco del tedesco  li li l. (5(i  Ma egli Iul bene, qui intlin [ue s elevatissili, proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st. l l ): l 11/.Nel l bene i l.. a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti I t'l spes-, a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene, che io lo tiroll o spesso la II l3, r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº. Ma se vi pi e, io o le insegnero bene tutta n. Boc. Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra. Il mito lei e la la l la.Si le, e visti di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel, che.... l o.Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel... he il l e le::i riti - nte d'Illi: lo za sull e iol e, e la a !:ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo., (art.e e appresso gli dimorava una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V e V el - i:n corso  a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». (es.b. M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il, inisſallo, danno di sgrazia, lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi: a rer a male, a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo l'all ecc. ecc. Via li li so. I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l non so clie di vago e per gl II, che è il lilà di così d'arti l'isl ic. (li el II zi, le elegi Ssic li.  a... st V: l III mal conceito fuoco. I 3. «....:). Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e. l. «.... il rinai.. Se; (iappa letto i lic - i pm rai 1, si, l ma le agiato el' 1 (-a del II lo; lidº, o. I 3 ).maie agiato l' –, li la a gil: i il.. 11, l Inl, o male agiato esse, e male,  pe. lli, a - io, e -::: a male i:n bocca si,  vitili era, o e, l 3:1. I 1 A.  « c' 11 se l' ', male: l e \ Il..li, lili i lo nia?.... (, l. Il n. volt': li la III, i mal piglio, l.ll è lie: \ e le colli e iº sº io -, il V rºtale lili, i.. » I el'eºlz.Il ragi la I (l ai: le maie a lo)ia si convenesse. l...chi v e iilipov rito: chi vi: ini: i il a, l.. i: ti: ti l i male arrivati )). I.a do III', nd Indo pier lorº i val, l l', l ' I mal degno n. 1 ss, loſ nig ill: I li.Voi sie (o grilli vecchio (pole le male durar fatica, l ', di liri a III nte, l'8 ('.  e I, il III lo zi le: i riz liz li mai -; l I e  a:I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “..... rip, ta io a lor lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d. Il l ri, li -: li i l ':.. l 3. l l'I..... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! « parole molto lis o eo. 13ar [.. e.... tutto pe o, se male a me non ne pare.. l 3 l. e Onde pa, che male si a latino al vstro lº so, si fa i lma iº e d'ill « si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº --, e non lo 's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». (i 22. Vi esort era il 10 al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si. n. 8s.  (S: - I:ile i siti: il ma! - be il s.. i: e i nº, lo re  I ma le:nctiuisi o V i S:s lº i l: i  Note alle voci  Bene - Male  (iſ, 1, di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc (li l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V ! ss. 13 o.Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo lingua  (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi, e di tali li: ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c. Il riso le li ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e inalier e del glorioso tre  i º  (S Sla i bene, male in gambe è I l is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li trial lo scadille, snoss, alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle.  N/I a i  l 'avverini, ma, el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i: il 13 irl li, esempi, e non |. lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la non si sia rolla o.  lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels, l'in alcun len o, e d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ', cliave e indizio non solo I! I lil si le lilla legil'i; il cos! i le  Alti i basta ad ill riderlo il si mai e cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso  l.  il li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |  –– 281 –  stri di lingili ilaiii. Il II ci del e di averne senza più conseguito il 1 ello scultri, i si p.. si, Direttorio, al quale più  che le definizio i l sl 1: i il [.. assioli, lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti li l.. i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel lo i c' rss, i indi, sia cli e Villga in al  cºn l 'mi pi.... ll il 'Nsui le nip. S roll e li ll (). o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se il l i.  intellsivo della s. ssi ma mi tiro i si,  a Pe! l III list, 1 l g io, i tic, l l.  si mai nascesse.. I 3, i. C. ll pill IIIa li e p. mai drappi ! -- dialli, IB,.  m  Coln in 1 il i i il mai !: esse  MI, sl l'a ll  il Ver mai. I 3,..  “..... i isl - se mai i piaccia, ti con i le itto i pal.11 st: Il lit -.... più che mai i - a che VoIIIeri le spalle, a II. 13o..E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... » I30. e I)isse Fer Ildo: () li mai. ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio V il. () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It, il l in I l.. 13,.... l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº. E venivasi li rila lirlo ! ! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai:, a connesse, e piang nel loi i riti, sop.......... e sop a che n 1 - i poli ebbe dire. Cavill.  a... ma per certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai».. a Questo e i pili allo Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l. le quali fili o no e primi clie -, e le sei mai: l ill). Fl: assalti i al IIIa la..., l mai, i [.ra ti:lel cliore ». (iiil III l. e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V, il lill a fa rii mai santi!. Sºgli. a Ed è possibil. che mai gli 11-:.  «.. quali lo In'a ci r., ma andr: il 1:: i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti, i lil il gºl ! I mai e Cmpre.  « Se i II a i º  I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll -, a che ella mai:i cosi fatti novello: l il.  a Corne, disse Terondo, dunque so io, io in l? Diss il 1 Mai31.  I 3 pt i'.  derili ti far sempre mai il i. I lil -Note alla voce IM ai  70 - Vive nei diale l'i: Come mai?; è afflillo come mai, ecc.  (li si voglia di si ill di gr. ss, ognun sel sa, ma gli esempi più che  le parole i cli, tris li rello so e vero significato della voce lia, a |iliale og  i è sl Irola o la le adolierala, che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non disdirebbe.  \li i e,: i fia l' -. / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni e.. I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il presente  º il tilli: i I  !: )st l': l 'li l'tl  S... - 1:11 - I ll v;t, fin l v.. l 3o..  le fia, 13. Qui i fia ir: le l Sel lembre. Caro. l fia..... I v.I! ! -, l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \ i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i., (iianl). ll (: | | | l fia l e l'1 a 1 a:  perchè - º la piovana -.. n Il re deila t rra ». l)av. !, lil: il -...... p le i, illi, e alle fia di loro, se  l' - I no ll v i l il 1 li i:''i. I l ' l : i .... le  St i t, i s.  i mi vo'il a sito dispe to lanni di chi fia la colpa? »  Se ll. V et cine e gli oli Illi i: l i tº  vi N ſia mai vero, il l.  Si i pil I: I: 1' i rp -  a io i vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li  l' osti i Ira d rupi scoscesi, che fia  iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei precipizii, a tracciare  sì belle prede. Segni.  non oltri, he pli il... ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e  Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia, di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy, 111 i clide e ci III, Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la III er i cie..: grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al lli e nºi ci o, e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri classici. Eccone alcuni esempi. 4.  a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“..... II e io ll li ll 'oi, i vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('..... di e il Si r. le gran mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le (esil, e Lazzaro, gli andò incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli(ti - e' leg lì: i di V (I lil alla casa dei servi Illo I., (a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il ' Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i vostra mercè., Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel', i vi....: la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a.... io lli soli, condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei sussidii, ecc. e, Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui -:llitti, Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio non abbia fa ſto. » Bo. Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso liberatore. Ces.Note alla voce  Mercè sserverai bella elissi, quand della preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non esclusiva  della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'. grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra: e tru vo, grazia d'Id duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si lascia adescar da doni. Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non le I)i, dipendente da mercè (tut I simile al francese I)i i merci. La qual omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè: Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono. I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ». l?occ.  Fºurnto  E sl il. e lui le avverlio viene la voce punto assai volte º: ri: i vi il ci ills e.  I e - n 11 lissili, lira gli eserº i pi li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli: essere in punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia, l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso: di lui lo punto ecc. ecc.  I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo; un nonnulla ecc. ecc....  Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.  « In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini.  “ Dunque, ripiglio I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni,  « Cosi già in punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il dl IIIessa.» Bal'..  « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp. e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. .... coli 11el (i imporre si sl:  e- si va in te sul punto da i convenevole. ... e stalli, il ciò tintº sul punto della Cavaileria che...., 9, i 3 art..... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse. o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1,,, li: soli iti e litta a ce ngiura « era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro, i ti o al lav.o, e, Inque  « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il.... in punto.» I)ava inz.  le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr. - era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s. i  «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI). Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I i  I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1, lizi.» l?art.  a e lei si riglia e li rvirill d. I 1111, si lire, i 1. I tigli: il re - se le punto  « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi, l 'empio., 13 art.  a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova in l.1 o ſu il lie la lite « in boc.  a. » Cal')  « Moltº è la plance..... ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete punto di bene, il 1 e il v; 1..... B... Sc Il legna illolo e punto abile. I... Il D... - il l.« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio che ino:o -aio i lil i: li, sa p.ti, i 3 malteschi, le  « pronti il d urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co.. e., li;..... si l.l.i.« loli sara forse gl.lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à (il dere. » Stg, ()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi.. li. a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le volle a l livi rie, ch'ezi, i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril ma ne per os - l II l i lilla.» (1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce  Punto  i – Punlo, nullat, un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo, IIS, e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo: stare sul pil n lo le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto punto, li ill.; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si il 1, il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica. E i lichi il sito quale intensivo di non: « I giovani e maggiori e le I compagni di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello.. V | lale l'ill, rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li: ogni le, alzi vi dimenale ben si, che...... l occ. e Vale le ali le illla nica, un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani. (schlagfertig,  Tutto  l'referisco qui le lole Iorme avverbiali: lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel'.  Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici, che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi, come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in..., non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc. (85)  « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º. « Senza - I tal l' -, e sollecitata da suo, cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e.. I3).I)imo a lido il giov: in tutto solº nella. orle del suo palagio, una ſe II lillell'i.. i l lo lill sill: l., IB ). Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do disse.... » l 3. o i lut. In te la II: sua la Ilte ne ſei a spiare. (trovo che Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo., 86 Bocc. il qua e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari.....i-1 l'1 lis, (llella e la i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill  le liri, tutto e il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi)., Se. ll.Io dovrei di file stamane esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC:: 1.\l di Iliori tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o l'abb 1::. » Sºgli.a MI, oli qua e. l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte le più  ſiel e ! Il re.» Sºgli.  Note alla voce Tutto  S, I ), ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci si darà ragione di parlarne più a V: Illi.Anche del modo elettico: tutto quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o: lutti e due, lu lli e l re avremo occasione di ragio irare ad altro proposito.  86 -- Agiungi a questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i, in Il lavoro: vino da bersi a lui lo pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n tratto – Urna volta  Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi  una colla, un l al lo le, i cser I i l n al di l l sch si: si h mail al n. Non mi 'mal her, guck 'mal hin, n un link in all '. (r.I e II si li primi o li allo; anzi !: allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare un irrillo ecc. ecc. Si, non spettan quì,  -, li o lo così in di grosso l'ein  Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('.  N la non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li. ri che tu n'a Vesti. » l80cc.: i i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi..... I 3, c.I un iratº o. Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse un tratto l'l V v tl le l V, e, le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto letargo, il chav si g la lolla, i vv i, illuminato gli o chi? lla loro mente....» Barbieri.  a cede per or. Fa1, del late che si sveg  Note alla voce  Un tratto - Una volta  S; - - e pensò un suo nuovo l rallo da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte  Forte è sos la livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si essi, il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl, ecc.. Il l io le lel (li 'al si e del lill loversi dei soldati ». (esilli, ecc. Foi (e, e chi liol -, è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l //, illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente, profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e clillo alle alicola ve. inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id, lilei e il III al II a Telli, ci se, ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non vedev., 88 Bocr'. e Avell (lo V (lll v. " (il V (, l: i re, is l'all: lui (º littº  « piacendogli, forte desiderava di aver, ma pur non s'att | I vi li do e Irl:ì ll l: l ' (). » I3 ). a e saputosi il fat o forte fu biasimato.» Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o altro dormisse forte, ci illli cli. l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli. Bo. e....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. » I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a chia a mare. » I3C).commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i, (Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o I30.  a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss....» Bocc. E avendo la barba grande, o, ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e piacevole ch'egli s': 1. Vis:I.... » I30.e.... e quando ella a ridiva per via si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl, Va.... » I3..a.... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a clie di ve  a lil e intende va. » Pocº. a.... e perchè mio marito non ci sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('.  a.... per le quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi la pietà compunsi.» Dittani.a.... ma poichè si vide ferito invili si forte.» Bart. «... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte dell'agro....» Bart,  Note alla voce Forte  NN Il Cavalca idoi era anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione. « E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava».  Troppo  () lesta voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro leso: Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li adurre, sentenziava egli. (º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la ad un massimo grado slip I lal V, che la llli gli i alla lia li li ha. A li io, che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials, falsissimo replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V (e un così fatto superlativo.  ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al classici non significa soltanto  il lellera' e minimis Ilia il minis all resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione, dirò così. superlativa.  Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga  a \-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non t'avvisi.» Bocc.  « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli e polie-se, ull a: illo  ne porterebbe troppo più che alculla di lei., 90, Bo e.  « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata pre  Sente.» E0cc.  « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene citi l aprillo, iroppo sarebbe più  piacevole il pianto loro. Bocc.  e Vi tl o V () la II, e tali ltto, le V a - troppo più cle tll la  la spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E Annibale l il troppo più accei io a l.Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. «.... a Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la cesso ogni per i lio. » I 3. l'i.  «.... ed era la piu bella lei mi a, le si rov a -- I l II onl, silvo la  Vergine Maria, la quale era troppo più bella di lei senza niuna compara  zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al 1. e.... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III (-s Si l' 11 le alle sºle Iila li; e lo II, li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91, e Ma to li 1:1 tii, Signori, I il III, che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o Segli.  III' troppo altro gi ill ols e le:lo I, a.... livi- i lo., (- a li.  a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da repliare  alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » (s. a N in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo... (e il li.  Note alla voce  Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. (orlicelli.90 – Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho preso questo esempio un po' più da lontano che non biso  gliasso al fallo nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là  ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a quel luogo ecc.  l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza non è li potrai li li essere.  l Irisi: più là che bello: più la v. g. che l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà. Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra: pii là che ecc.  e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp, di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13,.  (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di Inangiare pervenne là dove  l il bio: e el in. a i là onde r, il o se al povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l...... - 11/a lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il sieri e niti 11 o il 1: vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove l'ietl o aveva certi anni, dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi cosi colà dove si pllo: e (io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1 i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis. ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13,  Di lei sil, la norò sì Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e Cai: noi il 1: I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si  - lo, ine, rispose M -, si e avei ('. » lº. « avea preso -i alto grado di perfezion, he non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose, i veri:a il vedute che...» (.esi...... ll 1 più là li oli lo i possibile a ridare. » (...Quello  Il Boccaccio, il Passavi, il. il Pil dl Iſi, il (il Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e discepoli della scuola  tallica, Ilsa l'olio assai, e i le stra, il guidi e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto a  glisi di 11 Il ro, ci si d. it -igi, i lic la lino Illul lI d  l Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e  d in quello, in quella, pari alle lorni e avverl: i: in quel menti o, nel menti e, in quel momento ecc.  e si dis: quello li n. - - id. v..... vi i e quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1, v.... I3.-: Itt - il 1 se. l ' a 1 il 1. l it; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.: l o.lutti; - i fri lis. quello li da N i e:: si iro l'1 -, -1.. » 3 ).l'In/ li lis- I - - I, quel ch'io? » I3. I -, quello le 1, III -- il l sa io vi li essi. o lº '. i 1:1 ! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il. » I 30 t. ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc (l ' e 'li.» I3. 92. o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l. (III l 'o più a ll'Iva n,  piu lui iro il lit. 2' l'1 e va e le, i di 1 e ven re a quello, al  quale dopo lo I - ra l III antila li -si, er., FIl colo. Itispos, il III ), gua a lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I..A questo II e les, il II, II - Il to si It, l e il q"1ello che è det o a lI - l... l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che: ' ' Vt a la l.... » Fioretti.  E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno »  'i e il v.  I:: v. i: quello che i lr che, è.... » (,s  In quella cli..., l. E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3..  QII, il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le  Cllº gir 1 m -:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri. f: l'.. it: l'.. l): "ll. « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a b) allo a ll'ano  e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante. 93)  e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i piedi « In quello clie e gli pas.. a.. Ces.  Note alla voce Quello  !)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa, o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I e rolli (' Ill. V el'b, le nuºre.  93 – lº è) ssere che colesto in quel vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale per istracco s'ap  cli i non le segli le relil (Inl verbo le nei cº.  U Corn Co  (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là.  Eppure alche uomo è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione.  lº..... ll III li ucnnc lo i ri: i V li  l: e cl’egli non voglia  “..... pl il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo. l 3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7(t, lo uamo il l im. it - l'alcuna persona clie ne fa  cesse e sei a -- quello le Luigi per il mio e di I)io. Cesa l'i.  « E nel vero l' 1, a: per lo I e uom dice he io lº blo essere a Imo:tº  giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13.“ Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom  « dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel piacere e le  « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli. 94; Cesari.  Note alla voce  Uomo  94 – Che cosa è l'ou dei fr: il cesi - e li li Il collll al ci di home? (il man dei [ d sch è altra cosa li ler Alain n il trio? (ili inglesi poi dicon, they, I he people say ([. he loria al nostro: la gelle dice ecc.  Fers o n a  L' Iso odier 1 esſi voce è il rilalissili, e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo, e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I " Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i, n. ss II, il li do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'.  )sservill e gli sla i li a presto.  I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di corpora Ira: fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in persona di lulli gli allri, Isti: prolcl:: 1)i, isli in corde lilo e Passav.: far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96: mettere in persona di alcuno qualche cosa v. g. una r lidi:i, costi i lirl li di essi, 97 e.. ci sarà poi la cril  sio: e li i la rli id al l silo.  Iº, i cºl logli -s e II l bel fante della persona. l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane: 11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13,.... te, i bil 1 E le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e.... essere tutto della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della persona, e le, la inelite lion molto sallo.» (11:llillo,\bbiati i cavalli i ve li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li.il se - ll o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti mi onsiderand d'o culto alliore t. vt', ll tell it | º li li: ss e.. l 31,,la li e ti e i, till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo -, i periti, o oss - so, li i n e -se. I 3,..ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta, la qll ', a pl p - o li -: i B,  l  stat 'i: si val.etta....)  S -- ti:. ss e i stesse persona, il 1 - si  l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai. i cºllo persona se n'av v (lº - e lº t.  Io li n..... I, l l la ventura lestè, che non è pcrscina. 13  \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.  Io e li (s'o, che tu non facci liliale  le a lui ne a persona.» e al ll un altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è,  - - al lil. I - - - che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri  spondes; a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.»  l3.  I | p. g v, se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r, Ili.li i per ſuo - o il 1: ini: 1. ll il a persona del In illo., Bocc. « E ' il l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o. I; rulli, a non salirà persona se: it 11  Note alla voce  Persona  ), simili ma in tal caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.  96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl, col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S. Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l '. (a l..il Diil (iherardini. Voci e maniere. -  9' - l'orili, il francese sui la le te e il gosl o volgare in testa d'al  clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei le in persona d'un al ll o, Calo.  S e  lºro orie di terza persona d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce  |  |  sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà.  Come piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in  In lo assolti, o e coll'i: definii, l gicli e Illasi si ºss, V edilo, di  con Io e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi.  a Per un cali o ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30.“ 'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce. s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo.Aiess. Il dr ) gli 'e il dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll, collandin - In li o di -se esser presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van,, strillse a confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli. » I3o. “.... - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri, il 1, che | i leta potesse es  e Stºre la crea llra. o loce.  Questi e Quegli  Si che lo scrittore il derll, lo usa, e l'uno e l'all ', posto assoluta nell le in senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s: l'impolli o lo I II Is v.ll st..ol. Il “odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los. I volo “ol I pm Ilio. I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los il  I _ e ne»  \:sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ): IR il p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o.: ), ond is oli otti. I l III II e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l 'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI,i. S ): IIoII. 113enb Ip o Io, lui il di lui se li ti os o II. o Il s o II is º III o II, 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113 onb I 'll A ). l is tº lo 118omb e p. Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o) toni tu III o l on tº il 118anº il - IV  l. 1: I 'l: i  sanò “I I V r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l  'ItI A o « Us II. t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n. I I I..I ) \ I? i.) I  vi: - st, l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i. I | III F III l st ) ) somb o-s II s l. I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò uºi In I tºl In A III o Noll - sanò  o il III: -nIossº o ollo.I costi. Il cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il  i li osso il s II II l s  ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i.I o III II. I |  anbuntuoo ºpttodsI.I 15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in  ouaq els ſolluſosutti - o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè  dirò della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o fuºri's e il di il colllllllissimi i: non ha guarì, a significare non º gran tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello  che di ogni altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu' sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai. e cosi conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì.  a.... nè stette guari che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie- dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl, ' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz..... non istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e...., il quale non istette guari che i rap issò mori; o lo e.... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30.ti e credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè  a stette guari, che il lì gl al S. ll:lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.» I30' ('. a... ll è il ro i ti elideva, che da llli (ssere richiesta: il che non guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all 'a.» I30 ('.  «.... di paese non guari al suo lo litri:). » I3:1 l'I.  a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed al tempo « I rarº ori. » Bocc.  « Il quale non durò guari che, lavorando la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3, c.  e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i clie....» Bart.  e.... novella non guari meno di pericoli in se.. ll I e nel II e che la narrata e di I.allretti. » I30.  « Dopo non guari di spazio,.... » Fier.  «.... nè guari tempo passò.... » I3. a Fermila lire e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che : oli dallalo. o 6, Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la nave sdrucire. » lo c.Note alla voce  Guari  (- Nola II sto In lo leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie.... per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc.  iti - l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll () ll t ) Il t '.  N/1 c r ) ci ci  li del non lo al mondo aggiunto ad altra voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p. I livi, è a nella livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile, qual che si voglia minimo,; il t N.Nll) l ('C'.  \li gli esempi soli si chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che non farebbe un illi a V cc, la II lillici a: con persona.... del mondo, e come quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali alla lelleria dal Villellissillo (esal I.  Senl e al lillo del l rall cese non le, in: le moins du monde, e simili. Ala non sarelli, sì vigliacchi di gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani?  a.... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del mondo l'all ('., l 3o t.a.... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3, c.E quantunque in contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol Vole: i creilere. » l3.benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio.» I3'll [.« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue novelle.»  3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona del mondo il « Sa.» I30 (('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del mondo.» Dart.  a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli e.» Fior«.... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una discrezione al limondo, o Fier,  » I30 ('.  a gente che vuol conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg Il.  « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato e lnal con o com'era. » Fier.  « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo., Cesari.  ſr  L'Opinione giornale, con la stessa serenita olimpica con cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875. !)!)  Note alla voce Mondo  99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di molli al ri. | Bene è vero che così lo studio di cer ti detti e sentenze come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche dovizie, degli scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli autori classici, più mi ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano anche particolarità italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua italiana, non mi pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che, se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi.  l t. N. 1 l il miº cl. ii e il ct mi al buio.  l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li l'.  I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del semi I lice.  l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la misura.  Slc re e il m li se li diglllllare,  Vlcºl l'1 si in capo l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare.  l'atl e il III milita in all 'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li.  l. I cºllo l'e' in sul quat mi qua mi - col ridicola gl avità.  Spacciati e il quinque mi voler farsi lenere il gran fallo,  \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc.  li mpri e la scopa l si a Vila disonesla.  lo son litigliato a questa misura Ambra - esser fatto così, di que s Iella la luna.  lisse'r la Ilio lo bene o male,  l'irla pºi punta di lo) chella con grande affelazione,  l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri  di I e il Vallo.  Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali - a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo – l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire del valo  da una stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la illissili le celle.  Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II elli. Esser al coniile mini – il punto d. Il 1 l le. l scire il jislolo da dosso tl i no 13 i. logiici si da il lalso sci  spetto, cessare di ang. Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo basso.  (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile.  \ on Nat per cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si.  Esser nell'ol o di gola –- riccone, ricco di rili.  Esser innanzi con uno -- essergli il gri 7, i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel (i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e' il molto in mani si coll’ili per il I e. (a V.  Torsi giù dal pensiero di fare...  (o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e alla sua provvi le 12:1..... Civ.  ('ori e re boll len clo e II lilo cli, le legi, i l. ri ci, i Nº but I lemulo. I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo, il lersela.  Esser in pie' e plando (alba era in piè lenne la col ſole. l)av.  1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa col Cli/i 'le il cili si riac | Ie.  l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci lidi ri. il II e il I l: cos: 1.  (iel I al I e il m (t mica, clic'I l o lut No il re i v. l il li Is I l iss. aggi. Il gel (lalli al clarin.  Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco. 13arl.  Pagare di moneta senza comio spacciar Iole.  I, Ils, I)alle e il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo  si illl'allino che spesso ne fa les r, il III: Iggio elica li col l mali e il del sl1, clile.  Tener a piuolo (inf. tenere.  l otre all rili il lettino ſalgli il lates l' 1 all ss.  Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno.  1 mln usdtrº uno indovinarlo, conoscerlo per quel che è.  Fotr uno scilo m (l parlare a lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e.  Scoprir paese. Ma il 1/. veli al chiaro di talche cosa.  ('a calcare la capra in rerso il climo. I3 cc. Irovarsi in pericolo di  i l'l': l ', l ' ('.  I malati sºnº col cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog --  'l): - ol,l DS. l.los 1)llop ).Im. I  “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan, 'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip: l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n t pel  lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore  -II All.) Iloio; il 2.It I.) II.Il lod o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1,:los.lop 5 º ) - ol. I ti ll) 1)(l. p) ll. 1) / S (p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool o l. Il ll o l.oo, o o l o I: 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll l l ll olios o I Il d lºs o I o II ): ossopu o il n. 1: s ).Ill).Iod o O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol. l p ou puo ul l tool pd l olltilt il.lol - D) ll plcl. ) ol I.... ll N o Illy) li ll lo) lo IV  lUI.).llº A (OIis Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli Iloit...... Ip (o.lios III. Il l.Il vi:.). I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS  o]llottle Illllio II o III o III: VI.Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll plli) ledttii: s.l Il pl.. p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I  l'Iss) I |.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº) ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II).I e o Ioli: mlpo il pil 1) l.I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten. lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5 o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V: o il II o I pil V ol I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss..... ) I pu to.I o | Ioli -o AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li.tel li olo il 1 l.... ll o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo). )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli.I l o Io te stili npd a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p. ll lº un il dl pliol - - u, li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op) o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº ! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L  uo uo) p.t lo 0 olp csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso – onbop onp m. i tm)S  vo) lo I l Iolu.lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) – o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o oli; io  -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl regolº (Ideos e un  “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in ſqu;Il pells optIo:o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed Iod o. Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill): 1.I.ood I.If I  “esInI?lo Id utin lp e.I srl III o II: I –.ooo I o in l uld lp olio lpold l I m/) p.1:).ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu: un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV  ro5.Ioi ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop e Iru.lo Iui ol. -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt. Ieri lo tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo. luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII, sotto lo v o 5 e I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II.Ipaduti.Iopulo. In “of.In loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) (p lo) um. m / mons ml opuo.oos ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s III3o Iod. I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.) o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui !:..Ip Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i s.I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit.Iod » – i loro lºſ oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il.Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I  III o Ip Iso. Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop. () il 0.1 O) ſpi o N. I.IRSI Ind e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o. p. lug  oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII  “Iuotze.IouI.Iotti IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I – RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I  Izzotti In olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ ul tolla IV  IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip -– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è maniglia, nel figurato  appicco, pretesto.  Arei mantello a ogni acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta. Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello - predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc. - ascoltare gli all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con gioia li ali  ziosa di cosa che ad all ', oli sia pia ere nè oliole e che palesa la tollell (le l'el)))e.  l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi d' A Iglisla. l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi lavella piano perchè: il l 'i ll ll sell la. l)a V.  ('olo il c un disegno ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo. (ilan, b.: effel! lla e ſulello che si era progettato.  (''rcati e ai ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare, investigail e, indagare.  (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni diligenza sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al.  l'utre un laccio ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso,  slagliare il ci lil, al tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la inintità a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni.lasciar alcuno sul latº metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do.... ma se li la cavi di dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto povero gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll.  Prendere, pigliare, cercar lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero ». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è affine a scaponire, nella frase  sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza un suo capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire del guercio, sentir di scomo –- V. Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI (los!p [u optioutod) w' los to Ossip o  'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q. o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/.).t.) 1.to.)S 'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.).) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds 'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001 un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op - Ool/l), los o//mſ lp orum.omputorit ºp ty.)s )  'old UU10 |su (I - Oulu pm ! tto.1 dl 11) 1.).), do. t/S : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u oIJ U uit: Ids -- O.tn)so.)./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn - DSO.) Dun gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1 | 11: o.11: oo. I - Out of tºub 12 1//s,ºf mun t mel 'OssOpt: " ) 1 ]sorbt u| | | |5.11:J 'ou!]1: | | | |11. | |lt: o.11:D - OUIL1. »It! |'t! ONN op D ! uit 1)(l ! ) to/ju1.1/S  0.1 n itt l!, 01.)sn,l D.1/ ).to/jult/N 'ZL11? IV 't PZ -11,0.1.11.). O ! | 150 l 1! ) | | | | | | | | | | | | |ollo Z) |O 14 l 12t II 1.1) | 115. | | | | | | | | | |s. Lopo V | 911 01.10.11: | |Ilso 'Oum lll lll Cºlo/s.) 'tt |! o III) lous Is, 111.) 'out? Ao A1 o II.) o.lolpIto.)  - 1:] oII. 12u011 | 0.11.11: o III 1.) [1: " 1:ssop:(te ) 0111) til lll (7/0)N.) til ll 1.)," ) Boſn.I 1: ).to | | III II) (silos II! 0.)  -)))N ll o.1 l/1) 1:|ON |l 12% | | |1.1 ||1: o.IJ.Al? | | |) - O.).0ns ll l 1)/ '0.).) DN /l d 11)(I 'lol, | | | o IO It?.)sod III tº trul) lll lp u 1) 1.).nl).) t ss.In Ill lod I]11 |0 |  ol | | | | |rt | 1! » " - IIIIIIls,, ! 11.01un.ºop 'L11:11 tºp 5: \ ou nu ºp 1 m.).jp. »  'ſ al l ' ().II.'s 11.11 » II tºt 11op (9.11p 1112111 ºp tot 12 (11: 111 ºp: 1: Ao. Ip 1 o/m.to it, fi /.nl ). 1) 1.).)nds II,7 o | » -10 A ollllll tern Ill Vios tº \"An IIFo, t] too.” Ip 0115os! | 1 o Amº o.112.1 solid 1: Aolo.A » UIou oq.todns o]tiotulp.In 112u trio otl) 115 pal n i1.10 | '',,IL1 | 1: is 110II 1: Is -sor op Kotlon III o In Lied rºtti III?looſ) 11:d 11: Oslo.'s!) |. o IoTIII | |sol Istolov  rºzilos Is Irºn LICIs op: \ » - t/m 1.) nofi ol)ns in/s o In tomtof jod o I nl.) mods ', ' II, rs.It?,II). » 12ZI I. »s 't II II !! A  visso, 1110.) ost).), 'I l ºp 11 f: [1: I. st: 1) u! iſ.) p/lp non I.nl ), 11 pun inlosm'I  fjm/nl)S nu out. Inm noſ.nl / lo,n Z – 0,7 ml min 1) 10 l/10/0) dºn)' dat dpild tal  'nfin. 1.)s omp o omſifi.nl, un 1m / 'l.In: 4 | 't OLIII » -oji I n Ilsnq oilo oIodus onnºl oil tot 1 ol ozilot lop oIsº IIImºl orn: \ oIlonb Ip » nºu, IJ.).on III u?I nl)n1 m.tto) m osso1)oni o IptºcI ('lul'S II rtloulon.In IIIIIssIntlood » Ip 1: 1.) tºol IJ0 te]II nrub II (),). ) IIIoI5n.I opIes lp '127 IOJ lenb IIO.) I() » 'I InfoS 't Olso] -ord ooit Is pito) m 1a io)jou oIdus oI - o - o Ioll nſ|(In: - 10.1 lol in dit ollo IV ooo optim: IIIA  olte illustr! 15u eIssoipolulo allodsa oInnoptieſ ºm - Onl In dtplosDT 'opond m tav ) I I I I Il.I. t: o Illaptto.) olttotill litio. I tºp - lo sl m puo.).opſ o un m oldm.o.).l ma l (IIII!)o.Ioppi lp elli. A olo.A: o od il plli ll o).olo, lo o ollo. Il rolli Ip oieA Iosso - tel.In I: o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll o.tolo V so ) (put.to, ll p.ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o. I Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui, o tu As o le volp lº lll.lo.llol).ll.)N ) quel!)..I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti otitº.All. Iuºl, vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col eztloloIA:l 55o o II. I ll pp l Il pm.os. I tolti “ouolzuºu e un ostello e Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo, ill. Il II si ulltiltos o il tri.I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN o Ido. Ito. Ip oi lotti:p o.I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (I It:p los Iop 751.I. ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l: p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo, pp.to, ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I., l:.........“olons n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls (ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m, lo s. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip (I. 1.I luo. Iº o II la V A: l I. A 1:(l.) lp Qss pd o ICI: onb.me l o lo us. Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ). l. (l -oud ul o e lied n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:(:s-oo e o.Iluo.o tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e o III o VII. il 1) il fi. ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il - vi III i  -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il. Is.I tºp IO.), lº ol n.), uo, pl) lim) I l /  es.) Il fo: III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in I  o.lui iuta il tºp.Io vu: toll o l..).l. o loo.l.) I l I  o II lotti o I e II li. mld II l.lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). 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Il 5 l.lo il  po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose oilo elodi:).II In lui: oddo l II ale.II Ionb e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ), - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o .IoI I II.).I l? \.I - «I – pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso lou I milſild l)  il dſ II o Il pl) il 5 il ril oi lotti lop plAtº t.I sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo )  Izzo!) o tool -ms ll o oli uos lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp  l loll (I lo Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons,oo Ilſi o llllllls,o. lllullS  lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s opuolod l 1 ) Iollfill, l.lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un lato i po.t o, ul, olpm Is u. I  (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1 I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to,  Atº (l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli) 0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol  lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D I SI onl:) Nm p... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss  o o d Il 5 o II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I..)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd un ufi ()  epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es. otI.), tºnfi le id o Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.) ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl pil in o I. ll I  “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln out e tio.Ipel otrosso Joid lp o.I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i lutti lop e tituli lod o.Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.) O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o! A nſiti nunoIl lod p) Il p o V ».).oogI pl/lo. m l), m)pum OUI.) oll) Ollion | In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb. Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca –, W e nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso. Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen.() gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich nich I heiss. Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l'.Dopo il bere ognun lice il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila) e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () / mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace, accoglie vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si sliluirvi la ledesca, malerialissima: Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old.l grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch. Giuoco che li oppo dura, di ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste (piel li atl oil einem VV trim.La donna è come una castagna ch'è bella di fuori e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le fave nel nolaccio, il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc. strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere. Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati, misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem rergellºn. Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, «che, dice il Meini, giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chil' igne ha più lunghe». A confortator non duole il capo–e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza edistanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo). Bocc. La  determinazione  suprema  della  voce,  «la  favella,  cioè  la  pronuncia  articolata  della  dialettica  psichica»  ('),  è  il  vero  fondamento  dello  scibile  (*),  perchè  concreta  sensibilmente  lo  sdoppiarsi  del  pensiero:  è  «la  formula e insieme lo strumento più eminente della manifestazione spirituale»  (*).  Sebbenené la favela, né la facoltà di acquistarla siano necessariamente richieste per determinarela posizione dell'uomo nella natura (•) il sorgere del linguaggio, è, come il pudore, sintomo della spiritualità che nasce e si afferma. Lo studio della linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un terreno libero da qualsivoglia passione( [Introduzione alla coltura generale, pag. 141. ][Op. cit., pag. 144. ]Prolegomeni I, pag. 367. (*) Introduzione alla Coltura generale, pag. 121. (*) Massime e Dialoghi^ Fasc. 86, pag. 8. (•) Prolegomeni I, pag. 368. 390 1^0 Spirito  oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere teologiche,  o in  balla del liberalismo  naturalistico o finalmente asseconda le simpatie e avversioni etniche. «Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di possedere la più perfetta di tutte le lingue» (') opinione che naturalmente osta ad un bilanciodel contributo che ogni idioma portò all'educazione dello spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come fu posto per tanto  tempo, è assurdo, giacché «presuppone  prenato  alla  lingua il  pensiero, il quale mediante  essa  debba  riferirne l’origine. L'unica  ricerca genetica che, fuori del dominio speculativo,  possa condurre  a  utile  risultato, è  la  determinazione  di  un  periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale si siano sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l'idea e le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente definibile, perchè è meramente naturale: è una ragione psichica immediata come quella per la quale il riso è foneticamente altro dal lamento e significa diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle forme materiali e radicali: giacché agevolmente si capisce come una radice viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato,patisca in questa determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione; anzi, la (*) Considerazioni ecc.,  pag. 12. Lo spirito oggettivo 391 radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento.  Si  può  dire  che  il  pensiero  di  un  popolo  tanto  più  li-  beramente si svolge nella storia quanto meno sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come l'attività  le  corrompe e spegne  (').  Molta  importanza  ha lo studio delle  lingue per la istruzione e l'educazione  del  pensiero: l'uomo è tante volte uomo quante lingue  conosce, giacché  tale studio concerne vari  modi  che  rispondono  ai  vari gradi del pensiero (*). Infatti  l'idioma  accennò  progressivamente a) a dare le forme sensibili, 3) le intellettive, e) le concettuali(*). Quanto più il pensiero si avvia all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze tutte formali della lingua. «Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è occasionato  il pensiero;  più  tardi  capii  che la  lingua  è  mezzo  necessario  alla  sua formulazione;  finalmente  concepii  che  la  vera  forma  intrinseca del pensiero non può  essere  manifestata  da  questo  mezzo  estrinseco,  che  è  la  lingua»  (*).  Il  che  significa  che essa,  giunta  che  sia  di  fronte  alla  speculazione pura, o per dir meglio, al sistema contemplative si esautora da sé medesima, riconoscendosi insufficiente a esprimerlo concretamente: anzi, «la lingua  (*) Idee radicali delle discipline matematiche ed empirico-induttive. Fasc. I e 2.  (^) Introduzione alla coltura generale, pag. 121. (*) Prolegomeni, pag. 368. (*) Massime e Dialoghi^ Fase. 18, pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo volgare, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai differentemente che la letteraria e la filosofica, perocché lo scopo delle varie forme linguistiche non è menomamente identico» C)«Anche la semplice nozione storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma speciale. Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de' suoi tanti romanzi, il Ceretti dice: «Il mio protagonista studia vasi sopratutto di famigliarizzarsi coi  singoli  idiomche erano svariatissimi e giudicava che la nozione à\ un certo paese supponesse quella del minuto popolo, epperciò una pratica dell'idioma locale» (*). E vedemmo che così si comportò nei suoi viaggi egli stesso. Quanto  alla  questione  circa  la  preminenzadel toscano sugli altri dialetti nella nostra lingua letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non perchè ci paiano originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale sicurezza di sguardo avesse il Ceretti in ogni questione, che si affacciasse al suo intelletto: «La lingua italiana possiede,  come  tutte le altre, il suo proprio genio caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana: questo avviene eperchè fra tante differenze essi posseggono un caratter comune(') Memorie postunte, Fasc.13, pag. 6. (') Itinerario di un inqualificabile, Fasc., i, pag. 14. Lo Spirito oggettivo 393 grammaticale e lessicale; e l'unità dello spirito italiano, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo generalissimo tipo comune dei dialetti.  Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo classico della lingua italiana, ovvero se il genio della nostra lingua,  essendo sparso in vari dialetti, si debba ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano; ma non si deve dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto-sivoglia buona, è pur sempre un dialetto, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente: nessun popolo scrive come parla; le lingue parlate nascono e crescono nel popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze progressive delle lettere e delle scienze. Ora questo materiale della lingua parlata sarà tanto più sufficiente quanto più ampiamente sarà desunto da tutti i dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo il buon esempio del grande Alighieri,che, quantunque toscano,  esordì  a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua veramente italiana. 394 ^ Spirito oggettivo.Molte forme grammaticali e lessiche sono riducibili allo spirito generale della lingua italiana, talune non lo sono: il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti nella  lingua  italiana.  Coll'idioma  esclusivamente toscano  s'immiserisce  non  solo  la  lingua,  ma  con-  seguentemente anche  l'idea,  la  quale  trascende  le  limitazionilocali e popolari»  (*). Luigi Cerebotani. Keywords: implicature, la lingua e lo spirito d’Italia, Hegel, il Tedesco e lo spirito della Germania. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ceremonte: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Teacher of Nerone. Member of the Porch. He took a materialist view of the world, claiming that the gods should be IDENTIFIED with the planets, and that everything in the world can be explained in physical terms.

 

Grice e Ceretti: l’implicatura conversazionale del PASŒLOGICES SPECIMEN -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Intra). Filosofo italiano. Grice: “I love Ceretti; and I wish Strawson would, too! Ceretti distinguishes three stages in the development of a communication system. The first is very primitive, obviously, and avoids the reference to ‘io’ and ‘tu’ as metaphysical – ‘hic’ and ‘nunc’ will do. The second stage he says may be all that some societies need – ‘green’ for this plant – The third stage involves the general concept of ‘plant’ and this is where a soul-endowed entity (animal) can refer to a plant or to an animal like himself or his companion – at this last stage, Ceretti speaks of ‘soul’ (anima), and the affectations of the mind being what is communicated – if that’s not Griceian, I do not know what is!” -- I suoi genitori, Pietro e da Caterina Rabbaglietti, di condizioni agiate, lo affidarono all'insegnamento privato di ecclesiastici e successivamente ai docenti del seminario di Arona dove si distinse per il suo carattere refrattario ai vecchi metodi didattici e ribelle alle rigide regole di disciplina. Quasi al termine degli studi si appassiona all'approfondimento della lingua latina e alla composizione di poesie che lo fecero conoscere come poeta a braccio. Frequenta come alunno esterno un collegio di gesuiti a Novara dove risulta primo in retorica tanto che il suo maestro lo spinse a comporre la tragedia “Il duca di Guisa” sulla base della Storia delle guerre civili di Francia di Davila. Soggiorna successivamente a Firenze dove ebbe modo di frequentare i membri del gabinetto Vieusseux.  Dedicatosi agli studi scientifici e storico-filologici e soprattutto a quelli filosofici, scrisse il poemetto incompiuto Eleonora da Toledo dove dà prova di penetrazione psicologica dei personaggi e di abile descrizione ambientale. Nello stesso periodo compose poesia a contenuto filosofico, il romanzo “Ultime lettere di un profugo” sul modello foscoliano, e infine le riflessioni “Pellegrinaggio in Italia”, nate a seguito di numerosi viaggi avventurosi per l'Europa in compagnia di zingari e vagabondi, che gli permisero di apprendere diverse lingue. Opere queste che mostrano la singolarità del suo mondo spirituale profondamente diverso e in contrasto con quello degli altri.  Soggiorna nella villetta "La Chaumière", presso Chambéry, dove lavora alla “Pellegrinaggio in Italia” dato alla stampe a Intra con lo pseudonimo d’Goreni. Trasferitosi alle Cascine a Firenze, pubblica “La idea circa la genesi e la natura della Forza”. Adere all'hegelismo, di cui tenta una revisione in senso soggettivistico in una grande opera in latino, “Pasaelogices Specimen”, che non riscosse alcun successo di pubblico. Decide quindi non pubblicare più nulla. Tuttavia continua a comporre una grande varietà di saggi filosofici. Si dedica esclusivamente alle meditazioni filosofiche espresse in numerose opere tra le quali i “Sogni e favole” (Torino), le Grullerie poetiche (Torino) e le Massime e dialoghi (Torino).  La sua opera è stata pressoché sconosciuta. Solo Gentile gli ha assegnato un ruolo di rilievo in “Le origini della filosofia contemporanea in Italia” (‘C. e la corruzione dell'hegelismo’). A lui oggi viene riconosciuta una certa influenza sul pensiero filosofico della scuola torinese. e sulla formazione della filosofia di Martinetti. A lui è dedicata la Biblioteca di Verbania. Dizionario Biografico degli Italianim Martinetti C. “La natura logica di tutte le cose” e pubblicata presso la POMBA di Torino. Gentile. Cfr. G. Colombo, La filosofia come soteriologia, Milano, Vigorelli.  Dizionario biografico degli italiani,  Opera Omnia D'Ercole, Torino, Vittore Alemanni, C.. L'uomo, il poeta, il filosofo, Hoepli, Pasquale D'Ercole, La filosofia della natura di C., POMBA, Giuseppe Colombo, La filosofia come soteriologia, Vita e Pensiero, Fiorenzo Ferrari, Il filosofo di Intra. L'idealismo di Ceretti, in Verbanus, Vigorelli, Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori. L'uomo vuol essere considerato come l’ultimo frutto, ossia il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più recente dell'albero zoologico. E qui nasce oggidi rispetto all’uomo una contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da’ più prossimi animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla speculazione, e neppure dalle discipline naturali empirico-induttive; ma la si agita sopra un terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità empirico-induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni, partigiana di religiosità, di moralità, e così via. È assurdo supporre che una specie si tramuti in una nuova specie come tale; perocchè le specie sono mere distinzioni teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum; e conseguentemente la distinzione caratteristica che costituisce le specie “Homo sapiens” non risulta se non in quanto si prendono in considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini intermedii. Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero zoologico, nei quali le differenze ci sono più sensibilmente manifeste, troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii rapporti, e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette varietà si suddividono in varii individui pur differenti fra loro. Inoltre, troveremo che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la specie che si prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò non si deve investigare nelle specie come tali, ma piuttosto nei minimi termini della specie, ossia nella variazione individuale del specimen. Questa variazione, tuttochè lentissima, modifica col volgere dei secoli le specie, così come la conchiglia microscopica, variando la propria natura, varia il terreno che ne risulta. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva variazione sono di tre ordini, vale a dire: planetarii, psichici, e spirituali. Questi agenti sono progressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella efficacia spirituale. L’agenti del primo ordine planetario modifica semplicemente il corpo e l’organismo, e indirettamente, ma assai lentamente, la facoltà istintuale. E un agente puramente planetarii, p. es., la natura del suolo e dell'aria, ossia generalmente il clima, la condizione geografica e topografica, e cosi via. L’agente planetario si possono chiamare elementare, perocchè opera su tutta l'animalità senza distinzione veruna, e sono presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi generale che gli animali inferiori non subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie degli animali inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire le modificazioni necessitate dalle progressive variazioni dell'aria e del suolo. L’istinto delle specie animali inferiori e rigido e difficilmente modificabile, appunto perchè e un istinti poco variato, che non puo neutralizzarsi fra se in una ricca varietà di modificazione. L’agente del secondo ordine e psichico (e no ‘psicologico’ ma veramente psichico), epperciò più intimo nell’organismo, ossia più essenziale. Un agente psichico modifica l'animale nella sua intima facoltà, ossia una attitudine, assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti naturali succennali. Questo secondo agente e nella sua essenzialità un maggiore sviluppo del primo agente naturale plantario, epperciò si manifesta nella generazione susseguente come una profonda modificazione dell’organismo e dell’sstintualità. Questa modificazione non e più mera variazione giusta una astratta affinità, per le quale, p. es., una facoltà diventa minore di altra facoltà, vale a dire, si manifesta come una pura variazione quantitativa dell’istintualità. E una modificazione profonda che diventa la proprietà caratteristica dell'animale (un tigre che tigrizza) e qualche volta e affatto estranea e contra-dittoria o opposta, o contraria, alla facoltà della generazione pre-esistente. Allora si dice che una nuove specie (Homo sapiens) e venuta all'esistenza, e la vecchia si e spenta. La facoltà psichica si modifica sulla base di un istinto più svariato, il quale si neutralizza appunto fra loro tanto più facilmente quanto più svariati. L’istinto dell’animali inferiore e tanto più fermo e rigido  quanto meno molteplice e svariato. Questa modificazione causata da un fattore psichico modifica il sistema anatomico e fisiologico, perocchè non e possibile una modificazione psichica sulla base d'una invariabilità anatomico-fisiologica. E una modificazione profonde, la quale, se qualche volta poco modifica l'ordine anatomico-fisiologico sensibilmente manifesto, e però effettuata piuttosto nell’elementi anatomico, nel così detto ordine istologico. La modificazione psichica non spetta, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma sono più profonde modificazioni dell’organismo e della corrispettiva istintualità. Essa rifletta piuttosto la mera individualità animale, epperciò e variabile indefinitamente. La condizione causale di questa modificazione e data dalla ciscostanza nella quale versa un certo individuo animale. Cosi non è solo la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vive, ma anche i varii vegetabili e animali con che vive; perocchè dette varia condizione e sufficiente a modificare l'anima (la psiche) dell'animale. Le delle varia circostanza costringe un certo individuo a esercitare preferibilmente una certa facoltà psichica, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca molteplicità e varietà della facoltà istintuale proprie della specie di “Homo sapiens”, questa facoltà variamente si combina e si neutralizza. L’istinto cosi neutralizzato, ossia radicalmente variato, si trasmette alla generazione veniente; e cosi le condizioni succennate, variando l’atttudini dell’anima individuale, preparano il terreno alla più ricca e più profonda azione del fattore veramente spirituale. Il fattore spirituale modifica quell’attitudine che appartene non alla specie, ma all'individuo animale, ed e un fattore che non più modifica l'anima senziente, ma lo spirito (animus, psiche, sofflo) ideante dell’animale. Tuttochè questo fattore, nel su concreto sviluppo, appartene allo spirito umano, pure gli animali superiori (p. es., una scimia antropomorfa) possegge un certo quale esercizio equivoco e parziale del suddetto fattore. Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’individui più vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani. È questa la ragione per la quale l’animale non solamente si aggrega ma si organizza gerarchicamente giusta un certi statuto di un sentimento comune. È importante che un individuo animale possa profittare della proprie osservazione; perocchè dello profitto provoca una maggiore perizia pratica, la quale dal più vecchio è partecipata al più giovane e trasmessa alla generazione vegnente come una dialettica della categoria istintuale che più tardi si sviluppe in una vera mentalità. La categoria spirituale (spiritus, animus) funziona qui come sviluppata categoria psichica (psiche), epperciò la lingua, il linguaggio e la communicazione, nel suo amplo uso, vera sintesi e genesi manifesta della categoria spirituale, arriva all’esistenza come linguaggio no planetario o naturale, ma puramente psichico; o come linguaggio equivoco o misto, ossia psichico-spirituale; o come linguaggio assolutamente o puramente spirituale o oggettivato (communicazione proposizionale – la logica di tutte e cose). Qui non occorre accennare al terzo ed ultimo stadio, ossia al linguaggio puramente o assolutamente spirituale, proprietà *esclusiva* (alla Grice) dell'uomo o Homo sapiens sapiens, ma solamente al primo stadio (psichico) e al secondo stadio (misto) del linguaggio che nasce e si sviluppa nell’animalità sub-umana, pre-razionale. Il fattore caratteristico di questa crisi, ossia lo sviluppo dell’anima senziente inter-soggetiva nella spiritualità pensante proposizionale, è manifesto piuttosto dal linguaggio ‘muto’ o il gesto di una emozione del corpo e principalmente di quell’emozione della fisio-nomia. Quest’emozione formula un sistema comunicativo, in quantochè manifesta una definita emozione intima con una certa categoria, che, non essendo destinate alla mera soprevivenza o conservazione dello specimen o della specie, non si puo chiamare semplicemente psichica, ovverosia istintuale. L’animale sub-umano, p. es., lussureggia per una mera sensualità erotica – omo-erotica, come Socrate ed Alcibiade --, la quale non può essere destinata in verun modo alla propagazione della specie dei Grecci! Così pure due specimen giovani di animale giocano (la lotta greco-romana) colla vivacità propria dell’età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente, all’educazione e destrezza corporale dell’individualità. Così il padre non solo alimenta il suo figlio, ma l’educa e disciplina ad una pratica operazione requisita dalla propria specie, locchè dimostra che l’ingenita istintualità non puo bastare, ed abbisogna dell’ammaestramento dell’osservazione data a lui che ha già vissuto praticamente nella vita. Il linguaggio misto, o equivoco, ossia psichico-spirituale, è quel tale sistema di comunicazione che non consta semplicemente di questo o quello gesto, il quale segna non solo una definita emozione dell’animo, ma una certa anfi-bologica determinazione della ‘mente’ (mentatio, mentare, mentire). Così, per es., il cane, alla presentazione d'una cosa che altre volte fu nocivo, puo involuntariamente fuggire guaiolando. Il gesto segna naturalmente la paura. Qui certo v’ha una psichica emozione provocata da una simile cosa, ma quest’emozione del cane dev'essere legata alla *memoria* della *sensazione* originaria, la quale memoria appunto costituisce una determinazione *equivoca*, mista, psichica o mentale-spirituale. L’animale superiore possesse una facoltà che incluse un svariatissimo repertorio di questo o quello segno o gesto, mediante una modulazione combinatorial di questa equivoca determinazione. Quando l’animale arriva definitivamente alla soggettivazione della propria coscienza, ossia al suo “lo” distinto categoricamente dal “non-lo” (cfr. Grice, “Privazione e negazione), entra categoricamente nella coscienza spirituale – del spirito oggetivo. Questo passaggio costituisce la creazione o mutazione o trasmutazione o trassustanzazione (metaeousia) dell’uomo, Homo sapiens sapiens, e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può segnare un soggetto umano che puo attuare in inter-soggetivita con un altro soggeto umano. Qui l’”umanismo” si manifesta categoricamente nel proprio caratteristico (la definita soggettivazione del ‘ego’ come ‘ego’ e del ‘tu’ come ‘tu’), e si manifesta colla parola (parabola) non certo col documento anatomico-fisiologico, che non puo bastare se non a certa ampla generalità della distinzione o del genus animale. Prima di entrare a caratterizzare questa crisi importantissima, ossia lo sviluppo dell’anima nello spirito, dobbiamo assumere la speculazione retro-spettiva della coscienza da un ordine uranico nel ordine planetario e nel ordine vegeto-animale. In un ordine uranico, la coscienza procede verso un’individuazione dalla nebulosa al cometa, al sole ed al pianeta. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo, assai più caratteristico di quell’antichissima vaga definizione dell'uomo ragionevole, animale rationale homo est, è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione di questa soggettivazione è fatta con l’inezzo spiritualmente formolato. Conformemente a ciò, più innanzi, l’uomo (Homo sapiens sapiens) è designato anzi definito come coscienza inter-soggettivata. Quest’individuazione, qualunque la si voglia supporre, non può essere una soggettivazione; perocchè l'individuo (Erberto) non si distingue dalla specie (Homo sapiens sapiens), e le varie specie dei corpi celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure, speculando in un ordine generalissimo, una specie animale e una età dell’animalità. Nella specie animale piu infima, l'individuo si distingue dalla specie (una rosa piu bella dall’altra). Nella specie animale superiore,  non solo lo specimen si distingue dalla specie, ma anche il soggetto dallo specimen ė progressivamente distinto. Cosi, p. es., il corpo di un animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate ed organizzate fra loro, le quali, svolgendosi dall’una in altra fase, costituiscono l’organo (dell’organismo), l’apparecchio, e la funzione vitale dell’animale. Ma la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è nell’organismo dell’animale concreto, e non negli animalcoli gregarii che lo costituiscono. L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo svolgimento del senso del pensiero. Qui dobbiamo definire la distinzione del senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla coscienza; perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente (il senso non sente, l’animale sente), ma può supporsi astratto dalla *co-scienza* del senso; perocchè la co-scienza e il senso funzionano indistintamente. Finchè la co-scienza non si distingue categoricamente dal proprio oggetto. E una co-scienza identica alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la co-scienza si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: “Io sono e l'oggetto è” – “Io sono quello che sono, e l’oggetto quello che è, cioè l’ “lo” e il “non-lo” (p. es., il tu) *siamo* due termini distinti in relazione d’intersoggetivita. Quest’idea fondamentale che si percepisce un “lo” (pirothood) è la soggettività; ossia, la nascita dello spirito. Nascita dello spirito e nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A conferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il principio sensitivo non come pura e semplice *sensazione*, ma come *sentimento*. Sulla predetta distinzione, del resto, ritorno nei paragrafi susseguenti. Lo spirito consta di tre fasi: il sentimento (aisthetikon), l’intelletto (noetikon) ed il concetto – il A e B – concetto soggetto, concetto predicato). Lo spirito nel sentimento è uno spirito immediato che poco si distingue dall’anima senziente. Ma quest’anima senziente appartiene allo spirito, perocchè si *percepisce* soggetto (un ‘lo’). Il sentimento consta di tre termini: l’attenzione (la risposta ad un stimolo), la memoria (il riflesso condizionato), e l’imaginazione (la risposta ipotetica o condizionale). La funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la *soggettività*, che lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile (co-gitatum, cogito; ergo sum). L’attenzione deve funzionare nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve *sentire* *che* il senso della natura – ossia, l’istinto -- più non gli basta. Questo sentimento dell’insufficienza del proprio istinto l’avverte *che* necessita osservare ed imparare la pratica della vita. E la prima funzione della mentalità. Epperciò la lingua ariana conserva più la traccia della parentela del concetto di “manere” e “mens” -- quasichè pensare e fermarsi, ossia il soggeto ferma l’attenzione sopra un oggetto – che puo essere un altro soggetto --, siano due operazioni molto affini. Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste operazioni, nella loro sensibile inanifestazione esteriore s’identificano in un fatto comune, quello dell’arrestarsi – la risposta ad un stimolo. La co-scienza che fissa l’attenzione sopra un oggetto (che puo essere un altro soggetto), cerca nell’oggetto qualcosa *oltre* il sensibile immediato, quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente, ma la funzione di una sensazione trascendente. Una seconda funzione del sentimento è la memoria. Mediante la memoria, una sensazione o attenzione presente si può risuscitare quando non sia più presente. La co-scienza attentiva all'oggetto studia un oggetto esteriore ed abbisogna della presenza di esso oggetto per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa l’oggetto osservato (che puo essere il ‘lo’ – l’identita personale come memoria), epperciò si costituisce in-dipendente dalla presenza del medesimo oggetto. Una terza funzione del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo conserva l’oggetto osservato, ma *crea* l'oggetto possibile che non ha osservato. Questa funzione emancipa o libera la co-scienza, non solo, come la memoria, dalla presenza dell’oggetto (s’ricorda o imagina un oggetto assente), ma anche dalla sensibile esteriore realtà del medesimo oggetto, epperciò l’imaginazione può liberamente crearsi una propria oggettività, alla Meinong. Questa facoltà crea non solo l’oggetto composto (compesso combinato) di due oggetti (obble 1 e obble 2) osservati, ossia non crea solo la mera composizione, addizione o combinazione, ma puo creare un oggetto che non consta di questo o quello elemento osservato, ma un oggetto radicalmente imaginario (un circolo quadrato, un numero imaginario), tuttochè le semplici categorie dello spirito e della natura debbano necessariamente fornire all’imaginazione se stesse per possibilitare questa creazione imaginativa o predittiva. Il passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante, ossia dalla bestia all’uomo, è pure una progressiva distinzione della co-scienza in soggettiva ed intersoggetiva. Qui la distinzione de soggetivita e intersoggetivita è una mera distinzione generale dell'”io” dal “non-io” (il ‘tu’). L’ “io” si suppone vivente e pensante *altro* dal non-io (il tu, in combinazione, il noi), in sè stesso parimenti vivente e pensante. La natura si rivela come un *popolo*, popolazione, aggreggato, organismo sociale, di piroti viventi e di pensanti, non si suppone ancora l'altro dal vivente-pensante, ossia il non-vivente e il non-pensante. Si suppone semplicemente l’altro dal moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre, stochiologica e minerale, la vegetabile o l’animale si suppone distinta dal mio io, non però distinta dall’io generalmente parlando, ossia si suppone possedere un loro io analogo a quello della mia co-scienza. Esaminate la radice, ossia gli antichissimi elementi della comunicazione e troverete ogni dove segnata l'universa natura (physis) come vivente e pensante analogicamente alla mia co-scienza. Non vi troverete mai la natura morta colla sua forza cieca, governata da necessità parimenti cieca, vale a dire, la natura della riflessione. Il sentimento esplicito dalla mia co-scienza soggettiva può essere comunicato dall'uno all'altro individuo. È questa comunicazione (o conversazione, nel senso biblico) la prima proprietà per cui una idea cogitabile è distinta da una mera sensazione per definizione non-condivisibile. Nessun sistema di comunicazione puo fornire una sensazione, se questa non sia stata data dal senso (il ‘dato del senso) come tale – nihil est in communicatione quo prius non fuerit in sensu). Potrò, p. es., parlare in qualsivoglia modo di un oggetti visibile. Ma un cieco nato non puo mai ne sentire ne comprendere che sia la visibilità. Se un soggetto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva puo, parlando di un oggetto veduto, richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non puo mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice imaginazione. La prima conseguenza della co-scienza senziente che si sviluppa nella cogitante è che, siccome l’idea o concetto come tale, ossia nella forma della co-scienza cogitante, può essere *trasmessa* (il trasmesso) dal l'uno soggeto all'altro soggetto, non può essere trasmesso il senso come tale, ossia nella forma della co-scienza senziente. Cosi un soggetto è abilitato a sapere quello che non egli, ma l’altro soggetto ha percepito col senso (“Una serpe!”), oppure quello che egli in altro tempo ha percepito col senso, oppure indurre un’idea da quello che presentemente percepisce col senso. Cosi, p. es., la pecora condotta al macello *vede* macellare la sua simile e fortunatamente non solo *non* induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa presente operazione segna un'uccisione; perocchè non possiede l'idea o il concetto della morte. Cosi il soggetto pensante o intellettivo può sapere quello che il senziente non può sapere, e questo sapere nasce dalla facoltà cogitativa o concettuale, per la quale da una sensazione si astrae un’idea generale o un concetto. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato colla memoria, e nell'avvenire (possibile o reale) coll'imaginazione; il soggetto senziente, o bestia, vive astrattamente nella sua sensazione presente. In virtù della sensazione che non può essere indotta in un’idea, egli non possiede, come il pensante, la distinzione di una natura predominante ed insubordinabile al soggetto e di una natura subordinabile e passibile del soggetto. Quest’idea prototipa della forza è un’idea cardinale dello spirito, è stata il primo germe del sacro. Osservate il sacro e lo troverete Dio, non perchè sommamente ragionevole, ma perchè onnipotente. Nella religione spiritualmente più adulta rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto che quella della ragionevolezza, l’attributo eminentissimo del sacro. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato, di essere stato lattante, di essere stato partorito, e cosi pure può sapere che OGNI soggetto, nessuno eccettuato, non vissi oltre una certa mnassima età, ma morirono in quella o prima di quella. Conseguentemente egli sa *che* il soggetto non solo nasce (si genera) e muore (corruption), ma può nascere in varie condizioni e morire in qualsivoglia momento della sua vita. La nozione della nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della co-scienza realizzato la prima volta che la co-scienza senzienle si svolge nella pensante; perciò sapientemente nella “Genesi” è detto che l’uomo (Adamo) prima di peccare, ossia di gustare il frutto del bene e del male, non moriva, ed avendolo gustato dovrà morire. Veramente la co-scienza senziente non può sapere di nascere e di morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione *trasmessa* (il trasmesso) da un soggeto ad altro soggetto, ovvero un'idea indotta dal fatto costante della morte. Questa crisi della co-scienza, ci manifesta che la co-scienza, dalla sensazione svolgendosi nella mentalità, procede in un sistema di distinzioni ideali o possibile o concettuali e astratte che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità, che nasce dalla sensazione, è prototipicamente *imitatrice* o inconica della sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la *forma logica* della sensazione stessa, che progressivamente si trasforma in quella del pensiero. La mentalità è prototipicamente sentiment e funziona in tre caratteristiche funzioni -- attenzione, memoria, ed imaginazione. Da queste tre prototipiche funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La mentalità non più vive nell’immediata sensazione ma crea il conflato temporaneo, e vive nella retrospettiva del passato, e nella prospettiva dell'avvenire. Questo conflato temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre l’immediato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità inducibile dall'osservazione. Da quest’osservazione nasce una seconda idea elementare della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza subordinabile alla nostra. Di qui la mentalità si esercita per subordinare le forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un fatto costante che l’uomo nasce e muore, e finalmente che *io*, come uomo, ma no come persona, sono nato e devo morire. L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un’idea comunissima, è lungi dall'essere tale. La co-scienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi viventi, percepisce la morte come un fatto costante. Ma, come la riſlessione, non arguisce punto che questo fatto, tuttochè costante, sia necessario. Suppongono questi selvaggi che la natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso l’uomo. Ma suppongono parimenti che quest'uccisione non sia una necessità, ma una sfortunata accidentalità. La co-scienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto possiede la sua propria determinazione individuale. Ma proprie determinazioni non affettano un sistema generale della co-scienza umana, che perciò ſu chiamato senso comune. Mentre questo sistema generale della co-scienza è pienamente uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comune in on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia profetico, taumaturgico, e così via. Generalmente parlando, questa co-scienza trascendente subordina la comune, come provano i varii sacerdoti della primitiva religiosità  romana ed etrusca. Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica contradittoria o contraria o opposta a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze generali della pratica oggettività, allora si dice che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente. L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal mero senso comune (in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze pratiche dell'oggettività naturale e spirituale (in questo senso gli alienati sono coloro che comunemente si chiamano pazzi). La co-scienza trascendentale, ossia la co-scienza dominata dall'idealismo, co-scienza essenzialmente poetica, è il polo opposto della co-scienza dominata dalla sensazione, co-scienza essenzialmente prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità, a questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di quest'opposizione archetipica della sua storia. La funzione più essenziale e più generale della mentalità è la comunicazione (il trasmesso). Il primo stadio del trasmesso è l'uso di una radice designativa – de-segna – segna. Qui io non segno che una presentazione o un modo di una presentazione, e sempre si riduce alle semplici categorie dello spazio e del tempo. Il pronome personali non fu primitivamente io e tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a questo primo stadio della lingua, ma, “qui”, “là” (Bradley, this, that, and th’other, thatness, thisness), ecc., categorie dello spazio. Un sistema di comunicazione che consta di radici semplicemente per la che io de-segno non può soddisfare alle esigenze più generali della mentalità, epperciò da questo primo stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il secondo stadio consta della combinazione di una radice con la che de-segno con una radice pre-dicativa, ma tuttavia legate a una sensibile determinazione; cosi, p. es., per designare un oggetto, si sceglie l'attributo sensibile più esplicito in quel l'oggetto, p.es., il verde per designar la pianta, il bianco per designer la neve. Quest’attributo sensibile, sendo necessariamente variabile o contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo stadio si trovano molte lingue dei selvaggi o barbari, i quali scelgono un attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono arrivare a formolare le specie o il genus o l’universale, ma semplicemente oggetti in certe sensibili condizioni. Il terzo stadio usa la categoria propria della mentalità esplicita, la categoria metafisica, per designare l'oggelto; come, p. es., define la pianta non l'individuo verde, ma l’individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed all'acqua. Questa proprietà generica comprende ogni pianta; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. Il gesto è posseduto da ogni animale come inezzo psichico di movimenti o di formalità; ma il gesto che caratterizza la soggettività è appunto il trasmesso psichico che si svolse nella spirituale. La prima radice segna una mera affezioni dell'anima e più tardi si svolse in un segnato meta-forico, per rispondere all'esigenze della progressiva mentalità. Il rapporto fra il canale fisico *espresso* dall'anima e l'anima esprimente (segnante) è quello stesso rapporto, ma più complesso, per il quale un animale segna con un certo definite gesto certa definite affezione della sua anima. L'uomo, sviluppando in sè stesso la propria mentalità e l’inezzo per segnarla, si conobbe come specie comune. Il primo sistema di comunicazione quasi naturale deve essere stato pressochè identico in ogni umano, come ogni pecora bela, ogni cani abbaia ed urla. Dovette essere un inezzo nato con lui e trasmesso senza il minimo bisogno di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La communicazione è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente trattati dal filosofo, il quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti, in molte sue opere. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè  Saggio circa la ragione logica di tutte le cose “Prolegomeni,, Torino, pag. 43 e ss. (confr. anche ibid., pag. 291 e susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.; nella Introduzione alla cultura generale (facente parte del predetto vol.), pag. 120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite. L'uomo che possedette questo sistema di communicazione visse nelle foreste in una aggregazione o società piuttosto fortuita, poco dissimili da quelle dei quadrumani, ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degli altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza. Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i loro nemici, amici, consanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da mangiare. Quest’enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l’affezione alla progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella mentalità. Sono certo che la quasi totalità de’ filosofi non sarà d'accordo su questo puntoe riterrà l’associazione umana come una necessità e non già come un'accidentalità. Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da lui fatta, è stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo particolare carattere. E una mentalita che si manifesta come un'orribile perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima perversione, può nobilitare l’uomo antropofago sopra la bestia istintualmente tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio o barbaro in procinto di essere cattivato dai suoi nemici, può suicidarsi, la bestia non mai (penguino?). L'istinto della propria conservazione individuale è un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano fra gli animali pensanti come il penguino. Tuttochè qui dobbiamo parlare del soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della comunicazione, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggett, senza convenzione, indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla nessuna organizzazione. La comunicazione appartiene cosi al soggetto solitario (il Deutero-Esperanto di Grice ch’inventa al bagno) come al soggetto socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni dell’amore. L’uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla femmina come un mero rapporto erotico occasionale. Abbandona la femmina alle conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati, nudriti ed educati dalla madre. Ma la comunicazione, che persuase la copula dell'amore, è la medesima colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la comunicazione può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si può dire in tesi generale che la comunicazione genera la storia nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento della lingua si conosce lo svolgimento dell'umana mentalità e conseguentemente, delle gesta che ne sono conseguite. Mi furono mandati a casa, in Torino, dal benemerito libraio Loescher tre grossissimi volumi intitolati Paselogices Specimen Theoo editum. Intri, etc. Un filosofo di nome Teofilo Eleutero è a tutti ignoto; e non fu poca la mia mera viglia nel vedere come un'opera filosofica così voluminosa, scritta e stampata in latino, avesse potuto sfuggirmi; giacchè, come adesso ancora nella mia tarda età, specialmente allora ho sempre seguito con vivo interesse il movimento filosofico. La curiosità quindi di sapere chi egli fosse, e qual valore avesse, mi fe' tosto gittare gli occhi sul primo volume che portava la designazione di Prolegomena, e che, come subito vidi, era una Introduzione, o Propedeutica che voglia dirsi, a tutta l'opera. La mia meraviglia crebbe dopo la lettura delle prime pagine del volume, tanto più che ad essa si congiunse il sentimento del l'ammirazione: sentimento che col proseguimento della lettura di venne un vero entusiasmo. Io mi trovava dinanzi ad un hegeliano, e, per giunta, un hegeliano di alto ingegno e di larghi propo siti: i quali propositi erano nientemeno che quelli di una Riforma dell'hegelianismo mediante principii dell'hegelianismo stesso. Comunicai la mia impressione e il mio entusiasmo al signor Loescher, il quale m'informò che l'autore dell'opera era un intrese, di nome C., dalla cui figlia aveva ricevuto l'esemplare dell'opera che mandò a me per prenderne conoscenza. L'impres sione e l'entusiamo potettero ancora, per mezzo della figlia, essere comunicati al filosofo, che era già assai infermo e che poco di poi morì della malattia che da parecchi anni lo travagliava, la paralisi progressiva. Io continuai, naturalmente, a leggere e stu diare la preziosa opera, ed è di essa che accennerò maggiormente in questo ricordo del filosofo, essendo essa indubbiamente il maggior titolo del valore e della posizione filosofica del medesimo. Senonchè, a render meno incompiuto il ricordo, mi si conceda che rilevi alcuni altri particolari della sua complessa personalità. Per cio che concerne biografia e bibliografia mi limiterò alle poche notizie seguenti. Assolti bene o male, anzi piuttosto male che bene, i primi elementi della sua istruzione, comincia a trarre qualche profitto in un collegio di gesuiti a Novara. È una singolare circostanza questa, che un uomo che ebbe sempre uno spirito non solo diverso, ma anche opposto a quello de' gesuiti, avesse proprio da questi avuto il primo impulso e il primo profitto agli studi Ma un profitto maggiore e un vero inizio di studi serii sono da lui fatti a Firenze, ove si reca subito dopo, mettendosi in relazione cogli uomini del famoso Gabinetto Viessieux e consacrandosi tutto agli studî' di lingue, lettere e scienze. Quanto a lingue, tra il tempo che e a Firenze e gli anni che immediatamente seguirono, ne apprese parecchie tra antiche e moderne, allo scopo non solo di legger la filosofia negli idiomi originali, ma anche di viaggiare, per prender diretta notizia di uomini e cose. Infatti, comincia subito a viaggiare percorrendo in lungo e in largo non solo l'Italia, ma anche la Svizzera, la Francia, la Germania, l'Olanda e l'Inghilterra. Gli studî che fa nella prima giovinezza si allargano e diveneno più intensi, quando dopo i viaggi si ritira nella nativa Intra, nella quale accanto agli studi comincia anche a scrivere opere di vario genere, segnatamente filosofiche. Nella sua carriera di filosofo passa per varie fasi, che io (nella mia opera intitolata Notizia degli scritti e del pensiero filosofico di Ceretti) designo e describo come fase poetica, fase filosofica in genere ed hegeliana in ispecie, fase di transizione, fase utopistica e riformativa della società civile, e fase ultima del pensiero cerettiano, la quale è quella del cosìdetto sistema contemplativo. Ad ognuna di queste fasi corrispondono opere, e non poche, che si muovono nell’orbita del pensiero cerettiano gradatamente svolgentesi ed esprimentesi in essa. Le quali opere, se si considera il complesso di esse tutte, costituiscono una massa addirittura ingente, che versa su tutte le parti dello scibile. E, infatti, un filosofo universale. Tanto per dare una idea della predetta massa di saggi, ricordo innanzi tutto quelli che si riferiscono alla fase poetica, la quale gli scalda tanto la mente ed il cuore, che gli fe ' dire: Cari poeti, voi dell'alma mia foste il primo verissimo Messia. Ad essa appartengono le opere poetiche di genere romantico: Eleonora di Toledo; il Prometeo; il Pellegrinaggio in Italia; le Poesie liriche: inoltre, queste altre di genere giocoso, satirico e filosofico e scritte anche in tempo posteriore alla giovinezza: le Avventure di Cecchino, e le Grullerie poetiche. A queste opere scritte in versi se ne potrebbe aggiungere un'altra scritta in prosa e pur facente parte di questa prima fase, cioè quella intitolata Ultime Lettere d'un profugo e costituente un romanzo sul genere del Werther di Goethe e del Jacopo Ortis di Foscolo. Questa prima fase nella quale la sua mente è ancora incomposta ed in via di formazione – è caratterizzata dall'aspirazione di lui ad incarnare in sè stesso i pensieri e i sentimenti de' grandi uomini del suo tempo e di quello che immediatamente lo precede (Cenobium). Il che egli stesso riepiloga ed esprime dicendo. In giovinezza io fui innamorato e delirante alla Werther, patriota furibondo alla Ortis, stravagante alla Byron, dolorante alla Leopardi, misantropico alla Rousseau, satanico alla Voltaire, ateo materialista alla La Mettrie, e finalmente miserabile alla mia propria maniera. Alla seconda fase, che contiene la sua filosofia più eminente e più compiuta, appartiene -- oltre ad un primo abbozzo di opera intitolata Idea circa la genesi e la natura della forza — la grande opera latina predetta “Pasælogices Specimen”. La filosofia di questa fase ha il fondo hegeliano, ma però da lui riformato. Le ultime fasi costituiscono poi una ulteriore deviazione tanto dal pensiero hegeliano in genere, quanto dall'istesso pensiero hegeliano da lui riformato ed esposto in que st'ultima. Come prima deviazione e ad un tempo come transizione alle fasi susseguenti si possono considerare la “Sinossi del l'Enciclopedia speculative”, le “Considerazioni sul sistema della natura e dello spirito; l'Insegnamento filosofico: le quali saggi hanno ancora spiccatamente il carattere di filosofia teoretica ed enciclopedica. La nota principale della suddetta deviazione è che al logo assoluto, il quale nella grande opera latina diviene il principio cerettiano riformativo dell'Idea hegeliana, viene più de terminatamente e accentuatamente sostituito il principio della coscienza assoluta, Coscienza, che, a dir vero, e già apparsa nella stessa opera latina. Quale ulteriore deviazione, ma specificamente appartenenti alla fase utopistica riformativa della società civile, si ricordano le opere intitolate “Sogni e favole” e “Proposta di una riforma civile”. Oltre ad esse, vanno ricordate anche queste altre, le quali però sono scritte in forma di romanzi, cioè, i Viaggi utopistici; l'Inconcludente; Don Simplicio; Don Gregorio; il Protagonista, e qualche altra. La deviazione massima è in quegli altri saggi, che rappresentano più spiccatamente l'ultima fase, nella quale perviene ad una specie di subbiettivismo nullistico, da lui designato, come è detto, col nome di sistema contemplativo. I pensieri di quest'ultima fase appaiono in parecchi altri scritti dell'ultimo tempo di sua vita, come per esempio, per nominarne alcuni, nella Vita di Caramella e nelle Memorie postume. Ma gli scritti mentovati delle diverse fasi, benchè già numerosi, non costituiscono neppur gli scritti tutti del filosofo d'Intra, essendovene una quantità ancora notevole, che possono esser nominati scritti varii ed ai quali appartengono: Biografie, Autobiografie (tra queste, notevolissima, La mia Celebrità), Commedie, Novelle morali, ecc. e persino un Trattato d'Astronomia e un Trattato di Medicina. Come vede il lettore, quella che io chiamava una ingente massa di scritti, e versante sulla universalità dello scibile, non è una denominazione esagerata, ma interamente reale. E ciò basti a dare una idea sommaria degli scritti del filosofo intrese. Per cio che concerne il filosofo propriamente detto, va considerato rispetto al corso della filosofia in genere ed al periodo filosofico idealistico tedesco in ispecie, nel qual periodo si riattacca alla maggiore manifestazione speculativa del medesimo, che è la hegeliana. Si apparecchiò a pigliare il suo posto in quest'ultima, con uno studio e conoscenza non comune, primamente delle varie discipline dello scibile, sopratutto di quelle concernenti la Storia universale e le Scienze positive e naturali d'ogni specie; secondamente, di quelle attinenti alla filosofia propriamente detta. Rispetto a quest'ultima, è veramente ammirabile l'opera del nostro filosofo, che – dopo i suoi profondi studi sui filosofi delle diverse età (non esclusa quella stessa della filosofia indiana ) e in genere ne' testi originali de' medesimi ne ha dato un saggio notevolissimo egli stesso nel primo volume della sua opera latina, cioè ne' mentovati Prolegomeni. Ma nella Storia della filosofia uno de' periodi che più studia e conosciuto è il predetto periodo filosofico tedesco sì ne' filosofi massimi di essa, come Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, si ne' secondarii e pur importanti del medesimo, come Herbart, Schopenhauer ed altri. In questo periodo e naturale che quello che massimamente attraesse e legasse il suo spirito fosse Hegel, siccome quello che compendia in sè, primamente la Storia filosofica generale e, in secondo luogo, lo stesso speciale periodo tedesco. Hegel, in fatti, è da lui considerato come quello che ha raggiunta la più alta forma di speculazione nella scienza filosofica, sopratutto nella disciplina logica. Considerando il filosofo tedesco in tal modo, è naturale che nel complesso ne accogliesse le idee e si riattaccasse a lui. Senonchè, pur accogliendole, non le riteneva scevre di vizii o errori che voglian dirsi. In conseguenza di ciò si propose da una parte, di additare questi vizii, dall'altra, di correggerli. E la correzione, che costituiva per lui una riformazione dell'hegelianismo, non è poi altro che la filosofia cerettiana stessa, quale è concepita ed esposta nella predetta grande opera latina. Ciò posto, seguiamo ora tal pensiero filosofico cerettiano ne suoi tratti fondamentali. Primamente, accogliendo l'hegelianismo come la predetta suprema manifestazione della coscienza filosofica, ei l'accoglie nel general fondo e pensiero del medesimo, fondo e pensiere, che vengono da lui riassunti ne' seguenti principii generali. Primo, L'assoluto è l'Idea. Secondo, l'Idea concreta è lo spirito. Terzo, l'essenza concreta ed assoluta dello Spirito è l'Idea logica. Inoltre, l'evoluzione dialettica del l'Idea, nella quale evoluzione consiste il processo metodico di quest'ultima, avviene e deve avvenire secondo la Nozione, ossia secondo il Concetto, come dice Hegel (dem Begriffe nach). Rispetto a tali principii designati come hegeliani non che come veri e inoppugnabili, e quindi da lui stesso accolti, va però osservato, che di essi non può essere ritenuto come schiettamente e veramente hegeliano il terzo; giacchè, secondo Hegel, l'essenza concreta ed assoluta dello Spirito non è l'Idea logica. Questa è per Hegel l’Idea pura e semplice soltanto, e però immediata ed astratta, non ancora dialetticamente esplicata e, mediante l'esplicazione, fatta concreta. L'essenza assoluta e concreta dello Spirito è per lui invece l’Idea che da puramente e semplicemente logica (da Idea logica ) si è estrinsecata nella Natura (cioè si è fatta Idea naturale o Natura), e, attraverso di questa, è giunta a coscienza di sè, ossia è divenuta spirituale, o, che vale lo stesso, è divenuta Spirito. In altri termini, l'essenza concreta assoluta dello spirito è la coscienza dell'idea, ovvero è l'idea conscia di sé, mentre l'idea logica hegeliana è ancora inconscia. Per cio che concerne i mancamenti e vizii della dottrina hegeliana, essi, secondo C. concernono l'evoluzione dialettica dell’idea, o, che vale lo stesso, concernono l'idea nel suo processo (esplicazione) dialettico. Un primo vizio generale in tale evoluzione è per lui quello che nella logica hegeliana concerne il prius e il risultato dell'idea. Notoriamente per Hegel, benchè l'idea sia, da una parte, il principio universale assoluto, e, dall'altra il principio iniziale dell'evoluzione dialettica assoluta, principio iniziale che farebbe come il prius ideale dialettico, pur non di meno pel filosofo tedesco il vero prius dell'idea non è questo iniziale, ma quello finale a cui l'idea perviene come risultato del processo dialettico, risultato finale che è propriamente lo spirito, ossia l'idea pervenuta a coscienza di sè. È per questo che Hegel sostiene che il vero prius non è l'idea logica, ossia l'idea pura ed estratta, ma lo spirito, che è l'idea che col processo dialettico si è fatta veramente reale e concreta. Or questo prius che Hegel pensa e pone come vero è invece dal Ceretti ritenuto falso, perchè pensato ed ottenuto secondo un procedimento dialettico prestigioso e sconforme al vero ordine logico, che deve avere e seguire il logo (logo che, come tosto si vedrà, è il principio specifico assoluto cerettiano sostituito all’idea hegeliana). Accanto a questo vizio generale, trova e addita vizii particolari affettanti l'idea come logica naturale e spirituale. I vizii spettanti all'idea logica e al corrispondente processo dialettico sono tre. Il primo vizio è che nell'esplicazione dialettica dell'idea logica la genesi di questa sia una genesi della nozione dalla non-nozione. Il secondo vizio è che l'esplicazione dialettica dell'idea logica è piuttosto un'astratta esplicazione delle categorie, anzichè un concreto un rimmanente processo di esplicazione ed IMPLICAZIONE. Il terzo vizio è che il processo dialettico dell'idea logica hegeliana è piuttosto un logo astratto astrattamente esplicantesi e riassumentesi insultato, anzichè la sanzione (o affermazione) di sè stesso nella concreta immanente ed assoluta verificazione della propria posizione, dialettica e riassunzione. Il primo de' tre vizii indicati, riproducendo il mentovato general vizio del prius, ei lo determina meglio designandolo come processo inconscio dell'idea logica, processo che Hegel pensa appunto come inconscio ed C. pensa e vuole invece come conscio. E può dirsi che su tal coscienza dell'idea logica poggia il punto cardinale della differenza dell'idea hegeliana dal logo cerettiano. Quanto al vizio concernente l'idea naturale, esso è in grosso quello stesso dell'astrattezza, testè rilevato, o, che vale lo stesso, della non raggiunta realtà dell'idea nel farsi naturale. Infatti, l'idea logica, estrinsecandosi e divenendo natura, rimane in quello stato astratto e puramente e semplicemente ideale che ha come idea logica, e non giunge a veramente naturarsi, com'ei dice, cioè a farsi vera realtà naturale. E finalmente, quanto allo spirito, od idea hegeliana spirituale, il filosofo intrese vi trova il vizio di quella stessa prestigiosità speculativa (speculativa prestigiositas), che ha trovata e rilevata per la logica. Ed osserva, per giunta, che il general vizio innanzi mentovato dell'idea hegeliana, che cioè essa sia un risultato, diviene più specifico nello spirito, in quanto questo, concepito da Hegel come l'idea che dal suo esser-altro (cioè dalla sua esistenza naturale ) ritorna a sè stessa, ha appunto il carattere speciale di essere un risultato e non una realtà, a dir cosi, originaria. Accanto ai predetti vizii fondamentali concernenti l'idea nelle sue varie forme, logica, naturale e spirituale, ne rileva alcuni altri secondarii; ma noi, limitandoci alla indicazione de ' fondamentali, passiamo ad indicare le corrispondenti emendazioni di essi. Preposto che all’idea hegeliana egli in genere sostituisce il logo, principio universale ed assoluto anch'esso, la prima generale emendazione, concernente il prius ed il risultato dell'idea innanzi esposti, è fatta da C. nel senso che il logo è oiginariamente conscio e non già tale per risultato. Rispetto ai tre vizii dell'idea logica propone come emendazione (Mi piace di riferire colle stesse parole latine del Ceretti il predetto triplice vizio. Hegelianæ logicæ tractationis defectuositas, in exitu prolegome norum designata, est primo, quatenus notionis a non-notione progenesis; secundo, quatenus categoriarum abstracta explicativ, potiusquam concreta explicationis et IMPLICATIONIS immanens contraprocessu osilas; tertio, quatenus abstractus er plicativce dialectica LOGUS in abstracta resumptione, potiusquam in concreta positionis, dialectica et remsumptionis immanente absoluta verificatione suun ipsum sanciens. Pasael. Spec., CENOBIUM) e però riformazione, che il primo venga emendato mediante il principio della generale coscienza logica della nozione od idea hegeliana: il che importa che il logo sia una nozione (idea) che si genera dalla nozione stessa e non già dalla non-nozione (nozione inconscia). La emendazione di questo primo vizio coincide in grosso anche colla generale emendazione predetta del prius e del risultato. La emendazione del secondo vizio è dal nostro filosofo ottenuta col propugnare ed effettuare che la genesi delle categorie logiche non avvenga secondo un processo astratto di sola esplicazione, ma secondo un processo concreto di esplicazione ED IMPLICAZIONE insieme: nel qual processo concreto i momenti astratti di esplicazione si negano come astrattamente tali ed affermano perciò la loro unità. Il terzo finalmente viene emendato, pensando e determinando il logo assoluto in guisa che esso non rimanga un momento astratto di riassunzione (risultato), ma che divenga assoluta ed immanente affermazione (sanzione) di tutto il corso esplicativo, costituendo così un processo e contro-processo, in cui ogni momento è unità dell'astratto e del concreto. Quanto ai vizi relativi all'idea naturale hegeliana, la emendazione (stata già implicitamente accennata nella critica fatta di essi ) consiste in quella che C. appella la NATURAZIONE del logo. E cioè, mentre Hegel concepisce la natura siccome l'idea ritornante a sè stessa dal suo esser-altro (dalla sua esternazione ed alterazione), il Ceretti invece pensa che la natura non è sol tanto ciò, ma è e dev'essere reale naturazione del logo, ossia reale incarnazione ed obbiettivazione del medesimo. E da ultimo, quanto all'emendazione del vizio dell'idea spirituale, essa nel complesso è quella già rilevata nella critica fatta del vizio, e consiste nel concepir la medesima, ossia lo spirito, siccome logo originariamente conscio e non divenente tale per risultato d'un processo. Le predette generali e fondamentali emendazioni, accanto ad altre subordinate e secondarie, son quelle che nella esposizione ed esecuzione delle idee filosofiche costituiscono la filosofia cerettiana riformativa della hegeliana, e filosofia riformativa che forma il contenuto della più volte mentovata grande opera di C., intitolata “Saggio di Panlogica.” Questo Saggio è un'opera veramente colossale ed è l'enciclopedia filosofica cerettiana, modellata sulla nota corrispondente Enciclopedia hegeliana (Encyclopädie der philosophischen duissen schaften) in tre volumi. Concepì la propria enciclopedia vasto disegno da assolversi in otto volume. Il primo (i prolegomeni) come propedeutica a tutta l'opera, propedeutica che ad un tempo contenesse in germe il pensiere della stessa Enciclopedia. Il secondo contenente (col nome di “ESO-LOGIA”) l'esposizione della logica e metafisica. Il terzo, il quarto, ed il una con un quinto (col nome di ‘ESSO-LOGIA’) costituenti la trattazione ed esposizione della filosofia della natura nelle sue tre parti della Meccanica, della Fisica e della Biologia (od Organica). Il sesto, il settimo e l'ottavo (col nome di “SINAUTOLOGIA”) designati a trattare la filosofia dello spirito, distinta anch'essa in tre parti denomi nate Antropologia, Antropo-pedeutica ed Antropo-sofia. Di questa vasta concezione ed esecuzione il principio fondamentale ed assoluto è il Logo, che il lettore vede essere in fondo alla Esologia, Essologia e Sinautologia: Logo che, come si è detto, in Ceretti piglia il posto e la generale significazione del l'idea di Hegel. Il logo Cerettiano, come quest'ultima, è l'universa ed assoluta realtà, e realtà con preminente carattere ideale, comprendente in sè la realtà logica, la naturale e la spirituale. Per tal carattere anche la filosofia cerettiana è idealismo; tanto più veramente assoluto, in quanto, non meno e forse ancor più dell'hegeliano, abbraccia in sè in complessiva unità tutte le forme di Idealismo apparse nel corso storico della filosofia, si in generale le antecedenti all'Idealismo tedesco, si in modo più speciale quelle di quest'ultimo, cioè gli Idealismi subbiettivi Kantiano e Fichtiano, l'Idealismo obbiettivo Schellinghiano, non che lo stesso Idealismo assoluto Hegeliano. Questo carattere di universalità ed assolutezza dell'Idealismo cerettiano è una delle cose più spiccanti, più notevoli ed anche più rilevate dell'Enciclopedia filosofica del filosofo intrese. Quanto al principio assoluto del Logo, va parimenti rilevato, che, per la natura conscia del medesimo innanzi additata, esso vien da C. designato anche come puramente e semplicemente coscienza: per modo che coscienza e logo ricorrono quasi pro miscuamente nell’enciclopedia cerettiana ed anche in altre opere posteriori) come espressive e determinative del principio assoluto. È bene, inoltre, rilevare che tal principio assoluto e dal nostro filosofo anche puramente e semplicemente detto l'assoluto, il quale corrisponde in tutto e per tutto al logo e alla coscienza consi derati come assoluti. Ciò fa intendere come per C. l'elemento conscio costituisce il carattere essenziale del suo principio assoluto, ossia del suo Logo in tutto il suo ambito, mentre per Hegel l'elemento conscio è caratteristico e specifico dello spirito propriamente detto, ossia dell'idea giunta a coscienza di sé. Ciò farà, d'altra parte, pari menti intendere come il filosofo intrese ponga come riformativa dell'hegelianismo la proposizione: L'assoluto è la coscienza. Per cio che concerne la designazione del principio assoluto, rilevo ancora che, ad esprimere il predetto principio assoluto, egli adopera tante altre volte anche le parole idea, nozione, persin Pensiere, come Hegel. Ma, se le espressioni son varie, il senso e valore fondamentale del suo principio è quello del logo pensato come Logo conscio o coscienza assoluta. Conformemente a ciò (e in grosso conformemente all'hegelianismo) il Logo vien pensato nella sua IN-TRINSECA natura e nel suo processo dialettico. Nella sua natura il Logo vien considerato in tre diverse forme di esistenza, cioè: quale è IN sè, quale è PER sè, e quale è IN sè E PER sè. La considerazione del Logo IN sè stesso costituisce la predetta “ESO-LOGIA”, da sis, és, dentro e logos, ossia la dottrina logico-metafisica del logo. Quella del Logo FUORI DI  sè costituisce la “ESSO-LOGIA” (da few, fuori, in latino, “Exologia”), ossia la dottrina filosofica della Natura. Quella del Logo IN sè E PER sė, o come il Ceretti la dice, del Logo IN sè e SON sè, costituisce la “SIN-AUTO-LOGIA”, da “syn” e “autos”, con stesso ), ossia la dottrina dello spirito. Degno di rilievo è inoltre che il logo IN sè è il logo nella sua subbiettività. Il logo FUORI DI sè è il logo nella sua obbiettività. Il logo IN sè e sè e il logo nella unità della sua subbiettività e della sua obbiettività, ossia è il logo subbiettivo-obiettivo, che è poi il logo assoluto. È bene parimenti rilevare che come il logo è per eccellenza il logo conscio, il quale è poi lo spirito o la coscienza, così si designano egualmente lo spirito e la coscienza nella loro subbiettività, nella loro obbiettività, e nell'unità della subbiettività e dell'obbiettività. Il predetto triplice modo di essere della natura del logo soggiace ad un processo esplicativo, che costituisce il processo dialettico, appellato anche metodo dialettico. Questo processo metodico ha, tanto per Hegel quanto per Ceretti, tre momenti anch'esso. Questi momenti, che il filosofo tedesco appella comunemente dell'IN sè, del PER sè e dell'IN sè e del PER sè, dando loro il valore e significato di momento immediato o intellettivo (della speculazione dell'idea ), di momento mediato o razionale negativo, e di momento immediato e mediato insieme, o razionale positivo, vengono invece dal Ceretti appellati (nel complesso però con valore e significato simili a quelli di Hegel) momenti della posizione (thesis, positio), ri-flessione e con-cezione. La posizione, come la parola stessa indica, ha il valore e significato di quella che comunemente (in Fichte, Schelling ed Hegel), ricorre come “tesi”, mentre la ri-flessione ha significato e valore di contraddizione (opposizione, ob-positio, contra-posizione, antitesi ) e la concezione significato e valore di conciliazione (com-posizione, sintesi) degli opposti, sintesi della tesi e dall'antitesi. La triplicità delle forme di esistenza del logo (quelle di Eso-Logo, posizione; Esso-Logo; contra-posizione; e Sinauto-Logo, com-posizione, con le corrispondenti dottrine di Esologia, Essologia e Sinantologia, costituisce per C. i tre Cicli di quest'ultimo. Cicli che, mentre son tre, pur ne costitui solo sotto triplice forma: costituiscono cioè il logo assoluto uni-trino. Un altro punto pur degno di rilievo e caratteristico è il modo come determina la considerazione filosofica o speculativa de tre cicli. La considerazione del primo, ossia dell'Esologia (posizione) per lui il pensiero del Pensiero (“cogitatio cogitationis”, l’implicazione o impiegazione dell’impiegazione) quella del scono un ma secondo o dell'Essologia è il Pensiero del Pensato (“cogitatio cogitatis” – implicazione dell’implicato, o impiegazione dell’impiegato, e quella del terzo, o della Sinautologia, è il Pensiero del Pensante (“cogitatio cogitantis,” implicazione dell’implicante, impiegazione dell’impiegante). Anche nell'hegelianismo il Pensiero assoluto è identificato col l'idea assoluta, in quella guisa che il Ceretti identifica parimenti il Pensiero assoluto col Logo assoluto. Però nella espressione e determinazione cerettiana la cosa ha un significato più specifico, e propriamente questo, che cioè l'Esologia (posizione) è la considerazione del Pensiero in sè stesso, del pensiero puro hegeliano e potrei anche soggiungere, della ragion pura kantiana. L’Essologia (contra-posizione, impiegato) è la considerazione del Pensiero del Pensato, cioè del Pensiero non più in sè, puro ed astratto, del Pensiero estrinsecato (fatto per sè), obbiettivato. La Sinautologia (com-posizione) la considerazione del Pensiero del Pensante (impiegante: implicazione come relazione tra il implicante e l’implicato) cioè del pensiero come esistente ed esercitantesi nel subbietto pensante. Potrei dire che la predetta triplice considerazione è quella del Pensiero puro e semplice, quella del Pensiero come obbietto di sè medesimo (estrinsecatosi fuori di sè nella natura), e quella del pensiero astratto ed operante come proprio subbietto (nella coscienza del pensiero stesso o nello Spirito ). Dopo le antecedenti generalità, passiamo a considerare parte per parte il logo nelle sue tre forme di esistenza nella logico metafisica (Esogia, posizione), nella naturale (Essologia, contra-posizione) e nella spirituale (Sinautologia, composizione). La dottrina logico-metafisica, conformemente alla hegeliana, è pur distinta in tre parti che anche per lui, come per Hegel, son quelle dell'Essere, dell’Essenza e del Concetto: solo che queste nel filosofo tedesco si susseguono nel modo indicato e nel filosofo intrese mutan posto, diventando primo il Concetto, secondo l'Essere e terzo l’Essenza. Questo mutamento diposto nella serie porta poi naturalmente con sè un corrispondente mutamento nel processo dialettico. Le dottrine di queste tre parti così spostate hanno in Ceretti i nomi speciali di “PRO-LOGIA” (concetto); “DIA-LOGIA” (essere); e “AUTO-LOGIA” (essenza). La PRO-LOGIA con sidera il Logo esologico (ESO-LOGO) o logico-metafisico, nella astratta identità del Pensiero (impiegazione). La DIA-LOGIA (CONTRA-POSIZIONE) considera il logo nella differenza (IMPIEGATO) di esso. La AUTO-LOGIA (COM-POSIZIONE) considera il logo nella unità sintetica (IMPIEGANTE) dell'identità E della differenza del Pensiero stesso. Non credo che il nostro filosofo abbia avuto giusta ragione d'invertire l'ordine de' tre principii fondamentali predetti. Ma, checchè sia di ciò, è bene di allegare la ragione dell'invertimento da lui ritenuto razionale e necessario. La quale, a suo credere, è che per il logo conscio, o che vale lo stesso, per la Coscienza il primo (prius) PRO-LOGICO (cioè il primo con cui deve cominciar la logica) non dev'essere nè indeterminato, come sono l'essere di Hegel e di Rosmini-Serbati, nè determinato (impiegato), come sono l'Io di Fichte e la predetta Ragione di Schelling, ma dev'essere lo stesso prius, nel quale sieno implicitamente contenute tanto la indeterminazione quanto la determinazione. E un sì fatto prius è la PRO-POSIZIONE, che è il primo ed iniziale momento della sua Pro-logia, il quale è più primitivo e più semplice del giudizio (A e B) che ne costituisce il secondo, al quale poi segue il terzo unitivo de' due primi, che è il Sillogismo (CONIUNCTIO, CO-RAZIONALE). Quanto alla natura de suddetti momenti della Pro-logia, la Pro-posizione è la immediata ed indistinta coscienza logica, la quale, appunto per la sua indistinzione, non è nè subbiettiva nè obbiettiva. Il Giudizio (la proposizione pensata) invece è la coscienza logica, che dalla indistinzione od indifferenza si esplica e passa nella subbiettività ed obbiettività di sè medesima. E da ultimo il Sillogismo (coniuctio, co-razionale) è la subbiettività della coscienza logica, la cui attività consiste nell'esplicare se stessa, esplicazione di sè stessa, che in fondo è poi una obbiettivazione della subbiettività. Dato tal concetto generale de' momenti della pro-logia, il nostro autore passa a considerare e determinar ciascuno in se medesimo, ed inoltre secondo il predetto processo metodico tricotomico della Posizione (Proposizione, impiegazione), della Riflessione (contra-posizione, impiegato) e della Concezione (com-posizione, impiegante). Conformemente a ciò, distingue la Pro-posizione in “posta”, ri-flessa e concepita; e in posto, riflesso e concepito, distingue e determina parimenti sì il giudizio (proposizione pensato) che il Sillogismo (impiegante, composizione). La trattazione ed esposizione di ciò è amplissima, specialmente quella del Sillogismo; ed è non solo amplissima, ma anche note volissima per le molteplici determinazioni logiche ed ontologiche non che illustrazioni ed applicazioni d'ogni genere alle diverse parti dello scibile e della stessa realtà. La trattazione è di tanto interesse che è degnissima di esser presa da ognuno in considerazione anche oggi alla distanza di una sessantina d'anni, dacchè fu pensata ed esposta. Non potendo entrare nelle particolarità a far intendere il pensiero cerettiano sì nella concezione de' momenti della predetta pro-logia sì nel passaggio da questa alla Dia-logia, allegherò un luogo nel quale l'autore lo ri-epiloga, e che è questo. Il pensiero pro-logico, uscito e passato dalla sua generalità formale (cioè, dalla pro-posizione) colla particolarità formale della sua generalità (cioè, col giudizio, impiegato) nell'unità formale della sua generalità e della sua particolarità (cioè, nel sillogismo, la com-posizione, impiegante), si concepisce come sistema metodico della RAZIONALITà, ossia come forma assoluta delle forme. La forma sillogistica delle forme pensabili insegna che il pensiero è essenzialmente il sistema di sè, e non v'è sistema all'in fuori del sistema del pensiero, poichè l'altro del pensiero non può essere fatto (posto) da altro che dal pensiero. Inoltre, insegna che il sistema assoluto del pensiero è il sillogismo giudicativo della proposizione, perciò l'assoluto non può esser concepito altrimenti. Cosi a pag. 125 della Ragione Logica di tutte le cose, vol. II. Esologia, nella versione dal latino (Torino, Baldini)) che nella forma sillogistica. Questa concezione porta con sè la necessità logica di sè, poichè è la nozione della nozione. Il sillogismo assoluto, come pro-logico, non è più che la formalità (la forma assoluta del logo, la quale invoca l'essenzialità assoluta di sè da esplicare in sè da sè stesso. Quindi il sillogismo passa dalla sua subbiettività assoluta ad esplicare la sua obbiettività IMPLICITA assoluta. Questa obbiettività è la verità della subbiettività sillogistica assoluta. Ciò posto, quella che ora effettua il passaggio e progresso dalla forma e dalla subbiettività del Pensiero alla essenzialità ed obbiettività del medesimo è la Dia-logia, che per eccellenza è la dottrina delle categorie logiche del Pensiero. Corrispondendo la dottrina dialogica cerettiana alle dottrine logiche hegeliane dell'Essere e dell'Essenza prese insieme, ne segue che le categorie, onde qui è parola, sono in grosso quelle che ricorrono nelle predette due dottrine hegeliane. Quanto al concetto della categoria e alla funzione logica della categorizzazione, sono importanti queste parole del filosofo intrese. La categoria (predicamento) è propriamente la predicazione del Pensiere fondata dallo stesso pensiere come necessaria; e la categorizzazione del Pensiere è l'atto più nobile della speculazione filosofica e la più alta concezione dal Pensiere umano. Nè meno importanti in proposito sono gli additamenti che fa intorno alla evoluzione storica delle categorie presso i diversi filosofi e corrispondenti scuole che spiccano intorno ad esse. Percio che concerne le categorie trattate e sviluppate nella Dialogia, le fondamentali son quelle dell'Essere, dell’Essenza, e del l'Esistenza, come costituenti la triplicità dialogica per eccellenza; e da queste fondamentali se ne sviluppano altre costituenti momenti subordinati, ma non meno importanti. L'Essere, infatti, è da prima il Logo generale ed indeterminato (est logus conscentiæ generalis), ma esso si particolarizza e de termina in sè medesimo in ulteriori principii categorici. Per esempio, si distingue e particolarizza come QUALITATIVO, QUANTITATIVO, E MODALE, sorgendo così LE TRE CATEGORIE DELLA QUALITà, della QUANTITà e della MODALITà (misura). Ed inoltre l'Essere nella sua stessa generità (innanzi alla predetta particolarizzazione dunque) è essere (pro-posizione), non-essere (opposizione o contraposizione) e divenire (composizione): (esse, non-esse, latino FIERI, perduto nel volgare). Come, d'altra parte, le TRE CATEGORIE della QUALITà, QUANTITà e MODALITà alla lor volta si distinguono e particolarizzano in altre. Chi conosce la logica di Hegel vede subito nelle predette categorie cerettiane la simiglianza con le corrispondenti hegeliane. Ed è forse questa la parte, nella quale si tiene più da vicino a quello, mentre in altre parti vi sono non poche dissimiglianze. Nel predetto citato volume della Esologia, pag. 132. 4ecc. Dall'essere il processo dia-logico conduce alla seconda categoria fondamentale predetta, cioè alla Essenza la quale non è altro che la particolarizzazione dello stesso Essere (Esse suam absolutam particolaritatem adeptum est Essentia). Ciò che si è detto avvenire per la categoria fondamentale del l'essere avviene anche per l’essenza, che cioè anche questa, alla sua volta distinguendosi e particolarizzandosi in sè medesima, ne produce di ulteriori, come quelle del fondamento, della sostanza, della materia, ecc. E quanto alla terza categoria fondamentale, cioè l'esistenza, essa è l'unità dell'essere e dell'essenza (INSISTENZA, ESISTENZA, CONSISTENZA). Ognuno nella “Ex-istentia” riconosce l'Esse come particolarizzato. Ma d'altra parte, nella particolarizzazione dell'Essere si specifica e manifesta anche l'elemento dell'Essenza, per forma che l'esistenza risulta siccome una manifestazione dell'essenza (“EX-SISTENTIA est essentia manifesta ). E da ultimo l'Esistenza (E-SISTENZA, EX-SISTENZA) dà anch'essa origine ad altre categorie subordinate, come realtà, necessità, La terza parte della Logica (o della Eso-logia ) cerettiana, cioè l'Auto-logia, si fonda, sviluppa e sistematizza in tre categorie fondamentali, che son quelle di Sapere, Volere, Agire (Scire, Velle, Agere ), le quali sono in corrispondenza di quelle che ricorrono nella terza parte della Logica hegeliana, e che sono l'idea del conoscere (die idee des erkennens ), l'idea del bene (die idee des guten) e l'idea assoluta (die absolute idee). Va però osservato che il volere e l'agire che in Hegel si congiungono nell’idea del bene, e costituiscono l’idea pratica, in C. appariscono, al contrario, come momenti e categorie distinte. Questa terza parte della Logica del Ceretti è una delle più belle e ad un tempo una di quelle in cui il Ceretti è come più originale e più indipendente da Hegel. Il modo come vede la distinzione, la relazione e la unificazione del sapere, del Volere e dell'Agire è qualche cosa di profondo, di stupendo e di vero, e lo si vede più chiaramente e più determinatamente di quel che possa vedersi nel, pure grandissimo, filosofo tedesco. Ciò viene dal perchè i tre momenti, che in Hegel sono come ancora implicati e inviluppati, in C. ricorrono come più sviluppati e ad un tempo più sistemati. Il pensiero cerettiano dell'auto-logia è (secondo che lo espressi nella mia Notizia degli scritti del pensiere filosofico del Ceretti) che l'assoluto è la coscienza logica che si sistematizza in se stessa, per quindi sistemarsi fuori di sè allo scopo finale di sistemarsi in sè e per sè come assoluta unità di sè stessa. L'Auto-logia costituisce un sillogismo assoluto (cioè una connessa triplicità assoluta), i cui termini sono i predetti di Sapere, Volere, Agire. Nella Coscienza assoluta il Sapere è l'essere del Volere. Nel Volere c'è, infatti, esterîorazione del Saputo. Il volere è l'essenza del Sapere. L’agire è l'esistenza del Volere. Tutti e tre insieme costituiscono l'unitrinità della Coscienza. Anche le tre predette categorie si distinguono e particolarizzano in altre. Il Sapere si svolge ne ' momenti subordinati (i quali son tre sotto-categorie anch'essi) la prima sottocategoria di sapere immediato, la seconda sottocategoria di sapere mediato, e la terza sottocategoria di sapere assoluto. Il Volere si distingue e particolarizza alla sua volta nelle tre forme sottocategoriche. Prima sottocategoria del Volere subbiettivo. Seconda categoria del volere obbiettivo. Terza categoria del volere assoluto. La categoria auto-logica dell’Agire si particolarizza nelle sue corrispondenti tre sottocategorie. Prima sottocategoria di “agire attuoso”, aagire come atto puro e semplice. Una seconda sottocategoria come Agire volonteroso. Terza sottocategoria come Agire concettuale.Queste tre azioni o funzioni categoriche dell’Agire le designa come Agere actum, Agere voluntatem e Agere notionem. Questo è in breve il concetto e disegno della prima parte della grande opera enciclopedica del nostro filosofo. La seconda parte, quella del Logo FUORI sè (EXO-LOGO, esso-logo) o del Logo nella sua obbiettivazione, cioè la Filosofia della Natura, ha avuta una estesissima trattazione; e trattazione in cui il nostro filosofo si mostra non poco originale ed indipendente rispetto alla corrispondente parte della Enciclopedia hegeliana. Essa è PER NOI ITALIANI TANTO più importante, in quanto non vi è in Italia, neppure presso i nostri filosofi maggiori moderni, una sola opera che, prima di questa di C., meriti il nome di filosofia della Natura nel senso ampio, vero e moderno della parola. Io ho scritto su questa parte della grande opera cerettiana tre lunghissime Introduzioni ai tre volumi che vi si riferiscono, le quali, riunite insieme e pubblicate sotto il titolo di “Filosofia della Natura” formano un'opera di ben 487 pagine; e in questa ho ampiamente chiarita e dimostrata la verità di tutto ciò. Quanto al cenno che posso farne qui, specialmente a cagione della vastità di trattazione che ha in C., esso non può consistere in altro se non nella pura e semplice indicazione del disegno, della materia e dell'andamento della trattazione stessa. Premessa la determinazione della posizione e del concetto della filosofia della Natura nel Sistema pan-logico, passa alla considerazione di un punto importantissimo, quello cioè della evoluzione storica della concezione filosofica della natura, evoluzione che, secondo lui, passa per tre gradi e corrispondenti forme della coscienza filosofica, la forma estetico-teologica (o sentimentale) la forma empirico -matematica (o intellettiva e riflessiva ) e la forma speculativa propriamente detta (o concetturale). E fa in propo sito una stupenda rassegna storica di queste forme, giungendo all'ultima, ossia alla hegeliana, alla quale egli si riattacca, ulteriormente sviluppandola e riformandola in ciò che ha di difettivo. Procede quindi alla partizione della Filosofia della Natura, dividendola come abbiam detto in Meccanica, Fisica e Biologia, conformemente alla Natura distinta in sè stessa in meccanica, fisica, e biotica (vivente). Carattere costitutivo della Natura meccanica è la QUANTITà, della fisica la qualità, e della vivente l'UNITà (composizione) della quantità e della qualità, la quale unità è poi la MODALITà o la misura della medesima. Quanto all'unità inscindibile delle tre parti distinte e de' corrispondenti tre' caratteri della natura, sono notevoli e riassuntive queste parole del filosofo intrese. Cioè: Il meccanismo é ove è la fisica (la natura fisica), e la fisica é ove è il meccanismo; e se vi sono il meccanismo e la fisica, vi è anche la natura vivente. Ad intendere meglio il rapporto ed il corrispondente concetto filosofico delle predette tre parti e de' tre predetti corrispondenti caratteri, arreca un esempio illustrativo, che è bene di riprodurre anche qui. Il meccanismo suppone necessariamente l'esteriorità reciproca dei suoi termini. Quando questa esteriorità, passata nella sua interiorità, nella sua unità inseparabile, trascenda sé a sè esteriore, non versa più in un piano o campo meccanico, il quale ammetta per sè alcuna intrinsecazione qualitativa della esteriorità meccanica, ma versa propriamente nella natura fisica del meccanismo (in mechanismi physi), la quale è la à passatQUANTITa nella sua QUALITà che deve esplicarsi. Così, ad esempio, in qualunque modo supponiamo il ferro, diviso, figurato, posto in movimento, ecc., esso non cessa di essere ferro. E quando per azioni esterne, come ad esempio, per l'ossidazione, cessi di essere ferro, non consideriamo tali azioni come meccaniche, perchè due modi della materia (l'ossigeno e il ferro) sono divenuti un solo modo (neutrale), il quale non ammette più alcuna co-alteriorità esterna di fattori (essenzialissima al meccanismo, ma è in sè l'unità qualificata de' quanti, la natura fisica del meccanismo. La quale unità è poi LA VITA, ossia, quel principio grazie al quale l'alteriorità meccanica si neutralizza fisicamente, e la neutralità fisica si alteriora (si fa altra ) meccanicamente: il che, in quanto è nella circoscrizione essologica (naturale), è la vita. Ciò posto, concependo la natura meccanica o il meccanismo come il sistema della quantità, passa alla reale considerazione e corrispondente sistemazione filosofica di tutti i principii (detti anche categorie naturali) della medesima come spazio, tempo, moto, ecc. Conformemente a ciò, concependo la natura fisica parimenti come il sistema della qualità, svolge i principii o categorie naturali di essa, come etere (o materia eterea), luce calore, magnetismo, elettricità ecc. E s'intende che ciò che è detto della natura meccanica e della fisica, va detto anche della NATURA VIVENTE, della quale, come unità concreta delle due antecedenti, si vvolgono, determinano e sistematizzano i corrispondenti principii e momenti. Questi principii, coi relativi sistemi vitali, sono nella loro generalità e progressività evolutiva la vita cosmica od URANICA, la vita geologica e la vita fito-zoologica. Per questa intende la predetta reciproca esteriorità de' termini. La vastità di conoscenza delle discipline naturali non che la forza speculativa ch'ei mostra nell'intenderne e collocarne i principii nel suo vasto disegno del sistema panto-logico sono tali da fare de C. una delle menti filosofiche più vaste e più profonde del nostro paese. Col terzo volume della Filosofia della Natura, che è il quinto della grande opera pan-logica, questa rimase interrotta; però se rimase interrotta, la iattura non è stata nè intera nè irreparabile. Giacchè i cenni e relativi concetti riformativi anche della terza parte del sistema pan-logico già delineati primamente ne' Prolegomeni, poscia qua e là considerati negli stessi quattro susseguenti volumi, son tali e tanti da potersi fare un concetto chiaro e de terminato anche di esso. Ma, per giunta ed ulteriore integrazione di questa, lascia due saggi che concernono proprio questa terza parte, cioè le due già mentovate intitolate, l'una, Considerazioni sopra il sistema generale dello spirito ecc. (Torino), l'altra, Sinossi del l'enciclopedia speculativa (Torino). Un brevissimo cenno anche di questa terza parte è il seguente. Quanto al concetto, obbietto e partizione di essa, rappresen tando la prima parte la subbiettività del logo o della coscienza assoluta, e la seconda la obbiettività, questa terza rappresenta l'assoluta unità delle medesime: assoluta unità, che vien cosi ad essere la Coscienza subbiettiva obbiettivata e ad un tempo la Coscienza obbiettiva subbiettivata. Or questa Coscienza risultata tale è ciò che C. (conformemente ad Hegel) appella comune mente anche spirito, il quale è appunto l'obbietto di questa parte da lui denominata sin-auto-logia. Intanto, siccome lo Spirito, benchè già sorgente nella stessa animalità, pur non giunge alla sua reale manifestazione, esistenza e verità se non nella umanità, così divien questa lo speciale obbietto della sin-auto-logia. La quale perciò è dal nostro filosofo, designata come speculante l'Uomo, primamente nella Subbiettività secondamente nella Obbiettività, e in terzo luogo nella Assolutezza del medesimo: Assolutezza, che è l'unità della Subbiettività e dell'Obbiettività. Di questa triplice considerazione, o meglio speculazione, la prima costituisce ciò che egli chiama l'Antropo-logia, la seconda l'Antropo-pedeutica, la terza, l'Antropo-sofia. I lettori che conoscono la dottrina hegeliana vedranno tosto la simiglianza della dottrina cerettiana colla dottrina hegeliana dello Spirito, distinta in quella di Spirito subbiettivo, spirito obbiettivo e Spirito assoluto. Senonché, se c'è simiglianza nella generale concezione, c'è anche una notevole differenza nella portico. L'uomo è la concreta verità dello Spirito (Homo est spiritus concreta veritas). lare trattazione della medesima. Per dire ancora qualche cosa della concezione e partizione cerettiana della predetta Sin-auto-logia rilevo che l'Antropo-logia considera l'Uomo come Subbietto generale. E come tal Subbietto consiste dell'elemento fisico o corporeo e dell'elemento meta-fisico ossia animico, così essa è primamente Psico-fisio-logia. Indi considera nel generale subbietto umano l'elemento, dirò così specificamente umano, ossia la mente, ed è Noo-logia; in terzo luogo, la mente, o l'attività teoretica, si realizza come attività pratica e allora l’Antropo-logia nel suo terzo momento è Prasseo-logia o dottrina del l'azione spirituale. La Psico-fisio-logia, la Noo-logia e la Prasseo-logia hanno alla lor volta principii, ossia momenti subordinati, e vengono anche questi considerati, accolti e sistemati nella Antropo-logia L'Antropo-pedeutica, all'opposto della Antro-pologia che consi sidera l'Uomo subbiettivo, considera l'Uomo obbiettivo, ossia l'uomo nella obbiettivazione della propria subbiettività: la quale obbiettivazione costituisce, primamente, la dialettica mondiale umana e produce ciocchè si appella la storia; è in secondo luogo il logo sistematico della dialettica obbiettiva, che in senso lato è ciocchè si appella la didattica; e in terzo luogo è la stessa obbiettività sistemata nel Subbietto, che è quella che si designa col nome di DIRITTO. Che anche queste tre parti dell'Antropo-pedeutica (Storia, Didattica, Diritto), si sviluppino, particolarizzino e sistematizzino in ulteriori sfere, attività, principii, ecc., lo s'intende da sè. E cosi viene assolta anche questa parte della Sinautologia. E finalmente vien considerata e trattata l'ultima sfera di questa, cioè l'Antropo-sofia, la quale ha che fare coll'uomo considerato nella sua assolutezza, ovvero nella sua Coscienza assoluta, e com prende la sua attività artistica, religiosa e filosofica. L'Arte è la contemplazione e produzione del bello, del buono e del vero mediante l'ispirazione estetica: la Religione e l'apprensione, rivelazione e culto del divino, e tramezza la manifestazione estetica e la concezione filosofica; la FILO-SOFIA sviluppa la immediata apprensione religiosa nella mediata concezione del pensiero assoluto. La triplice ed assoluta attività dello spirito, artistica, religiosa e filosofica costituisce l'ultimo e supremo sillogismo del Logo assoluto o della Coscienza assoluta, e con esso si chiude il Sistema pan-logico. Tale è in nuce il vasto pensiere filosofico cerettiano e la vasta esecuzione del medesimo. Per ciò che è riferito in queste poche pagine rimando il lettore ai miei molteplici lavori intorno al Ceretti, specialmente alla Notizia degli scritti e del pensiere filosofico non che alla Filosofia della Natura » del medesimo. E soggiungo e annunzio qui volentieri che intorno a quest'uomo, che ha occupato due decenni di studi della mia vita, son presso a finire l'ultima mia opera: opera che consiste in una estesa e particolareggiata esposizione di tutto intero il suo sistema panlogico, compresa la sinautologia. Ho forse speso intorno a lui più tempo di quel che conveniva per i miei propri studî e lavori. Ma non me nepento, non solo perchè è stato di giovamento a questi stessi, ma specialmente perchè ho contribuito a far conoscere un uomo, che fa onore grandissimo alla filosofia in genere e alla filosofia italiana in ispecie. Grazie! Diamo a giustificazione un elenco, che pur non si può dire ancora com-  pleto, delle opere postume di  C.: Traduzioni varie dal latino, francese, tedesco, inglese. (VIRGILIO, ORAZIO, Lamartine, Kozbue, Schiller, Shakespeare, Byron e Thompson).  Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre canti, versi sciolti con liriche  intercalate, varie liriche. Ulttime lettere di un Profugo. Romanzo in prosa, t volume.  Pellegrinaggio in Italia. Canti. Poesie Uriche.  Prometeo. Poema.  Storia del diritto Canonico.  Avventure di Cecchino. Poema. Miscellanee filosofiche. Scienze naturali e considerazioni storiche.  Scritti. Salùi. Sogni e Favole (umorismo trascendente), Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con versione latina (imitazione del greco e latino della Chiesa primitiva). Opuscolo. Grullerie Poetiche (umorismo parodiaco) Massime e Dialoghi. I Conferenti. Commedia nebulosa. Ormuzd. Dramma mistico. Synùp s i dell' Enciclopédia Siwr.idatirn -TSimplizio. Romanzo. Idee radicali delle discipline finite e delle matematiche empirico-induttive. Cavalier Sriovannino. Romanzo.  Manuale di medicina pratica.  L'Inconcludente. Romanzo.  Lo Zio Giuseppe. Commedia. Considerazioni sopra il anatema generale dello spirito entro i limiti  ' della riflessione.  Considerazion i circa il sustema della natura entro i limiti della riflessione. Viaggi utopistici. Il Protagonista. Proposta di una riforma sociale. Considerazioni generali circa la caratteristica spiritualità dell'Italia. Insegnamento filosofico.Gregorio. Romanzo. Novellette morali Itinerario d'un Inqualificabile. Trattato di Astronomia. Introduzione alla coltura generale. I volume.   _ Id. La Divina Commedia. Vita di Giustino Caramella scritta da se stesso. 1 volume.   Id. Vita di due Comici. 1 volume, ld. Vita di Virginia Bonaventura. Sonnambulo. La mia celebrità. Inventario delle mie vicissitudini mondane. Memorie Posthume. Stramberie philosophiche. La pubblicazione, che si inizia con questo primo volume, è  un monumento che una figlia pia innalza alla memoria di un  amatissimo padre, non per adempiere ad una espressa o tacita  di lui volontà, ma piuttosto in contrasto a questa, e perchè gli  studiosi conoscano, almeno dopo la di lui morte, la profondità  del sapere che egli aveva potuto condensare nella propria mente,  e le diuturne e dotte speculazioni da lui compiute nella sua non  lunga vita.  E affinchè niuna meraviglia possa solére .dalla pubblicazione  stessa, e dalle opere che ne sono l'oggetto, in quanto che e l'una,  e le altre, si differenziano alquanto dal comune, parve opportuno  e conveniente di premettere una breve notizia, che dica al lettore  chi sia stalo, e come abbia vissuto fautore, e con quali intendi-  menti, e con quali criteri si diano alla luce i suoi scritti, che egli  non ha creduto di diffondere. C. ha i suoi natali in Intra, la città più popolosa tra quelle che si adagiano sulle amenissime rive del Lago Maggiore, e meritamente celebrata per le  sue potenti industrie, dal cav. Pietro. Il padre suo, uomo di chiaro ingegno, tutto compreso della  necessità dell'istruzione e della educazione, prerogativa abbastanza mia in quei tempi, e fervei ile pi opugualure di ugni istituzione, che ha per iscopo di promuovere quelle due fonti di  civile e materiale benessere, provvide tosto a coltivare la  mente del figliuolo. Seguendo però l'inveterala consuetudine avita,  dapprima l'affida alle cure di questo e quell'abate, che non riuscirono ad illuminare gran che il di lui intelletto irrequieto, come  egli stesso ha poi umoristicamente narrato in interessantissime  pagine. Di poi lo alloga nel seminario  di Arona e nel Collegio di Novara. Ma il giovanetto, vivace di animo, e la mente precocemente  inlesa ad altri ideali, poco o nulla approdilo di quei primi studi;  e liberatosi alfine dalle pastoie degli insegnanti e del vivere collegiale, tolse a maestro se medesimo, sorretto solo dalla terrea  tenacità del suo volere, e dall'imperioso ed irresistibile bisogno  di sapere. In breve, il diremo con frase che nel caso nostro non  è punlo rellorica, da fondo all'universo scibile; apprese a  parlare ben selle delle moderne lingue, e delle morte, al latino  insegnatogli dai precettori, aggiunse profonde cognizioni del  greco, dell'ebraico e del sanscrito. Si reca a Firenze, dove soggiorna qualche  anno, stringendo amicizia coi primari ingegni di quel tempo,  specie con Capponi, Niccolini, e con quella chiara  pleiade di filosofi che frequentarono il gabinetto del Vieusseux.  Più tardi, desioso di vedere paesi e persone, e fidente nel suo  temperamento robusto e nella florida salute, si da a lunghi e  singolari viaggi. Percorse in vero, più volle, e quasi sempre a piedi, l'Italia  peninsulare, la Sicilia, la Germania, la Francia, e l'Inghilterra, in  cui fece lunga dimora. Ed è tanto in lui il desi-  ci) 1 suoi concittadini venerano ancora in lui il fondatore di un Asilo infantile, die è Ira i pili antichi, eil b modello a Inlla Italia, e lo zelante Sovra  Jtiteiifh'iitf, per più di 'ìi) unni, delle scuole elementari riviene.  derio di penetrare nei più ascosi recessi e della natura, e dell'animo umano, che attraversa i più malagevoli passaggi dei Pirenei, accompagnandosi colle frotte di zingari e malviventi,  clie abbondavano in quei paraggi.  Nulla lascia in quelle sue peregrinazioni di intentato, o inesplorato, che può servirgli nello studio dei suoi simili, e dell’abitudini e costumi dei diversi ordini sociali; e dalle più alle  società, dai primari alberghi, scese alle più umili taverne, mescolandosi colle infime classi, per indagarne i sentimenti e le tendenze. Dopo siffatto giro per l'Europa ritornò in patria, ove si compone nella pace famigliare, e si da tutto a viaggi di altro  genere, vogliamo dire a spedizioni lunghe e laboriose nel campo  immenso del sapere, leggendo, e più meditando, le opere dei  massimi filosofi e pensatori d'Italia, ed arricchendo la mente di un incommensurabile tesoro di cognizioni, di osservazioni e di pensieri   È notabile questo periodo della sua vita, in cui il nostro  autore condensa, per cosi dire, tutta l'umana sapienza nel suo intelletto; chè dopo d'allora, e in ispecie negli ultimi anni del  viver suo, nei quali fu pur massima la fecondità dello scrivere,  ben poco legge, ed anzi si può asserire che più non consulta  nel dettare libro alcuno, ma lutto quanto gli occorresse, evocasse  dalla sua tenacissima memoria, dallo sterminalo accumulamento  di cognizioni, che ha in mente. Leniti e progressiva paralisi lo ha quasi immobilizzato ; egli dove  ricorrere quindi all'alimi aiuto per ugni «no movimento, e i suoi Lunigliari  asseriscono che da anni ed anni non ha mai ad ordinare di recargli libro alcuno  da consultale, mentre detta continuamente per molte ore del giorno. Era d'altronde ima delle massime da lui predicate, che l'ingegno vero approfitta poco  del materiale altrui, bensì moltissimo dell'abitudine del coiu-etttrantento e della  riflessione; e solpva dirr fhp gran parte delle sue cognizioni non le (Tivca acqui-  state eolla lettura, ma colla meditazione e quasi per una catena di messori'  derivazioni. Infatti la maggior quantità dui suoi scritti data dall'epoca che cessa  di leggere.  Manda ai torcili un primo saggio del buu ingegno,  un'opera letteraria, intitolata: II Pellegrinaggio in Italia di Alessandro Goreni, poema in ottava rima, ove con poesia profondamente inlima, sostanzialmente nuova ed originale, da sfogo ai  molti pensieri ed affetti, di cui aveva ripieno l'animo. E poco dopo pubblica, coll'allro pseudonimo di Tkeophilo  Eleutero, un secondo e ben diverso saggio della profondità del  suo sapere, e dell'acume del suo intelletto, mandando alla luce  Ire grossi volumi di un'opera filosofica, che intitola “Pasaelogices  Specimen”, e fa stampare in latino – saggio che per modestia  volle fosse edito in pochi esemplari, ma che in Germania da  argomento a serie critiche nella Rivista filosofica Zcitschrift  (Halle) ed in altri periodici scientifici. Ma qui pur troppo s'arrestano i lavori edili del nostro Autore; chè all'infuori di qualche scritto di minore importanza,  apparso su giornali locali, nulla ei più permise che si da alle  stampe di quanto anda scrivendo fino alle sue ultime  ore. Racchiudendosi modestamente, e un poco anche egoisticamente, nelle soddisfazioni intime delle sue elucubrazioni, più non  volle che alle sue gioie mentali, alle sue indagini filosofiche, ai  suoi profondi ed originali pensieri partecipassero i lettori; e  studia e scrive per sè solo, per esercizio e ginnastica della sua   [Pasaelogices specimen, Tiikophilo Eleutero editimi. Voltimeli pr imitili. Prolegomena. Volumen secundum. Esologia.  Volumen tertium. Natura Medianica — Intra Torino e Firenze, lilucria di Loeschef. — Ve ne  sonu altri due volumi inedili.  Ecco come ne parla, fra gl’altri, il Foglio Centrale Letterario di Lipsia  in un lungo articolo sull'opera stessa, di cui noi riportiamo solo un brano. E sorto un anonimo italiano. Egli parla nella lingua ecumenica del passato il suo è un lavoro che ò il risultato di un'escogitazione indefessa di   tanti anni, forse di tutta la sua vita con un'estensione di due mila pagine, e  che tratta di tutte le cose del cielo e della terra, e per di più della logica dello spirito assoluto; è una continuazione della speculazione di Hegel, dalla quale  perù vuole assolutamente distinguere la propria dottrina] inenLe elevatissima, del poderoso suo intelletto, per appagare la  sua smania del vero. Medita e scrive, al pari di  Gioberti, dodici e  più ore al giorno. I suoi concittadini il ritrovavano spesso solitario  per le campagne e i dolci declivi delle amene montagne che  stanno a cavaliere d'Intra, sotto al vitale raggio del sole, o seduto  alle ombre amiclie dei l'aggi e dei castani, colle lasche zeppe di  libri, sempre speculando ed annotando colla matita sopra la carta  i suoi pensieri.Al pari dei peripatetici si diletta di filosofare  camminando nell'aer puro, nella serena festività della natura,  alla luce gaia del sole, o nella tepida ed affascinante quiete dei  boschi. Dal ponderoso lavorio mentale del filosofare egli trova sollievo nelle arti belle e nelle belle lettere; ed allora detta quelle  innumerevoli poesie, che stanno raccolte sotto il caratteristico  titolo di Grullerie Poetiche, e nelle quali con vena originalissima,  non leziosa o ricercatrice di supposti e romantici ideali, e con  spirito satirico il più fine, spesse volte non facilmente apprezzabile, egli fìssa l'impressione del momento, o deride le costumanze  strane delle mode, o celebra i fasti cittadini, che giungono col  rumore dell'eco all'orecchio suo, lontano ornai dal consorzio  umano, e non abituato che alle voci dei suoi inlimi; ed allora  traeva dal prediletto flauto dolci suoni, o sull'arpa antica traduce la soave ispirazione dell'animo suo, o sul pianoforte combina le armonie musicali, consuonanti colle armonie delle idee  sue, della natura, e della verità, che a lui si disvelavano nelle  profonde sue speculazioni. Cosi vive C., tanto grande per intelletto, quanto  semplice di modi e di costumi. L'altezza della sua mente pareggiava la nobiltà affettuosa del suo cuore. Austero per indole,  tollerante delle fatiche, intrepido nei pericoli, alieno dagl’agi,  benché a lui permessi dai beni della fortuna, schivo del mondano  frastuono (non desiderò die una cosa: vivere sconosciuto), chiuse  in petto un'anima temprala a rettitudine, a purezza quasi primitiva, che lo rese incapace di odio e di avversioni contro chicchessia, e di qualunque simulazione o maldicenza. Naturale,  aborrente da leziosaggini, si riprodusse, quasi in specchio fedele,  nel suo stile semplice e rigido, tendente ad essere chiaro più che seducente. Affabile, unitissimo, nel conversare parve un fanciullo;  lo si sarebbe detto, anche per la modestia del vestire e del vivere,  un uomo taglialo alia grossa, e di rozzi sensi ; ed invece di quanto  allo sentire, di quanta soavità d'animo era egli dotato! Un cullo  affettuoso ei professa per la consorte, troppo presto rapitagli;  un'inarrivabile tenerezza per l'unica sua figlia, che ne consola la  precoce inferma vecchiaia. Colpito invero a cinquantanni da lento, ma inesorabile morbo,  che gli impedi l'uso delle gambe, per quasi due lustri non si  mosse dalle sue stanze, che volle in uno spazioso lenimento, sull'alto della città, affine di poter distendere lo sguardo vivo e  sereno sul più ampio tratto possibile di quella natura, in cui egli  ha tanto liberamente voluto vivere fino allora. Il suo temperamento, pur tanto desioso di moto e di novità, si compone con  ammiranda rassegnazione alla quiete, a spaziare in pochi metri  quadrali di superficie. Con una forza d'animo, che solo può venire o da angelico spirito, o dal conforto della filosofia, sopporta  i dolori fisici e morali della lunga infermità; e mai un lamento,  mai un lagno uscì dalla bocca sua, neppur quando venne da  ultimo costretto al letto, e vi rimane fermo per gli ultimi diciotlo  mesi di vita. Che anzi consola e ravviva lo spirito afflitto della  figliuola; e l'anda preparando con filosofici pensieri alla sua  dipartila da questo mondo, che con spirito antiveggente e quasi  profetico, calcola prossima di mesi e di giorni.  Era solito di dire: morire non è, ni un bene, uè un mule, mn soltanto naturai rosa come il nascere. Siate perciò calmi come sono io. patimenti fisici non gli tolsero, estrema consolazione della  travagliosa vita, la lucidità e la fecondità del pensiero; e continua le sue meditazioni e i suoi sludi lavoriti, dettando incessantemente alla diligente sua lettrice. Fin negli estremi momenti, allorché l'ansia affannosa del respiro rese inintelligibili i suoi  accenti, tenta più volte di esporre l'ultimo suo pensiero sull'opera  che aveva in corso. Tale in breve la vita del nostro autore, nella quale tu non  trovi da celebrare avventure o fatti straordinari, poiché fu tutta  dedicata, e modestamente dedicala, ad una faticosa, ma tranquilla  e serena lotta mentale, ad umbratili sludi, ad inlime soddisfazioni, originate dalla scoperta di nuovi veri, al cullo delle arti  belle e delle scienze; ma per compenso in essa ti si rivela un  inimitabile esempio di indefesso amore del sapere, di privale  eminentissime virtù, di sublime rassegnazione ai mali fisici. É in memoria adunque di quell'affettuoso padre, di quell'alta  e modestissima intelligenza, di quello squisito animo, che la figlia  sua, signora Argia Franzosim C., intraprende la pubblicazione delle numerose opere filosofiche, scientifiche e letterarie,  che egli lascia manoscritte ed inedite. L'abbiamo già detto, e convien ripeterlo, con questo nè interpreta un desiderio del padre, nè fa un pietoso sfregio alla volontà  di lui. Imperocché, come egli non ha pensato a proibirlo, cosi  non ha imposto nè esplicitamente, né implicitamente, per una  postuma vanità, che le sue opere vedessero la luce. Egli non  brama mai in vila sua di curarne la stampa. Lo sperimento fallo  del Pellegrinaggio in Italia e dello Specimen Pasaelogices gli  prova quante noie e quanti fastidi arreca il sorvegliare l'edizione  di poderosi manoscritti; e, ciò che a lui maggiormente dispiacque,  gli ruba soverchiamente di quel tempo, che egli ha sempre prezioso. Anda d'altronde convinto che i suoi concetti  si discostassero tanto dal modo volgare di pensare, da sembrare   meri paradossi; e più volle invero nelle opere sue ripete essere  a lui consentila la maggior libertà di pensare e di scrivere, appunto perchè non teme di disgustare i suoi non-lettori. Questo però non è il parere di chi attende alla presente pubblicazione; è vero che negli scrini, che vedranno la luce, vi è  una originalità di pensiero, la quale può parer strana ai poco colti, ed impressionare anche i doni; ma è vero altresì che, anzi  che provocare censure, vi è piuttosto a credere che gli stessi desteranno l'ammirazione per la novità, la potenza, l'altezza dei  concetti che vi si affermano dal nostro filosofo; è piuttosto a  sperare che i lettori andranno lieti di poter rinvenire, in tanta  serie di scrittori o plagiari o volgari, una intelligenza, che esprime  idee tutte proprie, e forti, e vere, meritevoli insomma della più  grande considerazione. La quale originalità, che è riproduzione fedele del carattere  dell'Autore, è con suprema e scrupolosa cura conservata intatta. Più che ad adornargli la veste in modo, che gli accaparrasse a  primo acchito la simpatia, più che a fornirlo di allettatici attrattive, si è mirato a presentarlo al pubblico nella fedele e polente  impronta del suo genio. Sicché, ad onla che sarebbe tornato facile di rimediare ad alcune mende del suo stile, piuttosto tendente a chiarezza che ad eleganza, e di ammodernare la sua  specialissima ortografia, nulla si volle sostanzialmente immutare,  e gli scritti si pubblicano quali si trovarono dettali, ad eccezione  di qualche correzione di forma, necessaria e solila di farsi anche  dagli autori stessi, allorché i loro manoscritti stanno per essere  consegnali al tipografo. Un'altra dichiarazione occorre porre avanli ; ed è che la pubblicazione viene cominciata colle due opere conlciiute nel presente [Egli stesso, parlando rìrlle sue open 1, così si esprime. Miei scritti  potrebbero aen&rare a molti ti» ainmaxsn ili rontrailiziotii, o anche l'eccesso della  trivialità.] volume, pel solo motivo che esse sono quelle che, fra le poche  potute finora disaminare, parvero a preferenza scritte in modo  piano, ordinato e quasi melodico, e perciò facile ad essere compreso dall'universalità dei lettori ; e quelle altresì, che, trattando  di una materia generale, si prestano a fare in modo riassuntivo  rilevare quale fosse la mente dell'autore e quali le sue dottrine,  quali le sue idee su gran parte delle cose umane. Nell'una invero si discorre dello spirito umano, e si descrivono e criticano i vari  sistemi, che si vennero formando dalla sua nozione ; nell'altra si  tratta di tutti i principi cardinali, dei quali è la natura costrutta,  e si analizzano coi criteri forniti dall'intelligenza riflessa.  Ben si sarebbe potuto seguire o un ordine cronologico, man-  dando alle stampe le opere nella stessa successione nella quale  l'Autore le scrisse, oppure un ordine razionale, prefiggendosi un  punto di partenza, come dal generale al particolare, o dalle opere  letterarie alle filosofiche, e cosi via.   Ma da un lato l'ordine cronologico non ha alcuna base in  ragione, dipendendo da pura casualità materiale che un'opera sia  stata scritta prima dell'altra; dall'altro il razionale, che certo  sarebbe stato più logico e preferibile, richiedeva per essere at-  tuato una previa disamina, anche solo sommaria, delle opere  tutte, che si hanno manoscritte; il che avrebbe cagionato un in-  gente lavorio da compiersi, per l'unicità dei criteri, da una sola  persona, e di conseguenza avrebbe ritardato chissà di quanto  tempo l'inizio di questa pubblicazione, che considerazioni morali  di non minor peso delle razionali consigliavano di intraprendere  tosto.  Diamo a giustificazione un elenco, che pur non si può dire ancora completo, delle opere postum e di C. Traduzioni varie dal latino, francese, tedesco, inglese (VIRGILIO, ORAZIO,  Lamartine, Kozbue, Schiller, Shakespeare, Byron e Thompson).  Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre canti, versi sciolti con liriche  intercalate, varie liriche.    Tale in succinto lo scopo cui mira, il modo in cui vien  falla, e la ragione per cui si inlraprende in una guisa piullosto  che nell'altra, l'edizione delle Opere postume di Pietro Ceretti.  Le quali ben si prevede non abbiano a riscuotere popolari ap-  plausi, altrettanto fragorosi quanto facili e poco duraturi ; ma si  spera in compenso che abbiano a fermare l'attenzione dei lettori  colti, studiosi, meditativi.   Noi neppure ci allentiamo di darne un riassunto analitico, o  di sintetizzare il sistema filosofico dello scrittore, o di esporre  quali furono i suoi ideali, e con quali mezzi assorse alle cognizioni  del buono, del bello, del giusto; poiché, oltrecchè, non essendoci  bastato il tempo a leggere i molti manoscritli da lui lasciati, da-  remmo giudizio incompleto ed immaturo, preferiamo che su di  essi si esprima liberamente la pubblica critica.   Per Colei poi, che promuove questa pubblicazione, sarà in  Ultime lettere di un Profugo. Romanzo in prosa,  Pellegrinaggio in Italia. Canti, Poesie Uriche. 1 volume (edito) con alcune liriche. Prometeo. Poema. Storia del diritto Canonico. Avventure di Cecchino. Poema. Miscellanee filosofiche. Scienze naturali e considerazioni storiche. Salùi (inedili).  # Sogni e Favole (umorismo trascendente), Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con versione latina (imitazione del greco e latino della Chiesa primitiva). Opuscolo.  Grullerie Poetiche (umorismo parodiaco) Massime e Dialoghi. I Conferenti. Commedia nebulosa. Ormuzd. Dramma mistico. Synùp s i dell' Enciclopédia Siwr.idatirn - Sffnpltcìo. homaiizo. Idee radicali delle discipline finite e delle matematiche empirico-indut-  tive. Cavalier (riovannino. Romanzo. Manuale di medicina pratica. L'Inconcludente. Romanzo. Lo Zio Giuseppe. Commedia.  ogni caso di sufficiente conforto l'aver dimostrato con essa come  il padre suo, nella sua apparente inoperosità, abbia invece com-  piuto un lavoro immenso, quasi incredibile potersi compiere da  una mente umana in sessantanni di vita; come, tuttoché da oltre  ventanni se ne stesse segregato dal mondo, tanto che lo si ri-  tenne sdegnoso dell'umano consorzio, egli abbia seguilo e ritenuto  con diligenza, memoria, affetto ed acume sorprendenti tutto il  corso dei moderni avvenimenti, e si sia interessato alle vicende  anche più minute della vita umana, la quale egli, trattosene fuori,  contemplò e giudicò dall'alto e spassionatamente; ed infine con  quanta forza d'animo e vigoria di mente abbia, anche ammala to,  continualo l'aspra, diuturna e faticosa ricerca della verità e della  luce spirituale.   Che se poi le opere sue potranno servire ad accrescere le  cognizioni odierne, e disvelare nuovi orizzonti, a precisare sistemi. Considerazioni sopra il anatema generale dello spirito entro i limiti  ' della riflessione. Considerazion i circa il sustema della natura entro i limiti della riflessione. Viaggi utopistici.  Il Protagonista. Proposta di una riforma sociale.Considerazioni generali circa la caratteristica spiritualità dell'Italia.  Insegnamento filosofico. Gregorio. Romanzo. Novellette morali. Itinerario d'un Inqualificabile. Trattato di Astronomia. Introduzione alla coltura generale. La Divina Commedia. Vita di Giustino Caramella scritta da se stesso.Vita di due Comici. Vita di Virginia Bonaventura. Sonnambulo. La mia celebrità.  Inventario delle mie vicissitudini mondane. Memorie Posthume. IStramberie philosophiche. filosofici e speculativi oggidì ancora incerti ed indefiniti, essa  avrà nei contempo raggiunto un altro intento, quello cioè di far  contribuire all'aumento del patrimonio intellettuale scritti che  erano dal loro Autore destinati a rimanere sepolti. E ciò la conforterà maggiormente nell'adempimento dell'intrapreso assunto,  che è per lei il più sacro e il più caro dei doveri. L'arte della parola è per noi assai più spirituale che non le  arti del disegno e della musica. La medesima contiene idee definite come nell'arte del disegno, e medesimamente una succes-  sione temporanea come nella musica-, ma queste idee definite non  sono più astrattamente naturali come nell'arte del disegno (appari-  zione), nèuna successione temporanea di spirituali emozioni, corno  nella musica, ma piuttosto idee concrete (physiche e metaphysiche)  colle loro successicni definite di idee pensale non astrattamente  sentite.   Si crede comunemente che l'arte della parola sia la vera resumzione del disegno e della musica; certamente essa può espri-  mere idee proprie, quali non potrebbero essere espresse da vermi  disegno e da veruna musica, ma questa proprietà non costituisce  una vera preminenza nel significato che a lei comunemente si  attribuisce. L'arte poetica riassume in se stessa ed esprime a  proprio modo certe idee, quali non potrebbero essere espresse da  quelle altre due arti, ma non potrebbe in verun modo essere sostituita alle prefate singole arti. La stessa può esprimere una suc-  cessione di pensieri, ma non una successione temporanea di emozioni spirituali col prestigio proprio della musica; così pure può  esprimere definite rappresentazioni come le arti del disegno, ma  non può presentarle immediatamente e sensibilmente, al pari di  quella, la quale ripete il suo prestigio appunto da questa immediala sensibile rappresentazione.   Cosi generalmente parlando l'arie poetica da una parte può  essere considerala come resumliva unità delle idee divorziale  nella musica e nel disegno, dall'altra però può essere considerala  come il germe inesplicito delle suddette arti, che esplicandosi  nelle loro astrazioni generano il disegno e la musica. Infatti se  l'arte poetica da una parte accompagna il massimo svolgimento  della civiltà, dall'altra parte è stata un'arte assai primitiva e forse  cosi primitiva come il disegno ed assai più che la musica; le idee     l'arte della parola contenute in queste possono considerarsi come generate da una  astrazione ideale, che costituisce le suddette arti. L'arte della parola si divide in tre periodi capitali: l'arte poetica come esiste nella letteratura propriamente   delta; l'arte prosaica, come esiste nelle discipline finite empi-  rico-matematiche; l’'arte speculativa, come esiste in tulle le cosi delle  p/iilosophie, non arrivale alla necessità logica del pensiero, cp-  pcrciò a quelle philosophie che devono persuadere o dimostrare  in qualche modo la propria verità.   Questi tre periodi costituiscono la concreta arie della parola,  ossia quella che si svolge come manifestazione della Coscienza  pensante. Noi tratteremo brevemente, ma categoricamente questi  tre periodi della parola, che realmente sono anche i periodi dello  spirilo parlante, prima del quale è l'esistenza meramente psychica  e istintiva delle bestie, e oltre il quale il pensiero va in un altro  systema che non è più quello che possa interessare lo spirilo  slesso.   Intendiamo arte della parola quell'arte che si svolge nel pen-  siero concreto, epperciò si manifesta sotto le forme concrete del  medesimo, non in qualche sua astrazione, come quelle del disegno  e della musica, le quali si manifestano nell'astratta forma del senso  intimo o del senso esteriore. Denominiamo arte della parola quella  che si svolge mediante una lingua letteraria, non quell'idioma popolare che nasce e si sviluppa islinlivamenle nel popolo, ed appar-  tiene alla natura piuttosto che allo spirilo pensante.   Quest'arte fu considerala astrattamente come lingua eslhelica,  ovvero poesia; ma essa prosegue il suo svolgimento anche nella  lingua prosaica (come nelle discipline finite), e nella lingua spe-  culativa, ossia in quella che si chiama comunemente phìlosophia.  Questo svolgimento appartiene all'arie della parola, e comprende  lo spirilo assoluto (lo spirilo, non la Coscienza assoluta). ZNello  spirilo giova osservare che le categorie devono essere gerarchicamente coordinate, e non si potrebbe concepire un'esistenza spi-  rituale che non possedesse vizi e virtù, buono e male, e cosi via. Perciò abbiamo dello che quella pura speculazione (dai theolo-  ganli meritamente chiamata abuso della speculazione) non appar-  tiene allo spirito come tale, ma piuttosto è l'atto caratteristico,  col quale lo spirito si svolge dal pensiero in altro systema. Questa  speculazione pura è manifesta dalla parola, ma è il suo esilo finale,  epperciò nella parola che va via dallo spirilo. Così pure quel pen-  siero che nasce e si svolge istintivamente nel popolo non appar-  tiene all'arte in discorso, ma piuttosto alla natura creatrice.   L'arte della parola suppone uno spirito positivamente formu-  lalo e muore colla morie dello slesso, epperciò la medesima  appartiene essenzialmente allo spirilo, non generalmente alla  Coscienza. Lo spirilo nasce dal non spirilo e muore nel non spirito, ossia è un momento storico nello svolgimento della Coscienza ;  epperciò consideriamo come un prodotto della natura (ossia di  un systema non ancora positivamente spirituale) quella lingua e  quel pensiero che nasce e si svolge istintivamente nel popolo. È  una lingua psychica, che progressivamente e lentamente si svolge  in una spirituale; perciò troviamo nelle lingue esordienti la  parola determinala col semplice elemento delle intonazioni, ed  inoltre che le nostre idee metaphysiche ebbero tutte nelle lingue  primitive un significalo di phenomeno sensibile, e anche oggidì  si trovano negli uomini naturali lingue che possono significare  individui, non generi e specie, caratteristico di quelle spirituali.  Nell'infimo popolo le idee metaphysiche sono ancora mollo equi-  voche; cosi per es. suppongono lo spirito non solo in un tempo  ed in un luogo (vale a dire nella natura), ma anche con un pos-  sesso caratteristico del pensiero humano ; questo non può risul-  tare che da uno spirilo in una forma necessariamente humana.   Così quest'arie della parola comprende la totalità dello spi-  rito (Coscienza pensante), ma esclude ogni altro systema della  Coscienza, che non sia quello dello spirilo. È questa la ragione  per la quale coll'arle medesima una verità si deve persuadere o  dimostrare; e quelle verità logicamente necessarie, che riescono  indifferenti a qualunque negazione o affermazione o dubitazione,  vale a dire si confermano con qualunque determinazione del  pensiero, non appartengono allo spirito, ma sono l'alto caratle-  [ i/arte poetica] - rìstico per il quale la Coscienza si svolge dallo spirilo in un altro  syslema. Perciò nell'arie della parola non comprendiamo la spe-  culazione pura nelle sue verità logicamente necessarie.   Lo spirito è contenuto entro i limili della Coscienza pensante;  olire questi limiti non è spirito veruno, ma semplicemente un  qualche altro syslema della Coscienza slessa. Perciò l'arie della  parola è quella che si svolge: colle categorie del sentimento, verbigrazia colla persuasione, colla fede, coli' ispirazione, e cosi via; colle categorie dell' intelletto, verbigrazia colla dimo-  strazione assiomatica o empirica; colle categorie di una facoltà concettiva infantile, ver-  bigrazia con quelle forme equivoche della pìdlosophia comune. Una speculazione pura, che introduca le verità logicamente  necessarie (le quali differiscono essenzialmente dalle verità sue-  cennate), è il risultalo d'una facoltà concettiva adulta, la quale  conduce la Coscienza fuori dallo spirilo in un systema più horno-  geneo, perocché quello non potrebbe vivere con siffatte verità. L'arte poetica è l'esordio dell'arte della parola, e lo spirilo  poetò assai prima di parlare prosaicamente, perchè la poesia  appartiene al sentimento ed all'imaginazione, e la prosa all'intellettualità riflessa. Si dice che gli uomini primitivi sono essenzialmente poeti,  ed il loro linguaggio non esprime mai un' idea esalta, ma una  forma piuttosto oscillante nel sentimento e nell'imaginazione. È  vero che gli stessi parlavano un linguaggio non menomamente  formulato dalla riflessione, ma semplicemente dal sentimento c  dall'imaginazione, che sono però ben altro da quell'intimità  melaphysica che noi possediamo, ed è piuttosto il risultalo dell'opposizione d'una mente prosaica con una mente poetica. La loro l'orma poetica è tuttavia profondamente immersa in un elemento immediatamente sensibile, che noi potremmo difficilmente imaginare. È questa la somma difficoltà che noi proviamo  nel concepire chiaramente le antichissime forme della poesia,  come per es. quella dei Vedi ed anche della nostra Bibbia.   Originariamente si scrisse ogni cosa in una lingua poetica,  se qualche volta non rigorosamente metrica, almeno tale da suo-  nare all'orecchio con una qualche misura. Troviamo per es. i  salmi della nostra Bibbia scritti in una forma non esattamente  metrica, ma nullameno misurala. E ciò accadde perocché il pen-  siero era allora essenzialmente poetico; Hegel notò mollo assen-  natamente che il primo prosatore nel lernpo fu Aristotele, si scris-  sero bensì prima di lui molli pensieri in una lingua perfettamente  non metrica, ma essi, nonostante quest'apparenza prosaica, etano  tuttavia poetici; per es. gli scritti di Platone sono più poetici che  prosaici. Gli argomenti, che oggidì consideriamo come necessa-  riamente prosaici, erano trattali in poesia. Così presso gì' indiani  troviamo arylhmetiche, astronomie, vocabolari etc. distesi in una  lingua metrica, e si può dire generalmente che i primi popoli  civili non sapevano pensare e parlare se non poeticamente. Alcuni popoli, come gli as ia tici, ve rsano tuttavia in ques t'elemento  poetico che loro impossibilitò una sto ria.   La poesia, come esordio dell'arte della parola, si distingue in  tre momenti. È poesia epica, ossia immersa in un elemento ogget-  tivo, in un'unità religiosa o elhnica ;  Poesia lirica, ossia la soggellività che nasce e si svolge  da questa generalità;  La drammatica, ossia la poesia che oppone i vari sen-  timenti e le varie convinzioni, giusta le varie soggellività e le varie oggettività cosliluile. La poesia didattica veramente non è poesia, ma piuttosto una  riflessione legala nelle forme poetiche e misurale; è piuttosto una  vera dissonanza della riflessione colla sua forma, vale a dire, con  una forma che non è quella propria di lei, essenzialmente prosaica.   Generalmente parlando è poesia la forma del pensiero poetico,  il quale perciò reclama tale forma; e sluona lanlo una forma  l'arte POE l ICA  metrica con un pensiero prosaico, quanto un pensiero poetico con  una prosa libera, vale a dire, colla forma della riflessione; il lin-  guaggi o ed il pe nsiero devono con sonare in una sola forma, non  in d ue diverse e contra rie.   Chiamo poesia epica quell'essenzialità ideale generalmente  immersa in qualche astrazione objettiva di costituzione religiosa  o di nazionalità, non quell'astratto formalismo di un'epopea o di p  una lyrica. Cosi per es. gli inni di Pyndaro e quelli di Tirteo J* "*^*  appartengono all'epica, pero cché i lo ro soggetti non sono con - y^'^ wfs» '  centrati nella loro propria soggettività^ ma piuttosto immersi i n y*  un'obiettiva astrazione religiosa e nazionale. Possiamo dire clic     all'epopea appartengono tutte le co mposizioni in ossequio d'una  qualche costituzione religiosa, o d'una qualche nazionalità.. Cosi  per es. il Malia- bahrata è una splendida epopea, tuttoché non  contenga veruna idealità nazionale, il Shah-Nameh dei persiani lo  è pure, tuttoché differisca essenzialmente dal Maha-bahrata. La  Theogonia di llesiodo è pure un'epopea religiosa, e così la Divina  Commedia dell'Alighieri, ed il Paradiso perduto di Milton. Le  epopee prettamente nazionali sono Vlliade d'IIomero, YHeneide  di Virgilio, i Lusiadi di Camoens, e altre simili composizioni. Generalmente nell'epopea si realizza una somma grandiosità  poetica , ma l'uomo sj^om nare, per cosi dire, ne l l'unità religiosa  o nazional e, a celebrare le quali è destinato. All'epopea appartengono pure certe formule satyriche, come  per es. il Don Quijolte di Cervantes, e la Verdine d'Orleans s critta  da Voltaire, le quali veramente non sono destinale a celebrare il  sentimento religioso e l'heroismo nazionale, ma il loro argomento,  tuttoché salyrico, è pur sempre religioso e nazionale. Si deve  avvertire che l'epopea appartiene sempre ad u n'astrazione objet-  liva di costituzione religiosa o nazionale, ma differisce sommamente per i vari gradi della civiltà, nella quale è nata.   Il secondo momento della poesia è la lyrica propriamente  detta. Chiamiamo lyrica quella poesia del soggetto raccolto in se  stesso, o per lo meno, nella sua vita privata. Gli asiatici generalmente sono troppo immersi nell'objellivilà  costituita religiosa o politica per conoscere una vera lyrica; si — uebetti, Canaidcr. sul list, rftiier. JeUu spirilo.  I:MI     oim:iu5 postumi-: ni hktro ceretti     può diro che essa nacque la prima volla in Grecia ed in Roma  quando il soggetto principiava a sentire l'insufficienza di una  costituzione oggettiva ed i bisogni della sua propria soggettività.  Cosi non quelle forme che si chiamano comunemente lyriche,  come le Odi di Pyndaro, gl'inni religiosi eie, appartengono a una  vera lyrica, ma piuttosto quelle dedicate alla soggettività ; per es.  appartiene alla vera lyrica l'antica poesia di Museo litolata Eri  e Leandr o, le erotiche di Anacreonle, alcune di Horazio, come  anche quelle di Catullo nei suoi rapporti colla Jjilage scherzosa.   Oggidi la poesia lyrica è tuttavia persìstente, ma l'epica è  perfettamente abolita/yA questo genere, come nell' epopea, può  appartenere una poesia piuttosto umoristica, ironica e parodiaca,  perocché la lyrica non è menomamente vincolata alla serietà, ma  semplicemente alla soggettivazione. Il soggetto può poetare delle  varie cose seriamente o ironicamente, purché in essa varia o saly-  rica composizione lasci trapelare una qualche propria convinzione. La transizione da questo genere alla drammatica è caratte-  rizzala da una poesia alquanto equivoca, nella quale il soggetto  tratta le varie cose ironicamente, parodiacamente eie, ma non  lascia trapelare veruna propria convinzione, così che le delle  poesie non contengono un'idea conclusionale; sono astrattamente  negative e non affermano cosa veruna. Queste poesie si realizzano  in un lempo mollo civile, e sostanzialmente vogliono dire che il poeta rimane semplicemente spettatore , non attore delle cose  ironicamente ricordate. Comunemente si chiamano queste mani-  feslazioni quelle di un genio spossato e di una certa decadenza  della civiltà; la storia, come abbiamo detto, per proseguire la  sua vita ha bisogno di principii serii; la forma dei principii può  variarsi quanto si vuole, ma è necessario che la si fissi, vale a  dire, che si fìssi un qualche systema nel quale si svolga la storia  stessa. Ecco la ragione per la quale una rilassatezza di principii  è sempre giudicata un syntomo di .slorica decadenza; non si  avverte però che la rilassatezza di principii conosciuti è sem pre  la nascila vigoros a di principii nuovi e sconosciuti.   Il terzo momento della poesia abbiamo detto è la dramma tica.  Qui sono anlagoni o più soggetti di principii contrari, che si con- [l'arte poetica] tendono Ira loro, e appurilo in questa conlesa le antagonc convinzioni si neutralizzano, vale a dire, risulta la loro reciproca  insufficienza. L' un soggetto contende centra l' altro soggetto  avversario, e cosi amendue difendono la propria convinzione, Ques ta difesa si effettua mediante le ragioni che tornano favorevoli a esse convinzioni, m a, siccome esse sono due o giù con-  tr arie, ciascheduna difendendo se stessa combatte la propria  avversaria. Non è certo una parte che preferisce un negativo  un positivo ( la quale preferenza sarebbe assurda) , ma amendue  ^che preferiscono un po sitivo a un negativo, cosi che in ultima     analysi amendue vogliono la stessa idea, ossia che il positivo pre-  ( domini sul neg ativo. C o ntestano semplicemente se questo sia il  (positivo e quello il negativo, o viceversa, epperciò disputan o,  circa una cosa phenomenale, non circa un oggetto o un' idea  concreta. Tulli i soggetti reclamano il positivo ed avversano il  negativo (sono due termini dell'opposizione), ma tale soggetto  vuole a come un positivo, ed avversa b come un negativo ; tal alito  soggetto vuole ed avversa inversamente. Giova osservare che  l chiamandosi a positivo e b negativo, quando siano invertiti si de-  vono chiamare inversamente: a, che phenomenalmentc hora  funziona come positivo ed hora come negativo, è un mero giuoco  di parole; perocché sono appunto quei rapporti essenziali che  sono stali mutali i quali cosliluiscono l'oggetto. Cosi la contesa  della drammatica, esaminala con un logico criticismo perderebbe  ogni drammatico interesse, perocché non è contesa seria, ma  semplicemente logomachia.   Nella drammatica però queste idee si contendono profonda-  mente involute nella for ma de jjsent imenlo e_d eH'imaginazione , e  appunto da questa profonda involuzione risulla ogni drammatico  prestigio. A vero dire in essa non si contendono mai le idee puramente riflesse, ma piullosto quelle che possono grandeggiare nel  conflato del sentimento e dell'imaginazione. Infatti un interesse  drammatico non si potrebbe conseguire colla fredda e prosaica f v< -7— ^ t.'R'i  dimostrazione di un theorema matematico; questo vuol dire, m * m .% mm *40~—X*l L  che l e verità della riflessione non sono le verità^ del sentimento, K> H — cr-  u l'una è impolentissima a surrogare il posto dell'altra. Cosi pure na bella verità poetica, come sarebbe il conflato di un'azione  lieroica, non potrebbe interessare menomamente un Iheorema  malliemiitico e non potrebbe sostituirsi come dimostrazione.   La drammatica non insegna solamente che ogni ordine dello  spirilo ha le proprie verità, e la verità di un ordine non può  JCT*»**^**» essere q ue |] a di un altro, ma insegna altresì che certe convin-4   »>u^»*w^l« tìom sono così profondamente radicate nel soggetto, che non f   si lasciano sradicare da veruna eloquenza. Non consideriamo in *  quest'ordine i soggetti che persistono nelle proprie convinzioni  ^semplicemente perchè non le capiscono, nè possono capire altre  Sconvinzioni contrarie; que sj/opposizione non è spirit uale, e può  \ compararsi a quella della forza bruta la qual e dice; parlate come  volet e, via i o faccio co sì. I varii soggetti nella drammatica pos-  seggono le proprie convinzioni e le oppongono alle contrarie; da  quest'opposizione risulla una reciproca soppressione di verità,  ossia la prova drammatica (nel sentimento e nell'imaginazione)  che tali non sono verità, ma gravi errori. Da questa reciproca  soppressione di verità astratte risulla una verità neutralizzala ed  assai più concreta, che se non persuade i contendenti della scena  persuade l'uditorio.   Ma un'arle_(ìnissim a di far prevalere nella dispula una prò- i  pria idea preconcetta è quella che, nonostante la manifestazione  di tulle le ragioni favorevoli a una certa idea, lascia fortemente  trasparire il lato debole della medesima. L'avversario traila questo  lato debole con molla generosità, ma appunto con quesla generosità vince una causa che si 6 mostrata troppo impotente. I  personaggi delle scene molto incivilite non si trattano con colle-  riche invettive, ma piuttosto colla massima cortesia; è il diplo-  matico che accarezzando il proprio avversario gentilmente lo  strozza. L'arte soprafma non è quella di combattere viltoriosa-  mente le ragio ni dell'avversario , ma piuttosto di cond urre passo  passo l'avversario al proprio traviamento , cos icché sembri cadere  per_un suo proprio fallo, vale a dire, comballa contro se sless o.  Era questa l'arie finissima d'un antico philosopho, il quale non  contrariava mai le ragioni dell'avversario, ma lo raggirava cosi  che in ultima analysi questi contrariava se slesso. [l'arte prosaica]  Questa drammatica nasce da una profonda riflessio ne, ma  può vestire forme del sentimento e dell'imaginazione, e risulia  assai più polente di quella nata da una mera imaginazione e da  un mero sentimento. Credete voi che Dante, Shakespeare e Goethe  fossero semplicemente poeti inspirali, piuttosto che rob usti pensatori? Se fossero slati semplicemente poeti non avrebbero potuto  imaginare le composizioni così pregne di pensieri profondi, lo  non dico_clie i profondi pensatori, se si dedicano all'arte poetica ,  debbano riuscire necessariamente drammaturgi, ma dico semplicemente che questa forma si presta maggiorm en te ad un larg o  svolgimento dell'idea . Goethe fu certamente un profondo pen-  satore e nullameno trattò non solo la drammatica , ma anche  Pepopea, la lyrica e d il romanzo. Questo vuol dire, che il pen-  siero, il quale abbia subito un largo svolgimento, a qualunque  forma si dedichi, partorisce capolavori. Varie prosaica è un secondo periodo nell'arie della parola,  il quale differisce essenzialmente dal primo periodo, ossia dal-  l'arte poetica, perocché quella si volge al sentimento ed all'imaginazione, ma quesla si volge più particolarmente alla ri/h'ssint>i'. Quest'arte si distingue pure essenzialmente da qualsivoglia  philosophica eloquenza, perocché quella è dimostrativa o persua-  siva secondo l'opportunità e comprende la totalità dello spirilo;  quesla è astrattamente prosaica e dimostrativa, epperció non può  mai riuscire come philosophia, nè acquistare un drammatico interesse. Essa è destinala a creare piuttosto quelle tali verità che si  chiamano scientifiche, non a creare veruna concreta verilà dello  spirito. L'arte prosaica esordisce come un mero opinalismo c nasce  dire ttamente dalla religiosità; i primi medici per es., i primi  astronomi, ed i primi chimici furono semplicemente sacerdoti, e  possedevano non una nozione di siffatte cose, ma semplicemente un'inlima convinzione od un fallo esteriore Le discipline Lulle,  che bora versano nella riilessione, originariamente versavano in  una mera convinzione religiosa di un fallo intimo o esteriore.  Perciò noi vediamo che esse originariamente erano semplici pro-  fessioni, o più propriamente, semplici operazioni sacerdotali, le  quali riposavano sopra una fede dogmatica, non sopra veruna  empirica od assiomatica dimostrazione. Tulli sanno che la prima  medicina fu nei tempii, e che la malattia originariamente si considerava come uno spirito maligno che invadesse l'ammalalo, vale  a dire, gli ammalali erano considerali come ossessi; tulli sanno che  originariamente si curava con semplici pratiche religiose, il cui  risultalo era dovuto alla fede. La reclamazione dell'intelligenza  riflessa non era nata, epperciò una simile medicina non conte-  neva veruna nozione analomica e physiologica, ma riposava semplicemente sulla pubblica credenza e sulla pubblica ignoranza.  Nella civile babilonia gli ammalali si sponevano pubicamente  affinchè ciascheduno dicesse il proprio parere circa la loro ma-  lattia ed i medicamenti requisiti. Il sacerdote, come religioso,  doveva sempre curare con medicamenti prestabiliti e s'egli for-  viasse dalla cura prestabilita era castigalo colla morie, precisa-  mente come un herelico il quale non riconoscesse cerle verità  della fede. Allora non si conosceva cosa veruna e non era  naia veruna facoltà di dubilare, perocché tale facoltà appartiene  al criticismo della riflessione. Tutto era fede e religiosa con-  vinzione, la quale conseguentemente escludeva ogni possibile  incertezza; si trattavano le cose mediche press' a poco come noi  trattiamo le verità logicamente necessarie le quali non si pos-  sono in verun modo dubitare, ossia non si possono dubitare cogitabilmenle.   Non dico che quelle verità primitive somigliassero a quelle  essenzialmente indubitabili delle mathematiche pure, perocché  queste reclamano una dimoslrazione e non sono indubitabili che  in questa loro mathematica dimostrazione. La riflessione neona-  ]&nét ìfent* scenle , che conduce progressivamente il secondo momenlo del-  l'arie prosaica, fu una semplice dimostrazione non intellettuale ,  come noi la consideriamo, ma una dimostrazione graphica per la quale ceni phenomeni complessi si riducevano a presentazioni più  semplici, dalla cui unità risultavano i delti phenomeni complessi.  Così fu originalmente la dimostrazione mathematica, e noi sappiamo che una geometria graphica precedette per molli secoli  mia geometria analylica, e le stesse potenze uno, due eie, che  hora si considerano nella loro algebrica generalità, originaria-  mente si consideravano come linee, super fìci, e così via. Le  dimostrazioni mathematiche, come un risultalo della semplice  riflessione, non sono anche oggidì concepite dai molli nella loro  vera essenzialità. Cosi per es. gli uomini comuni considerano una  dimostrazione graphica come equivalente ad una puramente in-  tellettuale; giova osservare che la dimostrazione graphica è un  fatto sensibile, e si riferisce ad un dato problema presentabile  sensibilmente, ma la dimostrazione intellettuale si riferisce a un  fallo cogitabile, la quale riesce sempre irrefragabile anche per  quelle cose che non si possono presentare sensibilmente, purché  siano ridutlibili ad una tale equazione. L'arte prosaica consiste nel trovare questa dimostrazione, e  nel fare che una verità non sia più semplicemente soggettiva. Le  verità apodittiche si distinguono dalle verità del primo momento  appunto perchè queste sono varie nei varii soggetti (varii soggetti  posseggono varie convinzioni), ma quelle sono identiche in tulli i  soggetti. Un soggetto può possedere una fede ed un altro sog-  getto può possederne una contraria, ma nessuno potrà pensare  che un theorema geometrico di Pithagora per es., non sia necessariamente vero, perocché nessun soggetto può dubitare che a = a,  identità alla quale, come alla propria radice, si riducono lulle le  verità mathematiche.   Vi è una terza forma dell'arte prosaica, che è pure una forma  apodilhica, ma differisce essenzialmente dalla dimostrazione mathematica, perocché quella è semplicemente un mezzo a conoscere qualche verità naturale o spirituale, questa non è sempli-  cemente un mezzo, ma è immanente al proprio scopo. Qui non  si tratta più di conseguire uno scopo con un mezzo adeguato, ma  si traila di conoscere una verità che ha in se stessa il proprio principio, mezzo e scopo. L'osservazione esplora ciò clic sia il soggetlo in se stesso, e suppone che la verità di esso sia in lui recon-  dita e mediante l'osservazione si possa conoscere quello che e.  Le mathematiche pure contengono verità puramente intellettuali,  epperciò verità irrefragabili e necessarie; ma come tali non possono contenere verun scopo naturale o spirituale; debbono assumere un elemento empirico, epperciò un'essenzialità contingente.  Le verità empiriche differiscono essenzialmente dalle mathematiche, perocché quelle sono irrefragabili e necessarie, ma queste  essenzialmente controvertibili ; perciò nelle cose mathematiche  non si può avere una propria opinione, e si tratta solamente di  sapere se questa sia o non sia una verità mathematica, ossia una  verità mathematicamente dimostrata; nelle cose empiriche tutto  è conlroverlibile, epperciò i varii soggetti possono possedere varie  opinioni e varie convinzioni, ma queste verità controvertibili possono contenere una natuca concreta o uno spirilo concreto.   L'osservazione insegna esattamente quello che sia ogni ordine  finito, epperciò insegna che ogni ordine empirico versa in una  necessaria contingenza. Presumere di conoscere qualcosa defini-  tamente coll'osservazione è una presunzione puerile, perocché  tanto l'oggetto dell'osservazione, quanto l'osservazione stessa ver-  sano in una necessaria contingenza. Ogni ordine finito appartiene  alle discipline empirico-induttive o alle discipline mathematiche  empirico-induttive; perciò i cultori di queste discipline finite  dicono, non vi è verità assoluta, ma ogni verità è necessaria-  mente relativa. Questo è vero, perocché nelle discipline finite non  si può trattare se non la verità relativa, e quella verità assoluta  che possibilità la relazione non appartiene a delle discipline. Però  nelle medesime tutte le verità relative non sono identiche, ed esse  si coordinano gerarchicamente secondo il grado di relazione. Cosi per es. nelle cose spirituali si distinguono verità puramente  soggettive dalle nazionali, e le nazionali dalle verità humanilarie,  e le humanilarie dalle mondiali. Una verità positiva nell'ordine finito si chiama quella che  possiede rapporti più generali, cosi che possa essere poco affiena  dall'opinalilà soggettiva. Così per es. che i gravi cadano colle  leggi di Galileo è una verità empirica, ma essa è cosi generale e l'arte speculativa   cosi costante sul nostro globo, che non può essere affetta da  veruna opinalilà soggettiva. La medesima è una verità puramente  empirica, perocché se una pietra non cadesse nello spazio libero  sulla terra non si troverebbe una ragione contraria assolutamente  necessitala da opporre al suddetto phenomeno; la pietra deve  cadere nello spazio perocché è sempre caduta; è un documento  costante dell'osservazione; ecco lutto; e questo lutto non si può  trascendere in verun modo dall'intelligenza riflessa senza cadere  in gratuite supposizioni. La riflessione non può opporre per es.  che siccome il centro e la peripheria si suppongono necessaria-  mente, cosi il corpo deve necessariamente procedere dal centro  alla peripheria, e viceversa per conseguire un'esistenza esteriore.  Questa cosa si capisce chiaramente dicendo, che una materia  centrale è necessariamente una materia caduta, ed una peripheria  è necessariamente una materia spostata dal suo centro; cosi una  materia è pure un'oscillazione necessaria fra il centro e la peri-  pheria, perocché la non si può supporre occupare due luoghi  nello spazio. Qui non si traila empiricamente di provare che  generalmente la materia debba essere attratta e respinta dal  centro alla peripheria e viceversa, ma semplicemente di provare  che questa tale materia hora e qui sia attratta o respinta, piut-  tosto che altrimenti.   Perciò l'osservazione non tratta le verità generali, ma sem-  plicemente quelle nel tempo e nello spazio; ed i cultori delle  discipline finite dicono saggiamente, che tutte le verità sono rela-  tive; s'intende che tulle le verità finite sono lali. [L'arte speculativa] L'arie prosaica è necessariamente un'arte che tratta il finito,  ed è prosaica perchè appartiene alla riflessione. L'arte specula-  tiva non è più tale, perocché si propone di conoscere non le  verità relative e finite, ma le verità generali, madri dì ogni  ordine finito. Quest' arie differisce essenzialmente lanlo dalla poetica quanto dalla prosaica, perocché aspira alla nozione,  e ad una nozione indipendente da ogni empirica autorità; sendo  tale, la non si può chiamare un' arte aslrallamente prosaica nè  astrattamente poetica, perocché contiene il suo argomento con-  creto, di cui la prosa e la poesia sono astratte manifestazioni.  Cosi lo spirito generalmente parlando non è poetico astrattamente,  perchè anche prosaico, e non è prosaico aslrallamente perchè  anche poetico. Nell'eloquenza philosophica qualche volta si vuole  persuadere (cioè parlare all'imaginazione e al sentimento, come  la poesia); qualche volta però si vuole dimostrare (cioè parlare  alla riflessione, come la didattica finita); in concreto però lo spirito vuol insinuare la verità, non imporla se sotlo una forma  poetica o prosaica; vuole insinuare una verità concreta di cui la  forma poetica e la prosaica sono forme astraile; lo spirilo vuol  trasfondere lo spirilo, il quale è semplicemente l'attitudine a  costituirsi poetico o prosaico. Quest'arte speculativa per conseguire il proprio scopo si svolse  caratteristicamente per tre momenti, che sono quelli della philo-  sophia comunemente della. Cosi prima è una s peculazione immersa in un elemento poetico o religioso (come per es. l' ispirazione e la fede). Poscia è una speculazione immersa in una  dimostrazione mathematica o empirica , cioè una verità generale  diesi vuol conseguire col melhodo delle verità finite. Finalmente  è una speculazione scettica che si rillettc in se stessa, e conchiude  che l'inlellellualilà riflessa è incompetente a conoscere l'assoluto.   La FILOSOFIA più o meno popolarizzata nei vari paesi civili  dell'Europa, appartiene sempre al primo momento, vale a dire,  è un sentimento od un'imaginazione più o meno philosophalc;  non si aspira categoricamente alla nozione, ma semplicemente a  persuadere una certa verità generale. Questa persuasione non può  riposarsi se non in una fede nella cosa o nel dichiarante la cosa.  Perciò si fa sempre appello o a un senso comune (come la scuola  scozzese), o a una verità rivelata (come generalmente tutte le Iheo-  sophie, comprese anche quelle che si dicono speculative), o finalmente a una ragione esplicita colla forza dell'eloquenza, vale a  dire, a una ragione diretta al sentimento. La FILOSOFIA coi/arie speculativa mune della gente non può essere se non una philosophia più o  meno poetica, religiosa o irreligiosa; checché ne sia, le sue ra-gioni non sono mai dirette a costituire la nozione, ma semplicemente a commuovere il sentimento , o provocare l'imaginazione:  perciò quest'eloquenza philosophica non si può chiamare poetica  nè prosaica, ma semplicemente un'arte speculativa che persuade  o commuove secondo le varie circostanze. É la sola possibile  FILOSOFIA che si possa popolarizzare, perocché il sentimento e  l' imaginazione nella gente comune possono essere mediocremente  espliciti, ma la riflessione è sempre notevolmente debole.   In questo primo momento si dice, per es., che la philosophia  dev'essere nazionale, ovvero deve servire la Chiesa , ovvero lo  Stato, ovvero la civiltà, e così via; si vuol fare della philosophia  una disciplina finita con uno scopo finito. E veramente questa  manifestazione equivoca della mente humana non potrebbe tra-  scendere a una pura speculazione, e d'altronde non potrebbe costituirsi una technica chiaramente professionale. Perciò quando?  udiamo che una persona ci risponde che il suo studio sono le mathematiche, la chimica, eie, sappiamo positivamente quelli  ch'essa dice, ma se udiamo che la della persona si dedica alla)  philosophia, rimaniamo piuttosto perplessi. Si é talmente generalizzato questo nome, che horamai non si sa più cosa si vogli a  dire ,, quando lo si pronuncia. Tra una philosophia dell'ordine  succcnnalo, ed una philosophia come speculazione pura corre  una differenza molto maggiore che non fra la botanica e la giurisprudenza.   Un secondo momento dell'arte speculativa è quello che, abbandonando il campo della fede, si dedica alla dimostrazione  mathematica o empirica, vale a dire, a una philosophia che vuol  conseguire la propria verità col methodo d'una disciplina finita.  Cosi, per es., Spinoza tratta la sua etilica con un methodo rigorosamente geometrico (proposizione, dimostrazione, corollario). Nel  secolo passato questa manìa d' imitare i malhemalici fu mollo  generale nei philosophi ; non avvertivano che le mathematiche  sono rigorosamente esatte, perocché versano in un'aslratla iden-  tità, vale a dire, si riducono alla loro assiomatica identità a = a,  locchè non potrebbe realizzarsi circa veruno scibile concreto, perocché esso scibile concreto deve contenere le categorie radicali  di qualsivoglia realtà, cioè la qualità e la quantità. Le mathematiche sono appunto esalte perchè contengono una sola categoria  (la quantità), e le loro verità non sono mai il rapporto di una  all'altra categoria (il quale rapporto costituisce l'essenza di qualsivoglia verità); questa sola categoria è appunto incontroverlihile,  perocché si riferisce semplicemente a se stessa; perciò si è dello  che i theoremi malhemalici sono giusti, ma non sono veri, appunto perchè non contengono la totale essenza di quella che noi  chiamiamo verità, o, per lo meno, le verità mathematiche hanno  un significalo altro da quello delle altre discipline. Cosi trattando  mathemalicamenle le materie philosophichesi sono dovute ridurre  a un'astratta identità affinchè riuscissero incontrovertibili come  le mathematiche. Spinoza, per es., poneva la massima cardinale  che due cose diverse non possono avere un rapporto fra loro,  perocché nella comunanza di esso rapporto elleno sarebbero iden-  tiche; di qui conchiuse una sostanza universale identica a se  slessa, la quale si manifesta nelle sue varie attribuzioni come la  spaziosità, la temporaneità, eie.; considerava la Coscienza come  una mera attribuzione di essa sostan za. Non avvertiva 1° che  nulla può essere reale se non sia Coscienza e p perc iò la Coscienza  non è un attributo ma la sostanza stess a di ogni cosa: che  ja mede sim a non è u j^ realtà, ma piuttosto i nfinita attitudine  a realizzarsi epperciò non si può chiamare nè universale, nè  particolare, nè identica, nè differente; ri on si può predicarla in  verun modo finito.   Vi ha pure un'altra forma della dimostrazione, che assai dif-  ferisce dalla mathematica. E la prova empirica, della quale ab-  biamo più sopra riferito il caratteristico essenziale. Nulla di più  ovvio che ascoltare cosi sconsideratamenle dai philosophanli che  la philosophia dev'essere utilitaria, e riposare sopra i documenti  positivi dell'osservazione. Questa proposizione presuppone una  perfettissima ignoranza delle verità puramente philosophiche.  Basta osservare che la philosophia, sendo il termine più generale  della scibilità, non può essere subordinala a uno scopo altro dall'arte speculativa se stessa; esso scopo suppone necessariamente che vi sia qual-  cosa più concreto della philosophia. Solamente con questa sup-  posizione si possono giudicare positive certe verità, alle quali   deve servire. Il terzo momento dell'eloquenza philosophica è, propriamente rnm«viAo  parlando, un'eloquenza scettic a. Si è scoperto che ogni idea consta  di due termini contrari, ma siccome la riflessione deve necessa- Se eìticìj  riamente affermare o negare, così s i conchiude che nè la ne iiiL zione nè l'afferma zione contengono le verit à. È questo lo scelticismo finale, al quale arrivò la speculazione greca. Negli ultimi V  tempi della philosophia greca apparvero tre syslemi, i quali,  benché non fossero prettamente sceltici, riuscirono perù pratica-  mente allo scetticismo. Così, per es., lo stoicismo (il quale non era menomamente scettico, ed affermava che l'universo è il corpo  d'Iddio), conchiudeva che nel mondo non era cosa veruna pre- azjì^W- .v- V  feribile a un' allra, e così la vera beatitudine dell'uomo saggio, ^ (  non consiste nel conseguire certe cose ch'egli crede ottime, e f* 1 "* * f /"cansare certe altre eh egli crede grame; m a piuttosto nella piena indifferenza ad ogni cosa monda na. Cosi pure i neoplatonici, i quali non erano menomamente scettici, lant'è che proclamavano  che l'assoluto è uno, epperciò non intelligibile, perocché l'intel-  ligenza suppone l'intelligente e l'oggetto dell'intelligenza, altro F.f te & \  dalla stessa), riuscivano praticamente all'estasi colla quale si ] z *iit' ,\t;c   astraevano da ogni senso esteriore. Gli scettici propriamente delti e poi avendo conosciuto che ogni termine ha il suo contrario, aspi   ravano ad un giusto equilibrio (melriopatfna) dei termini contrari, epperciò conchiudevano doversi speculare continuamente, senza pronunciare giudizio veruno. L’apathia o ataraxia degli stoici, l’estasi dei neoplatonici, la  mctriopathia degli sceltici, enunciano un solo fatto concreto, ossia   rijr.fimp fflp ny.il riffll' i pio Hifr»"™ h iimang n p.nrirqflire l'assoluto.  Gli stoici trovavano quest'incompetenza nell'assoluta unità dell'universo, cosicché affermavano che l’intelligenza non polendo essere se non dualistica, necessariamente non poteva concepire l'assoluto, il quale è un'unità. I neoplatonici trovavano quest'incompetenza nell'intelligenza, che presuppone un oggetto essenzialmcnle altro dall'intelligente. Gli scettici finalmente trovavano  quest'incompetenza nell'assoluta contrarietà delle idee, dalla quale  arguivano l'assoluta incompatibilità di due idee contrarie. Sommariamente si può conchiudere che il sentimento  l’e imaginazio ne sono^cjjmpe tenti a concepire Tassoluto^ perocché  I ìvA*'tZ~ var j ano ne j varj soggetti; la riflessi one è pure incompetente a  t:|(*M,»*^. concepirlo, perocché deve supporre il suo oggetto essenzialmente   altro da se stessa, e trovando che ogni termine dell' idea ha il suo contrario, conchiude necessariamente che una tale idea debba  essere un affermativo o un negativo, ma dappoiché non è astrattamente nè l'uno né l'altro, ossia non è un astratto positivo  perché anche un negativo, e non è un astratto negativo perchè  anche un positivo, arguisce che l’intelletto è incompetente a  giudicare. Questo avviene perchè non si conosce quella facoltà,  wr^ÈTche noi chiamiamo facoltà concettiva , la quale differisce essenzialmente tanto dal sentimento come dalla riflessione. Il senlimento affermo giustamente la propria incompetenza a costituirsi t&wtfc-ccìv^vp-un assoluto, l’intelligenza a ffermò pure la detta incompelcnza, perocché capì che l'assolulo deve contenere anche la riflessione,  epperciò la riflessione non può giudicare quello che non può essere un suo oggetto altro da se stessa Cosi l'arte della parola, svolgendosi nel sentimento artistico  e nella riflessione scientifica, arrivò a uno scetticismo filosofico, e si giudica generalmente incompetente a costituirsi un assoluto. Lo scetticismo è la necessaria conclusione d'ogni intellettualilà, che abbia trasceso il sentimento, e non sappia trascendere alla pura speculazione. Il nostro filosofo si propone anche la celebre questione del progresso, ossia del cammino della civiltà; e trova che essa  fu  evolutivamente risolta coir una o coll'altra delle seguenti tre risposte: Il genere umano invecchia e invecchiando/dgiara  (sentenza prediletta dagli antichi, da parecchi ottimi poeti moderni e specialmente dai teologi; con essa lo spirito, scorgendo le migliori cose desiderabili, le illumina col prestigio della distanza nello spazio e del tempo.  Il  genere umano scuote le tenebre della sua ignoranza, ricerca la scienza, con cui recar rimedio alle sue infermità, e accrescere i beni, insomma migliora; (con essa lo spirito sforzatosi di prendere il governo del mondo,  raggiunge la sua dignità, dalla quale la mistica antichità lo dichiarò decaduto: ed è prediletta dai novatori in genere). L'uomo né peggiora né migliora, ma svolge in modo la sua spiritualità, che la prospettiva del suo processo rimanga duplice, a migliorare per una parte, a peggiorare per l'altra: lo spirito è una perpetua compensazione attiva del bene e del male, in modo che l'uno generi l'altro per necessità logica e questa é la soluzione preferita dal filosofo: soluzione, come si [Prolegomeni] Lo Spirito oggettivo vede, trascendentale, ma punto strana perchè l'esigenza del trascendentalismo è propria dell'uomo. Esso è necessario alla spiritualità, cosi come la respirazione al corpo umano, sebbene, sommando le opposizioni che si sono mosse alla speculazione, si vede che tutto lo scibile finito iu l'avversario d'ogni trascendentalismo speculative. La  determinazione suprema  della  voce, LA FAVELLA, cioè LA PRONUNCIA ARTICOLATA DELLA DIALETTICA PSICHICA è il vero fondamento dello scibile, perchè concreta sensibilmente lo sdoppiarsi del pensiero. Èla formula e insieme lo strumento più eminente della manifestazione spirituale. Sebbene  né  LA FAVELLA, né la facoltà di acquistarla siano necessariamente richieste per determinare la posizione dell'uomo nella natura il sorgere del LINGUAGGIO, È, COME IL PUDORE, SINTOMO della spiritualità che nasce e si afferma. Lo studio della linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un terreno libero da qualsivoglia pas-[Introduzione alla coltura generale, Prolegomeni Massime e Dialoghi, Fase. Spirito oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere teologiche, o in balla del liberalismo naturalistico o finalmente asseconda le simpatie e avversioni etniche. Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di possedere la più perfetta di tutte le lingue -- opinione che naturalmente osta ad un bilancio del contributo che ogni idioma porta all'educazione dello spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come è posto per tanto tempo, è assurdo, giacché presuppone pre-nato alla lingua il pensiero, il quale mediante essa debba riferirne l’origine. L'unica ricerca genetica che, fuori del dominio speculativo, può condurre a utile risultato, è la determinazione di un periodo riconoscibile nelle vicende  storiche, dal quale si sono sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l’idea e le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente definibile, perchè è meramente naturale. É una ragione psichica immediata come quella per la quale il RISO è foneticamente altro dal LAMENTO e SIGNIFICA diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle forme materiali e radicali. Giacché agevolmente si capisce come una radice viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato, patisca in questa determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione. Anzi, la [Considerazioni ecc., Lo spirito oggettivo] radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento. Si può dire che il pensiero di un popolo tanto più liberamente si svolge nella storia quanto meno sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come l'attività le corrompe e spegne. Molta importanza ha lo studio delle lingue per la istruzione e l’educazione del pensiero. L’uomo è tante volte uomo quante lingue conosce, giacché tale studio concerne vari modi che rispondono ai vari gradi del pensiero. Infatti, l'idioma accenna progressivamente a dare le forme sensibili, le intellettive, e le concettuali. Quanto più il pensiero si avvia all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze tutte formali della lingua. Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è occasionato il pensiero. Più tardi capii che  la lingua è mezzo necessario alla sua formulazione. Finalmente concepii che la vera forma intrinseca del pensiero non può essere manifestata da questo mezzo estrinseco, che è la lingua. Il che significa che essa, giunta che sia di fronte alla speculazione pura, o per dir meglio, al sistema contemplativo si esautora da sé medesima, riconoscendosi insufficiente a esprimerlo concretamente. Anzi, la lingua [Idee radicali delle discipline matematiche ed empirico-induttive. Introduzione alla coltura generale. Prolegomeni. Massime e Dialoghi. Fase. Lo spirito oggettivo] VOLGARE, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai differentemente che la letteraria e la FILOSOFICA, perocché lo scopo delle varie forme linguistiche non è menomamente identico. Anche la semplice nozione storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma speciale. Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de’suoi tanti romanzi, C. dice. Il mio protagonista studia sopratutto di famigliarizzarsi coi singoli idiomi che sono svariatissimi e giudica che la nozione à un certo paese suppone quella del minuto popolo, epperciò una pratica dell'idioma locale. E vedemmo che così si comporta nei suoi viaggi egli stesso. Quanto alla questione circa la preminenza del toscano sugl’altri dialetti nella nostra lingua letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non perchè ci paiano originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale sicurezza di sguardo ha C, in ogni questione, che si affaccia al suo intelletto. LA LINGUA ITALIANA possiede, come tutte l’altre, il suo proprio genio caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana. Questo avviene perchè, fra tante differenze, essi posseggono un carattere comune. Memorie  postunte,  Fase. Itinerario di un inqualificabile. Fase. Lo spirito oggettivo] grammaticale e lessicale; e L’UNITÀ DELLO SPIRITO ITALIANO, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo generalissimo tipo comune dei dialetti. Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo classico della lingua italiana, ovvero se IL GENIO DELLA NOSTRA LINGUA, essendo sparso in vari dialetti, si debba ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano. Ma non si deve dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto sivoglia buona, è pur sempre UN DIALETTO, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente. Nessun popolo scrive come parla. Le lingue parlate nascono e crescono nel popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze progressive delle lettere e delle scienze. Ora, questo materiale della lingua parlata è tanto più sufficiente quanto più ampiamente è desunto da tutti i dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo il buon esempio del grande ALIGHIERIi, che, quantunque toscano, esordì a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua veramente italiana. Spirito oggettivo. Molte forme grammaticali e lessiche sono riducibili allo SPIRITO GENERALE DELLA LINGUA ITALIANA, talune non lo sono. Il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti nella lingua italiana. Coll'idioma esclusivamente toscano s'immiserisce non solo la lingua, ma conseguentemente anche  l'idea, la quale  trascende le limitazioni locali e popolari. Dai Sogni e Favole:   Dal Sogno fiiogoologico. Perfezione ed imperfezione degli enti. Dalla Favola antropologica. Dialogo tra Fantasia, Lucifero ed il filosofo. Dalla Favola antropopedeutica. Dialogo tra Favola ed Filosofo. La filosofia e la solitudine. Dalla Favola angelica. La vita del filosofo. Dal Sogno utopistico. Dialogo fra il filosofo ed un ere   mita della futura società riformata.Dal Sogno utopistico. L’educazione in un ordinamento utopistico della società. Dalla Favola utopistica. Una gita in aeroplano nella società riformata.   Dalla Favola utopistica. Un « casus belli »  Dalla Favola utopistica. Le condizioni economich  della società riformata dell’anno 2000. Dalla Favola utopistica. Un disegno di ordinament  cittadino nella società riformata dell’anno 2000 .  Dal Sogno assurdo. La società nel secolo xix e nell’e   poca successiva della riforma.   Dalla Favola assurda. L’igiene.   Dal Sogno del diluvio riformatore. Un cataclisma. Dalla Favola di F.rato. Poesia, scienza, speculazione    Dalla Favola ili Erato. La danza, la mimica, la mu¬  sica, la poesia. Dalla Favola di Erato. I grandi poeti sono spiriti concettivi. Dalla Favola tecnica. Prolusione agli studi tecnici in una società futura. Dalla Favola filosofica. Manuale pratico di vita civile Dalle Massime e Dialoghi:  Reminiscenza.» Espressione della verità. Recondita opera della filosofia nella storia dell’ umanità. Gli attori della nostra storia europea. Gli spiriti forti e la moralità. I filosofi nella società degli uomini comuni. Debolezza delle facoltà mentali. Celebrità e saggezza. I giudizi del mondo. Apprendere da sò stesso o dal maestro .II giornaletto umoristico. La tirannia della debolezza. L’apprezzamento della filosofia del mondo. Stazioni nell’itinerario degli studi. Dialogo di Patologo e Apatologo.» L’uomo piacevole.  Machiavellismo delle sette. Differenze spirituali. Un quinto giudizio del mondo.Erutti di una coatta abnegazione. La celebrità ed il sapere. Dialogo della Luna e della 'ltrra. Lagnanze e contentezze inopportune. » L’intrinseco del mondo.  L’ineccepibile probità. Conosci te stesso. Il vero sentimento e la costumanza. La predica delle tre sorelle . Metodo per essere colto e sapiente. Scopo di un filosofo . Catechismo de! medico praticante. ”Documenti esteriori della soggettività. L’inettitudine dei filosofi e dei poeti . Annunzio librario. Dialogo di un filosofo con un amico. Orientazione dello spirito speculativo. L’infelicità degli uomini grandi . consigli delle persone. La setta. La personificazione delle maggioranze. I giudizi del mondo. Verità speculativa e verità della riflessione. Sentenziucce. Le ragioni delle sette. Predilezione del sentimento e della riflessione Le abitudini della vita pratica e teorica . Insegnamento delle massime pratiche mondane. L’hegeliana filosofia del diritto .  Trascendentalismo.  La divina provvidenza1 diritti della gente. Astrazioni viste sotto un solo aspetto. Ragioni della verbosità . La solitudine e la città. Le lodi e i biasimi del nostro tempo. La morte spirituale. L’inavvertenza. Politica. Circa la musica contemporanea. I desideri del filosofo .L’essenzialità del sistema contemplativo .Uno stravagante .  li soldato. Un rimprovero sconsiderato1. 'esigenza dello spirito. Il lavoro del cervello. L’educazione positive. La composizione. I ire periodi della storia umana  Intensità dell’esistenza ed annullamento  Insegnamento della lingua. I fondamenti dello scibile finito. La religiosità dell’Asia. La religiosità in ROMA. II Cristianesimo.L’igiene. L’ozio delle Trascendentalismo. La verità poetica. La responsabilità. Paradossi. La professione. Il regime.  L’educazione del getter. L’essenza e il formalismo dello scibile umano. Il bello poetico. Il deputato. Crepuscolo  di  Milano. Pellegrinaggio. Unione di Torino. Silorata. Revue franco-italienne di Parigi. Philosophische Monatshefte, Rabus. Pasaelogices Specimen. Zeitschrift fur Philosophie und philosophische  Kritik, Perseveranza. Antonietti. Considerazioni sopra il sistema dello Spirito e della Natura. Lorenzi   alle  Considerazioni. Gazzetta Letteraria Ercole. Filosofia delle Scuole Italiane, Ercole. Pasaelogices Specimen. Annuario biografico universale, Articolo d'indole generale. Lorenzi.  Notizia  degli  scritti  e  del  pensiero  filoso-  ficodi  Pietro  Ceretti  accompagnata  da  un  cenno  autobiografico pel  medesimo  (la mia celebrità). Ercole. Torino, Unione Tip. Editrice. Prefazione  de  IP  Autore    In  Atti  deirAccademia  Reale  delle  scienze  di  Torino (Classe di scienze morali, storiche e filosofiche).  Adunanza. Nuova Antologia.Valdarnini.  Zeitschrift filr Philosophie und philosophi-sche  Kritiky  Halle,  Notizia  bibliografica.In  Rivista  Italiana  di  Filosofia  dNotizia  bibliografica  del  Prof.  Felice  Tocco.Introduzione  dei  traduttori  ai  Prolegomeni, Nuova  Antologia. Letteratura.Tarozzi. Ercole. Rivista Italiana di Filosofia, Ercole. Machiavelli, T. C. In Lettere ed Arti.Lenzoni. Ateneo Veneto.Ift Revue philosophique de la France et de L’Etranger. Perez. Ercole. Sinossi. Rassegna  Nazionale. Un poeta filosofo.Notizia. Rivista Italiana di Filosofia. Notizia Valdarnini. Risveglio educativo, La pedagogia di Ceretti. Studio del Val-darnini.    Prefazione  dell’autore  In  La  Coltura,  La  fama  postuma  di  un  Filosofo  poeta,  del  Prof.   G.  Zannoni. In Voce del Lago Maggiore, C. poeta, di Alemanni. La  Filosofia  della  Natura  di  P.  Ceretti  per  Pasquale  D'Ercole.  Torino,  Unione  tip.  Editrice. The Mind,  Benn. Zeitschrift fììr Philosophie nnd philosophische Kritik, Leipzig, Notizia sulle opere, Hermann.  Rinnovamento  Scolastico,  Roma, Ceretti nella storia della Pedagogia, di Fantuzzi. Deutsche Litteraturzeitung, Notizia sul volume dell'Essologia, del Giovanni Cesca. Rivista  Italiana  di Filosofia,  Un  nuovo  Trattato di Filosofia della Natura del Valdarnini. Nella  Storia  della  Pedagogia  Italiana  del  Prof.  Angelo  Valdarnini,  Paravia  e  C.Idem  nel  Dizionario  illustrato  di  pedagogia  del  Martinazzoli  e  Credaro.   -  Rumori  mondani  di  GaetanoNegri, Milano Discorso. Ercole. Inaugurazione del monumento a Ceretti,Intra,Vedetta.Alemanni,Saggi di Filosofia Teoretica. Valdarnini.  Firenze  Prefazione  dell’Autore. Introduzione. Ercole. Essologia, Stampa Notizia sul voi. deirEssologia. Alemanni.Rassegna Nazionale NotiziaAlemanni.  Rivista  Italiana  di  Filosofia,  stX.i,-La  Coscienza  Fisica,  studio Alemanni.   Nella  Storia  Compendiata della Filosofia di Cantoni (Milano  Hoepli) Rivista  Pedagogica Italiafia,  La  filosofia  naturale  del  Ceretti.  Valdarnini.  Coltura,  Notizia  del  Pro-  fessore I. Petrone. In Rivista Italiana  di Filosofia, Le dottrine  estetiche di Ceretti. Studio. Alemanni  (Literarisches Centralblatt, Essologia. La Fisica. Nella  Enciclopedia  universale  illustrata,  Milano,  Vallardi  Editore.  Cenno  sul  Ceretti.   Grundriss  der  Gcschichte der.Philosophie,Viertel Theil di Ueberweg-Heinze. Notizia  sul  Ceretti  (Credaro).  In  Rivista  Filosofica. La  filosofia  di  P.  Ceretti.  Alemanni. Ceretti (n. intra), filosofo. implicatio — empiegazzione — ES implicatum — empiegato — EX implicans — empiegante — SYN. L'uomo nella serie zoologica.L'uomo vuol essere consideralo come l'ultimo frutto , ossia il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più recente dell'albero 200 logico. E qui nasce oggidi rispetto all'uomo una contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da ' più prossimi animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla specu lazione, e neppure dalle discipline naturali empirico - induttive; ma la si agita sopra un terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità empirico - induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni , partigiana di religiosità, di moralità, e così via . È assurdo supporre che una specie si tramuti in una nuova specie come tale ; perocchè le specie sono mere distin zioni teoriche del nostro intelletto . La natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum ; e conseguentemente le distinzioni caratteristiche, che costituiscono le specie, non risul tano se non in quanto si prendono in considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini intermedii . Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero zoologico , nei quali le differenze ci sono più sensibilmente mani feste, troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii rapporti , e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette varietà si suddividono in varii indi vidui pur differenti fra loro . Inoltre, troveremo che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la specie che si prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò non si deve inve stigare nelle specie come tali , ma piuttosto nei minimi termini della specie , ossia nelle variazioni individuali. Quesle variazioni , tuttochè lentissime, modificano col volgere dei secoli le specie , così come le conchiglie microscopiche, variando la propria na tura, variano il terreno che ne risulta. § 109. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva va riazione sono di tre ordini , vale a dire : agenti planetarii, agenti psichici, agenti spirituali. Questi agenti sono pro gressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella efficacia spirituale. Gli agenti del primo ordine modificano semplicemente l'orga nismo, e indirettamente, ma assai lentamente, le facoltà istintuali. Sono gli agenti puramente planetarii, p . es . , la natura del suolo e dell'aria, ossia generalmente il clima, le condizioni geografiche e topografiche, e cosi via.Questi agenti si possono chiamare elementari; perocchè operano su tulla l'animalità senza distin zione veruna , e sono presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi generale , che gli animali inferiori non subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie degli animali inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire le modificazioni necessitate dalle progressive va riazioni dell'aria e del suolo . Gl’istinti delle specie animali infe riori sono rigidi e difficilmente modificabili , appunto perchè sono istinti poco variati , che non possono neutralizzarsi fra loro in una ricca varietà di modificazione. Gli agenti del secondo ordine sono psichici, epperciò più intimi nell'organismo, ossia più essenziali . Questi agenti psichici modificano l'animale nelle sue intime facoltà , ossia attitudini , assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti naturali succennali. Questi secondi agenti sono nella loro essenzialità un maggiore sviluppo dei primi, epperciò si manifestano nelle generazioni susseguenti come profonde modificazioni dell'organismo e dell'istinlualità . Queste modificazioni non sono più mere variazioni giusta una astratta affinità , per le quali, p. es ., una facoltà diventa minore di altra facoltà, vale a dire, si manifestano come pure variazioni quantitative dell'istintualità . Sono modificazioni profonde che diventano la proprietà caratteristica dell'animale e qualche volta sono affatto estranee e contradittorie alle facoltà delle genera zioni preesistenti. Allora si dice , che nuove specie sono venute all'esistenza, e le vecchie si sono spente . Le facoltà psichiche si modificano sulla base di istinti più svariati , i quali si neutralizzano appunto fra loro tanto più facilmente quanto più svariati . Gl'istinti degli animali inferiori sono tanto più fermi e rigidi , quanto meno molteplici e sva riati. Queste modificazioni causate da fattori psichici modificano realmente il sistema anatomico e fisiologico ( perocchè non sa rebbe possibile una modificazione psichica sulla base d'una inva riabilità anatomico - fisiologica ), ma sono modificazioni profonde , le quali , se qualche volta poco modificano l'ordine anatomico fisiologico sensibilmente manifesto, sono però effettuate piuttosto negli elementi anatomici, nel così detto ordine istologico. Le dette modificazioni psichiche non spettano, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma sono più profonde modificazioni dell'organismo e della corrispettiva istintualità; esse riflettono piuttosto le mere individualità animali, epperciò sono variabili indefinitamente . Le condizioni causali di queste modificazioni sono date dalle varie ciscostanze , nelle quali ver sarono certi individui animali. Cosi non è solo la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vivono, ma anche i varii vegetabili e animali con che vivono ; perocchè dette varie condizioni sono sufficienti a modificare l'anima dell'animale . Le delle varie circostanze costringono certi individui a eser citare preferibilmente certe facoltà psichiche, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca molteplicità e varietà delle facoltà istintuali proprie della specie, queste facoltà varia mente si combineranno fra loro e si neutralizzeranno. Gl’istinti cosi neutralizzati, ossia radicalmente variati , si trasmettono alla generazione veniente; e cosi le condizioni succennate , variando le altitudini dell ' anima individuale, preparano il terreno alle più ricche e più profonde azioni dei fattori veramente spirituali . I fattori spirituali modificano quelle attitudini che appartengono non alla specie, ma all'individuo animale, e sono fattori che non più modificano l'anima senziente , ma lo spirito ideante dell'animale. Tuttochè questi fattori, nel loro concreto sviluppo, appartengano meramente allo spirito umano, pure gli animali superiori ( p . es . , le scimie antropomorfe) posseggono un certo quale esercizio equivoco e parziale dei suddetti fattori. Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’indi vidui più vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani . È questa la ragione per la quale i suddetli animali non sola mente si aggregano fra loro, ma si organizzano gerarchicamente giusta certi statuti del loro sentimento comune. È importante che un individuo animale possa profittare delle proprie osser vazioni ; perocchè dello profitto provoca una maggiore perizia pratica, la quale dai più vecchi è partecipata ai più giovani e trasmessa alle generazioni vegnenti come una dialettica delle categorie istintuali , che più tardi si svilupperanno in una vera mentalità. Le categorie spirituali funzionano qui come sviluppate cate gorie psichiche, epperciò il linguaggio , nel suo amplo significato, vera sintesi e genesi manifesta delle categorie spirituali, arriva all'esistenza : come linguaggio puramente psichico; come linguaggio equivoco, ossia psichico -spirituale; come linguaggio assolutamente spirituale. Qui non occorre accennare al terzo stadio, ossia al linguaggio spirituale proprietà esclusiva dell'uomo, ma solamente al primo e secondo stadio del linguaggio che nasce e si sviluppa nell'animalità subumana. Il fattore caratteristico di questa crisi, ossia lo svi luppo dell'anima senziente nella spiritualità pensante, è manifesto piuttosto dal linguaggio muto delle emozioni del corpo e princi palmente di quelle della fisionomia. Quest'emozioni possono for mulare un vero linguaggio, in quantochè manifestano definite emozioni intime con certe categorie, che, non essendo destinate alla mera conservazione dell'individuo e della specie, non si pos sono chiamare semplicemente psichiche, ovverosia istintuali. L'animale, p . es., lussureggia per una mera sensualità erotica, la quale non può essere destinata in verun modo alla pro pagazione della specie. Così pure gli animali giovani giocano colla vivacità propria dell'età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente, all'educazione e destrezza corporale dell'indivi dualità . Così i genitori non solo alimentano la loro prole, ma la educano e disciplinano alle pratiche operazioni requisite dalla propria specie, locchè significa che l'ingenita istintualità non potrebbe bastare, ed abbisogna di ammaestramenti delle osser vazioni date a coloro che hanno già vissuto praticamente nella vita . Il linguaggio che abbiamo chiamato equivoco, ossia psichico-spirituale , è quel tale linguaggio fonetico, che veramente non consta di vocaboli , ma semplicemente di VOCIFERAZIONI, le quali significano non solo definite emozioni dell'animo, ma certe anfibologiche determinazioni della mente. Così , per es . , i cani , alla presentazione d'un oggetto che altre volte fu loro nocivo, possono fuggire guaiolando.Qui certo v'ha una psichica emozione provocata da un simile oggetto, ma quest'emozione dev'essere legata alla memoria di una sensazione, la quale memoria appunto costituisce una deter minazione equivoca, psichica o mentale. Gli animali superiori posseggono una svariatissima facoltà SIGNIFICATIVA, mediante una modulazione fonetica, di queste equivoche determinazioni. Quando l'animale arriva definitivamente alla soggettivazione della propria Coscienza, ossia al suolo distinto categoricamente dal non- lo, entra categoricamente nella coscienza spirituale. Questo passaggio costituisce la creazione dell'uomo, e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può significare un soggetto umano. Qui l'umanismo si manifesta categoricamente nel proprio caratteristico ( la definita soggettivazione), e si manifesta colla parola non certo coi documenti anatomico-fisiologici, che non possono bastare se non a certe ample generalità della distinzione animale.1 Sguardo retrospettivo sullo sviluppo della Coscienza naturale. Prima di entrare a caratterizzare questa crisi impor tantissima, ossia lo sviluppo dell'anima nello spirito, dobbiamo rapidissimamente riassumere la speculazione retrospettiva della Coscienza dall'ordine uranico nel planetario e vegeto animale. Nell'ordine uranico la coscienza procede verso un'individuazione dalla nebulosa alle comete, al sole ed ai pianeti. Quest'individua [Questo punto è espresso molto determinatamente e chiaramente nel l'altra opera di C. Considerazioni sopra il sistema generale dello Spirito,, oveè detto. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo (assai più caratteristico di quell'antichissima vaga definizione dell'uomo ragio nevole) è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione di questa sogget tivazione è fatta con parole, con gesti o altri inezzi spiritualmente formolati , Conformemente a ciò, più innanzi, l'uomo è designato anzi definito come coscienza soggettivatazione, qualunque la si voglia supporre , non può essere una sog gettivazione ; perocchè l'individuo non si distingue dalla specie , e le varie specie dei corpi celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure, speculando in un ordine generalis siino, le varie specie vegetabili ed animali sono varie età della vegetazione e dell'animalità. Ma nelle specie vegetabili l'individuo principia a distinguersi dalla specie . Nell'ordine animale non solo l'individuo si distingue dalla specie, ma anche il soggetto dall'individuo ė progressivamente distinto. Cosi, p . es . , il corpo animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate ed organizzate fra loro, le quali , svolgendosi dall'una in altra fase, costituiscono i varii organi ed apparecchi e funzioni vitali dell'a nimale. Ma la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è nell'animale concreto non negli animalcoli gregarii che lo costi tuiscono . L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo svolgimento del senso del pensiero. Lo Spirito o la Coscienza spirituale . Senso e pensiero e la loro distinzione. Qui dobbiamo caratterizzare definitivamente la distin zione del senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla Coscienza ; perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente, ma può supporsi astratto dalla Coscienza del senso; perocchè la Coscienza e il senso possono funzionare indistinta inente . Finchè la Coscienza non si distingue categoricamente dal proprio oggetto , è una coscienza identica alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la Coscienza si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: Io sono e l'oggetto è. Io sono quello che sono, e l'oggetto quello che è, cioè l’lo e il non - lo siamo due termini distinti . Quest'idea fondamentale che si percepisce un lo è la soggettività ossia la nascita dello spirito. Quando C. dice qui nascita dello spirito, intende dire nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A con ferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il principio sensitivo non come pura e semplice sensazione, ma come sentimento. Sulla predetta distinzione, del resto , ritorna nei paragrafi susseguenti. Le fasi dello spirito. Lo spirito consta di tre fasi, il sentimento, l'intel letto ed il concetto. Lo spirito nel sentimento è uno spirito immediato, che poco si distingue dall'anima senziente , ma quest'anima senziente appartiene allo spirito, perocchè si percepisce soggetto. Il sentimento. Qui dobbiamo brevemente storiare lo spirito nella sua prima fase, ossia nel sentimento. Il sentimento consta di tre termini: l'attenzione, la memoria, l'imaginazione. La funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la soggettività , che lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile. L'attenzione deve funzionare nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve sentire che il senso della natura, ossia l'istinto, più non gli basta. Questo sentimento dell'insufficienza del proprio istinto l'avverte, che necessita osservare ed imparare le pratiche della vita ; è la prima funzione della mentalità . Epperciò tutte le lingue ariane conservano più o meno esplicite le traccie della parentela lessica di maneo e mens, quasichè pensare e fermarsi, ossia fermare l'attenzione sopra un oggetto, siano due opera zioni molto affini. Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste ope razioni, nella loro sensibile inanifestazione esteriore s'identificano in un fatto comune, quello dell'arrestarsi. La Coscienza che fissa l'attenzione sopra un oggetto, cerca nell'oggetto qualcosa oltre il sensibile immediato, quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente. La seconda funzione caratteristica del sentimento è la memoria . Mediante la memoria una sensazione presente si può risu scitare quando non sia più presente. La coscienza attentiva all'oggello studia un oggetto esteriore ed abbisogna della pre senza di esso oggello per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa l'oggetto osservalo, epperciò si costituisce indipendente dalla presenza del medesimo.La terza funzione caratteristica del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo conserva l'oggetto osservato, ma crea l'oggetto che non ha osservato. Questa funzione emancipa la Coscienza, non solo, come la memoria, dalla presenza dell'oggettto, ma anche dalla sensibile esteriore realtà del medesimo, epperciò l'imaginazione può liberamente crearsi una propria oggettività . Questa facoltà crea non solo l'oggetto composto di oggetti osservati, ossia non crea solo la mera composizione, ma crea gli oggetti che non constano di elementi osservati , ma oggetti radi calmente imaginari , tuttochè le semplici categorie dello spirito e della natura debbano necessariamente fornire all'imaginazione se stesse per possibilitare la creazione. Il passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante , ossia dalla bestia all'uomo, è pure una progressiva distinzione della Coscienza in soggettiva ed oggettiva . Qui la detta distinzione è una mera distinzione generale dell'lo dal non-Io . L'lo si sup pone vivente e pensante altro dal non- lo, in sè stesso parimenti vivente e pensante. La natura si rivela come un popolo di viventi e di pensanti , non si suppone ancora l'altro dal vivente -pensante , ossia il non vivente e il non -pensante ; si suppone semplicemente l'altro dal moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre, stochiologica e ininerale, la vegetabile e l'animale si suppongono distinte dal mio lo, non però distinte dall’lo generalmente par lando, ossia si suppongono possedere un loro lo analogo a quello della Coscienza umana . Esaminale le radici, ossia gli antichissimi suoni elementari del linguaggio e troverete ogni dove significata l'universa natura come vivenle e pensante analogicamente alla Coscienza umana ; non vi troverete mai la natura morta colle sue forze cieche, go vernale da necessità parimenti cieca , vale a dire, la natura della riflessione. Il sentimento esplicito dalla Coscienza soggettiva può essere comunicato dall'uno all'altro individuo. È questa comuni cazione la prima proprietà per cui l'idea cogitabile è distinta dalla mera sensazione. Nessun linguaggio potrà fornire una sensazione, se questa non sia stala data dal senso come tale lo potrò, p. es. , parlare in qualsivoglia modo degli oggetti visibili , ma il cieco nato non potrà mai comprendere che sia la visibilità. Se un soy getto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva , potrà, parlando degli oggetti veduti , richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non potrà mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice imaginazione.La prima conseguenza della Coscienza senziente che si sviluppa nella cogitante è che, siccome l'idea come tale , ossia nella forma della Coscienza cogitante, può essere trasmessa dal l'uno all'altro soggetto, non può essere trasmesso il senso come tale , ossia nella forma della Coscienza senziente . Cosi il soggello è abilitato a sapere quello che non egli , ma gli altri hanno percepito col senso, oppure quello che egli in altro tempo ha per cepito col senso , oppure indurre un'idea da quello che presen lemente percepisce col senso  C.. Sinossi, ecc. Cosi , p . es. , la pecora condotta al macello vede macellare la sua simile e non solo non induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa presente operazione signi fichi un'uccisione ; perocchè non possiede l'idea della morte. Cosi il soggetto pensante può sapere quello che il senziente non può sapere, e questo sapere nasce da una facoltà, per la quale da una sensazione si astrae un'idea. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato colla memoria, e nell'avvenire coll'ima ginazione; il soggetto senziente vive astrattamente nella sua sen sazione presente. In virtù della sensazione, che non può essere indotta in un'idea, egli non possiede, come il pensante , la distin zione di una natura predominante ed insubordinabile al soggetlo , e di una natura subordinabile e passibile del soggetto . Quest'idea prototipa della forza è un'idea cardinale dello spi rito, è stata il primo germe della religiosità. Osservate il Dio di tutti i popoli, e lo troverete Dio , non perchè sommamente ragio nevole, ma perchè onnipotente. Nelle religioni spiritualmente più adulte rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto che quella della ragionevolezza, l'attributo eminentissimo della divinità. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato , di essere stato lattante, di essere stalo partorito , e cosi pure può sapere che tutti i soggetti , nessuno eccettuato, non vissero oltre una certa inassima età, ma morirono in quella o prima di quella . Conseguentemente egli sa che il sog getto non solo nasce e nuore, ma può nascere in varie condizioni , e morire in qualsivoglia momento della sua vita . $ 126. La nozione della nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della Coscienza realizzato la prima volta che la Coscienza senzienle si svolge nella pensante; perciò sapiente inente nella genesi è detto che l'uomo prima di peccare, ossia di gustare il frutto del bene e del male, non inoriva, ed avendolo gustato dovrà morire .Veramente la Coscienza senziente non può sapere di nascere e di morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione trasmessa dall'uno all'altro soggetto , ovvero un'idea in dotta dal fatto costante della morte. Ricapitolando, questa crisi della Coscienza, ci mani festa che la Coscienza , dalla sensazione svolgendosi nella men talità , procede in un sistema di distinzioni ideali , che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità , che nasce dalla sensazione , è prolotipicamente imitatrice della sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la forma della sensazione stessa , che pro gressivamente si trasforma in quella del pensiero . La mentalità è prototipicamente sentimento, e funziona in tre caratteristiche fun zioni cioè : come attenzione ; come memoria; come imaginazione . Da queste tre prototipiche funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La mentalità non più vive nell'immediata sensazione, ma crea il conflato temporaneo e vive nella retrospettiva del passato e prospettiva dell'avvenire. Questo conflalo temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre l'imme diato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità induci bile dall'osservazione. Da quest'osservazione nasce una seconda idea elementare della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza subordinabile alla nostra . Di qui la mentalità si esercita per subordinare le forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un fatto costante che l'uomo nasce e muore, e finalmente che io come uomo sono nato e devo morire . L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un'idea comunissima, è lungi dall'essere tale . La Coscienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi viventi , percepisce la morte come un fatto costante ; ma, come la riſlessione , non arguisce punto che questo fatto , tuttochè costante , sia necessario . Suppongono questi selvaggi che la natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso l'uomo; ma suppongono pari menti che quest'uccisione non sia una necessità, ma una sforlu nata accidentalità. La coscienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto possiede la sua propria determinazione indi viduale ; ma proprie determinazioni non affettano un sistema generale della Coscienza umana, che perciò ſu chiamato senso comune. Mentre questo sistema generale della Coscienza è piena mente uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comuue in on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia pro fetico , laumaturgico, e così via . Generalmente parlando, questa Coscienza trascendente subor dina la comune, come provano i varii sacerdoti della primitiva religiosità . Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica con tradittoria a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze gene rali della pratica oggettività, allora si dice , che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente. L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal mero senso comune ( in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze pratiche dell'oggettività natu rale e spirituale ( in questo senso gli alienati sono coloro che comunemente si chiamano pazzi ). La Coscienza trascendentale, ossia la Coscienza domi nata dall'idealismo, Coscienza essenzialmente poetica , è il polo opposto della Coscienza dominata dalla sensazione, Coscienza essenzialmente prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità , a questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di quest'opposizione archetipica della sua storia.Il linguaggio e i suoi stadii. L'organo più essenziale e più generale della mentalità è LA LINGUA. Il primo stadio della lingua è l'uso della RADICE DESIGNATIVA. Qui la lingua non designa che la presentazione o il modo della presentazione, e sempre si riduce alle semplici categorie del tempo e dello spazio. I pronomi personali non sono primitivamente Io, Tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a questo primo stadio della lingua, ma: “qui,” “là”, ecc. -- categorie dello spazio. Una lingua che consta di radici semplicemente designative non può soddisfare alle esigenze più generali della mentalità, epperciò da questo primo stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il secondo stadio consta di una RADICE *PREDICATIVA*, ma tuttavia legata a una sensibile determinazione. Cosi, p. es., per DE-SIGNARE un oggetto, si sceglie l'attributo sensibile più esplicito in quel l'oggetto (“shaggy”) p. es., il verde per DE-SIGNARE la pianta. Quest'attributo sensibile, sendo necessariamente variabile o contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo stadio si trovano molte lingue dei selvaggi, i quali scelgono un attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono arrivare a formolare le specie, ma smplicemente oggetti in certe sensibili condizioni. Il terzo stadio usa la categoria propria della mentalità esplicita, la categoria metafisica, per designare l'oggetto; come, p. es., definie la pianta non l'individuo verde, ma l'individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed all'acqua. Questa proprietà generica comprende tutte le piante ; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. La lingua è posseduta da tutti gli animali come lingua psichica di movimenti o di formalità. Ma la lingua che caratterizza la soggettività è appunto la lingua psichica che si svolse nella spirituale. Altrove abbiamo trattato esplicitamente quest'argomento e crediamo superflua una ripetizione. Qui giova solamente accennare, che le prime radici della lingua significarono mere affezioni dell'anima e più tardi si svolsero in significati metaforici, per rispondere all'esigenze della progressiva mentalità. Il rapporto fra il suono espresso dall'anima e l'anima esprimente è quello stesso rapporto, ma più complesso, per il quale DETERMINATI ANIMALI SIGNIFICANO (alla Grice) con certi definiti suoni cerle definite affezioni dell'anima loro .L'uomo, sviluppando in sè stesso la propria mentalità e l'organo per significarla, si conobbe come specie comune. La prima lingua quasi naturale deve essere stata pressochè identica in tutti i soggetti umani, come TUTTE LE PECORE BELANO, tutti i cani abbaiano ed urlano. Dovette essere una lingua nata con loro e trasmessa alle generazioni senza il minimo bisogno di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La lingua è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente trattati da C., il quale la conosce, ed a fondo, in molte forme antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti , in molte sue saggi. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè Saggio circa la ragione logica di tutte le cose “ Prolegomeni, Torino. Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale; nella Introduzione alla cultura generale. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite . Stato primitivo dell'uomo.L'uomo che possedetle questa lingua visse nelle foreste in aggregazioni o società piuttosto fortuite, poco dissimili da quelle dei quadrumani, ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degl’altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza. Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i loro nemici, amici, con sanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da mangiare. Quest'enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l'affezione alla progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella mentalità. È una mentalità che si ma [Sono certo che la quasi totalità de' lettori non sarà d'accordo su questo punto col Ce., e riterrà l'associazione umana come una necessità e non già come un'accidentalità. Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da lui fatta, è stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo particolare carattere.] nifesta come un'orribile perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima perversione, può nobilitare l'uomo antropofago sopra la bestia istintualmente tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio in procinto di essere cattivalo dai suoi nemici, può suicidarsi, la bestia non mai. L'istinto della propria conservazione individuale è un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano fra gl’animali pensanti. Tuttochè qui dobbiamo parlare del soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della lingua, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggetto, indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla nessuna organizzazione. La lingua appartiene cosi al soggetto solitario come al soggetto socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni dell'amore. L'uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla femmina come un mero rapporto erotico, occasionale. Abbandona la femmina alle conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati, nudriti ed educati dalla madre . Ma la lingua, che persuase la copula dell'amore, è la medesima lingua, colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la lingua può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si può dire in tesi generale, che la lingua genera la storia nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento   SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA della lingua si conosce lo svolgimento dell'umana mentalità , e, conseguentemente , delle gesta che ne sono conseguite. Proseguiamo a speculare circa i fenomeni più radicali della soggettivitàesologica" Il sillogismo che passa dall'astrazione esologica nella essologica è il sistema dell'Essere-Essenza-Coscienza, che passa nel sistema del Meccanismo-Chimismo-Vita. L'Essere esologico è Quantità - Qualità - Modalità, dall'unità corriflessa delle quali categorie avviene (sorge) l’Essenza. L'Essere essologico determina la Qualità nell'Alteriorità, la Quantità nella Esteriorità, la Modalità nell'Apparizione. Quindi l'Alteriorità diventa Temporalità , l'Esteriorità diventa Spazialità , l’Apparizione diventa Luce... Esologica Alessandro Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords: communication, convention, homo sapiens, pirothood, inter-subjective, animality, animalness, soul, psichico, psychic, psychical versus psychological, progression, pirotological progression, cenobium, neologismo, panlogica, pantologico, logo, esologo, essologo, sinautologo, prologo, dialogo, autologo, tre categorie: tesi QUANTITA (meccanica), anti-tesi, QUALITA (fisica), sin-tesi MODALITA (vita) – arte/religione/filosofia; storia/didattica/diritto, antropologia, antropopedeutica, antroposofia, prasseologia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceretti” – The Swimming-Pool Library. Ceretti.

 

Grice e Ceronetti: l’implicatura conversazionale della lanterna – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceronetti; he is a typicall Italaian philosopher; that is, a typically anti-Oxonian one; he thinks, like Croce and de Santis did, that philosophy is an infectious disease that some literary types catch! My favourite of his tracts is “Diognene’s torch”! Genial!” Per essere io morto all'Assoluto vivo come un innato parricida tra gente già di padre nata priva; pPer aver detto all'Inaccessibile addio da un cortiletto senza luce vergogna vorrei gridarmi ma resto muto. Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta erudizione e di sensibilità umanistica, collabora con vari giornali. Tra le sue opere più significative vanno ricordate le prose di Un viaggio in Italia e Albergo Italia, due moderne descrizioni, moderne e direi dantesche, da cui vien fuori tutto l'orrore del disastro italiano, e le raccolte di aforismi e riflessioni Il silenzio del corpo e Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività di saggista (Marziale, Catullo, Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei Sensibili, allestendo in casa spettacoli di marionette. Le sue marionette esordivano su un piccolo palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano Laziale. Si consumavano tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele cotte." Nel corso degli anni vi assisterono personalità quali Montale,Piovene, e Fellini. Con la rappresentazione de La iena di San Giorgio, I Sensibili divenne pubblico e itinerante. Œ In Difesa della Luna, e altri argomenti di miseria terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma spaziale da prospettive originali e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti -- "il fondo senza fondo" -- raccoglie infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su svariate discipline, soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano, inoltre, numerosi disegni di artisti (anche per I Sensibili), opere grafiche, collage e cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra intitolata Dalla buca del tempo: la cartolina racconta.  Prese posizione a favore dell'eutanasia, con la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario della legge Bacchelli, in quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante in condizioni di necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti al Premio letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso critico e politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale, quasi da moderno anacoreta.  Solo un vero vegetariano è capace di vedere le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel  per Radio Radicale Come articolista, principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento giornalistico a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in carcere e con cui ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore, colpevole della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del saggio di Bloy La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle Ardeatine, vittima di una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo sempre la sua simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e la sua parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a Hess, al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il terrorismo palestinese).  Nel  fu insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, fino al, quando intervenne al congresso dei Radicali Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un "conservatore" e patriota del  Risorgimento (descrisse l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro... l'ombra di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non finiscono di manifestarsi.»  (Ti saluto mio secolo crudele) Nel  propose in un articolo su la Repubblica, ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido C.) e Geremia Cassandri.  Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve ricovero a causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo tre giorni e una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra Torino e il Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno (Torino), il paese di origine dei genitori.  Disposizione da prendere. Non voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate sempre, nella vita.»  Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi, Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti, Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi, Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa, Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi, Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D. Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese, Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, La lanterna del filosofo, Adelphi, Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice, Lavis); Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo in lingua italiana, Adelphi, Milano,, Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini, Einaudi, Torino,, L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano,, Tragico tascabile, Adelphi, Milano,, Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,, Per non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano,, Regie immaginarie, Einaudi, Torino,   Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini Mariotti, Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Poesie, frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, Premio Viareggio; Opera Prima; Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e per non vivere, Einaudi, Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri versi, illustrazioni di Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni e disperazioni. Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo Cattaneo), San Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited, Alberto Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La distanza. Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo, Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il gineceo, Tallone, Alpignano; Adelphi, Milano, In memoriam di Emanuela Muratori, Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone, Alpignano, Adelphi, Milano,, [nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate dalle carte di Lugano, Alberto Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di un aereo che sta precipitando, Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al Tulliano Notte; , Alberto Tallone, Alpignano, Con l'armata dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone, Alpignano; Invocazione al Dottor Buddha perché venga e ci salvi, Alberto Tallone, Alpignano; Le ballate dell'angelo ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi del Gineceo, Adelphi, Milano,, [riedizione de Il gineceo  con inediti e nuova prefazione] Sono fragile sparo poesia, Einaudi, Torino,, Drammaturgia Furori e poesia della Rivoluzione francese. Carte Segrete, Roma, Alcuni esperimenti di circo e varietà. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Spettacolo per marionette ideofore, ricordi figurativi di Giosetta Fioroni, Becco Giallo, Oderzo; Viaggia viaggia, Rimbaud!, Il melangolo, Genova, La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto Tallone, Einaudi, Torino); Il volto (Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Le marionette del Teatro dei Sensibili, Aragno, Torino [contiene: I Misteri di Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a Torino negli anni Trenta, Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano, Rosa Vercesi, illustrazioni di Maggioni, Edizioni Corraini, Mantova; Traduzioni e curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi, Einaudi, Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio di G. Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G. Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, I Salmi, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta, Einaudi, Torino; col titolo Il Libro dei Salmi, Adelphi, Milano; Catullo, Le poesie, Einaudi, Torino, Adelphi, Milano, Blanchot, Il libro a venire (Le Livre à venir), trad. G. Ceronetti e Guido Neri, Einaudi, Torino; Il Saggiatore, Milano,. Qohelet o l'Ecclesiaste, Einaudi, Torino, Alberto Tallone Editore, Alpignano, nuova traduzione; Qohelet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano,  Decimo Giunio Giovenale, Le Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro di Giobbe, Adelphi, Milano, Premio Monselice di traduzione, nuova ed. riveduta, Adelphi, Milano, Cantico dei cantici, Adelphi, Milano, Alberto Tallone Editore, Alpignano, nuova versione riveduta,. Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi, Milano; nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano, Come un talismano. Libro di traduzioni, Adelphi, Milano; Konstantinos Kavafis, Nel mese di Athir, Edizioni dell'elefante, Roma. Konstantinos Kavafis, Tombe, Edizioni dell'Elefante, Roma, Giovenale, Le donne. Satira sesta, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione che durerà; profezie estratte dalle Centurie di Michel de Nostredame, Alpignano, Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni & Corubolo, Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi, Pisa, Teatro dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per ricordare. Una scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo La rivoluzione sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di locandine teatrali a fogli sciolti dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi, Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto Tallone, Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante, Roma (con Chaumont) Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal Corano, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater noster. Matteo 6, calligrafia di Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Piccola Biblioteca; Adelphi, Milano, Giorni di Kavafis. Poesie di Constantinos Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia, Alberto Tallone Editore, Alpignano; Adelphi, Milano,.nella seconda parte del libro, Siamo fragili, Spariamo poesia. i poeti delle letture pubbliche del Teatro dei Sensibili, Qiqajon, Magnano, 2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti. De Rerum Natura. Alberto Tallone, Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra fuggitiva di piacere, Adelphi, Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia tradotta, Einaudi, Torino, François Villon, I rimpianti della bella Elmiera, Alberto Tallone Editore, Alpignano,. Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido Ceronetti, Adelphi, Milano,. Epistolari Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni, Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori una vigna. Lettere ad Arturo Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il Notes Magico, Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l'abisso. Lettere, Milano, Adelphi,. Spettacoli del Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Tragedia per marionette (allestito in appartamento), prodotto dal Teatro Stabile di Torino, con Ariella Beddini,  Simonetta Benozzo, Paola Roman e Manuela Tamietti, regia di Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di Carlo Cattaneo Macbeth (spettacolo per marionette allestito in appartamento) Lo Smemorato di Collegno (anni '70, spettacolo per marionette allestito in appartamento) Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo per marionette allestito in appartamento); Fu interpretato al Festival di Spoleto da Piera degli Esposti, Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la regia, scene e costumi di Enrico Job I misteri di Londra (allestito in appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di Torino, regia di Manuela Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca Mauceri (Baruk), Valeria Sacco (Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le marionette del Teatro dei Sensibili. Furori e poesia della rivoluzione francese. Tragedia per marionette (allestito in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma con i burattini di Maria Signorelli Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto dal Teatro Stabile di Torino), spettacolo per marionette ideofore con Armida (Nicoletta Bertorelli), Demetrio (C.), Irina (Bottacci), Norma (Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione sconosciuta, mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani Viaggia viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione del centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di Torino) con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici, ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini, Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino) Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco, Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di Guido Ceronetti (a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali, Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I collages di cartoline d'epoca del Fondo C.i, cura di Rüesch e Franciolli, Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte Lugano, Poesia marionette e viaggi di C. nelle visioni di Cattaneo, Tesi eVivarelli, Comune di Pistoia, Dare gioia è un mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei Sensibili di C., Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge, Marcovaldo, Nella gola dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX secolo. Tutti i collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da C.i, Il melangolo, Genova, "Per le strade" di C., Omaggio allo scrittore, Rüesch e Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale, Archivio Prezzolini-Fondo Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su C. I Misteri di Londra. Tragedia per marionette e attori, regia di Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino (riprese videografiche dello spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole musiche storie, di Luca Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido Ceronetti. Il Filosofo Ignoto, film documentario di Fogliotti ePertichini (Italia'), prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti e dei Cinecircoli giovanili socioculturali. C. nei mass-media Cura cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui "intervistò" Attila (Bene), Auguste e Louis Lumière (Bianchini e Scaccia), George Stephenson (Scaccia), Jack Lo Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino Artusi (Scaccia). Il cantautore Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal vivo Nel niente sotto il soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda traccia (Non trattare)una registrazione di C. che declama i primi versetti del Qoelet. Note  Ha usato per molti anni un sigillo con scritto "In esilio": Capossela intervista C. Morto lo scrittore, in Corriere fiorentino, C., Tra pensieri, Adelphi, Milano, Stefano, In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Mondadori, Milano, C. morto, ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un patriota orfano di patria. Italia, regno della menzogna”  Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/ repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html  Samantha, lo spazio e il signor Freud  "C. L'inferno del corpo", in Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano,   "Oggi una quantità delle mie carte è partita per Lugano dove tutto entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca Cantonale." Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette di coma che m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del Presidente della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti attribuito un assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto della legge Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione, "Il nostro meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro, qualsiasi abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la Famiglia non gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano (comedonchisciotte. Org forum/ index .php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il- pericolo-senza-nome lessiconaturale/ migranti-e-prediche/)  (ilfoglio /preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo)  (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo)  (ilfoglio/ preservativi/ news/ deutschland-pressappoco-uber-alle, Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista C. dice, come altri non oserebbero, che “hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale e religiosa", C., nel dolore si nasconde una luce)  Mario Andrea Rigoni, Ma non bisogna confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido Almansi, Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke L'invasione Africana; “Il male omosessuale” (C. dixit). Albergo Italia (Einaudi, Torino), capitolo "Elementi per una anti-agiografia",  Uno, cento, mille C., C., Priebke. Alcune domande intorno a un ergastolo, la Stampa  Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di C. per Priebke, il Foglio, Sono sempre stato anticomunista, sempre, Forse, subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati. Di quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni che andavano alle adunate, ma non c'è storia di anima o di pensiero o di famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti, erano bravi cittadini come tanti. (Corriere della sera). Si dice il responso delle urne. Come se un popolo di cretini potesse fornire oracoli (Per le strade della Vergine)  la mia America: “Un baluardo contro l’ideologia comunista”  XIII Congresso Radicali Italiani  ilfoglio/preservativi/ prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella- impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/ cultura/c.-in-un-amore-felice  Chi era, fustigatore dei vizi degli italiani  Riviste/ Su “Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno  C.: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA VECCHIAIA SENZA SESSO: PER DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a Torino, per mettere in scena col Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Sulla porta metto quest'altro mio nome: Geremia Cassandri. La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano, Adelphi, Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterario viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO “MONSELICE” PER LA TRADUZIONE, su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia, Guido Ceronetti. Critica e poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di ammirazione (Adelphi, Milano, Guido Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta Fioroni, Marionettista. C. e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa (Corraini, Mantova) Giovanni Marinangeli, C., Il veggente di Cetona (Fondazione Alce Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei Sensibili (Corraini, Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di C. (Junior, Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce nella carne. La poesia (La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M. Vercesi, Pareti di carta. Scritti su C. (Tre Lune, Mantova), Ortese, Le piccole persone (Adelphi, Milano). Lattuada, Frammenti di una luce incontaminata in C.i, La Finestra Editrice, Lavis, Cioran Gnosticismo moderno.  Ma io diffido dell'amore universale Guido Ceronetti, la Repubblica, Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il dolore per la bellezza perduta. Morto il più irregolare degli scrittori italiani. Ernesto Ferrero, La Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana V D M Vincitori del Premio "Città di Monselice" per la traduzione letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano per la narrative. "StgvvU  nni GIURISPRUDENZA ROMANA. ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO. PARMA, BATTEI. Le mie parola sull’istituzioni  di diritto romano consentite che sia, quale il sentimento vivo e sincero dell'anima la richiede. Sia d' omaggio a' miei maestri, ai quali ritomo  qui con ossequio immutato; sia di saluto fraterno agli studenti, a cui mi presento, e da cui mi bramo accolto, quale compagno di studi, fiducioso di trar lena, pel compimento  del mio assunto, più che dall' ingegno troppo scarso ed  inesperto, dal loro consentimento amichevole, dallo scambio  fra noi , vivo e continuo, d' affetto fraterno. Da questo  scambio io trarrò buon augurio alla carriera d'insegnante,  verso la quale muovo oggi con trepidanza il primo passo, e alla quale volsi e volgo ogni mio studio, guardando alla  meta con assiduità ferma di volere: del quale io non certo  dovrò dolermi, se, per debole ingegno o per avversa fortuna,  quella dovesse per avventura sfuggirmi. E però consentite  che, muovendo il primo passo per questa via, io qui ricordi  l'assidua e amorosa intelligenza di cure del Maestro illu-  stre che ad essa mi guidava, e di cui ognuno ricorda e  r alta vigoria del pensiero, nutrito da corredo mirabile di studi vari e profondi, e la bontà pura, ideale dell' anima,  onde qui, come ovunque, conquise d'affetto reverente maestri  e discepoli. Consentite che a Brini io mandi un  saluto, coU'affetto il più riconoscente e devoto di discepolo  e di fratello. Invoco ora, o Signori, la vostra attenzione indulgente  sopra un tema, che, per sé, non parmi inopportuno a trat-  tarsi al principio d'un corso d'istituzioni di diritto romano:  se e quanto abbiano avuto d'influenza sulla GIURISPRUDENZA IN ROMA le scuole filosofiche. Perchè, come in tal corso deve studiarsi per rapidi tratti tutto 1' organamento  del diritto privato e i singoli istituti di esso. Così è conveniente ed opportuno esaminare e valutare quali elementi  sul delinearsi e conformarsi di quelli ebbero efficacia, e  quanto debba attribuirsene a ciascuno. La ricerca può talvolta, è vero, rasentare e quasi toccare il campo della  storia del diritto romano, che si volle dalle istituzioni disgiunta; ma tali contatti non fa duopo osservare come in  punti non pochi e non lievi siano inevitabili, per quanto  si voglia lasciare al corso d' istituzioni il carattere più  prettamente dommatico. Che invero troppo spesso non può trascurarsi, per lo studio preciso e compiuto degl’istituti  all'ultimo momento giustinianeo, uno sguardo alla loro origine e alla vita secolare che precede quel momento: origine  € vita di cui alla cattedra di storia vuoisi riserbata la ricerca più diretta e diffusa.   n tema eh' io prescelgo è arduo. Di più esso entra  buon tratto in un campo che non è il mio, nel quale io m' avanzo peritoso, con un corredo scarso di studi e invocando l'indulgenza di chi coltivi di proposito la storia della filosofia, e qui segnatamente del pensatore illustre, che è onore di questa nostra facoltà giuridica alla quale presiede. All'arduezza del tema se ne aggiunge la vastità. Talché il tempo riserbato a discorrerne congiurerà colle deboli forze del disserente a renderne imperfetta per più lati la trattazione; la quale afifaticò in lavori appositi e in trattati generali d' antichità e di diritto romano, uno stuolo numeroso di filosofi, fra cui non pochi valenti, dal Cujacio  in poi, e che fu pur di recente ripresa anche in Italia. Fra altri, da un uomo, il cui nome segna una gloria e un  lutto eterno perle scienze romanistiche: Padelletti. Vanni. Io non certo presumo esaurirla, ma solo mi propongo  riassumerla per larghi tratti, valendomi e delle altrui ricerche e di quelle ch'io venni compiendo direttamente sulle  fonti, procedendo dunque con modestia d'intenti. D’una cosa  però sopra ogni altra curandomi: di quella serena imparzialità di giudizio, che in temi di questo genere, che toccano da vicino le varie credenze filosofiche individuali, è  facile troppo lo smarrire. Che invero non ci mancheranno,  nel procedere in questo tema, esempi di aberrazioni stranissime, a cui, privi di quella, uomini, pur valorosi, riu-  scirono. E innanzi tutto vuoisi qui delineare per cenni la storia  delle varie scuole filosofiche che tennero in Roma il campo: storia per verità ben nota ad ognuno; ma pure non inutile forse a richiamarsi qui, in brevi tratti , perchè tosto se ne  colgano quegli elementi, che sono essenziali nella trattazione  del nostro tema. Solo però dall' epoca di CICERONE tali  cenni debbon prender le mosse. Che, se può accogliersi che  coi nomi di Socrate, e in ispecie dell’ACCADEMIA e del LIZIO,  giungesse già prima in Roma una qualche eco delle loro dottrine, questa dovè riuscir ben fievole e inefficace, mentre tanto  saldo e fiero durava tuttavia in Roma quello spirito anti-filosofico, per cui va Famoso CATONE, e da cui fu destata  l'implacabile ironia d’ENNIO. Le dottrine filosofiche dell’ACCADEMIA e del LIZIO  penetrano, benché solo frammentariamente e indirettamente, coli' insegnamento di Panezio; al  quale V aver abbracciato IL PORTICO non tolse di seguirle  e propugnarle in taluni punti. Ma l’efficacia del PORTICO è però  come maestro di dottrine, nelle quali ebbe discepoli autorevoli e numerosi, e fra essi giureconsulti di grido. Corrispondendo quelle, pel largo svolgimento che IL PORTICO da  alla morale, con pratici e austeri intenti, alla natura del  genio romano. Nel quale per contrario mal poteva svilupparsi il germe dell' elevato idealismo dell’ACCADEMIA. Così  come non poteva averne favore la poca praticità diretta  delle dottrine del LIZIO, già entrate in Roma coi libri  di Aristotele arrecativi da Siila, colla diffusione curatane  da Andronico da Rodi e da Tirannione. Ne molto di più potevano avervi efficacia le dottrine della NUOVA accademia,  propugnate da Filone di Larisse e da Antioco. CICERONE, pur abbracciando sostanzialmente IL PORTICO,  coglie e assimila, secondo quella che fu pure la tendenza di  Panezio, e rimase tendenza della filosofia romana in generale,  quasi da ogni altra scuola taluni de' principii che meglio vi corrispondessero al genio romano. Solo combatte invece la FILOSOFIA DELL’ORTO, forte allora, e ancor più poco appresso:  il quale dura buon tratto allato alla scuola del PORTICO, fino a  che perde teneno. E, come CICERONE assimila principii  estranei allo al PORTICO, altrettanto ne rigetta ciò eh' era in  questo di troppo rigido, e però praticamente inefficace. Ptr CICERONE, ad esempio, contrariamente al PORTICO, non è immeritevole di pregio il moderato godimento -- De sen. 14. Se il  bene morale sta al disopra d'ogni altro, esso non è tuttavia  il solo bene possibile e apprezzabile. Se è vero che il dolore dev' essere virilmente tollerato, non è per questo men vero ch'esso sia un male (Tusc, II, 18; II, 13).  Per tal modo, con quest' opera e di assimilazione e  insieme di selezione. CICERONE procaccia il germe delle dottrine filosofiche elaborate più tardi. La distinzione dell'corpo e dell’anima, il legame  di origine e finalità comune che unisce tutti gl’uomini e  che impone a tutti l'obbligo di fratellevole aiuto, che trovano trattazione più diffusa negli scritti di Seneca, e  poi di Antonino, son già delineati, chiaramente in Cicerone (cfr. De rep., VI, 17; Ttisc, I, SI; De off., Ili, 6;  De leg,, I, 23) (1). Dopo Cicerone, frammezzo alle lotte  combattute dai FILOSOFI DELL’ORTO, fra i quali risplende il genio  sovrano di Lucrezio, e mentre pure dalle file dei filosofi del CINARGO partono le satire aspre ed argute di Varrone, Q. Sestio  prosegue, benché intinto della setta di CROTONE, le tradizioni del PORTICO. Sestio raccolte poi da Fabiano e piti tardi da Attalo, a cui  die' gloria l'esser maestro di Seneca. La tendenza eclettica, che si ha ognora in tutto  questo sviluppo, ci si presenta più che mai viva e spiccata  in Seneca, già inclinevolo alla setta dei Crotonesi, ammiratore dell’Accademia, né sdegnoso di citare Demetrio del Cinargo ed Epicuro dell’Orto.  E in punti sostanziali egli dissente dal Portico. Significantissimo é un esempio, che già da altri fu notato e illustrato. Per il PORTICO non può aversi diversità di  natura fra ciò che chiamasi corpo e anima. Seneca separa i due elementi e finisce per creare una specie di antagonismo, che spiega la vita. Il corpo é la prigione  dell' anima, un peso che la rattiene verso la terra. Finché  è unita al corpo, sta come avvinta in ceppi (Ep., 65, 22). L’anima, per conservare la sua forza e la sua libertà, lotta di  continuo contro la carne (ibid.). Questa distinzione, così  precisa, del corpo e dell' anima é estranea al vero sistema  del Portico e Seneca è indotto da questa a conseguenze che  anche più si allontanano dalle dottrine de' suoi maestri.  Secondo il Portico, l'anima muore, dopo che il mondo sarà distrutto per mezzo del fuoco. Seneca, esitante su questo punto,  dopo aver detto a Marcia che tutto annienta e strugge la  morte (Com, ad Marc, 19, 5 ), le descrive l’anima del  figlio, salente al cielo, a lato di Catone e dei Scipioni. E scrive altrove senz'altro esser l’anima eterna e immortale (Ep,, 57, 9). Distacco certo notevole, ma nel quale troppo volle vedersi oltre il vero, col dar vita air omai  sfatata leggenda che Seneca si ascrivesse alle sette cri-  stiane (6).   Seneca riprende con nuova energia V indirizzo morale  di cui già erano i germi in Cicerone: a questo solo rivol-  gendo ogni suo sforzo. Egli non si cura delle discussioni  teoriche sul massimo bene, non formula dogmi; ma segna  le norme morali, fin pei rapporti più minuti della vita. Dopo Seneca, il movimento filosofico prosegue. E dopo  la nube che parve oscurare, sotto i regni di Vespasiano e di Domiziano, la fortuna dei filosofi, questa rifulge poco appresso più che mai splendida. Plutarco vien cogliendo nella morale, anche con più ampia libertà eclettica le regole  sostanziali del PORTICO, togliendo a questo però la rigidità ch'era in Seneca: e benché inclinando verso l’Accademia, col far presiedere alla vi' a un divino primo, sotto il  quale stanno divini di secondo grado, a cui rimangon dietro,  a lor volta, i genii mediatori, giusta il concetto dell’Accademia,  fra l’umano e il divino.   E a quello che potè chiamarsi l'impero dei filosofi,  sotto Antonino, si gittano le basi nel principato d'Adriano.  È a questo tempo che la lotta secolare dell' ellenismo contro il ROMANESIMO finisce colla vittoria completa di quello.  Sì che a Roma accorrono da ogni parte del mondo filosofi, desiderati ed onorati. Demonace può paragonare Apollonio, che muove co' suoi discepoli da Atene a Roma, ad un argonauta, che vola  al rapimento del vello d'oro (Luciano, Bem.y 31). È  à quel tempo che la filosofia compie in Roma un passo  gigantesco con Epitteto. Questi prosegue la dottrina del PORTICO,  benché con certa tendenza verso il CINARGO. Fissandovi essenzialmente il pensiero subbiettivo come principio e criterio della verità, e però riducendo a formale il mondo esteriore. Non dunque dolori, ma fantasie di dolori; onde la  inalterabile fortezza e il disprezzo severo d' ogni bene umano.  E la filosofia d' Epitteto, continuata e propugnata strenuamente da Flavio Arriano, germoglia più tardi nel sereno ingegno di Antonino, che, elevando come ad eccelso  ideale, il concetto della vita secondo natura, deducendone, come conseguenze necessarie, la legge più pura della carità umana, chiude gloriosamente il ciclo del PORTICO in Roma.  Appressa solo qualche bagliore raro e scarso traluce fra le  tenebre che si vengono da ogni lato addensando. IL PORTICO non fa più un passo. Non vale la filosofia dei così  detti accademici eruditi, già prima coltivata, allato al Portico, da Favorino, da Massimo di Tiro e da Alcinoo, a gittare alcun germe fruttifero. E le dottrine troppo idealistiche  dei accademici, formulate con nuovo vigore da Plotino, rimangono il culto inefficace  di qualche anima solitaria. Già da questi cenni, benché così rapidi e incompleti,  traluce una singolare coincidenza. I momenti  essenziali per la storia della filosofia in Roma coincidono  coi momenti essenziali per la storia della giurisprudenza. Il genio eclettico di CICERONE negl’anni della REPUBBLICA, dà in ROMA inizio efficace agli studi della filosofia, air incirca nel tempo, in cui -- scorse tre generazioni da quando lo specchio di Gneo Flavio sottrae l'arte del diritto all'arcano monopolio pontificale e l'insegnamento tentato dal pontefice plebeo Coruncanio offre i germi, raccolti e rudemente elaborati da Sesto Elio. Q. Mucio SCEVOLA gitta pure co' suoi XVIII libri iuris civilis i fondamenti sistematici del diritto. E, al principio del principato d’Ottavinao, la filosofia, segnatamente del Portico, fiorisce per  r insegnamento di Sestio, al tempo stesso in cui 1'eredità gimidica, tramandata dall' era repubblicana è raccolta dall' intelletto sovrano di LABEONE, che inizia per la  giurisprudenza l’età delle sue glorie più fulgide e insuperate. Età che si continua, con isplendore ognor più vivo, fino a Salvie Giuliano, che colla fissazione deir editto perpetuo, compendia il tesoro elaborato con continuità meravigliosa d’Ottaviano ad Adriano; nel quale  appunto si vien preparando quello che si disse a buon  dritto rimpero dei filosofi. Questa coincidenza di tempo non deve indurre in noi  nessun preconcetto che valga a sviarci dal sereno esame del nostro tema: l’analisi dei concetti giurdici.  Ma noi dobbiamo tuttavia notarla, perchè  molto soccorso potrà veoin^ene per spiegazioni .e raffronti  nel seguito delle nostre ricerche. Ed entrando omai neir esame del tema, ricerchiamo  se nel principio che regola gl’istituti e rapporti v'ha  alcuno degli elementi filosofici siamo venuti seguendo. Ne vi spiaccia clie sopra tutto e' intratteniamo in quest' ufficio modesto e paziente di semplice constatazione e che riserbiamo a più tardi alcune considerazioni d' ordine generale, che da questa potranno emergere. Consideriamo tosto i requisiti essenziali al soggetto del diritto. L’ esistenza fisica e i tre status -- essenzialmente  lo status di libertà.   Fra le regole spettanti all'esistenza fìsica l’influenza  del PORTICO ci si presenta spiccata nel concetto teorico di  cui è cenno specialmente in un testo d'Ulpiano, per cui si  considera il feto tuttora entro le viscere materne come  parte di queste – “mulieris portio vel viscerum” -- : Ulp., fr. 1  § 1 D. 25, 4 e prima Papiniano, fr. 9 §. 1 D. 35, 2 —  “homo non recte faisse dicitur”. E però tosto da osservarsi come questa considerazione astratta, tolta manifestamente dal PORTICO (Plut., Plac. pML, V, 14, 2: \iripoq  eivai Ttig x(X7Tpòq) rimanne in pratica lettera morta. Perchè, logicamente, dal considerarsi il feto parte delle viscere materne, verrebbe che, fino al momento del suo staccarsene e del suo passaggio ad esistenza di per sé stante, esso non dove dar luogo ad alcun apposito rapporto giuridico. Mentre, contrariamente, stan di fronte a tal concetto  la legge di Numa che proibisce di seppellire la donna  morta incinta, prima di averne estratto il feto (fr. 2 D.  12, 8), le pene contro il procurato aborto, il divieto di  Adriano di eseguire la sentenza di morte contro la con-  dannata incinta ( fr. 18 D. 1, 5), la tutela al ventre  pregnante, risalente fino a prima delle XII tavole, e la “honorum possessio”, che a nome di quello potè chiedersi; istituti e rapporti intesi tutti alla protezione di un soggetto di diritti sperato, e dentro altro soggetto. Onde  pure la risposta affermativa alla questione, che tuttavia parve necessario propoiTe. Se il figlio, nato dalla  madre exsecto venire, abbia diritto di succedere ad essa  (Ulp., fr. 1 §. 5 D. 38, 17 ) e il considerarsi come un essere già esistente il feto entro lo viscere materne, benché  non ancora a sé stante. Ciò secondo la verità eterna e precisa delle cose. ( Cfr. Giul., 37 dig,^ fr. 18 D. 36, 2: Is cui ita legafum est, qìmndoque liberos habuerit, si praegnatc uxore relieta decesserit, intelligitur expleta conditione  dccessisse et legatum valere, si tamcn posthuììius natus  fuerit; Ter. Clem., lib, 11 ad leg. lui. et Pap., fr. 153  D. 50, 16: IntellegendiiS est mortis tempore fuisse qui in  utero relictus est\ Celso, 16 dig.y fr. 187 D. 50, 17; Ulp.  19 ad Sab., fr. 20 D. 36,1).  Espressamente si fa risalire ad Ippocrate la regola che  assegna il tempo di *VII* mesi, come termine minimo della  gestazione (Ulp., fr. 3 §. 12 D. 38,16; Paolo, fr. 1*2 D.  1, 5). Ma, per sé, la necessità di segnare un termine minimo, sufficiente di regola alla gestazione, si afferma per  motivi esclusivamente sociali e giuridici, e ne porse occasione  la Legge Giulia. E la fissazione di quello ai 7 mesi, giusta  la teoria d' Ippocrate, ha un'importanza del tutto formale. Più importante è per noi l'accoglimento della teoria  di Eraclito e del Portico, che fissa a *XIV* anni la pubertà  (Plut., Flac, pML, V, 24,1; Macrobio, Somn. Scijp., G;  Saturn., VII, 7). Accoglimento che ha una grande importanza pel suo significato giuridico. Esso invero segna un  passo verso quella precisione sicura di linee, onde il diritto,  progredendo, abbisogna, e, anche più, include un riconoscimento fine e delicato del diritto al pudore. Che ciò io avverta qui, anziché più tardi, non maravigli; giacche non posso veramente propormi un ordine rigoroso, e mi è forza lasciare che il discorso trascorra a' vari punti, a cui le  fonti che man mano si offrono, gli porgono il destro. Ne che tale felicissima alata della scuola dei Proculeiani, nella quale si volle ravvisare più precisa e più profonda rinfluenza del Portico, sia dovuta veramente  a tale influenza, anziché alla considerazione obiettiva, spregiudicata delle necessità avanzantesi del diritto, parmi  possa sostenersi con alcun serio argomento. Se influenza vi si ebbe, essa fu tutta nella fissazione formale del termine  al quattordicesimo anno, anziché al dodicesimo o al quindicesimo, come altrimenti avrebbe potuto aversi. Ma romanamente giuridico e il senso che fé* avvertire la necessità  di quella regola netta e certa e fé' accoglierla trionfalmente. Proseguendo in tali traccie formali, l'influenza della filosofia parmi possa avvertirsi anche nella considerazione del parto trigemino, in caso di gravidanza della madre (Plut., Pìcce.  pML^ V, 10,4), che ha gravi effetti per l'aspettativa dei diritti spettanti ai possibili nascituri, fino all'avvenimento  del parto, e che nelle fonti ci si presenta risalente a Sabino e a Cassio (Giul., fr. 8 §. 1() 1). 40, 7; Gaio, fr. 7  pr. D. 34,5; Paolo, fr. 28 §.4 D. 5,1; Id., fr. 3 D. 5,4). Ma ben altra influenza, sostanziale e diretta, della filosofia, si sostenne per un tema, che qui dovrà trattenerci alquanto: lo schiavo. È da tale influenza che si volle determinato l' affermarsi con moto continuo, dallo  scorcio della repubblica al secolo degli Antonini, di un' intima contraddizione nel concetto di Schiavo. E s' adduce la dichiarazione tradizionale dei giuristi di questo periodo essere lo Schiavo contro natura, la protezione che è accordiata man mano alla vita e air integrità personale dello schiavo contro le eccessive sevizie del padrone (Gellio,  Noci. Att, V, 14; Eliano, Be an,, VII, 48; Gaio, fr. 1  §. 2 D. 1,6; Ulp., fr. 2 D. eod, Modestino, fr. 11 §. 2  D. 48,8) al cui arbitrio lo schiavo è sottratto, per esser sottoposto, in caso ch'egli delinqua, ad appositi magistiati,  e a procedimento, non sostanzialmente difforme da quello  che vale pel LIBERO (Pomp., fr. 15 D. 12,4; Ulp., fr. 12  D. 2,1; fr. 3 §. 1 D. 29,5; Venul., fr. 12 §. 3 D. 48,2),  e indipendente attività patrimoniale che si riconosce allo schiavo col peculio ( quasi patrimonium Uberi hominis:  Paolo, fr. 47 §. 6 D. 15,1). S' adduce il favor libertatis che inspira in molteplici casi le larghezze con cui si risolvono le dubbie questioni di stato e s'effettuano i giudizi liberali -- Lege Iimia Petronia si dissonantes pares iudicum  existant sententiae pro libertate prommciari iussuni: Ermog.,  fr. 24 D. 40,1; e. d' Ant. Pio, presso Paolo, fr. 38 §. 1  D. 42,1; Ulp., fr. 3 §. 1 D. 2,12), s'eseguiscono le manomissioni, ordinate per atto d'ultima volontà (Giul., fr. 9  §. 1 D. 33,5; fr. 4 pr. D. 40,2; fr. 16 D. 40,4; fr. 17  §. 3 D. eod.; presso Paolo, fr. 20 §. 3 D. 40,7; Valente,  fr. 87, D. 35,1; Giavoleno, fr. 37 D. 31; Gaio, fr. 88  D. 35,1; S. C. sotto Adriano, in Scevola, fr. 83 (84)§. 1  D. 28,5; rescr. di M. Aurelio, in Marciano, fr. 51 pr. D.  28,5, e in Mod., fr. 45 D. 40,4, cost. dello stesso in Ulp.,  fr. 2 D. 40,5; Meciano, fr. 32 §. 5 I). 35,2; fr. 35 I).  40,5; Pomp., fr. 4 §. 2 D. 40,4; fr. 5 D. eod.; fr. 20 I).  50,17 ; Marcello, fr. 3 i. f. D. 28,4 ; fr. 34 D. 35,2;  Scevola, fr. 48 §. 1 D. 28,6; fr. 29 D. 40,4; presso Mar-  ciano, fr. 50 D. 40,5; Papin., fr. 23 pr. D. 40,5; Paolo,  fr. 28 D. 5,2; fr. 40 §. 1 D. 29,1; fr. 14 pr. D. 31; fr.  96 §. 1 I). 35,1 ; fr. 33 D. 35,2; fr. 36 pr. D. eod. ; fr.  10 §. 1 D. 40,4; fr. 179 D. 50,17; Ulp., fr. 711). 29,2;   9    fr. 29 D. 29,4 ; fr. 1 D. 40,4 ; fr. 24 §. 10 D. 40,5) e  in ispecie per fedecommesso, alla cui esecuzione provveggono  già sotto Traiano, e poi sotto Adriano e Commodo, appositi  Senatoconsulti {SS. GC. Bubriano, Dasumiano, Artici, Ulano, Vitrasiano, Iunciano -- s' adduce l’ingenuità che si vuole accordata al NATO DA UNA SCHIAVA, che gode della  libertà fra il momento del concepimento e quello del parto (Marciano, fr. 5 §. 3 D. 1,5), o che, ordinatane la libertà  per fedecommesso, non e manomessa indebitamente, per  mora deirerede (rescr. di Marco Aurelio e Vero e di Ca-  RACALLA in Ulp., fr. 1 §. 1 D. 38,16; Ulp. fr. 1 §. 3 D.  38,17; fr. 2 §. 3 D. eod.; fr. 26 §. 1 D. 40,5; MARcaNO,  fr. 53 pr. D. eod.), fosse pure casuale (rescr. di Ant. Pio  e di Severo e Carac. in Ulp., fr. 26 §§. 1,2, 3D. 40,5;  MoDEST., fr. 13 D. 40,5); il concetto che afferma la libertà  inalienabile (Costantino, c. 6 C. 4,8) e la regola che nega comprendersi nell'usufrutto il parto della schiava (Cic, De  fin., I, 4; Gaio, fr. 28 §. 1 D. 22,1: Ulp., fr. 68 pr. D.  7,1). Fermiamoci su quest'ultimo punto. È famosa la disputa, a cui quella regola die luogo ai  tempi di CICERONE, fra SCEVOLA, Manilio e Bruto, ed è pur  notissimo come la propugnasse vittoriosamente quest'ultimo,  adducendo essere assurdo il computare fra i frutti l'uomo,  mentre ogni frutto che rechi la natura è destinato all'uomo.  La qual ragione è riferita da Gaio e da Ulpiano ( Gaio,  fr. 28 §. 1 D. 22,1; Ulp., fr. 68 pr. §. 1 D. 7,1), ed è  tratta genuinamente dalla teoria del Portico, secondo la quale  l'uomo si considera come signore dell'universo (Cic, De off.,  I, 7; De nat. Deor., II, 62; De fin., Ili, 20). Ma altrove,  (fr. 27 pr. D. 5,3) Ulpiano stesso adduce a fondamento di  questa regola un motivo tutto economico. Non valutarsi come frutto il parto della schiava, perchè lo scopo economico, pel quale si tenne schiave, non è quello di procacciarsene i parti « non temere ancillae eim rei causa comparantur ut pariant » , ossia perchè i parti della schiava  non costituiscono il frutto economicamente normale di essa. E due fatti inducono a ritenere che sia appunto questa la ragion vera che determina quella regola: la mancanza, cioè, di un'industria di allevamento di schiavi e la parificazione del parto della schiava ad ogni altro frutto, per qualsivoglia rapporto, all' infuori delF usufrutto. Che la regola, determinata da questa ragione economica, si volesse  poi anche giustificare con un concetto preso al Portico,  non può recar maraviglia, quando si pensi come in altri  punti non pochi la vernice d'una forma filosofica copra un  rapporto determinato essenzialmente da principii tutt' altro che filosofici. E questa nostra osservazione si riconnette a un altro lato importante del tema: al freno imposto alle sevizie del padrone: nel quale volle ravvisarsi pur tanto di stoica influenza. È essenziale la giustificazione datane da un noto testo di Gaio. Doversi inibire al padrone di far malo uso delle cose sue, allo stesso modo che ciò si vieta al prodigo (Inst^ I, 53). Regola dunque che ci si presenta pure determinata non da altro, che dalla considerazione tutta econo-  mica del regolare uso della proprietà.   Ed è parimente una necessità di natura economica,  di raflforzare, cioè, Y attività dello schiavo colla molla del  suo proprio interesse individuale, quella che determina il  riconoscimento del peculio, quale patrimonio di fatto del  servo, distinto dal patrimonio del padrone; la cui funzione ha per ogni lato dell'evoluzione della schiavitù importanza essenziale. Però codesto elemento economico, che fu magistralmente seguito dal Pernice nel suo classico libro su Labeone,  e che, pei lati che accennammo, resulta da attestazioni precise delle fonti, non basterebbe a spiegare per sé il riconoscimento graduale nello schiavo di altri molteplici diritti e  rapporti attinentisi alla personalità, e l' affermarsi di un  vero e proprio sistema giuridico che per esso si crea, del tutto analogamente al sistema che regola istituti e rapporti  fra liberi. Un altro elemento sostanziale concorre a dar vita e riconoscimento positivo a quel sistema pei rapporti più svariati. Questo elemento altro non è che la forza della  natura. Forza, che neirantica convivenza a famiglia regolava  nel fatto, quasi inconsciamente, i rapporti della schiavitù ;  ma che, più tardi, «comparsa la prisca semplice costituzione  della familia, ordinate quasi ad esercito, gerarchicamente,  le migliaia di schiavi tratti a Roma dai popoli vinti, fé' assurgere e fissò a rapporto di diritto quello eh' era dapprima mero e tacito fatto: affermando nello schiavo la contrapposizione del concetto di “uomo”, di fronte a quello  di “res”.   Gli attributi nello schiavo di ente intelligente e consciente s' impongono air organismo del diritto, pel quale lo schiavo dove parificarsi a una “res”, ad una “merx.” Ulpiano, trattando della prestazione dei legati imposti all'erede, e dei casi in cui l'erede può essere ammesso a prestare, invece della res legata, Vaestimatio di essa, distingue  il legato di una “res” da quello di uno schiavo, valuta i  motivi in cui più probabile in questo può riuscire la prestazione dell' aestùnatio, ed esce coli' affermazione alia est condicio ìiominum alia ceterarum rerum (Ulp., fr. 71 §. 4  D. 30). Quest'affermazione coglie e sintetizza  l'urto intimo e graduale, di cui la storia della schiavitù in Roma porge traccio continue ed eloquenti, e per cui pur riesce  infine ad imporsi nella coscienza giuridica e sociale il riconoscimento nello schiavo degli attributi essenziali della personalità  umana. Tali, l'efficacia del patto adietto alla vendita di una schiava di non prostituirla. Efficacia che include il riconoscimento del diritto all'onore (decr. di Vespas., presso Mod.,  fr. 7 pr. D. 37,14; Pomp., fr. 34 pr. D. 21,2; Papin., fr.  6 pr. D. 18,7 ; Paolo, fr. 7 D. 40,8 ; Aless. Sey., c. 1  C. 4,56); r azione d' ingiurie per offese allo schiavo, commisurata secondo il grado d' onorabilità di questo (Ulp.,  fr. 15 §. 44 D. 47,10). L’ ammissibilità di un giiidizio di calunnia a cagione dello schiavo, che subì per fatto altrui ingiusto giudizio (Papin., fr. 9 D. 3,6). La valutazione della  misericordia usata verso di esso, per misurare la responsabilità di chi ebbe a procacciarne la fuga (Ulp., fr. 7 §. 7  D. 4,3). Il riconoscimento della famiglia servile, nella quale con sforzo di finzioni giuridiche si riesce a dar certa configurazione a rapporti patrimoniali, a somiglianza di quelli che intercedono nella famiglia dei liberi (Ulp., fr. 39 \D.  23,3 ; Paolo., fr. 27 D. 16,3). E persino il riconoscimento  nello schiavo di rapporti d'indole religiosa (Labeone, presso  Ulp., fr. 13 §. 22 D. 19,1; Ulp., fr. 2 pr. D. 11,7). Che pure sulle conquiste compiute dagli schiavi contribuiscano considerazioni d' ordine pubblico e di sicurezza  pubblica, son ben lungi dal negare. Non par dubbio,  ad esempio, che sia determinata sopratutto da esse la legge  Petronia. !Aia questa pure (appena occorre avvertirlo) non  è che una conseguenza, benché coatta, dell 'affermantesi peronalità dello schiavo.  Ne tuttavia che le stesse dottrine stoiche, col loro elevato concetto della personalità umana, abbian per qualche  lato favorita o affrettata quell'evoluzione, non <\serei negare:  (nò può invero trascurarsi il fatto che il momento più intenso di essa cade appunto sotto gli Antonini. Ciò che  parrai invece dover negare si è che quelle dottrine vi abbiano avuta una influenza immediata , essenziale. Talché  senza di esse si avesse ognora a disconoscere nello schiavo  ogni attributo della personalità. Su altri istituti e rapporti attinenti alle persone non  ci abbisogna lungo discorso. Non occorre, per verità, confutare lo strano concetto che influenza del Portico sia nell'attenuamento della patria potestà, e nella liberazione delle  donne dalla tutela agnatizia. Fatti determinati entrambi dal trasmutarsi della funzione e natura politica della familia; trasmutarsi, che pure ci spiega l’avanzantesi prevalenza del vincolo di sangue sul rapporto civile d'agnazione;  che ha poi eifetti importanti, in ispecie neir ordine delle successioni. E pur ci spiega l’evoluzione dell'essenza prisca dell'eredità familiare (comprendente, cioè, il complesso di diritti politici e religiosi inerenti alla domus familiaqtte)  verso l’eredità patrimoniale. Concetto, che , accennato in  istudi recenti ed egregi (16), forse non si presenta tuttavia  immeritevole di trattazione nuova ed apposita e d' investigazione minuta nelle fonti. Ne mi fermo su di un punto,  sul quale non si peritò d' insistere qualche sostenitore  deir influenza sdel Portico sulla giurisprudenza romana: il puro  ed elevato concetto del matrimonio, tramandatoci dai giureconsulti, e in ispecie esplicantesi nella tarda definizione  di Modestino. Basta osservare che quel concetto è in Roma tradizionale, fin dalla sua più antica e genuina costituzione e  che vi si esplica allora dalle stesse forme, con che il ma-  trimonio si compie, e che, inerente dapprima solo al ma-  trimonio curri manu, nel quale è veramente la divini et  Immani iuris cornunicatio, esso s'atteggiò poi, per forza di  tradizione sul matrimonio libero, prevalso su quello, e tra-  luce idealmente nei tempi stessi, in cui il matrimonio era  di fatto quale ce lo tratteggiano con foschi colori Giovenale  e Marziale. Occorre qui invece, fra i diritti attinentisi alle persone, accennare ad alcuni altri, nei quali si ravvisò l’influenza  filosofica, e segnatamente del Portico.   Che, per quanto tocca il diritto alla vita, e l'affermazione negativa di questo, i romani non abbiano riguardato  con deciso is favore il suicidio, come mezzo estremo di salvaguardia a mali maggiori; e ciò molto innanzi al tempo  in cui la filosofia divenne nota in Roma, resulta  dalla natura del carattere romano e dell' ideale ch' esso  prefiggeva alla vita, dalla stessa aureola di gloria onde fu recinta la memoria di Lucrezia, di Catone e di Bruto.  Né dunque può pensarsi ad alcuna influenza del Portico, se vediamo i giuristi non considerar come dannata la memoria del suicida. Ma singolarissima è poi la specialità contemplata nel testo che per consueto si adduce. In esso si riferiscono rescritti di Adriano e d'Antonino Pio, i quali, considerando il caso, in cui persona accusata di delitto capitale,  prima d' esser sottoposta al giudizio, ponga fine a' suoi  giorni taedio vitae vel doìoris impatientia, dichiarano non  incorsi con ciò nella confisca i beni di quella. Si ha poi  nel caso proposto ad Adriano che il suicida era accusato  d' aver ucciso il figlio. Adriano, con sentimento delicatamente umano, dichiara doversi presumere che non per timor della pena , ma per dolore del figlio perduto, V accusato sia volontariamente uscito di vita ( Marciano, fr. 3  §§. 4-5 D. 48,21); non potendosi ad ogni modo ritenere per se il suicidio deir accusato equivalente a confessione di  reità a condanna. Come poi Papiniano con lucidissima  veduta dichiarò e sostenne ( Ibid,, pr. ; cfr. fr. 29 pr. D.  29,1 ; Paolo, fr. 45 §. 2 D. 49,14 ). Mentre poi è  chiaro che, all' inversa, il suicidio che 1' accusato volle affrontare non per altro che per timor della pena e ob conscientiam cnminis, non salva dalla confisca il patrimonio  di lui, che si considera quale dannato o confesso (Ulp., fr.  6 §. 7 D. 28,3; fr. 11 §. 3 D. 3, 2). Il che davvero  s'intende come logico sviluppo, senza che nulla v'appaia di influenza o reminiscenza filosofica, se pure essa non voglia vedersi nel ricordo ai filosofi, come a coloro che si uccidono  taedio vitae,,. vel iactationis (fr. 6 §. 7 D. 28,3).  E qui pure, a proposito del diritto naturale alla vita,  si avverte il riconoscimento di tal diritto nello schiavo, là  dove è detto da Ulpiano esser lecito etiam scrms fiaturaliter in sunm corpus saevire (Ulp., fr. 9 §. 7 D. 15,1). Di fronte al qual diritto affermato perle schiavo, sta l'obbligo in lui di rifondere col suo peculio al padrone le spese  che ha sostenute per curarlo dalle ferite infertesi tentando  d' uccidersi; talché quel diritto si riduce praticamente ad  una curiosa ed amara irrisione. E tocco di un altro fra i diritti personali. Quello alla  religiosità, al quale s'attiene lo sfavore con cui si riguardò  dai giuristi, conformemente agli stoici, il giuramento (PapiN., fr. 25 §. 1 D. 13,5; Ulp., fr. 7 §. 16 D. 2,14),  e in ispecie la condicio iurisitirmidi, apposta a una liberalità per atto mortis causa ( Labeone, in Giav., fr. 62  pr. D. 29,2 ; Giuliano, fr. 26 D. 28,7; Marcello, fr. 20  D. 35,1 ; Ulp., fr. 8 §. 5 D. 28,7). Il generale divieto  della condicio iurisiurandi è anteriore a Labeone e posteriore a Cicerone, e coincide per tempo col fiorire della  filosofia del Portico. E F opinione ch'esso sia determinato da influenze di questa parrebbe tanto più attendibile, in quanto  siamo qui in tema di religiosità, dove l'istituzione filosofica  ebbe veramente, in sullo scorcio della repubblica e a' primi  tempi del principato, efficacia non lieve e assai diffusa. Senonchè non so astenermi dal proporre una mia modesta  osservazione. Lo sfavore pel giuramento non è già soltanto  nel Portico, ma risale fino tra le scuole presocratiche, a  quella di Velia, e al fondatore stesso di essa, a Senocrate,  che nel giuramento ravvisava un riprovevole privilegio per  l'empietà (Arisi., Bhet, I, 15) (19). Forse quello sfavore,  che nello spirito filosofico si manifesta cosi da antico, era pure  in origine nello spirito romano, e durava nel patrimonio  d'idee e di tradizioni, che, specialmente in materia di religione, i due popoli ritrassero dal ceppo comune? Il che  solo accenno, pur non volendovi troppo insistere, perchè  non paia amor di sistema. E, lasciando omai d' altri rapporti di minore impor-  tanza, pure del tutto formali, come, per ciò che attiensi  alla salute, la definizione del morbo, di habitus cor-  poris contra naturam (Sab., fr. 1 §. 9 D. 21,1 e in Gellio,  Noci. Att^lY, 2. cfr. fehris: Giul., fr. 60 D. 42,1) evi-  dentemente tolta dallo stoicismo; il concetto del furiosus, che, come privo di mente, stoicamente è detto suus fion est  (Ulp., fr. 7 §. 9 D. 42,4), passiamo senz'altro alle cose e  ai diritti su di esse.  La triplico partizione delle cose, che ci riferisce Pomponio nel lib. 30 ad Sah. (fr. 30 D. 41,3): F una comprendente quod contìnetur uno spirita, graece yivwjxsvov;  l'altra che abbraccia qiiod ex contingentihus hoc est j)ÌU'  rihus interse coherentibus constat, quod atiVTQjAjjievov, e una  terza dei corpora pUira non solata^ ma uni nomini suhiecta, resultanti ex disfantibiis, b T applicazione precisa e  genuina della distinzione del Portico. Al frammento di Pomponio  fauno riscontro testi di Plutarco, Fraec. coniug., 34 ; di  Sesto Empirico, Adi\ Math,, VII, 102; IX, 7S; di Seneca  J^at. qiiaest., II, 2 ; Epist., 102,6 ; e di Achille Tazio,  Isag, in plten. Arati, 14. Che dunque per essa i  giuristi abbiano formalmente attinto dai filosofi non v' ha  dubbio. Il ricordo formale dei filosofi si ha persino nella  esemplificazione consueta nei giuristi delle cose appartenenti  a ciascuna di quelle tre categorie. Ma se ci facciamo a ricercarne le pratiche applicazioni, tosto ci avvediamo come altri principi, del tutto indipendenti da essa, inteivengano. E, invero, il diverso modo con  cui si ammette il possesso e l'usucapione, segnatamente per  le res comiexae e le universitates ex distantibus. La regola  che il possesso di una res connexa implica il possesso  delle cose singole da cui risulta composta, come parti, non  come cose a se stanti, e distinte individualmente, si spiega  col concetto tutto romano del requisito A^' animus nel  possesso. Il quale, dovendosi rivolgere alla res connexa  nella sua essenza, non si concepiva che contemporaneamente si rivolgesse alle parti singole di quella; onde appunto la inammissibilità di un contemporaneo possesso dell' intiero e delle parti, e la impossibilità di acquistare un  diritto sulle parti, in forza del possesso della res conmxa  resultante dalla loro unione. Il che ha segnatamente ef-  fetti importanti per la teoria deirusucapione. Mentre poi, per quanto tocca in ispecie le regole del possesso e deirusucapione dei tigna onde resulta composto un edifizio, concorre anche il riguardo tutto civile che inspirava la lex (le Ugno iuncto (Venuleio, fr. 8 D. 43,24;  GiAVOLENO, fr. 23 pr. D. 41,3; Gaio, fr. 7 §. 11 D. 41,1;  Paolo, fr. 23 §. 7 D. 6,1; Ulp., fr. 7 §. 1 D. 10,4) (21).   Meno ancora può trarsi dalla distinzione fatta dai giuristi delle cose corporali e incorporali. Se per questa, fra il  concetto dei giuristi e quello dei filosofi, può esservi somiglianza, essa è del tutto apparente. Le cose incorporali  dei filosofi, come essenzialmente il tempo e il vacuo, non  hanno nulla di comune colle cose che son chiamate incorporali dai giuristi per la loro funzione sociale e giuridica,  e che hanno sempre in sé per contenuto cose corporali, e  ciò secondo un concetto che ci si presenta tradizionale e  risalente: in modo sopra tutto preciso e spiccato nella hereditas (Pomponio, fr. 37 D. 29,2; fr. 119 D. 50,16; Gaio,  Inst, II, 14; fr. 1 §. 1 D. 1,8; Apric, fr. 208 D. 50,16;  Papin., fr. 50 pr. D. 5,3; Ulp., fr. 178 §. 1 D. 50,16;  fr. 3 §. 1 D. 37,1; Paolo, fr. 4 D. 5,3): e segnatamente,  con mirabile evidenza, nel concetto e nelle regole delF^^t*-  capio prò herede (Gaio, II, 54).  E di questo concetto àeìVheredifas, res corporaUs, che  ha per contenuto normale appunto cose corporali, è assai  notevole come un filosofo del Portico parli come di inutile sotigliezza, deridendo i giuristi che raccolsero (Seneca, De h&n.  VI, 5): e offrendoci con ciò, come fu avvertito, ricordo  certo e perenne della differenza sostanziale che correva, a  proposito di quella partizione, fra il pensiero dei filosofi e  quello dei giuristi. Certo, fra i cor para, la distinzione di quelli che ratione vel anima carente da quelli che careni ratione non  anima o di entrambe, è rivestita di forma del Portico. Ma è  necessario ch'io soggiunga che sotto di essa sta un concetto tanto primitivo, che davvero non occorreva rivestirlo  del lusso d' una veste filosofica ?  Un tema, sul quale insistettero con particolare predilezione tutti i sostenitori dell'influenza del Portico, è quello che  riguarda, tra i modi d' acquisto della proprietà, la specificazione. L'opera diretta che qui esercitò, pel riconoscimento  del lavoro umano di fronte alla materia, la scuola dei ProculeiaDÌ, porse pure argomento per ravvisare una particolare inclinazione di quella verso lo stoicismo: in contrapposto anche qui alla scuola de' Sabioiani. Quasiché,  a spiegare il riconoscimento del lavoro umano non dovesse bastare una considerazione positiva di natura tutta economica: la normale preminenza di valore della nuova specie sopra la materia prima, preminenza che doveva imporsi al  concetto proculeiano, ognora così acuto e vivo e libero, di fronte all'ossequio tradizionale della proprietà, che pur continua un preminente riguardo al proprietario della materia. Le fonti, a cui ci si richiama, pel rapporto inverso  alla specificazione, appunto la riduzione della species alla  materia, confortano questo concetto. Si riferiscono invero  per consueto due testi d'Ulpiano, nei quali questi asserisce  sembrar scomparsa la cosa, di cui sia mutata la forma, benché ne duri la materia (fr. 13 §. 1 D. 50,16), e mutata forma prope interemit suhsiantia rei (fr. 10 §. 9 D.  10,4). Espressamente ciò giustificandosi da Ulpiano stesso,  proprio col criterio economico qmniam plerumque plus est  in manu prctio qtuim in re. E Paolo soggiunge, adducendo l’opinione e di Labeone e di Sabino, che abest la tabula  picta quando ne sia rasa la pittura, o il vestito quando è  scucito, perché appunto earuni rerum pretium non in substantia sed in arte sit positum (Paolo, fr. 14 pr. D. 50,16).  E, partendo da tal concetto, ben s'intende come, all'inversa,  si considerasse economicamente del tutto nuova la cosa formata per mezzo del lavoro sopra materia già esistente, e  come Proculo e Nerva potesser dire, secondo quello che Gaio ricorda, che dopo subita l'opera dello specificatore, essa non  potesse più considerarsi come appartenente al proprietario della materia (Gaio, fr. 7 §. 7 D. 41,1; cfr. Paolo, fr. 3  §. 21 D. 41,2 (24). Né in tema di materia o sabstantia e species, per  r efrore che intervenga su questa o su quella nel con-  tratto di compra vendita, parmi che molto si possa trarre  dalle fonti, per un'essenziale influenza del Portico.  Nel noto passo d' Ulpiano ( fr. 9 §. 2 D. 18,1 ) si riferisce come Marcello ritenesse sussistente la compra vendita,  anche quando, per errore, si fosse dato aceto, invece del vino dedotto in contratto e rame per oro e piombo per argento. Ciò giustificandosi da Marcello stesso colla ragione che sul  corpus intervenne il consenso, ed errore vi fu solo nella  materia. Ulpiano consente per l’aceto, perchè qui la sostanza, r oùjta (appunto secondo il linguaggio del Portico) è  quella dedotta in contratto. Mentre vi ha scambio sostanziale di tale oùjt'a nel caso del rame dato per oro e del piombo per argento. Talché la preoccupazione erronea che  nel concetto di Marcello sembra ingenerare la reminiscenza  del Portico, scompare in Ulpiano, che ne prescinde recisamente,  applicando nel modo più concetto le regole sull' eiTore nell’oggetto del contratto, non importa poi ch'esso errore verta  in corpore o invece in stibstantia. Lo stesso testo vivissimo d' Alfeno ( fr. 76 D. 5,1)  che riproduce, secondo la fisica e dell’Orto (Lucrezio,  Nat. rer. V) e del Portico (Seneca, Ep. 58 ; Plut. Comm.  nat. 39; Antonino, II, 17; V, 33), la mutazione continua  della materia, ricordando come il corpo formato da questa sia sempre lo stesso, per quanto si vengano ognora mutando via via le particelle che lo compongono, e applica  questo principio air organismo di un jiidicium, che rimane  il medesimo col mutarsi de' suoi membri, ritrae in sostanza  un concetto eh' e genetico in Roma, essenzialmente per  la persona giuridica del “populus.” E la fisica del Portico si riduce dunque solo ad illustrare con veste scientifica ciò  che ben prima s'era nella pratica ravvisato. Influenza del Portico si sostenne in un preteso sfavore  alle usure, che si volle dedune da parole di Papiniano che usura non natura pervenif ( fr. 62 pr. D. 6,1 ). Quasiché  non fosse risalente e tradizionale il concetto che distiogue dai frutti naturali i frutti civili, e in materia d'usura non  si avesse in Roma, fin da antico, un'assidua, quanto sterile  attività legislativa.   Ma basti ornai anche sul tema delle cose, intorno al  quale però non voglio astenermi dall' offrirvi esempio di  taluna di quelle aberrazioni, alle quali accennai essere pervenuti scrittori egregi, per passione ch'essi posero nell'esame  di questo tema. Scelgo la teoria del Laferrière, secondo la  quale la regola che richiede i due requisiti dell' animus e del corpus per l'acquisto del possesso e della proprietà per  occupazione, riuscirebbe determinata dal concetto fondamentale del Portico, che distingue nell' uomo 1' elemento spirituale dall' elemento corporeo. Come analogapaente sarebbe  determinata da questo la necessità della tradizione pel trasferimento della proprietà. E d'altre taccio, già essendo queste esempio eloquente,  come presentantesi sotto un nome scientificamente onorato e sotto l'insegna gloriosa dell'Istituto di Francia.  Dovrei ora, accennarvi a tutto il sistema  romano delle obbligazioni, al mutamento eh' esso più specialmente subisce dal rigoroso formalesimo, verso 1' applicazione più agile e diretta della volontà. Mentre pur tutto  il diritto vien ravvivato da raffronti e adattamenti vitali  di elementi nuovi ed estranei coi prischi ed indigeni, e ricordare come questo sia una conseguenza immediata de'  nuovi orizzonti' che omai ha la vita e il commercio di  Roma e delle influenze straniere così continue e multiformi?  E come, a sua volta, il moto potente e continuo di Roma  verso l'universalità, e 1'alito vivificatore che ne deriva sul  diritto, consegua direttamente dalle nuove condizioni politiche ed economiche? Che questo moto grandioso e continuo corrispondesse  alle dottrine stoiche, per le quali tutto il mondo è una grande città, non può negarsi. Che per quello riuscisse ad  esse più agevole l'aver diffusione è pur certo. Ne che per  tal modo esse abbiano anche cooperato con quello, talora  forse per via inconscia, allo svolgimento di taluni istituti  e l'apporti , come ad esempio dello schiavo , di rapporti  relativi alla religiosità e simili, non vorrei disdire.   Ma chi penserebbe sul serio, solo per un istante, che il  moto di Roma verso l’universalità derivi dal Portico,  da alcun'altra delle scuole filosofiche? E che però  da filosofie consegua mediatamente tutta la trasformazione del diritto?   Non però se parmi di dover negare ogni influenza essenziale della filosofia, e in ispecie il Portico, sullo sviluppo della giurisprudenza romana, air infuori di quelle influenze concomitanti con altri elementi che teste toccammo,  sopra singoli rapporti, e delle influenze formali che si vennero annoverando sin qui , voglio io disdire 1' efficacia che  la conoscenza della filosofia ebbe dal secolo di CICERONE in poi, sempre formalmente, ma pur in campo più generale e importante, nel dar struttura di ars al itis civile («quae rem dissolutam divulsamque conglutinaret et ratione quadam constringeret »: Cic, de orat I, 42) (26). Imprimendo con ciò nuova forza e nuovo sviluppo a facoltà  e a tendenze ch'erano in Roma native. che non tolse tuttavia che, ricevuto tale avviamento nella costruzione logica, la giurisprudenza procedesse poi da  sé, indipendente dalla filosofia, elaborando essenzialmente i rapporti pratici della vita, aborrente da ideali astrazioni. E dove la reminiscenza filosofica, cessando d'essere formale  intacca la sostanza giuridica, si ha un fluttuar vago d'idee  incerte e confuse, un' indeterminatezza di linee, che fa eloquente contrasto colla precisione perfetta, sicura, ond'è in Roma esempio mirabile tutto l'organismo del diritto. Voi intendete ch'io accénno al im naturale. Fra il concetto d'Ulpiano che lo designa emanazione della ragione diffusa neir universo, e quello di Paolo che vi ravvisa un' ideale tendenza verso l’ “aequwn bonum”, o quello  di Gaio che lo riaccosta al “ius gentium”, quale dettato dalla  universa ratio; fra i più diversi significati ed applicazioni  di naturalis ratio, di naturalis, di ìiaturaìiter, che occorrono  nelle fonti, o connessi ad uno di quei tre concetti, od oscillanti fra l’uno e l’altro, o indipendenti da ognuno, lo studioso procede incertamente.  Né certo sta a me, ne io presumo di portar giudizio  sulle varie costruzioni che modernamente si tentarono del “ifàs naturale”, concepito, o conforme alle dottrine elaborate in Boma dalla filosofia accademica e del Portico, come  coscienza insita nella umana natura di un diritto universale, e però del tutto distinto dal ius geniium. O, invece, obiettivamente, come ordine naturale contrapposto  air ordine civile, come dettato dalla ratio. O, di nuovo  subbiettivamente, quale concezione dovuta all' idea del diritto dettato dalla ragione naturale a tutto il genere  umano, atteggiatasi in Roma sul “ius gentium” e fusasi  poi con esso, per esplicarsi poi praticamente n^Waequita^, che  è la forza che s'avanza via via nell'editto pretorio e gradatamente vi prevale. O invece senz' altro come derivazione e sviluppo dello stesso ius gentium. A me basta notare sol questo. Quanto d'indeterminato  e d'incerto rimanga tuttavia in ciascuna di quelle costruzioni, e come, s' io non erro, non sia riuscito ad alcuno,  benché ingegni forti e coltissimi vi si accingessero, di  dimostrare che il concetto vago ed astratto del ius naturOfle  scese ad applicazioni pratiche e concrete. Né certo maggior pregio di linee precise e spiccate o  d' importanza diretta e sostanziale per 1'organico sviluppo  del diritto ci presentano nel titolo de “iustitia” et iure le  definizioni astratte, tolte a prestito dal Portico, di giustizia  e di giurisprudenza, e i tre famosi precetti del diritto. L' artificiosa inutilità di tali concetti, tratti più o meno fedelmente dalla filosofìa, spicca in guisa vivissima  nelle definizioni del concetto di “legge”; nelle quali, attraverso a vaghe  reminiscenze di Demostene e di Crisippo, ricompare il concetto, romanamente vero, di coìnmwiìs rei ptiblicae sponsio. La gloria del diritto e dunque riserbata a Roma;  la quale, per opera secolare ed esclusiva del suo genio, affida ai venturi, con eccellenza insuperata, le leggi eterne  dell'umana vita giuridica.   Se v' ha ricordo che debba infiammare e  scuotere i diretti continuatori del sangue e del pensiero latino, è il ricordo di quella gloria. In questa Università che  ha tradizioni nobili e antiche, proseguite degnamente dal  maestro provetto, cui circonda qui da olti-e cinque lustri  reverenza aifettuosa di discepoli, e dall'altro insegnante  che coi lavori acuti e geniali, come coir insegnamento ef-  ficace, onora in Italia le discipline romanistiche, quella  gloria infiammi e riscuota noi pure, o compagni. E com'essa  ravviva e ravvivei-à ognora in me le deboli forze, altrettanto  sia come fuoco sacro ai vostri giovani e ardimentosi intelletti.  Cattanei. P erozzi. Un elenco molto accurato dei lavori appositi scritti sul nostro  tema trovasi nella classica opera deli' Hildenbband, “Gesch. u. System  der Rechts und Siaatsphilos.”, Leipzig.  Lo riporto qui, con alcune aggiunte e avvertenze bibliografiche,  che contrassegno collocandole fra parentesi. Indico con asterisco i lavori che non potei procacciarmi:   Malquytius, De vera non simnìnL<i iurisc, phiL, Paris., 1626  [ristampalo nella Triga ìibelL rariss., Halae Magdeburg]; Paìjaninus Gaudextius, .2>^ j>/i27o«. ap. Bom. in. et progr.  Pisis, 1643, e. 42-3^ pagg. 104-6; | Buaxdes 7->e, vera non simulata  iurisc. phih, Francof. 1626; opuscolo che noto benché certamente privo  di valore, solo per amor di completezza, e seguendo in ciò V e-  sempio dello stesso Hildenbrand, che giustamente tien conto nel  suo elenco anche di lavori senza pregio, come p. e. quelli compresi  nella raccolta dello Slevogt] ; Scuilier, Manud. pliilos. moraliii  ad ver, nec simnl. pini., len., 1696;BonMER, Dephilos, iurisc, stoica^  Halle, 1701 [ristampato nel volume J)e sectis et philos. iurisc. opusc.^  coli, recogn. et praef. et elog. Ictor. rem. ac progr. de disp. fori  aiixit Slevootius, lenae, 1724]; Buddeus, De errar, stoic, negli  Anal. Imt. phiL, Hai., 170G; Voss, De falsis Ictor. ratiocin. ex  parte occas. philos. stoicae enntis, Harderov., 1709; Ev. Otto,  De stoica vet. Ictor. philos.: Id , De vera non simulata philosoph.  Ictor. j nel voi. cit. dello Slevogt; Herjng, De stoica velt. Roman,  philos., ibidem; [Kunholt, Semicenturid comparai, verae et simul.  iurisc. phil., Lipsiae, 1718, che trovo citato dall' Eckardt, Herm.  duriSj *Lips., 1750, cap. 4]; Slevogt, De sectis et philosophia Icforunif len., 1724; *£ggerde8. De stole, Ictor. roman. eìusqiie historia  et ratioìie, Kostoch, 1727: Hofscaxn, De diàUctica vett, Ictor., Francof.,  1735, ne' suoi Melemata ad pandectas; Schaumburg, De iurisprud.  ceti. Ictor. stoica tractatiis, hoc est succincta demotutr. iuriscon-  sultos roman. non vita solum sed etiam doc trina stoicam philoso-  phiam esse profes>ios, lenae, 1745; *Pauli, De utilitatibus quas  attulit philos. ad iurisprud. ronianani, Lips., 1753; Meister, De  plùìos. Ictor. Roman, stoica in doctrina de corpor. eorumque par-  tibus, Gott., 1756 [e neW Opusc. Syll., I, n, 10]; VanHoogwerf, De  car. tur. Boni, partibus stoam redolentibus, Traj ad Bhen., 1760,  e nell'OsLRiCH, Thes. noe. voi. Ili, tom. 2, pagg. 63 e segg. ; Boers^  De antropoì. Ictor. Roman, quatenus stoica est, Lugd. Bat. , 1766  [*Terpstra, De philos., cet. iurtsc, Francof., 1767, che trovo citato  dall*HoLT, Hist. tur. rom. lineam., Leod., 1830] *Ortloff, Ueber  den Eiufluss der stoischen Philosophie auf das rom.Recht.,^ìàng.,  1797; *Vax Vollenhoven, De exigua vi quam philosophia graeca  habuìt in effórmanda iurisprudentia romana, Amstelod.; Ea-  TJEN, Hat die stoische Philos. bedeutenden Einfluss auf die rom.  juristischen Schriften gehabt? Kiel, 1839, ristampato nei lahrb. di  Sell, in, pagg. 66 e segg.; [Trevisani, Lo stoicismo coìisìderato in  relazione colla gìurisprud.'» roìnana, nella Gazzetta dei tribunali,  VI, 1851, pagg. 821 e segg.; VII, 1852, pagg. 7 e segg. ]; Voigt,  lus natur. bon. ti. Aequum, Leipzig, 1856-75, I '^§. 49-51 pagg.  250-66; [Xaferrière, Memoire concernant V influence du stoicisme  sur la doctrine des iurisc. romains, nelle Mevi. de V Acad. des  scienc. mor. et politiques, X, 1860, pagg. 579-685. Fra noi usciva nel  1876 il lavoro dottissimo del MoRIA^'I, La filosofia del diritto nel  pensiero dei giureconsulti romani, Firenze, 1876. Sono ancora a no-  tarsi, benché tocchino solo punti speciali del tema: Eherton, sulla  terminologia stoica nel dir. romano, nella Quaterly RevieWj III, n.  9, 1887, di cui dà un sunto G. Pacciiìoxj, néìV Ardi, ginr., XXXVTII,  fase. 1-2; Lecrivain, Le terme stoicien verecundia dans la langue  des Dig., nella Nouvelle revue hist. de droit frane, et drang., XIV,  1890, pagg. 487-9].   Trattano pure del nostro argomento, benché non di proposito, i  seguenti: [Hopperus, lur. civil. lib. sex, Lovan., 1555, pagg. 554 e  segg.] CuiAcio, Observ.y 56,40; Merillio, Obsero.,\, 8; Turnebo,  Advers., Aurei., 1604, Vili, 20, pag. 151; Lipsius, Manud. ad stoic.  philos..^ nelle Opera.^ Antverpiae, 1737, IV, 473; Io., Physiol. stoic.,  nelle Opera, IV, 542; Kamos, Tribonianus, Lugd. Bat., 1728, pag.  249 e segg. [Bodeus, Observat. et elem. phil. instrumentalis, Halae  Sax., 1732, cap. II §. 27, pag. 308, cap. IV g. 14, pag. 470]; Ma-     'Jìp: SCOTIO, De sectis Sahinian et Proculeian, in iure civili, [ Lipsiae^  1728], Alld., 1740; Eokhardt, Ilerm. luris, Lips., 1750, e. 4; Walch,  Opp.^ I, p. 237 [Gravina, De ortu et progr, iur. civ., Napoli, 1757,  I, 35-6; Brucker, Hist. crii, philos., Lipsiae, 1766, II, pagg. 15 e  segg.; G. B. Bon, praef. al Leibnitz, Opusc. ad iur. peri., nel Leib-  NiTZ, Oper«, Genevae, 1768, IV, p. d, pag. 5, n. 1; Eineccio, Antiq.  rom., Venet., 1792, lib. 2 e 3, pagg. 17, 30-1, 191 e segg.] ; Vico,  Scienza nova, cap. 4; *Welcker, Die letzten Grilnde von Recht  Staat u. Stafe, Giessen, 1813, pag. 492, 500, 522, 578; *Id., Uni-  versa! u. Jurist. poh Encyclopadie, Stuttgart, 1829, pagg. 70 e segg.,  556 e segg.; Veder, Hist, phil. jur. ap. veti,, 319; Zimmern, Gesch.  des rum. Privatr. I^ pagg. 23 e segg.; Pcchta, Cursus der Instit, 2 Aufl.,  pagg. 472 e segg.; Ahrens, Iur. Encyclop., pag. 303, n. 2; 360, n. 1;  [Girard, Hist, du droit rom., Paris Aix, 1841, pagg. 180 e segg.;  OzANAM, Il paganesimo e il cristianesimo nel quinto secolo, trad. Car-  raresi, Firenze, 1857, 1, pagg. 163 e segg.; Voigt, Aeìius und Sabinus-  sijst , pagg.' 19 e segg.; Ianet, Hist. de la science polit., 2 ed., Paris,  1872, I, pag. 281 ; Sumner Maine, Ancien droit, .trad. frane , Paris,  1874, cap. 3 pagg. 51-5, 64, cap. 4, pagg. 70 e sogg. ; Conti, Storia  della fdosofia^ Firenze, 1876, I, pagg. 401 e segg. ; Renan, Marc  Aurèle, 2 ed., Paris, 1882, pagg. 22-3 ; Gregorovius, Der Kaiser  Hadrian, 2 Aufl., Stuttgart, 1884, pagg. 296 e segg.; Hofmann, Der  Verfall der rom. Rechtswiss., nei Krit. stud. im róm. Bechte, Wien,  1885, pag. 9; Ferrini, Storia delle fonti del dir. rom., Milano, 1885,  pagg. 30-1, 100-1 ; Id., note al Gluck, trad. italiana, voi. I, pagg.  64-5. ; Krììgeii, Gesch. der Quell. u. Litteratur des rom. Rechts,  Leipzig, 1888, pagg. 45 e segg., 127 e segg.; Carle, La vita del di-  ritto, 2 ed., Torino, 1890, pagg. 153 e segg.].   (2) Padelletti^ Roma nella storta del diritto, neir Arch. gim\,  XII, nota 2 pagg. 210 e segg.   (3) Per la storia della filosofia in Roma, e per ciò che riguarda  in ispecie le sue attinenze al diritto, cfr. principalmente: Hildenbrand,  op. cit. I, pagg. 523 e segg.   (4) Cfr. sulla filosofia di Cicerone: Ritter, Hist. de la philos,  trad. frane. Tissot, IV, pagg. 121 e segg.; Hildenbrand, op. cit., I,  pagg. 537 e segg., Branbis, Gesch. der Entiv. der griech. Philos,  Berlin, 1862-4, II, pagg. 249 e segg ; Boissusr, La relig. romaine  d* Auguste aux Antonins, Paris, 1878, I, pagg. 4 e segg.   (5) BoissiER, op. cit., I, pagg. 14 e segg.   (6) Leggenda, alla quale porsero principale argomento i punti di  contatto che le dottrine di Seneca presentano con quelle cristiane, in,  ispecie Ruir immortalità dell' anima, sulla provvidenza, e sui doveri di     3^) NOTE   carità (punti toccati con molta diligenza da Fleury, S. Paul et Se-  nèque, Paris, 1853). Altro argomento estrinseco è la simpatia che mo-  strano per Seneca i Padri della chiesa: Seiuca noster: Tertull., De  ,an,, 20; Hieron., De vir. ili, 12; Io., Adv. lovin., 1,49; Lxct. , Inst.  div.y IV, 24. E S. Agostino nota che Seneca non nominò forse i cri-  stiani per non lodarli « cantra suae patriae veterem consuetudine tn »,  né riprenderli « cantra propriam forsan volunlatem »: Auc, De civ.  dei, VI, 11. Il tèrzo argomento dell' amicizia di Seneca con S. Paolo  si fondava sopra una grossolana falsificazione delle Kpistolae Senecae  ad Paullum.   Ricca è la letteratura riguardante questo argomento, che ha  un'importanza assai notevole pel tema che tocca direttamente dei rap-  porti della morale stoica colla cristiana. Cfr. principalmente, oltre Topera  or accennata del Fleury: Boissier, op. cit., II, pagg. 46 e segg., e  nella Revue des deux mondes, XCII (1871) pagg. 40-71; Aubkrtjn,  Senèque et Si. Paul^ Paris, 1869; Bau», Seneca ti, Paulus: das  VerMltn. des Stoiciwius zum Ghriat. n. den Schrift. Senecas, neWHe't-  delherg. Zeitschr. f. iviss. Theol, I, 1858 p. 161-246; 441-70; e Abh.  zur (reseli, d. alt. PhiL, heratisg. v. Zeller, Leipzig, 1876, pagg.  377-480; 'Westerburg, Der Ursprung der Saga das Seneca^ christì.  gewes. sei, Berlin 1881. Tutto il contrario si sostenne dall'EcKHARD in  un curioso opuscolo, di cui basta riportare il titolo perchè se ne com-  prenda lo scopo: Obserc. sistens L. A, Senecam in relig. Christian,  iniuriosum, mella Misceli. Lipsiens., Lipsiae, 1706-22, IX, p. 90-107.   (7) GuEGOROvius, op. cit j pagg. 315-7; Renan, op. cit., pag. 35.   (8) I rapporti che verrò enumerando furono notati, quali dall'uno  quali dall'altro degli scrittori che s'occuparono del nostro tema: quali  in uno quali in altro senso. Io non ho creduto di dover per ciascuno  di essi avvertire da chi fu notato, da chi omesso. Saiebbe inutile pel  lettore, al quale ciò che preme sopratutto si è di aver qui, come in  un quadro, il risultato complessivo delle questioni: quadro eh' io mi  studiai di delineare colla maggior cura e fedeltà che mi fu possibile.   (9) Otto a Boekelen, op. cit., pagg. 24 e segg. Contrariamente  Eckhard, op. cit.,; Merillio, obs. I, 27 pag. 260.   (10) Brini, Delle due sette dei giureconsulti romani^ Bologna,  1890, pag. 19.   (11) Malquytius, op. cit.y pagg. 54-5; Gibbon, Hist. de la dee. de  Temp. rom., I, pagg. 128-31; Eckhard, op, cit., pag. 245; Laperrière,  op. cit, pagg. 606-7; Renan, op. cit., pag. 605; Wjllelms, Droit pubi,  rom., 5 ed., Paris, 1884, pag. 136.   (12) Pernice, M. A. Labeo, Halle, 1873-8, I, pagg. 113 e segg.  Cfr. anche Padelletti noWArch. giur., XIF, pag. 213.    (13) PucHTA, Inst. l 212, II, pag. 83.   (14) Lafehiuère, op. cit.t pagg. 613 e segg.   (15) Cfr. SciALOJA, nel Bull. deìVist. di dir. rom., 1890, III, pagg.  176-7; BoNFANTE, L'origine deìVìiereditas e dei legati nel dir. sìACcess.  romano, Del cit. Bullettino, IV, 1891, pagg. 97-144.   (16) Lafeuuièue, op. city pagg. 621-8.   (17) Il Trevisani, op. cit., nella Gazz. dei 2'rib., VI, 821 e segg.  sostiene che i romani ebbero ognora in gran sfavore il soicidio. Ri-  corda che costituiva vizio redibitorio per lo schiavo il suo tentativo  di suicidio, anteriore alla vendita; ma davvero non occorre osservare  come ciò sia spiegato chiaramente dalla considerazione economica  verso il padrone (fr. 1 l 1, fr. 23 l 3 D. 21,1). E il. tentativo di  suicidio punito per rescr. di Adriano nel soldato, non è spiegato ab-  bastanza da considerazioni di ordine pubblico e dalle necessità della  disciplina militare? Cfr. in questo senso: Ferii ini, Dir. pen. rom., nel  'Tratt. teor. prat. del Cogliolo, I, 18f^8, pagg. 28-9.   (18) Ferrini, Teoria dei leg. e fedecomm,, Milano, 1889, p. 346-9.   T:oiT(xioLi yi] T:XaYYjvat TrpoxaXijaiTO.   Cfr. Keller, Die philos. der Griechen in ihr. geschichll. En-  tivicklung, 4 Aufl., Leipzig, 1876-9, I, pag. 503.   (20) Ravaisson, Mem. sur le stoicisme, nelle Meni, des inst. imper.  de France ; Acad. des inscr. et beli, lettr.^ XXI, 1857, pag. 29 ;  GorpERT, Ueber einheitl. zusammeìvgesetz. u. gesammt. Sachen, Halle,  1871, pagg. 7-13.   (21) Fu oggetto di dispute gravi il fr. 30 §. 1 D. 41,3: Pomp.,  30 ad Sab.: Labeo lìbris epistularuui ait si is, cui ad tegularum vel  columnarum usucapionem decem dies superessent, in aedifìcium eas  coniecisset, nihilo minus cum usucapturum, si aedifìcium possedisset.  quid ergo in bis quae non quidem implicantur rebus soli, sed mobilia  permanent, ut in anulo gemma? in quo veruni est et aurum et gem-  mam possideri et usucapì, cum utrumque maneat integrum.   In esso alcuni scrittori ravvisarono un' eccezione utilitatis causa  alla regola generale formulata nei testi succitati, per la quale ecce-  zione si ammetterebbe il proseguimento deirusucapione delle tegole e  delle colonne, anche pel tempo in cui perdono la loro individua na-  tura, coir entrare a far parte della res connexa^ edifizio. Così Wind-  scheid, Pand , 6 Aufl., Pampaloni, La legge  delle XII Tav. de tigno iunclo, Bologna, 1883, estr. dair^rc^. giur.,  Altri, invece, si sforzò di ricercarvi lo stesso senso dei testi citati^  col dare al nihilominus il sifirnifìcato di non. Così Kjeiiulf, Civilr.,  pagg. 276 e segg ; Uxterholzxkii. Verjà'hrungfilehre hearh. v, Schirmer,  I, 153 »ì segg.; SINTE^'Is, uell' Arcìi, f. civiì, Prax., XX, pagg. 75 e  segg., e System, I, pagg. 449-52.   Altri ancora cercò in vario modo di togliere al testo valore sre-  nerale, limitandone la i)ortata alla specialità in esso contemplata. E  però, intese che vi si trattasse di tegole e di colonne non incorporato  ' solidamente alFedifìzio: (Savigny, Besitz, pag. 269; Randa, Besitz, pag.  429); che la regola formulata nel testo valesse soltanto pel caso in  cui l'incorporazione delle tegole e delle colonne nell'edifizio avvenisse  quando questo già era compiuto, quando cioè, per tal modo, Teventual^  distacco di esse non urta contro la ratio della legge de tigno iuncta  « ne urbe ruinis deformetur » (Scheurl, Ziir Lelire vom rum. B'e^  sitZf §. 23); oppure valesse solo trattandosi di mobili incorporati al-  Tedifizio, ma non parti essenziali di questo ( Ruggieri, Il possesso). Sempre in questa tendenza di limitare il valore del testo,  negando ad esso portata generale, altri scrittori intesero restrittiva-  mente il termine dei decem dies, in esso formulato, in applicazione  della massima romana di non tener conto dei minima ( Thibaut nel-  YArch, f. civ. Prax., VII, pagg. 79 e segg.; Puchta, KÌ, civ. Schrift.Pape, Zeitschr. f. CiviJr. ii, Proc. N. F. XIV,  p. 211); spiegarono la sentenza del testo colla impossibilità dell' ir-  surpatio dei materiali nei 10 giorni mancanti, per la ragione chf , oc-  correndo un termine di almeno 10 giorni dalla editio actionis per  giungere alla litis contestatio^ se si agiva qando mancavano 10 soli  giorni ad usucapire, la ì'ei vindicatio non serviva a rendere innocua  r usucapione ( Savigny, Besitz, Eisele, lahrh. /I  Bogrn., N. F.  o finalmente intesero che nel  testo fosse contemplato il solo caso di unione delle tegole e delle co-  lonne ad un edificio incompiuto e che la legge de tigno iuncto non  impedisse di staccamele, per essere 1' unione recente di 10 giorni  (Meischeider, Besitz u. Besilzschntz,Codeste varie interpretazioni e spiegazioni sono riassunte dal  WiNDSCHEiD, c, più complctamento, dal Pe rozzi, Sui  possesso di parti di cosa^ negli Studi giur. e stor.per VVIII cenfen.  delV Università di Bologna, Roma., il qualo  confuta ciascuna di esse, per giungere alla conclusione che le tegole  e le colonne incorporate all'edifizio sì posseggono e s'usucapiscono non  perse, a parte, ma solo in conseguenza del possesso e dell'usucapione  dell'intero, a differenza della gemma e dell' anello che si posseggono  e s'usucapiscono per se. Hering; Eckhaud, La-  rERiuÈRE; Moriani; Cfr. Trevisani, nella Gazz. dei trib., Laperrière;  DiRKSEN, Ueheì' CICERONE s unlergegangene Schri/t: De iure  civili in arte redigendo, nelle philol. u. Philos. Ahhandl. der k. Aka-  demie der Wissensch. zu Berlin, Hjljen-  BRAND, Voigt, Aelivs und Sa-  hinussìjst.., Si connette a questa influenza formale d' ordine generale la ri-  cerca delle etimologie, comune ai giuristi, segnatamente dopo Labeone.  Qui Timitazione degli stoici fu riconosciuta quasi da tutti che ebbero  ad occuparsi del nostro tema. Cfr. da ultimo Lersch, Die Sprach-  philosoph, der Alien. Senonchè, nonostante gli sforzi di un accurato lavoro (CECI, Le etimologie dei' giureconsulti romani,  Torino ) persisto nel credere che sull’indole e sul valore delle  ricerche etimologiche dei giuristi rimanga saldo tuttavia il giudizio  severo ch’ha a formularne Pernice, M. A. Laheo, Si veggano i testi raccolti ed elaborati, non occorre dire con  quale diligenza- e acutezza, dal Voigt, Ius. natur, MoRiANi; Ratio derivazione dall'indiano rita e ratum, ordinamento  dell'universo e della natura terrestre, comprese le cose umane. Così  Leist, Civ. Stad., Katuralis ratio und Natur der Saclie; Civ. Stud, Gracco ital. Rechtsgesch., Iena, SuMNER Maine, Ancien droit, Etudes sur Vane, droit; HiLDENBRAND, Cfr. da ultimo l'acuta ricostruzione del Brini, Ius naturale,  Bologna. La condizione patrimoniale del coniage superstite  nel diritto romano classico, Bologna, Fava e Garagnani;  Il diritto privato romano nelle comedie di Plauto, Torino, Fratelli Bocca; Le azioni exercitoria e institoria nel diritto romano, Parma, Battei. Guido Ceronetti. Keywords: la lanterna, la lantern di Diogene, poesia latina, Catullo, Marziale, Orazio, Giovenale, il filosofo ignoto, la pazienza del … --. Aforismi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceronetti” – The Swimming-Pool Library. Ceronetti.

 

Grice e Cerroni: l’implicatura conversazionale hegeliana -- Gaus e il sistema di diritto romano -- i hegeliani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lodi). Filosofo italiano. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other philosopher – surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of Italian identity? But his more general philosophical explorations may interest the Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic and Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a ‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia del diritto.  Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine politiche all'Lecce.  Divenne professore di ruolo di Filosofia della politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura dell'U.R.S.S.” (Milano: Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma: Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei movimenti contadini in Russia” (Milano: Movimento Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale: A cura della sezione giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma: Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale dell'URSS, C., .S.l. (Bologna: STEB); Poeti sovietici d'oggi, Roma: Tip. Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna: STEB); Diritto ed economia: rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una teoria positiva del diritto, C. Milano: Giuffrè); Idealismo e statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano: Giuffrè; Individuo e persona nella democrazia, C. Milano: Giuffrè); “Il problema politico nello Stato moderno, C., .Milano: Giuffrè; Diritto e sociologia, C.,  Kelsen e Marx, C. Milano: Giuffrè); L'etica dei solitari; C., Milano: Giuffrè); Lenin e il problema della democrazia moderna: saggi e studi (Roma: NAVA) Parlamento e società; C. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo, Marx, Engels, Lenin Roma: Editori Riuniti); Ritorno di Jhering: Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello: Unione arti grafiche) Sulla storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Milano: Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico; C., .Milano: Giuffrè); La filosofia politica di Gentile; C. (Novara: Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione normativa e concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l.: Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica, C. .Milano: Giuffrè); Marx e il diritto moderno, C., Roma: Editori Riuniti); Teorie sovietiche del diritto / Stucka...(et al.); C. .Milano: Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant; introduzione di C., Roma: Samonà e Savelli); Il diritto e la storia, C.. Le origini del socialismo in Russia / C..Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / C..Roma: Editori Riuniti,  Un ouvrage recent sur Marx et le droit: Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris]: Sirey); Che cos'è la proprietà?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo: prima memoria, Pierre-Proudhon; prefazione, cronologia, C., Bari: Laterza); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali: relazioni sugli aspetti generali, C., .[Milano: Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale,  (Milano: Tipografia Ferrari) La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino: Einaudi); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; C., Roma: Editori Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau” (Bari: Laterza); La libertà dei moderni” (Bari: De Donato); Metodologia e scienza sociale” (Lecce: Milella); Problemi della legalità socialista nelle recenti discussioni sovietiche, C. .Milano: A. Giuffrè); “Sulla natura della politica: utopia e compromesso” (Milano: Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali”; Il metodo dell'analisi sociale di Lenin” (Bari: Adriatica); Il pensiero giuridico sovietico” (Roma: Editori Riuniti);  La questione ebraica” (Roma: Editori Riuniti); La società industriale e la condizione dell'uomo” (Lecce: ITES); “Sul metodo delle scienze sociali: una risposta” (Milano: Giuffrè); Principi di politica, Constant; Roma: Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma: Newton Compton); Tecnica e libertà: conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova: Grafiche Erredici) Tecnica e libertà / C., Bari: De Donato); Lavoro salariato e capitale / Appunti sul salario e appendice di F. Engels; Introduzione, cura e note filologiche di C., Roma: Newton Compton italiana, La societa industriale e le trasformazioni della famiglia, C., Milano: Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Marx; introduzione di C., Roma: Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin; introduzione di C. Roma: Newton Compton italiana); Teoria della crisi sociale in Marx: Una reinterpretazione, C., Bari: De Donato); Strade per la libertà / Russell; introduzione di C., Roma: Newton compton italiana); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau; traduzione di Celestino E. Spada; prefazione di C., Bari: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V. I. Lenin; prefazione di C., Roma: Editori Riuniti); Kant e la fondazione della categoria giuridica / C., .Milano: Giuffrè); La libertà dei moderni, C., Bari: De Donato); Marx e il diritto moderno / C., .Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx / Antologia C., con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / C. Roma: Editori Riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di C., Roma: Editori Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin; introduzione di C..Roma: Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti, Labriola; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels; introduzione di C., Roma: Newton Compton); La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.2. ed.Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma); Il pensiero di Marx / antologia C., ; con la collaborazione di Oreste e Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma: Editori Riuniti); Teoria della crisi sociale in Marx: una reinterpretazione (Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo” (Roma: Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di C., Roma: Newton Compton); Marx e il diritto moderno / C., .Roma: Editori Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / C., Politica ed economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari: De Donato); Salario, prezzo e profitto” (Marx” (Roma: Newton Compton italiana); Il lavoro di un anno: almanacco, C., .Bari: De Donato); Il pensiero di Marx / Marx; Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico: dalle origini ai nostri giorni” (Roma: Editori Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese, ed.Roma: Ed. Riuniti); Scienza e potere / scritti di C... <et al.>.Milano: Feltrinelli); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma: Newton Compton); Lo sviluppo del capitalismo in Russia” (Roma: Editori Riuniti); La teoria generale del diritto e il marxismo / Pasukanis; con un saggio introduttivo di C., Bari: De Donato); Introduzione alla scienza sociale, Roma: Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di C. .Roma: Newton Compton, Materialismo storico e scienza C. Lecce: Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta borghese, C., Roma: Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione di C., Roma: Newton Compton); Sulla storicità dell'eros: note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco); Crisi ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Scritti economici,  Lenin; C., .Roma: Editori Riuniti); Stato e rivoluzione, Lenin; introduzione di C., Roma: Newton Compton); Carte della crisi: taccuino politico-filosofico, C., Roma: Editori Riuniti, Crisi del marxismo? C., intervista di Roberto Romani.Roma: Editori Riuniti); Critica al programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al socialismo, Marx; C. .Roma: Editori Riuniti, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, In memoria del manifesto / Antonio Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma: Newton Compton Editori); Che cos'è la proprietà?: o ricerche sul principio del diritto e del governo: prima memoria, Proudhon; prefazione, cronologia, biografia Umberto Cerroni. 3. ed.Roma; Bari: Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione... di C. Roma: Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, Marx, Engels, Lenin; C., Roma: Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti giovanili / Marx; introduzione di C., Roma: Editori riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il terzo stato? Sieyes; introduzione di C.,: traduzione di Roberto Giannotti.Roma: Editori Riuniti, Strade per la liberta, Bertrand Russell; introduzione di C. traduzione di Pietro Stampa.Roma: Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma: Editori Riuniti, I giovani e il socialismo, Marx, Engels, Lenin, GRAMSCI; C., Roma: Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma; Storia del marxismo / Predrag Vranicki; introduzione di C., Roma: Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti; prefazione di C.” (Milano; Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi? Milano); “Logica e società: pensare dopo Marx” (Milano: Bompiani, La democrazia come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma: Editori Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx: antologia, con la collaborazione di Massari e Nassisi, Roma: Editori Riuniti, Scritti economici” (Roma: Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma: Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma: Editori riuniti, Politica: metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie, C., Roma: NIS); La politica post-classica: studi sulle teorie contemporanee” (Taviano: Lit. Graphosette) Urss e Cina: le riforme economiche” Centro studi paesi socialisti della Fondazione Gramsci. Milano: F. Angeli, stampa, Che cosa è il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma: Editori Riuniti, Democrazia e riforma della politica: Lo Statuto del nuovo PCI, C., Roma: Partito Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia: stato di diritto, stato sociale, stato di cultura” Roma: Ed. Riuniti, La cultura della democrazia, C., Chieti: Metis, Che cosa e il Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; C., Roma: Editori Riuniti, La rivoluzione giacobina / Robespierre; C.; traduzione di Fabrizio Fabbrini; apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone: Studio Tesi, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di Antonio Labriola; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio Labriola; introduzione di C., Roma: TEN,  Nazione/regione: i contributi regionali alla costruzione dell'identità nazionale / Battistini, C.,Prospero.Cesena: Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e cultura umanistica: seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni; A. Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma: Anpa, [Novecento: almanacco del ventesimo secolo, Cesena: Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano, C. .Roma: Newton Compton, Il pensiero politico del Novecento, C., Roma: Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma: Editori Riuniti,Regole e valori nella democrazia: Stato di diritto, Stato sociale, Stato di cultura / C. Roma: Editori Riuniti, L'identità civile degli italiani, C., .Lecce: Manni, L'ulivo al governo: come cambia l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos, stampa Politica / C. .Roma: Seam, Confronto italiano: atti degli incontri di Cetona, Bechelloni, C., Firenze: Ed. Regione Toscana, stampa (Firenze: Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile degli italiani” (Lecce: Manni, Lo Stato democratico di diritto: modernità e politica, C. Roma: Philos, stampa, Habeas mentem: Scuola e vita civile, C., Rionero in Vulture (Pz): Calice, Conoscenza e societa complessa: per una teoria generale del sensibile” (Roma: Philos, Ricordo di Marisa De Luca Cerroni / scritti di C. et al.Lecce, stampa Confronto italiano: atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze: Ed. Regione Toscana, stampa  (Centro Stampa Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico C. .Roma: Philos, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma: Meltemi, Taccuino politico-filosofico, C. Lecce: Manni, Le radici culturali dell'Europa, C.,  Lecce:Manni, Radici della civiltà europea, Lecce: Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce: Manni, Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico C., San Cesario di Lecce: Manni, L'eretico della sinistra: Bruno Rizzi elitista democratico” (Milano: F. Angeli,  Taccuino politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di C./ Perrotta; con la collaborazione di Greco” (San Cesario di Lecce: Manni, Manifesto del partito comunista, Marx,  Engels; nella traduzione di LABRIOLA; seguito da In memoria del Manifesto dei comunisti di Labriola” (Roma: Newton & Compton, Dialettica dei sentimenti: dialoghi di psicosociologia, C., , ARinaldi.San Cesario di Lecce: Manni, [Taccuino politico-filosofico, C. [San Cesario di Lecce]: Manni, Ricordi e riflessioni: un dialogo con Vagaggini, C., Montepulciano: Le Balze. Le fonti del dritto romao. r 'SeUieae il dritto ocHisiderato astrattamente abbia uoa  brigioe ed nn priocipio onìoo ed assolato, pure quando  sf attna come dritto d’un’epoca e d'un popolo, perchè dipende da tante le condizioni storiche dell'uno e dell'altra, emana per organii diversi, e prende forme  e manifestazioni varie e conformi allo spirito di esse. Per questo intimo rapporto fra la vita intima d'un popolo ed il dritto POSITIVO di esso, fra questo e gl’organi esterni onde si manifesta, i più ingegnosi ed intelligrati che si fecero a trattare del DRITTO ROMANO, crederono essenziale investigarne avanti tutto le fonti  e gl’organi, per ì quali ebbe vita e realtà. Una tale investigazione non riesce difficile quantunque volte vi  abbia unità di poteri, o sieno questi armonicamente  distinti, sicché la storia di essi succedendosi pacatamente ed uniformemente è facile intraviNlere l’origine ed il principio di ciascuna legge. Ma nella storia romana in cui la moltiplicità e la lotta dei partiti, il  tumulto, che non si scompagna da una VITA AGITATA E GUERRIERA, ed i cambiamenti rapidi e violenti, onde  si avvicenda la storia di Roma, rendono oltromodo difficilè e malagevole lo studio della genesi e el processo d’ogni fatto storico in generale e di quelli del  dritto in particolare. Per questo saggio però non vi ha  difetto di materiali né di testimonianze storiche. Quando al tumulto dell’esistenza pubblica tenne dietro il  silenzio e la quiete della vita privata, quella stessa forza che fa il sublime degl’eroi romani, e rese  invincibili le schiere dello repubblica, detta le  sentenze dei più grandi giureconsulti che ricordi la  storia. E questi non lasciano nulla a desiderare di testimonianze e prnove storiche nella ricerca delle fonti  del dritto romano. È ormai indubitato , in che A\i-   §. 0. r. l r. ì. 7. fi. dt jmt. H}ì0^V. i.) CICERONE Té.   M CAJO ferissero il JVS GENTIVM dal JVS CIVILE quale impcnrtanza ed es0i:essìone avesse il DRITTO PRETORIO  nella storia del dritto romano, quale processo tenevasi nelle  determinazioni popolari, da qual momento ha FORZA LEGISLATIVA. Ciascuno di questi fatti è si intimamente  incarnato nella storia di Roma, che ne forma im eie-,  mento, ed accenna ad uno dei periodi di essa. Non  havvi però la medesima certezza sull’importante questione dà qual tempo i senatoconsulti ebbero forza legislativa e le opinioni dei moderni sono diverse, come pure discordanti sono a tal proposito le testimonianze degl’antichi scrittori; giacché alcuni ritengono  per indubitato che i senato-consulti non hanno forza legislativa prima del tempo di TIBERIO,  abbisognandovi avanti tutto che sono confermati nei  comizii perchè valeno come altrettante leggi; mentre  altri sostengono l'opinione contraria, ed avvisano che I SENATO-CONSULTI SONO UNA FONTE DI DRITTO ANCHE AL TEMPO DELLA REPUBBLICA, giacché molto prima di Tiberio occorrono senato-consulti sulle materie di dritto privato, e particolarmente il [Sileniarmm. È necessario avanti tutto far considerazione , che in una tale questione importa moltissimo il distinguere quello  che intendesi investigare, se i Senatoconsulti cioè sie no stati semplice fonte del dritto al tempo della repubblica o abbiano avuto anche FORZA DI LEGGE. Di quanta  importanza sia una tale distinzione basta a provarlo il  diritto pretorio. A tutti è noto qual parte essenziale  questo rappresenti nella storia del dritto Romano  co-  pica y cap. 5. -^ TheopkUtis , ad U e. L />• de m^. juris Hugo , SU^ia id driUo , Bach. , Histar. jurù Dion. D'JUcamis. Polibio , lib. Vf.  p. &62. — Tacili, Ajffr^ i. 15. um primum e campo comi-  Ita ad paires tramlata sunt ». Dian. Canio, CICERONE, TOPICA, e. 5« « VI SI QVIS IVS CIVILE DICAT ID ESSE Vi  quod in kgibìés , senatuicmiultis rebtis judìcaiis , jurisperitorwn  auctoritate , ediclis magistralum eie. consistat. — Theophilus,  ad I. Pomponius^ l % § 9. de origin. jum.Oratiu$ , Ep, ì. i6.     WLIA SCOYBftTA sprima relemmU) umanitario in opposiziose dell’elemento civile romano, sia l' anellp, per il quale  il dritto romano si connette con quello dell’umanità,  di'esso in fine pone le basi del dritto posteriore Romano; e pure non ebbe per se stesso ed immediatamente FORZA DI LEGGE. Sicché quando si dimanda se i senato-consulti sono una fonte del dritto al tempo della repubblica non si può affermare il contrario. La loro ezistenza istessa e l’importanza del Senato ne fa  nuova. Ma da qual tempo ha forza legislativa? Non vi ha alcuna legge che riconosca loro un tale carattere , mentre per contrario ne’ plebisciti è detto:  ET ITA FACTVM EST, ut inter PLEBISCITA ET LEGEM species constituendi interessent, potestas autem eadem  e^/ i ; e certamente non sarebbesi mancato di affermare il medesimo dei senato-consulti, quando ciò fosse stato. Un tal cambiamento dove avvenire nei tempi posteriori alla republica, quando più difficili e rari addivennero i comizii che confermavano le determinazioni  del Senato a quia difficile PLEBS CONVENIRE coepitj POPVLVS certo multo diffìcilius in tanta turba homimm necessitas ipsa curam reipublica ad Senatum dedimit. Questa opinione è conferorota dalle seguenti parole  di GAIO   Comm. Senatusconsultum est quod Senatus jubet atque consisterit idque LEGIS VICEM obtinet quamvis  fuit quaesitum. E perchè le ultime parole “quamvis fuit quaesitum” non accennano alla lotta dei partiti ma alle diverse opinioni delle due scuole dei Sabiniani e dei Proculejani, ne segue, che anche al tempo di queste LA CONSUETUDINE per la quale IN DIFETTO DI LEGGE espressa  i senatoconsulti prendevano FORZA LEGISLATIVA, non è  ancora addivenuta un fatto certo ed indubitato. Sul/t/^ hanorarium e particolarmente l’antica questione, se Y Edictum perpetunm costituisse sotto ADRIANO un CODICE, che è coi precedenti Editti Preterii nel medesimo rapporto che le Pandette cogli scritti dei giuristi, o pure fosse un semplice lavoro privato M CkJO^ i 5   BB&wiiìb dall' Imperadore senza ehe arrestasse il movimento della legislazione Pretoria, sembra decisa a favore di quest’ultima opinione colle parole. Jus mttem edicendi habent magistratus popvM Mo^  mani '^-^ Qu(wst<^res non mittuntur: id Edicium m  pt'omnciis non proponitur. Le nostre conoscenze per contrario non si avvantaggiano in menomo modo ooUa scoverta delle Istituzioni  di Gaio sulle quistioni, che riguardano i responsi prui dentum , la distinzione del jus scriptum e non scriptum che ritenevasi communemente di origine greca senza che un tal difetto fosse un gran aniio giacché le notizie e le conoscenze che ci vennero a  tal proposito per altri scrittori, sodisfano abbastanza  ai bisogni della scienza. Umberto Cerroni. Keywords: Hegel and Roman law -- i hegeliani, categoria giuridica, Trasimacco, Kelsen, Eduardo Gaus, Hegel, sistema di diritto romano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library. Cerroni.

 

Grice e Certani: l’implicatura conversazionale del sacrificio – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew at school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice: “Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia, Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele” (Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso; cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche, e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe” (Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel suo museo Cospiano ae la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia Regnante parte III lib. II, ove parla di Questo soggetto. Oltre i sopraccennati ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec.  Marco Curzio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il dipinto attribuito al Bacchiacca, vedi Marco Curzio (dipinto). Marco Curzio è un personaggio leggendario della Roma antica, appartenente alla gens Curtia. Benjamin Haydon, Marco Curzio si getta nella voragine, National Gallery of Victoria. La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura, predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedeva.  Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell'esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura armato e a cavallo, facendo così cessare l'estendersi della voragine.  Questo autosacrificio agli dei inferi (Mani) era detto devotio.  Il luogo dove si formò la voragine rimase nella leggenda con il nome di Lacus Curtius. La leggenda è narrata da Tito Livio nei suoi Annali.  Una statua equestre della tarda latinità - in grandezza ridotta rispetto al naturale - rappresentante Marco Curzio si trova a Carrara, inserita nelle mura Albericiane in corrispondenza della Porta cittadina.  Il grande attore Antonio de Curtis, in arte Totò, sosteneva che la sua famiglia discendesse da questo personaggio leggendario. Cùrzio, Marco, su sapere.it, De Agostini. Marco Curzio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Ultima modifica 2 anni fa Gens Curtia famiglie romane che condividevano il nomen Curtius  Lacus Curtius Punto d'interesse nel Foro romano  Marco Curzio (dipinto) dipinto attribuito al Bacchiacca  Wikipedia IlGiacomo Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo Certani. Keywords: il sacrificio, Marco Curzio, devozione --  Il cavaliere penitente; ossia, la chiave del paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity, Percival, The Holy Grail, the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Certani” – The Swimming-Pool Library. Certani.

 

Grice e Ceruti: l’implicatura conversazionale di Niso -- ovvero, dell’altruismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Grice: “Ceruti is a good one – he has philosophised on solidarity – and previously on altruism – these are VERY different concepts, as he notes – but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for what I’m into! – “A Griceian at heart!” --  Grice: “Only one T!”. Tra i filosofi protagonisti dell'elaborazione del pensiero complesso, è uno dei pionieri della ricerca contemporanea inter- e trans-disciplinare sui sistemi complessi.  La sua filosofia si produce all'intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia (filosofia e storia della scienza, storia delle idee, noologia…), scienze della natura (fisica, biologia, cosmologia…), scienze dell'uomo (antropologia, sociologia, psicologia, storia…), scienze dell'organizzazione e del management. Si laurea in filosofia della scienza con Geymonat con “L'epistemologia genetica di Piaget” nella quale, attraverso l'analisi dell'epistemologia viene posto il problema del ruolo della biologia e delle scienze del vivente, nelle varie articolazioni disciplinari, come decisiva interfaccia fra le scienze fisico-chimiche e le scienze umane, in grado di favorire processi di circolazione concettuale e di traduzione reciproca fra vari e multiformi campi del sapere. Nei suoi studi ha affrontato le questioni del significato filosofico ed epistemologico delle maggiori rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività, teoria dei sistemi, biologia molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi del cambiamento stilistico e delle relazioni fra stile e contenuto nella storia delle idee, nonché dello statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi alle rivoluzioni scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto da Ginevra, presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata da Piaget, in qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro coordinato da Munari. In questo periodo approfondisce le relazioni che connettono l'opera di Piaget a vari modelli e approcci del contesto scientifico a lui contemporaneo: alla termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle ricerche sul concetto e sui processi di auto-organizzazione e autopoiesi, all'embriologia di Waddington, ai nascenti dibattiti sul significato delle ricerche della biologia molecolare. Il tema chiave di queste convergenze disciplinari è la possibile delineazione di modelli generali del cambiamento, nonché del ruolo della discontinuità in questi modelli. L'approfondimento dei singoli filoni disciplinari gli consente di interrogarsi più estensivamente sul significato profondo e complessivo dei cambiamenti paradigmatici delle scienze alla fine del ventesimo secolo: dalla convergenza di varie discipline emerge la prospettiva di una scienza nuova, caratterizzata da precise assunzioni relativamente alla natura del cambiamento, alla relazione fra soggetto e mondo, al ruolo del tempo, della storia e della narrazione negli approcci scientifici. La nozione di complessità costituisce un'utile maniera sintetica di rapportarsi con tali assunzioni. Per ricostruire queste novità del contesto scientifico, imposta un programma di ricerca attorno al tema della epistemologia della complessità, parte integrante del quale è stata a partire l'organizzazione di convegni internazionali e di seminari, e la pubblicazione del volume La sfida della complessità. Ricercatore associato presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie, Politique diretto da Morin, centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di ricerca di filosofia della scienza. In quegli anni approfondisce le problematiche dell'epistemologia genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo e la possibilità e La danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato dalle scienze evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana nel più generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche del contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge, ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche, alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva, cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali sul comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo studio dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione e della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle varie specie ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo sapiens. A partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia delle scienze biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e sulle identità nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione evolutiva di tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica costruttivistica, e convergente con i presupposti epistemologici, costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. In queste ricerche, viene affrontata anche la questione del significato della rivoluzione darwiniana nell'intera storia della tradizione scientifica occidentale. Un ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il volume Educazione e globalizzazione, che traccia un bilancio epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia, geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo della diversità culturale nella storia della specie umana e le radici profonde degli attuali processi di globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo e a Milano, dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore del Dipartimento di Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità che comprendeva la Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo.  Principali tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità; Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive; Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato, dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori.  Alle elezioni politiche italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della complessità” (Cortina, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium, Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare l'altruismo” (Laterza, Roma); “Una e molteplice: ripensare l'Europa” (Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli, Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari); “Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell'epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela, Lazlo E., Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano  Bocchi C. M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:  La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their relationship see Gordon Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp. 228-9, 235-6, and Hardie, 23-34). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics 3 227. Indeed, Servius, ad Aen. 5 334, writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. 9 176-82. Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth  For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, pp. 229. For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6:  Likewise the question that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme … figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. 761B. Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl. Smp. 178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9). Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS.  So too Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas.  But their relationship is more complex than the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe  an enemy leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin.Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric at 9.128-58 based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June at 12.808-40, where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of problematization of the two types of relationships in the cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina Roman epic!” Mauro Ceruti. Keywords: Niso ed Eurialo; ovvero, dell’altruismo, dal semplice al complesso, complesso proposizionale, discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex, solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta: il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore proprio, amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love, benevolence, organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e diverso, unico e multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cerutti: l’implicatura conversazionale del leviatano – organicismo politico – il corpo politico nella costituzione italiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti umani dovrebbe avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano alla sopravvivenza»  Insegna a Firenze. La sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la "teoria critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra l'altro proviene. Lavora sulla filosofia politica delle relazioni internazionali ed affari globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria delle sfide globali (armi nucleari e riscaldamento globale), e la questione dell'identità “politica” (non sociale o culturale) degli europei in relazione con la legittimazione dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio del quale Cerutti stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza di classe” (Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo e politica. Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento globale” (Milano, Vita e pensiero). Che cosa significa "Corpi politici"? Organismi che possono essere bersaglio di una condotta oltraggiosa ex art. 342 in ragione della funzione politica dagli stessi svolti e dal cui novero risultano esclusi il Governo, il Senato, la Camera dei Deputati e le Assemblee regionali, rispetto ai quali la tutela penale viene offerta dall'art. 290. Articoli correlati a "Corpi politici" Art., Codice Penale - Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti  Art. 342 Codice Penale - Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziarioFurio Cerutti. Keywords: il leviatano, il corpo politico, l’organismo politico, lotta di classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale, identita politica, corpi politici, I corpi politici, brunetto latini, aquino, Egidio romano, Dante Banquet, Marsiglio di Padua, Pegula. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cervi

 

Grice e Cesa

 

Grice e Cesare – Roma – filosofia antica. Gaio Giulio Cesare. Cesare had many friends who followed the philosophy of the Garden, and it is clear that he had ome leanings towards that philosophy himself. Exactly how far these went is unclear and whether he ever actually became a member of the sect is a matter of dispute.

 

Grice e Cesarini – filosofia italiana– Luigi Speranza (Genzano di Roma). Filosofo italiano. Grice: “Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also fought in the North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a philosophical story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of his ducal ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the name Sforza Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto sostenitore del nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti nel suo palazzo. Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che vennero loro restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma, reso possibile dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in veste di consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every Englishman loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the Pope!” – Grice: “Sforza Cesarini should never be confused with the philosopher Cesarini Sforza: Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher, is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father, kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism, nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cherchi – implicatura sarda – filosofia sarda – filosofia italiana – Luigi Speranza (Oschiri). Filosofo italiano. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a philosopher is from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he! Cherchi is from ‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is very fun! My favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it relates to Vinci’s ‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a Cagliari. Placido Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese, interessandosi contemporaneamente di studi e problemi etno-antropologici e storico artistici. Come autore di importanti lavori sul pensiero di Ernesto De Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda, fu un membro attivo della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla presenza all'Cagliari di maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese, come pure di loro allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo stesso Cherchi.  Morì nel  all'età di 74 anni a causa di un'emorragia cerebrale. Altre opere: “Paul Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi materici, Stef, Cagliari); “Pittura e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); C.  Martino: dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite: tre variazioni critiche su Martino, Liguori, Napoli); “Il peso dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei circoli, organizzazione non-partitica dei sardi, coautori Francesco Masala ed Eliseo Spiga, Zonza, Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera, Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe:   Giulio Angioni, Una scuola sarda di antropologia?, in  (Luciano Marrocu, Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, Roma, Donzelli,, 649-663  Addio a C., il ricordo di Angioni: "Fu ideologo del neo sardismo" Archiviato in. Notizie. tiscali  È morto Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia Fondazione sardinia.eu  Scuola antropologica di Cagliari Ernesto de Martino  Angioni, In morte di C., sito "il manifesto sardo". Carta, Che cosa è C.? Due o tre cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a C. Enrico Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di C.  La colonizzazione e la penetrazione romana nell'isola furono oltremodo intense e  furono facilitate da affinità di razza, per cui si  può dire che lo spirito latino g-iunse nell'intimo  dell'anima del popolo sardo.  Pinza, IMonuineiiti prUìiHivi della Sardegna in Monumenti Antichi, pubblicati per cura  della Reale Accademia dei Lincei. Taramelli, nel recente lavoro sulla questione nu-  ragica (Arch. Stor. Sardo), ritiene che il carattere prevalentemente guerresco  della schiatta sarda, l'accanimento delle lotte interne dapprima, poi con lo straniero invasore,  abbiano nuociuto allo sviluppo artistico, che in germe aveva la stessa disposizione che presso  altre genti del Mediterraneo. Quando le legioni romane, in seguito alle  fiere lotte sostenute contro i montanari Olaesi  o Iliesi ebbero assoluta padronanza dell'intera  isola, l'arte sarda scomparì con questa che può  definirsi l'ultima ribellione dell'antica civiltà  nuragica, e di essa non rimasero che vaghe reminiscenze presso gli artefici più umili, le quali  perdurarono attraverso il medio evo fino ai nostri  giorni.   Nel periodo glorioso dell'impero romano la  fusione fra l'elemento latino ed indigeno fu così  intima da potersi asserire che le nostre sono  manifestazioni della civiltà derivante da Roma;  le grandi opere pubbliche mostrano una regione  che assurse ad alto grado di fiorimento civile ed  economico; non v'è paese, né plaga nell'isola  che non abbiano traccia dell'opera meravigliosa  svolta dai Romani. Nelle regioni più inaccessibili,  in quella stessa Barbagia che raccolse gli ultimi  difensori della civiltà indigena, e che mostrossi. Statuetta preistorica  1 Museo di Casa;! i a  sempre indomita e ribelle  ad ogni forma di potere,  sono strade, ponti, ed altri  segni palesanti ima florida  colonizzazione romana,  tanto intensa da perdiu-are  in molte manifestazioni e  iiello stesso linguaggio ,  attraverso secoli di bar-  barie e di dominazione. Oreficeria punica nel Museo di Cagliari. gran parte Nello sfasciarsi della romana potenza lo spirito conservatore delle  genti sarde custodì gelosamente la bella tradizione latina. Mentre nel  tempo che segnò il passaggio dall'evo antico all'evo medio,  d'Italia, come scrive Solmi, soggiacque a una  lunga, trasformativa dominazione germanica, la  Sardegna fu invece fra le scarse regioni italiane  che ne restarono quasi pienamente immuni, dando  così un nuovo, singolare atteggiamento alla sua  storia, che fu lenta e spontanea elaborazione degli  elementi indigeni e latini. La furia distruggitrice della conquista vanda-  lica, assai breve e poco estesa, non lasciò traccia  alcuna d'arte e di vita e paralizzò quell'ascensione  alle più nobili conquiste, che la Sardegna avea  iniziato con la signoria di Roma. Una completa oscurità avvolge in questo fu-  nesto periodo ogni azione isolana, che non siano  le fasi di quelle guerre che dilaniarono l'isola. Tur-  bini di barbarie la dovettero ridurre in un vasto  campo funebre e quando cessarono le irruenze  degli invasori, l'opera degli architetti e degli ar-  tisti si svolse come se nel naufragio delle romanità  questi avessero perduto la memoria d'ogni bella  forma.  La conquista di Belisario ed il riordinamento  amministrativo di GIUSTINIANO, assicurando la Sardegna al dominio degli imperatori d'Oriente, consentirono lo spontaneo sviluppo degli elementi  latini.   Artehci che trassero la loro arte da Bisanzio  svolsero nell'isola quell'architettura, che derivò da  armonica fusione di forme orientali e di bellezze   classiche, sparse quest'ultime con profusione nella terra che vide erigere  l'Acropoli e scolpire la X'enere di Milo. Furono greci gli artisti che scol-  Statuetta ienicia  nel Museo di Cagliari.  fase. Arrigo Solmi, La Sardegna e gli studi storici wnW Arcìiivio Storico Sarda, Cagliari, Dessi. pirone bassorilievi, iscrizioni ed altre forme ornamentali, che recenti  indagini hanno messo in evidenza e che sistematiche ricerche renderanno  indubbiamente tanto copiose da darci modo di determinare entro limiti  detiniti l'influenza artistica che Bisanzio svolse nell'isola dandole carattere  e forme stilisticamente rilevanti.   ampacla cristiana rinv  Chic a di S. Giovanili tli Siiiis in territorio di Cabras nell'antica Tarros. L'arte romana per opera di greci artefici divenne arte bizantina, la  (jLiale rappresenta non un nuovo stile, ma ima trasformazione dello spirito  latino a contatto delle forme orientali. F.d in Ravenna, in Grado, in Sicilia,  nelle Puglie sorsero quelli edifici, rudi e disadorni all'esterno, che inter-  namente brillano di ricchi mosaici, in cui l'oro e le gemme preziose  sfaccettano in mille raggi la tenue luce diffondentesi dalle arcuate finestre. Anche nella nostra isola dovettero svolgersi queste forme architet-  toniche giacché dal primo trentennio del secolo VI e per non breve corso  di tempo la Sardegna fu una provincia dell'impero di Bisanzio.   Xè questa signoria fu solo nominale, ma tanto si compenetrò nella  vita e nelle istituzioni che l'infiuenza greca nel linguaggio, nella diplomatica, nel dritto apparisce evidente anche nel secolo XI, quando la  Sardegna erasi già sottratta di nome e di fatto al dominio degli impe-  ratori di Oriente e ne reggevano le sorti da più che un secolo i regoli o giudici nazionali. La nostra cattedrale conserva in una sua cappella una Madonna, splendente d'oro e di bellezza. Intorno ad essa fiorisce una fine e pia  leggenda, comune del resto a molti altri antichi simulacri d'Italia. Vuoisi che la vaga madonnina sia stata scolpita da S. Luca e da  Costantinopoli trasportata a cura del Cagliaritano Eusebio, vescovo di  Vercelli, alla città di Cagliari, con nave guidata da una corte di angeli  e di cherubini. Il simulacro è indubbiamente opera del XIV secolo, ma  la tenue leggenda può interpretarsi come un poetico simbolo del tra- [Stele puniclie nel Museo di Cagliari.] piantarsi dell'ellenismo nell'isola, perpetuato dal nostro popolo attraverso  gli oggetti suoi pili cari.   Ed infatti molti frammenti decorativi ed epigrafici nonché parecchi  edifici attestano dell'inlluenza dei costruttori bizantini neh' architettura  dell'alto medio evo in Sardegna. Tale è la Chiesa di S. Giovanni di Sinis, nell'agro di Cabras in  vicinanza ad Oristano e presso le rovine dell'antica e fiorente città di artp: preromanica Tarros. Le origini e le vicende di questa  chiesa ci sono ignote; si volle veder in  essa la cattedrale di Tarros cristiana, ma  ciò non è che una congettura, giacché  nessun documento veramente ineccepi-  bile ci dice quando la città venne  abbandonata e se essa perdurò fino al-  l'epoca che gli elementi costruttivi e  stilistici permettono d'assegnare all'antico tempio. L'aver i presuli d'Oristano  assunto il titolo di abate di S. Giovanni  di Sinis fa presumere che a questa  chiesa originariamente fosse annesso  un monastero. Essa presentemente è a tre navate  Testa di irrito rin\enuta in Cagliari Punica. coperta da volta a botte e comunicante per mezzo di arcate poggianti  su massicci pilastri. Anche i due muri  |jerimetrali e laterali hanno la struttura a pilastri ed archi, chiusi questi  ultimi posteriormente. Il prospetto, sormontato da im  frontone che segue l'andamento della  volta a botte, non ha ornamentazione  alcuna e la porta che in esso è aperta  è rettangolare, semplicemente con-  tornata da una fascia di marmo. La navata centrale è terminata  da un'abside circolare e sopra le ul- JNIaschera rinvenuta in Tarros Punica. D. SCANO — storia dell' Ai le in Sardegna. time quattro pilastrate si svolge il tamburo, sostenente la piccola volta  a bacino, costituente la cupola.   La forma di questa chiesa è basilicale e non differenzia da quelle  di tante altre chiese medioevali sarde, del XI o XII secolo, se non  che alcune forme costruttive come la cupola e la volta a botte inducono a ritenere che originariamente dovea avere tutt' altra struttura.   Mancando ogni qualsiasi elemento decorativo, giacché la chiesa ha  le pareti nude senza frammenti di pittura, di scultura o di semplice ornamentazione, che di solito guidano lo  studioso nei riscontri stilistici, pro-  cedetti per identificare le forme  primitive ad un esame tecnico delle  parti architettoniche. I risultati confermarono la  prima impressione, giacché potei ri-  scontrare: La volta che copre la  navata centrale è relativamente moderna;   I muri della navata cen-  trale e delle navatelle furono eretti  posteriormente al nucleo centrale,  su cui poggia il cupolino. Della struttura originaria  della Chiesa non resta che detto  nucleo centrale e le braccia trasversali.   Ridotte in tal modo le parti  originarie ed eliminate le aggiunte posteriori è facile completare l'iconografia primitiva, partita in quattro braccia a modo di croce, che s'in-  tersecano secondo quattro piloni sostenenti il tamburo su cui poggia  la cupola per mezzo di quattro pennacchi. Di più i piloni hanno gli  angoli rientranti in modo da permettere il collocamento in dette pilastrate  di quattro colonne, che ora più non esistono. Questa particolarità co-  struttiva è degna di nota, giacche la ritroveremo in altra chiesa, colla  quale S. Giovanni di Sinis presenta molte affinità.   Nei muri terminali delle braccia trasversali della croce sono aperte  i nnvc-mita 111 Cai^l  influenza greca).  iri l'ui due finestre bifore, in cui la colonnina è sostituita da un semplice pila-  strino in pietra da taglio senza capitello e senza base. Abbiamo la forma  iniziale di quelle bifore, che posteriormente vennero rese più eleganti e più svelte dalle colonnine col pulvino, permettente agli archi un'imposta  corrispondente allo spessore della muraglia. Questa forma arcaica con-  ferma l'origine preromanica di S. Giovanni di Sinis. Alle forme costruttive  di questa chiesa dovettero  infiuire le catacombe di  S. Salvatore, le quali ne  distano circa quattro chilo-  metri. Queste catacombe  poste presso ad alcune rovine romane, malgrado non  siano state ancora ne stu-  diate, né menzionate, sono  interessantissime e costitui-  scono il più pregevole ed  interessante monumento  isolano dei primi tempi del  cristianesimo. La chiesetta soprasuolo è relativamente moderna e non presenta niente  d' interessante . Ai sotter-  ranei s'accede mediante  una gradinata svolgentesi  in uno stretto passaggio  coperto da un voltino a   botte. In quell'andito sono aperte due porte, una di fronte all'altra, per le  quali si perviene a due camere rettangolari di m. 4,30 X 3,26 ciascuna,  coperte ancor esse con volte a botte. Lo stretto passaggio fa capo ad un  vano circolare, coperto da volta a bacino ed illuminato dall'alto, che  costituisce il nucleo centrale delle catacombe, comunicando esso con altre  due camere laterali terminate da absidi e con altra circolare, che è l'ultima [Busto di  a rinveiiutu in Tarros Punica  influenza jj;reca). dell'edificio sotterraneo. Si ha una disposizione planimetrica, che ricorda  i più antichi edifici cristiani: la struttura è prettamente romana con mu-  ratura di laterizi opportunamente collegata con altra di pietrame informe.  Ceramica punica nel Museo di Caigliari.   Le pareti delle diverse camere sono intonacate a stucco lucido, const'ivante tutt'ora traccia di antiche pitture. Più che pitture sono schi/zi, Sarcofago romano nel Museo di Cagliari.figure eseguite a caso, alcune abilmente, altre con tecnica ed arte infan-  tili. In ima parete di una camera absidale sono traccie di un gruppo  interessantissimo rappresentante una lotta fra un leone ed un uomo dalle  forme erculee. Nelle altre i)areti e; nell'abside della stessa camera sono schizzate alcune nax'i, due leoni, un Eros e diverse figure di donne delineate con maestria dal tipo classicamente pagano. Esse vennero eseguite  al di là di (iualun<[ue preoccu[)azione mistica e sono di gentile arte, piene  di grazia voluttuosa e di vita. L'na di esse dalle linee formose, che rievoca  la Venus (ìcnitri.w solleva con ima mano i veli che le coprono i turgidi  seni e le belle forme. l'"ra ([uesti schizzi e queste figure di donne ricorre sjx'sso il mouogramiua RI e sono intercalate frasi scritte in greco  corsivo, la di cui esatta interpretazione potrà portare non lieve luce sulle  origini di (|ueste forme pittoriche. Non un simbolo cristiano, non il  monogramma di Cristo che attestino la fede di chi rese nelle pareti, con [Sarcofajj:o romano nel Museo di Ca.sjliari. decise linee, figure voluttuose di belle donne. D'altra parte l'iconografia  dei sotterranei segue la disposizione delle prime chiesette cristiane specialmente nelle forme absidali delle due cappelle laterali e della camera termi-  nale. E vero che nelle costruzioni cimiteriali più antiche le tetre muraglie  coprivansi di scene tratte dalla vita reale e molto spesso dalla mitologia  pagana tanto che nelle catacombe di Pri.scilla e di Domitilla, nelle quali  meglio che altrove si possono studiare le origini della pittura primitiva  cristiana, cjuesta è stranamente impregnata di paganesimo; ma se la tradizione è pagana, nell'antica forma l'arte si penetra di spirito cristiano.  Qui no, forma e spirito sono schiettamente inspirate al paganesimo più  libero e più licenzioso.  Statua di Bacco rinvenuta In Cagliari. Queste contradizioni non permettono ora di poter dare un sicuro  o^iudizio su questo interessantissimo monumento: forse l'ipotesi che più  concilia ((ueste forme cozzanti tra loro è quella dell'orij^i'ine pagana dei  sotterranei, costrutti ed usati come carceri e poscia serviti come rifugio  nei primi tempi del cristianesimo. Con ciò si spiegherebbero la disposi-  zione a celle, poste sotto il livello del suolo e gli schizzi delineati da  (jualche artista, che nel tedio della prigionia volle rievocare senza una  direttiva pittorica immagini impure e dar forma d'arte a sogni libertini.   Oualun([ue sia l'origine di queste, che vengono chiamate catacombe. è certo che esse furono nei primi secoli, forse nel IV^ secolo, adibite al culto cristiano. Non ritengo la costruzione cimiteriale, mancando qualsiasi indizio  di loculo o di pittura funeraria. Nel nucleo centrale è un pozzo, poco profondo, in cui è perenne  una fresca lama d'acqua. Questo può spiegare la destinazione che dai  primi cristiani venne data a questi sotterranei, qualunque sia la loro  origine. A mio parere essi dovettero servire di battistero in tempi di per-  secuzione. Infatti non è spiegabile con l'ordinario uso degli edifici di  culto la presenza del pozzo nella parte centrale della chiesa sotterranea.  Inoltre la poca profondità del fondo, la presenza ininterrotta di una  fresca lama d'acqua e le traccie di alcuni fori, per cui mediante tavole  potevano i convertiti scender s^nù nell'acqua, rendono attendibile questa destinazione, la quale ha molti riscontri e molte analogie colle prime  forme battisteriali.   Ai primi tempi del cristianesimo non aveasi altri battisteri che le  rive dei fiumi e le fontane. Ancor oggi nella prigione Mamertina a Roma ARTE PREROMANICA  esiste il [)ozzo miracoloso, in cui, secondo un'antica tradizione, S. Pietro  e S. I^iolo battezzarono i loro (guardiani. In alcuni battisteri ])riniiti\'i  rac(iua era fornita da pozzi come nelle catacomlje di S. balena o da sorbenti naturali come in ([uelle di Priscilla e di Callista. I*\i solo colla cessa/ione delle persecuzioni al tempo di COSTANTINO che si commcia a costrurre battisteri snò dio, editici s[)eciali, che non  differivano dalle chiese propriamente dette se non per la loro destinazione.   La cripta di S. .Sahatore forse in oriu-ine ebbe altra inxocazione,  oiacchè era fre([uente dedicare i battisteri al precursore di Cristo. Ad  Avanzi di \ille romane in Cagliari.   ot^ni modo ciò che non |)U() essere messo in dul)bio si è che i sotter-  ranei di S. Salvatore, per le forme costruttive, i)er le pitture e per le  iscrizioni costituiscono un monumento d'arte cristiana di rrancle interesse  e merita uno studio ampio e speciale più di (pianto io abbia fatto in questi  cenni brevi e riassuntivi.  L'oratorio di S. Giovanni d'Assemini fu ancor esso elevato con   forme costruttive bizantine, come può desumersi da un'attenta disamina.   La più antica memoria riflettente questa chiesetta si conserva in un diploma dell'archivio Capitolare della Chiesa di S. Lorenzo di Genova,  con cui Trogotorio di Gunale, giudice di Cagliari, e suo figlio Costan-  tino concedono nel 1108 alla Cattedrale di Genova la Chiesa di S. Gio-  vanni e rinnovano la promessa annua di una libra d'oro: Ego Indice  Trogotori de Giinali cinti, filio meo doninu Costantini fazo dista carta  prò S. Ioaiinc de Arseiuin, qui dabo ad sancto Lanreìizio de lamia prò   Deus et prò anima mca ecc. ecc. La facciata non ha niente di notevole ed è posteriore alla fonda-  zione della Chiesa. Nell'interno due navate larghe m. 2,00 disimpegnano Idinha di Atilia Pnmptilla in Cagliari. per mezzo d'arcate quattro cappelle. All'incrocio delle due strette navate  formanti una croce greca a braccia eguali s'imposta sopra un tamburo  a sezione quadrata una piccola volta a bacino. Anche in questa chiesa dobbiamo distinguere il nucleo originario  dalle posteriori costruzioni; queste sono costituite dalle quattro cappelle,  che, coperte da un rozzo tetto a vista, sono appiccicature evidenti e per  la diversa struttura muraria e per non essere collegate organicamente ai  muri antichi. ToLA, Cod. Dipi.]  Eliminando queste aggiunte risultano in modestissime proporzioni le  stesse forme bizantine della chiesa di S. Giovanni di Sinis e di S. Sa-  turnino in Cagliari. Nell'altare è murata un'iscrizione in caratteri greci, che porta imo  sprazzo di luce sulla chiesetta. E contornata da una doppia fascia di  perline in rilievo, che attesta come facesse parte di qualche monumento,  probabilmente sepolcrale, dedicato alle persone in essa ricordate. Trascrivo l'interpretazione fattane dal Prof. Taramelli:  Anlìteatro romano in Ca.uliari.   O Signore, abbi pietà del tuo servo Torcotorio, arconte di Sardegna  e della serva Gè ti '.''Lo Spano ed il Martini ritennero — erroneamente come vedremo  in appresso — trattarsi del Torcotorio, che governò il giudicato di Ca-  gliari dal 1108 al II 29 e che donò la chiesa di S. Giovanni d'Assemini  al Duomo di Genova. A pochi metri dell'oratorio di S. Giovanni sorge la Chiesa Parroc-  chiale di S. Pietro, che contiene fra le sue mura alcuni frammenti deco-  rativi bizantini e sulla soglia ha incisa la seguente inscrizione in carat- [Taramelli, Iscrizioni Bizantine della Chiesa di S. Giovanni e della Chiesa Par-  rocchiale d' Assemini in Notizie degli Scavi, fase. 3. teri greci, la quale ricorda probabilmente  l'erezione e la dedicazione di detta chiesa,  che è ancora oggi sotto l'invocazione di  S. Pietro:  In nome del Padre, del figlio e dello  Spirito Santo, io Nispella Ochote (co-  strusse il tempio) in onore dei Santi corifei  gli apostoli Pietro e Paolo e S. Giovanni  Battista e della l^ergine martire Barbara,  affinchè per le loro preghiere dia a me il  Signore la, liberazione dei peccati.   Anche quest' iscrizione venne dallo  Spano attribuita al Torcotorio del XI se- [Erma bacchica di fronte.   In un mio studio sulla chiesa di  S. Saturnino di Cagliari '* trattando ac-  cidentalmente di queste epigrafi, le ri-  tenni anteriori al mille. Infatti le lettere,  elegantemente incise, ed i pochi motivi  ornamentali sono sufficienti a determinare  forme stilistiche molto più antiche delle  romaniche del mille e dei secoli susse-  guenti. Inoltre la carica di protospathariìis, che si riscontra in un'altra iscrizione  coeva di Villasor, indica ancora una sog-  gezione alla corte di Bisanzio non concepibile nel Torcotorio della seconda metà  del XI secolo, che nei suoi atti ed in  ispecial modo nella donazione fatta ai  Testa di Sileno.(i| 1). SCANO, Im Cliicsa di S. Satuvìiiuo in Ihillrltiìio /ìiò/ioorajìco Sardo, \-o\. Ili, Cagliari, Unione Sarda. monaci di Monte Cassino esercita la sua podestà come CJiudice e Re  libero da ogni ingerenza anche nominale dell'impero. Un'altra consi-  derazione distrugge l'attribuzione dello Spano e cioè il Torcotorio men-  zionato nell'iscrizione d'Assemini avea per moglie Nispella, mentre quello  del mille avea per consorte Vera, la pia donna, che indusse prima il  marito e poscia il figlio suo Costantino a larghe e ricche concessioni  verso gli ordini monastici ed in isj)ecial modo verso i monaci di S. Vit-  tore di Marsiglia: Eoo iìidigi Trocodori de Ugnnali C(im imiliei'i mia  Doìnia \ 'era et cnui filin uieiL  noìiìiii Costaiitìjm '.Queste conclusioni vennero  confermate di recente dagli studi  dei Professori Solmi e Tarameli i,  che pervennero a risultati interessantissimi per la storia medioevale  della Sardegna.   Negli scavi eseguiti venti anni  or sono dal Vivanet presso l'antica  chiesa di S. Nicolò di Donori  insieme ad interessanti resti di materiale epigrafico d'età romana,  vennero fuori frammenti decorativi  ed iscrizioni greche, che furono  oggetto di un recente ed interessante studio del Taramelli, che at-  tribuì queste ultime ad iscrizioni  funerarie assai eleganti, di persone  elevate, probabilmente del IX o  X secolo. In una casa privata di Mara sono due bassorilievi marmorei, recanti  croci greche incluse in cerchi, di fattura l)izantina, e nel fianco della  chiesa parrocchiale è murata una piccola scultura marmorea molto corrosa, rappresentante una figura d'uomo vestite; di lunga tunica manicata,  figura che per quanto rovinata accenna ad epoche ed a forme bizantine.   Le iscrizioni della distrutta Chiesa di S. Sofia fra Decimoputzu e [Erma di Bacco \i.sta di fianco. [ToLA, Cud. Dipi. Sardo. Villasor presentano grande analogia coi frammenti di S. Giovanni di  Assemini e per la forma delle lettere e per la decorazione a perline.   Faccio mie senz'altro le considerazioni esposte dal Taramelli nello  studio sovradetto: « Due delle iscrizioni sono sopra una coppia di mensole  « decorate da un ramoscello di fiori a voluta, alla loro estremità; l'altra  « più lunga è incisa sopra due robusti listelli di marmo, decorati da una  « doppia fascia di perline e nodetti, i quali come quello della iscrizione di S. Giovanni d'Assemini potevano far parte o della decorazione della porta o di un ambone  o d'altro monumento eretto in quella chiesa  « dalle persone ricordate  « dall'iscrizione e per il  « motivo decorativo come per lo stile ricordano il fregio dell'am-  « bone del Duomo di Torcello, riferito al secolo X circa, alla quale età può convenire la  '< grafia dell'epigrafe, elegante ma alquanto incerta. Trascrivo, tradotte,  queste iscrizioni:   O Signore, abbi pietà  dei servi di Dio, Torco-  torio, reale protospatario, e di Satusio, uobilissi)}ii arconti nostri, così sia.  Ricordati anche o Signore del tuo servo Ozzoccorre.   Signore abbi pietà del tico servo Unnspete e della consorte di Ini Soreca.  È d'aggiungersi infine a questo bel nucleo di documenti epigrafici  e decorativi di carattere bizantino la seguente iscrizione, conservantesi  nell'altare della chiesa parrocchiale di S. Antioco: O Signore abbi pietà  del tuo servo Torcotorio, protospatario e di Salusio arconte e della moglie [Ni spella. Sarcufago romano nel Museo di Cajj;liari. [Taramelli, Iscrizioni Bizantine ecc. ecc. In una parete esterna della chiesa è murato un bassorilievo, che  reca una porzione di figura umana, vista di fronte, con lunsj^a tunica a  maniche, con colletto ornato e con larga fascia al petto (i). Da (|uest() non indifferente materiale epigrafico rinvenuto in una  ristretta porzione dell'isola il Prof. Solmi pervenne col suo fine discerni-  mento di storico e di critico a  congetture, che sono sprazzi di  luce nel buio che avvolge l'ori-  gine dei giudicati '^l,   Fiondandosi nell'avvicenda-  mento del nome di Torcotorio  a quello di Salusio. il Solmi  distingue il nome personale del  giudice dal lìome pubblico o di  governo. Mentre ([uesto è sempre identico, Torcotorio o Sa-  lusio, invece, il nome personale,  che talora si identifica col nome  di governo, può essere qualche  volta da cjuesto essenzialmente  diverso.   E questo avvicendamento  dei due nomi , (qualunque sia  quello privato che abbia il giudice, permette insieme al contenuto delle iscrizioni bizantine  d'integrare la serie dei giudici,  iniziandola col Torcotorio, im-  periale protospatario e arconte di Sardegna, ricordato nell'iscrizione di  S. Giovanni d'Assemini. A questi, che ebbe per moglie Geti e che regnò  probabilmente intorno alla metà del X secolo succedette il figlio Salusio,  già aggregato, come risulta dalle iscrizioni di S. Sofia al trono del padre, ed  [Testa di Bacco. |i) A. Taramelli, Iscrizioni nizantìne ecc. ecc.Solmi, Le carte volgari dell' Arcliivio Arcivescovile di Canliari, I-'irenze, Tip. Ga  lileiana, pag. 69. erede poi dei suoi titoli e del suo potere. Sulla fine del X secolo e nei  primi decenni del seguente governò il giudicato di Cagliari il Torcotorio  della lapide di S. Antioco, marito a Sinispella e contemporaneo di  S. Giorgio di Snelli, Con Mariano Salusio, menzionato in una carta   greca di S. Vittore di Marsiglia, s'inizia  la serie dei giudici precedentemente ac-  certati dagli storici sardi. Questi risultati confermano il lento  ed amichevole distacco dalla Sardegna  dalla dominazione di Oriente.   L'ultimo ricordo di un'effettiva dipendenza da Bisanzio appartiene all'anno  687 e mostra l'esarca residente in Ceuta,  ancora a capo di un « Africauìis excr-  citìts » e di im exercitiis de Sardinia,  costituito come corpo distinto entro l'esarcato africano. Caduta Cartagine e Ceuta, scrive Solmi, agli ultimi del VII secolo e   mancati così gli ultimi centri dell'antico esarcato d'Africa, l'impero Greco  « lasciò in pieno abbandono anche l'isola, che n'era parte, separata ormai  « da un ampio mare, che divenne il  « campo pericoloso delle imprese saracene; ne più la flotta greca varcò oltre  « le coste della Sicilia, dove si accentrò  « l'estrema punta occidentale del dominio bizantino. Il duca di Cagliari  « restò a capo deWe.rerciins Sardiniae  « sotto la signoria nominale dell'impero  f. greco; si vestì forse dei pomposi titoli  « delle alte magistrature bizantine, ma in realtà divenuta la soggezione vuota apparenza, resa ereditaria la carica, ogni rapporto coll'impero  « bizantino venne ad essere illanguidito e sui primi anni del secolo VIII la Sardegna sembra restare esclusa dall'organizzazione tematica Orien-  « tale e interamente libera da o^ni dominazione di Bisanzio ». Madonna detta di  nel Duomo di C;  Onesto per i ris^r.ardi storici; dal punto di vista dell'arte i numerosi  tVainnieiui l)i/antini. ai ([uali fino ad ora non si dette importanza alcuna,  le Chiese di S. Ciio\anni di Sinis, di S. Giovanni d'Assemini. di S. Sofia Chiesa di S. Ciiovaimi di Sinis (tìanci)!.   di \'iilas()r, di S. Stefano di Maracala^-onis, di S. Antioco di Sulcis, di  S. Saturnino di Cagliari, sfui^i^ite alle indai:rini de-^ii studiosi, attestano un Chiesa di S. (Giovanni di Sinis i abside).   periodo architettonico bizantino, che <^ià si presenta intenso e che lo sarà  ma}j^_t(iormente, quando con indai^ini sistematiche si procederà allo studio  di tante strutture ora nascoste sotto gl'intonaci e gli stucchi seicentisti I Altri franinienti bizantini rinvenni nel paramento della chiesa inedioevale di .S. Gemi-  nano in Saniassi. D. ScANo — storia dell'Arte in Sardegna.  Né poteva esser altrimenti e le conclusioni storiche che traggonsi  dalle iscrizioni bizantine e le congetture che su di esse e su altre prove  poterono formarsi, rendono attendibile quest'influsso e questo fiorimento  d'arte bizantina nell'isola, che non poteva sottrarsi alle manifestazioni di  vita dell'impero che la congiungeva al mondo latino.   Queste forme greche perdurarono anche (juando venne a mancare  la effettiva, se non nominale, dipendenza agli imperatori d'Oriente.   Discendenti dagli arconti o patrizi della corte di Bisanzio, i giudici  conservarono negli atti ufficiali colle cariche bizantine le forme diploma-  tiche e la lingua greca; e come queste forme si mantennero fino al XI  secolo, così anche gli allievi ed i discendenti degli artefici greci conservarono le norme costruttive bizantine, fino a quando si dischiuse per la  Sardegna una nuova fase col rinnovamento, che prorompe nel XI secolo  al contatto delle fresche energie delle civiltà di Pisa e di Genova. Placido Cherchi. Keywords: implicature sarda, filosofia sarda, etnos, etnicicita italiana, sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerchi” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Cheremone: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofio italiano.  Cheremone di Alessandria. Cheremone di Alessandria è un filosofo Italiano. Cheremone, figlio di Leonida, e sovrintendente della porzione della biblioteca di Alessandria che si trova nel Serapeo e, in quanto custode e commentatore dei libri sacri, appartene ai più alti ranghi del sacerdozio. E convocato a Roma, con Alessandro di Aegae, per diventare tutore di Nerone.  Può essere identificato con il Cheremone che accompagna Elio Gallo, prefetto d'Egitto, in un viaggio nell'entroterra. E autore di una Storia dell'Egitto, di opere sulle comete, sull'astrologia egizia e sui geroglifici, oltre ad un trattato grammaticale. Tuttavia, di queste opere, non restano che frammenti. Notevoli, dall'opera sui geroglifici, 14 frammenti, riportati soprattutto da Porfirio, che se ne serve ampiamente nel De abstinentia e nella sua Lettera ad Anebo.  Cheremone descrive la religione come una mera ALLEGORIA del culto della natura. In tale direzione, il suo principale obbiettivo e quello di descrivere i segreti simbolici e religiosi. Si veda la lettera dell'imperatore Claudio, in Corpus Papyrorum Iudaicarum, ICambridge, Suda, s.v. "Alessandro Egeo". ^ Strabone, XVII, 806C. ^ Flavio Giuseppe, Contro Apione, Tradotti e commentati in I. Ramelli, Allegoristi dell'età classica. Opere e frammenti, Milano, Bompiani, Horst, Chaeremon, Egyptian Priest and Stoic Philosopher. The fragments collected and translated, Leiden, Brill, Ramelli, Giulio Lucchetta, Allegoria. L'età classica, Milano, Vita e Pensiero, Ramelli, Allegoristi dell'età classica. Opere e frammenti, Milano, Bompiani, Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Cheremone, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, V · D · M Grammatici greci antichi Portale Antico Egitto   Portale Biografie   Portale Ellenismo Categorie: Filosofi egiz iStorici iFilosofi Storici Capo-bibliotecari della biblioteca di Alessandria Grammatici egiziani Grammatici greci antichiStoici. Ceremone.

 

Grice e Chiappelli: l’implicatura conversazionale dell’academici – Cicerone e il segno di Marte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “One of my most recent reflections is on the distinction and striking parallelisms I draw between the Athenian dialectic – best represented in Raffaello’s “La scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but represented in those reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or better, my Saturday mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us with a most brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting – Strawson tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the rest of the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo Francesco C., zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli, dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze: Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le Monnier); “Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul cristianesimo antico, Firenze: succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina, Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, Ancona, Puccini). Dizionario biografico degli italiani. Crusca. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il "De inventione" Il De inventione di Cicerone con­densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si è sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in un mo­do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv.). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans). Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv.). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv.). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv.), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione.  Le Partitiones oratoriae sono un'opera di Cicerone nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al De Inventione. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio  -- signum erodibile indicBtLm comparabile. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or.). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  CICERONE Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gl’argomenti intrin­seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­sa congetturale. Infatti, la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia e le notae propriae rerum. Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or.), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or.). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion semeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­gnis). Ci sono, poi, i vestigia facti, dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or.). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi", caratte­ristica condivisa anche dai signa del De inventione, in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­nificio (Rhet. adHer.). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con le “notae propriae rerum” o con il “verisimile” (Crapis). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmoria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoria, dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae. Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (sensu percipi potest) es .sangue - uccisione· es.: adolescenza­ inclinazione alla libidine coniecturs  verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stessso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:  RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div.); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.). Cicero composed this treatise immediately after that on the Nature of  the Gods; the two subjects being indeed very closely connected. In the first book all kinds of divination are represented as maintained by his brother Quintus, on the principles of the Porch. It is an old opinion, derived as far back asfrom the heroic times, and confirmed by the unanimous agreement of the rather superstitious Roman people, and indeed of other nations, too, that  there is a species of divination in existence among men, which the Greeks call “xarrt/c^,”  that is to say, a presentiment, and foreknowledge  of future events. A truly splendid and serviceable gift, if it only exists in reality; and one by which our mortal nature makes its nearest  approach to the power of the gods. Therefore, as we have done many other  things better than the Greeks, so, most especially have we excelled them in giving a name to this most admirable  endowment, since our nation derives the name which it gives to it, “divination,” from  the gods  (“divis”),  while the Greeks derive the  title  which  they  give  it,  namely,  “juavn/cr/,”  from  madness  (juai'ia).  For  that  is  Plato's  interpretatin  of  the  word.  Now,  as  far  as  I  know,  there  is  no  nation  whatever,  how  ever  polished  and  learned,  or  however  barbarous  and  un  civilized,  which  does  not  believe  it  possible  that  future  events  may  be  indicated,  and  understood,  and  predicted  by  certain  persons.   In  the  first  place  the  Assyrians,  that  I  may  trace  back  the  authority  for  this  belief  to  the  most  remote  ages  and  countries,  as  a  natural  consequence  of  the  champaign  country  in  which  they  lived,  and  of  the  vast  extent  of  their  territories,  which  led  them  to  observe  the  heavens  which  lay  open  to  their  view  in  every  direction,  began  to  take  notice  also  of  the  paths  and  motions  of  the  stars;  and  having  taken  these  observations  for  some  time,  they  handed  down  to  their  posterity  informa  tion  as  to  what  was  indicated  by  their  various  positions  and    revolutions.  And  among  the  Assyrians,  the  Chaldaeans,  a  tribe  who  had  this  name  not  from  any  art  which  they  professe,  but  from  the  district  which  they  inhabited,  by  a  very  long  course  of  observation  of  the  stars  are  considered  to  have  established  a  complete  science,  so  that  it  became  possible  to  predict  what  would  happen  to  each  individual,  and  with  what  destiny  each  separate  person  was  born.  The  Egyptians  also  are  believed tohave  acquired  the  knowledge  of  the  same  art  by  a  continued  practice  of  it  extending  through  countless  ages.  But  the  nature  of  the  Cilicians  and  Pisidians,  and  the  Pamphylians,  who  border  on  them,  nations  which  we  ourselves  have  had  under  our  government,1  think  that  future  events  are  pointed  out  by  the  flight  and  voices  of  birds  as  the  surest  of  all  indications.  And  when  was  there  ever  an  instance  of  Greece  sending  any  colony  into  yEolia,  Ionia,  Asia,  Sicily  or  Italy,  without  consulting  the  Pythian  or  Dodonrean  oracle,  or  that  of  Jupiter  Hammon?  or  when  did  that  nation  ever  undertake  a  war  without  first  asking  counsel  of  the  Gods  1 Nor  is  there  only  one  kind  of  divination  celebrated  both  in  public  and  private.  For,  (to  say  nothing  of  the  practice  of  other  nations.)  how  many  different  kinds  have  been  adopted  by  our  own  people.  In  the  first  place,  the  founder  of  this  city,  Romulus,  is  said  not  only  to  have  founded  the  city  in  obedience  to  the  auspices; but also to have been himself an augur of the highest reputation. After him the other kings also had recourse to soothsayers;  and  after  the  kings  were  driven  out,  no  public  business  was  ever  transacted,  either  at  home  or  in  war,  without  reference  to  the  auspices.  And  as  there  appeared  to  be  great  power  and  usefulness  in  the  system  of  the  soothsayers  (haruspices),2  in  reference  to  the  people's  succeeding  in  their  objects,  and  consulting  the  Gods,  and  arriving  at  an  understanding  of  the  meaning  of  prodigies  and  averting  evil  omens,  they  introduced  the  whole  of  their  science from Etruria, to prevent the appearance [Cicero had  been  proconsul  of  Cilicia,  and  had  gained  a  very  high  reputation by the integrity  andenergy which he displayed  in  that  government.  Aruspex  is  derived  from  the  Greek  word  Ifptiv,  and  specio,  to  behold,  because  the  Aruspex  prophesied  from  the  omens  which  he  drew  from  an  inspection  of  the  entrails  of the victims. Augur, from avis, and garrio, to chatter;  because  the  omens  were  drawn  from  the  noise  made  by  the  birds  in  their  flight  of  allowing  any  kind  of  divination  to  be  neglected.  And  as  men's  minds  were  often  seen  to be  excited  in  two  manners,  without  any  rules  of  reason  or  science,  by  their  own  mere  uncontrolled  and  free  motion,  being  sometimes  under  the  influence  of  frenzy,  and  at  others under that  of  dreams,  our  ancestors,  thinking  that  the  divination which  proceeded  from  frenzy  was  contained  chiefly  in  verses  of  the  Sibyl,  ordained  that  there  should  be  ten  citizens  chosen  as  interpreters of these compositions.  And  in  the  same  spirit  they  have  also,  at  times,  thought  the  frantic  predictions  of  conjurors  and prophets worth, attending to; as they did in the Octavianl  war  in  the  case  of  Cornelius  Culleolus.  Nor  indeed  have  men  of  the  greatest  wisdom  thought  it  beneath  them  to  attend  to  the  warnings  of  important  dreams,  if  at  any  time  any  such  appeared  to  have  reference  to  the  interests  of  the  republic.  Moreover,  even  in  our  own  time,  Lucius  Junius,  who  was  consul,  as  colleague  of  Publius  Rutilius,  was  ordered  by  a  vote  of  the  senate  to  erect  a  temple  to  Juno  Sospita,  in  compliance  with  a  dream  seen  by  Csecilia,  the  daughter  of  Balearicus.2   III.  And,  as  I  apprehend,  our  ancestors  were  induced  to  establish  this  custom  more  because  they  had  been  warned,  by  the  events  which  they  saw,  to  do  so,  than  from  any  previous  conclusion  of  reason.  But  some  exquisite  arguments  of  philo  sophers  have  been  collected  to  prove  why  divination  may  well  be  a  true  science.  Now  of  these  philosophers,  to  go  back  to  the  most  ancient  ones,  Xenophanes  the  Colophonian  appears  to  have  been  the  only  one  who  admitted  the  existence  of  Gods,  and  yet  utterly  denied  the  efficacy  of  divination.  But  every  other  philosopher  except  Epicurus,  who  talks  so  childishly  about  the  nature  of  the  Gods,  has  sanctioned  a  belief  in  divination;  though  they  have  not  all  spoken  in  the  same  manner.  For,  though  Socrates,  and  all  his  followers,  and  Zeno,  and  all  those  of  his  school,  adhered  to  the  opinion  of  the  ancient  philosophers,  and  the  Old  Academy  and  the   1  This  was  the  civil  war  in  the  consulship  of  Cinna  and  Octavius, which  ended  in  Octavius  being  put  to  death  by  the  orders  of  Cinna  and  Mariu?.   2  This  was  Quintus  Caecilius  Metellua  (the  eldest  son  of  Metellus  Macedonians),  who  was  consul with  T.  Quinctius  Flamininus:  in  which  consulship  he  cleared  the  Balearic  Isles  of  pirates,  and  founded  several  cities  in  the  islands.    Peripatetics  agreed  with  them;  and  though  Pythagoras,  who  lived  some  time  before  these  men;  had  added  a  great  weight  of  authority  to  this  belief — and  indeed  he  himself  wished  to  acquire  the  skill  of  an  augur, — and  though  that  most  im  portant  authority,  Democritus,  had  in  very  many  passages  of  his  writings  sanctioned  a  belief  in  the  foreknowledge  of  future  events;  yet  Dicsearchus  the  Peripatetic,  on  the  other  hand,  denied  all  other  kinds  of  divination,  and  left  none  except  those  which  proceed  from  frenzy  or  from  dreams.  And  my  own  friend  Cratippus,  whom  I  consider  equal  to  the  most  ancient  among  the  Peripatetics,  confined  his  belief  to  the  same  matters,  and  denied  the  correctness  of  any  other  kind  of  divination.   But  as  the  Stoics  defended  nearly  every  kind,  because  Zeno  in  his  Commentaries  had  scattered  some  seeds  of  such  a  belief,  and  Cleanthes  had  amplified  and  extended  his  predecessor's  observations;  Chrysippus  succeeded  them,  a  man  of  the  most  acute  and  vivid  genius;  who  discussed  the  whole  belief  in,  and  question  about  divination  in  two  books  on  that  subject,  and  a  third  on  oracles,  and  a  fourth  on  dreams.  And  he  was  followed  by  Diogenes  the  Babylonian,  a  pupil  of  his  OATH,  who  published  one  treatise  on  the  same  subject;  by  Antipater,  who  wrote  two  books,  and  our  friend  Posidonius,  who  wrote  five.  But  Pantetius,  the  tutor  of  Posidonius  and  pupil  of  Antipater,  has  degenerated  in  some  degree  from  the  Stoics,  or  at  least  from  the  most  eminent  men  of  that  school;  and  yet  he  did  not  dare  absolutelyto  deny  that  there  was  a  power  of  divina  tion,  but  said  that  he  had  doubts  on  the  subject.  Now  if  he,  aStoic,  was  allowed  to  express  a  doubt  on  a  matter  very  much  against  the  inclination  of  the  rest  of  that  school,  shall  we  not  obtain  leave  from  the  Stoics  to  behave  in  a  similar  manner  with  respect  to  other  subjects'?  especially  when  that  very  question  which  is  a  matter  of  doubt  to  Paneetius,  is  generally  considered  a  thing  as  clear  as  day  to  the  other  philosophers  of  that  sect.  However,  this  praise  of  the  Academy  has  been  confirmed  by  the  testimony  and  deliberate  judgment  of  a  most  admirable  philosopher.   IV.  Indeed,  since  we  are  ourselves  inquiring  what  we  are  to  think  of  divination,  because  Carneades  maintained  a  very  long  argument  against  the  Stoics  with  great  acuteness  and  variety  of  resource,  and  as  we  wish  to  be  on  our  guard  against  admitting  rashly  any  assertion  which  is  incorrect,  or  the  truth  of  which  is  riot  sufficiently  ascertained,  it  appears  neces  sary  for  us  to  compare  over  and  over  again  the  arguments  on  one  side  with  those  on  the  other,  as  we  have  done  in  the  three  books  which  we  have  written  on  the  Nature  of  the  Gods.  For,  as  in  every  discussion,  rashness  in  assenting  to  propositions  of  others,  and  error  in  asserting  such  ourselves,  is  very  discreditable,  so  above  all  is  it  in  a  discussion  where  the  question  for  our  decision  is  how  much  weight  we  are  to  attribute  to  auspices,  and  to  divine  ceremonies,  and  to  religion.  For  there  is  danger  lest,  if  we  neglect  these  things,  we  may  become  involved  in  the  guilt  of  blasphemous  impiety,  or  if  we  embrace  them,  we  may  become  liable  to  the  reproach  of  old  women's  superstition.   V.  Now  these  topics  I  have  often  discussed,  and  I  did  so  lately  with  more  than  usual  minuteness,  when  I  was  with  my  brother  Quintus,  in  my  villa  at  Tusculum.  For  when,  for  the  purpose  of  taking  walking  exercise,  we  had  come  into  the  Lyceum,  (for  that  is  the  name  of  the  upper  Gymnasium) —  I  read,  said  he,  a  little  while  ago  your  third  book  on  the  Nature  of  the  Gods;  in  which,  although  the  arguments  of  Cotta  have  not  wholly  changed  my  previous  opinions,  they  have  undoubtedly  a  good  deal  shaken  them.  You  are  very  right  to  say  so,  I  replied;  for,  indeed,  Cotta  himself  ai'gues  rather  with  a  view  to  confute  the  arguments  of  the  Stoics,  than  to  eradicate  religion  from  men's  minds.  Then,  said  Quintus,  that  is  what  Cotta  himself  says,  and  indeed  he  repeats  it  very  often;  I  imagine,  because  he  does  not  wish  to  seem  to  depart  from  the  ordinary  opinions;  but  still  the  zeal  with  which  he  argues  against  the  Stoics  seems  to  cany  him  on  to  the  extent  of  wholly  denying  the  existence  of  the  Gods.  I  do  not  indeed  think  it  necessary  to  reply  to  all  he  says,  for  religion  has  been  sufficiently  defended  in  your  second  book  by  Lucilius;  whose  arguments,  as  you  say  at  the  end  of  the  third  book,  appear  to  you  yourself  to  be  much  nearer  to  the  truth.  But  with  reference  to  the  point  which  has  been  passed  over  in  those  books,  because,  I  presume,  you  con  sidered  that  the  inquiry  into  it  could  be  carried  on,  and  an  argument  held  upon  it  with  more  convenience  if  it  were  taken  separately,  I  mean  Divination — which  is  a  foreknowledge  and  A  foretelling  of  those  events  which  arc  usually  considered fortuitous, — I  should  like  very  much  at  this  moment,  if  you  please,  to  examine  what  power  that  science  really  has,  and  what  its  character  is.  For  my  own  opinion  is  this;  that  if  those  kinds  of  divination  which  we  have  been  in  the  habit  of  hearing  of  and  respecting,  are  real,  then  there  are  Gods;  and  on  the  other  hand  that,  if  there  really  are  Gods,  then  there  certainly  are  men  who  are  possessed  of  the  art  of  divination. You  are  defending,  I  reply,  the  very  citadel  of  the  Stoics, O Quintus,  by  asserting  the  reciprocal  dependence  of  these  two  conditions  on  one  another;  so  that  if  there  be  such  an  art  as  divination,  then  there  are  Gods,  and  if  there  be  such  beings  as  Gods,  then  there  is  such  an  art  as  divination.  But  neither  of  these  points  is  admitted  as  easily  as  you  imagine.  For  future  events  may  possibly  be  indicated  by  nature  without  the  intervention  of  any  God;  and,  even  although  there  may  be  such  beings  as  Gods,  still  it  is  pos  sible  that  no  such  art  as  divination  may  be  given  by  them  to  the  human  race.   He  replied, — But  to  me  it  is  quite  proof  enough,  both  that  there  are  Gods  and  that  they  have  a  regard  for  the  welfare  of  mankind,  that  I  perceive  that  there  are  manifest  and  undeni  able  kinds  of  divination.  With  respect  to  which,  I  will,  if  you  please,  recount  to  you  my  own  sentiments,  provided  at  least  that  you  have  leisure  and  inclination  to  hear  me,  and  have  nothing  which  you  would  like  in  preference  to  this  discussion.  But  I,  said  I,  my  dear  Quintus,  have  always  leisure  for  philosophical  discussion;  but  at  this  moment,  when  I  have  actually  nothing  whatever  which  I  wish  to  do,  I  shall  be  all  the  more  glad  to  hear  your  sentiments  on  divination.   You  will  hear,  said  he,  nothing  new  from  me,  nor  do  I  entertain  any  ideas  on  the  subject  different  from  the  rest  of  the  world.  For  the  opinion  which  I  follow  is  not  only  the  most  ancient,  but  that  which  has  been  sanctioned  by  the  unanimous  consent  of  all  nations  and  countries.  For  there  are  two  methods  of  divining;  one  dependent  on  art,  the  other  on  nature.  Be.!;  what  nation  is  there,  or  what  state,  which  is  not  influenced  by  the  omens  derived  from  the  entrails  of  victims,  or  by  the  predictions  of  those  who  interpret  pro  digies,  or  strange  lights,  or  of  augurs,  or  astrologers,  or  by  those  who  expound  lots  (for  these  are  about  what  come  under  the  head  of  art);  or,  again,  by  the  prophecies  derived  from dreams,  or  soothsayers  (for  these  two  are  considered  natural  kinds  of  divination)  ?  And  I  think  it  more  desirable  to  examine  into  the  results  of  these  things  than  into  the  causes.  For  there  is  a  certain  power  and  nature,  which,  by  means  of  indications  which  have  been  observed  a  long  time,  and  also  by  some  instinct  and  divine  inspiration,  pronounces  a  judg  ment  on  future  events. So  that  Carneades  may  well  give  up  pressing  what  Pansetius  used  also  to  insist  upon,  when  he  asked  whether  it  was  Jupiter  who  had  ordained  the  crow  to  croak  on  the  right-  hand,  or  the  raven  on  the  left.     For  these  occurrences  have  been  observed  for  an  immense  series  of  time,  and  have  been  remarked  and  noted  from  the  signification  given  to  them  by  subsequent  events.   But  there  is  nothing  which  a  great  length  of  time  may  not  effect  and  establish  by  the  use  of  memory  retaining  the  different  events,  and  handing  them  down  in  durable  monuments.     We  may  wonder  at  the  way  in  which  the  different  kinds  of  herbs  and  roots  have  been  observed  by  physicians  as  good  for  the  bites  of  beasts,  for  complaints  of  the  eyes,  and  for  wounds,  the  power  and  nature  of  which  reason  has  never  explained,  but  yet  both  the  art  and  inventor  of  these  medicines  have  gained  iiniversal  approval  from  their  utility. Let  us  also  look  at  those  things  which,  though  of  another  kind,  still  have  a  resemblance  to  divination.   And  often,  too,  the  agitated  sea   Gives  certain  tokens  of  impending  storms,   When  through  the  deep  with  sudden  rage  it  swells,   And  the  fierce  rocks,  white  with  the  briny  foam,   Vie  with  hoarse  Neptune  in  their  sullen  roar,   While  the  sad  whistlins  o'er  the  mountain's  brow   Adds  horror  to  the  crash  of  the  iron  coast. And  all  your  prognostics  are  full  of  presentiments  derived  from  occurrences  of  this  sort.     Who,  then,  can  trace  back  the  causes  of  these  presentiments  1     Though,  indeed,  I  am  aware  that  Boethus  the  Stoic  has  endeavoured  to  do  so.  And  indeed  he  has  done  some  good  to  this  extent,  that  he  has  explained  the  principle  of  those  occurrences  which  take  place  iu  the  sea,  or  in  the  heaven.  But  still,  who  has  ever  explained,  with  any  appearance  of  probability,  why  they  take  place  at  all  1   And  the  white  gull,  uprising  from  the  waves,  With  horrid  scream  foretells  th'  impending  storm,  Straining  its  trembling  throat  in  ceaseless  cry.  Oft,  too,  the  woodlark  from  his  chest  pours  forth  Notes  of  unusual  sadness,  wnking  up  The  morn  with  grievous  fear  and  endless  plaint.  When  first  Aurora  routs  the  nightly  dew,  Sometimes  the  dusky  crow  runs  o'er  the  shore,  Dipping  its  head  beneath  the  rising  surf.1   IX.  And  we  see  that  these  signs  of  the  weather  scarcely  ever  deceive  us,  though  we  certainly  do  not  understand  why  they  are  so  correct.   You  too  perceive  the  signs  of  future  times,   Children  of  sweetest  waters;  and  prepare   To  utter  warnings  loud  and  salutary,   Rousing  the  springs  and  marshes  with  your  cries.   Yet  who  could  ever  have  suspected  frogs  of  having  such  per  ception  1     However,  there  is  in  rivulets,  and  in  frogs  too,  a  certain  nature  indicating  something  which  is  clear  enough  by  itself,  but  more  obscure  to  the  knowledge  of  men.  And  cloven-footed  oxen  gazing  up  To heaven's  expense,  have  often  inhaled  the  air  Laden  with  moisture   I    do   not   inquire   why  all   this   takes   place,   since    I    am  acquainted  with  the  fact  that  it  does  take  place —  The  mastic,  ever  green  and  ever  laden  With  its  rich  fruit,  which  thrice  in  every  year  Doth  swell  to  ripeness,  by  its  triple  crop  Points  out  three  times  when  men  should  till  the  earth.  Here  too,  again,  I  do  not  ask  why  this  one  tree  should  bloom  three  times  a  year,  or  why  it  should  adapt  the  proper  season  for  ploughing  the  land  to  the  token  given  by  its  bloom.  I  am  content  with  this,  that,  even  if  I  do  not  know  how  everything  is  done,  I  nevertheless  do  know  what  is  done.     And  so  in  respect  of  every  kind  of  divination  I  will  answer  as  I  have  done  in  the  cases  which  I  have  already  mentioned.   X.  Now  I  know  what  effect  the  root  of  the  scamniony  has  as  a  purgative,  and  what  the  efficacy  of  the  aristolochia  is  in  the  case  of  bites  of  serpents,  (and  this  herb  has  derived  its  name  from  its  discoverer,  who  discovered  it  in  consequence  o  a  dream.)  and  that  knowledge  is   quite   emnigh.      I  do  not  know  why  these  herbs  are  so  efficacious;  and  in  the  same  way  I  do  not  know  on  what  principle  the  omens  which  we  draw  from  the  signs  furnished  to  us  by  the  winds  and  storms  proceed;  but  I  do  know,  and  arn  certain  of,  and  thankful  for  their  power,  and  the  results  which  flow  from  it.     Again,  in   1  All  these  predictions  are  translated  by  Cicero  from  Aratus.  the  same  way  I  know  what  is  indicated  by  a  fissure  in  the  entrails  of  a  victim,  or  by  the  appearance  of  the  fibres;  but  what  the  cause  is  that  these  appearances  have  this  meaning  I  know  not.  And  life  is  full  of  such  things ;  for  nearly  every  one  has  recourse  to  the  entrails  of  animals.  Need  I  say  more  1  Is  it  possible  for  any  one  to  doubt  about  the  power  of  thunder-storms  ?  Is  not  this  too  one  of  the  most  marvel  lous  of  marvellous  things  ?  When  Summanus,1  which  was  a  figure  made  of  clay,  standing  on  the  top  of  the  temple  of  the  all-powerful  and  all-good  Jupiter,  was  struck  by  lightning,  and  the  head  of  the  statue  could  not  be  found  anywhere,  the  soothsayers  said  that  it  had  been  thrown  down  into  the  Tiber,  and  it  was  found  in  that  very  place  which  had  been  pointed  out  by  the  soothsayer.But  who  is  there  to  whom  I  may  more  fitly  appeal  as  an  authority  and  as  a  witness  than  you  yourself?  For  I  have  learnt  the  verses,  and  that  with  great  pleasure,  which  the  muse  Urania  pronounces  in  the  second  book  of  your  "  Con  sulship  " —   See  how  almighty  Jnve,  inflamed  and  bright,   With  heavenly  fire  fills  the  spacious  world,   And  lights  up  heaven  and  earth  with  wondrous  rays   Of  his  divine  intelligence  and  mind  ;   Which  pierces  all  the  inmost  sense  of  men,   And  vivifies  their  souls,  hold  fast  within   The  boundless  caverns  of  eternal  air.   And  would  you  know  the  high  sublimest  paths   And  ever  revolving  orbits  of  the  stars,   And  in  what  constellations  they  abide, —   Stars  which  the  Greeks  erratic  falsely  call,   For  certain  order  and  fixed  laws  direct   Their  onward  course  ;  then  shall  you  learn  that  all   Is  by  divinest  wisdom  fitly  ruled.   For  when  you  ruled  the  state,  a  consul  wise,   You  noted,  and  with  victims  due  approach'd,   Propitiating  the  rapid  stars,  and  strange   Concurrence  of  the  fiery  constellations.   Then,  when  you  purified  the  Alban  mount,   And  celebrated  the  great  Latin  feast,   Bringing  pure  milk,  meet  offering  for  the  gods,   You  saw  fierce  comets  bright  and  quivering   With  light  unheard  of.     In  the  sky  you  saw   1  This  is  usually  understood  to  have  been  a  statue  of  Pluto.     The   new  consuls   used  to  celebrate   the   Ferioe    Latinaj   on  the  Albanus  Mons.    Fierce  wars  and  dread  nocturnal  massacre That  Latin  feast  on  mournful  days  did  fall,  When  the  pale  moon  with  di     m  and  muffled  light  Conceal'd  her  head,  and  fled,  and  in  the  midst  Of  starry  night  became  invisible.  Why  should  I  say  how  Phoebus'  fiery  beam,  Sure  herald  of  sad  war,  in  mid-day  set,  Hastening  at  undue  season  to  its  rest,  Or  how  a  citizen  struck  with  th'  awful  bolt,  Hurl'd  by  high  Jove  from  out  a  cloudless  sky,  Left  the  glad  light  of  life;  or  how  the  earth  Quaked  with  affright  and  shook  in  every  part  ?  Then  dreadful  forms,  strange  visions  stalk  d  abroad,  Scarce  shrouded  by  the  darkness  of  the  night,And  wam'd  the  nations  and  the  land  of  war.  Then  many  an  oracle  and  augury,  Pregnant  with  evil  fate,  the  soothsayers  Pour'd  from  their  agitated  breasts.     And  e'en  The  Father  of  the  Gods  fill'd  heaven  and  earth  With  signs,  and  tokens,  and  presages  sure  Of  all  the  things  which  have  befallen  us  since.  XII.   So  now  the  year  when  you  are  at  the  helm,  Collects  upon  itself  each  omen  dire,  Which  when  Torquatus,  with  his  colleague  Gotta,  Sat  in  the  curule  chairs,  the  Lydian  seer  Of  Tuscan  blood  breathed  to  affrighted  Borne.  For  the  great  Father  of  the  Gods,  whose  home  Is  on  Olympus'  height,  with  glowing  hand  Himself  attack'd  his  sacred  shrines  and  temples,  And  hurl'd  his  darts  against  the  Capitol.  Then  fell  the  brazen  statue,  honour'd  long,  Of  noble  Natta ;  then  fell  down  the  laws  Graved  on  the  sacred  tablets ;  while  the  bolts  Spared  not  the  images  of  the  immortal  gods.  Here  was  that  noble  nurse  o'  the  Roman  name,  The  Wolf  of  Mars,  who  from  her  kindly  breast  Fed  the  immortal  children  of  her  god  With  the  life-giving  dew  of  sweetest  milk.  E'en  her  the  lightning  spared  not;  down  she  fell.  Bearing  the  royal  babes  in  her  descent,  Leaving  her  footmarks  on  the  pedestal.1   1  Great  interest  is  attached  to  this  passage  by  antiquaries,  from  the  fact  of  there  being  a  bronze  statue  still  at  Home  of  a  wolf  suckling  two  children,  with  manifest  marks  of  lightning  on  it,  which  is  believed  to  be  the  very  statue  here  mentioned  by  Cicero,  and  also  in  his  third  Oration  asrainst  Catiline,  c.  viii. ;  it  is  described  by  Virgil  too  : —   Fecerat  et  viridi  foetam  Mavorf  is  in  antro  Procubuisse  lupam;  geminos  huic  ubcra  circum   [Ludere   And  who,  unfolding  records  of  old  time,  Has  found  no  words  of  sad  prediction  In  the  dark  pages  of  Etruscan  books  ] —  All  men,  all  writings,  all  events  combined,  To  warn  the  citizens  of  freeborn  race    Ludere  pendentes  pueros,  et  lambere  matrem   Impavidos;  ilhun  tereti  cervice  reflexam   Mulcere  alternos  et  corpora  fingere  linguiL — jEn. The cave  of  Mars  was  dress'd  with  mossy  greens  ;  There  by  the  wolf  were  laid  the  martial  twins; Intrepid,  on  her  swelling  dugs  they  hung,   The  foster-dam  loll'd  out  her  fawning  tongue ;   They  suck'd  secure,  while  bending  back  her  head,   She  lick'd  their  tender  limbs,  and  form'd  them  as  they  fed.   Dryden,  ^En. The  statue  in  its  present  state  is  beautifully  described  by  Byron  :And  thou  the  thunder-stricken  nurse  of  Rome,  She-wolf  !  whose  brazen  imaged  dugs  impart  The  milk  of  conquest  yet  within  the  dome,  Where,  as  a  monument  of  antique  art,  Thou  standest,  mother  of  the  mighty  heart,  Which  the  great  founder  suck'd  from  thy  wild  teat,  Scorch'd  by  the  Roman  Jove's  ethereal  dart,  And  thy  limbs  black  with  lightning, — dost  thou  yet  Guard  thy  immortal  cubs,  nor  thy  fond  charge  forget]  Thou  dost— but  all  thy  foster-babes  are  dead,  The  men  of  iron  ;  and  the  world  hath  rear'd  Cities  from  out  their  sepulchres. —Childe  Harold,  book  iv.  It  may  not  be  out  of  place  here,  to  set  before  the  reader  the  beautiful   description,  in  the  first  Georgic,  of  the  prodigies  which  happened  at   Rome  on  the  death  of  Cresar : —   Denique  quid  vesper  serus  vehat.  unde  serenas   Ventus  agat  nubes,  quid  cogitet  humidus  Auster,   Sol  tibi  signa  dabit :  Solem  quis  dicere  falsum   Audeat?  ille  etiam  csecos  instare  tumultus   Saspe  monet,  fraudemque,  et  aperta  tumescere  bella ;   Ille  etiam  extincto  miseratus  Caesare  Romam   Cum  caput  obscurS,  nitidum  ferrugine  texit   Impiaque  rcternam  timuerunt  sajcula  noctem,   Tempore  quanquam  illo  tellus  quoque  et  aequora  ponti,   Obsccenique  canes,  importunaeque  volucres   Signa  dabant :  quoties  Cyclopum  effervere  in  auras   Vidimus  undantem  rnptis  fornacibus Etnam,   Flammarumque  globos  liquef'actaque  volvere  saxa.   Armorum  sonitus  toto  Germania  coe'.o   Audiit;  insolitis  tremuerunt  motibus  Alpes.   [Vox    To  dread  impending  wars  of  civil  strife,  And  wicked  bloodshed  ;  when  the  laws  should  fall  In  one  dark  rain,  trampled  and  o'erthrown:  Then  men  were  warn'd  to  save  their  holy  shrines,  The  statues  of  the  irods,  their  city  and  lands,   Vox  quoque  per  lucos  vulgo  exaudita  recentes  Ingens,  ei  simulacra  rnodis  pallentia  miris   Visa  sub  obscurum  noctis ;  pecudesque  locutae,   Infandum  !  sistunt  amnes  terrseque  dehiscunt   Et  moestum  illacryinat  templis  ebur,  oeraque  sudant:   Proluit  insano  contorquens  vertice  sylvas   Pluviorum  Rex Eridanus  ;  camposque  per  omnes   Cum  stabulis  armenta  trahit ;  nee  tempore  eodcm   Tristibus  aut  extis  fibrae  apparere  minaces   Aut  puteis  manare  cruor  cessavit,  et  alte   Per  noctcm  resonare  lupis  ululautibus  urbe?  ;   Non  alias  coilo  cecidcruut  plura  sereno   Fulgura,  nee  diri  toties  arsere  cometae  ;   Ergo,  etc. —  Virgil,  Georg.  i.  488.   Which  is  translated  by  Dryden  : —The  Sun  reveals  the  secrets  of  the  sky,  And  who  dares  give  the  source  of  light  the  lie?  The  change  of  empires  he  oft  declares,  Fierce  tumults,  hidden  treasons,  open  wars;  He  first  the  fate  of  Caesar  did  foretell,  And  pitied  Rome  when  Rome  in  Caesar  fell :  In  iron  clouds  conceal'd  the  public  light,  And  impious  mortals  fear'd  eternal  night.  Nor  was  the  fact  foretold  by  him  alone,  Nature  her-elf  stood  forth  and  seconded  the  Sun.  Earth,  air,  and  seas  with  prodigies  were  sign'd,  And  birds  obscene  and  howlin g  dogs  divin'd.  What  rocks  did  ^Etna's  bellowing  mouth  expire  From  her  torn  entrails,  and  what  floods  of  fire  !  What  clanks  were  heard  in  German  skies  afar,  Of  arms  and  armies  rushing  to  the  war  !  Dire  earthquakes  rent  the  solid  Alps  below,  And  from  their  summits  shook  th'  eternal  snow;  Pale  spectres  in  the  close  of  night  were  seen,  And  voices  heard  of  more  than  mortal  men.  In  silent  groves  dumb  sheep  and  oxen  spoke  ;  And  streams  ran  backward,  and  their  beds  forsook  ;  The  yawning  earth  disclosed  th'  abyss  of  hell,  The  weeping  statues  did  the  wars  foretell,  And  holy  sweat  from  brazen  idols  fell.  Then  rising  in  his  might  the  king  of  floods  Uush'd  through  the  forests,  tore  the  lofty  woods;  And  rolling  onward  with  a  sweepy  sway,  Bore  houses,  herds,  and  labouring  hinds  away.   Blood    From  slaughter  and  destruction,  and  preserve  Their  ancient  customs  unimpair'd  and  free.  And  this  kind  hint  of  safety  was  subjoin'd,  That  when  a  splendid  statue  of  great  Jove,1  In  godlike  beauty,  on  its  base  was  raised,  With  eyes  directed  to  Sol's  eastern  gate  ;  Then  both  the  senate  and  the  people's  bands,  Duly  forewarn'd,  should  see  the  secret  plots  Of  wicked  men,  and  disappoint  their  spite.  This  statue,  slowly  form'd  and  long  delay 'd,  At  length  by  you,  when  consul,  has  been  placed  Upon  its  holy  pedestal ; — 'tis  now  That  the  great  sceptred  Jupiter  has  graced  His  column,  on  a  well-appointed  hour  :  And  at  the  self-same  moment  faction's  crimes    Blood  sprang  from  wells;  wolves  howl'd  in  towns  by  night;  And  boding  victims  did  the  priests  affright.  Such  peals  of  thunder  never  pour'd  from  high,  Nor  forky  lightnings  flash'd  from  such  a  sullen  sky  :  Red  meteors  ran  across  the  ethereal  space  ;  Stars  disappear'd,  and  comets  took  their  place.  Which  Shakspeare  has  imitated  with  reference  to  the  same  event : Cal.  Caesar,  I  never  stood  on  ceremonies,   Yet  now  they  fright  me:  there  is  one  within,   Besides  the  things  that  we  have  heard  and  seen,   Recounts  most  horrid  sights  seen  by  the  watch:   A  lioness  hath  whelped  in  the  streets,   And  graves  have  yawn'd  and  yielded  up  their  dead.   Fierce,  fiery  warriors  fight  upon  the  clouds,   In  ranks  and  squadrons  and  right  form  of  war,   Which  drizzled  blood  upon  the  Capitol:   The  noise  of  battle  hurtled  in  the  air;   Horses  did  neigh,  and  dying  men  did  groan;   And  ghosts  did  shriek  and  squeak  t  the  streets.   O  Caesar,  these  things  are  beyond  all  use,   And  I  do  fear  them   When  beggars  die  there  are  no  comets  seen  ;   The  heavens  themselves  blaze  forth  the  death  of  princes.   Cats.  What  say  the  augurers?   Serv.  They  would  not  have  you  to  stir  forth  to-day.  Plucking  the  entrails  of  an  offering  forth,  They  could  not  find  a  heart  within  the  beast.   1  This  refers  to  the  column  meant  to  serve  as  a  pedestal  for  the  statue  of  Jupiter,  mentioned  in  the  second  book  of  this  treatise,  and  also  in  the  second  oration  against  Catiline,  as  having  been  ordered  in  the  consulship  of  Torquatus  and  Cotta,  but  not  completed  till  the  year  of  Cicero's  consulship.    Were  by  the  loyal  Gauls  reveal'd  and  shown  To  the  astonish'd  multitude  and  senate.  XIII.    Well  then  did  ancient  men,  whose  monuments  You  keep  among  you,—they  who  will  maintain  Virtue  and  moderation ;  by  these  arts  Ruling  the  lands  an<l  people  subject  to  them:  Well,  too,  your  holy  sires,  whose  spotless  faith,  And  piety,  and  deep  sagacity  Have  far  surpass'd  the  men  of  other  lands,  Worshipp'd  in  every  age  the  mighty  Gods.  They  with  sagacious  care  these  things  foresaw,  Spending  in  virtuous  studies  all  their  leisure,  And  in  the  shady  Academic  groves,  And  fair  Lyceum :  where  they  well  pour'd  forth  The  treasures  of  their  pure  and  learned  hearts.  And,  like  them,  you  have  been  by  virtue  placed,  To  save  your  country,  in  the  imminent,  breach ;  Still  with  philosophy  you  soothe  your  cares,  With  prudent  care  dividing  all  your  hours  Between  the  Muses  and  your  country's  claims.   Will  you  then  be  able  to  persuade  your  mind  to  speak  against  the  arguments  which  I  adduce  on  the  subject  of  divination,  you  being  a  man  who  have  performed  such  exploits  as  you  have  done,  and  who  have  so  admirably  com  posed  those  verses  which  I  have  just  recited  1  What — do  you  ask  me,  Carneades,  why  these  things  take  place  in  this  manner,  or  by  what  art  it  is  possible  for  them  to  be  brought  about  ?  I  confess  that  I  do  not  know ;  but  that  they  do  happen,  I  assert  that  you  yourself  are  a  witness.  Yes,  they  happen  by  chance,  you  say.  Is  it  so  1  Can  anything  be  done  by  chance  which  has  in  itself  all  the  features  of  reality  ?  Four  dice  when  thrown  may  by  chance  come  up  sixes.  Do  you  think  that  if  you  were  to  throw  four  hundred  dice  it  would  be  possible  for  them  all  to  come  up  sixes  by  any  chance  in  the  world  1  Paints  scattered  at  random  on  a  canvass  may  by  chance  represent  the  features  of  a  human  face ;  but  do  you  think  that  you  could  by  any  chance  scat  tering  of  colours  represent  the  beauty  of  the  Coan  Venus'?1  Suppose  a  pig  by  burrowing  in  the  ground  with  his  snout  were  to  make  the  letter  A,  would  you  on  that  account  think  it  possible  that  the  animal  should  by  chance  write  out  the  Andromache  of  Ennius  1  Carneades  used  to  tell  a  story  that   1  This  refers  to  the  celebrated  picture  of  Venus  Anadyomene,  painted  by  Apelles,  who  was  a  native  of  Cos.      in  cutting  stones  in  the  stone- quarries  at  Chios,  there  was  once  discovered  a  natural  head  of  a  Pan.  I  dare  say  there  may  have  been  a  figure  not  wholly  unlike  such  a  head,  but  still  certainly  it  was  not  such  that  you  could  fancy  it  wrought  by  Scopns.1  For  this  is  the  nature  of  things,  that  chance  can  never  imitate  reality  to  perfection.  But,  you  will  say,  things  which  have  been  predicted  sometimes  fail  to  happen.  What  act  is  not  liable  to  this  observation  1  I  mean  of  those  acts  which  proceed  on  con  jecture,  and  are  founded  on  opinion.  Is  not  medicine  to  be  considered  a  real  art  ?  And  yet  how  often  is  it  deceived  !  Need  I  say  more  1  Are  not  pilots  of  ships  often  deceived?  Did  not  the  army  of  the  Greeks,  and  the  captains  of  all  that  numerous  fleet,  depart  from  Troy,  as  Pacuvius  says —   So  glad  at  their  departure,  that  they  gazed  In  idle  mirth  upon  the  wanton  fish,  And  never  ceased  from  laughing  at  their  gambols  ;  Meanwhile  at  sunset  the  vast  sea  grows  rough,  The  darkness  lowers,  black  night  and  clouds  surround  them.  Did,  however,  the  shipwreck  of  so  many  illustrious  generals  and  sovereigns  prove  that  there  was  no  such  art  as  naviga  tion  ?     Or  is  the  science  of  generals  good  for  nothing  because  a  most  illustrious  general  was  lately  put  to  flight,  after  the  total  loss  of  his  army  1  Or  are  we  to  say  that  there  is  no  room  for  the  display  of  sound  principles  of  politics,  or  wis  dom  in  the  administration  of  affairs  of  state,  because  Cnseus  Ponipeius  was  often  .deceived,  and  even  Cato  and  you  your  self  have  been  deceived  in  more  instances  than  one?     The  same  rule  applies  to  the  answers  of  soothsayers,  and  to  all  divination  which  rests  on  opinion  :  for  it  depends  wholly  on  conjecture,  and  has  no  means  of  advancing  further.     And  that  perhaps  sometimes  deceives  us,  but  still  it  more  fre  quently  directs  us  to  the  truth.     For  it  is  traced  back  to  all  eternity.  And  as  in  the  infinite  duration  of  time,  things  have  happened  in  an  almost  countless  number  of  ways  with  the  self-same  indications  preceding  each   occurrence,  an  art  has   1  Scopas  was  a  Parian,  nourishing. He  was  one  of  the  greatest  architects  and  sculptors  of  antiquity,  and  is  mentioned  as  such  by  Horace,  who  says: —   Divite  me  scilicet  artium  Quas  aut  Parrhasius  protulit  aut  Scopas,  Hie  saxo,  liquidis  ille  colorilius  Solera  nunc  hominem  nonere  mmr.  TV « been  concocted  and  reduced  to  rules  from  a  frequent  obser  vation  and  notice  of  the  same  circumstances. But  your  auspices,  how  clear — how  sure  they  are !  which  at  this  time  are  known  nothing  of  by  the  Roman  augurs,  (excuse  me  for  saying  this  so  plainly,)  though  they  are  main  tained  by  the  Cilicians,  Pamphylians,  Pisidians,  and  Lycians.  For  why  should  I  mention  that  man  connected  with  us  in  ties  of  hospitality,  that  most  illustrious  and  excellent  ^man,  king  Deiotarus  1  He  never  does  anything  whatever  without  taking  the  auspices.  And  it  happened  once  that  he  had  started  on  a  journey  which  he  had  arranged  and  determined  some  time  before;  but,  being  warned  by  the  flight  of  an  eagle,  he  returned  back  again,  and  the  very  next  night  the  house  in  which  he  would  have  been  lodging  if  he  had  per  sisted  in  his  journey,  fell  to  the  ground.  And  he  was  so  moved  by  this  occurrence,  that,  as  he  himself  used  to  tell  me,  he  often  turned  back  in  the  same  way  in  a  journey,  even  when  he  had  advanced  many  days  on  it.  And  what  is  most  remarkable  in  his  conduct  is,  that  after  he  had  been  deprived  by  Csesar  of  his  tetrarchy,  his  kingdom,  and  his  property,  he  still  asserted  that  he  did  not  repent  of  obeying  those  auspices  which  had  promised  success  to  him  when  he  was  setting  out  to  join  Pompey:  for  he  considered  that  the  authority  of  the  senate,  and  the  liberty  of  the  Roman  people,  and  the  dignity  of  the  empire  had  been  upheld  by  his  arms;  and  that  those  birds  had  taken  good  care  of  his  honour  and  real  interests,  inasmuch  as  they  had  been  his  counsellors  in  adhering  to  the  claims  of  good  faith  and  duty ;  for  that  character  was  a  thing  dearer  to  him  than  his  possessions.  .  And  in  saying  this  he  seems  to  me  to  form  a  very  just  estimate.  For  our  magis  trates  at  times  use  compulsion.  For  it  is  quite  impossible,  if  a  cake  is  thrown  down  before  a  chicken,  but  what  some  crumbs  must  fall  out  of  his  mouth  when  he  feeds.  And  as  you  have  it  set  down  in  your  books  that  a  tripudium  takes  place  if  any  of  the  food  falls  on  the  ground,  so  you  also  call  this  compulsory  augury  which  I  have  spoken  of  tripudium  solistimum.1  And  so,  as  that  wise  Cato  complains,  owing  to   i  "Tripudium,  from  terripavium  (Cic  Div.),  a  stamping  on  the  ground  In  divination,  tripudium,  or  tripudium  solistimum,  when-  the  birds  (pulli)  ate  so  greedily  that  the  food  fell  from  their  mouths,  and  so  rebounded  on  the  ground,  which  was  regarded  as  a  good  omen."  — Riddle  and  Arnold,  Lat.  Diet.  the  negligence  of  the  college,  many  auguries  and  many  auspices  have  been  wholly  lost  and  abandoned.  Formerly  there  was,  I  may  almost  say,  no  ariair  of  importance,  not  even  if  it  only  related  to  private  business,  which  was  transacted  \vithout  taking  the  auspices.  And  this  is  proved  even  now  by  the  Auspices Nuptiarum,  who,  though  the  custom  has  fallen  into  disuse,  still  preserve  the  name.  For  just  as  we  now  consult  the  entrails  of  victims,  though  even  that  very  practice  is  observed  less  now  than  it  used  to  be,  so  in  ancient  times,  before  all  transactions  of  importance,  men  used  to  consult  birds;  and,  therefore,  from  want  of  paying  proper  regard  to  ill  omens,  we  often  run  into  alarming  and  destructive  dangers  : — as  Publius  Claudius,  the  son  of  Appius  Csecus,  and  his  colleague  Lucius  Junius,  lost  a  fine  fleet,  because  they  had  put  to  sea  in  defiance  of  the  omens.  And,  indeed,  something  of  the  same  kind  befel  Agamemnon;  for  he,  when  the  Grecians  had  begun   To  murmur  loudly,  and  with  open  scorn  T'  asperse  the  skill  of  th'  holy  soothsayers,  Bade  the  crew  bend  the  sails  and  put  to  sea,  Choosing  the  people's  voice  before  the  omens.   But  why  need  we  look  for  old  examples  of  this  1  We  have  ourselves  seen  what  happened  to  Marcus  Crassus,  because  he  neglected  the  notice  which  was  given  to  him  that  the  omens  were  unfavourable.  On  which  occasion,  Appius,  your  col  league,  a  good  augur,  as  I  have  often  heard  you  say,  branded,  when  he  was  censor,  an  excellent  man  and  a  most  illustrious  citizen,  Caius  Ateius,  without  sufficient  consideration,  because  he  had  cooperated  in  falsifying  the  auspices.  However,  let  that  pass.  It  may  have  been  the  duty  of  the  censor  to  do  so,  if  he  thought  that  the  auspices  were  falsified.  But  it  certainly  was  not  the  duty  of  an  augur  to  set  down  in  the  books  that  this  was  the  cause  of  a  fearful  calamity  befalling  the  Roman  people.  For  even  if  that  was  the  cause  of  the  calamity,  still  the  fault  was  not  in  the  man  who  announced  the  state  of  the  auspices,  but  in  him  who  disregarded  the  announcement.  For  that  the  announcement  wTas  a  correct  one,  as  the  same  augur  and  censor  bears  witness,  was  proved  by  the  event;  for  if  the  announcement  had  been  false,  it  could  not  possibly  have  caused  any  calamity  at  all.  In  truth, prognostics  of  calamity,  like  other  auspices,  and  omens,  and  tokens,  do  not  produce  causes  why  anything  should  happen,  but  merely  give  notice  of  what  will  happen  unless  you  pro  vide  against  it.  It  was  not,  therefore,  the  announcement  of  unfavourable  omens,  made  by  Ateius,  which  was  the  cause  of  calamity;  all  that  he  did  was,  by  declaring  to  him  what  signs  had  been  seen,  to  warn  him  what  would  happen  if  he  did  not  take  precautions  against  it.  Accordingly,  either  that  announcement  had  no  effect  at  all,  or  else  if,  as  Appius  thinks,  it  had  an  effect,  the  effect  was  this,  that  guilt  was  attached,  not  to  the  man  who  gave  the  warning,  but  to  him  who  did  not  attend  to  it. What  shall  I  say  more  1  From  whence  have  you  received  that  staff  (lituus)  of  yours,  which  is  the  most  cele  brated  ensign  of  your  augurship  ?  That  is  the  staff  with  which  Komulus  parted  out  the  several  districts,  when  he  founded  the  city.  And  that  staff  of  Romulus,  (that  is  to  say,  a  stick  curved  and  slightly  bent  forward  at  the  top,  which  has  derived  its  name  from  its  resemblance  to  the  trumpet  (lituus)  used  in  sounding  signals,)  having  been  laid  up  in  the  meeting-house  of  the  Salii,  which  was  in  the  Pala  tine-hill,  when  that  house  was  burnt  to  the  ground,  was  found  unhurt.  What  more  need  I  say  1  Who  of  the  ancient  authors  is  there  who  does  not  relate  what  an  arrangement  of  the  districts  of  the  city  was  made,  many  years  after  the  time  of  Romulus,  in  the  reign  of  Tarqninius  Priscus,  by  Attius  Xavius,  who  employed  his  staff  in  this  manner  ?  And  it  is  said  that  he,  when  a  boy,  was  forced  through  poverty  to  act  as  a  swineherd;  and  one  day,  having  lost  one  of  his  pigs,  he  made  a  vow  that  if  he  recovered  it,  he  would  give  the  god  the  finest  grape  which  there  was  in  the  whole  vineyard.  Accordingly,  when  he  had  found  the  pig,  he  placed  himself  in  the  middle  of  the  vineyard,  with  his  eyes  directed  towards  the  south;  and  after  he  had  divided  the  vineyard  into  four  divisions,  and  had  been  directed  by  the  birds  to  disregard  three  of  the  portions,  in  the  fourth  division,  which  remained,  he  found  a  grape  of  most  wonderful  size,  as  we  find  recorded  in  our  books.  And  when  this  fact  became  known,  all  the  neighbours  used  to  consult  him  on  all  their  affairs,  until  he.  gained  a  great  name  and  reputation ;  in  consequence  of  which  kin<r  Priscus  sent  for  him.  And  when  he  had  come  to  the  king,  he,  wishing  to  make  proof  of  his  skill  in  augury,  told  him  that  he  was  thinking  of  something,  and  asked  him  whether  it  could  possibly  be  done.  He,  having  taken  an  auguiy,  answered  that  it  could.  But  Tarquin  said  that  he  had  been  thinking  that  it  was  possible  that  a  whetstone  might  be  cut  through  by  a  razor.  On  this  Attius  bade  him  try ;  and  accordingly  a  whetstone  was  brought  into  the  assembly,  and,  in  the  sight  of  king  and  people,  cut  through  with  a  razor.  And  in  consequence  of  this,  it  happened  that  Tarquinius  always  consulted  Attius  Navius  as  an  augur,  and  that  the  people  also  were  used  to  refer  their  private  affairs  to  him.  And  we  are  told  that  that  whetstone  and  that  razor  were  buried  in  the  comitium,  and  that  the  puteal  was  built  over  it.   Let  us  deny  everything;  let  us  burn  our  annals;  let  us  say  that  all  these  statements  are  false ;  let  us,  in  short,  confess  everything  rather  than  that  the  Gods  regard  the  affairs  of  mankind.  What  1  do  not  even  your  writings  about  Tiberius  Gracchus  sanction  the  theories  df  augurs  ami  haruspices  1  For  when  he  had  unintentionally  erected  a  tent  to  take  the  auspices  informally,  because  he  had  crossed  the  pomcerium  without  taking  the  auspices,  he  held  there  the  comitia  for  the  election  of  the  consuls.  (The  matter  is  one  of  notoriety,  and  committed  to  writing  by  you  yourself.)  However,  Tiberius  Gracchus,  who  was  himself  an  augur,  ratified  the  authority  of  the  auspices  by  a  confession  of  his  error,  and  added  great  authority  to  the  sj'steui  of  the  harus  pices  ;  who,  having  at  the  recent  comitia  been  introduced  into  the  senate,  asserted  that  the  person  who  proposed  the  candi  dates  to  the  comitia  had  no  right  to  do  so. I  therefore  agree  with  those  authors  who  have  asserted  that  there  are  two  kinds  of  divination;  one  par  taking  of  art,  and  the  other  wholly  devoid  of  it.  For  art  is  visible  in  those  persons  who  pursue  anything  new  by  conjec  ture,  and  have  learnt  to  judge  of  what  is  old  by  observation.  But  those  men,  on  the  other  hand,  are  devoid  of  art,  who  give  way  to  presentiments  of  future  events,  not  proceeding  by  reason  or  conjecture,  nor  on  the  observation  and  considera  tion  of  particular  signs,  but  yielding  to  some  excitement  of  mind,  or  to  some  unknown  influence  subject  to  no  precise  rules  or  restraint,  (as  is  often  the  case  with  men  who  dream,   and  sometimes  with  those  who  deliver  predictions  in  n  frenzied  manner,)  as  Bacis'  of  Boeotia,  Epimenides2  the  Cretan,  and  the  Erythrean  Sib}'!.  And  under  this  head  we  ought  also  to  rank  oracles;  not  those  which  are  drawn  by  lot,  but  those  which  are  uttered  under  the  influence  of  some  divine  instinct  and  inspiration.  Although  even  lots  are  not  to  be  despised  where  they  are  sanctioned  by  the  authority  of  antiquity,  like  those  which  we  are  told  used  to  rise  out  of  the  earth  ;  which,  however,  are  drawn  in  such  a  manner  as  to  be  apposite  to  the  subject  under  consideration,  which,  indeed,  is  a  thing  that  I  conceive  to  be  very  possible  by  divine  management.  The  interpreters  of  all  of  which  appear  to  me  to  come  very  near  to  the  divining  power  of  those  whose  interpreters  they  are  (just  as  those  grammarians  do  who  are  the  interpreters  of  poets).  What  proof  of  sagacity  is  it,  then,  to  wish  to  disparage  things  sanctioned  by  antiquity,  by  vile  calumnies  ?  I  admit  that  I  cannot  discover  the  cause.  Perhaps  it  lies  hid,  involved  in  the  obscurity  of  nature.  For  God  has  not  int  nded  me  to  understand  these  matters,  but  only  to  use  them.  I  will  use  them,  then ;  nor  will  I  be  persuaded  to  think,  either  that  all  Etruria  is  mad  on  the  subject  of  the  entrails  of  victims,  or  that  the  same  nation  is  all  wrong  about  lightnings,  or  that  it  interprets  prodigies  fallaciously,  when  it  has  often  happened  that  sub  terranean  noises  and  crashes,  often  that  earthquakes,  have  predicted,  with  terrible  truth,  many  of  the  evils  which  have  befallen  our  own  republic  and  other  states.   Why  should  I  say  more  ?  The  fact  of  a  mule  having  brought  forth  is  much  ridiculed  by  some  people;  but  because  this  parturition  did  take  place  in  the  case  of  an  animal  of  natural  barrenness,  was  there  not  an  incredible  crop  of  evils  predicted  by  the  soothsayers  1  Need  I  go  further  1  Did  not  Tiberius  Gracchus,  the. son  of  Publius  Gracchus,  who  had  been  twice  consul  and  censor,  and  who  was  also  an  augur  of  the   1  Bacis  was  believed  to  have  lived  and   prophesied  at  Heleon,  in  Bceotia,  being  inspired  by  the  nymphs  of  the  Corycian  cave.     Some  of  hjs  prophecies  are  given  us  by  Herodotus    (See  also  Aristophanes,  Eq.;  Pax) Epimenides  was  a  poet  and  prophet  of  Crete. He  was  sent  for  by  the  Athenians  to  purify  Athens  when  it was  visited  by  a  plague,  in  consequence  of  the  sacrilege  of  Cylon.  He  is  said  to  have  lived  to  a  great  age.highest  skill  and  reputation,  and  a  wise  man,  and  a  most  virtuous  citizen, — did  not  he  (as  Caius  Gracchus,  his  son,  has  left  recorded  in  his  writings),  when  two  snakes  were  caught  in  his  house,  convoke  the  soothsayers  ?  And  the  answer  which  they  gave  him  was,  that  if  he  let  the  male  escape,  his  wife  would  die  in  a  short  time ;  but  if  he  let  the  female  escape,  he  would  die  himself:  on  which  he  thought  it  more  becoming  to  encounter  an  early  death  himself,  than  to  expose  the  youthful  daughter  of  Publius  Africanus  to  it.  Accordingly,  he  released  the  female  snake,  and  died  himself  a  few  days  afterwards. Let  us,  after  this,  laugh  at  the  soothsayers;  let  us  call  them  useless  and  triflers,  and  despise  those  men  whose  principles  the  wisest  men,  and  subsequent  events  and  occur  rences,  have  often  proved.  Let  us  despise  also  the  Baby  lonians,  and  those  who  on  mount  Caucasus  observe  the  stars  of  heaven,  and  follow  all  their  revolutions  in  regular  number  and  motion.  Let  us,  say  I,  condemn  all  those  people  for  folly,  or  vanity,  or  impudence,  who,  as  they  themselves  assert,  have  exact  records  for  four  hundred  and  seventy  thousand  years  carefully  noted  down,  and  let  us  decide  that  they  are  telling  lies,  and  have  no  regard  as  to  what  the  judgment  of  future  ages  concerning  them  will  be.  Come,  then,  you  vain  and  deceitful  barbarians,  has  the  history  of  the  Greeks  likewise  spoken  falsely?  Who  is  ignorant  of  the  answer  (that  I  may  speak  at  present  of  natural  divination)  which  the  Pythian  Apollo  gave  to  Croesus,  to  the  Athenians,  the  Lacedaemonians,  the  Tegeans,  the  Argives,  and  the  Corinthians?  Chrysippus  has  collected  a  countless  list  of  oracles — not  one  without  a  witness  and  authority  of  sufficient  weight;  but  as  they  are  known  to  you,  I  will  pass  them  over.  This  one  I  will  mention  and  defend.  Would  that  oracle  at  Delphi  have  ever  been  so  celebrated  and  illustrious,  and  so  loaded  with  such  splendid  gifts  from  all  nations  and  kings,  if  all  ages  had  not  had  experience  of  the  truth  of  its  predic  tions  1  At  present,  you  will  say,  it  has  no  such  reputation.  Granted,  then,  that  it  has  a  lower  reputation  now,  because  the  truth  of  oracles  is  less  notorious;  still  I  affirm  that  it  would  not  have  had  such  a  reputation  then,  if  it  had  not  been  distinguished  for  extraordinary  accuracy.  But  it  is  possible  that  that  power  in  the  earth,  which  excited  the  mind  of  the  Pythian  priestess  by  divine  inspiration,  may  have disappeared  through  old  age,  just  as  we  know  that  some  rivers  have  dried  up,  or  become  changed  and  diverted  into  another  channel.  However,  let  it  be  owing  to  whatever  you  please;  for  it  is  a  great  question:  only  let  this  fact  remain  —which  cannot  be  denied,  unless  we  will  overthrow  all  his  tory—that  that  oracle  told  the  truth  for  many  ages. However,  let  us  pass  over  the  oracles;  let  us  come  to  dreams.  And  Chrysippus  discussing  them,  after  collecting  many  minute  instances,  does  the  same  that  Antipater  does  when  he  investigates  this  subject,  and  those  dreams  which  were  explained  according  to  the  interpretation  of  Antipho,  which  indeed  prove  the  acuteness  of  the  interpreter,  but  still  are  not  examples  of  such  importance  as  to  have  been  worthy  of  being  brought  forward.   The  mother  of  Dionysius— of  that  Dionysius,  I  mean,  who  was  the  tyrant  of  Syracuse,  as  it  is  recorded  by  Philistus,  a  man  of  learning  and  diligence,  and  who  was  a  contem  porary  of  the  tyrant— when  she  was  pregnant  with  this  very  Dionysius,  dreamt  that  she  had  become  the  mother  of  a  little  Satyr.  The  interpreters  of  prodigies,  who  at  that  time  were  in  Sicily  called  Galeotse,  gave  her  for  answer  when  she  con  sulted  them  about  it,  (according  to  the  story  told  by  Philistus,)  that  the  child  whom  she  was  about  to  bring  forth  would  be  the  most  illustrious  man  of  Greece,  with  very  lasting  good  fortune.  Am  I  recalling  you  to  the  fables  of  the  Greek  poets  and  those  of  our  country?  For  the  Vestal  Virgin,  in  Ennius,  says —   The  agitated  dame  with  trembling  limbs   Brings  in  a  lamp,  and  with  unbridled  tears,   Starting  from  broken  sleep,  pours  forth  these  words  :•   0  daughter  of  the  fair  Eurydice,   You  whom  rny  father  loved,  see  strength  and  life  Desert  my  limbs,  and  leave  me  helpless  all.   1  thought  I  saw  a  man  of  handsome  form   Seize  me,  and  bear  me  through  the  willow  groves,  Along  the  river  banks  and  places  yet  unknown.  And  then  alone, — T  tell  you  true,  my  sister, —  I  seem'd  to  wander,  and  with  tardy  steps  To  seek  to  trace  you,  but  my  efforts  fail'd;  While  no  clear  path  did  guide  my  doubtful  feet.  And  then,  I  thought,  my  father  thus  address'd  me,  With  evil-boding  voice  : — Alas  !  my  daughter,  What  numerous  woes  by  you  must  be  endured  ;  Though  fortune  shall  in  after  times  arise   From  out  of  the  waters  of  this  river  here.  Thus,  sister,  spake  my  father,  and  then  vanish'd  •  2STor,  though  much  wish'd  for,  did  he  once  return!  In  vain,  with  many  tears,  I  raised  my  hands  Up  to  the  azure  vault  of  the  highest  heaven,  And  with  caressing  voice  invoked  his  name,  Or  seem'd  to  do  so.     And  'twas  long  ere  sleep,  Freighted  with  such  sad  dreams,  did  quit  my  breast. Now  these  accounts,  though  they  perhaps  may  be  the  mere  inventions  of  the  poets,  still  are  not  inconsistent  with  the  general  character  of  dreams.     We  may  grant  that  that  is  a  fictitious  one  by  which  Priam  is  represented  to  have  been  disturbed  : —   Queen  Hecuba  dream'd — an  ominous  dream  of  fate-  That  she  did  bear  no  human  child  of  flesh,  But  a  fierce  blazing  torch.     Priam,  alarm'd,  Ponder'd  with  anxious  fear  the  fatal  dream  ;  And  sought  the  gods  with  smoking  sacrifice.  Then  the  diviner's  aid  he  did  entreat,  With  many  a  prayer  to  the  prophetic  god,  If  haply  he  might  learn  the  dream's  intent.  Thus  spake  Apollo  with  all-knowing  mind  :—  "  The  queen  shall  have  a  son,  who,  if  he  grow  To  man's  estate,  shall  set  ajl  Troy  in  flames—  The  ruin  of  his  city  and  his  land."   Let  us  grant,  then,  that  these  dreams  are,  as  I  have  said,  merely  poetic  fictions,  and  let  us  add  the  dream  of  ^Eneas,  which  Numerius  Fabius  Pictor  relates  in  his  Annals,  as  one  of  the  same  kind;  in  which  ^Eneas  is  represented  as  foreseeing,  in  his  trance,  all  his  future  exploits  and  adventures.  But  let  us  come  nearer  home.  What  kind  of  dream  was  that  of  Tarquin  the  Proud,  which  the  poet  Accius,  m  his  Tragedy  of  Brutus,  puts  into  the  mouth  of  Tarquin  himself? —   Sleep  closed  my  weary  eyelids,  when  a  shepherd  Brought  me  two  rams.     The  one  1  sacrificed;  The  other  rushing  at  me  with  wild  force  Hurl'd  me  upon  the  ground.     Prostrate  I  gazed  Upon  the  heavens,  when  a  new  prodigy  Dazzled  my  eyes.     The  flashing  orb  of  day  Took  a  new  course,  diverging  to  the  right,  With  all  his  kindling  beams  strangely  transversed.   Of  this  dream  the  diviners  gave  the  following  interpretation   Dreams  are  in  general  reflex  images  Of  things  that  men  in  waking  hours  have  known;  But  sometimes  dreams  of  loftier  character Rise  in  the  tranced  soul,  inspired  by  Jove,   Prophetic  of  the  future. Then  beware   Of  him,  whom  thou  dost  think  as  stupid  as   The  ram  thou  dreamest  of.     For  in  his  breast   Dwells  manliest  wisdom.     He  may  yet  expel   Thee  from  thy  kingdom.     Mark  the  prophecy  :   That  change  in  the  sun's  course  thou  didst  behold,   Betoken'd  revolution  in  the  state,   And  as  the  sun  did  turn  from  left  to  right,  we  predict   So  shall  that  revolution  meet  success.  Let  us  again  return  to  foreign  events.  Heraclides  of  Pontus,  an  intelligent  man,  who  was  one  of  Plato's  disciples  and  followers,  writes  that  the  mother  of  Phalaris  fancied  that  she  saw  in  a  drearn  the  statues  of  the  gods  whom  Phalaris  had  consecrated  in  his  house.  Among  them  it  appeared  to  her  that  Mercury  held  a  cup  in  his  right  hand,  from  which  he  poured  blood,  which  as  soon  as  it  touched  the  earth  gushed  forth  like  a  fresh  fountain,  and  filled  the  house  with  streaming  gore.  The  dream  of  the  mother  was  too  fatally  realized  by  the  cruelty  of  the  son.   Why  need  I  also  relate,  out  of  the  history  of  Persia  by  Dinon,  the  interpretations  which  the  Magi  gave  to  the  cele  brated  prince,  Cyrus?  For  he  dreamed  that  beholding  the  sun  at  his  feet,  he  thrice  endeavoured  to  grasp  it  in  his  hands,  but  the  sun  rolled  away  and  departed,  and  escaped  from  him.  The Magi  (who  were  accounted  sages  and  teachers  in  Persia)  thus  interpreted  the  dream,  saying,  that  the  three  attempts  of  Cyrus  to  catch  the  sun  in  his  hands,  signified  that  he  would  reign  thirty  years ;  and  what  they  predicted  really  came  to  pass ;  for  he  was  forty  years  old  when  he  began  to  reign,  and  he  reached  the  age  of  seventy.  Among  all  barbarous  nations,  indeed,  we  meet  with  proof  that  they  likewise  possess  the  gift  of  divination  and  presentiment.  The  Indian  Calanus,  when  led  to  execution,  said,  while  ascending  the  funeral  pile,  "  0  what  a  glorious  departure  from  life !  when,  as  happened  to  Hercules ,  after  niy  body  has  been  consumed  by  fire,  my  soul  shall  depart  to  a  world  of  light."  And  when  Alexander  asked  him  if  he  had  anything  to  say  to  him  ;  "  Yes,"  replied  he,  ".we  shall  soon  meet  again  ;"  and  this  prophecy  was  soon  fulfilled,  for  a  few  days  afterwards  Alexander  died  in  Babylon.'   I  will  quit  the  subject  of  dreams  for  awhile,  and  return  to  them  presently.  On  the  very  night  that  Olympias  was  delivered  of  Alexander,  the  temple  of  Diana  of  the  Ephesiaus  was  burned ;  and  when  the  morning  dawned,  the  Magi  declared  that  the  ruin  and  destroyer  of  Asia  had  been  born  that  night.  So  much  for  the  Magi  and  the  Indians.  Now  let  us  return  to  dreams.   Ccelius  relates  that  Hannibal,  wishing  to  remove  a  golden  column  from  the  temple  of  Juno  Lacinia,  and  not  knowing  whether  it  was  solid  gold  or  merely  gilt,  bored  a  hole  in  it ;  and  as  he  had  found  it  solid,  he  determined  to  take  it  away.  But  the  following  night  Juno  appeai-ed  to  him  in  a  dream,  and  warned  him  against  doing  so,  and  threatened  him  that  if  he  did,  she  would  take  care  that  he  should  lose  an  eye  with  which  he  could  see  well.  He  was  too  prudent  a  man  to  neglect  this  threat ;  and  therefore,  of  the  gold  which  had  been  abstracted  from  the  column  in  boring  it,  he  made  a  little  heifer,  which  he  fixed  on  the  capital.   And  the  same  story  is  told  in  the  Grecian  history  of  Silenus,  whom  Ccelius  follows.  And  he  was  an  author  who  was  particularly  diligent  in  relating  the  exploits  of  Hannibal.  He  says  that  when  Hannibal  had  taken  Saguntum,  he  dreamed  in  his  sleep  that  he  was  summoned  to  a  council  of  the  gods,  and  that  when  he  arrived  at  it,  Jupiter  commanded  him  to  carry  the  war  into  Italy,  and  one  of  the  deities  in  council  was  appointed  to  be  his  conductor  in  the  enterprise.  He  therefore  began  his  march  under  the  direction  of  this  divine  protector,  who  enjoined  him  not  to  look  behind  him .  Hannibal,  however,  could  not  long  keep  in  his  obedience,  but  yielded  to  a  great  desire  to  look  back,  when  he  immediately  beheld  a  huge  and  terrible  monster,  surrounded  with  ser  pents,  which,  wherever  it  advanced,  destroyed  all  the  trees,  and  shrubs,  and  buildings.  He  then,  marvelling  at  this,  inquired  of  the  god  what  this  monster  might  mean  ;  and  the  god  replied, that  it signified  the  desolation  of  Italy ;  and  com  manded  him  to  advance  without  delay,  and  not  to  concern  himself  with  the  evils  that  lay  behind  him  and  in  his  rear.   In  the  history  of  Agathocles  it  is  said,  that  Hamilcar  the  Carthaginian,  when  he  was  besieging  Syracuse,  dreamed  that  he  heard  a  voice  announcing  to  him,  that  he -should  sup  on  the  succeeding  day  in  Syracuse.  When  the  morning  dawned  a  great  sedition  arose  in  his  camp  between  the  Carthaginian  and  Sicilian  soldiers.  And  when  the  Syracusans  found  this out,  they  made  a  vigorous  sally  and  attacked  the  camp  un  expectedly,  and  succeeded  in  making  Hamilcar  prisoner  while  alive,  and  thus  his  dream  was  verified.  All  history  is  full  of  similar  accounts;  and  the  experience  of  real  life  is  equally  rich  in  them.   That  illustrious  man,  Publius  Decius,  the  son  of  Quintus  Decius,  the  first  of  the  Decii  who  was  a  consul,  being  a  military  tribune  in  the  consulship  of  Marcus  Valerius  and  Aulus  Cornelius,  when  our  army  was  sorely  pressed  by  the  Samnites,  and  being  accustomed  to  expose  himself  to  great  personal  danger  in  battle,  was  warned  to  take  greater  care  of  himself;  on  which  he  replied  (as  our  annals  report),  that  he  had  had  a  dream,  which  informed  him  that  he  should  die  with  the  greatest  glory,  while  engaged  in  the  midst  of  the  enemy.  For  that  time  he  succeeded  in  happily  rescuing  our  army  from  the  perils  that  surrounded  it.  But  three  years  after,  when  he  was  consul,  he  devoted  himself  to  death  for  his  country,  and  threw  himself  armed  among  the  ranks  of  the  Latins;  by  which gallant action the Latins were defeated and destroyed: and his death was so glorious that his son desired a similar fate.But let us now come, if you please, to the dreams of philosophers. We read  in  Plato  that  Socrates,  when  he  was  in  the  public  prison  at  Athens,  said  to  his  friend  Crito  that  he  should  die  in  three  day,  for  that  he  had  seen  in  a  dream  a  woman  of  extreme  beauty  who  called  him  by  his  name,  and  quoted  in  his  presence  this  verse  of  HomerOn  the  third  day  you'll  reach  the  fruitful  Phthia."  1  And  it  is  said  that  it  happened  just  as  it  had  been  foretold.   Again,  what  a  man,  and  how  great  a  man,  is  Xenophon  the  pupil  of  Socrates!  He,  too,  in  his  account  of  that  war  in  which  he  accompanied  the  younger  Cyrus,  relates  the  dreams  which  he  sawthe  accomplishment  of  which  was  marvellous.  Shall  we  then  say  that  Xenophon  was  a  liar  or  dotard  ?  What  shall  we  say,  too,  of  Aristotle,  a  man  of  singular  and  almost  divine  genius?  Was  he  deceived  himself,  or  does  he  wish  others  to  be  deceived,  when  he  informs  us  that  Eudemus  of  Cyprus,  his  own  intimate  friend,  on  his  way  to  Macedonia,  came  to  Pherae,  a  celebrated  city  of  Thessaly,   1  Horn.   :"Hfjari  Kfv  rpirdrca  $0ii)v  tpi$ta\ov  IKO(U.TIV.   which  was  then  under  the  cruel  sway  of  the  tyrant  Alexander.  In  that  town  he  was  seized  with  a  severe  illness,  so  that  he  was  given  over  by  all  the  physicians,  when  he  beheld  in  a  dream  a  young  man  of  extreme  beauty,  who  informed  him  that  in  a  short  time  he  should  recover,  and  also  the  tyrant  Alexander  would  die  in  a  few  days;  and  that  Eudemus  himself  would,  after  five  years'  absence,  at  length  return  home.  Aristotle  relates  that  the  first  two  predictions  of  this  dream  were  immediately  accomplished;  for  Eudemus  speedily  recovered,  and  the  tyrant  perished  at  the  hands  of  his  wife's  brother  ;  and  that  towards  the  end  of  the  fifth  year,  when,  in  consequence  of  that  dream,  there  was  a  hope  that  he  would  return  into  Cyprus  from  Sicily,  they  heard  that  he  had  been  slain  in  a  battle  near  Syracuse  ;  from  which  it  appeared  that  his  dream  was  susceptible  of  being  interpreted  as  meaning,  that  when  the  soul  of  Eudemus  had  quitted  his  body,  it  would  then  appear  to  have  signified  the  return  home.   To  the  philosophers  we  may  add  the  testimony  of  Scpho-  cles,  a  most  learned  man,  and  as  a  poet  quite  divine,  who,  when  a  golden  goblet  of  great  weight  had  been  stolen  from  the  temple  of  Hercules,  saw  in  a  dream  the  god  himself  appearing  to  him,  and  declaring  who  was  the  robber.  Sopho  cles  paid  no  attention  to  this  vision,  though  it  was  repeated  more  than  once.  When  it  had  presented  itself  to  him  several  times,  he  proceeded  up  to  the  court  of  Areopagus,  and  laid  the  matter  before  them.  On  this,  the  judges  issued  an  order  for  the  arrest  of  the  offender  nominated  by  Sophocles.  On  the  application  of  the  torture  the  criminal  confessed  his  guilt,  and  restored the goblet; from which event this temple of Hercules was afterwards called the temple of Hercules the Indicate. But why do I continue to cite the Greeks? when, somehow or other, I feel more interest in the examples of my ellowcountrymen. All our historians,the  Fabii,  the  Gellii,  and,  more  recently,  Ccelius,  bear  witness  to  similar  facts.  In  the  Latin  war,  when  they  first  celebrated  the  votive  games  in  honour  of  the  gods,  the  city  was  suddenly  roused  to  arms,  and  the  games  being  thus  interrupted,  it  was  necessary  to  appoint  new  ones Before their commencemen,however,  just  as  the  people  had  taken  their  places  in  the  circus,  a  slave  who  had  been  beaten  with  rods  was  led  through  the  circus,  bearing  a  gibbet.  After  this  event,  a  certain  Roman  rustic  had  a  dream,  in  which  an  apparition  informed  him  that  he  had  been  displeased  with  the  president  of  the  games,  and  the  rustic  was  ordered  to  apprise  the  senate  of  that  fact.  He,  however,  did  not  dare  to  do  so;  on  which  the  apparition  appeared  a  second  time,  and  warned  him  not  to  provoke  him  to  exert  his  power.  Even  then  he  could  not  summon  courage  to  obey,  and  presently  his  son  died.  After  this,  the  same  admonition was repeated in his dreams for the third time. Then the peasant himself became extremely ill, and related the cause of his trouble to his friends, by whose advice he was carried on a litter to the senatehouse;  and  as  soon  as  he  had  related  his  dreams  to  the  senate,  he  recovered  his  health  and  strength,  and  returned  home  on  foot  perfectly  cured.  Thereupon,  the  truth  of  his  dreams  being  admitted  by  the  senate,  it  is  related  that  these  games  were  repeated  a  second  time.   It  is  recorded  in  the  history  of  the  same  Crelius,  that  Caius  Gracchus  informed  many  persons  that  during  the  time  that  he  was  soliciting  the  qusestorship,  his  brother  Tiberius  Gracchus  appeared  to  him  in  a  dream,  and  said  to  him,  that  he  might  delay  as  much  as  he  pleased,  but  that  nevertheless  he  was  fated  to  die  by  the  same  death  which  e  himself  had  suffered.  Coclius  asserts  that  he  heard  this  fact,  and  related  it  to  many  persons,  before  Caius  Gracchus  had  become  tribune  of  the  people.  And  what  can  be  more  certain  than  such  a  dream  as  this  1 Who,  again,  can  despise  those  two  dreams,  which  are  so  frequently  dwelt  upon  by  the  Stoics?one  concerning  Simonides,  who,  having  found  the  dead  body  of  a  man  who  was  a  stranger  to  him  lying  in  the  road,  buried  it.  Having  performed  this  office,  he  was  about  to  embark  in  a  ship,  when  the  man  whom  he  had  buried  appeared  to  him  in  a  dream  at  night,  and  warned  him  not  to  undertake  the  voyage, for that if he did he would perish by shipwreck. Therefore, he returned home  again,  but  all  the  other  people  who  sailed  in  that vessel were lost. The other dream, which is a very celebrated one, is related in the following manner:Two  Arcadians,  who  were  in  timate  friends,  were  travelling  together,  and  arriving  at  Megara,  one  of  them  took  up  his  quarters  at  an  inn,  the  other  at  a  friend's  house.  After  supper,  when  they  had  both  gone  to  bed,  the  Arcadian,  who  was  staying  at  his  friend's  house,  saw  an  apparition  of  his  fellowtraveller  at  the  inn,  who  prayed  him  to  come  to  his  assistance  immediately,  as  the  innkeeper  was  going  to  murder  him.  Alarmed  at  this  intimation,  he  started  from  his  sleep;  but  on  recollection,  thinking  it  nothing  but  an  idle  dream,  he  lay  down  again.  Presently,  the  apparition  appeared  to  him  again  in  his  sleep,  and  entreated  him,  though  he  would  not  come  to  his  as  sistance  while  yet  alive,  at  least  not  to  leave  his  death  unavenged.  He  told  him  further,  that  the  innkeeper  had  first  murdered  him,  and  then  cast  him  into  a  dungcart,  where  he  lay  covered  with  filth;  and  begged  him  to  go  early  to  the  gate  of  the  town,  before  any  cart  could  leave  the  town.  Much  excited  by  this  second  vision,  he  went  early  next  morning  to  the  gate  of  the  town,  and  met  with  the  driver  of  the  cart,  and  asked  him  what  he  had  in  his  waggon.  The  driver,  upon  this  question,  ran  away  in  a  fright.  The  dead  body  was  then  discovered,  and  the  innkeeper,  the  evidence  being  clear  against  him,  was  brought  to  punishment. What  can  be  more  akin  to  divination  than  such  a  dream  as  this  ?   But  why  do  I  relate  any  more  ancient  instances  of  similar  things,  when  such  dreams  have  occurred  to  ourselves?  for  I  have  often  told  you  mine,  and  I  have  as  often  heard  you  talk  of  yours.   When  I  was  proconsul  in  Asia,  it  appeared  to  me  as  I  slept,  that  I  saw  you  riding  on  horseback  till  you  reached  the  banks  of  a  great  river,  and  that  you  were  suddenly  thrown  off  and  precipitated  into  the  waters,  and  so  disappeared.  At  this  I  trembled  exceedingly,  being  overcome  with  fear  and  apprehension.  But  suddenly  you  reappeared  before  me  with  a  joyful  countenance,  and,  with  the  same  horse,  ascended  the  opposite  bank,  and  then  we  embraced  each  other.  It  is  easy  to  conjecture  the  signification  of  such  a  dream  as  this;  and  hence  the  learned  inten  <reters  of  Asia  predicted  to  me  that  those  events  would  take  place  which  afterwards  did  come  to  pass.   I  now  come  to  your  own  dream,  which  I  have  sometimes  heard  from  yourself,  but  more  often  from  our  friend  Sallust.  He  used  to  say,  that  in  that  flight  and  exile  of  yours,  which  was  so  glorious  for  you,  so  calamitous  for  our  country,  you  stayed  awhile  in  a  certain  villa  of  the  territory  of  Atina,  when,  having  sat  up  a  great  part  of  the  night,  you  fell  into  a  deep  and  heavy  slumber  towards  the  morning.  And  from  this  slumber  your  attendants  would  not  awake  you,  as  you  had  given  orders  that  you  were  not  to  be  disturbed, though your journey was sufficiently urgent. When at length you awoke about the second hour of the day, you related to Sallust the following dream:That  it  had  seemed  to  you  that,  as  you  were  wandering  sorrowfully  through  some  solitary  district,  Caius  Marius  appeared  to  you  with  his  fasces  covered  with  laurel,  and  that  he  asked  you  why  you  were  afflicted.  And  when  you  informed  him  that  you  had  been  driven  from  your  country  by  the  violence  of  the  disaffected,  he  seized  your  right  hand,  and  urged  you  to  be  of  good  cheer,  and  ordered  the  lictor  nearest  to  him  to  lead  you  to  his  monument,  saying,  that  there  you  should  find  security.  Sallust  told  me,  that  upon  hearing  this  dream,  he  himself  exclaimed  at  once  that  your  return  would  be  speedy  and  glorious;  and  that  you  also  appeared  to  be  de  lighted  with  your  dream.  A  short  time  afterwards  I  was  informed,  as  you  well  know,  that  it  was  in  the  monument  of  Marius  that,  on  the  instance  of  that  excellent  and  famous  consul  Lentulus,  that  most  honourable  decree  of  the  senate  was  passed  for  your  recal,  which  was  applauded  with  shouts  of  incredible  exultation  in  a  very  full  assembly;  so  that,  as  you  yourself  observed,  no  dream  could  have  a  higher  character  of  divination  than  this  which  occurred  to  you  at  Atina. But  you  will  say  that  there  are  likewise  many  false  dreams.  No  doubt  there  are  some  which  are  perhaps  obscure  to  us;  but,  even  allow  that  there  are  some  which  are  actually false, what argument is that against those which are true ?of  which,  indeed,  there  would  be  a  great  many  more  if  we  went  to  bed  in  perfect  health;  but  as  it  is,  from  our  being  over  charged  with  wine  and  luxuries,  all  our  perceptions  become  troubled  and  confused.  Consider  what  Socrates,  in  the  Republic  of  Plato,  says  on  this  subject.   "  When,"  says  he,  "  that  part  of  the  soul  which  is  capable  of  intelligence  and  reason  is  subdued  and  reduced  to  languor, then that part in which there is a species  of  ferocity  and uncivilized  savageness  being  excited  by  immoderate  eating  and  drinking,  exults  in  our  sleep  and  wantons  about  unre  strainedly;  and  therefore  all  kinds  of  visions  present  them  selves  to  it,  such  as  are  destitute  of  all  sense  or  reason,  in  which  we  appear  to  be  giving  ourselves  up  to  incest  and  all  kinds  of  bestiality,  or  to  be  committing  bloody  murders,  and  massacres,  and  all  kinds  of  execrable  deeds,  with  a  triumphant  defiance  of  all  prudence  and  decency.  But  in  the  case  of  a  man  who  is  accustomed  to  a  sober  and  regular  life,  when  he  commits  himself  to  sleep,  then  that  part  of  his  soul  which  is  the  seat  of  intellect  and  reason  is  still  active  and  awake,  being  replenished  with  a  banquet  of  virtuous  thoughts;  and  that  portion  which is  nourished  by  pleasure,  is  neither  destroyed  by  exhaustion  nor  swollen  by  satiety,  either  of  which  is  accustomed  to  impair  the  vigour  of  the  soul,  whether  nature  is  deficient  in  anything,  or  super  abundant  or  overstocked;  and  that  third  division  also,  ill  which  the  vehemence  of  anger  is  situated,  is  lulled  and  restrained;  so,  consequently,  it  happens,  that  owing  to  the  due  regulation  of  the  two  more  violent  portions  of  the  soul,  the  third,  or  intellectual  part,  shines  forth  conspicuously,  and  is  fresh  and  active  for  the  admission  of  dreams;  and  therefore  the  visions  of  sleep  which  present  themselves  before  it  are  tranquil  and  true."  Such  are  the  very  words  of  Plato.  Shall  we,  then,  prefer  listening  to  the  doctrine  of  Epicurus  on  this  point  ?  As  for  Carneades,  he  sometimes  says  one  thing  and  sometimes  another,  from  his  mere  fondness  for  discussion.  And  yet,  what  are  the  sentiments  which  he  utters  ?  At  all  events,  they  are  never  expressed  either  with  elegance  or  propriety.  And  will  you  prefer  such  a  man  as  this  to  Plato  and  Socrates  1  men  who,  even  if  they  were  to  give  no  reason  for  their  tenets,  should,  by  the  mere  authority  of  their  names,  outweigh  these  minute  philosophers.   Plato  then  asserts  that  we  should  bring  our  bodies  into  such  a  disposition  before  we  go  to  sleep  as  to  leave  nothing  which  may  occasion  error  or  perturbation  in  our  dreams.  For  this  reason,  perhaps,  Pythagoras  laid  it  down  as  a  rule,  that  his  disciples  should  not  eat  beans,  because  this  food  is  very  flatulent,  and  contrary  to  that  tranquillity  of  mind  which  a  truthseeking  spirit  should  possess.  When,  therefore,  the  mind  is  thus  separated  from  the  society  and  contagion  of  the  body,  it  recollects  things  past,  examines  things  present,  and  anticipates  things  to  come.  For  the  body  of  one  who  is  asleep  lies  like  that  of  one  who  is  dead,  while the spirit is full of vitality  and  vigour.  And  it  will  be  yet  more  so  after  death,  when  it  will  have  got  rid  of  the  body  altogether;  and  therefore  we  _see  that  even  on  the  approach  of  death  it  becomes  much  more  divine.  For  it  often  happens  that  those  who  are  attacked  by  a  severe  and  mortal  malady,  foresee  that  their  death  is at  hand.  And  in  this  state  they  often  behold  ghosts  and  phantoms  of  the  dead.  Then  they  are  more  than  ever  anxious  about  their  reputations;  and  they  who  have  lived  otherwise  than  as  they  ought,  then  most  especially  repent  of  their  sins.   And  that  the  dying  are  often  possessed  of  the  gift  of  divi  nation,  Posidonius  confirms  by  that  notorious  example  of  a  certain  Rhodian  who,  being  on  his  deathbed,  named  six  of  his  contemporaries,  saying  which  of  them  would  die  first,  which  second,  which,  next  to  him,  and  so  on.   There  are,  he  imagines,  besides  this,  three  ways  in  which  men  dream  under  the  immediate  impulse  of  the  Gods  :  one,  when  the  mind  intuitively  perceives  things  by  the  relation  which  it  bears  to  the  Gods;  the  second,  arising  from  the  fact  of  the  air  being  full  of  immortal  spirits,  in  whom  all  the  signs  of  truth  are,  as  it  were,  stamped  and  visible;  the  third,  when  the  Gods  themselves converse with sleepers,and  that,  as  I  have  said  before,  takes  place  more  especially  at  the  approach  of  death,  enabling  the  minds  of  the  dying  to  anti  cipate  future  events.  An  instance  of  this  is  the  prediction  of  Calanus,  of  whom  I  have  already spoken. Another is that of Hector, in Homer,  who, when  dying  himself,  foretels  the  approaching  death  of  Achilles. If  there  were  no  such  thing  as  divination,  Plautus  would  not  have  been  so  much  applauded  for  the  following  line  : — My  mind presaged  (prcesagibat),  when  I  first  went  out,  That  I  was  going  on  a  fruitless  journey  : —  for the verb sagio means,  to  feel  shrewdly.  Hence  old  women  are  sometimes  called  sagce  (witches), because  they  are  ambi  tious  of  knowing  many  things;  and  dogs  are  called  sagacioiis.  Whoever,  therefore,  say  it  (knows)  before  the  event  has  come  to  pass,  is  said  prcesagire  (to  have  the  power  of  knowing  the  future  beforehand).   There  exists,  therefore,  in  the  mind  a  presentiment,  which  strikes  the  soul  from  without,  and  which  is  enclosed  in  the  soul  by  divine operation.  If  this  becomes  very  vivid,  it  is  termed  frenzy,  as  happens  when  the  soul,  being  abstracted  from  the  body,  is  stirred  up  by  a  divine  inspiration. What  sudden  transport  fires  my  virgin  soul !   Jly  mother,  oh,  my  mother  ! — dearest  name  Of  all  dear  names  !     But  oh,  my  breast  is  full  Of  divination  and  impending  fates,  While  dread  Apollo  with  his  mighty  impulse  Urges  me  onward.     Sisters,  my  sweet  sisters  !  I  grieve  to  anticipate  the  coming  fate  Of  our  most  royal  parents.     You  are  all  More  filial  and  more  dutiful  than  I.  I  only  am enjoin'd  this  cruel  task, To  utter  imminent  ruin.     You  do  serve  them;  I  injure  them ;  and  your  obedience  Shines  well,  set-off  by  my  disloyal  rage.1   0  what  a  tender,   moral,   and  delicate  poem !    though  the  beauty  of  it  does  not  affect  the  question.     What  I  wish  to  prove  is,  that  that  frenzy  often  predicts  what  is  true  and  real.   I  see  the  blazing  torch  of  Troy's  last  doom,  Fire,  and  massacre,  and  death.     Arm,  citizens  !  Bring  aid  and  quench  the  flames.   In  the  following  lines,  it  is  not  so  much  Cassandra  who  speaks,  as the  Deity  enclosed  in  human  form:Already  is  the  fleet  prepared  to  sail;  It  bears  destruction — rapidly  it  speeds:  A  dreadful  army  traverses  the  shores,  Destined  to  slaughter.   1  seem  to   be    doing  nothing  but   quoting  tragedies  and  fables. I  would  mention  a  story  I  have  heard  from  your  self,  and  that  not  an  imaginary,  but  a  real  circumstance,  and  closely  related  to  our  present  discussion.  Caius  Coponius,  a  skilful  general,  and  a  man  of  the  highest  character  for  learn  ing  and  wisdom,  who  commanded  the  fleet  of  the  Rhodians,  with  the  appointment  of  praetor,  came  to  you  at  Dyrrha-  chium,  and  informed,  you  that  a  certain  sailor  in  a  Khodiau  galley  had  predicted  that,  in  less  than  a  month,  Greece  would   1  This  is  a  quotation  from  Pacuvius's  play  of  Hercules ;  the  speaker  is  Cassandra. be  deluged  with  blood,  that  Dyrrhachium  would  be  pillaged,  and  that  the  people  would  flee  and  take  to  their  ships;  that,  looking  back  in  their  flight,  they  would  see  a  terrible  con  flagration.  He  added,  moreover,  that  the  fleet  of  the  lihodians  would  soon  return,  and  retire  to  Rhodes.  You  told  me  that  you  yourself  were  surprised  at  this  intelligence,  and  that  Marcus  Varro  and  Marcus  Cato,  both  men  of  great  learning,  who  were  with  you,  were  exceedingly  alarmed.  A  few  days  afterwards,  Labienus,  having  escaped  from  the  battle  of  Phar-  salia,  arrived  and  brought  an  account  of  the  defeat  of  the  army:  and  the  rest  of  the  prediction  was  soon  accomplished;  for  the  corn  was  dragged  out  of  the  granaries,  and  strewed  about  all  the  streets  and  alleys,  and  destroyed.  Yoxi  all  embarked  on  board  the  ships  in  haste  and  alarm;  and  at  night,  when  you  looked  back  towai-ds  the  town,  you  beheld  the  barges  on  fire,  which  were  burned  by  the  soldiers  because  they  would  not  follow.  At  last  you  were  deserted  by  the  fleet  of  the  Rhodians,  and  then  you  found  that  the  prophet  had  been  a  true  one.   I  have  explained  as  concisely  as  possible  the  fore  warnings  of  dreams  and  frenzy,  with  which  I  said  that  art  had  nothing  to  do;  for  both  these  kinds  of  prediction  arise  from  the  same  cause,  which  our  friend  Cratippus  adopts  as  the  true  explana  tion  —namely,  that  the  souls  of  men  are  partly  inspired  and  agitated  from  without.  By  which  he  meant  to  say,  that  there  is  in  the  exterior  world  a  sort  of  divine  soul,  whence  the  human  soul  is  derived;  and  that  that  portion  of  the  human  soul  which  is  the  fountain  of  sensation,  motion,  and  appetite,  is  not  separate  from  the  action  of  the  body;  but  that  portion  which  partakes  of  reason  and  intelligence  is  then  most  ener  getic,  when  it  is  most  completely  abstracted  from  the  body.   Therefore,  after  having  recounted  veritable  instances  of  presentiments  and  dreams,  Cratippus  used  to  sum  up  his  conclusions  in  this  manner:" If,"  he  would  say,  "the  exist  ence  of  the  eyes  is  necessary  to  the  existence  and  operation  of  the  function  of  sight,  though  the  eyes  may  not  be  always  exercising  that  function,  still  he  who  has  once  made  use  of  his  eyes  so  as  to  see  correctly,  is  possessed  of  eyes  capable  of  the  sensation  of  correct  sight:  just  so  if  the  function  and  gift  of  divination  cannot  exist  without  the  exercise  of  divination,  and  yet  a  man  who  has  this  gift  may  sometimes  err  in  its exercise,  and  not  foresee  correctly;  then  it  is  sufficient  to  prove  the  existence  of  divination,  that  some  event  should  have  been  once  so  correctly  divined  that  none  of  its  circum  stances  appear  to  have  happened  fortuitously.  And  as  a  multitude  of  such  events  have  occurred,  the  existence  of  divination  ought  not  to  be  doubted.But  as  to  those  divinations  which  are  explained  by  conjecture,  or  by  the  observation  of  events;  these,  as  I  have  said  before,  are  not  of  the  natural,  but  artificial  order;  in  which  artificial  class  are  the  haruspices,  and  augurs,  and  interpreters.  These  are  discredited  by  the  Peripatetics,  and  defended  by  the  Stoics.  Some  of  them  are  established  by  certain  monuments  and  systems,  as  is  evident  from  the  ritual  books  of  the  ancient  Etruscans  respecting  electrical  interpre  tation  of  the  omens  conveyed  by  the  entrails  of  victims  and  by  lightning,  and  by  our  own  books  on  the  discipline  of  the  augurs  Other  divinations  are  explained  at  once  by  con  jecture,  without  reference  to  any  written  authorities;  such  as  the  prophecy  of  Calchas  in  Homer,  who,  by  a  certain  num  ber  of  flying  sparrows,  predicted  the  number  of  years  which  would  be  occupied  in  the  siege  of  Troy;  and  as  an  event  which  we  read  recorded  in  the  history  of  Sylla,  which  hap  pened  under  your  own  eyes.  For  when  Sylla  was  in  the  territory  of  Nola,  and  was  sacrificing  in  front  of  his  tent,  a  serpent  suddenly  glided  out  from  beneath  the  altar;  and  when,  upon  this,  the  soothsayer  Posthumius  exhorted  him  to  give  orders  for  the  immediate  march  of  the  army,  Sylla  obeyed  the  injunction,  and  entirely  defeated  the  Samnites,  who  lay  before  Nola,  and  took  possession  of  their  richly-  provided  camp.   It  was  by  this  kind  of  conjectural  divination  that  the  fortune  of  the  tyrant  Dionysius  was  announced  a  little  before  the  commencement  of  his  reign;  for  when  he  was  travelling  through  the  territory  of  Leontini,  he  dismounted  and  drove  his  horse  into  a  river;  but  the  horse  was  carried  away  by  the  current,  and  Dionysius,  not  being  able  with  all  his  efforts  to  extricate  him,  departed,  as  Philistus  reports,  lamenting  his  loss.  Some  time  afterwards,  as  he  was  journeying  further  down  the  river,  he  suddenly  heard  a  neighing,  and  to  his  great  joy  found  his  horse  in  very  comfortable  condition,  with  a  swarm  of  bees  hanging  on  his  mane.  And  this  prodigy intimated  the  event  which  took  place  a  few  days  after  this,  when  Dionysius  was  called  to  the  throne.  Need  I  say  more  1     Ho\v  many  intimations  were  given  to  the  Lacedaemonians  a  short  time  before  the  disaster  of  Leuctra,  when  arms  rattled  in  the  temple  of  Hercules,  and  his  statue  streamed  with  profuse  sweat!     At  the  same  time,  at  Thebes  (as  Callisthenes  relates),  the  foldingdoors  in  the  temple  of  Hercules,  which  were  closed  with  bars,  opened  of  their  own  accord,  and  the  armour  which  was  suspended  on  the  walls  was  found  fallen  to  the  ground. And  at  the  same  period,  at  Lebadia,  where  divine  rites  were  being  performed  in  honour  of  Trophonius,  all  the  cocks  in  the  neighbourhood  began  to  crow  so  incessantly  as  never  to  leave  off  at  all;  and  the  Boeotian  augurs  affirmed  that  this  was  a  sign  of  victory  to  the  Thebans.  because  these  birds  crow  only  on  occasions  of  victory,  and  maintain  silence  in  case  of  defeat.   Many  other  signs,  at  this  time,  announced  to  the  Spartans  the  calamities  of  the  battle  of  Leuctra;  for,  at  Delphi,  on  the  head  of  the  statue  of  Lysander,  who  was  the  most  famous  of  the  Lacedaemonians,  there  suddenly  appeared  a  garland  of  wild  prickly  herbs.  And  the  golden  stars  which  the  Lacedae  monians  had  set  up  as  symbols  of  Castor  and  Pollux,  in  the  temple  of  Delphi,  after  the  famous  naval  victory  of  Lysander,  in  which  the  power  of  Athens  was  broken,  because  those  divinities  were  reported  to  have  appeared  in  the  Lacedaj-  monian  fleet  during  that  engagement,  fell  down,  and  were  seen  no  more.   And  the  greatest  of  all  the  prodigies  which  were  sent  as  warnings  to  those  same  Lacedaemonians,  happened  when  they  sent  to  consult  the  oracle  of  Jupiter  at  Dodona  on  the  success  of  the  combat;  and  when  the  ambassadors  had  cast  their  questions  into  the  urn  from  which  the  responses  were  to  be  drawn,  an  ape,  whom  the  king  of  Molossus  kept  as  a  pet,  dis  turbed  and  confounded  all  the  lots,  and  everything  else  which  had  been  prepared  for  the  purpose  of  giving  a  reply  in  due  form.  Upon  which  the  priestess  who  presided  at  the  oracular  rites,  declared  that  the  Lacedaemonians  must  rather  look  to  their  safety  than  expect  a  victory. Must  I  say  more  1    In  the  second  Punic  war,  when  Flaminius,  being  consul  for  the  second  time,  despised  the  signs  of  future  events,  did  he  not  by  such  conduct  occasion  great  disasters  to  the  state  ?  For  when,  after,  having  reviewed  the  troops,  he  was  moving  his  camp  towards  Arezzo,  and  leading  his  legions  against  Hannibal,  his  horse  suddenly  fell  with  him  before  the  statue  of  Jupiter  Stator,  without  any  apparent  cause.  But  though  those  who  were  skilful  in  divina  tion  declared  it  was  an  evident  sign  from  the  Gods  that  he  should  not  engage  in  battle,  he  paid  no  attention  to  it.  After  wards,  when  it  was  proposed  to  consult  the  auspices  by  the  consecrated  chickens,  the  augur  indicated  the  propriety  of  deferring  the  battle.  Flaminius  asked  him  what  was  to  be  done  the  next  day,  if  the  chickens  still  refused  to  feed  ?  He  replied  that  in  that  case  he  must  still  rest  quiet.  "  Fine  auspices,  indeed,"  replied  Flaminius, "  if  we  may  only  fight  when  the  chickens  are  hungry,  but  must  do  nothing  if  they  are  full."  And  so  he  commanded  the  standards  to  be  moved  forward,  and  the  army  to  follow  him;  on  which  occasion,  the  standard-bearer  of  the  first  battalion  could  not  extricate  his  standard  from  the  ground  in  which  it  was  pitched,  and  several  soldiers  who  endeavoured  to  assist  him  were  foiled  in  the  attempt.  Flaminius,  to  whom  they  related  this  incident,  despised  the  warning,  as  was  usual  with  him;  and  in  the  course  of  three  hours  from  that  time,  the  whole  of  his  army  was  routed,  and  he  himself  slain.   And  it  is  a  wonderful  story,  too,  that  is  told  by  Coelius,  as  having  happened  at  this  very  time,  that  such  great  earth  quakes  took  place  in  Liguria,  Gallia,  and  many  of  the  islands,  and  throughout  all  Italy,  that  many  cities  were  destrojred,  and  the  earth  was  broken  into  chasms  in  many  places,  and  rivers  rolled  backwards,  while  the  waters  of  the  sea  rushed  into  their  channels. Skilful  diviners  can  certainly  derive  correct  pre  sentiments  from  slight  circumstances.  When  Midas,  who  be  came  king  of  Phrygia,  was  yet  an  infant,  some  ants  crammed  some  grains  of  wheat  into  his  mouth  while  he  was  sleep  ing.  On  this  the  diviners  predicted  that  he  would  become  exceedingly  rich, as  indeed  afterwards  happened.  While  Plato  was  an  infant  in  his  cradle,  a  swarm  of  bees  settled  on  his  lips  during  his  slumbers;  and  the  diviners  answered  that  he would  become  extremely  eloquent;  and  this  prediction  of  his  future  eloquence  was  made  before  he  even  knew  how  to  speak.  Why  should  I  speak  of  your  dear  and  delightful  friend,  Roscius  1  Did  he  tell  lies  himself,  or  did  the  whole  city  of  Lanuvium  tell  lies  for  him  ?  When  he was in his cradle at Solonium,  where  he  was  being  brought  up,— (a  place  which  belongs  to  the  Lanuvian  territory.) the  story  goes,  that  one  night,  there  being  a  light  in  the  room,  his  nurse  arose  and  found  a  serpent  coiled  around  him,  and  in  her  alarm  at  this  sight  she  made  a  great  outcry.  The  father  of  Roscius  related  the  circumstance  to  the  soothsayers,  and  they  answered  that  the  child  would  become  preeminently  distinguished  and  illus  trious.  This  adventure  was  afterwards  engraved  by  Praxiteles  in  silver,  and  our  friend  Archias  celebrated  it  in  verse.   What,  then,  are  we  waiting  for  1  Are  we  to  wait  till  the  Gods  are  conversant  with  us  and  our  affairs,  while  we  are  in  the  forum,  and  on  our  journeys,  and  when  we  are  at  home?  yet  though  they  do  not  openly  discover  themselves  to  us,  they  diffuse  their  divine  influence  far  and  wide — an  influence  which  they  not  only  inclose  in  the  caverns  of  the  earth,  but  sometimes  extend  to  the  constitutions  of  men.  For  it  was  this  divine  influence  of  the  earth  which  inspired  the  Pythia  at  Delphi,  while  the  Sibyl  received  her  power  of  divination  from  nature.  Why  should  we  wonder  at  this  1  Do  we  not  see  how  various  are  the  species  and  specific  properties  of  earths  1  — of  which  some  parts  are  injurious,  as  the  earth  of  Amp-  sanctus  in  Hirpinum,  and  the  Plutonian  land  in  Asia:  and  some  portions of  the  soil  of  the  fields  are  pestilential,  others  salubrious;  some  spots  produce  acute  capacities,  others  heavy  characters.  All  which  things  depend  on  the  varieties  of  atmosphere,  and  are  inequalities  of  the  exhalations  of  the  different  soils.   It  likewise  often  happens  that  minds  are  affected  more  or  less  powerfully  by  certain  expressions  of  countenance,  and  certain  tones  of  voice  and  modulations, — often  also  by  fits  of  anxiety  and  terror — a  condition  indicated  in  these  lines  of  the  poet : —   Madden'd  in  heart,  and  weeping  like  as  one  By  the  mysterious  rites  of  Bacchus  wrought  Into  wild  ecstasy,  she  wanders  lone  Amid  the  tombs,  and  mourns  her  Teucer  lost. And  this  state  of  excitement  also  proves  that  there  is  a  divine  energy  in  human  souls.  And  so  Democritus asserts,  that  without  something  of  this  ecstasy  no  man  can  become  a  great  poet ;  and  Plato  utters  the  same  sentiment :  and  he  may  call  this  poetic  inspiration  an  ecstasy  or  madness  as  much  as  he  pleases,  so  long  as  he  eulogizes  it  as  eloquently  as  he  does  in  his  Phecdon.   What  is  your  art  of  oratory  in  pleading  causes  1  What  is  your  action  ?  Can  it  be  forcible,  commanding,  and  copious,  unless  your  mind  and  heart  are  in  some  degree  animated  by  a  kind  of  inspiration  1  I  have  often  beheld  in  yourself,  and,  to  descend  to  a  less  dignified  example,  even  in  your  friend  ufEsop,  such  fire  and  splendour  of  expression  and  action,  that  it  seemed  as  if  some  potent  inspiration  had  altogether  ab  stracted  him  from  all  present  sensation  and  thought.   Besides  this,  forms  often  come  across  us  which  have  no  real  existence,  but  which  nevertheless  have  a  distinct  appear  ance.  Such  an  apparition  is  said  to  have  occurred  to  Bren-  ims,  and  to  his  Gallic  troops,  when  he  was  waging  an  impious  war  upon  the  temple  of  Apollo  at  Delphi.  For  on  that  occa  sion  it  is  reported  that  the  Pythian  priestess  pronounced  these  words  :"I  and  the  white  virgins  will  provide  for  the  future."  In  accordance  with  which,  it  happened  that  the  Gauls  fancied  that  they  saw  white  virgins  bearing  arms  against  them,  and  that  their  entire  army  was  overwhelmed  in  the  snow.   Aristotle  thinks  that  those  who  become  ecstatic  or  furious  through  some  disease,  especially  melancholy  persons,  possess  a  divine  gift  of  presentiment  in  their  minds. But  I  know  not  whether  it  is  right  to  attribute  anything  of  this  kind  to  men  with  diseases  of  the  stomach,  or  to  persons  in  a  frenzy,  for  time  divination  rather appertains to  a  sound  mind  than  to a sick  body.   The  Stoics  attempt  to  prove  the  reality  of  divination  in  this  way: — If  there  are  Gods,  and  they  do  not  intimate  future  events  to  men,  they  either  do  not  love  men,  or  they  are  ignorant  of  the  future;  or  else  they  conceive  that  know  ledge  of  the  future  can  be  of  no  service  to  men;  or  they  con  ceive  that  it  does  not  become  their  majesty  to  condescend  to  intimate  beforehand  what  must  be  hereafter;  or  lastly,  we  must  say  that  even  the  Gods  themselves  cannot  tell  how  to  forewarn  us  of  them.   But  it  is  not  true  that  the  Gods  do  not  love  men,  for  they are  essentially  benevolent  and  philanthropic;  and  they  cannot  be  ignorant  of  those  events  which  take  place  by  their  own  direction  and  appointment.  Again,  it  cannot  be  a  matter  of  indifference  to  us  to  be  apprised  of  what  is  about  to  happen,  for  we  shall  become  more  cautious  if  we  do  know  such  things.  Nor  do  they  think  it  beneath  their  dignity  to  give  such  inti  mations,  for  nothing  is  more  excellent  than  beneficence.  And  lastly,  the  Gods  cannot  be  ignorant  of  future  events.  There  fore  there  are  no  Gods,  and  they  do  not  give  intimations  of  the  future.  But  there  are  Gods:  so  therefore  they  do  give  such  intimations;  and  if  they  do  give  such  intimations,  they  must  have  given  us  the  means  of  understanding  them,  or  else  they  would  give  their  information  to  no  purpose.  And  if  they  do  give  us  such  means,  divination  must  needs  exist;  therefore  divination  does  exist.  Such  is  the  argument  in  favour  of  divination  by  which  Chrysippus,  Diogenes,  and  Antipater  endeavour  to  demonstrate  their  side  of  the  question.  Why,  then,  should  any  doubt  be  entertained  that  the  arguments  that  I  have  advanced  are  entirely  true?  If  both  reason  and  fact  are  on  my  side,— if  whole  nations  and  peoples,  Greeks and barbarians,  and  our  own  ancestors  also,  confirm  all  my  assertions, — if  also  it  has  always  been  maintained  by  the  greatest  philosophers  and  poets,  and  by  the  wisest  legislators  who  have  framed  constitutions  and  founded  cities,  must  we  wait  till  the  very  animals  give  their  verdict?  and  may  not  we  be  content  with  the  unanimous  authority  of  all  mankind1?  Nor  indeed  is  any  other  argument  brought  forward  to  prove  that  all  these  kinds  of  divination  which  I  uphold  have  no  existe  nce,  than  that  it  appears  difficult  to  explain  what  are  the  different  principles  and  causes  of  each  kind  of  divination.  For  what  reason  can  the  soothsayer  allege  why  an  injury  in  the  lungs  of  otherwise  favourable  entrails  should  compel  us  to  alter  a  day  previously  appointed,  and  defer  au  enterprise?  How  can  an  augur  ex  plain  why  the  croak  of  a  raven  on  the  right  hand,  and  a  crow  on  the  left,  should  be  reckoned  a  good  omen?  What  can  an  astrologer  say  by  way  of  explaining  why  a  conjunction  of  the  planet  Jupiter  or  Venus  with  the  moon  is  propitious  at  the  birth  of  a  child,  and  why  the  conjunction  of  Saturn  or  Mars  is  injurious?  or  why  God  should  warn  us  during  sleep,  and  neglect  us  when  we  are  awake  ?  or  lastly,  what  is  the  reason why  the  frantic  Cassandra  could  foresee  future  events,  while  the  sage  Priam  remained  ignorant  of  them?   Do  you  ask  why  everything  takes  place  as  it  does?  Very  right;  but  that  is  not  the  question  now;  what  we  are  trying  to  find  out  is  whether  such  is  the  case  or  not.  As,  if  I  were  to  assert  that  the  magnet  is  a  kind  of  stone  which  attracts  and  draws  iron  to  itself,  but  were  unable  to  give  the  reason  why  that  is  the  case,  would  you  deny  the  fact  altogether  ?  And  you  treat  the  subject  of  divination  in  the  same  way,  though  we  see  it,  and  hear  of  it,  and  read  of  it,  and  have  received  it  as  a  tradition  from  our  ancestors.  Nor  did  the  world  in  general  ever  doubt  of  it  before  the  introduction  of  that  philosophy  which  has  recently  been  invented,  and  even  since  the  appearance  of  philosophy,  no  philosopher  who  was  of  any  authority  at  all  has  been  of  a  contrary  opinion.  I  have  already  quoted  in  its  favour  Pythagoras,  Democritus,  and  Socrates.  There  is  no  exception  but  Xenophanes  among  the  ancients.  I  have  likewise  added  the  old  Academicians,  the  Peripatetics,  and  the  Stoics:  all  supported  divination;  Epi  curus  alone  was  of  the  opposite  opinion.  But  what  can  be  more  shameless  than  such  a  man  as  he,  who  asserted  that  there  was  no  gratuitous  and  disinterested  virtue  in  the  world?   XL.  But  what  man  is  there  who  is  not  moved  by  the  testi  mony  and  declarations  of  antiquity?  Homer  writes  that  Cal-  chas  was  a  most  excellent  augur,  and  that  he  conducted  the  fleet  of  the  Greeks  to  Troy, — more,  I  imagine,  by  his  know  ledge  of  the  auspices  than  of  the  country.  Amphilochus  and  Mopsus  were  kings  of  the  Argives,  and  also  augurs,  and  built  the  Greek  cities  on  the  coast  of  Cilicia.  And  before  them  lived  Amphiaraus  and  Tiresias,  men of no lowly  rank  or  ob  scure  fame,  not  like  those  men  of  whom  Ennius  says —They  hire  out  their  prophecies  for  gold  :   no;  they  were  renowned  and  first  rate  men,  who  predicted  the  future  by  means  of  the  knowledge  which  they  derived  from  birds  and  omens;  and  Homer,  speaking  of  the  latter  even  in  the  infernal  regions,  says  that  he  alone  was  con  sistently  wise,  while  others  were  wandering  about  like  shadows.  As  to  Amphiaraus,  he  was  so  honoured  by  the  general  praise  of  all  Greece,  that  he  was  accounted  a  god,  and  oracles  were  established  at  the  spot  where  he  was  buried.   Why  need  I  speak  of  Priam  king  of  Asia?  had  not  he  two  children  possessed  of  this  gift  of  divination,  namely  a  son  named  Helenus,  and  a  daughter  named  Cassandra,  who  both  prophesied,  one  by  means  of  auspices,  the  other  through  an  excited  state  of  mind  and  divine  inspiration1?  of  which  de  scription  likewise  were  two  brothers  of  the  noble  family  of  the  Marcii,  who  are  recorded  as  having  lived  in  the  days  of  our  ancestors.  Does  not  Homer  inform  us,  too,  that  Polyidus  the  Corinthian  predicted  the  various  fates  of  many  persons,  and  the  death  of  his  son  when  he  was  going  to  the  siege  of  Troy?  And  as  a  general  rule,  among  the  ancients,  those  who  were  possessed  of  authority  \asually  also  possessed  the  know  ledge  of  auguries;  for,  as  they  thought  wisdom  a  regal  attri  bute,  so  also  did  they  esteem  divination.  And  of  this  our  state  of  Rome  is  an  instance,  in  which  several  of  our  kings  were  also  augurs,  and  afterwards  even  private  persons,  endued  with  the  same  sacerdotal  office,  ruled  the  commonwealth  by  the  authority  of  religion. And  this  kind  of  divination  has  not  been  neglected  even  by  barbarous  nations;  for  the  Druids  in  Gaul  are  diviners,  among  whom  I  myself  have  been  acquainted  with  Divitiacus  vEduus,  your  own  friend  and  panegyrist,  who  pretends  to  the  science  of  nature  which  the  Greeks  call  physiology,  and  who  asserts  that,  partly  by  auguries  and  partly  by  conjecture,  he  foresees  future  events.  Among  the  Persians  they  have  augurs  and  diviners,  called  magi,  who  at  certain  seasons  all  assemble  in  a  temple  for  mutual  conference  and  consultation;  as  your  college  also  used  once  to  do  on  the  nones  of  the  month.  And  no  man  can  become  a  king  of  Persia  who  is  not  previously  initiated  in  the  doctrine  of  the  magi.   There  are  even  whole  families  and  nations  devoted  to  divina  tion.  The  entire  city  of  Telmessus  in  Caria  is  such.  Likewise  in  Elis,  a  city  of  Peloponnesus,  there  are  two  families,  called  lamidse  and  ClutidoD,  distinguished  for  their  proficiency  in  divination.  And  in  Syria  the  Chaldeans  have  become  famous  for  their  astrological  predictions,  and  the  subtlety  of  their  genius.  Etruria  is  especially  famous  for  possessing  an  inti  mate  acquaintance  with  omens  connected  with  thunderbolts  and  things  of  that  kind,  and  the  art  of  explaining  the  signi  fication  of  prodigies  and  portents.  This  is  the  reason  why  our  ancestors,  during  the  flourishing  days  of  the  empire, enacted  that  six  of  the  children  of  the  principal  senators  should  be  sent,  one  to  each  of  the  Etrurian  tribes,  to  be  instructed  in  the  divination  of  the  Etrurians,  in  order  that  this  science  of  divination,  so  intimately  connected  with  reli  gion,  might  not,  owing  to  the  poverty  of  its  professors,  be  cultivated  for  merely  mercenary  motives,  and  falsified  by  bribery.   The  Phrygians,  the  Pisidians,  the  Cilicians,  and  Arabians  are  accustomed  to  regulate  many  of  their  affairs  by  the  omens  which  they  derive  from  birds.  And  the  Umbrians  do  the  same,  according  to  report.  It  appears  to  me  that  the  different  characteristics  of  divination  have  originated  in  the  nature  of  the  localities  themselves  in  which  they  have  been  cultivated.  For  as  the  Egyptians  and  Babylonians,  who  reside  in  vast  plains,  where  no  mountains  obstruct  their  view  of  the  entire  hemisphere,  have  applied  themselves  principally  to  that  kind  of  divination  called  astrology,  the  Etrurians,  on  the  other  hand,  because  they,  as  men  more  devoted  to  the  rites  of  religion,  were  used  to  sacrifice  victims  with  more  zeal  and  frequency,  have  espe  cially  applied  themselves  to  the  examination  of  the  entrails  of  animals;  and  as,  from  the  character  of  their  climate  and  the  denseness  of  their  atmosphere,  they  are  accustomed  to  witness  many  meteorological  phenomena,  and  because  for  the  same  reason  many  singular  prodigies  take  place  among  them,  arising  alike  from  heaven  or  from  earth,  and  even  from  the  concep  tions  or  offspring  of  men  or  cattle,  they  have  become  won  derfully  skilful  in  the  interpretation  of  such  curiosities,  the  force  of  which,  as  you  often  say,  is  clearly  declared  by  the  very  names  given  to  them  by  our  ancestors,  for  because  they  point  out  (ostendunt},  portend,  show  (monstrant),  and  predict,  they  are  called  ostents,  portents,  monsters,  and  prodigies.   Again,  the  Arabians,  the  Phrygians,  and  Cilicians,  because  they  rear  large  herds  of  cattle,  and,  both  in  summer  and  winter,  traverse  the  plains  and  mountainous  districts,  have  on  that  account  taken  especial  notice  of  the  songs  and  flight  of  birds.  The  Pisidians,  and  in  our  country  the  Umbrians,  have  applied  themselves  to  the  same  art  for  the  same  reason.  The  whole  nation  of  the  Carians,  and  most  especially  the  Telmessians,  who  reside  in  the  most  productive  and  fertile  plains,  in  which  the  exuberance  of  nature  gives  birth  to  many  extraordinary productions,  have  been  very  careful  in  the  observation  of  prodigies.  But  who  can  shut  his  eyes  to  the  fact  that  in  every  well  constituted  state  auspices,  and  other  kinds  of  divi  nation,  have  been  much  esteemed?  What  monarch  or  what  people  has  ever  neglected  to  make  use  of  them  in  the  trans  actions  of  peace,  and  still  more  especially  in  time  of  war,  when  the  safety  or  welfare  of  the  commonwealth  is  implicated  in  a  greater  degree?  I  do  not  speak  merely  of  our  own  countrymen, — who  have  never  undertaken  any  martial  enter  prise  without  inspection  of  the  entrails,  and  who  never  con  duct  the  affairs  of  the  city  without  consulting  the  auspices, —  I  rather  allude  to  foreign  nations.  The  Athenians,  for  ex  ample,  always  consulted  certain  divining  priests,  (whom  they  called  yaavrei?,)  when  they  convoked  their  public  assemblies.  The  Spartans  always  appointed  an  augur  as  the  assessor  of  their  king,  and  also  they  ordained  that  an  augur  should  be  present  at  the  council  of  their  Elders,  which  was  the  name  they  gave  to  their  public  council;  and  in  every  important  transaction  they  invariably  consulted  the  oracle  of  Apollo  at  Delphi,  or  that  of  Jupiter  Harnmon,  or  that  of  Dodona.  Lycurgus,  who  formed  the  Lacedaemonian  commonwealth,  desired  that  his  code  of  laws  should  receive  confirmation  from  the  authority  of  Apollo  at  Delphi;  and  when  Lysander  sought  to  change  them,  the  same  authority  forbade  his  innovations.  Moreovei',  the  Spartan  magistrates,  not  content  with  a  careful  superintendence  of  the  state  affairs,  went  occasionally  to  spend  a  night  in  the  temple  of  Pasiphae,  which  is  in  the  country  in  the  neighbourhood  of  their  city,  for  the  sake  of  dreaming  there,  because  they  considered  the  oracles  received  in  sleep  to  be  true.   But  I  return  to  the  divination  of  the  Eomans.  How  often  has  our  senate  enjoined  the  decemvirs  to  consult  the  books  of  the  Sibyls!  For  instance,  when  two  suns  had  been  seen,  or  when  three  moons  had  appeared,  and  when  flames  of  fire  were  noticed  in  the  sky;  or  on  that  other  occasion,  when  the  sun  was  beheld  in  the  night,  when  noises  were  heard  in  the  sky,  and  the  heaven  itself  seemed  to  burst  open,  and  strange  globes  were  remarked  in  it.  Again,  information  was  laid  before  the  senate,  that  a  portion  of  the  territory  of  Privernum  had  been  swallowed  up,  and  that  the  land  had  sunk  down  to an  incredible  depth,  and  that  Apulia  had  been  convulsed  by  terrific  earthquakes;  which  portentous  events  announced  to  the  Romans  terrible  wars  and  disastrous  seditions.  On  all  these  occasions  the  diviners  and  their  auspices  were  in  perfect  accordance  with  the  prophetic  verses  of  the  Sibyl.   Again,  when  the  statue  of  Apollo  at  Cuma  was  covered  with  a  miraculous  sweat,  and  that  of  Victory  was  found  in  the  same  condition  at  Capua,  and  when  the  hermaphrodite  was  born, — were  not  these  things  significant  of  horrible  dis  asters?  Or  again,  when  the  Tiber  was  discoloured  writh  blood,  or  when,  as  has  often  happened,  showers  of  stones,  or  sometimes  of  blood,  or  of  mud,  or  of  milk,  have  fallen, — when  the  thunder  bolt  fell  on  the  Centaur  of  the  Capitol,  and  struck  the  gates  of  Mount  Aventine,  and  slew  some  of  the  inhabitants;  or  again,  when  it  struck  the  temple  of  Castor  and  Pollux  at  Tusculum,  and  the  temple  of  Piety  at  Rome, — did  not  the  soothsayers  in  reply  announce  the  events  which  subsequently  took  place,  and  were  not  similar  predictions  found  in  the  Sibylline  volumes'?    How  often  has  the  senate  commanded  the  decemvirs  to  consult  the  Sibylline  books!  In  what  important  affairs,  and  how  often  has  it  not  been  guided  wholly  by  the  answers  of  the  soothsayers!  In  the  Marsic  war,  not  long  ago,  the  temple  of  Juno  the  Protectress  was  restored  by  the  senate,  which  was  excited  to  this  holy  act  by  a  dream  of  Csccilia,  the  daughter  of  Quintus  Metellus.  But  after  Sisenna,  who  men  tions  this  dream,  had  related  the  wonderful  correspondence  of  the  event  with  the  prediction,  he  nevertheless  (being  influ  enced,  I  suppose,  by  some  Epicurean)  proceeded  to  argue  that  dreams  should  never  be  trusted:  however,  he  states  nothing  against  the  credit  of  the  prodigies  wrhich  took  place,  and  which  he  reports,  at  the  beginning  of  the  Marsic  war1,  when  the  images  of  the  gods  were  seen  to  sweat,  and  blood  flowed  in  the  streams,  and  the  heavens  opened,  and  voices  were  heard  from  secret  places,  which  foretold  the  dangers  of  the  combat;  and  at  Lanuvium  the  sacred  bucklers  were  found  to  have  been  gnawed  by  mice,  which  appeared  to  the  augurs  the  worst  presage  of  all.   Shall  I  add  further  what  we  read  recorded  in  our  annals,  thnt  in  the  war  against  the  Veientes,  when  the  Alban  lake  had  risen  enormously,  one  of  their  most  distinguished  nobles came  over  to  us  and  said,  that  it  \vas  predicted  in  the  sacred  books  concerning  the  destinies  of  the  Veientes,  which  they  had  in  their  own  possession,  that  their  city  could  never  be  captured  while  the  lake  remained  full;  and  that  if,  when  the  lake  was  opened,  its  waters  were allowed  to  run  into  the  sea,  the  .Romans  would  suffer  loss, — if,  on  the  contrary,  they  were  so  drawn  off  that  they  did  not  reach  the  sea,  then  we  should  have  good  success?  And  from  this  circumstance  arose  the  series  of  immense  labours,  subsequently  undertaken  by  our  ancestors  in  conducting  away  the  waters  of  the  Alban  lake.  But  when  the  Veientes,  being  weary  of  war,  sent  ambassadors  to  the  Roman  senate,  one  of  them  exclaimed  that  that  de  serter  had  not  ventured  to  tell  them  all  he  knew,  for  that  in  those  same  sacred  books  it  was  predicted  that Rome  should  soon  be  ravaged  by  the  Gauls, — an  event  which  happened  six  years  after  the  city  of  Veii  surrendered. The  cry  of  the  fauns,  too,  has  often  been  heard  in  battle;  and  prophetic  voices  have  often  sounded  from  secret  places  in  periods  of  trouble ;  of  which,  among  others,  we  have  two  notable  examples, — for  shortly  before  the  capture  of  Rome  a  voice  was  heard  which  proceeded  from  the  grove  of  Vesta,  which  skirts  the  new  road  at  the  foot  of  the  Palatine  Hill,  exhorting  the  citizens  to  repair  the  walls  and  gates,  for  that  if  they  were  not  taken  care  of  the  city  would  be  taken.  The  injunction  was  neglected  till  it  was  too  late,  and  it  after  wards  was  awfully  confirmed  by  the  fact.  After  the  disaster  had  occurred,  our  citizens  erected  an  altar  to  Aius  the  Speaker,  which  we  may  still  see  carefully  fenced  round,  opposite  the  spot  where  the  warning  was  uttered.  Many  authors  have  reported  that  once,  after  a  great  earthquake  had  happened,  they  heard  a  voice  from  the  temple  of  Juno,  commanding  that  expiation  should  be  made  by  the  sacrifice  of  a  pregnant  sow,  and  hence  it  was  afterwards  called  the  temple  of  Juno  the  Admonitress.  Shall  we  then  despise  these  oracular  inti  mations,  which  the  Gods  themselves  vouchsafed  us,  and  which  our  ancestors  have  confirmed  by  their  testimony  ?   The  Pythagoreans  had  not  only  high  reverence  for  the  voice  of  the  Gods,  but  they  likewise  respected  the  warnings  of  men  (hominum),  which  they  call  omina.  And  our  ancestors  were  persuaded  that  much  virtue  resides  in  certain  words,  and  therefore  prefaced  their  various  enterprises  with  certain auspicious  phrases,  such  as,  "May  good  and  prosperous  and  happy  fortune  attend."  They  commenced  all  the  public  ceremonies  of  religion  with  these  words, — "  Keep  silence;  "  and  when  they  announced  any  holidays,  they  commanded  that  all  lawsuits  and  quarrels  should  be  suspended.  Likewise,  wheu  the  chief  who  forms  a  colony  makes  a  lustration  and  review  of  it,  or  when  a  general  musters  an  arm,  or  a  censor  the  people,  they  always  choose  those  who  have  lucky  names  to  prepare  the  sacrifices.  The  consuls  in  their  military  enrol  ments  likewise  take  care  that  the  first  soldier  enrolled  shall  be  one  with  a  fortunate  name;  and  you  know  that  you  your  self  were  very  attentive  to  these  ceremonial  observances  when  you  were  consul  and  imperator.  Our  ancestors  have  likewise  enjoined  that  the  name  of  the  tribe  which  had  the  precedence  should  be  regarded  as  the  presage  of  a  legitimate  assembly  of  the  Comitia.  And  of  presages  of  this  kind  I  can  relate  to  you  several  celebi'ated  examples.  Under  the  second  consulship  of  Lucius  Paulus,  when  the  charge  of  making  war  against  the  king  Perses  had  been  allotted  to  him,  it  happened  that  on  the  evening  of  that  very  same  day,  when  he  returned  home  and  kissed  his  little  daughter  Tertia,  he  noticed  that  she  was  very  sorrowful.  "  What  is  the  matter,  my  Tertia,"  said  he,  "  why  are  you  so  sad?"  "  My  father,"  replied  she,  "  Perses  has  perished."  Upon  which  he  caught  her  in  his  arms,  and  caressing  her,  exclaimed,  "  I  embrace  the  omen,  my  daughter."  But  the  real  truth  was,  that  her  dog,  who  happened  to  be  called  Perses,  had  died.   I  have  heard  Lucius  Flaccus,  a  priest  of  Mars,  say,  that  Csecilia,  the  daughter  of  Metellus,  intending  to  make  a  matri  monial  engagement  for  her  sister's  daughter,  went  to  a  certain  temple,  in  order  to  procure  an  omen,  according  to  the  ancient  custom.  Here  the  maiden  stood,  and  Ctecilia  sat  for  a  long  time  without  hearing  any  sound,  till  the  girl,  who  grew  tired  of  standing,  begged  her  aunt  to  allow  her  to  occupy  her  seat  for  a  short  period,  in  order  to  rest  herself.  Csecilia  replied,  "Yes,  my  child,  I  willingly  resign  my  seat  to  you."  And  this  reply  of  hers  was  an  omen,  confirmed  by  the  event,  for  Ceecilia  died  soon  after,  and  her  niece  married  her  aunt's  husband.  I  know  that  men  may  despise  such  stories,  or  even  laugh  at  them,  but  such  conduct  amounts  to  a  disbelief in the existence  of  the  Gods  themselves,  and  to  a  contempt  of  their  revealed  will. Why  need  I  speak  of  the  augurs  1 — that  part  of  the  qxiestion  concerns  you.  The  defence  of  the  auguries,  I  say,  belongs  peculiarly  to  you.  When  you  were  a  consul,  Publius  Claudius,  who  was  one  of  the  augurs,  announced  to  you,  when  the  augury  of  the  Goddess  Salus  was  doubted,  that  a  disas  trous  domestic  and  civil  war  would  take  place,  which  happened  a  few  months  afterwards,  but  was  suppressed  by  your  exer  tions  in  still  fewer  days.  And  I  highly  approve  of  this  augur,  who  alone  for  a  long  period  remained  constant  to  the  study  of  divination,  without  making  a  parade  of  his  auguries,  while  his  colleagues  and  yours  persisted  in  laughing  at  him,  sometimes  terming  him  an  augur  of  Pisidia  or  Sora  by  way  of  ridicule.   Those  who  assert  that  neither  auguries  nor  auspices  can  give  us  any  insight  into  or  foreknowledge  of  the  future,  say  that  they  are  mere  superstitious  practices,  wisely  invented  to  impose  on  the  ignorant;  which,  however,  is  far  from  being  the  case  :  for  our  pastoral  ancestors  under  Romulus  were  not,  nor  indeed  was  Romulus  himself,  so  crafty  and  cunning  as  to  in  vent  religious  impositions  for  the  purpose  of  deceiving  the  mul  titude.  But  the  difficulty  of  acquiring  a  thorough  knowledge  of  the  auspices  renders  many  who  are  indifferent  to  them  eloquent  in  their  disparagement,  for  they  would  rather  deny  that  there  is  anything  in  the  auspices  than  take  the  pains  of  studying  what  there  really  is.  What  can  be  more  divine  than  that  prediction,  which  you  cite  in  your  poem  of  Marius,  that  I  may  quote  your  owrn  authority  in  favour  of  my  argument? —   Jove's  eagle,  wounded  by  a  serpent's  bite,   In  his  strong  talons  caught  the  writhing  snake,   And  with  his  goring  beak  tortured  his  foe   And  slaked  his  vengeance  in  his  blood.     At  last   He  let,  the  venomous  reptile  from  on  high   Fall  in  the  whelming  flood,  then  wing'd  his  flight   To  the  far  east.     Marius  beheld,  and  mark'd   The  augury  divine,  and  inly  smiled   To  view  the  presage  of  his  coming  fame  ;   Meanwhile  the  thunder  sounded  on  the  left,   And  thus  confirm'd  the  omen.  Moreover,  the  augurial  system  of  Romulus  was a  pastoral  rather  than  a  civic  institution.  Nor  was  it  framed  to  suit  the  opinions  of  the  ignorant,  but  derived  from  men  of  approved  skill,  and  so  handed  down  to  posterity  by  tradition.  Therefore  Romulus  was  himself  an  augur  as  well  as  his  brother  Remus,  if  we  may  trust  the  authority  of  Ennius. Both  wish'd  to  reign,  arid  both  agreed  to  abide   The  fair  decision  of  the  augury   Here  Remus  sat  alone,  and  watch 'd  for  signs   Of  fav'ring  omen,  while  fair  Eomulus   On  the  Aventine  summit  raised  his  eyes   To  see  what  lofty  flying  birds  should  pass.   A  goodly  contest  which  should  rule,  and  which   With  his  own  name  should  stamp  the  future  city.   Now  like  spectators  in  the  circus,  till   The  consul's  signal  looses  from  the  goal   The  eager  chariots,  so  the  obedient  crowd   Awaited  the  strife's  victor  and  their  king.   The  golden  sun  departed  into  night,   And  the  pale  moon  shone  with  reflected  ray,   When on  the  left  a  joyful  bird  appear'd,   And  golden  Sol  brought  back  the  radiant  day.   Twelve  holy  forms  of  Jove-directed  birds   Wing'd  their  propitious  flight.     Great  Romulus   The  omen  hail'd,  for  now  to  him  was  given   The  power  to  found  and  name  th"  eternal  city.   Now,  however,  let  us  return  to  the  original  point  from  which  we  have  been  digressing.  Though  I  cannot  give  you  a  reason  for  all  these  separate  facts,  and  can  only  distinctly  assert  that  those  things  which  I  have  spoken  of  did  really  happen,  yet  have  I  not  sufficiently  answered  Epicurus  and  Carneades  by  proving  the  facts  themselves'?  Why  may  I  not  admit,  that  though  it  may  be  easy  to  find  principles  on  which  to  explain  artificial  presages,  the  subject  of  divine  intimations  is  more  obscure?  for  the  presages  which  we  deduce  from  an  examination  of  a  victim's  entrailsfrom  thunder  and  lightning,  from  prodigies,  and  from  the  stars,  are  founded  on  the  accurate  observation  of  many  centuries.  Now  it  is  certain,  that  a  long  course  of  careful  observation,  thus  carefully  conducted  for  a  series  of  ages,  usually  brings with  it  an  incredible  accuracy  of  knowledge;  and  this  can  exist  even  without  the  inspiration  of  the  Gods,  when  it  has  been  once  ascertained  by  constant  obser  vation  what  follows  after  each  omen,  and  what  is  indicated  by  each  prodigy.   The  other  kind  of  divination  is  natural,  as  I  have  said before,  and  may  by  physical  subtlety  of  reasoning  appeal-  referable  to  the  nature  of  the  Gods,  from  which,  as  the  wisest  men  acknowledge,  we  derive  and  enjoy  the  energies  of  our  souls;  and  as  everything  is  filled  and  pervaded  by  a  divine  intelligence  and  eternal  sense,  it  follows  of  necessity  that  the  soul  of  man  must  be  influenced  by  its  kindred  wTith  the  soul  of  the  Deity.  But  when  we  are  not  asleep,  our  faculties  are  employed  on  the  necessary  affairs  of  life,  and  so  are  hindered  from  communication  with  the  Deity  by  the  bondage  of  the  body.   There  are,  however,  a  small  number  of  persons,  who,  as  it  were,  detach  their  souls  from  the  body,  and  addict  themselves,  with  the  utmost  anxiety  and  diligence,  to  the  study  of  the  nature  of  the  Gods.  The  presentiments  of  men  like  these  are  derived  not  from  divine  inspiration,  but  from  human  reason ;  for  from  a  contemplation  of  nature,  they  anticipate  things  to  come, — as  deluges  of  water,  and  the  future  deflagration,  at  some  time  or  other,  of  heaven  and  earth.   There  are  others  who,  being  concerned  in  the  government  of  states,  as  we  have  heard  of  the  Athenian  Solon,  foresee  the  rise  of  new  tyrannies.  Such  we  usually  term  prudent  men ;  like  Thales  the  Milesian,  who,  wishing  to  convict  his  slanderers,  and  to  show  that  even  a  philosopher  could  make  money,  if  he  should  be  so  inclined,  bought  up  all  the  olive-trees  in  Miletus  before  they  were  in  flower;  for  he  had  probably,  by  some  knowledge  of  his  own,  calculated  that  there  would  be  a  heavy  crop  of  olives.  And  Thales  is  said  to  have  been  the  first  man  by  whom  an  eclipse  of  the  sun  was  ever  predicted,  which  happened  under  the  reign  of  Astyages.   L.  Physicians,  pilots,  and  husbandmen  have  likewise  pre  sentiments  of  many  events :  but  I  do  not  choose  to  call  this  divination ;  as  neither  do  I  call  that  warning  which  was  given  by  the  natural  philosopher  Anaximander  to  the  Lacedae  monians,  when  he  forewarned  them  to  quit  their  city  and  their  homes,  and  to  spend  the  whole  night  in  arms  on  the  plain,  because  he  foresaw  the  approach  of  a  great  earthquake,  which  took  place  that  very  night,  and  demolished  the  whole  town;  and  even  the  lower  part  of  Mount  Taygetus  was  torn  away    from  the  rest,  like  the  stern  of  a  ship  might  be.  In  the  same  way,  it  is  not  so  much  as  a  diviner,  as  a  natural  philosopher  that  we  should  esteem  Pherecydes,  the  master  of  Pythagoras who,  when  he  beheld  the  water  exhausted  in  a  running  spring,  predicted  that  an  earthquake  was  nigh  at  hand.   The  mind  of  man,  however,  never  exerts  the  power  of  natural  divination,  unless  when  it  is  so  free  and  disengaged  as  to  be  wholly  disentangled  from  the  body,  as  happens  ia  the  case  of  prophets  and  sleepers.   Therefore,  as  I  have  said  before,  Diceearchus  and  our  friend  Cratippus  approve  of  these  two  sorts  of  divination,  as  long  as  it  is  understood  that,  inasmuch  as  they  proceed  from  nature,  though  they  may  be  the  highest,  they  are  not  the  only  kind.  But  if  they  deny  that  there  is  any  force  in  observation,  then  by  such  denial  they  exclude  many  things  which  are  connected  with  the  common  experience  and  institutions  of  mankind.  However,  since  they  grant  us  some,  and  those  not  insignifi  cant  things,  namely,  prophecies  and  dreams,  there  is  no  reason  why  we  should  consider  these  as  very  formidable  antagonists,  especially  when  there  are  some  who  deny  the  existence  of  divination  altogether.   Those,  therefore,  whose  minds,  as  it  were,  despising  their  bodies,  fly  forth,  and  wander  freely  through  the  universe,  being  inspired  and  influenced  by  a  certain  divine  ardour,  doubtless  perceive  those  things  which  those  who  prophecy  predict.  And  spirits  like  these  are  excited  by  many  influ  ences  that  have  no  connexion  with  the  body,  as  those  which  are  excited  by  certain  intonations  of  voice,  and  by  Phrygian  melodies,  or  by  the  silence  of  groves  and  forests,  or  the  murmur  of  torrents,  or  the  roar  of  the  sea.  Such  are  the  minds  which  are  susceptible  of  ecstasies,  and  which  long  beforehand  foresee  the  events  of  futurity;  to  which  the  following  lines  refer: —   Ah,  see  you  not  the  vengeance  apt  to  come,  Because  a  mortal  has  presumed  to  judge  Between  three  rival  goddesses'? — he's  doom'd  To  fall  a  victim  to  the  Spartan  dame,  More  dreadful  than  all  furies.   Many  things  have  in  the  same  way  been  predicted  by  pro  phets,  and  not  only  in  ordinary  language,  but  also   In  verses  which  the  fauns  of  olden  times   And  white-hair'd  prophets  chanted.   It  was  thus  that  the  diviners;  Marcius  and  Publicius,  are  said  to  have  sung  their  predictions.  The  mysterious  responses  of  Apollo  were  of  the  same  nature.  I  believe  also  that  there  were  certain  exhalations  of  certain  earths,  by  which  gifted minds  were  inspired  to  utter  oracles.     These,  then,  are   the  views  which  we  must  entertain  of  prophets. Divinations  by  dreams  are  of  a  similar  order,  because  presentiments  which  happen  to  diviners  when  awake,  happen  to  ourselves  during  sleep.  For  in  sleep  the  soul  is  vigorous,  and  free  from  the  senses,  and  the  obstruction  of  the  cares  of  the  body,  which  lies  prostrate  and  deathlike;  and,  since  the  soul  has  lived  from  all  eternity,  and  is  engaged  with  spirits  innumerable,  it  therefore  beholds  all  things  in  the  universe,  if  it  only  preserves  a  watchful  attitude,  unencumbered  by  excess  of  food  or  drinking,  so  that  the  mind  is  awake  during  the  slumber  of  the  body,  — this  is  the  divination  of  dreamers.   Here,  then,  comes  in  an  important,  and  far  from  natural,  but  a  very  artificial  interpretation  of  dreams  by  Antiphon  :  and  he  interprets  oracles  and  prophecies  in  the  same  way;  for  there  are  explainers  of  these  things  just  as  grammarians  are  expounders  of  poets.  For,  as  it  would  have  been  in  vain  for  nature  to  have  produced  gold,  silver,  iron,  and  copper,  if  she  had  not  taught  us  the  means  of  extracting  them  from  her  bosom  for  our  use  and  benefit;  and  as  it  would  have  been  in  vain  for  her  to  have  bestowed  seeds  and  fruits  upon  men,  if  she  had  not  taught  them  to  distinguish  and  cultivate  them,  — for  what  use  would  any  materials  whatsoever  be  to  us,  if  we  had  no  means  of  working  them  up? —thus  with  every  useful  thing  which  the  Gods  have  bestowed  on  us,  they  have  vouchsafed  us  the  sagacity  by  which  its  utility  may  be  appre  ciated  ;  and  so,  because  in  dreams,  oracles,  and  prophecies  there  are  many  things  necessarily  obscure  and  ambiguous,  some  have  received  the  gift  of  interpretation  of  them.   But  by  what  means  prophets  and  sleepers  behold  those  things,  which  do  not  at  the  time  exist  in  sensible  reality,  is  a  great  question.  But  when  we  have  once  cleared  up  those  points  which  ought  to  be  investigated  first,  then  the  other  subjects  of  our  examination  will  be  easier.  For  the  discussion  about  the  Nature  of  the  Gods,  which  you  have  so  clearly  ex  plained  in  your  second  book  on  that  subject,  embraces  the  whole  question;  for  if  we  grant  that  there  are  Gods,  and  that  their  providence  governs  the  universe,  and  that  they  consult  for  the  best  management  of  all  human  affairs,  and  that  not  only  in  general,  but  in  particular, — if  we  grant  this,  which  indeed  appears  to  me  to  be  undeniable,  then  we  must  hold  it as  a  necessary  consequence  that  these  Gods  have  bestowed  on  men  the  signs  and  indications  of  futurity.   The  mode,  however,  by  which  the  Gods  endue  us  with  the  gift  and  power  of  divination  requires  some  notice.  The  Porch  will  not  allow  that  the  Deity  can  be  in  terested  in  each  cleft  in  entrails,  or  in  the  chirping  of  birds.  They  affirm  that  such  interference  is  altogether  indecorous—  unworthy  of  the  majesty  of  the  Gods,  and  an  incredible  im  possibility.  They  maintain  that  from  the  beginning  of  the  world  it  has  been  ordained  that  certain  signs  must  needs  precede  certain  events,  some  of  which  are  drawn  from  the  entrails  of  animals,  some  from  the  note  and  flight  of  birds,  some  from  the  sight  of  lightning,  some  from  prodigies,  some  from  stars,  some  from  visions  of  dreamers,  and  some  from  exclamations  of  men  in  frenzy:  and  those  who  have  a  clear  perception  of  these  things  are  not  often  deceived.  Bad  con  jectures  and  incorrect  interpretations  are  false,  not  because  of  any  imposture  in  the  signs  themselves,  but  because  of  the  ignorance  of  their  expounders.   It  being,  therefore,  granted  and  conceded  that  there  exists  a  certain  divine  energy,  by  which  human  life  is  supported  and  surrounded,  it  is  not  hard  to  conceive  how  all  that  hap  pens  to  men  may  happen  by  the  direction  of  heaven;  for  this  divine  and  sentient  energy,  which  expands  throughout  the  universe,  may  select  a  victim  for  sacrifice,  and  may,  by  exterior  agency,  effect  any  change  in  the  condition  of  its  entrails  at  the  period  of  its  immolation:  so  that  any  given  characteristic  may  be  found  excessive  or  defective  in  the  animal's  body.  For  by  very  trifling  exertions  nature  can  alter,  or  new-model,  or  diminish  many  things.  And  the  prodigies  which  happened  a  little  before  Caesar's  death  are  of  great  weight  in  preventing  iis  from  doubting  this, — when  on  that  very  day  on  which  he  first  sat  on  the  golden  throne  and  went  forth  clad  in  a  purple  robe,  when  he  was  sacrificing,  no  heart  was  found  in  the  intestines  of  the  fat  ox.  Do  you  then  suppose  that  any  warm-blooded  animal,  unless  by  divine  interference,  can  live  an  instant  without  a  heart  1  He  was  himself  surprised  at  the  novelty  of  the  phenomenon  ;  on  which  Spuriuna  observed  that  he  had  reason  to  fear  that  he  would  lose  both  sense  and  life,  since  both  of  these  proceed  from  the  heart.  The  next  day  the  liver  of  the  victim  was found  defective  in  the  upper  extremity.  Doubtless  the  im  mortal  Gods  vouchsafed  Ceesar  these  signs  to  apprize  him  of  his  approaching  death,  though  not  to  enable  him  to  guard  against  it.   When,  therefore,  we  cannot  discover  in  the  entrails  of  the  victim  those  organs  without  which  the  animal  cannot  live,  we  must  necessarily  suppose  that  they  have  been  annihilated  by  a  superintending  Providence  at  the  very  instant  that  the  sacrifice  is  offered.   LI II.  And  the  same  divine  influence  may  likewise  be  the  cause  why  birds  fly  in  different  directions  on  different  occa  sions,  why  they  hide  themselves  sometimes  in  one  place  and  sometimes  in  anothei',  and  why  they  sing  on  the  right  hand  or  on  the  left.  For  if  every  animal  according  to  its  own  will  can  direct  the  motions  of  its  body,  so  as  to  stoop,  to  look  on  one  side,  or  to  look  up,  and  can  bend,  twist,  contract,  or  extend  its  limbs  as  it  pleases,  and  does  those  things  almost  before  think  ing  of  doing  them,  how  much  more  easy  is  it  for  a  God  to  do  so,  whose  deity  governs  and  regulates  all  things.   It  is  the  Deity,  too,  which  presents  various  signs  to  us,  many  of  which  history  has  recorded  for  us;  as  for  instance,  we  find  it  stated  that  if  the  moon  was  eclipsed  a  little  before  sunrise  in  the  sign  of  Leo,  it  was  a  sign  that  Darius  should  be  slain  and  the  Persians  be  defeated  by  Alexander  and  the  Macedonians.  And  if  a  girl  was  born  with  two  heads,  it  was  a  sign  that  there  was  to  be  a  sedition  among  the  people  and  corruption  and  adultery  at  home.  If  a  woman  should  dream  that  she  was  delivered  of  a  lion,  the  country  in  which  such  an  occurrence  took  place  would  soon  be  subjected  to  foreign  domination.  Of  the  same  kind  is  the  fact  mentioned  by  Herodotus,  that  the  son  of  Croesus  spoke,  though  the  gift  of  speech  was  by  nature  denied  him;  which  prodigy  was  au  indication  that  his  father's  kingdom  and  family  would  be  utterly  destroyed.  And  all  our  histories  relate  that  the  head  of  Servius  Tullius  while  sleeping  appeared  to  be  on  fire,  which  was  a  sign  of  the  extraordinary  events  which  followed.   As,  therefore,  a  man  who  falls  asleep  while  his  mind  is  full  of  pure  meditations,  and  all  circumstances  around  him  adapted  to  tranquillity,  will  experience  in  his  dreams  true  and  certain  presentiments;  so  also  the  chaste  and  pure  mind  of  a  waking  man  is  better  suited  to  the  observation  of  the  course  of  the  stars,  or  the  flight  of  birds,  and  the  intima  tions  of  the  truth  to  be  collected  from  entrails.  And  connected  with  this  principle  is  the  tradition  which  we  have  received  concerning  Socrates,  which  is  often  affirmed  by  himself  in  the  books  of  his  disciples— that  he  possessed  a  certain  divinity,  which  he  called  a  demon,  and  to  which  he  was  always  obedient, — a  genius  which  never  com  pelled  him  to  action,  but  often  deterred  him  from  it.  The  same  Socrates  (and  where  can  we  find  a  better  authority  ?)  being  consulted  by  Xenophon,  whether  he  should  follow  Cyrus  to  the  wars,  gave  him  his  counsel,  and  then  added  these  words, —"  The  advice  I  give  you  is  merely  human  :  in  such  obscure  and  uncertain  cases,  it  is  best  to  consult  the  oracle  of  Apollo,  to  whom  the  Athenians  have  always  pub  licly  appealed  in  questions  of  importance."   It  is  likewise  written  of  Socrates,  that  having  once  seen  his  friend  Crito  with  his  eye  bandaged,  and  having  asked  him  what  was  the  matter  with  it,  he  received  for  answer,  that  as  he  was  walking  in  the  fields,  a  branch  of  a  tree  he  had  attempted  to  bend  sprang  back,  and  hit  him  in  the  eye.  Upon  this,  Socrates  replied,  "  This  is  the  consequence  of  your  not  having  obeyed  me  when  I  recalled  you,  following  the  divine  presentiment,  according  to  my  custom."   Another  remarkable  story  is  told  of  Socrates.  After  the  battle  in  which  the  Athenians  were  defeated  at  Delium,  under  the  command  of  Laches,  he  was  obliged  to  fly  with  that  unfortunate  general.  At  length  reaching  a  spot  where  three  ways  met,  he  refused  to  pursue  the  same  track  as  the  rest.  When  they  inquired  the  cause  of  his  behaviour,  he  said  that  he  was  restrained  by  a  God.  The  others,  who  left  Socrates,  fell  in  with  the  enemy's  cavalry.   Antipater  has  collected  many  other  instances  of  the  admi  rable  divination  of  Socrates,  which  I  omit,  for  they  are  quite  familiar  to  you,  and  I  need  not  further  enumerate  them.  I  cannot,  however,  avoid  mentioning  one  fact  in  the  history  of  this  philosopher,  which  strikes  me  as  magnificent,  and  almost  divine  ; — namely,  that  when  he  had  been  condemned  by  the  sentence  of  impious  men,  he  said,  he  was  prepared  to  die  with  the  most  perfect  equanimity;  because  the  God  within  him  had  not  suffered  him  to  be  afflicted  with  any  idea  of   o2  impending  evil,  either  when  he  left  his  home,  or  when  he  appeared  before  the  court. I  think,  therefore,  that  true  divination  exists,  although  those  men  are  often  deceived  who  appear  to  proceed  on  con  jecture,  or  on  artificial  rule?.  For  men  are  fallible  in  all  arts,  and  we  cannot  suppose  tliey  are  infallible  here.  It  may  happen  that  some  sign,  which  has  an  ambiguous  signification,  is  received  in  a  certain  one.  It  may  happen  that  some  par  ticular  has  escaped  the  notice  of  the  inquirer,  or  is  purposely  concealed  by  him,  because  opposed  to  his  interest.   I  should,  however,  consider  my  plea  for  divination  suffi  ciently  established,  if  only  a  few  well-authenticated  cases  of  presentiment  and  prophecies  could  be  discovered;  whereas,  in  truth,  there  are  many.  I  will  even  declare  without  hesi  tation,  that  a  single  instance  of  presage  and  prediction,  all  the  points  of  which  are  borne  out  by  subsequent  events—  and  that  definitely  and  regularly,  not  casually  and  fortuitously  — would  suffice  to  compel  an  admission  of  the  reality  of  divi  nation  from  all  reasonable  minds.   It  appears  to  me,  moreover,  that  we  should  refer  all  the  virtue  and  power  of  divination  to  the  Divinity,  as  Posi-  donius  has  done,  as  before  observed;  in  the  next  place  to  Fate,  and  afterwards  to  the  nature  of  things.  For  reason  compels  us  to  admit  that  by  Fate  all  things  take  place.  By  Fate  I  mean  that  which  the  Greeks  call  ei/mp^e'i'^,  that  is,  a  certain  order  and  series  of  causes — for  cause  linked  to  caiise  produces  all  things :  and  in  this  connexion  of  cause  consists  the  constant  truth  which  flows  through  all  eternity.  From  whence  it  follows  that  nothing  happens  which  is  not  pre  destined  to  happen;  and  in  the  same  way  nothing  is  predes  tined  to  happen,  the  nature  of  which  does  not  contain  the  efficient  causes  of  its  happening.   From  which  it  must  be  understood  that  fate  is  not  a  mere  superstitious  imagination,  but  is  what  is  called,  in  the  lan  guage  of  natural  philosophy,  the  eternal  cause  of  things;  the  cause  why  past  things  have  happened,  why  present  things  do  happen,  and  why  future  things  will  happen.  And  thus  we  are  taught  by  exact  observation,  what  consequences  are  usually  produced,  by  what  causes,  though  not  invariably..  And  thus  the  causes  of  future  events  may  truly  be  discerned  by  those  who  behold  them  in  states  of  ecstasy  or  quiet.  Since,  then,  all  things  happen  by  a  certain  fate,  (as  will  be  shown  in  another  place.)  if  any  man  could  exist  who  could  comprehend  this  succession  of  causes  in  his  intellectual  view,  such  a  man  would  be  infallible.  For  being  in  possession  of  a  knowledge  of  the  causes  of  all  events,  he  would  neces  sarily  foresee  how  and  when  all  events  would  take  place.   But  as  no  being  except  the  Deity  alone  can  do  this,  man  can  attain  no  more  than  a  kind  of  presentiment  of  futurity,  by  observing  the  events  which  are  the  usual  consequences  of  certain  signs.  For  those  events  that  are  to  happen  in  future  do  not  start  into  existence  on  a  sudden.  But  the  regular  course  of  time  resembles  the  untwisting  of  a  cable,  producing  nothing  absolutely  new,  but  all  things  in  a  grand  concatena  tion  or  series  of  repetitions.   And  this  has  been  observed  by  those  who  possess  the  gift  of  natural  divination,  and  by  those  who  study  the  regular  successions  of  certain  things.  For  though  they  do  not  always  apprehend  the  causes,  yet  they  clearly  discern  the  signs  and  marks  of  the  causes.  And  by  diligently  investi  gating  and  committing  to  memory  all  such  signs,  and  the  traditions  of  our  ancestors  concerning  them,  they  produce  an  elaborate  system  of  that  divination  which  is  termed  technical  respecting  the  entrails  of  victims,  thunder  and  lightning,  prodigies,  and  celestial  phenomena.   We  must  not,  therefore,  be  astonished  that  those  who  addict  themselves  to  divination  foresee  many  events  which  have  no  place  of  existence.  For  all  things  do  even  now  exist,  though  they  are  removed  in  point  of  time.  And  as  the  vital  embryo  of  all  vegetation  exists  in  seeds,  from  which  they  afterwards  germinate,  so  are  all  things  even  now  hidden  in  their  causes,  and  perceived  as  hereafter  to  happen  by  the  mind  when  it  is  thrown  into  an  ecstasy,  or  relaxed  in  sleep,  and  cool  reason  and  calculation  is  often  granted  a  presenti  ment  of  them.  And  as  the  astrologers  who  watch  the  risings,  settings,  and  various  courses  of  the  sun,  moon,  and  other  stars,  can  predict  long  before  all  their  revolutions  and  phenomena  ;  so  those  who  have  noted  the  series  and  conse  quence  of  events,  with  constant  and  indefatigable  atten  tion,  during  a  very  long  period,  do  generally,  or  (if  that  is  too  difficult)  at  least  occasionally,  foresee  with  certainty  the  things  that  are  to  come  to  pass.  Such  are  some  of  the  arguments  derived  from  the  nature  of  fate,  by  which  the  reality  of  divination  may  be  proved.  Another  powerful  plea  in  favour  of  divination,  may  be  drawn  from  Nature  herself,  which  teaches  us  how  great  is  the  energy  of  the  mind  when  abstracted  from  the  bodily  senses,  as  it  is  most  especially  in  ecstasy  and  sleep.  For  even  as  the  Gods  know  what  passes  in  our  minds  without  the  aid  of  eyes,  ears  or  tongues,  (on  which  divine  omniscience  is  founded  the  feeling  of  men,  that  when  they  wish  in  silence  for,  or  offer  up  a  prayer  for  anything,  the  Gods  hear  them,)  so  when  the  soul  of  man  is  disengaged  from  corporeal  impe  diments,  and  set  at  freedom,  either  from  being  relaxed  in  sleep,  or  in  a  state  of  mental  excitement,  it  beholds  those  wonders  which,  when  entangled  beneath  the  veil  of  the  flesh,  it  is  unable  to  see.   It  may  be  difficult,  perhaps,  to  connect  this  piinciple  of  nature  with  that  kind  of  divination  which  we  have  stated  to  result  from  study  and  art.  Posidonius,  however,  thinks  that  there  are  in  nature  certain  signs  and  symbols  of  future  events.  We  are  informed  that  the  inhabitants  of  Cea,  according  to  the  report  of  Heraclides  of  Pontus,  are  accus  tomed  carefully  to  observe  the  circumstances  attending  the  rising  of  the  Dog  Star,  in  order  to  know  the  character  of  the  ensuing  season,  and  how  far  it  will  prove  salubrious  or  pestilential.  For  if  the  star  rose  with  an  obscure  and  dim  appearance,  it  proved  that  the  atmosphere  was  gross  and  foggy,  and  its  respiration  would  be  heavy  and  unwhole  some.  But  if  it  appeared  bright  and  lucid,  then  that  was  a  sign  that  the  air  was  light  and  pure,  and  therefore  healthful.   Democritus  believed  that  the  ancients  had  wisely  enjoined  the  inspection  of  the  entrails  of  animals  which  had  been  sacrificed,  because  by  their  condition  and  colour  it  is  possible  to  determine  the  salubrity  or  pestilential  state  of  the  atmo  sphere,  and  sometimes  even  what  is  likely  to  be  the  fertility  or  sterility  of  the  earth.  And  if  careful  observation  and  practice  recognise  these  rules  as  proceeding  from  nature,  then  every  day  might  bring  us  many  examples  which  might  deserve  notice  and   remark;  so  that  the  natural  philosopher  whom  Pacuvius  introduces  in  his  Chryses,  seems  to  me  very  ignorant  of  the  nature  of  things,  wlien  he  says, —    All  those  who  understand  the  speech  of  birds  And  hearts  of  victims  better  than  their  own,  May  be  just  listen'd  to,  but  not  obey'd.   Why  should  he  make  such  a  remark  here,  when  a  little  after  he  speaks  thus  plainly  in  a  contrary  sense  1 —   Whatever  God  may  be,  'tis  he  who  forms,  Preserves  and  nurtures  all.     Unto  himself  Ho  back  absorbs  all  beings, — evermore  The  universal  Sire,— at  once  the  source  And  end  of  nature.   Why,  then,  since  the  universe  is  the  sole  and  common  home  of  all  creatures,  and  since  the  minds  of  men  always  have  existed,  and  will  exist,  why,  I  say,  should  they  not  be  able  to  perceive  the  consequences,  and  what  is  the  result  indicated  by  each  sign,  and  what  events  each  sign  foreshows  r(   These  are  the  arguments  which  I  had  to  bring  forward  on  the  subject  of  divination.  For  the  rest,  I  in  nowise  believe  in  those  who  predict  by  lots,  or  those  who  tell  fortunes  for  the  sake  of  gain,  nor  those  necromancers  who  evoke  the  manes,  whom  your  friend  Appius  consulted.   Of  little  service  are  the  Morsian  prophet,   The  Haruspi  of  the  village,  the  astrologer   Of  the  throng'd  circus,  or  the  priest  of  Isis,   Or  the  imposturous  interpreter   Of  dreams.     All  these  are  but  false  conjurors,   Who  have  no  skill  to  read  futurity,   They  are  but  hypocrites,  urged  on  by  hunger ;   Ignorant  of  themselves,  they  would  teach  others,   To  whom  they  promise  boundless  wealth,  and  beg   A  penny  in  return,  paid  in  advance.   Such  is  the  style  in  which  Ennius  speaks  of  those  pre  tenders  of  divination;  and  a  few  verses  before,  he  lias  affirmed  that  though  the  Gods  exist,  they  take  no  care  of  the  human  race.  I  am  of  a  contrary  opinion,  and  approve  01  divination,  because  I  believe  that  the  Gods  do  watch  over  men,  and  admonish  them,  and  presignify  many  things  to  them,  all  levity,  vanity,  and  malice  being  excluded.   And  when  Quintus  had  said  this,  You  are,  indeed,  said  I,  admirably  prepared. When I  have  been  considering,  as  I  frequentlj7  have,  vnth  deep  and  prolonged  cogitation,  by  what  means  I  might  serve  as  many  persons  as  possible,  so  as  never  to  cease  from  doing  service  to  my  country,  no  better  method  has  occurred  to  me  than  that  of  instructing  my  fellow-citizens  in  the  noblest  arts.  And  this  I  natter  myself  thai  I  have  already  in  some  degree  effected  in  the  numerous  works  which  I  have  written.  In  the  treatise  which  I  have  entitled  "  Hortensius,"  I  have  earnestly  recommended  them  to  the  study  of  philoso  phy  ;  and  in  the  four  books  of  Academic  Questions,  I  have  laid  open  that  species  of  philosophy  which  I  think  the  least  arrogant,  and  at  the  same  time  the  most  consistent  and  elegant.   Again,  as  the  foundation  of  all  philosophy  is  the  knowledge  of  the  chief  good  and  evil  which  we  should  seek  or  shun,  I  have  thoroughly  discussed  these  topics  in  five  books,  in  order  to  explain  the  different  arguments  and  objections  of  the  various  schools  in  relation  thereto.1  In  five  other  books  of  Tusculan  Questions,  I  have  explained  what  most  conduces  to  render  life  happy.  In  the  first,  I  treat  of  the  contempt  of  death ;  in  the  second,  of  the  endurance  of  pain  and  sorrow ;  in  the  third,  of  mitigating  melancholy;  in  the  fourth,  of  the  other  perturbations  of  the  mind;  and  in  the  fifth,  I  elaborate  that  most  glorious  of  all  philosophic  doctrines —  the  all-sufficiency  of  virtue ;  and  prove  that  virtue  can  secure  our  perpetual  bliss  without  foreign  appliances  and  assistances.   When  these  works  were  completed,  I  wrote  three  books  on   the  Nature  of  the  Gods.     I  have  discussed  all  the  different   bearings  and  topics  of  that  subject,  and  now  I  proceed  in   the  composition  of  a  treatise  on  Divination,  in  order  to  give   1  He  is  here  referring  to  the  treatise  De  Finibus.  that  subject  the  amplest  development.  And  if,  when  this  is  finished,  I  add  another  on  Fate,  I  shall  have  abundantly  examined  the  whole  of  that  question.   To  this  catalogue  of  my  writings,  I  must  likewise  add  my  six  books  on  the  Republic,  which  I  composed  when  I  was  directing  the  government  of  the  State.  A  grand  subject,  indeed,  and  peculiarly  connected  with  philosophy,  and  one  which  has  been  richly  elaborated  by  Plato,  Aristotle,  Theo-  phrastus,  and  the  whole  tribe  of  the  Peripatetics.   I  must  not  forget  to  mention  my  Essay  on  Consolation,  which  afforded  me  myself  no  inconsiderable  comfort,  and  will,  I  trust,  be  of  some  benefit  to  others.  Besides  this,  I  lately  wrote  a  work  on  Old  Age,  which  I  addressed  to  Atticus ;  and  since  it  is  owing  to  philosophy  that  our  friend  Cato  is  the  good  and  brave  man  that  he  is,  he  is  well  entitled  to  an  honourable  place  in  the  list  of  my  writings.   Moreover,  as  Aristotle  and  Theophrastus,  two  authors  emi  nently  distinguished  both  for  the  penetration  and  fertility  of  their  genius,  have  united  with  their  philosophy  precepts  like  wise  for  eloquence,  so  I  think  that  I  too  may  class  among  my  philosophical  writings  my  treatise  on  the  Oratorical  Art.  So  there  are  three  books  on  Oratory,  a  fourth  Essay  entitled  Brutus,  and  a  fifth  named  the  Orator. Such  are  the  works  I  have  already  written,  and  I  am  girding  myself  up  to  what  remains,  with  the  desire  (if  I  am  not  hindered  by  weightier  business)  of  leaving  no  philosophical  topic  otherwise  than  fully  explained  and  illustrated  in  the  Latin  language.  For  what  greater  or  better  service  can  we  render  to  our  country,  than  by  thus  educating  and  instructing  the  rising  generation,  especially  in  times  like  these,  and  in  the  present  state  of  morality,  when  society  has  fallen  into  such  disorders  as  to  require  every  one  to  use  his  best  exertions  to  check  and  restrain  it  ?   Not  that  I  expect  to  succeed  (for  that,  indeed,  cannot  be  even  hoped)  in  winning  all  the  young  to  the  study  of  philo  sophy.  I  shall  be  glad  to  gain  even  a  few,  the  fruits  of  whose  industry  may  have  an  extended  effect  on  the  republic.   Indeed,  I  already  begin  to  gather  some  fruit  of  my  labour,  from  those  of  more  advanced  years,  who  are  pleased  with  my  various  books.  By  their  eagerness  for  reading  what  I  write,  my  ambition  for  writing  is  from  day  to  day  more  vehemently  excited.  And  indeed  such  individuals  are  far  more  numerous  than  I  could  have  imagined.  A  magnificent  thing-  it  will  be,  and  glorious  indeed  for  the  Romans,  when  they  shall  no  longer  find  it  necessary  to  resort  to  the  Greeks  for  philosophical  literature.  And  this  desideratum  I  shall  cer  tainly  effect  for  them,  if  I  do  but  succeed  in  accomplishing  my  design.   To  the  undertaking  of  explaining  philosophy  I  was  origi  nally  prompted  by  disastrous  circumstances  of  the  state.  For  during  the  civil  wars  I  could  not  defend  the  common  wealth  by  professional  exertions;  while  at  the  same  time  I  could  not  remain  inactive.  And  yet  I  could  not  find  anything  worthy  of  myself  for  me  to  undertake.  My  fellow-citizens,  therefore,  will  pardon  me,  or  rather  will  thank  me;  because  when  Rome  had  become  the  property  of  one  man.  I  neither  concealed  myself,  nor  deserted  them,  nor  yielded  to  grief,  nor  conducted  myself  like  a  politician  indignant  at  either  an  individual  or  the  times, — nor  played  the  part  of  a  flatterer  of,  or  courtier  to,  the  power  of  another,  so  as  to  be  ashamed  of  myself.  For  from  Plato  and  philosophy  I  had  learnt  this  lesson,  that  certain  revolutions  are  natural  to  all  republics,  which  alternately  come  under  the  power  of  monarchs,  and  democracies,  and  aiistocracies.   And  when  this  fate  had  befallen  our  own  Commonwealth,  then,  being  deprived  of  my  customary  employments,  I  applied  myself  anew  to  the  study  of  philosophy,  doing  so  both  to  alleviate  my  own  sorrow  for  the  calamities  of  the  state,  and  also  in  the  hope  of  serving  my  fellow-countrymen  by  rny  writings.  And  thus  in  my  books  I  continued  to  plead  and  to  harangue,  and  took  the  same  care  to  advance  the  interests  of  philosophy  as  I  had  before  to  promote  the  cause  of  the  Republic.  Now,  however,  since  I  am  again  engaged  in  the  affairs  of  government,  I  must  devote  my  attention  to  the  state,  or  I  should  rather  say,  all  my  labours  and  cares  must  be  occupied  about  that ;  and  I  shall  only  be  able  to  give  to  philosophy  whatever  little  leisure  I  can  steal  from  public  business  and  public  employments.  Of  these  matters,  however,  I  shall  find  a  better  occasion  to  speak;  let  me  now  return  to  the  subject  of  divination.  For  when  my  brother  Quintus  had  concluded  his  arguments  on  the  subject  of  divination,  con  tained  in  the  preceding  book,  and  we  had  walked  enough  to satisfy  us,  we  sat  down  in  my  library,   which,  as  I  before  noticed,  is  in  my  Lyceum.   III.  Then  I  said, — Quintus,  you  have  defended  the  doctrine  of  the  Stoics,  respecting  divination,  with  great  accuracy,  and  on  the  strictest  Stoical  principles.  And  what  particularly  pleased  me  was,  that  you  supported  your  cause  chiefly  by  authorities,  and  those,  too,  of  great  force  and  dignity,  borrowed  from  our  own  countrymen.  It  is  now  my  part  to  notice  what  you  have  advanced.  But  I  shall  do  so  without  offering  anything  absolutely  on  one  side  or  the  other,  examining  all  your  argu  ments,  often  expressing  doubts  and  distrusting  myself.  For  if  I  assumed  anything  I  could  say  on  this  subject  as  certain,  I  should  play  the  part  of  a  diviner  even  while  denying  divination.   I  am,  no  doubt,  greatly  influenced  by  that  preliminary  question  which  Carneades  used  to  raise, — namely,  What  is  the  subject  matter  of  divination  1  Is  it  things  perceived  by  the  senses,  or  not  1  Such  things  we  see,  or  hear,  or  taste,  or  smell,  or  touch.  Is  there,  then,  among  such,  anything  which  we  perceive  more  by  some  foreseeing  power,  or  agitation  of  the  mind,  than  through  nature  herself]  Or  could  a  diviner,  if  he  were  blind  as  Tiresias,  somehow  or  other  distinguish  between  white  and  black  1  or  if  he  were  deaf,  could  he  distinguish  between  the  articulations  and  modulations  of  voices  ?  Divi  nation,  therefore,  cannot  be  applied  to  those  objects  which  come  under  the  cognisance  of  the  senses.   Nor  is  it  of  much  use,  even  in  matters  of  art  and  science.  In  medicine  for  instance,  if  a  person  is  sick  we  do  not  call  in  the  diviner  or  the  conjuror,  but  the  physician ;  and  in  music,  if  we  wish  to  learn  the  flute  or  the  harp,  we  do  not  take  lessons  from  the  soothsayer,  but  from  the  musician.   It  is  the  same  in  literature,  and  in  all  those  sciences  which  are  matters  of  education  and  discipline.  Do  you  think  that  those  who  addict  themselves  to  the  art  of  divination  can  thereby  inform  us  whether  the  sun  is  larger  than  the  earth  or  of  the  same  size  as  it  appears,  or  whether  the  moon  shines  by  her  own  light  or  by  a  radiance  borrowed  from  the  sun,  or  what  are  the  laws  of  motion  obeyed  by  these  orbs,  or  by  those  other  five  stars  which  are  termed  the  planets [None  of  those  who  pass  for  diviners  pretend  to  be  able  to  instruct  mankind  in  these  matters,  nor  can  they  prove  the    204  ON   DIVINATION.   truth  or  falsehood  of  the  problems  of  geometry.     Such  mat  ters  belong  to  the  mathematician,  not  to  conjurors. And  in  those  questions  which  are  agitated  in  moral  philosophy,  is  there  any  one  with  respect  to  which  any  diviner  ever  gives  an  answer,  or  is  ever  consulted  as  to  what  is  good,  bad,  or  indifferent  ?  For  such  topics  properly  belong  to  philosophers.  As  to  duties,  who  ever  consulted  a  diviner  how  to  regulate  his  behaviour  to  his  parents,  his  brethren,  or  his  friends  1  or  in  what  light  he  should  regard  wealth,  and  honour,  and  authority  ?  These  things  are  referred  to  sages,  not  diviners.   Again,  as  to  the  subjects  which  belong  to  dialecticians,  or  natural  philosophers.  What  diviner  can  tell  whether  there  is  one  world  or  more  than  one  1  what  are  the  principles  of  things  from  which  all  things  derive  their  being1?  That  is  the  science  of  the  natural  philosopher.  Or  who  asks  a  diviner  how  to  solve  the  difficulty  of  a  fallacy,  or  disentangle  the  perplexity  of  a  sorites,  which  we  may  render  by  the  Latin  word  acervalem  (an  accumulation),  though  it  is  unnecessary  ;  for  just  as  the  word  philosophy,  and  many  other  Grecian  terms,  have  become  naturalized  in  our  language,  so  this  word  sorites  is  already  sufficiently  familiar  among  us.  These  subjects  belong  to  the  logician,  not  to  the  diviner.   Again,  if  the  question  be,  which  is  the  best  form  of  govern  ment,  what  are  the  relative  advantages  or  disadvantages  of  such  and  such  laws  and  moral  regulations,  should  we  dream  of  advising  with  a  soothsayer  from  Etruria,  or  with  princes  and  chosen  men  experienced  in  political  matters  1   Now,  if  divination  regards  neither  those  things  which  are  perceived  by  the  senses,  nor  those  which  are  taught  by  art,  nor  those  which  are  discussed  by  philosophy,  nor  those  which  affect  the  politics  of  the  state,  I  scarcely  understand  what  can  be  its  object.  It  must  either  bear  upon  all  topics,  or  else  some  particular  one  must  be  allotted  to  it  in  which  it  may  be  exercised.  Now  common  sense  certifies  us  that  it  does  not  bear  on  all  topics,  and  we  are  at  a  loss  to  discover  what  particular  topic,  or  subject  matter,  it  can  embrace.  It  follows,  therefore,  that  divination  does  not  exist.   V.  There  is  a  common  Greek  proverb  to  this  effect : —   The  wisest  prophet 's  he  who  guesses  best.  Will,  then,  a  soothsayer  conjecture  what  sort  of  weather  is coming  better  than  a  pilot?  or  will  he  divine  the  character  of  an  illness  more  acutely  than  a  doctor  ?  or  the  proper  way  to  carry  on  a  war  better  than  a  general '?   But  I  observe,  0  Quintus,  that  you  have  pnidently  dis  tinguished  the  topics  of  divination  from  those  matters  which  lie  within  the  sphere  of  art  and  skill,  and  from  those  which  are  perceived  by  the  observation  of  the  senses,  or  by  any  system.  You  have  denned  it  thus  : — Divination  is  the  pre  sentiment  and  power  of  foretelling  or  predicting  those  things  which  axe  fortuitous.  But,  in  the  first  place,  you  are  only  arguing  in  a  circle.  For  does  not  a  pilot,  or  a  physician,  or  a  general  foresee  the  probabilities  of  things  fortuitous  as  well  as  your  diviner?  Can,  then,  any  augur  whatsoever,  or  sooth  sayer,  or  diviner,  conjecture  better  whether  a  patient  will  escape  from  sickness,  or  a  ship  from  peril,  or  the  army  from  the  manoeuvres  of  the  enemy,  than  a  physician,  or  pilot,  or  general  ?   But  you  said  that  these  matters  did  not  belong  to  the  diviner;  but  that  men  could  foresee  impending  winds  or  showers  by  certain  signs ;  and  to  confirm  this  argument,  you  have  cited  certain  verses  of  my  translation  of  Ai-atus.  And  yet  these  atmospheric  phenomena  are  fortuitous ;  for  they  only  happen  occasionally,  and  not  always.  What,  then,  is  this  presentiment  of  things  fortuitous,  which  you  call  divina  tion,  and  to  what  can  it  be  applied?  For  those  things  of  which  we  can  have  a  previous  notion  by  some  art  or  reason,  you  speak  of  as  belonging  not  to  diviners,  but  to  men  of  skill  in  them.  Thus  you  have  left  divination  nothing  but  the  power  of  predicting  those  fortuitous  things  which  cannot  be  foreseen  by  any  art  or  any  prudence.   If,  for  example,  any  one  had,  many  years  before,  predicted  that  Marcus  Marcellus,  who  was  thrice  consul,  was  to  perish  by  a  shipwreck,  he  would,  doubtless,  have  been  a  true  diviner,  because  such  a  fact  could  not  have  been  foreseen  by  any  other  means  than  that  of  divination.  Divination,  there  fore,  is  a  foreknowledge  of  events  which  depend  on  fortune.  But  can  there  be  a  just  presentiment  of  those  things  which  do  not  admit  of  any  rational  conjecture  to  explain  why  they  will  happen?  For  what  do  we  mean  when  we  say  a  thing  happens  by  chance,  or  fortune,  or  hazard,  or  accident,  but  that  something  has  happened  or  taken  place  wnich  might never  have  happened  or  taken  place  at  all,  or  -which  might  have  happened  or  taken  place  in  a  different  manner  ?  Now  how  can  that  be  fairly  foreseen  or  predicted  which  thus  takes  place  by  chance,  and  the  mere  caprice  of  fortune  ?   It  is  by  reason  that  the  physician  foresees  that  a  malady  will  increase,  a  pilot  that  a  tempest  will  descend,  and  a  general  that  the  enemy  will  make  certain  diversions.  And  yet  these  men,  who  have  generally  good  reasons  on  which  their  opinions  respecting  relative  probabilities  are  founded,  are  themselves  often  deceived.  As when  the  husbandman  sees  his  olive-trees  in  blossom,  he  ventures  to  expect  that  they  will  also  bear  fruit;  nevertheless,  he  is  sometimes  mistaken.   Now,  if  those  who  never  assert  anything  but  from  some  probable  conjecture  founded  on  reason,  are  often  mistaken,  what  are  we  to  think  of  the  conjectures  of  those  men  who  derive  their  presages  of  futurity  from  the  entrails  of  victims,  or  birds,  or  prodigies,  or  oracles,  or  dreams.  I  have  not  as  yet  come  to  show  how  utterly  null  and  vain  such  signs  are,  as  the  cleft  of  a  liver,  the  note  of  a  crow,  the  flight  of  an  eagle,  the  shooting  of  a  star,  the  voices  of  people  in  frenzy,  lots  and  dreams,  of  each  of  which  I  shall  speak  in  its  turn ;  at  present  I  dwell  only  on  the  general  argument.  How  can  it  be  fore  seen  that  anything  will  happen  which  has  neither  any  as  signable  cause,  or  mark,  to  show  why  it  will  happen  1   The  eclipses  of  the  sun  and  moon  are  predicted  for  a  series  of  many  years  before  they  happen,  by  those  who  make  regular  calculations  of  the  courses  and  motions  of  the  stars.  They  only  foretell  that  which  the  invariable  order  of  natuie  will  necessarily  bring  about.  For  they  perceive  that  in  the  un-  deviating  course  of  the  moon's  motions,  she  will  arrive  at  a  given  period  at  a  point  opposite  the  sun,  and  become  so  exactly  under  the  shadow  of  the  earth,  which  is  the  boundary  of  night,  that  she  must  be  eclipsed.  They  likewise  know,  that  when  the  same  moon  comes  between  the  earth  and  the  sun,  the  latter  must  appear  eclipsed  to  the  eyes  of  men.  They  know  in  what  sign  each  of  the  wandering  stars  will  be  at  a  future  pariod,  and  when  each  sign  will  rise  and  set  on  any  specific  day.  So  that  you  know  on  what  principles  those  men  proceed  who  predict  these  things. But  what  rational  rule  can  guide  those  men  who  predict  the  discovery  of  a  treasure,  or  the  accession  to  an  estate  1  And  by  what  series  of  cause  and  effect  are  the  approach  of  events  of  this  kind  indicated  1  If  these  events,  and  others  of  the  same  kind,  happen  by  any  kind  of  neces  sity,  then  what  is  there  that  we  can  suppose  to  be  brought  about  by  chance  or  fortune  1  For  nothing  is  so  opposite  to  regularity  and  reason  as  this  same  fortune ;  so  that  it  seems  to  me  that  God  himself  cannot  foreknow  absolutely  those  things  which  are  to  happen  by  chance  and  fortune.  For  if  he  knows  it.  ilien  it  will  certainly  happen;  and  if  it  will  certainly  happen,  there  is  no  chance  in  the  matter.  But  there  is  chance;  therefore  there  is  no  such  thing  as  a  pre  sentiment  of  the  future.   If,  however,  you  maintain  that  there  is  no  such  thing  as  fortune,  and  that  all  things  which  happen,  and  which  are  about  to  happen,  are  determined  by  fate  from  all  eternity,  then  you  must  change  your  definition  of  divination,  which  you  have  termed  the  presentiment  of  thing's  fortuitous.  For  if  nothing  can  happen,  or  come  to  pass,  or  take  place,  unless  it  has  been  determined  from  all  eternity  that  it  shall  happen  at  a  certain  time  what,  chance  can  there  be  in  anything  1  And  if  there  is  no  such  thing  as  chance,  what  becomes  of  your  definition  of  divination,  which  you  have  called  "a  pre  sentiment  of  fortuitous  events'?"  although  you  said  that  everything  which  happened,  or  which  was  about  to  happen,  depended  on  fate.  [Nevertheless,  a  great  deal  is  said  on  this  subject  of  fate  by  the  Stoics.  But  of  this  elsewhere.   To  return  to  the  question  at  issue.  If  all  things  happen  by  fate,  what  is  the  use  of  divination. For  that  which  he  who  divines  predicts,  will  truly  come  to  pass ;  so  that  I  do  not  know  what  character  to  affix  to  that  circumstance  of  an  eagle  making  our  friend  King  Deiotaris  renounce  his  journey;  when,  if  he  had  not  turned  back,  he  would  have  slept  in  a  chamber  which  fell  down  in  the  ensuing  night,  and  have  been  crushed  to  death  in  the  ruins.  For  if  his  death  had  been  decreed  by  fate,  he  could  not  have  avoided  it  by  divination ;  and  if  it  was  not  decreed  by  fate,  he  could  not  have  experienced  it.   What,  then,  is  the  use  of  divination,  or  what  reason  is  there  why  I  should  be  moved  by  lots,  or  entrails,  or  any  kind  of  prediction  1  For  if  in  the  first  Punic  war  it  had  beesettled  by  fate,  that  one  of  the  Roman  fleets,  commanded  by  the  consuls  Lucius  Junius  and  Publius  Clodius,  should  perish  by  a  tempest,  and  that  the  other  should  be  defeated  by  the  Carthaginians,  then  even  if  the  chickens  had  eaten  ever  so  greedily,  still  the  fleets  must  have  been  lost.  But  if  the  fleets  would  not  have  perished,  if  the  auspices  had  been  obeyed,  then  they  were  not  destroyed  by  fate.  But  you  say  that  everything  is  owing  to  fate;  therefore  there  is  no  such  thing  as  divination.   If  fate  had  determined,  that  in  the  second  Punic  war  the  army  of  the  Komans  should  be  defeated  near  the  lake  Thra-  simenus,  then  could  this  event  have  been  avoided,  even  if  Flaminius  the  consul  had  been  obedient  to  those  signs  f  and  those  auspices  which  forbade  him  to  engage  in  battle'?  Cer  tainly  it  might.  Either,  then,  the  army  did  not  perish  by  fate — for  the  fates  cannot  be  changed, — or  if  it  did  perish  by  fate  (as  you  are  bound  to  assert),  then,  even  if  Flaminius  had  obeyed  the  auspices,  he  must  still  have  been  defeated.   Where,  then,  is  the  divination  of  the  Stoics  1  which  is  of  no  use  to  us  whatever  to  warn  us  to  be  more  prudent,  if  all  things  happen  by  destiny.  For  do  what  we  will,  that  which  is  fated  to  happen,  must  happen.  On  the  other  hand,  what  ever  event  may  be  averted  is  not  fated.  There  is,  there  fore,  no  divination,  since  this  appertains  to  things  which  are  certain  to  happen;  and  nothing  is  certain  to  happen,  which  may  by  any  means  be  frustrated.  Moreover,  I  do  not  even  think  that  the  knowledge  of  futurity  would  be  useful  to  us.  How  miserable  would  have  been  the  life  of  King  Priam  if  from  his  youth  he  could  have  foreseen  the  calamities  which  awaited  his  old  age  !  Let  us,  however,  leave  alone  fables,  arid  come  to  facts  that  are  more  near  to  us.  I  have  recounted,  in  my  essay  entitled  "  Conso  lation,"  the  misfortunes  which  have  happened  to  the  greatest  men  of  our  commonwealth.  Omitting,  therefore,  the  ancients,  do  you  think  that  it  would  have  been  any  advantage  to  Marcus  Crassus,  when  he  was  flourishing  with  the  amplest  riches  and  gifts  of  fortune,  to  have  foreknown  that  he  should  behold  his  son  Publius  slain,  his  forces  defeated,  and  lose  his  own  life  beyond  the  Euphrates  with  ignominy  and  disgrace  ?  Or  do  you  think  that  Pompey  would  have  experienced  much  satisfaction  in  being  thrice  made  consxil,  and  having  received   three  triumphs,  and  having  attained  the  summit  of  glory  by  his  heroic  actions,  if  he  could  have  foreseen  that  he  should  be  assassinated  in  the  deserts  of  Egypt  after  the  defeat  of  his  army,  and  that  after  his  death  those  disasters  should  happen  which  we  cannot  mention  without  tears  ?   What  do  we  think  of  Caesar  1  Would  it  have  been  any  pleasure  to  Caesar  to  have  anticipated  by  divination,  that  one  day,  in  the  midst  of  the  throng  of  senators  whom  he  himself  had  elected,  in  the  temple  of  Victory  built  by  Pompey,  and  before  that  general's  statue,  and  before  the  eyes  of  so  many  of  his  own  centurions,  he  should  be  slain  by  the  noblest  citizens,  some  of  whom  were  indebted  to  him  for  their  digni  ties, — aye,  slain  under  such  circumstances  that  not  one  of  his  friends,  or  even  of  his  servants,  would  venture  to  approach  him  ?  Could  he  have  foreseen  all  this,  in  what  wretchedness  would  he  have  passed  his  life  1   It  is,  therefore,  certainly  more  advantageous  for  man  to  be  ignorant  of  future  evils  than  to  know  them.  For  it  cannot  be  said,  at  least  not  by  the  Stoics,  that  Pornpey  would  not  have  taken  up  arms,  nor  Crassus  passed  the  Euphrates,  nor  Csesar  engaged  in  the  civil  war,  if  they  had  foreseen the  future;  therefore  the  end  which  they  met  with  was  not  in  evitably  ordained  by  fate.  For  you  insist  upon  it  that  all  things  happen  by  fate,  therefore  divination  would  have  availed  them  nothing.  It  would  even  have  deprived  them  of  all  enjoy  ment  in  the  earlier  part  of  their  lives;  for  what  gratification  could  they  have  enjoyed  if  they  had  been  always  thinking  of  their  end  I   Therefore,  to  whatever  argument  the  Stoics  resort  in  defence  of  divination,  their  ingenuity  is  always  baffled.  For  if  that  which  is  to  happen  may  happen  in  different  mode;,  then,  indeed,  fortune  may  have  great power;  but  that  which  is  fortuitous  cannot  be  certain.  If,  on  the  other  hand,  every  event  is  absolutely  determined  by  fate,  and  the  time  and  cir  cumstance  in  connexion  with  which  it  is  to  take  place,  what  service  can  diviners  render  us  by  informing  us  that  very  sad  events  arc  portended  for  us. They  add,  moreover,  that  when  we  are  duly  attentive  to  religious  ceremonies,  all  things  will  fall  more  lightly  on  us.  But  if  everything  happens  by  fate,  no  religioxis  ceremonies  cau  lighten  the  event.  Homer  acknowledges  this,  when  he introduces  Jupiter  uttering  complaints  that  he  cannot  save  the  life  of  his  son  Sarpedon  against  the  order  of  fate;  and  the  same  sentiment  is  expressed  in  the  Greek  verse—   Great  Destiny  o'ermaster's  Jove  himself.   It  appears  to  me  that  such  a  fate  as  this  is  justly  ridiculed  by  the  Atellane  plays  ;  but  on  such  a  serious  subject  we  must  not  allow  ourselves  to  be  facetious.   I  therefore  conclude  with  this  observation.  If  we  cannot  foresee  anything  which  happens  by  chance,  since  that  thing  is  necessarily  uncertain,  therefore  there  is  no  divination;  and  if,  on  the  contrary,  things  that  are  to  happen  can  be  foreseen  because  they  happen  by  an  infallible  fatality,  there  is  no  divination,  because  you  say  divination  only  relates  to  for  tuitous  events.   But  what  I  have  hitherto  said  respecting  divination  may  be  looked  upon  as  a  mere  slight  skirmishing  of  oratory.  I  must  now  enter  on  the  contest  in  good  earnest,  and  prepare  to  encounter  the  most  formidable  arguments  of  your  cause. For  you  say  that  there  exist  two  kinds  of  divination,  —  one  artificial,  the  other  natural.  The  artificial  consists  partly  in  conjecture,  partly  in  continued  observation.   The  natural,  on  the  other  hand,  is  what  the  mind  lays  hold  of  or  receives  externally  from  the  divinity,  from  which  we  all  derive  the  origin,  and  fashioning,  and  preservation  of  our  minds.  Under  the  artificial  divination  you  enumerate  several  varieties  of  divination  connected  with  the  inspection  of  entrails,  the  observation  of  thunderstorms  and  prodigies,  and  the  auguries  of  those  who  deal  in  signs  and  omens.  And  under  this  artificial  class  you  include  all  kindsof  conjectural  divination.   As  to  the  natural  species  of  divination,  it  appears  to  be  sent  forth  and  to  issue  either  from  a  certain  ecstasy  of  the  spirit,  or  to  be  conceived  by  the  mind  when  disengaged  from  the  senses  and  from  cares  by  sleep.  But  you  suppose  that  all  divination  is  derived  from  three  things God,  Fate,  and  Nature.  But  as  you  could  give  no  sound  explanation,  you  laboured  to  confirm  it  by  a  wonderful  multitude  of  imaginary  examples,  concerning  which  you  must  permit  me  to  say,  that  a  philosopher  ought  not  to  use  evidences  which  may  be  true  through  accident,  or  false  and  fictitious  through  malice.  It  behoves  you  to  show,  by  reason  and  argument,  why  each  circtimstance  happens  as  it  does,  rather  than  by  the  events,  especially  when  they  are  such  as  I  am  quite  unable  to  give  credit  to.   XII.  To  begin  then  with  the  Soothsayers,  whose  science  I  believe  that  the  interest  of  Religion  and  the  State  requires  to  be  upheld.    But  as  we  are  alone,  it  behoves  us,  and  myself  more  especially,   to  examine   the   truth  without  partiality,  since  I  am  in  doubt  on  many  points.   Let  us  proceed,  if  you  please,  first  to  consider  the  inspec  tion  of  the  entrails  of  victims.  Can  you  then  persuade  any  man  in  his  senses,  that  those  events  which  are  said  to  be  signified  by  the  entrails,  are  known  by  the  augurs  in  con  sequence  of  a  long  series  of  observations [How  long,  I  wonder  !  For  what  period  of  time  can  such  observations  have  been  continued  1  What  conferences  must  the  augurs  hold  among  themselves  to  determine  which  part  of  the  victim's  entrails  represents  the  enemy,  and  which  the  people ;  what  sort  of  cleft  in  the  liver  denoted  danger,  and  what  sort  presaged  advantage?  Have  the  augurs  of  the  Etrurians,  the  Eleans,  the  Egyptians,  and  the  Carthaginians  arranged  these  matters  with  one  another  ?  But  that,  besides  that  it  is  quite  impossi  ble,  cannot  be  imagined.  For  we  see  that  some  interpret  the  auspices  in  one  way,  and  some  in  another,  and  no  common  rule  of  discipline  is  acknowledged  among  the  professors  of  the  art;  and  certainly  if  some  secret  virtue  existed  in  the  victim's  entrails  which  clearly  declared  the  future,  it  must  either  belong  to  the  universal  nature  of  things,  or  be  connected  in  some  way  or  other  with  the  Deity  himself.  But  what  com  munication  can  there  exist  between  so  great  and  so  divine  a  natuz-e  of  things,  one  so  beautiful,  and  so  admirably  diffused  throughout  every  part  and  motion,  and  (I  will  not  say)  the  gall  of  the  cock,  (though  that,  indeed,  is  said  by  many  to  be  the  most  significant  of  all  signs,)  but  the  liver,  or  heart,  or  lungs  of  a  fat  bullock  1  Can  such  things  possibly  teach  us  the  hidden  mysteries  of  futurity?  Democritus,  speaking  as  a  natural  philosopher,  than  which  no  class  of  men  are  more  arrogant,  on  this  subject,  trifles  ingeniously  enough.   Man,  who  knows  not  the  common  facts  of  earth,  Must  waste  his  time  in  star-gazing.   He  remarks,  that  the  colour  and  condition  of  the  victim's  entrails  may  indicate  the  nature  of  the  pasturage,  and  the abundance  or  scarcity  of  those  things  which  the  earth  brings  forth.  He  even  supposes  they  may  guide  our  opinions  respecting  the  wholesonieness  or  pestilential  state  of  the  atmosphere.  0  happy  man!  such  a  person  can  certainly  never  want  amusement.  The  idea  of  any  one  being  so  enchanted  with  such  trifling,  as  not  to  see  that  this  theory  might  be  plausible,  if,  indeed,  the  entrails  of  all  animals  assumed  the  same  appearance  and  colour  at  one  and  the  same  time  !  But  if  we  discover  that  the  liver  of  one  animal  is  sound  and  healthy,  and  that  of  another  withered  and  diseased  at  the  same  moment,  what  indication  can  we  draw  from  the  state  and  colour  of  the  entrails'?   Does  this  at  all  resemble  the  indications  from  which  that  Pherecydes,  in  a  case  which  you  have  cited,  predicted  the  approach  of  an  earthquake  from  the  drying  up  of  a  spring?  It  required  a  little  confidence,  I  think,  after  the  earthquake  had  taken  place,  to  presume  to  say  what  power  had  produced  it ;  [but]  could  they  even  foresee  that  it  would  take  place  at  all  from  the  appearance  of  a  running  spring?  Many  such  stories  are  recounted  in  the  schools,  but  we  are  not  obliged  to  believe  the  whole  of  them.  But  even  supposing  that  what  Democritus  says  is  true,  when  do  we  seek  to  know  the  general  phenomena  of  nature  by  an  examination  of  entrails;  or  when  did  soothsayers  ever  tell  us  anything  of  the  sort  from  such  an  inspection?  They  warn  us  of  danger  from  fire  or  water.  Sometimes  they  predict  that  inheritances  will  be  added  to  our  fortunes,  and  .sometimes  that  we  shall  lose  what  we  already  possess.  They  regard  the  cleft  in  the  lungs  as  a  matter  of  vital  importance  to  our  property  and  our  very  life ;  they  in  vestigate  the  top  of  the  liver  on  all  sides  with  the  most  scrupulous  exactness,  and  if  by  any  chance  they  cannot  dis  cover  it,  they  affirm  that  nothing  more  disastrous  could  have  happened. It  is  impossible,  as  I  have  before  observed,  that  such  a  system  of  observation  can  have  any  certainty  about  it;  such  divination  as  this  nourished  not  among  the  ancients;  it  is  the  invention  of  mere  art,  if,  indeed,  there  can  be  any  art,  properly  so  called,  of  things  unknown.  But  what  connexion  has  it  with  the  nature  of  things?  And  even  if  it  were  united  and  joined  therewith,  so  as  to  form  one  harmonious  whole,  which  I  see  is  the  opinion  of  the  natural  philosophers,    Ulo   and  especially  of  those  who  say  that  all  things  that  exist  are  but  one  whole ;  still  what  correspondence  can  there  be  between  the  order  of  the  universe  and  the  discovery  of  a  treasure?  For  if  an  increase  of  my  wealth  is  indicated  by  the  entrails  of  a  victim,  and  this  fact  is  a  necessary  link  in  the  chain  of  nature,  then  it  follows,  in  the  first  place,  that  we  must  suppose  that  the  entrails  themselves  form  other  links;  and  secondly,  that  my  private  gain  is  connected  with  the  nature  of  things.  Are  not  the  natural  philosophers  ashamed  to  say  such  things  as  these?  For,  although  there may be some connexion in the nature of things, which  I admit to be possible, — (for  the  Stoics  have  collected  many  cases  which  they  think  confirm  the  notion,  as  when  they  assert  that  the  little  livers  of  little  mice  increase  in  winter,  and  that  dry  pennyroyal  flourishes  in  the  coldest  weather,  and  that  the  distended  vesicles,  in  which  the  seeds  of  its  berries  are  contained,  then  burst  asunder;  that  the  chords  of  a  stringed  instrument  at  times  give  notes  different  from  their  usual  ones;  that  oysters  and  other  shell-fish  increase  and  decrease  with  the  growth  and  waning  of  the  moon ;  and  that  trees  lose  their  vitality  as  the  moon  declines,  just  as  they  dry  up  in  winter,  and  that  this  is  the  time  to\cut  them.  Why  need  I  speak  of  the  seas,  and  the  tides  of  the  ocean,  the  flow  and  ebb  of  which  are  said  to  be  governed  by  the  moon  ?  and  many  other  examples  might  be  related  to  prove  that  some  natural  connexion  subsists  between  objects  appa  rently  remote  and  incongruous. Let  us  grant  this,  for  it  does  not  in  the  least  make  against  our  argument ;) — granting,  I  say,  that  there  is  a  cleft  of  some  kind  in  a  liver,  does  that  indicate  gain  to  any  one?  By  what  natural  affinity,  by  what  harmony,  by  what  secret  accord  of  nature,  or,  to  use  the  Greek  term,  by  what  sympathy  can  you  discern  a  necessary  relation  between  a  cleft  liver  and  my  gain,  or  between  my  gain  and  heaven  and  earth,  and  the  universal  nature  of  things  ?   I  may  even  grant  you  this,  though  I  shall  be  greatly  damaging  my  argument  if  I  allow  that  there  is  any  connexion  between  nature  and  entrails.   But  suppose  I  make  this  concession,  how  does  it  happen  that  he  who  would  obtain  some  benefit  from  the  Gods  can  discover,  just  when  he  wishes,  a  victim  exactly  adapted  to  his  purpose  ?  I  had  thought  this  objection  was  unanswerable,  but  see  how  cleverly  you  get  over  it.  I  do  not  blame  you  for  this,  I  rather  commend  your  memory.  But  I  am  ashamed  of  Antipater,  Chrysippus,  and  Posidonius,  who  all  assert  the  same  proposition — namely,  that  the  divine  and  sentient  energy  which  extends  through  the  universe,  directs  us  even  in  the  choice  of  the  victim  by  whose  entrails  we  are  to  frame  our  divinations.  And  to  improve  upon  this  theory,  you  agree  with  them  in  asserting  that  at  the  very  instant  that  the  sacrifice  is  offered,  a  certain  appropriate  change  takes  place  in  the  victim's  entrails,  so  that  we  can  therein  discover  some  sig  nificant  addition  or  deficiency,  since  all  things  are  obedient  to  the  will  of  the  Gods.   Believe  me,  there  is  not  an  old  woman  in  the  world  so  superstitious  as  gravely  to  believe  these  things.  Can  you  imagine  that  the  same  bullock,  if  chosen  by  one  man,  will  have  the  head  of  the  liver,  and  if  chosen  by  another  will  not  have  it  1  Can  this  same  head  come  and  go  at  the  instant  just  to  accommodate  the  individual  who  offers  the  sacrifice  1  Do  you  not  perceive  that  there  must  be  considerable  chance  in  the  choice  of  the  victim  1  and  in  fact  the  thing  speaks  for  itself,  that  this  must  be  the  case.  For  when  one  ill-omened  victim  is  discovered  to  have  had  no  head  to  its  liver,  it  often  happens  that  the  one  which  is  offered  immediately  afterwards  has  the  most  perfect  entrails  imaginable.  What  then  becomes  of  the  menaces  of  the  first  victim's  entrails,  or  how  have  the  Gods  been  so  suddenly  appeased? But  you  will  say,  that  in  the  entrails  of  the  fat  bull  which  Caesar  offered,  there  was  no  heart,  and  since  it  was  not  possible  that  this  animal  could  have  lived  without  a  heart,  we  must  suppose  that  the  heart  was  annihilated  at  the  instant  of  immolation.  How  is  it  that  you  think  it  impossi  ble  that  an  animal  can  live  without  a  heart,  and  yet  do  not  think  it  impossible  that t  its  heart  could  vanish  so  suddenly,  nobody  knows  whither?  For  myself,  I  know  not  how  much  vigour  in  a  heart  is  necessary  to  carry  on  the  vital  function,  and  suspect  that  if  afflicted  by  any  disease,  the  heart  of  a  victim  may  be  found  so  withered,  and  wasted,  and  small,  as  to  be  quite  unlike  a  heart.  But  on  what  argument  can  you  build  an  opinion  that  the  heart  of  this  same  fat  bullock,  if  it  existed  in  him  before,  disappeared  at  the  instant  of  immola-lion?  Did  the  bullock  behold  Ceesar  in  a  heartless  condition  even  while  arrayed  in  the  purple,  and  thus  lose  its  own  heart  by  mere  force  of  sympathy?   Believe  me,  you  are  betraying  the  city  of  philosophy  while  defending  its  castles.  In  trying  to  prove  the  truth  of  the  auguries,  you  are  overturning  the  whole  system  of  physics.  A  victim  has  a  heart,  and  head  of  the  liver :  the  moment  that  you  sprinkle  him  with  meal  and  wine  they  depart,  some  God  carries  them  off,  some  power  destroys  or  consumes  them.  It  is  not  nature  alone,  therefore,  which  causes  the  decay  and  destruction  of  everything;  and  there  are  some  things  which  arise  out  of  nothing,  and  some  which  suddenly  perish  and  become  nothing.  What  natural  philosopher  ever  said  such  a  thing  as  this?  The  soothsayers  affirm  it.  Do  you  then  think  that  you  are  to  believe  them  rather  than  the  natural  philosophers?   XVII.  Again,  when  you  sacrifice  to  several  Gods  at  the  same  time,  how  is  it  that  the  sacrifice  is  favourably  received  by  some,  and  is  rejected  by  others  ?  And  what  inconsistency  must  there  be  among  the  Gods,  if  they  threaten  by  the  first  entrails,  and  promise  good  fortune  by  the  second !  Or  is  there  such  strong  dissension  among  the  Deities,  even  when  they  are  nearly  related  to  each  other,  that  certain  entrails  bode  good  when  offered  to  Apollo,  and  evil  when  offered  to  his  sister  Diana  ?  It  is  clear  that  since  the  victims  are  brought  by  chance,  the  entrails  must  in  the  case  of  each  sacrificer  depend  upon  what  victim  falls  to  his  share,  and  that  very  thing  requires  some  divination  to  know  what  victim  falls  to  each  person's  share,  as,  in  the  case  of  lots,  what  is  drawn  by  each  person.   Then  you  will  speak  of  lots,  though  you  are  not  strengthen  ing  the  authority  of  sacrifices  by  comparing  them  to  lots,  but  weakening  that  of  lots  by  comparing  them  to  sacrifices.   Do  you  think,  when  we  send  a  messenger  to  ^Equime-  lium  to  bring  us  a  lamb  to  sacrifice,  and  the  lamb  which  is  brought  to  me  possesses  entrails  peculiarly  accommodated  to  the  circumstances  of  the  case,  that  the  messenger  has  been  guided  to  him  not  by  chance,  but  by  divine  direction  ?  For  if  you  wish  to  signify  that  in  this  case  chance  interferes,  as  being  some  lot  connected  with  the  will  of  the  Gods,  I  am  sony  that  your  friends  the  Stoics  should  give  the  Epicureans such  occasion  to  ridicule  them,  for  you  know  well  how  they  deride  oil  such  ideas.   And,  indeed,  it  is  no  hard  matter  to  be  facetious  on  such  an  idea.  Epicurus,  in  order  to  show  his  wit  on  the  subject,  introduced  transparent  airy  deities,  residing,  as  it  were,  be  tween  the  two  worlds  as  between  two  groves,  that  they  may  avoid  destruction  from  the  fall  of  either.  These  deities,  it  seems,  possess  bodies  like  ourselves,  though  I  cannot  find  that  they  make  any  use  of  them.   Epicurus  therefore,  who,  by  a  roundabout  argument  of  this  kind,  takes  away  the  Gods,  naturally  feels  no  hesitation  in  taking  away  divination  also.  But  though  he  is  consistent  with  himself,  the  Stoics  are  not ;  for  as  the  God  of  Epicurus  never  troubles  himself  with  any  business,  either  regarding  himself  or  others;  he,  therefore,  cannot  grant  divination  to  men.  On  the  other  hand,  the  God  of  the  Stoics,  even  though  lie  does  not  grant  divination,  must  still  regulate  the  affairs  of  the  universe  and  take  care  of  mankind.   Why,  then,  do  you  involve  yourself  in  these  dilemmas  which  you  can  never  disentangle  ?  For  this  is  the  way  in  which,  when  they  are  in  a  hurry,  they  usually  sum  up  the  matter- — a  If  there  are  Gods,  there  must  be  divination;  but  there  are  gods,  therefore  there  is  divination."  It  would  be  much  more  plausible  to  say — "  There  is  no  divination,  there  fore  there  are  no  Gods."  Observe  how  imprudently  the  Stoics  make  this  assertion,  that  if  there  is  no  divination,  there  are  no  Gods ;  for  divination  is  plainly  discarded,  and  yet  we  must  retain  a  belief  in  Gods. After  having  thus  destroyed  divination  by  the  in  spection  of  entrails,  all  the  rest  of  the  science  of  the  sooth  sayers  is  at  an  end ;  for  prodigies  and  lightning  follow  in  the  same  category.  With  respect  to  the  latter,  their  predictions  are  founded  on  a  long  series  of  observations,  while  the  interpretation  of  prodigies  proceeds  chiefly  on  inference  and  conjecture.   What  observations,  then,,  have  been  made  about  lightning?  The  Etrurians,  forsooth,  have  divided  heaven  into  sixteen  parts;  for  it  was  not  very  difficult  to  double  the  four  quarters,  which  we  recognise,  into  eight,  and  then  to  repeat  the  process,  so  as  by  that  means  to  say  from  what  direc  tion  the  lightning  had  come.  But  in  the  first  place,  what difference  does  it  make  ?  Secondly,  what  does  such  a  thing  intimate  1   Is  it  not  plain  from  the  astonishment  which  was  at  first  excited  in  men's  minds,  because  they  feared  the  thunder  and  the  hurling  of  the  thunderbolt,  that  they  believed  that  they  were  the  immediate  manifestations  brought  about  by  the  all-powerful  ruler  of  all  things,  Jupiter  ?  This  is  the  reason  of  the  enactment  in  the  public  registers,  that  the  comitia  of  the  people  shall  not  be  held  when  Jupiter  thunders  and  lightens.  It  was  enacted,  perhaps  with  a  view  to  the  interest  of  the  state,  for  our  ancestors  wished  to  have  pretexts  for  not  holding  the  comitia.  Therefore,  in  the  case  of  the  comitia,  lightning  is  the  only  vitiating  irregularity.  But  in  all  other  matters  it  is  a  most  favourable  auspice  if  it  comes  on  the  left  hand.  But  we  will  speak  of  the  auspices  hereafter ;  at  present  we  will  confine  ourselves  to  lightning. What  can  be  less  proper  for  natural  philosophers  to  say,  than  that  anything  certain  is  indicated  by  things  which  are  uncertain  1  I  cannot  believe  that  you  are  one  of  those  who  imagine  that  there  were  Cyclopes  in  mount  ^Etna  who  forged  Jove's  thunderbolt,  for  it  would  be  wonderful  indeed  if  Jupiter  should  so  often  throw  it  away  when  he  had  but  one.  Nor  would  he  warn  men  by  his  thunderbolts  what  they  should  do  or  what  thoy  should  avoid.   For  the  opinion  of  the  Stoics  on  this  point  is,  that  the  exhalations  of  the  earth  which  are  cold,  when  they  begin  to  flow  abroad,  become  winds ;  and  when  they  form  themselves  into  clouds,  and  begin  to  divide  and  break  up  their  fine  particles  by  repeated  and  vehement  gusts,  then  thunder  and  lightning  ensue ;  and  that  when  by  the  conflict  of  the  clouds  the  heat  is  squeezed  out  so  as  to  emit  itself,  then  there  is  lightning.  Can  we,  then,  look  for  any  intimation  of  futurity  in  a  thing  which  we  see  brought  about  by  the  mere  force  of  nature,  without  any  regularity  or  any  determined  pei'iods  1   If  Jupiter  wished  that  we  should  form  divinations  by  lightnings,  would  he  throw  away  so  many  flashes  in  vain  ]  For  what  good  does  he  do  when  he  throws  a  thunderbolt  into  the  middle  of  the  sea,  or  upon  lofty  mountains,  which  is  very  common,  or  upon  deserts,  or  in  the  countries  of  those  nations  among  which  no  meteorological  observations  are  made  ]  Oh !  but  a  head  was  discovered  in  the  Tybcr.  As  if  I    affirmed  that  those  soothsayers  had  no  skill !  What  I  deny  is  only  their  divination.  For  the  distribution  of  the  firma  ment,  which  we  have  just  mentioned,  and  their  various  observations,  enable  them  to  note  the  direction  from  which  the  lightning  has  proceeded,  and  where  it  falls.  But  no  reason  can  inform  us  of  its  signification. You  will,  however,  urge  against  me  my  own  verses —   The  father  of  the  Gods  who  reigns  supreme   On  high  Olympus,  smote  his  proper  fane,   And  hurl'd  his  lightnings  through  the  heart  of  Rome.   At  the  same  time  the  statue  of  Natta  and  the  images  of  the  Gods,  and  Romulus  and  Remus,  with  that  of  the  beast  who  was  nursing  them,  were  struck  by  the  thunderbolt  and  thrown  down ;  and  the  answers  of  the  soothsayers,  with  reference  to  these  prodigies,  were  found  perfectly  correct.  That  also  was  a  surprising  thing,  that  the  statue  of  Jupiter  was  placed  in  the  Capitol,  two  years  later  than  it  had  been  contracted  for,  at  the  very  time  that  information  of  the  conspiracy  was  being  laid  before  the  senate.  Will  you,  then,  (for  this  is  the  way  you  are  used  to  argue  with  me,)  bring  yourself  to  uphold  that  side  of  the  question  in  opposition  to  your  own  actions  and  writings  ?   You  are  my  brother,  and  all  you  say  is  entitled  to  my  respect.  Yet  what  is  there  here  that  offends  you?  Is  it  the  thing  itself,  which  is  of  such  and  such  a  character,  or  I  myself,  who  only  wish  to  get  at  the  truth  ?  I  therefore  say  nothing  upon  it  for  the  sake  of  contradiction,  and  only  seek  from  you  yourself  information  respecting  all  the  prin  ciples  of  the  art  of  soothsaying.   But  you  have  involved  yourself  in  an  inextricable  dilemma;  for  foreseeing  that  you  would  be  hard  pressed,  when  I  should  urge  you  to  explain  the  cause  of  every  divination,  you  made  many  excuses  to  show  why,  when  you  were  sure  of  the  fact,  you  did  not  inquire  into  its  principles  and  causes, — that  the  question  was,  what  was  done,  and  not  why  it  was  done  ;  as  if  I  granted  that  it  was  done  at  all,  or  as  if  it  were  not  the  duty  of  a  philosopher  to  inquire  into  the  reason  why  every  thing  takes  place.  At  the  same  time  you  quoted  my  prog  nostics,  and  spoke  of  the  scammony,  the  aristoloch,  and  other  herbs,  whose  virtues  were  evident  to  you  from  their  effects,  though  the  law  of  their  operation  was  unknown  to  you. All  this  is,  however,  beside  the  main  question.  For  the  Stoic  Boethus,  whose  name  you  have  cited,  and  even  our  friend  Posidonius  have  investigated  the  causes  of  prognostics,  and  though  it  is  not  easy  to  discover  the  cause  of  such  occult  mysteries,  yet  the  facts  themselves  may  be  observed  and  animadverted  upon.   But  as  to  the  statue  of  Natta  and  the  tables  of  the  law  which  were  struck  by  lightning,  what  observations  were  made,  or  what  was  there  ancient  connected  with  the  matter  1  The  Pinarii  Nattse  are  noble,  therefore  danger  was  to  be  feared  from  the  nobility.  This  was  a  very  cunning  device  of  Jupiter  !  Romulus,  represented  by  the  sculptor  as  sucking  a  she-wolf,  was  likewise  smitten  by  the  lightning.  Hence,  according  to  you,  some  danger  to  the  city  of  Rome  was  threatened.  How  cleverly  does  Jupiter  make  us  acquainted  with  future  events  by  such  signs  as  these  !  Again,  his  statue  was  being  erected  at  the  very  same  time  that  the  conspiracy  was  being  discovered  in  the  senate,  and  you  conceive  this  coincidence  happened  rather  by  the  providence  of  God  than  by  any  chance  of  fortune.  And  you  think  that  the  statuary  who  had  contracted  for  the  making  of  that  column  with  Torquatus  and  Cotta,  was  not  so  long  delayed  in  accomplishing  his  work  by  idleness  or  poverty,  but  by  the  special  interposition  of  the  immortal  Gods.   Now  I  do  not  absolutely  deny  that  such  might  possibly  be  the  case;  but  I  do  not  know  that  it  was,  and  wish  to  be  instructed  by  you.  For  when  some  things  appeared  to  me  to  have  happened  by  chance  in  the  way  in  which  the  sooth  sayers  had  predicted,  you  launched  out  into  a  long  discourse  on  the  doctrine  of  chances,  saying  that  four  dice  thrown  at  hazard  may  produce  Venus  by  accident,  but  that  four  hundred  dice  cannot  produce  a  hundred  Venuses.  In  the  first  place,  I  know  no  reason  in  the  nature  of  things  why  they  should  not  do  even  this ;  but  I  will  not  argue  that  point,  for  you  have  plenty  of  similar  examples,  and  talk  about  a  chance  dashing  of  colours,  the  snout  of  a  pig,  and  many  other  similar  instances.  You  say  that  Carneades  argued  in  the  same  way  about  the  head  of  a  little  Pan  ;  as  if  that  might  not  have  happened  by  chance,  and  as  if  there  must  not  be  in  all  marble  the  raw  material  of  even  such  a  head  as  Praxiteles  would  have  made.  For  a  perfect  head  is  only  formed  by cutting  away.  Praxiteles  adds  nothing  to  the  marble,  but  when  much  that  was  superfluous  is  removed,  and  the  features  are  arrived  at,  then  you  learn  that  that  which  is  now  polished  up  was  always  contained  within.   Such  a  figure,  therefore,  may  have  spontaneously  existed  in  the  quarries  of  Chios.  But  grant  that  this  is  a  fiction,  have  you  never  fancied  that  you  could  discover  in  the  clouds  the  figures  of  lions  and  centaurs  1  Accident  may,  therefore,  some  times  imitate  nature,  though  you  denied  that  just  now.  But  as  we  have  sufficiently  discussed  divination  by  entrails  and  lightning,  we  must  now  consider  portents  and  prodigies,  in  order  that  we  may  leave  no  branch  of  the  system  of  the  soothsayers  untouched.   You  have  mentioned  a  wonderful  story  of  a  mule  that  was  delivered  of  a  colt;  a  strange  event,  because  of  its  extreme  rarity.  But  if  such  a  thing  were  impossible,  it  would  never  happen  at  all;  and  this  may  be  said  against  all  sorts  of  pro  digies,  that  those  things  which  are  impossible  never  happened  at  all;  and  if  they  are  possible,  it  need  not  surprise  us  that  they  happen  occasionally.   Besides,  in  extraordinary  events,  ignorance  of  their  causes  produces  astonishment;  but  in  ordinary  events  such  igno  rance  occasions  no  such  result.  The  man  who  is  astonished  if  a  mule  brings  forth  a  colt,  does  not  know  how  it  is  that  a  mare  brings  forth  a  foal,  or  indeed  how,  in  any  case,  nature  effects  the  birth  of  a  living  animal;  but  he  is  not  surprised  at  what  he  sees  frequently,  even  if  he  does  not  know  why  it  happens;  but  if  that  which  he  never  beheld  before  happens,  then  he  calls  it  a  prodigy.  In  this  case,  is  it  a  prodigy  when  the  mule  conceives,  or  when  she  brings  forth  1  Perhaps  the  conception  may  have  been  contrary  to  nature,  but  after  that  her  delivery  is  almost  necessary.   But  we  have  spoken  enough  on  this  topic:  let  us  examine  the  origin  of  the  establishment  of  soothsayers.  For  when  we  are  acquainted  with  it,  we  shall  be  better  able  to  judge  what  degree  of  credit  it  is  entitled  to.  They   tell   us  that  as   a   labourer  one  day  was  ploughing  in  a  field  in  the  territory  of  Tarquinium,  and  his  ploughshare  made  a  deeper  furrow  than  usual,  all  of  a  sudden  there  sprung  out  of  this  same  furrow  a  certain  Tages,  who,  as  it  is  recorded  in  the  books  of  the  Etrurians,  possessed  the visage  of  a  child,  but  the  prudence  of  a  sage.  When  the  labourer  was  surprised  at  seeing  him,  and  in  his  astonishment  made  a  great  outcry,  a  number  of  people  assembled  round  him,  and  before  long  all  the  Etrurians  came  together  at  the  spot.  Tages  then  discoursed  in  the  presence  of  an  immense  crowd,  who  treasured  up  his  words  with  the  greatest  care,  and  after  wards  committed  them  to  writing.  The  information  they  derived  from  this  Tages  was  the  foundation  of  the  science  of  the  soothsayers,  and  was  subsequently  improved  by  the  accession  of  many  new  facts,  all  of  which  confirmed  the  same  principles.   Here  is  the  story  that  the  Etrurians  give  out  to  the  world.  This  record  is  preserved  in  their  sacred  books,  and  from  it  their  augurial  discipline  is  deduced.   Now  do  you  imagine  that  we  need  a  Carneades  or  Epicurus  to  refute  such  a  fable  as  this1?  Lives  there  any  one  so  absurd  as  to  believe  that  this  (shall  I  say  god,  or  man  1)  was  thus  ploughed  up  out  of  the  earth  1  If  he  was  a  god,  why  did  he  conceal  himself  under  the  earth  against  the  order  of  nature,  so  as  not  to  behold  the  light  till  he  was  ploughed  up]  Could  not  that  same  god  have  instructed  mankind  from  a  station  somewhat  more  elevated  ?  And  if  this  Tages  was  a  man,  how  could  he  have  lived  thus  buried  and  smothered  in  the  earth  1  and  how  could  he  have  learnt  the  wonders  he  taught  to  others  ?   But  I  am  even  more  foolish  than  those  who  believe  such  nonsense,  for  thus  wasting  so  much  time  in  refxiting  them. There  is  an  old  saying  of  Cato,  familiar  enough  to  everybody,  that  "  he  wondered  that  when  one  soothsayer  met  another,  he  could  help  laughing."  For  of  all  the  events  pre  dicted  by  them,  how  very  few  actually  happen  ?  And  when  one  of  them  does  take  place,  where  is  the  proof  that  it  does  not  take  place  by  mere  accident  1   When  Hannibal  fled  to  king  Prusias,  and  was  eager  to  wage  war  with  the  enemy,  that  monarch  replied  that  he  dared  not  do  so,  because  the  entrails  of  the  sacrifice  wore  an  unfavourable  aspect.  "  Would  you,  then,"  said  Hannibal,  "rather  trust  a  bit  of  calf's  flesh  than  a  veteran  general?"  And  as  to  Caesar,  when  he  was  warned  by  the  chief  sooth  sayer  not  to  venture  into  Africa  before  the  winter,  did  he  not  cross?  If  he  had  not  done  so,  all  the  forces  of  the  enemy  would  have  assembled  in  one  place.  Why  need  I  enumeratethe  responses  of  the  soothsayers,  of  which  I  could  cite  an  infinite  number,  which  have  either  received  no  accomplishment  at  all,  or  an  accomplishment  exactly  the  reverse  of  the  prediction  1  In  this  last  Civil  War,  for  instance — good Heavens  !  how  often  were  their  responses  utterly  falsified  by  the  result !  How  many  false  prophecies  were  sent  to  us  from  Rome  into  Gi'eece  !  How  many  oracles  in  favour  of  Pompey  !  For  that  general  was  not  a  little  affected  by  entrails  and  prodigies.  I  have  no  wish  to  recount  these  things  to  you,  nor  indeed  is  it  necessary,  for  you  were  present.  But  you  see  that  nearly  all  the  events  took  place  in  the  manner  exactly  contrary  to  the  predictions.  So  much  for  responses.  Let  us  now  say  a  word  or  two  on  prodigies.  You  have  mentioned  several  things  on  this  topic  which  I  wrote  during  my  consulship.     You  have  brought  up  many  of  those  anecdotes  collected  by  Sisenna  before  the  Mar-  sian  War,  and  many  recorded  by  Callisthenes  before  the  un  fortunate  battle  of  the  Spartans  at  Leuctra,  of  each  of  which  I  will  speak  separately,  as  far  as  seems  necessary;  but  at  present  we  must  discuss  of  prodigies  in  general.   For  what  is  the  meaning  of  this  kind  of  divination — this  dreadful  denouncing  of  impending  calamities — derived  from  the  Gods  1  In  the  first  place,  what  is  the  object  of  the  Gods,  in  giving  us  prodigies  and  signs  which  we  cannot  understand  without  interpreters,  and  in  advertising  us  of  disasters  which  we  cannot  avoid  1  But  even  honest  men  do  not  act  thus,  giving  notice  to  their  friends  of  impending  misfortune  which  they  cannot  possibly  avoid;  and  physicians,  though  they  are  often  aware  of  the  fact,  yet  never  tell  their  patients  that  they  must  needs  die  of  the  complaint  from  which  they  are  suffering.  For  the  prediction  of  an  evil  is  only  beneficial  when  we  can  point  out  some  means  of  avoiding  it  or  miti  gating  it.   What  good,  then,  did  these  prodigies,  or  their  interpreters,  do  to  the  Spartans,  or  more  recently  to  the  Romans  1  If  they  are  to  be  considered  as  the  signs  of  the  Gods,  why  were  they  so  obscure  ?  For  if  they  were  sent  in  order  that  we  might understand  what  was  about  to  happen,  then  it  ought  to  have  been,  declared  intelligibly;  and  if  we  were  not  intended  to  know,  then  they  should  not  have  been  given  even  obscurely. As  for  all  conjectures  on  which  this  kind  of  divination  depends,  the  opinions  of  men  differ  so  much  from  each  other  that  they  often  make  very  opposite  deductions  from  the  same  thing.  For  as  in  legal  suits,  the  plea  of  the  plaintiff  is  contrary  to  that  of  the  defendant,  and  yet  both  are  within  the  limits  of  credibility, — so  in  all  those  affairs  which  only  admit  of  conjectural  interpretation,  the  reasoning  must  be  extremely  uncertain.  And  as  for  those  things  which  are  caused  at  times  by  nature,  and  at  others  by  chance,  (some  times,  too,  likeness  gives  rise  to  mistakes,)  it  is  very  foolish  to  attribute  all  these  things  to  the  interpositions  of  the  Gods,  without  examining  their  proximate  causes.   You  believe  that  the  Boeotian  diviners  of  Lebadia  foreknew  by  the  crowing  of  the  cocks  that  the  victory  belonged  to  the  Thebans,  because  these  birds  only  crow  when  they  are  vic  torious,  and  hold  their  peace  when  they  are  beaten.  Did,  then,  Jupiter  give  a  signal  to  so  important  a  city  by  the  means  of  hens  1  But  do  cocks  only  crow  when  they  are  vic  torious  1  At  that  time  they  were  crowing,  and  they  had  not  conquered.  You  say  that  this  was  a  prodigy.  It  would  have  been  a  prodigy,  and  a  very  great  one,  if  the  crowing  had  pro  ceeded  from  fishes  instead  of  birds.  But  what  hour  is  there  of  day,  or  of  night,  when  cocks  do  not  crow  1  and  if  they  are  sometimes  excited  to  crow  by  their  joy  in  victory,  they  may  likewise  be  excited  to  do  the  same  by  some  other  kind  of  joy.   Democritus,  indeed,  states  a  very  good  reason  why  cocks  crow  before  the  dawn;  for,  as  the  food  is  then  driven  out  of  their  stomachs,  and  distributed  over  their  whole  body  and  digested,  they  utter  a  crowing,  being  satiated  with  rest.  But  in  the  silence  of  the  night,  says  Ennius,  "  they  indulge  their  throats,  which  are  hoarse  with  crowing,  and  give  their  wings  repose."  As,  then,  this  animal  is  so  much  inclined  to  crow  of  its  own  accord,  what  made  it  occur  to  Callisthenes  to  assert  that  the  Gods  had  given  the  cocks  a  signal  to -crow;  since  either  nature  or  chance  might  have  done  it  ?  It  was  announced  to  the  senate  that  it  had  rained  blood,  that  the  river  had  become  blackened  with  blood,  and  that  the  statues  of  the  immortal  gods  were  covered  with  sweat.  Do  you  imagine  that  Thales  or  Anaxagoras,  or  any  other  natural  philosopher,  would  have  given  credence  to  such  news?  Blood  and  sweat  only  proceed  from  the  animal  body;  there  might  have  been  some  discoloration  caused  by  some    22 4  ox  contagion  of  earth  very  like  blood,  and  some  moisture  may  have  fallen  on  the  statues  from  without,  resembling  perspira  tion,  as  \ve  see  sometimes  in  plaster  during  the  prevalence  of  a  south  wind;  and  in  time  of  war  such  phenomena  appeal-  more  numerous  and  more  important  than  usual,  as  men  are  then  in  a  state  of  alarm,  while  they  are  not  noticed  in  peace.  Besides,  in  such  periods  of  fear  and  peril,  such  stories  are  more  easily  believed,  and  invented  with  more  impunity.   We  are,  however,  so  silly  and  inconsiderate,  that  if  mice,  which  are  always  at  that  work,  happen  to  gnaw  anything,  we  immediately  regard  it  as  a  prodigy.  So  because,  a  little  before  the  Marsian  war,  the  mice  gnawed  the  shields  at  Lanuvium,  the  soothsayers  declared  it  to  be  a  most  important  prodigy  ;  as  if  it  could  make  any  difference  whether  mice,  who  day  and  night  are  gnawing  something,  had  gnawed  bucklers  or  sieves.  For  if  we  are  to  be  guided  by  such  things,  I  ought  to  tremble  for  the  safety  of  the  commonwealth,  because  the  mice  lately  gnawed  Plato's  Republic  in  my  library;  and  if  they  had  eaten  the  book  of  Epicurus  on  Pleasure,  I  ought  to  have  expected  that  corn  would  rise  in  the  market.  Are  we,  then,  alarmed  if  at  any  time  any  unna  tural  productions  are  reported  as  having  proceeded  from  man  or  beast?  One  of  which  occurrences,  to  be  brief,  may  be  accounted  for  on  one  principle.  Whatever  is  born,  of  whatever  kind  it  may  be,  must  have  some  cause  in  nature,  so  that  even  though  it  may  be  contrary  to  custom,  it  cannot  possibly  be  contrary  to  nature.  Investigate,  if  you  can,  the  natural  cause  of  every  novel  and  extraordinary  circumstance: —  even  if  you  cannot  discover  the  cause,  still  you  may 'feel  sure  that  nothing  can  have  taken  place  without  a  cause  ;  and,  by  the  principles  of  nature,  drive  away  that  terror  which  the  novelty  of  the  thing  may  have  occasioned  you.  Then  neither  earthquakes,  nor  thunderstorms,  nor  showers  of  blood  and  stones,  nor  shooting  stars,  nor  glancing  torches  will  alarm  you  any  more.   If  you  ask  Chrysippus  to  explain  the  laws  hat  govern  these  phenomena,  though  he  is  a  great  defender  of  divina  tion,  he  will  never  tell  you  that  they  have  happened  by  chance,  but  he  will  give  you  a  natural  explanation  of  all  of  them.  For,  as  it  has  been  before  stated,  nothing  can  happen  without  a  cause,  and  nothing  happens  which  is  impossible;  iior,  if  that  has  happened  which  could  happen,  ought  it  to  be  regarded  as  a  prodigy.  Therefore  there  are  no  such  things  as  prodigies.  For  if  we  place  in  the  rank  of  prodigies  every  rare  occurrence,  it  follows  that  a  wise  man  is  one  of  the  greatest  prodigies.  For  I  believe  there  are  fewer  instances  of  wise  men  in  the  world,  than  of  mules  which  have  brought  forth  young.   So  this  principle  concludes  that  that  which  cannot  take  place  in  the  nature  of  things  never  does  take  place;  and  that  that  which  can  take  place  in  the  nature  of  things,  is  not  a  prodigy,  and  therefore  there  are  no  prodigies  at  all.  Therefore  a  diviner  and  interpreter  of  prodigies  being  con  sulted  by  a  man  who  informed  him,  as  a  great  prodigy,  that  he  had  discovered  in  his  house  a  serpent  coiled  around  a  bar,  answered  very  discreetly,  that  there  was  nothing  very  wonderful  in  this,  but  if  he  had  found  the  bar  coiled  around  the  serpent,  this  would  have  been  a  prodigy  indeed.  By  this  reply,  he  plainly  indicated  that  nothing  can  be  a  prodigy  which  is  consistent  with  the  nature  of  things.   XXIX.  Caius  Gracchus  wrote  to  Marcus  Pomponius,  that  his  father  having  caught  two  serpents  in  his  house,  sent  to  consult  the  soothsayers.  Why  were  two  serpents  entitled  to  such  an  honour  more  than  two  lizards  or  two  mice  1  Because  these  are  every  day  occurrences,  you  would  reply,  while  ser  pents  were  comparatively  rare  ;  as  if  it  signified  how  often  a  thing  which  was  possible  took  place.  But  I  marvel,  if  the  release  of  the  female  snake  caused  the  death  of  Tiberius  Gracchus,  and  that  of  the  male  was  to  be  fatal  to  Cornelia,  why  he  let  either  of  them  escape.  For  he  does  not  record  that  the  soothsayers  had  told  him  what  would  happen  if  he  let  neither  of  the  snakes  escape.  But  it  seems  T.  Gracchus  died  soon  after,  doubtless  of  some  natural  malady  which  destroyed  his  constitution,  and  not  because  he  had  saved  the  life  of  a  viper.   Not  that  the  infelicity  of  the  haruspices  is  so  great  that  their  predictions  are  never  fulfilled  by  any  chance  whatever.  And,  I  must  confess,  if  I  could  but  believe  it,  I  should  exceedingly  wonder  at  the  story  which  you  have  cited  from  Homer  respecting  the  prediction  of  Calchas,  who,  from  observing  the  number  of  a  flock  of  sparrows,  foretold  the  number  of  years  that  would  be  expended  in  the  siege  of  Troy.   DE  NAT.  ETC.  Q    2-6  ON Of  which  conjecture  Homer  makes  Agamemnon1  speak  thus,  if  I  may  repeat  you  a  translation  of  the  passage  which.  I  made  in  a  leisure  hour   Not  for  their  grief  the  Grecian  host  I  blame  ;  But  vanqui.sh'd  !  baffled  !  oh,  eternal  shame  !  Expect  the  time  to  Troy's  destruction  giv'n,  And  try  the  faith  of  Calchas  and  of  heav'n.  What  pass'd  at  Aulis,  Greece  can  witness  bear,  And  all  who  live  to  breathe  this  Phrygian  air,  Beside  a  fountain's  sacred  brink  was  raised  Our  verdant  altars,  and  the  victims  blazed  ;  ('Twas  where  the  plane-tree  spreads  its  shades  around)  The  altars  heaved  ;  and  from  the  crumbling  ground  A  mighty  dragon  shot,  of  dire  portent;  From  Jove  himself  the  dreadful  sign  was  sent.  Straight  to  the  tree  his  sanguine  spires  he  roll'd,  And  curl'd  around  in  many  a  winding  fold.  The  topmost  branch  a  mother-bird  possest ;  Eight  callow  infants  fill'd  the  mossy  nest  ;  Herself  the  ninth  :  the  serpent  as  he  hung,  Stretch'd  his  black  jaws,  and  crush'd  the  crying  young;  While  hov'ring  near,  with  miserable  moan,  The  drooping  mother  wail'd  her  children  gone.  The  mother  last,  as  round  the  nest  she  flew,  Seized  by  the  beating  wing,  the  monster  slew ;  Nor  long  survived,  to  marble  turn'd  he  stands  A  lasting  prodigy  on  Aulis'  sands.  Such  was  the  will  of  Jove ;  and  hence  we  dare  Trust  in  his  omen  and  support  the  war.  For  while  around  we  gazed  with  wond'ring  eyes,  And  trembling  sought  the  Pow'rs  with  sacrifice,  Full  of  his  god,  the  rev'rend  Calchas  cried :  Ye  Grecian  warriors,  lay  your  fears  aside,  This  wondrous  signal  Jove  himself  displays,  Of  long,  long  labours,  but  eternal  praise.  As  many  birds  as  by  the  snake  were  slain,  So  many  years  the  toils  of  Greece  remain  ;  But  wait  the  tenth,  for  llion's  fall  decreed.  Thus  spoke  the  prophet,  thus  the  fates  succeed.   Now  is  not  this  a  curious  mode  of  augury1? — to  conjecture  by  the  number  of  sparrows  eaten by  a  serpent,  the  number  of  years  expended  in  the  Trojan  war.  Why  years  rather  than  months  or  days?  And  how  -was  it  that  Calchas  selected  sparrows,  in  which  there  is  nothing  supernatural,  for  the  signs  of  his  prophecy  1  while  he  is  silent  about  the  serpent,  which   1  This  is  a  mistake  of  Cicero's.  It  is  Ulysses  who  speaks.  The  pas  sage  occurs in Iliad . JTU  changed,  as  it  is  said,  into  stone  (an  event  which  is  im  possible).  Lastly,  what  analogy  or  relatkfe  can  subsist  between  the  sparrows  seen  and  the  years  predicted  1   As  to  what  you  have  said  respecting  the  serpent  which  appeared  to  Sylla  while  he  was  sacrificing,  I  recollect  the  whole  circumstance  ;  and  remember  that  just  as  Sylla  was  about  to  attack  the  enemy  at  Nola,  he  made  a  sacrifice,  and  that  at  the  moment  the  victim  was  offered,  a  serpent  issued  from  beneath  the  altar,  and  that  the  same  day  a  glorious  victoiy  was  gained,  — not  l;wing  to  the  advice  of  the  soothsayers,  but  to  the  skill  of  the  general. And  prodigies  of  this  kind  have  nothing  miracu  lous  in  them ;  which,  when  they  have  taken  place,  are  brought  under  conjecture  by  some  particular  interpretation,  as  in  the  case  of  the  grain  of  wheat  found  in  the  mouth  of  Midas  while  an  infant,  or  that  of  the  bees,  which  are  said  to  have  settled  on  the  lips  of  the  infant  Plato.  Such  things  are  less  admirable  for  themselves  than  for  the  conjectures  they  gave  rise  to ;  for  they  may  either  not  have  taken  place  at  the  time  specified,  or  have  been  fulfilled  by  mere  accident.   I  likewise  suspect  the  truth  of  the  report  which  you  have  related  respecting  Roscius — namely,  that  a  serpent  was  found  coiled  round  him  when  he  was  in  his  cradle.  But  even  if  it  be  a  fact  that  a  serpent  was  thus  in  the  cradle,  it  is  not  very  wonderful,  especially  in  Solonium,  where  snakes  are  in  the  habit  of  basking  before  the  fire.  As  to  the  interpretation  which  the  soothsayers  gave  of  the  circumstance,  that  the  child  would  become  most  illustrious  and  most  celebrated,  I.  am  astonished  that  the  immortal  Gods  should  have  announced  such  great  glory  to  a  comedian,  and  preserved  such  an  obsti  nate  silence  respecting  Scipio  Africanus.   You  have  related  several  prodigies  whicli  happened  to  Flaminiusj  for  instance,  that  his  horse  suddenly  fell  with  him, — there  is  surely  nothing  very  astonishing  in  that.  Also,  that  the  standard  of  the  first  centurion  could  not  easily  be  pulled  out  of  the  earth.  Perhaps  the  standard-bearer  was  pulling  but  timidly  at  the  stick  which  he  had  fixed  in  the  ground  with  confident  resolution.  What  is  the  wonder  in  the  horse  of  Dionysius  having  escaped  out  of  the  river,  and  in  his  afterwards  having  had  a  swarm  of  bees  cluster  on  his  mane?  But  because  Dionvsius  happened  to  ascend  the throne  of  Syracuse  soon  after  this  event,  what  had  happened  by  chance  was  regarded  as  an  extraordinary  prodigy  and  prognostic.   You  go  on  to  say,  that  at  Lacedsemon,  the  armour  in  the  temple  of  Hercules  rattled.  At  Thebes  the  closed  gates  of  the  temple  of  the  same  God  suddenly  burst  open  of  their  own  accord,  and  the  bucklers  which  had  been  suspended  on  the  walls  fell  to  the  ground.  Certainly  nothing  of  this  kind  could  have  happened  without  some  motion  or  impulse ;  but  why  need  we  impute  such  motion  to  the  Gods  rather  than  call  it  an  accident1?  At  Delphi,  you  say,  that  a  chaplet  of  wild  herbs  suddenly  appeared  growing  on  the  head  of  Lysander's  statue.  Do  you  think  then  that  the  chaplet  of  herbs  existed  before  any  seed  was  ripened  1  These  seeds  were  probably  carried  there  by  birds,  not  by  human  agency,  and  whatever  is  on  a  head  may  seem  to  resemble  a  crown.  And  as  to  the  circum  stance  which  you  add,  that  about  the  same  time  the  golden  stars  of  Castor  and  Pollux,  placed  in  the  temple  of  Delphi,  suddenly  vanished,  and  could  nowhere  be  discovei'ed ;  this  seems  to  me  not  so  much  the  work  of  the  Gods,  as  the  sacrilege  of  thieves.   I  certainly  do  wonder  at  the  roguery  of  the  Ape  of  Dodona  being  recorded  in  the  Greek  histories.  For  what  is  less  strange  than  that  a  most  mischievous  animal  should  have  upset  the  urn,  and  scattered  the  oracular  lots  ?  The  his  torians,  however,  deny  that  this  prodigy  was  followed  by  any  disastrous  event  occurring  among  the  Lacedaemonians.   Now  to  come  to  what  you  have  reported  respecting  the  citizen  of  Veii,  who  declared  to  the  Senate  that  if  the.  Lake  Albanus  overflowed,  and  ran  into  the  sea,  Rome  would  perish,  and  that  if  its  course  were  diverted  elsewhere,  Veii  must  fall.  Accordingly  the  water  of  the  Alban  lake  was  subsequently  drained  away  by  new  channels,  not  for  the  safety  of  the  citadel  and  the  city,  but  solely  for  the  benefit  of  the  suburban  district.   A  short  time  afterwards,  a  voice  was  heard,  warning  cer  tain  individuals  to  beware  lest  Rome  should  be  taken  by  the  Gauls;  and  upon  this  they  consecrated  an  altar  on  the  New  Road,  to  Aius  the  Speaker.  What,  then,  did  this  Aius  the  Speaker  speak  and  talk,  and  derive  his  name  from  that  circumstance,  when  no  one  knew  him ;  and  has  he  been  silent  ever  since  he  has  had  an  habitation,  an  altar,  and  a  name  1  And  the  same  remark  will  apply  to  Juno  the  Admonitress;  for  what  warning  has  she  ever  given  us,  except  the  one  respecting  the  full  sow  1   XXXIII.  This  is  enough  to  say  about  prodigies.     Let  me  now  speak  of  auspices  and  of  lots — those,  I  mean,  which  are  thrown  at  hazard,  not  those  which  are  announced  by  vati  cination,  which  we  more  properly  call  oracles,  and  which  we  shall  discuss  when  we  investigate  divination  of  the  natural  order;  and  after  this  we  will  consider  the  astrology  of  the  Chaldeans.    But  first  let  us  consider  the  question  of  auspices.  It  is  a  very  delicate  matter  for  an  augur  to  speak  against  them.    Yes,  to  a  Marsian  perhaps,  but  not  to  a  Roman.     For  we  are  not  like  those  who  attempt  to  predict  the  future  by  the  flight  of  birds,  and  the  observation  of  other  signs ;  and  yet  I  believe  that  Romulus,  who  founded  our  city  by  the  auspices,  considered  the  augural  science   of  great  utility  in  foreseeing  matters.      For  antiquity  was  deceived  in  many  things,  which  time,  custom,  and   enlarged  experience  have  corrected.     And  the  custom  of  reverence  for,  and  discipline  and  rights  of,  the  augurs,  and  the  authority  of  the  college,  are  still  retained  for  the  sake  of  their  influence  on  the  minds  of  the  common  people.   And  certainly  the  consuls  P.  Claudius  and  L.  Junius  de  served  severe  punishment,  who  set  sail  in  defiance  of  the  auspices ;  for  they  ought  to  have  been  obedient  to  the  esta  blished  religion,  and  not  to  have  rejected  so  obstinately  the  national  ceremonials.  Justly,  therefore,  was  one  of  them  condemned  by  the  judgment  of  the  people,  while  the  other  perished  by  his  own  hand.  Flaminius,  likewise,  was  not  duly  submissive  to  the  auspices;  and  that  was  the  reason,  you  say,  why  he  was  defeated.  But,  the  year  afterwards,  Paullus  was  guided  by  them.  Did  he  the  less  for  that  perish  with  his  army  in  the  battle  of  Cannes  1   Even  allowing  the  existence  of  auspices,  which  I  do  not,  certainly  those  at  present  in  use,  whether  by  means  of  birds  or  celestial  signs,  are  but  mere  semblances  of  auspices,  and  not  real  ones.  "  Quintus  Fabius,  I  pray  thee,  assist  me  in  the  auspices."    He  answers,  "  I  have  heard."    The  augurial  officer  among  our  forefathers  was  a  skilful  and  learned  man ;  now  they  take  the  first  that  offers.  For  a  man  must  needs  be  skilful  and  learned  who  understands  the  meaning  of  silence.  For  in  auspices  we  call  that  silence  which  is  free  from  all  Irregularity.  To  understand  this,  belongs  to  a  perfect  augur.   It  sometimes  happens,  however,  that  when  he  who  wishes  to  consult  the  auspices  has  said  to  the  augur  whom  he  has  chosen  to  assist  him,  "  Say,  if  silence  is  observed,"  the  augur,  without  looking  above  or  around  him,  answers  immediately,  "  Silence  appears  to  be  observed."  On  this  the  consulter  rejoins,  "  Tell  me  whether  the  chickens  are  eating."  The  augur  replies,  "  They  are  eating."  But  when  the  consulter  fur  ther  demands,  "  What  kind  of  fowls  are  they,  and  whence  do  they  come?"  the  augur  answers,  "The  chickens  were  brought  in  a  cage  by  a  person  who  is  termed  a  poulterer."   Such,  then,  are  the  illustrious  birds  whom  we  call,  forsooth,  the  messengers  of  Jupiter ;  and  whether  they  eat  or  not,  what  does  it  signify  ?  Certainly  nothing  to  the  auspices.  But  since,  if  they  eat  at  all,  some  portion  of  food  must  inevitably  fall  on  the  ground  and  strike  (pavire)  the  earth,  this  was  at  first  called  terripavium,  then  terripudium,  and  is  now  called  tripudium.  When,  therefore,  the  chicken  lets  fall  from  its  beak  a  particle  of  its  food,  the  augur  declares  that  the  tripu  dium  solistimum  is  consummated. What  true  divination  can  there  be  in  an  auspice  of  this  nature,  so  artificially  forced  and  tortured  ?  which,  we  have  a  proof,  was  not  used  among  the  most  ancient  augurs  ;  for  we  have  an  ancient  decree  of  the  college  of  augurs,  that  any  bird  may  make  the  tripudium.  So  that,  then,  there  would  be  an  auspice  if  the  bird  was  free  to  show  itself,  and  the  bird  might  appear  to  be  the  messenger  and  interpreter  of  Jupiter.  But  when  a  miserable  bird  is  kept  in  a  cage,  and  ready  to  die  of  hunger, — if  such  an  one,  when  pecking  up  its  food,  happens  to  let  some  particle  fall,  can  you  think  this  an  auspice,  or  do  you  believe  that  Romulus  consulted  the  gods  in  this  manner  ?   Do  you  imagine  that  those  who  pretend  to  augury  apply  themselves  at  the  present  day  to  discern  the  signs  of  heaven  1  No ;  they  give  their  orders  to  the  poulterer.  He  makes  his  report.   It  has  been  reckoned  an  excellent  auspice  on  all  occasions, among  the  Romans,  when  it  thunders  on  the  left  hand,  except  in  reference  to  the  Comitia ;  and  this  exception  was  doubtless  contrived  for  the  benefit  of  the  commonwealth,  in  order  that  the  chiefs  of  the  state  might  be  the  interpreters  of  the  Comitia  in  whatever  concerns  the  judgments  of  the  people,  the  rights  of  the  laws,  and  the  creation  of  the  magistrates.  "  But,"  you  argue,  "  in  consequence  of  the  letters  of  Ti  berius  Gracchus,  Scipio  Nasica  and  Caius  Martins  Figulus  resigned  the  consulship,  because  the  augurs  determined  that  they  had  been  irregularly  created."  Well,  who  denies  that  there  is  a  school  of  Augurs  1  What  I  deny  is,  that  there  is  any  such  thing  as  divination.   "  But  the  soothsayers  are  diviners ;  and  after  Tiberius  Gracchus  had  introduced  them  into  the  senate,  on  account  of  the  sudden  death  of  the  individual  whose  office  it  was  to  report  the  order  of  the  elections,  they  said  that  the  Comitia  had  not  been  legally  constituted."   Now,  in  reference  to  this  case,  observe  that  they  could  not  speak  by  authority  of  the  summoner  of  the  president  of  the  centuries,  for  he  was  dead;  and  conjecture  without  divination  could  say  that.  Or  perhaps  what  they  said  was  no  better  than  the  result  of  chance,  which  prevails  to  a  considerable  extent  in  all  affairs  of  this  nature.  For  what  could  the  sooth  sayers  of  Etruria  know  as  to  whether  the  tent  they  observed  was  as  it  should  be,  and  whether  the  regulations  of  the  pomoerium,  or  circumvallation,  were  exactly  obeyed.   For  myself,  I  agree  with  the  sentiments  of  Caius  Marcellus  rather  than  with  those  of  Appius  Claudius,  who  were  both  of  them  my  colleagues ;  and  I  think  that,  although  the  college  and  law  of  augurs  were  first  instituted  on  account  of  the  reverence  entertained  for  divination  in  ancient  times,  they  were  afterwards  maintained  and  preserved  for  the  sake  of  the  state. Of  this,  however,  more  elsewhere.  At  present,  let  us  examine  the  auguries  of  other  nations  who  have  evinced  therein  more  superstition  than  art.  They  make  use  of  all  kinds  of  birds  for  their  auspices;  we  confine  ourselves  to  few:  and  one  set  of  omens  are  reckoned  unfavourable  by  them,  and  a  different  set  by  us.   King  Deiotarus  often  asked  me  for  an  account  of  our  discipline  and  system  of  divination,  and  I  asked  him  for  information  aoout  nis.  Good  heavens !  how  different  were  the  two  methods ,  in  some  instances,  so  much  so  as  to  be  downright  contradictory  to  one  another.  And  he  had  re  course  to  augurs  on  all  occasions ;  but  how  very  seldom  do  we  apply  to  them  unless  the  auspices  are  required  by  the  people  !   Our  ancestors  were  unwilling  to  wage  any  war  without  consulting  the  auspices.  But  how  many  years  have  elapsed  since  this  ceremony  has  been  neglected  by  our  proconsuls  and  propraetors  ?  They  never  take  auspices ;  they  do  not  pass  over  rivers  by  the  encouragement  of  omens ;  nor  do  they  wait  for  the  intimation  of  the  sacred  chickens.   As  to  that  divination  which  consists  in  observing  the  flight  of  birds  from  some  elevated  spot — once  considered  of  so  much  consequence  in  military  expeditions, — Marcus  Marcellus,  who  was  consul  five  times,  as  well  as  imperator  and  chief  augur  too,  omitted  it  altogether.  What  is  become,  then,  of  divina  tion  by  birds,  which  (as  wars  are  carried  on  by  people  who  take  no  care  about  any  auspices)  seems  to  be  retained  by  the  city  magistrates,  while  it  is  renounced  by  our  military  com  manders  ?  So  much  did  Marcellus  despise  auspices,  that  when  he  was  proceeding  on  any  enterprise,  he  was  accustomed  to  travel  in  a  closed  litter,  that  he  might  not  be  liable  to  be  hindered  by  them.  And  we  augurs  now-a-days  act  much  in  the  same  way,  when,  for  fear  of  what  is  called  a  joint  auspice,  we  order  the  sacrificial  cattle  to  be  separated  from  each  other.  Not  that  I  commend  conduct  like  this ;  for  to  make  these  contrivances,  either  that  an  auspice  should  not  happen  at  all,  or  that  if  it  happens  it  should  not  be  seen, —  what  is  it  but  an  attempt  to  avoid  the  admonitions  of  Jupiter  ?  It  is  ridiculous  enough  for  you  to  assert  that  this  king  Deiotarus  did  not  repent  of  having  believed  the  auspices  which  he  experienced  when  he  went  in  search  of  Pompey,  because  he  had,  by  doing  his  duty,  thus  secured  the  fidelity  and  friendship  of  the  Romans ;  for  that  praise  and  glory  were  dearer  to  him  than  his  kingdom  and  possessions.  I  dare  say  they  were ;  but  this  has  nothing  to  do  with  the  auspices.  Surely  no  crow  could  inform  him  that  it  was  a  piece  of  magnanimity  to  defend  the  liberty  of  the  Roman  people.  It  was  he  himself  who  felt  spontaneously  what  he  did  feel;  and birds  can  do  no  more  than  signify  bare  events,  be  they  for  tunate  or  disastrous.   Thus,  I  conceive  that  Deiotarus  in  this  affair  followed  no  other  auspices  than  those  of  conscience,  which  taught  him  to  prefer  his  duty  to  his  interest.  But  if  the  birds  showed  him  that  the  result  would  be  prosperous,  they  certainly  deceived  him  ;  for  he  fled  from  the  battle,  together  with  Pompey,  and  a  grievous  time  it  was  for  him.  From  this  general  he  was  compelled  to  separate — another  affliction  ;  and,  to  crown  his  troubles,  he  soon  had  Csesar  quartered  upon  him,  both  as  a  guest  and  an  enemy.  What  could  be  more  painful  than  this  ?  Lastly ,  Csesar,  after  having  deprived  him  of  the  tetrarchy  of  the  Trogini,  and  bestowed  it  on  a  certain  Pergamenian  of  his  train, — after  having  likewise  deprived  him  of  Armenia,  which  had  been  granted  him  by  the  senate, — after  having  been  entertained  by  him  with  most  princely  hospitality,  left  his  entertainer  the  king  wholly  stripped  of  his  possessions.   It  is  needless  to  add  more.  I  will  return  to  my  original  subject.  If  we  seek  to  know  events  by  those  auspices  which  are  sought  from  birds,  it  appears  by  this  argument  that  no  birds  could  truly  have  predicted  prosperity  to  king  Deiotarus.  If  we  want  to  know  our  duty,  that  is  not  to  be  sought  from  augury,  but  from  virtue.   I  say  nothing,  then,  of  the  augural  staff  of  Romulus,  which  you  declare  to  have  remained    unconsumed  by  fire  in  the  midst  of  a  general  conflagration ;  and  pass  over  the  razor  of  Attius  Navius,  which  is  reported  to  have  cut  through  a  whetstone.  Such  fables  as  these  should  not  be  admitted  into  philosophical  discussions.   What  a  philosopher  has  to  do  is,  first,  to  examine  the  nature  of  the  augural  science,  to  investigate  its  origin,  and  to  pursue  its  history.  But  how  pitiful  is  the  nature  of  a  science  which  pretends  that  the  eccentric  motions  of  birds  are  full  of  ominous  import,  and  that  all  manner  of  things  must  be  done,  or  left  undone,  as  their  flights  and  songs  may  indicate !  How  can  their  inclinations  to  the  right  or  left  determine  the  power  of  auspices  ?  and  how,  when,  and  by  wrhom  were  such  absurd  regulations  as  these  invented  ?   The  Etrurian  soothsayers  hold  as  the  author  of  their  dis  cipline  a  child  whom  a  ploughshare  suddenly  dug  up  from  a  clod  of  the  earth.  Whom  do  we  Romans  look  upon  as  the author  of  ours  ?  Is  it  Attius  Navius  ?  But  Romulus  and  Remus  lived  several  years  before  him,  and  they  were  both  augurs,  as  we  are  informed.  Shall  we  call  our  system  the  invention  of  the  Pisidians,  the  Cilicians,  or  the  Phrygians  1  Shall  we,  by  speaking  thus,  call  men  devoid  of  all  civilization  the  authors  of  divination  ?  "  But,"  you  say,  "  all  kings,  people,  and  nations  use  auspices ; "  as  if  there  was  anything  in  the  world  so  very  common  as  error  is,  or  as  if  you  yourself,  in  judging,  were  guided  by  the  opinion  of  the  multitude.   How  few,  for  instance,  are  there  who  deny  that  pleasure  is  a  good  :  most  people  even  think  it  the  chief  good.  But  is  the  Stoic  frightened  from  his  creed  by  their  numbers  ?  or  does  the  multitude  follow  their  authority  in  many  things  1  What  wonder  is  there,  then,  if  in  respect  of  auspices,  and  all  kinds  of  divinations,  weak  spirits  are  affected  by  those  popular  superstitions,  though  they  cannot  overturn  the  truth  1   And  what  uniformity  or  settled  agreement  exists  between  augurs [The  poet  Ennius,  referring  to  our  Roman  augurs,  says —   When  on  the  left  it  thunders,  all  goes  well.   In  Homer,  on  the  contrary,  Ajax,1  making  some  complaint  or  other  to  Achilles  about  the  ferocity  of  the  Trojans,  speaks  in  this  manner —   For  them  the  father  of  the  Gods  declares,  His  omens  on  the  right,  his  thunder  theirs.   So  that  omens  on  the  left  appear  fortunate  to  us,  while  the  Greeks  and  barbarians  prefer  those  on  the  right.  Although  I  am  not  unaware  that  our  Romans  call  prosperous  signs  sinistra,  even  if  they  are  in  fact  dextra.  But  certainly  our  countrymen  used  the  term  sinistra,  and  foreigners  the  word  dextra,  because  that  usually  appeared  the  best.  How  great,  however,  is  this  contrariety !  Why  need  I  stop  to  mention  that  they  use  different  birds  and  different  signs  from  our  selves?  they  take  their  observations  in  a  different  way,  and  give  answers  in  a  different  way;  and  it  is  superfluous  to  admit  that  some  of  these  modes  are  adopted  through  error,  some  through  superstition,  and  that  they  often  mislead. To  this  catalogue  of  superstitions  you  have  not  hesi-   1  This  is  another  piece  of  forge tfulness  on  the  part  of  Cicero.— See  Iliad,  ix.  236.   tated  to  add  a  number  of  omens  and  presages.  For  instance,  you  have  quoted  the  words  which  ./Emilia  addressed  to  Paulus,  that  Perses  had  perished  ;  which  Paulus  received  as  an  omen  of  success.  You  quote  likewise  the  speech  that  Cecilia  made  to  her  sister's  daughter — "  I  yield  my  place  to  you."  Nor  is  this  all :  you  cite  the  phrase,  favete  linguis  (keep  silence)  ;  and  you  extol  the  prerogative  presage  derived  from  the  name  of  the  person  who  takes  precedence  in  the  elections  of  the  comitia.  I  call  this  being  ingenious  and  eloquent  against  yourself;  for  how,  if  you  attend  to  things  like  these,  can  your  mind  be  free  and  calm  enough  to  follow,  not  supersti  tion,  but  reason,  as  your  guide  in  action  1  Is  it  not  so  ?  If  any  one,  while  speaking  on  his  own  affairs,  in  the  course  of  his  common  conversation,  drops  a  word  that  may  seem  to  you  to  bear  on  anything  which  you  are  thinking  or  doing,  shall  that  circumstance  inspire  you  with  either  fear  or  energy?   When  Marcus  Crassus  was  embarking  his  army  at  Brundu-  sium,  a.  certain  itinerant  vender  of  figs  from  Caunus  cried  out  in  the  harbour,  "  Will  you  buy  any  cauneas  /"  Let  us  say,  if  you  please,  that  this  was  an  omen  against  Crassus's  expedition ;  for  that  it  was  as  much  as  to  say,  Cave  ne  eas  (Beware  how  you  go),  and  that  if  Crassus  had  obeyed  the  omen  he  would  not  have  perished.  But  if  we  regard  such  omens  as  these,  we  shall  have  to  take  notice  of  sneezes,  the  breaking  of  a  shoe-tie,  or  the  tripping  over  a  pebble  in  walking.   It  now  remains  for  us  to  speak  of  the  lots,  and  the  Chal  dean  astrologers,  vaticinations,  and  dreams.  And  first  let  us  speak  of  lots.  What,  now,  is  a  lot?  Much  the  same  as  the  game  of  mora,  or  dice, !  and  other  games  of  chance,  in  which  luck  and  fortune  are  all  in  all,  and  reason  and  skill  avail  nothing.  These  games  are  full  of  trick  and  deceit,  invented  for  the  object  of  gain,  superstition,  or  error.   But  let  us  examine  the  imputed  origin  of  the  lots,  as  we  did  that  of  the  system  of  the  soothsayers.   We  read  in  the  records  of  the  Prsenestines,  that  Numeriua  Sufnicius,  a  man  of  high  reputation  and  rank,  had  often  been  commanded  by  dreams  (which  at  last  became  very  threaten-   !  The  Latin  has  quod  talos  jacere,  quod  tesseras, — tali  being  dice  with  four  flat  and  two  round  sides,  and  tesserce  dice  with  six  flat  sides.     ing)  to  cut  a  flint-stone  in  two,  at  a  particular  spot.  Being  extremely  alarmed  at  the  vision,  he  began  to  act  in  obedience  to  it,  in  spite  of  the  derision  of  his  fellow-citizens;  and  he  had  no  sooner  divided  the  stone,  than  he  found  therein  certain  lots,  engraved  in  ancient  characters  on  oak.  The  spot  in  •which  this  discovery  took  place  is  now  religiously  guarded,  being  consecrated  to  the  infant  Jupiter,  who  is  represented  with  Juno  as  sitting  in  the  lap  of  Fortune,  and  sucking  her  breasts,  and  is  most  chastely  worshipped  by  all  mothers.   At  the  same  time  and  place  in  which  the  Temple  of  For  tune  is  now  situated,  they  report  that  honey  flowed  out  of  an  olive.  Upon  this  the  augurs  declared  that  the  lots  there  instituted  would  be  held  in  the  highest  honour;  and,  at  their  command,  a  chest  was  forthwith  made  out  of  this  same  olive-  tree,  and  therein  those  lots  are  kept  by  which  the  oracles  of  Fortune  are  still  delivered.  But  how  can  there  be  the  least  degree  of  sure  and  certain  information  in  lots  like  these,  which,  under  Fortune's  direction,  are  shuffled  and  drawn  by  the  hands  of  a  child  ?  How  were  the  lots  conveyed  to  this  particular  spot,  and  who  cut  and  carved  the  oak  of  which  they  are  composed  1   "  Oh,"  say  they,  "  there  is  nothing  which  God  cannot  do."  I  wish  that  he  had  made  these  Stoical  sages  a  little  less  inclined  to  believe  every  idle  tale,  out  of  a  superstitious  and  miserable  solicitude.   The  common  sense  of  men  in  real  life  has  happily  succeeded  in  exploding  this  kind  of  divination.  It  is  only  the  antiquity  and  beauty  of  the  Temple  of  Fortune  that  any  longer  pre  serves  the  Prsenestine  lots  from  contempt  even  among  the  vulgar.  For  what  magistrate,  or  man  of  any  reputation,  ever  resorts  to  them  now?  And  in  all  other  places  they  are  wholly  disregarded  ;  so  that  Clitomachus  informs  us,  that  with  refe  rence  to  this,  Carneades  was  wont  to  say  that  he  had  never  been  so  fortunate  as  when  he  saw  Fortune  at  Prseneste.  So  we  will  say  no  more  on  this  topic.   Let  us  now  consider  the  prodigies  of  the  Chaldeans.  Eudoxus,  who  was  a  disciple  of  Plato,  and,  in  the  judgment  of  the  greatest  men,  the  first  astronomer  of  his  time,  formed  the  opinion,  and  committed  it  to  writing,  that  no  credence  should  be  given  to  the  predictions  of  the  Chaldeans  in  their  calculation  of  a  man's  life  from  the  day  of  his  nativity.  Paneetius,  who  is  almost  the  only  Stoic  who  rejects  astro  logical  prophecies,  says  that  Archelaus  and  Cassander,  the  two  principal  astronomers  of  the  age  in  which  he  himself  lived,  set  no  value  on  judicial  astrology,  though  they  were  very  celebrated  for  their  learning  in  other  parts of astronomy. Scylax  of  Halicarnassus,  a  great  friend  of  Pansetius,  and  a  first-rate  astronomer,  and  chief  magistrate  of  his  own  city,  likewise  rejected  all  the  predictions  of  the  Chaldeans.   But  to  proceed  merely  on  reason,  omitting  for  the  present  the  testimony  of  these  witnesses.   Those  who  put  faith  in  the  Chaldeans,  and  their  calcu  lations  of  nativities,  and  their  various  predictions,  argue  in  this  manner  :  they  affirm  that  in  that  circle  of  constellations  which  the  Greeks  term  the  Zodiac  there  resides  a  ceiiain  energy,  of  such  a  character  that  each  portion  of  its  circum  ference  influences  and  modifies  the  surrounding  heavens  ac  cording  to  what  stars  are  in  those  and  the  neighbouring  parts  at  each  season ;  and  that  this  energy  is  variously  affected  by  those  wandering  stars  which  we  call  planets.  But  when  they  come  into  that  portion  of  the  circle  in  which  is  situated  the  rise  of  that  star  which  appears  anew,  or  into  that  which  has  anything  in  conjunction  or  harmony  with  it,  they  term  it  the  true  or  quadrate  aspect.   And  moreover,  as  there  happen  at  every  season  of  the  year  several  astronomical  revolutions,  owing  to  approximations  and  retirements  of  the  stars  which  we  see,  which  are  affected  by  the  power  of  the  sun, — they  think  it  not  merely  probable,  but  true,  that  according  to  the  temperature  of  the  atmosphere  at  the  time  must  be  the  animation  and  formation  of  children  from  their  mother's  womb  ;  and  that  their  genius,  disposition,  temper,  constitution,  behaviour,  fortune,  and  destiny  through  life  depend  upon  that. What  an  incredible  insanity  is  this !  for  every  error  does  not  deserve  the  mere  name  of  folly.  The  Stoic  Diogenes  grants,  that  the  Chaldeans  possess  the  power  of  foreseeing  certain  events ;  to  the  limit,  that  is,  of  predicting  what  a  child's  disposition  and  his  particular  talent  and  ability  are  likely  to  be.  But  he  denies  that  the  other  things  which  they  profess  can  possibly  be  known.  For  instance ;  two  twins  may  re  semble  each  other  in  appearance,  and  yet  their  lives  and  fortunes  may  be  entirely  dissimilar.  Procles  and  Eurysthenes,  kings  of  the  Laceduemonians,  were  twin-brethren.  But  they  did  not  live  the  same  number  of  years ;  for  Procles  died  a  year  before  his  brother,  and  much  excelled  him  in  the  glory  of  his  actions.   But  I  question  whether  even  that  portion  of  prophetic  power  which  the  worthy  Diogenes  concedes  to  the  Chaldeans,  by  a  sort  of  prevarication  in  argument,  can  be  fairly  ascribed  to  them.  For,  as  according  to  them  the  birth  of  infants  is  regulated  by  the  moon,  and  as  the  Chaldeans  observe  and  take  notice  of  the  natal  stars  with  which  the  moon  happens  to  be  in  conjunction  at  the  moment  of  a  nativity,  they  are  founding  their  judgment  on  the  most  fallacious  evidence  of  their  eyes,  as  to  matters  which  they  ought  to  behold  by  reason  and  intellect.  For  the  science  of  Mathematics,  with  which  they  ought  to  be  acquainted,  should  teach  them  the  comparative  proximity  of  the  moon  to  the  earth,  and  its  re  lative  remoteness  from  the  planets  Venus  and  Mercury,  and  especially  from  the  sun,  whose  light  it  is  supposed  to  borrow.  And  the  other  three  intervals,  those,  namely,  which  separate  the  sun  from  Mars  and  from  Jupiter  and  from  Saturn,  and  the  distance  also  between  that  and  the  heaven,  which  is  the  bound  and  limit  of  our  universe,  are  infinite  and  immense.  What  influence,  then,  can  such  distant  orbs  ti'ansmit  to  the  moon,  or  rather  to  the  earth?  Moreover,  when  these  astrologers  maintain,  as  they  are  bound  to  maintain,  that  all  children  that  are  born  on  the  earth  under  the  same  planet  and  constellation,  having  the  same  signs  of  nativity,  must  experience  the  same  destinies,  they  make  an  assertion  which  evinces  the  greatest  ignorance  of  astronomy.  For  those  circles  which  divide  the  heaven  into  hemispheres — circles  which  the  Greeks  call  horizons,  and  the  Latins  finientes — perpetually  vary  according  to  the  spot  from  which  they  are  drawn ;  and,  therefore,  the  risings  and  settings  of  the  stars  appear  to  take  place  at  different  seasons  to  dif  ferent  races  of  men.   If,  then,  the  condition  of  the  atmosphere  is  affected  by  the  energy  and  virtue  of  the  stars,  sometimes  in  one  way  and  sometimes  in  another,  how  can  those  children  who  are  born  at  the  same  time  in  different  climates  be  subject  to  the  same  starry  influences  in  various  quarters  of  the  globe  1  For  instance,  in  the  country  which  we  Romans  inhabit,  the  dog-star  rises  some  days  after  the  summer  solstice,  while  among  the  Troglodytes,  a  people  of  Africa,  it  is  said  to  rise  before  it.  So  that  if  I  were  to  grant  that  the  heavenly  influences  have  an  effect  upon  all  the  children  who  are  born  upon  the  earth,  it  would  follow,  that  all  who  are  born  at  the  same  time  in  different  regions  of  the  earth,  must  be  born  not  with  the  same  but  with  different  inclinations  according  to  the  different  conditions  of  climate;  which,  however,  they  by  no  means  admit.  For  they  persist  in  maintaining  that  all  chil  dren  who  are  born  at  the  same  period,  have  at  their  nativity  the  same  astrologicl  destinies  allotted  to  them,  whatever  their  native  country  may  be. But  what  folly  is  it  to  imagine,  that  while  attending  to  the  swift  motions  and  revolutions  of  heaven,  we  should  take  no  notice  of  the  changes  of  the  atmosphere  immediately  around  us, — its  weather,  its  winds,  and  rains — when  weather  differs  so  much  even  in  places  which  are  nearest  to  one  another,  that  there  is  often  one  weather  at  Tusculum  and  another  at  Rome;  as  is  especially  remarked  by  sailors,  who,  after  having  doubled  a  cape,  often  find  the  greatest  possible  change  in  the  wind.   When  the  calmness  or  disturbed  state  of  the  weather  is  so  variable,  is  it  the  part  of  a  man  in  his  senses  to  say  that  these  circumstances  have  no  effect  on  the  births  of  children  happen  ing  at  that  moment,  (as,  indeed,  they  have  not,)  and  yet  to  affirm,  that  that  subtle  and  indefinable  thing,  which  cannot  be  felt  at  all,  and  can  scarcely  be  comprehended,  —  namely,  the  conjuncture  which  arises  from  the  moon  and  other  stars,  does  affect  the  birth  of  children  1 — What?  is  it  a  slight  error,  not  to  understand  that  by  this  system  that  energy  of  seminal  principles  which  is  of  so  much  influence  in  begetting  and  procreating  the  child  is  utterly  put  out  of  sight? — for  who  can  help  observing  that  the  parents  impress  on  their  children,  to  a  great  extent,  their  own  forms,  manners,  features,  and  gestures.  Now  this  could  hardly  happen  if  it  were  not  the  power  and  nature  of  the  parents  which  was  the  efficient  cause,  but  the  condition  of  the  moon  and  the  temperature  of  the  heavens.   Why  need  I  press  the  argument  that  those  who  are  born  at  one  and  the  same  moment,  are  dissimilar  in  their  nature,  their  lives,  and  their  circumstances?   Besides,  is  there  any  doubt  that  many  persons,  though  they  were  born  with  great  bodily  defects,  are  never  theless  afterwards  cured  of  them,  and  set  right  by  the  self-  corrective  power  of  their  nature,  or  by  the  attention  of  their  nui-ses,  or  the  skill  of  their  physicians?  or  that  many  chil  dren  have  been  born  so  tongue-tied  that  they  could  not  speak,  and  yet  have  been  cured  by  the  application  of  the  knife'?  Many  likewise  by  meditation  or  exercise  have  removed  their  natural  infirmities.  Thus  Phalereus  records  that  Demos  thenes  when  young  could  not  pronounce  the  letter  R;  but  afterwards  by  constant  practice  he  learnt  to  articulate  it  perfectly.  Now,  if  such  defects  had  been  occasioned  by  the  influence  of  the  stars,  nothing  could  have  altered  them.   Need  I  say  more?  Does  not  difference  of  situation  make  races  of  men  different  1  It  is  easy  enough  to  give  a  list  of  such  instances;  and  to  point  out  what  differences  exist  be  tween  the  Indians  and  Persians,  the  ^Ethiopians  and  Syrians,  in  respect  both  of  their  persons  and  characters,  so  as  to  present  an  incredible  variety  and  dissimilarity.  And  this  fact  proves,  that  the  climate  influences  the  nativities  of  men  far  more  than  the  aspect  of  the  moon  and  stars.  For  though  some  pretend  that  the  Chaldean  astrologers  have  verified  the  nativities  of  children  by  calculations  and  experi  ments  in  the  cases  of  all  the  children  who  have  been  born  for  470,000  years,  this  is  a  mistake.  For  had  they  been  in  the  habit  of  doing  so,  they  would  never  have  given  up  the  practice.  But.  as  it  is,  no  author  remains  who  knows  of  such  a  thing  being  done  now,  or  ever  having  been  done. You  see  that  I  am  not  using  the  arguments  of  Carneades,  but  those  rather  of  Pantetius,  the  chief  of  the  Stoics  But  answer  me  now  this  question.  Were  all  those  persons  who  were  slain  in  the  battle  of  Cannae  born  under  the  same  constellation,  as  they  met  with  one  and  the  same  end?  Again,  have  those  men  who  are  singular  in  their  genius  and  courage,  a  separate,  some  peculiar  star  of  their  own  too  1  For  what  moment  is  there  in  which  a  multitude  of  persons  are  not  born?  and  yet  no  one  has  ever  been  like  Homer.   And  if  the  aspect  of  the  stars  and  the  state  of  the  firma  ment  influenced  the  birth  of  every  being,  it  should,  by  parity  of  reasoning,  influence  inanimate  substances;  yet  what  can  be  more  absurd  than  such  an  idea?  I  grant,  indeed,  that  Lucius  Tarutius  of  Firma,  my  own  personal  friend,  and  a  man  particularly  well  acquainted  with  the  Chaldean  astrology,  traced  back  the  nativity  of  our  own  city,  Rome,  to  those  equinoctial  days  of  the  feast  of  Pales  in  which  Romulus  is  reported  to  have  begun  its  foundations,  and  asserted  that  the  moon  was  at  that  period  in  Libra,  and  on  this  discovery,  he  hesitated  not  to  pronounce  the  destinies  of  Rome.   Oh,  the  mighty  power  of  delusion !  Is  even  the  b'irth-day  of  a  city  subject  to  the  influence  of  the  stars  and  moon'?  Granting  even  that  the  condition  of  the  heavens,  when  he  draws  his  first  breath,  may  influence  the  life  of  a  child,  does  it  follow  that  it  can  have  any  effect  on  brick  or  cement,  of  which  a  city  is  composed?   Why  need  I  say  more?  Such  ideas  as  these  are  refuted  every  day.  How  many  of  these  Chaldean  prophecies  do  I  remember  being  repeated  to  Pompey,  Crassus,  and  to  Caesar  himself !  according  to  which,  not  one  of  these  heroes  was  to  die  except  in  old  age,  in  domestic  felicity,  and  perfect  renown ;  so  that  I  wonder  that  any  living  man  can  yet  believe  in  these  impostors,  whose  predictions  they  see  falsified  daily  by  facts  and  results.   -It  only  remains  for  us  now  to  examine  those  ttfo  sorts  of  divination  which  you  term  natural,  as  distin  guished  from  artificial — namely,  vaticinations  and  dreams.  With  your  permission,  brother  Quiutus,  we  will  now  treat  of  these.   I  shall  be  very  well  pleased  to  hear  you,  (answered  Quintus,)  for  I  entirely  agree  with  all  you  have  hitherto  advanced,  and,  to  tell  you  the  trut,  although  I  have  had  my  feelings  on  the  subject  strengthened  by  your  arguments,  yet  of  my  own  accord  I  looked  upon  the  opinion  of  the  Stoics  respecting  divination  as  rather  too  superstitious,  and  was  more  inclined  to  favour  the  arguments  which have  been  adduced  by  the  Peripatetics,  and  the  ancient  DicEearchus.  and  Cratippus,  who  now  flourishes,  who  all  maintain  that  there  exists  in  the  minds  of  men  a  certain  oracular  and  pro  phetic  power  of  presentiment,  whereby  they  anticipate  future  events,  whether  they  are  inspired  with  a  divine  ecstasy,  or  are  r.s  it  were  disengaged  from  the  body,  and  act  freely  and  easily  during  sleep.  I  wish  therefore  to  know  what  is  your  opinion  respecting  these  vaticinations  and  dreams,  and  by  what  ingenious  devices  you  mean  to  invalidate  them.   When  Quintus  had  thus  spoken,  I  proceeded  again  to  speak,  starting  afresh,  as  it  were,  from  a  new  beginning.   I  am  very  well  aware,  brother  Quintus,  I  replied,  that  you  have  always  entertained  doubts  respecting  the  other  kinds  of  divination;  but  that  you  are  very  favourable  to  the  two  natural  kinds — namely,  ecstasy  and  dreams,  which  appear  to  proceed  from  the  mind  when  at  liberty.  T  will  therefore  tell  you  my  idea  very  candidly  respecting  these  two  species  of  divination,  after  I  have  examined  a  little  the  sentiment  of  the  Stoics,  and  espe  cially  of  our  friend  Cratippus,  on  this  subject.  For  you  said  that  Cratippus,  Diogenes,  and  Antipater  summed  up  the  question  in  this  manner : — "  If  there  are  Gods,  and  they  do  not  inform  men  beforehand  respecting  future  events,  either  they  do  not  love  men,  or  do  not  know  what  is  going  to  happen;  or  they  think  that  the  knowledge  of  the  future  would  be  of  no  service  to  mankind;  or  they  believe  it  incon  sistent  with  the  majesty  of  Gods  to  reveal  to  men  the  things  that  must  come  to  pass;  or,  lastly,  we  must  believe  that  even  the  Gods  themselves  are  incapable  of  declaring  them.  But  we  cannot  say  that  the  Gods  do  not  love  man,  for  they  are  essentially  benevolent  and  philanthropic.  And  they  cannot  be  ignorant  of  those  things,  which  they  themselves  have  appointed  and  designed  :  neither  can  it  be  uninteresting  or  unimportant  to  us  to  know  what  must  happen  to  us,  for  we  should  be  more  prudent  if  we  did  know.  Nor  can  the  Gods  think  it  inconsistent  with  their  dignity  to  advertise  men  of  future  events,  for  nothing  can  be  more  sublime  than  doing-  good.  Nor  are  they  unable  to  perceive  the  future  before  hand.  If,  therefore,  there  are  no  Gods,  they  do  not  declare  the  future  to  us;  but  there  are  Gods,  therefore  they  do  declare.  And  if  the  Gods  declare  future  events  to  us,  they  must  have  furnished  us  with  means  whereby  we  may  appre  hend  them,  otherwise  they  would  declare  them  in  vain;  and  if  they  have  given  us  the  means  of  apprehending  divination,  then  there  is  a  divination  for  us  to  apprehend — therefore  there  is  a  divination."   0  acutest  of  men,  in  what  concise  terms  do  they  think  that  they  have  settled  the  question  for  ever!  They  assume premises  to  draw  their  conclusion  from,  not  one  of  which  is  granted  to  them.  But  the  only  conclusion  of  an  argument  which  can  be  approved,  is  one  in  which  the  point  doubted  of  is  established  by  facts  which  are  not  doubtful.   L.  Do  you  not  see  how  Epicurus,  whom  the  Stoics  forsooth  term  a  blunderer,  reasons  in  order  to  prove  that  the  universe  is  infinite  in  the  very  nature  of  things  ?  That  which  is  finite,  says  he,  has  an  end.  Every  one  will  concede  this.  What  ever  has  an  end,  may  be  seen  externally  from  something  else.  This  also  may  be  granted  him.  Now  that  which  includes  al,  cannot  be  discerned  externally  from  anything  else.  This  proposition  likewise  appears  undeniable.  Therefore  that  which  includes  all,  having  no  end,  is  necessarily  infinite.  Thus  by  the  proposition  which  we  are  compelled  to  admit,  he  clearly  proves  the  point  in  question.   Now  this  is  just  what  you  dialecticians  have  not  yet  done  in  favour  of  divination ;  and  you  not  only  bring  forward  no  pro  position  as  your  premises,  so  self-evident  as  to  be  universally  admitted  ;  but  you  assume  such  premises  as,  even  if  they  be  granted,  your  desired  conclusion  would  be  as  far  as  ever  from  following.  For  instance,  your  first  proposition  is  this:  If  there  are  Gods  they  must  needs  be  benevolent.  Who  will  grant  you  this  1  Will  Epicurus,  who  asserts  that  the  Gods  do  not  care  about  any  business  of  their  own  or  of  others  ?  or  will  our  own  countryman  Ennius,  who  was  applauded  by  all  the  Romans,  when  he  said —   I've  always  argued  that  the  Gods  exist,  But  that  they  care  for  mortals  I  deny ;   and  then  gives  reasons  for  his  opinion;  but  it  is  not  neces  sary  to  quote  him  further.  I  have  said  enough  to  show  that  your  friends  assume  as  certain,  propositions  which  are  matters  of  doubt  and  controversy.  The  next  proposition  is  this,  That  the  Gods  must  needs  know  all  things,  because  they  have  made  all  things.  But  how  great  a  dispute  is  there  as  to  this  fact  among  the  most  learned  men,  several  of  whom  deny  that  all  things  were  created  by  the  immortal  Gods!   Again,  they  assert,  that  it  is  the  interest  of  man  to  know  those  things  which  are  about  to  come  to  pass.  But  Dicsear-  chus  has  written  a  great  book  to  prove  that  ignorance  of  futurity  is  better  than  knowledge  of  futurity.  They  deny  that  it  is  inconsistent  with  the  majesty  of  the  Gods  to  look  into  every  man's  house,  forsooth,  so  as  to  see  what  is  expedient  for  each  individual.  Nor  is  it  possible,  say  they,  for  them  to  be  ignorant  of  the  future.  This  is  denied  by  those  who  will  not  allow  that  what  is  future  can  be  certain.  Do  not  you  see,  therefore,  that  they  have  assumed  as  certain  and  admitted  axioms,  things  which  are  doubtful  ?   After  which,  they  twist  the  argument  about  and  sum  it  up  thus :  "  Therefore,  there  are  no  Gods  ;  and  they  do  not  grant  men  intimations  of  the  future."  And,  having  settled  the  question  thus,  to  their  own  satisfaction,  they  add,  "  But  there  are  Gods  ;"  a  fact  which  is  not  admitted  by  all  men  ;  "  there  fore,  they  do  grant  intimations."  Even  that  consequence  I  cannot  see  ;  for  they  may  grant  no  intimations  of  the  future  and  yet  exist  as  Gods.   Again,  it  is  asserted  ;  If  the  Gods  grant  intimations  to  men  respecting  future  events,  they  must  grant  some  means  of  explaining  these  intimations.  But  surely  the  contrary  may  be  the  case ;  for  the  Gods  may  keep  to  themselves  the  mean  ing  of  the  signs  which  they  impart  to  men ;  for  else,  why  should  they  teach  it  to  the  Etrurians  rather  than  to  the  Romans?   Again,  they  argue,  that  if  the  Gods  have  given  men  the  means  of  understanding  the  signs  they  impart,  then  the  existence  of  divination  is  manifest.  Biit  grant  that  the  Gods  do  give  such  means,  what  does  it  avail,  if  we  happen  to  be  incapable  of  receiving  them  1   Last  of  all,  their  conclusion  is ;  Therefore,  there  certainly  is  such  a  thing  as  divination.  It  may  be  their  conclusion,  but  it  is  not  proved;  for,  as  they  themselves  have  taught  us,  •'  false  premises  cannot  produce  a  true  result."  Therefore,  the  whole  conclusion  falls  to  the  ground.  Let  us  now  consider  the  arguments  of  that  most  excellent  man,  our  friend  Cratippus.  As,  says  he,  the  use  and  function  of  sight  cannot  exist  without  the  eyes — and  yet  the  eyes  do  not  always  perform  their  office, — and,  as  he  who  has  once  enjoyed  correct  sight,  so  as  to  see  what  truly  exists,  is  conscious  of  the  reality  of  vision ; — so,  if  the  practice  of  divination  cannot  exist  without  the  power  of  divination — and  though  in  the  exercise  of  this  power  of  divination  some  errors  may  occur,  and  the  diviner  may  be  misled  so  as  not  to  foresee   the  truth ;  yet  the  existence  of  divination  is  sufficiently  attested  by  the  fact  that  some  true  divinations  have  been  made,  containing  such  exact  predictions  of  all  the  particulars  of  future  events,  that  they  can  never  have  been  made  by  chance,  — of  which  numerous  instances  might  be  cited.  The  exist  ence  of  divination  must  therefore  be  admitted.   The  argument  is  neatly  and  concisely  stated.  But  Cra-  tippus  twice  assumes  what  he  wishes  to  prove  ;  and  even  if  we  were  willing  to  grant  him  very  large  concessions,  we  could  not  possibly  agree  with  his  conclusions.   His  argument  is  this  :  Though  the  eyes  should  sometimes  possess  very  imperfect  sight,  yet,  provided  they  sometimes  see  clearly,  it  is  evident  that  the  power  of  vision  is  in  them.  On  the  same  principle,  if  any  one  has  ever  once  uttered  a  true  divination,  he  must  always  be  considered  as  possessing  the  faculty  of  divining,  even  when  he  blunders.   LIII.  Now  I  entreat  you,  my  dear  Cratippus,  to  consider  how  little  is  the  resemblance  between  these  two  cases.  To  me  there  is  none  at  all.  The  eyes  which  see  clearly  exert  no  more  than  their  natural  faculty  of  sight.  But  minds,  if  they  have  sometimes  truly  foreseen  future  events,  either  in  ecsta  sies  or  dreams,  have  done  so  by  fortune  and  accident ;  unless,  indeed,  you  imagine  those  who  believe  that  dreams  are  but  dreams,  will  grant  you  that  when  they  happen  to  dream  any  thing  that  is  true,  it  is  no  longer  the  effect  of  chance.   But  we  may  concede  for  the  present  these  two  assumptions  of  Cratippus,  which  the  Greek  dialecticians  would  call  lem  mata.  But  we  prefer  speaking  in  Latin  ;  still  the  presump  tion,  which  they  term  prolepsis,  cannot  be  granted.   Cratippus  goes  on  assuming  premises  in  this  manner  :  There  are,  says  he,  presentiments  innumerable  which  are  not  fortuitous.  Now  this  we  absolutely  deny.  See  how  great  is  the  magnitude  of  the  difference  between  us.  Not  being  able  to  agree  with  his  premises,  I  assert  that  he  has  drawn  no  conclusion.  Oh,  but  perhaps  it  is  very  impudent  of  us  not  to  concede  a  point  which  is  so  clear !  But  what  is  clear  ?  "  Why,"  he  replies,  "  that  many  predictions  are  fulfilled."  Yes ;  but  are  there  not  many  more  which  are  not  fulfilled  ?  Does  not  this  very  variation,  which  is  the  peculiar  property  of  fortune,  teach  us  that  fortune,  not  nature,  regulates  such  predictions  ?    Moreover,  if  your  conclusion  is  true,  0  renowned  Cratip-  pus  ! — for  to  you  I  address  myself — do  not  you  perceive  that  the  soothsayers,  and  those  who  predict  by  thunder  and  light  ning,  and  the  interpreters  of  prodigies,  and  the  augurs,  and  the  Chaldean  astrologers,  and  those  who  tell  fortunes  by  drawing  lots,  will  all  bring  forward  the  same  argument  as  yourself  in  their  own  favour?  Not  one  of  these  men  has  been  so  unfortunate  as  never  on  any  occasion  to  find  his  pre  dictions  verified.  This  being  the  case,  you  must  either  admit  all  the  other  kinds  of  divination  which  you  now  most  properly  reject;  or,  if  you  absolutely  condemn  them,  I  do  not  see  how  you  will  be  able  to  defend  those  two  which  you  retain  as  favourable  exceptions.  For  on  the  same  principle  that  you  maintain  these,  the  others  also  may  be  true  which  you  discard.   LIV.  But  what  authority  has  this  same  ecstasy,  which  you  choose  to  call  divine,  that  enables  the  madman  to  foresee  things  inscrutable  to  the  sage,  and  which  invests  with  divine  senses  a  man  who  has  lost  all  his  human  ones  1   We  Romans  preserve  with  solicitude  the  verses  which  the  Sibyl  is  reported  to  have  uttered  when  in  an  ecstasy, — the  interpreter  of  which  is  by  common  report  believed  to  have  recently  uttered  certain  falsities  in  the  senate,  to  the  effect  that  he  whom  we  did  really  treat  as  king  should  also  be  called  king,  if  we  would  be  safe.  If  such  a  prediction  is  indeed  contained  in  the  books  of  the  Sibyl,  to  what  particular  person  or  period  does  it  refer  ?  For,  whoever  was  the  author  of  these  Sibylline  oracles,  they  are  very  ingeniously  com  posed  ;  since,  as  all  specific  definition  of  person  and  period  is  omitted,  they  in  some  way  or  other  appear  to  predict  everything  that  happens.  Besides  this,  the  Sibylline  oracles  are  involved  in  such  profound  obscurity,  that  the  same  verses  might  seem  at  different  times  to  refer  to  different  subjects.   It  is  evident,  however,  that  they  are  not  a  song  composed  by  any  one  in  a  prophetic  ecstasy,  as  the  poem  itself  evinces,  being  far  less  remarkable  for  enthusiasm  and  inspiration  than  for  technicality  and  labour ;  and  as  is  especially  proved  by  that  arrangement  which  the  Greeks  call  acrostics — where,  from  the  first  letter  of  each  verse  in  order,  words  are  formed  which  express  some  particular  meaning ;  as  is  the  case  with some  of  Ennius's  verses,  the  initial  letters  of  which  make,  ""Which  Ennius  wrote."  But  such  verses  indicate  rather  attention  than  ecstasy  in  those  who  write  them.   Now,  in  the  verses  of  the  Sibyl,  the  whole  of  the  paragraph  on  each  subject  is  contained  in  the  initial  letters  of  every  verse  of  that  same  paragraph.  This  is  evidently  the  artifice  of  a  practised  writer,  not  of  one  in  a  frenzy  ;  and  rather  of  a  diligent  mind  than  of  an  insane  one.  Therefore,  let  us  con  sider  the  Sibyl  as  so  distinct  and  isolated  a  character,  that,  according  to  the  ordinance  of  our  ancestors,  the  Sibylline  books  shall  not  even  be  read  except  by  decree  of  the  senate,  and  be  used  rather  for  the  putting  down  than  the  taking  up  of  religious  fancies.  And  let  us  so  arrange  matters  with  the  priests  under  whose  custody  they  remain,  that  they  may  pro  phesy  anything  rather  than  a  king  from  these  mysterious  volumes  ;  for  neither  Gods  nor  men  any  longer  tolerate  the  notion  of  restoring  kingly  government  at  Rome.   LV.  But  many  people,  you  say,  have  in  repeated  instances  uttered  true  predictions ;  as,  for  example,  Cassandra,  when  she  said,  "  Already  is  the  fleet,'' '  &c. ;  and  in  a  subsequent  prophecy,  "Ah!  see  you  not?"  &c.  Do  you  then  expect  me  to  give  credence  to  these  fables  1  I  will  grant  that  they  are  as  delightful  as  you  please  to  call  them, — that  they  are  polished  up  with  every  conceivable  beauty  of  language,  sentiment,  music,  and  rhythm.  LuL  we  are  not  bound  to  invest  fictions  of  this  kind  with  any  authority,  or  to  give  them  any  belief.   And,  on  the  same  principle,  I  do  not  think  any  one  bound  to  pay  any  attention  to  such  diviners  as  Publicius  (whoever  he  may  be),  or  Martius,  or  to  the  secret  oracles  of  Apollo ;  of  which  some  are  notoriously  false,  and  others  uttered  at  i-an-  dom,  so  that  they  command  little  respect,  I  will  not  say  from  learned  men,  but  even  from  any  person  of  plain  common  sense.   "  What !"  you  will  say,  "  did  not  that  old  sailor  of  the  fleet  of  Coponius  predict  truly  the  events  which  took  place  ?"  No  doubt  he  did ;  but  they  happened  to  be  those  very  things  which  at  the  time  everybody  thought  most  likely  to  ensue.  For  we  were  daily  hearing  that  the  two  armies  were  situated  near  each  other  in  Thessaly ;  and  it  appeared  to  us  that  Caesar's  army  had  the  greater  audacity,  inasmuch  as  it  was waging  war  against  its  own  country,  and  the  greater  strength,  being  composed  of  veteran  soldiers.  And  as  to  the  battle,  there  was  not  one  of  us  who  did  not  dread  the  result,  though,  as  brave  men  should,  we  kept  our  anxiety  to  ourselves,  and  expressed  no  alarm.   What  wonder,  however,  was  it  that  this  Greek  sailor  was  forced  from  all  self-possession  and  constancy,  as  is  very  com  mon,  by  the  greatness  of  his  terror  and  affright ;  and  that,  being  driven  to  distraction  by  his  own  cowardice,  he  uttered  those  convictions  when  raving  mad  which  he  had  cherished  when  yet  sane  ?  Which,  in  the  name  of  Gods  and  men,  is  most  likely;  that  a  mad  sailor  should  have  attained  to  a  know  ledge  of  the  counsels  of  the  immortal  Gods,  or  that  some  one  of  us  who  were  on  the  spot  at  the  time — myself,  for  in  stance,  or  Cato,  or  Varro,  or  Coponius  himself — could  have  done  so  ?    I  now  come  to  you,   Apollo,  monarch  of  the  sacred  centre   Of  the  threat  world,  full  of  thy  inspiration,   The  Pythian  priestesses  proclaim  thy  prophecies.   For  Chrysipyus  has  filled  an  entire  volume  with  your  oracles,  many  of  which,  as  I  said  before,  I  consider  utterly  false,  and  many  others  only  true  by  accident,  as  often  happens  in  any  common  conversation.  Others,  again,  are  so  obscure  and  involved,  that  their  very  interpreters  have  need  of  other  interpreters  ;  and  the  decisions  of  one  lot  have  to  be  referred  to  other  lots.  Another  portion  of  them  are  so  ambiguous,  that  they  require  to  be  analysed  by  the  logic  of  dialecticians.  Thus,  when  Fortune  uttered  the  following  oracle  respecting  Croesus,  the  richest  king  of  Asia, — •   "  When  Crocus  has  the  Halys  cross'd,  A  mifdity  kingdom  will  be  lost ;"   that  monarch  expected  he  should  ruin  the  power  of  his  enemies  ;  but  the  empire  that  he  ruined  was  his  own.  And  whichever  result  had  ensued  the  oracle  would  have  been  true.  But,  in  truth,  what  reason  have  I  to  believe  that  such  an  oracle  was  ever  uttered  respecting  Croesus  1  or  why  should  I  think  Herodotus  more  veracious  than  Ennuis'?  Is  the  one  less  full  of  fictions  respecting  Croesus  than  the  other  is  re  specting  Pyrrhus  1  For  who  now  believes  that  the  following  answer  was  given  to  Pyrrhus  by  the  oracle  of  Apollo  ? "You  ask  your  fate;  0  king,  I  answer  you,  yEacides  the  Romans  will  subdue  !"   For,  in  the  first  place,  Apollo  never  uttered  an  oracle  in  Latin;  secondly,  this  oracle  is  altogether  unknown  to  the  Greeks.  Besides,  in  the  days  of  Pyrrhus,  Apollo  had  already  left  off  composing  verses.  Lastly,  although  it  was  always  the  case,  as  is  said  in  these  lines  of  Ennius,—   "  The  JEacids  were  but  a  stupid  race,  More  warlike  than  sagacious," —   yet  even  Pyrrhus  might  without  much  difficulty  have  per  ceived  the  ambiguity  of  the  phrase,   "  ^Eacides  the  Romans  will  subdue;"   and  might  have  seen  that  it  did  not  apply  more  to  himself  than  it  did  to  the  Romans.   As  to  that  ambiguity  which  deceived  Croesus,  it  might  even  have  deceived  Chrysippus.  This  one  could  not  have  deluded  even  Epicurus.  But  the  chief  argument  is,  why  are  the  Delphic  oracles  altered  in  such  a  way  that — I  do  not  mean  only  lately  in  our  own  time,  but  for  a  long  time — nothing  can  have  been  more  contemptible  1   When  we  press  our  antagonists  for  a  reason  for  this,  they  say  that  the  peculiar  virtue  of  the  spot  from  which  those  exhalations  of  the  earth  arose,  under  the  influence  and  excite  ment  of  which  the  Pythian  priestess  uttered  her  oracles,  has  disappeared  by  the  lapse  of  time.  You  might  suppose  they  were  speaking  of  wine  or  salt,  which  do  lose  their  flavour  by  lapse  of  time;  but  they  are  talking  thus  of  the  virtue  of  a  place,  and  that  not  merely  a  natural,  but  a  divine  virtue;  and  how  is  that  to  have  disappeared  ?  By  reason  of  age,  is  your  reply.  But  what  age  can  possibly  destroy  a  divine  virtue  ?  and  what  virtue  can  be  so  divine  as  an  exhalation  of  the  earth  which  has  the  power  of  inspiring  the  mind,  and  ren  dering  it  so  prophetic  of  things  to  come,  that  it  can  not  only  discern  them  long  before  they  happen,  but  even  declare  them  in  verse  and  rhythm  ?  And  when  did  this  magical  virtue  dis  appear  1  Was  it  not  precisely  at  the  time  when  men  began  to  be  less  credulous  ?   Demosthenes,  who  lived  nearly  three  hundred  years  ago,  said  that  even  in  his  time  the  Pythia  Philippized — that  is  to    say,  supported  Philip's  influence;  and  his  expression  was  meant  to  convey  the  imputation  that  she  had  been  bribed  by  Philip.  From  which  we  may  infer  that  other  oracles  besides  those  of  Delphi  were  not  quite  immaculate.  Somehow  or  other,  certain  philosophers  who  are  very  superstitious — not  to  say  fanatical — appear  to  prefer  anything  to  behaving  with  common  sense  themselves  ;  and  so  you  prefer  asserting  that  that  has  vanished,  and  become  extinct,  which,  if  it  ever  had  existed,  must  certainly  have  been  eternal,  rather  than  not  believe  what  is  wholly  incredible. The  error  with  regard  to  the  divination  of  dreams  is  another  of  the  same  kind  ;  their  arguments  for  which  are  extremly  far-fetched  and  obscure.  They  affirm  that  the  minds  of  men  are  divine,  that  they  came  from  God,  and  that  the  universe  is  full  of  these  consenting  intelligences.  That,  therefore,  by  this  inherent  divinity  of  the  mind,  and  by  its  conjunction  with  other  spirits,  it  may  foresee  future  events.  But  Zeno  and  the  Stoics  supposed  the  mind  to  contract,  to  subside,  to  yield,  and  even  to  sleep,  itself.  And  Pythagoras  and  Plato,  authors  of  the  greatest  weight,  advise  men,  with  a  view  of  seeing  things  more  certainly  in  sleep,  to  go  to  bed  after  having  gone  through  a  certain  preparatory  course  of  food  and  other  conduct.  Pythagoras,  for  this  reason,  coun  selled  his  disciples  to  abstain  from  beans;  with  the  idea  that  this  species  of  food  excited  the  mind,  not  the  stomach.  In  short,  somehow  or  other,  I  know  nothing  is  so  absurd  as  not  to  have  found  an  advocate  in  one  of  the  philosophers.   Do  we  then  think  that  the  minds  of  men  during  sleep  move  by  an  intrinsic  internal  energy,  or  that,  as  Democritus  pre  tends,  they  are  affected  with  external  and  adventitious  visions?  On  either  supposition  we  may  mistake  during  our  dreams  many  false  things  for  true.   For  to  people  sailing,  those  things  appear  to  be  in  motion  which  are  stationary,  and  by  a  certain  ocular  deception,  the  light  of  a  candle  sometimes  seems  double.  Why  need  I  in  stance  the  number  of  false  appearances  which  are  presented  to  the  eyes  of  men,  among  those  who  labour  under  drunken  ness,  or  maniacs  ?   Now,  if  we  cannot  trust  such  appearances  as  those,  I  know  not  why  we  are  to  place  any  absolute  reliance  on  the  visions  of  dreams;  for  you  might  as  well,  if  you  pleased,  argue  irom  these  errors  as  from  dreams.  For  instance,  that  if  stationary  objects  appear  to  move,  you  might  say  that  this  appearance  indicated  the  approach  of  an  earthquake,  or  some  sudden  flight ;  and  that  lights  seen  double  presage  wars,  and  discords,  and  seditions. From  the  visions  of  drunkards  and  madmen  one  might,  doubtless,  deduce  innumerable  const  quences  by  con  jecture,  which  might  seem  to  be  presages  of  future  events.  For  what  person  who  aims  at  a  mark  all  day  long  will  not  sometimes  hit  it  1  We  sleep  every  night  ;  and  there  are  very  few  on  which  we  do  not  dream;  can  we  wonder  then  that  what  we  dream  sometimes  comes  to  pass  ?   What  is  so  uncertain  as  the  cast  of  dice  1  and  yet  no  one  plays  dice  often  without  at  times  casting  the  point  of  Venus,  and  sometimes  even  twice  or  thrice  in  succession.  Shall  we,  then,  be  so  absurd  as  to  attribute  such  an  event  to  the  impulse  of  Venus,  rather  than  to  the  doctrine  of  chances'?  If  then,  on  ordinary  occasions,  we  are  not  bound  to  give  credit  to  false  appearances,  I  do  not  see  why  sleep  should  enjoy  this  special  privilege,  that  its  false  seemings  should  be  honoured  as  true  realities.   If  it  were  an  institution  of  nature  that  men  when  they  sleep  really  did  the  things  which  they  dream  about,  it  would  be  necessary  to  bind  all  persons  going  to  bed  both  hand  and  foot,  for  they  would  otherwise  while  dreaming  perpetrate  more  outrages  than  maniacs.  Now  since  we  place  no  confi  dence  in  the  visions  of  madmen,  simply  because  they  are  delusions,  I  do  not  see  why  we  should  rely  on  those  of  dreamers,  which  are  often  the  wilder  of  the  two.  Is  it  because  madmen  do  not  think  it  worth  while  to  relate  their  visions  to  diviners,  but  those  who  dream  do [Once  more  I  put  this  question.  If  I  feel  inclined  to  read  or  write  anything,  or  to  sing  or  play  on  an  instrument,  or  to  pursue  the  sciences  of  geometry,  physics,  or  dialectics,  am  I  to  wait  for  information  in  these  sciences  from  a  dream,  or  shall  I  have  recourse  to  study,  without  which  none  of  those  things  can  be  either  done  or  explained  1  Again,  if  I  were  to  wish  to  take  a  voyage,  I  should  never  regulate  my  steering  by  my  dreams.  For  such  conduct  would  bring  its  own  im  mediate  punishment.   How,  then,  can  it  be  reasonable  for  an  invalid  to  apply  for relief  to  an  interpreter  of  dreams  rather  than  to  a  physician?  Can  Esculapius  or  Serapis,  by  a  dream,  best  prescribe  to  us  the  way  to  obtain  a  cure  for  weak  health  1  And  cannot  Neptune  do  the  same  for  a  pilot  in  his  art  ?  Or  will  Minerva  give  us  medicine  without  troubling  the  doctor?  And  still  will  the  Muses  refuse  to  impart  to  dreamers  the  art  of  writing,  reading,  and  the  other  sciences  ?  But  if  the  blessing  of  health  were  conveyed  to  us  in  dreams,  these  other  good  things  would  certainly  be  so  too.  But  unfortunately  the  science  of  medicine  cannot  be  learnt  in  dreams,  and  the  other  arts  are  in  a  similar  predicament.  And  if  that  be  the  case,  then  all  the  authority  of  dreams  is  at  an  end.   LX.  But  this  is  only  a  superficial  argument.  Let  us  now  penetrate  the  heart  of  this  question.   For  either  some  divine  energy  which  takes  care  of  us,  gives  us  presentiments  in  our  dreams  ;  or  those  who  explain  them  do,  by  a  certain  harmony  and  conjunction  of  nature  which  they  call  a~u/j.Tra.Oeia  (sympathy),  understand  by  means  of  dreams  what  is  suitable  for  everything,  and  what  is  the  con  sequence  of  everything  ;  or,  lastly,  neither  of  these  things  is  true  ;  but  there  is  a  constant  system  of  observation  of  long  standing,  by  which  it  had  been  remarked,  that  after  certain  dreams  certain  events  usually  follow.   The  first  thing  then  for  us  to  understand  is,  that  there  is  no  divine  energy  which  inspires  dreams;  and  this  being  granted,  you  must  also  grant  that  no  visions  of  dreamers  proceed  from  the  agency  of  the  Gods.  For  the  Gods  have  for  our  own  sake  given  us  intellect  sufficiently  to  provide  for  our  future  welfare.  How  few  people  then  attend  to  dreams,  or  under  stand  them,  or  remember  them  !  How  many,  on  the  other  hand,  despise  them,  and  think  any  superstitious  observation  of  them  a  sign  of  a  weak  and  imbecile  mind!   Why  then  should  God  take  the  trouble  to  consult  the  interest  of  this  man,  or  to  warn  that  one  by  dreams,  when  ho  knows  that  they  not  only  do  not  think  them  worth  attending  to,  but  they  do  not  even  condescend  to  remember  them.  For  a  God  cannot  be  ignorant  of  the  sentiments  of  every  man,  and  it  is  unworthy  of  a  God  to  do  anything  in  vain,  or  without  a  cause  ;  nay,  that  would  be  unworthy  of  even  a  wise  man.  If,  therefore,  dreams  are  for  the  most  part  disregarded,  or  despised,  either  God  is  ignorant  of  that  being the  fact,  or  employs  the  intimation  by  dreams  in  vain.  Neither  of  these  suppositions  can  properly  apply  to  God,  and  therefore  it  must  be  confessed,  that  God  gives  men  no  inti  mations  by  means  of  dream. Again,  let  me  ask  you,  if  God  gives  us  visions  of  a  prophetic  nature,  in  order  to  apprise  us  of  future  events,  should  we  not  rather  expect  them  when  we  are  awake  than  when  we  are  asleep  1  For,  whether  it  be  some  external  and  adventitious  impulse  which  affects  the  minds  of  those  who  are  asleep,  or  whether  those  minds  are  affected  voluntarily  by  tiieir  own  agency,  or  whether  there  is  any  other  cause  why  we  seem  to  see  and  hear  or  do  anything  during  sleep,  the  same  impulses  might  surely  operate  on  them  when  awake.  And  if  for  our  sakes  the  Gods  effect  this  during  sleep,  they  might  do  it  for  us  while  awake.   Especially  as  Chrysippus,  wishing  to  refute  the  Acade  micians,  makes  this  remark — That  those  inspirations,  visions,  and  presentiments  which  occur  to  us  awake,  are  much  more  distinct  and  certain  than  those  which  present  themselves  to  dreamers.  It  would,  therefore,  have  been  more  worthy  of  the  divine  beneficence  while  exerting  its  care  for  us,  rather  to  favour  us  with  clear  visions  when we  are  awake,  than  with  the  perplexed  phantasms  of  dreams;  and  since  that  is  not  done,  we  must  believe  that  these  phantasms  are  not  divine  at  all.  Moreover,  what  is  the  use  of  such  round-about  and  circuitous  proceedings,  as  for  it  to  be  necessary  to  employ  interpreters  of  dreams,  rather  than  to  proceed  by  a  straight  forward  course  1  If  God  were  indeed  anxious  for  oxir  interests,  he  would  say,  "  Do  this — do  not  that;"  and  he  would  give  such  intimations  to  a  waking  rather  than  to  a  sleeping  man;  but  as  it  is,  who  would  venture  to  assert  that  all  dreams  are  true  ?  Ennius  says,  that  some  dreams  are  prophetical;  he  adds  also,  that  it  does  not  follow  that  all  are  so. Now  whence  arises  this  distinction  between  true  dreams  and  false  ones  1  and  if  true  dreams  come  from  God,  from  whence  come  the  false  ones  ?  For  if  these  last  do  like  wise  come  from  God,  what  can  be  more  inconsistent  than  God  ?  And  what  can  be  more  ignorant  conduct  than  to  excite  the  minds  of  mortals  by  false  and  deceitful  visions  ?  But  f only  true  dreams  come  from  God,  and  the  false  and groundless  ones  are  merely  human  delusions,  what  authority  have  you  for  making  such  a  distinction  as  is  implied  in  saying,  God  did  this,  and  nature  that  1  Why  not  rather  say  either  that  all  dreams  come  from  God  (which  you  deny),  or  all  from  nature?  which  necessarily  follows,  since  you  deny  that  they  proceed  from  God.   By  nature  I  mean  that  essential  activity  of  the  mind  owing  to  which  it  never  stands  still,  and  is  never  free  from  some  agitation  or  motion  or  other.  When  in  consequence  of  the  weakness  of  the  body  it  loses  the  use  of  both  the  limbs  and  the  senses,  it  is  still  affected  by  various  and  uncertain  visions  aris  ing  (as  Aristotle  observes)  from  the  relics  of  the  several  affairs  which  employed  our  thoughts  and  labours  during  our  waking  hours;  owing  to  the  disturbances  of  which,  marvellous  varieties  of  dreams  and  visions  at  times  arise.  If  some  of  these  are  false,  and  others  true,  I  shall  be  glad  to  be  informed  by  what  definite  art  we  are  to  distinguish  the  true  from  the  false.  If  there  be  no  such  art,  why  do  we  consult  the  inter  preters  1  If  there  be  any  such  art,  then  I  wish  to  know  what  it  is. But  they  will  hesitate.  For  it  is  a  matter  of  ques  tion,  which  is  more  probable;  that  the  supreme  and  im  mortal  Gods,  who  excel  in  every  kind  of  superiority,  employ  themselves  in  visiting  all  night  long  not  merely  the  beds,  but  the  very  pallets  of  men,  and  as  soon  as  they  find  any  person  fairly  snoring,  entertain  his  imagination  with  per  plexed  dreams  and  obscure  visions,  which  sends  him  in  great  alarm  as  soon  as  daylight  dawns  to  consult  the  seer  and  interpreter:  or  whether  these  dreams  are  the  result  of  natural  causes,  and  the  everactive,  everworking  mind  having  seen  things  when  awake,  seems  to  see  them  again  when  asleep.  Which  is  the  more  philosophical  course,  to  interpret  these  phenomena  according  to  the  superstitions  of  old  women,  or  by  natural  explanations  1   So  that  even  if  a  true  interpretation  of  dreams  could  exist,  it  is  certainly  not  in  the  possession  of  those  who  profess  it,  for  these  people  are  the  lowest  and  most  ignorant  of  the  people.  And  it  is  not  without  reason  that  your  friends  the  Stoics  affirm,  that  no  one  can  ever  be  a  diviner  but  a  wise  man.   Chrysippus,  indeed,  defines  divination  in  these  words  :  "  It is,"  says  he,  "  a  power  of  apprehending,  discerning,  and  ex  plaining  those  signs  which  are  given  by  the  Gods  to  men  as  portents;"  and  he  adds,  that  the  proper  office  of  a  sooth  sayer  is  to  know  beforehand  the  disposition  of  the  Gods  hi  regard  to  men,  and  to  declare  what  intimations  they  give,  and  by  what  means  these  prodigies  are  to  be  propitiated  or  averted.  The  interpretation  of  dreams  he  also  defines  in  this  manner.  "  It  is,"  says  he,  " a power  of  beholding  and  revealing  those things  which  the  Gods  signify  to  men  in  dreams."  Well,  then,  does  this  require  but  a  moderate  degree  of  wisdom,  or  rather  consummate  sagacity,  and  perfect  erudition  ?and a  man  so  endowed  we  have  never known. Consider,  therefore, whether  even  if  I  were  to  concede  to  you  that  there  is  such  a  thing  as  divination which  I  never  will  concedeit  would  still  not  follow  that  a  diviner  could  be  found  to  exercise  it  truly.  But  what  strange  ideas  must  the  Gods  have,  if  the  intimations  which  they  give  us  in  dreams  are  such  as  we  cannot  understand  of  ourselves,  and  such,  too,  as  we  cannot  find  interpreters  of:  acting  almost    wisely  as  the  Carthaginians  and  Spaniards  would  do  if  they  were  to  harangue  in  their  native  languages  in  our  Roman  senate  without  an  interpreter.   But  what  is  the  object  of  these  enigmas  and  obscurities  of  dreamers  1  For  the  Gods  ought  to  wish  us  to  under  stand  those  things  which  they  reveal  to  us  for  our  own  sake  and  benefit.  What!  is  no  poet,  no  natural  philoso  pher  obscure  ?  Euphorion  certainly  is  obscure  enough,  but  Homer  is  not;  which,  then,  is  the  best  ?  Heraclitus  is  very  puzzling,  Democritus  is  very  lucid;  are  they  to  be  compared  ?  You,  for  my  own  sake,  give  me  advice  that  I  do  not  understand  !   What  is  it,  then,  that  you  are  advising  me  to  do  ?  Suppose  a  medical  man  were  to  prescribe  to  a  sick  man  an  earth-born,  grass-walking,  housecarrying,  unsanguineous  animal,  in  stead  of  simply  saying,  a  snail;  so  Amphion  in  Pacuvius  speaks  of —   A  four-footed  and  slow going  beast,  Rugged,  debased,  and  harsh  ;  his  head  is  short,  His  neck  is  serpentine,  his  aspect  stern  ;  He  has  no  blood,  but  is  an  animal  Inanimate,  not  voiceless.  When  these  obscure  verses  had  been  duly  recited,  the  Greeks  cried  out,  We  do  not  understand  you  unless  you  tell  us  plainly  what  animal  you  mean  ?  I  mean,  said  Pacuvius,  I  mean  in  one  word,  a  tortoise.  Could  you  not,  then,  said  the  questioner,  have  told  us  so  at  first?  We  read  in  that  volume  which  Chrysippus  has  written  concerning  dreams,  that  some  one  having  dreamed  in  the  night  that  he  saw  an  egg  hanging  on  his  bed-post,  went  to  consult  the  interpreter  about  it.  The  interpreter  informed  him  that  the  dream  signified  that  a  sum  of  money  was  con  cealed  under  his  bed.  He  dug,  and  found  a  little  gold  sur  rounded  by  a  heap  of  silver.  Upon  this,  he  sent  the  inter  preter  as  much  of  the  silver  as  he  thought  a  fair  reward.  Then  said  the  interpreter,  "  What!  none  of  the  yolk  1  "  For  that  part  of  the  egg  appeared  to  have  intimated  gold,  while  the  rest  meant  silver.   But  did  no  one  else  ever  dream  of  eggs  ;  if  others  have,  too,  then  why  is  this  man  the  only  one  who  ever  found  a  treasure  in  consequence  1  How  many  poor  people  are  there  worthy  of  the  help  of  the  Gods,  to  whom  they  vouchsafe  no  such  fortunate  intimations!  And,  again,  why  did  this  indi  vidual  receive  such  an  obscure  sign  of  a  treasure  o,s  could  be  afforded  by  the  resemblance  of  an  egg,  instead  of  being  distinctly  commanded  at  once  to  look  for  a  treasure,  in  the  same  way  as  Simonides  was  expressly  forbidden  to  put  to  sea?  Therefore,  obscure  dreams  are  not  at  all  consistent  with  the  majesty  of  the  Gods.  But  let  us  now  treat  of  those  dreams  which  you  term  clear  and  definite,  such  as  that  of  the  Arcadian  whoso  friend  was  killed  by  the  inn-keeper  at  Megara,  or  that  of  Simonides,  who  was  warned  not  to  set  sail  by  an  apparition  of  a  man  whose  interment  he  had  kindly  superintended.  The  history  of  Alexander  presents  us  with  another  instance  of  this  kind,  which  I  wonder  you  did  not  cite,  who,  after  his  friend  Ptolemy  had  been  wounded  in  battle  by  a  poisoned  arrow,  and  when  he  appeared  to  be  dying  of  the  wound,  and  was  in  great  agony,  fell  asleep  while  sitting  by  his  bed,  and  in  his  slumber  is  said  to  have  seen  a  vision  of  the  serpent  which  his  mother  Olympias  cherished,  bringing  a  root  in  his  mouth,  and  telling  him  that  it  grew  in  a  spot  very  near  at  hand,  and  that  it  possessed  such  medicinal  virtue,  that  it  would  easily  cure  Ptolemy  if  applied  to  his  wound.  On  awaking,  Alexander  related  his  dream,  and  messengers  were  sent  to  look  for  that  plant,  which,  when  it  was  found,  not  only  cured  Ptolemy,  but  likewise  several  other  soldiers,  who  during  the  engagement  had  been  wounded  by  similar  arrows.   You  have  related  a  number  of  dreams  of  this  nature  bor  rowed  from  history.  For  instance,  that  of  the  mother  of  Phalaris — that  of  King  Cyrus — that  of  the  mother  of  Dionysius — that  of  Hamilcar  the  Carthaginian — that  of  Hannibal —  that  of  Publius  Decius — that  notorious  one  of  the  president —  that  of  Caius  Gracchus— and  the  recent  one  of  Ceecilia,  the  daughter  of  Metellus  Balearicus.  But  the  main  part  of  these  dreams  happened  to  strangers,  and  on  that  account  we  know  little  of  their  particular  circumstances  : —some  of  them  may  be  mere  fictions;  for  who  are  they  vouched  by?   As  to  those  dreams  that  have  occurred  in  our  personal  experience,  what  can  we  say  about  them,about  your  dream  respecting  myself  and  my  horse  being  submerged  close  to  the  bank;  or  mine,  that  Marius  with  the  laurelled  fasces  ordered  me  to  be  conducted  into  his  monument? All  these  dreams,  my  brother,  are  of  the  same  character,  and,  by  the  immortal  Gods,  let  us  not  make  so  poor  a  use  of  our  eason,  as  to  subject  it  to  our  superstition  and  delusions.  For  what  do  you  suppose  the  Marius  was  that  appeared  to  me  ?  His  ghost  or  image,  I  suppose,  as  Demo-  critus  would  call  it.  Whence,  then,  did  his  image  come  from  1  For  images,  according  to  him,  flow  from  solid  bodies  and  palpable  forms.  What  body  then  of  Marius  was  in  exist  ence  ?  It  came,  he  would  say,  from  that  body  which  had  existed  ;  for  all  things  are  full  of  images.  It  was,  then,  the  image  of  Marius  that  haunted  me  on  the  Atinian  territory,  for  no  forms  can  be  imagined  except  by  the  impulsion  of  images.   What  are  we  to  think  then  1  Are  those  images  so  obedient  to  our  word  that  they  come  before  us  at  our  bidding  as  soon  as  we  wish  them  ;  and  even  images  of  things  which  have  no  reality  whatsoever?  For  what  form  is  there  so  preposterous  and  absurd  that  the  mind  cannot  form  to  itself  a  picture  of  it  ?  so  much  so  indeed  that  we  can  bring  before  our  minds  even  things  which  we  have  never  seen;  as,  for  instance,  the  situations  of  towns  and  the  figures  of  men. When,  then,  I  dream  of  the  walls  of  Babylon,  or  the  counte  nance  of  Homer,  is  it  because  some  physical  image  of  them  strikes  my  mind1?  All  things,  then,  which  we  desie  to  be  so,  can  be  known  to  us,  for  there  is  nothing  of  which  we  cannot  think.  Therefore,  no  images  steal  in  upon  the  mind  of  the  sleeper  from  without;  nor  indeed  are  such  external  images  flowing  about  at  all;  and  I  never  knew  any  one  who  talked  nonsense  with  greater  authority.   The  energy  and  nature  of  human  minds  is  so  vigorous  that  they  go  on  exerting  themselves  while  awake  by  no  adven  titious  impulse,  but  by  a  motion  of  their  own,  with  a  most  incredible  celerity.  When  these  minds  are  duly  supported  by  the  physical  organs  and  senses  of  the  body,  they  see  and  conceive  and  discern  all  things  with  precision  and  certainty.  But  when  this  support  is  withdrawn,  and  the  mind  is  deserted  by  the  languor  of  the  body,  then  it  is  put  in  motion  by  its  own  force.  Therefore,  forms  and  actions  belong  to  it;  and  many  things  appear  to  be  heard  by,  and  said  to  it.   Then,  when  the  mind  is  in  a  weak  and  relaxed  state,  many  things  present  themselves  to  it  commingled  and  varied  in  every  kind  of  manner  ;  and  most  especially  do  the  reminiscences  of-  those  things  flit  before  the  mind  and  move  about,  which  excited  its  interest  or  employed  its  active  energies  when  awake.  As,  for  instance,  Marius  at  that  time  was  often  pre  sent  to  my  mind  while  I  recollected  with  what  magnanimity  and  constancy  he  had  borne  his  sad  misfortunes  ;  and  this,  I  imagine,  is  the  reason  why  I  dreamed  of  him.  You  also  were  thinking  of  me  with  great  anxiety,  when  suddenly  I  appeared  to  you  to  have  just  escaped  out  of  the  river.  For  there  were  in  both  of  our  minds  the  traces  of  our  waking  thoughts.  In  both  instances,  however,  there  were  certain  additional  circumstances;  as  in  mine,  the  visit  to  the  temple  of  Marius;  and  in  yours,  the  reappearance  of  the  horse  on  which  I  was  riding,  and  who  sunk  at  the  same  time  with  myself.  Do  you  think  then,  you  will  say,  that  any  old  woman  would  be  so  doting  as  to  believe  dreams  if  they  did  not  sometimes  and  at  random  turn  out  true  ?  A  dragon  appeared  to  address  Alexander.  Doubtless  this  might  be  true,  or  it  might  be  false;  but  whichever  the  case  may  have  been,  there  is  surely  nothing  very  wonderful  about  it;  for  he  did  not  hear  this  serpent  speakinglie  onlydreamed  that  he  heard  him;  and  to  make  the  story  more  remarkable,  the  serpent  appeared  with  a  branch  in  its  mouth,  and  yet  spoke:  still  nothing  is  difficult  or  impossible  in  a  dream.   I  would  ask,  however,  how  it  was  that  Alexander  had  this  one  dream  so  remarkable  and  so  certain,  though  he  had  no  such  dream  on  any  other  occasion,  nor  have  other  people  seen  many  such.  For  myself,  excepting  that  about  Marius,  I  do  not  recollect  having  experienced  one  worth  speaking  of.  I  must,  therefore,  have  wasted  to  no  purpose  as  many  nights,  as  I  have  slept  during  my  long  life.   Now,  indeed,  on  account  of  the  intermission  of  my  forensic  labours,  I  have  diminished  my  evening  studies,  and  added  some  noonday  slumbers,  in  which  I  never  indulged  before.  But  yet,  though  I  sleep  so  much  more  than  formerly,  I  am  never  visited  with  a  prophetic  dream,  which  I  should  con  sider  a  singular  favour  now,  though  engaged  in  such  weighty  affairs.  Nor  do  I  seem  ever  to  experience  any  more  important  dream  than  when  I  see  the  magistrates  in  the  forum,  and  the  senate  in  the  senatehouse.  In  truth,  (and  this  is  the  second  branch  of  your  division,)  what  connexion  and  conjunction  of  nature  (which,  as  I  have  said,  the  Greeks  term  avp.ira.6euL,)  is  there  of  such  a  character,  that  a  treasure  is  to  be  understood  by  an  egg?  Physicians,  indeed,  know  of  certain  facts  by  which  they  perceive  the  approaches  and  increase  of  diseases;  there  are  also  some  indications  of  a  return  to  health;  so  that  the  very  fact  whether  we  have  plenty  to  eat  or  whether  we  are  dying  of  hunger,  is  said  to  be  indicated  by  some  kinds  of  dreamn.  But  by  what  rational  connexion  are  treasures,  and  honours,  and  victories,  and  things  of  that  kind,  joined  to  dreams'?   They  tell  us,  that  a  certain  individual  dreaming  of sexual  coition,  ejected  calculi:  I  grant  that  sympathy  may  have  had  something  to  do  in  a  case  like  this,because,  in  sleeping,  his  imagination  might  have  been  so  affected  with  sensual  images,  that  such  an  emission  took  place  by  the  force  of  nature,  rather  than  by  supernatural  phantasms.  But  what  sympathy  could  have  presented  to  Simonides  the  image  of  the  person,  who  in  a  dream  warned  him  not  to  put  to  sea  1  Or  what  sympathy  could  have  occasioned  the  vision  of  Alcibiades,  who,  a  little  before  his  death,  is  said  to  have  dreamed  that     ie  was  arrayed  in  the  robes  of  Timandra  his  mistress?  What  relation  could  this  have  with  the  event  which  afterwards  happened  to  him;  when,  being  slain  and  cast  naked  into  the  street  and  abandoned  by  all  the  world,  his  mistress  took  off  her  mantle  and  covered  his  dead  body  with  it?  Was  this  then  fixed  as  a  piece  of  futurity,  and  had  it  natural  causes,  or  was  it  mere  accident  that  the  dream  was  seen,  and  came  true ?  Do  not  the  conjectures  of  the  interpreters  of  dreams  rather  indicate  the  subtlety  of  their  own  talents,  than  any  natural  sympathy  and  correspondence  in  the  nature  of  things?   A  runner,  who  intended  to  run  in  the  Olympic  games,  dreamed  during  the  night  that  he  was  being  driven  in  a  chariot  drawn  by  four  horses.  In  the  morning  he  applied  to  an  interpreter.  He  replied  to  him,  You  will  win  :  that  is  what  is  intimated  by  the  strength  and  swiftness  of  the  horses.  He  then  applied  to  Antiphon,  who  said  to  him,  By  your  dream  it  appears  that  you  must  lose  the  race  ;  for  do  you  not  see  that  four  reached  the  goal  before  you  ?   Here  is  another  story  respecting  an  athlete;  and  the  books  of  Chrysippus  and  Antipater  are  full  of  such  stories.  How  ever,  I  will  return  to  the  runner.  He  then  went  to  a  sooth  sayer  and  informed  him  that  he  had  just  dreamed  that  he  was  changed  into  an  eagle.  You  have  won  your  race  (said  the  seer),  for  this  eagle  is  the  swiftest  of  all  birds.  He  also  went  to  Antiphon,  who  said  to  him,  You  will  certainly  be  conquered;  for  the  eagle  chases  and  drives  other  birds  which  fly  before  it,  and  consequently  is  always  behind  the  rest.   A  certain  matron,  who  was  very  anxious  to  have  children,  and  who  doubted  whether  she  was  pregnant  or  not,  dreamed  one  night  that  her  womb  was  sealed  up;  she,  therefore,  asked  a  soothsayer  whether  her  dream  signified  her  pregnancy  ?  He  said,  No  ;  for  the  sealing  implied,  that  there  could  be  no  con  ception.  But  another  whom  she  consulted  said,  that  her  dream  plainly  proved  her  pregnancy;  for  vessels  that  have  nothing  in  them  are  never  sealed  at  all.  How  delusive,  then,  is  this  conjectural  art  of  those  interpreters  !  Or  do  these  stories  that  I  have  recited,  and  a  host  of  similar  ones  which  the  Stoics  have  collected,  prove  anything  else  but  the  subtlety  of  men,  who,  from  certain  imaginary  analogies  of  things,  arrive  at  all  sorts  of  opposite  conclusions?   Physicians  derive  certain  indications  from  the  veins   and breath  of  a  sick  man;  and  have  many  other  symptoms  by  which  they  judge  of  the  future.  So,  when  pilots  see  the  cuttlefish  leaping,  and  the  dolphins  betaking  themselves  to  the  harbours,  they  recognise  these  indications  as  sure  signs  of  an  approaching  storm.  Such  signs  may  be  easily  explained  by  reference  to  the  laws  of  nature;  but  those  which  I  was  mentioning  just  now  cannot  possibly  be  accounted  for  in  the  same  mariner. But  the  defenders  of  divination  reply,  (and  this  is  the  last  objection  I  shall  answer,)  that  a  long  continuance  of  observations  has  created  an  art.  Can,  then,  dreams  be  expe  rimented  on?  And  if  so,  how1?  for  the  varieties  of  them  are  innumerable.  Nothing  can  be  imagined  so  preposterous,  so  incredible,  or  so  monstrous,  as  to  be  beyond  our  power  of  dreaming.  And  by  what  method  can  this  infinite  variety  bo  either  fixed  in  memory  or  analysed  by  reason?   Astrologers  have  observed  the  motion  of  the  planets,  for  a  certain  order  and  regularity  in  the  course  of  these  stars  has  been  discovered  which  was  no*  suspected.  But  tell  me,  what  order  or  regularity  can  be  discerned  in  dreams  1  How  can  true  dreams  be  distinguished  from  false  ones  ;  since  the  same  dreams  are  followed  by  different  results  to  different  people,  and,  indeed,  are  not  always  attended  by  the  same  events  in  the  case  of  the  same  persons?   For  this  reason  I  am  extremely  surprised  that,  though  people  have  wit  enough  to  give  no  credit  to  a  notorious  liar,  even  when  he  speaks  the  trilth,  they  still,  if  one  single  dream  has  turned  out  true,  do  not  so  much  distrust  one  single  case  because  of  the  numbers  of  instances  in  which  they  have  been  found  false,  as  think  multitudes  of  dreams  estab  lished  because  of  the  ascertained  truth  of  this  one.   If,  then,  dreams  do  not  come  from  God,  and  if  there  are  ,  no  objects  in  nature  with  which  they  have  a  necessary  sym  pathy  and  connexion,  and  if  it  is  impossible  by  experiments  and  observations  to  arrive  at  a  sure  interpretation  of  them,  the  consequence  is,  that  dreams  are  not  entitled  to  any  credit  or  respect  whatever.   And  this  I  say  with  the  greater  confidence,  since  those  very  persons  who  experience  these  dreams  cannot  by  any  means  understand  them,  and  those  persons  who  pretend  to  interpret  them,  do  so  by  conjecture,  not  by  demonstration.  And  in  the  infinite  series  of  ages,  chance  has  produced  many  more  extraordinary  results  in  every  kind  of  thing  than  it  has  in  dreams;  nor  can  anything  be  more  uncertain  than  that  con jectural interpretation of diviners, which admits not only of several, but often of absolutely contrary senses. Let us reject, therefore, this divination of dreams, as well as all other kinds. For,to  speak  truly,  that  superstition  has  extended  itself  through  all  nation,  and  has  oppressed  the  intellectual  energies  of  almost  all  men,  and  has  betrayed  them  into  endless  imbecilities:  as  I  argued  in  my  treatise  on  the  Nature  of  the  Gods,  and  as  I  have  especially  laboured  to  prove  in  this  dialogue  on  Divination.  For  I  thought  that  I  should  be  doing  an  immense  benefit  both  to  myself  and  to  my  countrymen  if  I  could  entirely  eradicate  all  those  superstitious  errors.   Nor  is  there  any  fear  that  true  religion  can  be  endangered  by  the  demolition  of  this  superstition  ;  for  it  is  the  part  of  a  wise  man  to uphold  the  religious  institutions  of  our  ancestors,  by  the  maintenance  of  their  rites  and  ceremonies.  And  the  beauty  of  the  world  and  the order of all celestial things compels us to confess that there isan excellent and eternal nature which deserves to be worshipped and admired by all mankind. Wherefore, as this religion whichis united with the knowledge of nature is to be propagated, so also are all the roots of superstition to be destroyed. For it presses upon, and pursues, and persecutes you wherever you turn yourself,whether you  consult  a  diviner,  or  have  heard  an  omen,  or  have  im  molated  a  victim,  or  beheld  a  flight  of  birds;  whether  you  have  seen  a  Chaldean  or  a  soothsayer;  if  it  lightens  or  thunders,  or  if  anything  is  struck  by  lightning;  if  any  kind  of  prodigy occurs; some of which events must be frequently coming to pass; so that you can never rest with a tranquil mind. Sleep seems to be the universal refuge from.all  labours  and  anxieties.  And  yet  even  from  this  many  cares  and  perturba  tions  spring  forth  which,  indeed,  would  of  themselves  have  no  influence,  and  would  rather  be  despised,  if  certain  philosophers  had  not  taken  dreams  under  their  special  patronage;  and  those,  too,  not  philosophersof the lowest order,  but men of vast learning, and remai'kable penetration into the consequences and inconsistencies of things, men who are looked upon as absolute and perfect masters of all science. Nayif Carneades  had  not  resisted  their  extravagances,  I  hardly  know  whether  they  would  not  by  this  time  have  been  reckoned  the  only  philosophers worthy of the name. And it is with those men that  nearly  all  our  controversy  and  dispute  re  specting  divination  is  mainly  waged;  not  because we think meanly of their wisdom, but because they appear to defend their theories with the greatest acuteness and cautiousness. But,as it is the peculiar  property  of  the  Academy  to  inter  pose  no  personal  judgment  of  its  own,  but  to  admit  those  opinions  which  appear  most  probable,  to compare arguments, and to set forth all that may be reasonably stated in favour of each proposition; and so, without  putting  forth  any  autthority of its own, to leave the judgment of the hearers free and unprejudiced; we will retain this custom, which has been handed down from Socrates; and this method, dear brother Quintus, if you please, we will adopt as often as possible in all our dialogues together.Indeed, said he, nothing can be more agreeable to me. Having held these conversations we went away. Alessandro Chiappelli. Keyword: academici, Alcibiade, Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicerone, ambassiata, Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world, the reality of the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La scuola di Atene” – dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens, via Rome.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library

 

 

 

Grice e Chiaromonte: l’implicatura conversazionale della parola – il cane ha molto. Definizione d’ aggetivo – la correlazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapolla). Filosofo italiano. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he let things influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ – where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione, because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista culturale indipendente "Tempo Presente".  Il padre, medico, si trasfere con la famiglia a Roma, C. si vota all'anti-fascismo, dopo una breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della polizia. E in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la figura di C. è adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York, facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals.  Fu propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste della rivista politics di Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con filosofi come Arendt e Camus, e scrittori come Orwell, e collaborò con Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.  Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria, anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Assieme a Silone, fondò "Tempo presente", rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del mensile.  Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo catastrofico della Storia».  Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia. Intrattiene una fitta corrispondenza con Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca benedettina, sul tema della verità. Altre saggi: La situazione drammatica, Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet,  Credere e non credere, Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza di Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza (The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy), Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane, Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena, Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino,  Albert Camus-Nicola Chiaromonte, Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello, Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto, prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli Italiani,  XXIV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte  Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte,.  Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte La cultura politica azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. PRISCIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.DE VOCE. PHILOSOPHI definiunt vocem effe aerem temuffitmm ftfhtm,uel fiuwm fenfibile ut ritum,idefl quod propria auribus  accidit  Et p efl  prior definitio ii fubfhtntia fiumpta, Altera  nero d notione quam graa ivvotav dicunt Jnoc efl ab accidentibus Accidit enimuod auditus quantum in ipfia efl Vedi autem differentia fiunt IV: articulato, inarticulata, literata, illiterata. Articulata est qua coarguta,  hoc est copulata cum aliquo fienfiu mentis eius qui loquitur, profertur. INARTICULATA est contraria, qua a nui lo proficifettur affccfht mentis. Litterata est qua ficribipotefl. IJ-literafa qua ficnbi nbpot. r nuenimtur igitur quadam voces articulata, qua et feribi poffitnt et intellig, ut Arma uirtemq; cano Quadam qua no peffunt feribi, intelligiinturth, ut fibili heminu et GEMITVS, ha enm voces quamus sensium alique SIGNIFICENT proferentis eas, feribi tn no poffiint Ali vero sunt qua quantus feribantur, tn inarticulata dicuntur, cum  nihil  significent, ut  coax, cr a  baseni voces quanquam intelliginuis  de qua fint noluere proferte, tamen in articulata dicutur, qma vox fut superius dixi){marticulata est, qua a Milio affvfhe profiafdtur. Alia sunt inarticulata et illitterdta, qua  nec feribi possunt nec intelligj, ut fl repitus, mugitur, et his similia. Scire autem debemus, quod has IV pecies vocum p- fidunt IV superiores differentia generaliter voct aeddentes,  bina  per singulas inuictm coeuntes. Vox autem didht est vel d Uo* cctndo, ut “dux”,  “ducendo”, Uel ccto rojfioxco jsoco, ut quibufda placet  bE Lr fl pars minima uods composita, hoc efi l uods qua conflant compositione litterarii, minima autem quantum ad totam comprehensionem uoas litterata, ad hanc enim etiam produrtauoctiles hreuiffima partes inveniuntur, vel quod omnium est brevissimum eorum quzdiuidi possunt, id quod dividi non potefl Vcffumus et fic definire Littera e nox qua feribi potest mdiuiduauicitur autem littera vel qudfi. 5  lenter d, eo quod U<gndi iter prabeat, ue[atuaris (ut quilufda pia cet) qubdplerunq>in caratis tabulis antiqui fcrilerc [oletans  et pojha delere-Litteras aut, etiam elementorum vocabulo nuncu pauerunt, ad  simlitutem mundi elementorum- Sicut enim illa coeutia omne cor fu perficiunt, fic  etia  ha  conimfia  litterale  vocem  quafi  corpus  aliquod  componunt yuel magis nere corpus na fi acr corpus eji,  et nox qua ex aere icdo confiat, corpus ejfie cflenditur , quippe cum et tangit aurem, et tripartito dividitur, quod eji finit corporis hoc eji tu altitudinem, latitudinem, longitudine myunde ex omni parte potefi audiri- Vraterea tamen singula syllabe altitudine quidem habent m tenore, craffimdinem nero et latitudinem in spiritus longitudinem in tempore- Littera igtut eji ricta elementi et uclut imagp quadam  vocis litterata, qua cogmfidtur ex qualitate et fti tute figura linearu-Hoc ergo mterefl inter elementa, et litteras, quod elementa proprie dicuntur ipfie pronundationes nota autem carit littera- Abufiue tamen et elementa pro litteris,  et littera  pro  elementis  vocantur. Cum enim dicimus non poffie conflare m eadem fiyl labd-K, ante V, no de litteris dicimus, fid de pronuntiatione earum- nam quantum ad scripturam possunt coninng, non tamen etia enuciari, nifi ipojl pofitR, ut princeps, sunt igitur figura litterarum quibus nos utimur- XXUI- ipfie vero promnciationes earu multo ampliores. Quippe cum singula vocules denos mueniantur habentes fionosyuel plures, ut putaa, littera brevis IV halet fimi differentias, cum habet afrirationem, acuitur vel gravatur et rurfus cum fime aft iratio e acuitur vel graudtur – ut: “habeo”, “habemus”, “abeo”,  “abimus”- Longt vero eadem fex modis fionat, cum habet ASPIRATIONEM et  acuitur vel gravatur, vel drcunfleCHtur – ut: “hamis” hdmoru  hamus  -  Et rurfits cum SINE ASPIRATIONE acuitur  vel gravatur  vel ctr cunflecntur, ut  dra  ararum dra Similiter ali uoatles pofjimt proferri- Vraterea tatnen-i, &. u, uoatles quando media; fiunt alternos inter fie fionosuidetur confundere ytefk bonatofiut  vir. u, ut  optumus, Eti, quidem quando poft-u, confortantem loco digamma-V,fi<n<fhm Aeolia ponitur brevis y sequcnte. d, vel. m, vel. r, ucl.t,  Uel x,  fonum-y, graca videtur habere – ut: “video” ,um,  “virtus” ,  “vitium”,  uix-v, autem qudnuts contrastum eundem tamen fimum, hoc efi y, habet, inter q} &-efueLiyHela, DIPHTHONGUM pofltum, ut que quis qua- tenon inter. gt& ea fidem uoatles, cmi in una siyllaba fic  imenitur, ut  pin-  gte sanguis fiingtta . In  confortantibus etiam fiunt differentia plures, trdnfeuntmm in alias consonantes et non tran femtium, quippe diversie firmi potefiatis.  L tL   a iij  Ccidit igitur litterae nomen figura,poteffas- Uomen uefo a ti. a. b. c. Et fiunt mdechna ilia, tam apud graecos elemetorum nomina,  qudm  APVD LATINOS sive p a barbaris inventa dicuntur, sive p simplicra haec Z7‘ fktlilia esse  debent, qudfi fundamentum omnis do firmae nnmvbile, sine p nec aliter apud iatmos poterat esse, cum a fias uoabus uocztles nominen tur, Saniuocales vero in se definant, Mutae autem a fi incipientes uo- atli terminetur, quas fiflefkts SIGNIFICATIO quocp nominum una eud- nefcit vocales igitur ut difhtm efi per fi prolatae nomen fuuofien dunt. Semivocales vero ab.e, incipientes, &in je terminantes. A bfip x, que sola ab. i, incipit per anafirophen gracct nominis. xi. quia necesse fuit, cum fit fiemt uocalts, d uoath vnapere, Zjin fe terminare. quae. x, nou\ ffimcd LATINIS afjumptaypofi omnes ponitur litteras, qbus, LATINA dichones egent p autem ab. i, incipit eius nomen, ofhmdit eti , am SERGIO in commento quod scripfitm DONATO kisuer bis. Sunt,  ,  VII semivocales, qu<e  ita  proferuntur, ut inchoent ab. e, littera, et definant innatur ale sonum, ut f l. m-n. r. s. x- Sed. x, ab. i, inchoat. \d  >  etiam Eutropius confirmat dicens. Una duplex. x, quae ideo ab.i,m  cipit, quia apud graecos in eandem definit. Mutae autem d fiincipientes, Z^m-e, uoculem definentes ^x caeptis. K^t. quarum alteram a, altera in. u finitur, fua confiant nomina. H, enim  aspirationis magis est nota. Figurae acadunt quas videmus in  singulis litteris Tote  jhs vero ipsa pronuciatio, propter qua,  et figura ZTiwia fiunt ficht .  Quidam  ena  a  dunt  ordinem  fied  efi  pars  pote  fiatis  litterarum. Ex  his  uocules  dicuntur, quae per fe noces perficiunt uel fi ne quibus uox litteralis profirn non pote fi, unde & nomen hoc praecipue fibi defe dunt. Caeterae enim quae cum his proferuntur confortantes appellantur. Sunt igitur voaules numero V: A E I O U utimur etia. y, grgeorum cuufia nominum. Q onfonantiu aliae fiunt fi mino cedes, aliae mutat. Semiuocales fint ut plerisp  LATINORUM placuit fiptemfil- m n- r- s. x. Sed-f. multis cfienditur modis muta mazis, de quatpofi docebimus Z, quoque utimur ingruas dcthonibushae ergo, hoc efi fi- miuo cules, quantum uincuntur d uoculibus, tantum fi p erant mutas, ideo apud graecos quidem omnes dichones, uel in uocules uel in fimi- t:ocUlcs, quae fecundam habent euphoniam, defiment, quam nos SONORITATEM onoritatem pofjimus dhere, APUD LATINOS autem, ex maxima parte, no tamen omnes. Inveniuntur enim quaedam etiam m mutas definetes. Semivocales autem furit appellata, qua plenam  vocem non habent f ut fetnideos & femiuiros appellamus, non qui dimidiam partem habent deorum, vel uirorwmfed qui pleni dij uel uiri non fmt Reliquae funt muta, ut quibufdam u\detur, numero IX: B C D G H K P R S T. Et fnrvt: W1 wn bene hoc nomen putant easaccapi[fy cumba quoq; partes fintuoctsqui nefiunt,<p ad comparationem ue ne sonantiwmita funt nominata, uelut informis dicitur mulier, non qua atret forma, sed qua male est formata y et frigidum dia mus eumynon qui penitus expers efl atlons  , sed qm minimo hoc utitur. Sic igitur mutas, non qua omnino noce atrcnt fed qua exiguam parte muods habent. Vocales autem APUUD LATINOS omnes fmt anapites, vel LIQUIDA liquida hoc est qua fialemodo produci f modo corripi pojfunt, Sicut etiam apud antiquiffimos erant gr acor uni ante muentionem  quibus inuentis. t, &o, qua ante  anapites erant reman, ferunt perpetua breues, aim earum produdhtrum loca poffcfft fint d fupradiths uoatlibus semper longis. Sunt etiam in confonantibus lo ga, ut puta duplices. xy&.Zr Slrut enim longa vocalesy ficha qucq; longam fidunt jy liabam. Sunt similiter in confonantibus anapites vel liquida ut. L y &-r y qua modo longam modo breuem pofl mutas pofita m eadem syllaba fidunt syllabam his quidam addunt non irrationabiliter m, &my quia ipfe quoq; communes fidunt  syllabas pofl  mutas pofita yquod  diuerforu confirmatur aufhritate  tamgra eorum, q  latinorum .  ouidius  in  deamo  Metamorphofeos.   Vifcofimq;  gnidon.gr  auidamq, ;  Amathunta  metallis.   »  Euripides  iit  Vphoemffis .  /Wr#i  tro c/t  hoc  pidjuov  tio'punr.   In  cifdem .  xxax ojuitrSot.Jdco  hocmo  cmtofeis  tihvov  ,  apud gracos  fnnenitur  tamen. myante.n,pofita  nec  producens  ante  fe  uoctilem  mo  re  mutarum -Callimachus rcofjutv  o  juvturx  paetos  i<pn  £tvof  umctw  ouvuv.  Apud  antiquiffimos  gr acorum  non  plusq  fedeam  erant  littera , qui'us  ab  illis accetptis latmi antiquitatem feruauerunt perpetuam, Nam fi uerxffimt uelimus infpicere edus,fnoc efl fedeam)non plusq duas additas in It tmomueniemus  fermone-V-  Aeolicum  diqnmma  qS  apud  antiqwffi  mos  latinorum  eandem  uimyquam  apud  Aeoles  habuit, eum  autem  prope  Ionum  quem  nunc  habet -  V  ,fignifiatbat.p ,  cum  afpiratione.  Sicut  etiam  apudueteres  gracos  pro  -<p ^tfT-t.  Vnde  nunc  quoque  fngrads  nominibus  antiquam firipntram  fernamus  pro-<p.py&.hy  ponentesyut  Orpheus  vhaethon-pofha uero  in  latinis  placuit  uercis  pro.p  ,&-h,fjcribitut  fiina,filius.fiao  ,  locoau^m  digamma.  V,  pro  confonante-q  od  cognatione  foni  indebatur  affinis  cifc  diijjmma   d  iiij    »    »9   e  i  [it ter 4-  Qjiare  tum- f Joco  mutre  ponatur  ideft  p,  &  .h  y  fiue-<p  f  miror  hanc  inter  famiUocales  pofiiiffe  artium  fcriptvres.  mhil.n>ali-  ud  habet  nrec  littera  femiuoctihs  ,nifi  nominis  prolatione,  epire  duo-  (yili  incipit.  Sed  h.ec  pote  flatem  mutare  Iit  ter  re  non  deluit,  fi  enim  effet  femiuoculis  yneaffario  terminalis  nomlnu  inucniretur  quodmi-  nime  repencs.nec  anted,  uel.r,  m  eadem  fyllaba  poni  poffet , qui  lo¬  cus  mutarum  efr  duntaxat.nec  communem  ante  eafdem  pofita  faceret  fy  liabam.  Vofiremo  grrect  (quibus  in  omni  dottrina  auflvnbus  utimur)  -<p, cuius  locum  apud nos. f,optinetyqucdofknditurinhis  ma¬  xime  dicHonibus  quas  d  grrecis  fumpfimus  y  hoc  efl  fama,  fagp,  far,  mutam  effe  confirmant.  Sciendum  tatne  q>  hic  quoq; error  d  quibus *=  dam  antiquis  graecor  um  grammaticis  inna  fit  latinos,  qui.<p, 6  ,%./£-  mtuocztles  putabant,  nulla  alia  cUufa,  tiifi  q?  fpiritus  in  eis  abwndet  induch.quod  f  effet  ueruni, debuit. c, quoq;  uel.t ,  addita  afairatione  femiuoculis  cffe.quod  omni edret  ratione.fpiritus  enim  potefhtem  /it=  terre  non  mutat,  unde  nccuoailes  addita  ajpiratione  alire  fiunt,  &  alire  ea  dempta.  Hoc  tamen  fare  debemus  non  tam  fxis  labris  efi  pronuntianda. fy quomodo. p,&-h,dtq;  hoc  folum inter efl  inter -f,&  phyXftiam  duplicem  loco,c  ,&.s,uel  g,&'S,pofiva  d  grrecis  inuetam  afjump fimus  yut  dux  duas yr cx  regs.K,enim  &qyqudnuis  figura  &  nomine  uideantur  aliquam  habere  differentiam  cum •C.tn  eade  tam  in  fio  io  uorum  q  m  metro ycontincnt  pote fiatem -^.K, quidem  penitus  faperuarua  efr  pullam,  ratio  indetur  'cur  a ,fequente.K,  feribidebe-  dt.c  rthdgo.n.&atputfiue  per. ct  fiue per.K,fcribantur,  nullam  faciunt,  necm  fano  nec  m  potefhte  eiufdem  cofanantis  differentiam ytiero  propter  nihil  aliud  feribenda  mdetur  effeynifl  ut  ofiendat  feqn  era. u, ante  alteram  Uo calem  in  eadem  fyllaba  pofitum  perdere  uim  litte r^e  in  metro.  q>  fi  alia  ideo  littera  efl  exifhmanda  q>c,de-  bet.gyqncq;  cum  fimiliter  pr reponitur. u,  amittenti  uim  litterre  alia  putari y  &  aha  cum  id  non  facit rdicimus  enim  anguis  ficuti  quis,  O4  ruignr  fi  cuti  cur.  v  nde  fi  uelimus  cu,  ueritate  contemplari(ut  diximus )  non  plus  quam  decem  &ofh  litteras, in  latino  farmene  habemus,  hoc  cflfadeam  antiquas  gr  re  eorum  &.fy&.x,pefka  additas eas  quoq;  ab  eifdem  famptas.nam  y  y&.^grrecvrum  afufia  nominum  (ut  fapra  difhun  efl)  afamimus.H,  aero  affirationis  efr  nota  y  &  nihil  aliud  o.tbct  litterre  nifii  fgurdm/j"  q>  in  uerfa  firibitur  inter  alia*  litteras.Qjeod  fi  fa faceret  ut  elementum  putaretur,  nihilominus  quo  rundam  enam  numerorum  figurae, quia  in  uerfiu  inter  alias  litteras  feribuntur , quanuis  eis  d  familes  fint, el ementa  fiunt habenda  fadmis  nime  hoc  efi  adhibend-ctn,  nec  aliud  aliquid  ex  accidentibus  pro-   f   prutatem  oflendit  Umufcuiufq;  elementi,  quomodo  potefh,qua  .Uret  affiratio-  neqenim  uoaths  nec  confotum  ejfe  poteflnoculi$  non  e  fi.  b^quia  dfieuocem  non  fit,  nec  fiemiuocuhs  cum  mlla  fyllaba  lati-  nauel  grceafper  integras  dittioes  in  eamdefnat,  nec  muta  cum  n  eadem  fyllaba, cum  duabus  mutis  bis  ponitur,  ut  phthius,  Erichtho =  tiius-nulla  enim  fyllaba  plus  duabus  mutis  poteftbabere  iuxta  fe  po  fitts,nec  plus  tribus  confonantibus  continuare  -  authritus  quoq;  tam  Varronis  q  Macri, teflv  Cenforino,ncc-K,nec-  q,neq;.h,  in  numro  adhibet  litterarum -Videntur  tamen  i,gy-u,cum  in  conlonantes  tra  fiunt  quantum  ad  pote  flatem, quod  maxrmum  efiin  elementis, alite  litterte  ejfe  pr teter  fifpradidkts -multum  enm  inter  efi  utrum  uoctiles  fint  an  confonantes-ficut  enm,  qnanuis  in  uaria  figura,  g?  uario  fwmine  fint-K,gy.q,gj*-c,  tamen  quia  u/nam  um  halent  tam  in  metro  q  in  fono,  pro  una  littera  accipi  debent,  fle. i,  &-u,  qnanuis  unum  twmcn,g?  unam  habeant  figuram,  tam  uocules  q  con^onan  tes, tamen  quia  diuerfum  j'onum,gj*  dmerfim  umhabent  in  metris,  g?  in  pronuntiatione  fy  liabar  um,  non  fiunt  in  ei  fidem,  meo  iudicio,  (lententis  acapiendte-quanuis  &  Cenjbri/w  dothfjlmo  artis  gram¬  maticae  idem  placuit. multa  enim  cjl  differentia  inter  confortantes,  ut  diximus,  gruocttlcs-  tantum  enmflre  interefi  inter  uoculcs  gj*  confionantes , quantum  inter  animas  g?  corpora, anim.e  enim  per  fi  mouentur,ut  philofophis  uidetur ,gj*  corpora  monent, corpora  uero  nec  per  fe  fime  anima  moneri  poffunt, nec  animas  monent,  fid  ab  il  Its  moucntur. Vocales  fi  militer  g?  per  fi  mouentur,  ad  perficienda  fyllabam,g?  confionantes  mouent  fecum, confionantes  uero  fime  uoculu  bus  immobiles  fint-  Et-J, quidem  modo  pro  fi mp lici, modo  pro  duplici  accipitur  confonante-pro  fimplici,  quando  ab  eo  incipit  syllaba  in  principio  dithonis  pofita,  fiubfiquente  uocztliin  eadem  syllaba, ut  luno  Juppiter  .  pro  duplici  autem  quando  in  medio  diflioms  ab  eo  incipit  fyllaba  pofiuoatlcm  ante  fi  pofifom,  fu  fiquente  quoq;  uocttli  in  eadem  fyUab a, ut  maius, peius,  eius,  in  quo  loco  antiqui  folebant  geminare  eandem-i,l\tteram,gT  maijus,peijus,eijus  feribere ,quod  non  aliter  prominctari  poffet  quam  fi  cum  fitperiore  syllaba  prior  I ,cum  fiquente  altera  proferretur, ut peijus,cijus,tnaijus,  gy  duo. ij,  pro  duabus  conjonantibus  accipiebant. nam  quantus-  T,fit  confonans  incadcm  syllaba  geminatninngi  non  poffet.  ergo  non  aliter  quam  tellus,  mannus  proferri  debuit. unde  Pompeiij  quoque  genitiuum  per  tria-i ,  antiqui  feribeb aut, quorum  duo  fiperioraloco  confonatium  accipiebant  jit  fi  diats  Pompeiij,  nam  tribus  ili,  iunchs  qua^  lis  poffet  fyllaba  pronuntiari  ?  nam  poftremum  -l, pro  uocttli  efi      atcipienc lum  .  quod  C<eftri  doihjfimo  artis  gramntaticse  pla~  citum  finjje  d  Vidvre  quoqu r  in  arte grammatiat  de  fylla  is  com -  probatur-Pro  fimphct  qucq;  in  media  dithone  inuenitur  ,fcd  in  co~  pofitisfut  iniuria^diungo^iedht^reijce  Virilius  in  BucolicisTityre  pafientes  d  flumine  refice  capellas*  proceleu fma ti cum  pofuit  pro  daciylo. Nunquam autem poteft  ante.I,  litteram  loco  pofitnm  confonan-  tis,afpiratio  mucnin  yficut  nec  ante .  ii,  confortantem -unde  hiulcus  trisyllabum  rj7* ,  ##//.*  (ww  confonans  ante  /e  afpirationem  recu  pit-  V,  wcro  lo.o  confortantis  pofita  eandem  prorfius  in  omnibus  uim  habuit  apud  latinos,qudm  apud  Aeoles  digtmma  ,  F.Vnde  d  ple~  rui j;  ci  nomen  hoc  datur, quod  apud  Aeoles  habuit  ohmyFy  digama  i-HdUyab  ipfuis  uot  profetfhtm  tefk  Varrone, &  D idymo,  qui  id  ei  rujmcn  cffecfivndut*pro  quo  Ccefiar  hanc  figuram  £,fcnb  er  e  uduit,  quod  quarum  illt  reik  mfum  efty  tamen  confuetudo  antiqua  fiupera «5  uit-Adco  autem  hoc  uenvm  eftyy  pro  A  e  otico  F  ydigamma  -uyponi-  ttrr,quod  ficut  illi  flebant  accrperc  diqamma-V,pro  confonante  fim  phaytefiv  Aftyaqy,qm  diuerfiis  hoc  oficndit  uerfibus,  ut  in  hocuerfu  o  otojucvos  VtAtvHV  iAtKcoTiJocfic  nos  quoq ;  pro  fimplia  habemus  cort  fonante  plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma  pofitumyuty  „  At  Venus  haud  animo  ne  quicg  exterrita  mater •   E fi  tamen  quando  Aeoles  idem-F finueniuntur pro duplici quoq; cofonante digtmma  pcfmffe,ut  vt&opct  cPt  FoJ  crouSd s  -  Nof  quoqiuidemur  hoc  fequi  in  praeterito  perfido  &  plusquam  perfido  tertice  £r  quartce  coniugationis ,in  quibus ,1  ,ante-u ycorfo nantem  pofita  produ «  citur ,  eademqs  fiubtradn  corripitur yut  cupiui  cupijtcu piueram  cu¬  pieram, audiui  audfiaudiueram  audieram  .  inuemuntur  etiam   pro  Uocdh  correpta  hoc  digVHtna  illi  ufi,ut  Alcman-Ksh  jux  tj ?  n  <fx Fiov.pfr  enim  dimetrum  iambicum  ,  &  fic  e ft  proferendam,  Tr yut  factat  Ireuem  fiyllabam-Noftri  qucq;  hoc  ipfium  fiaffeinueniim  tur,&  pro  confonante. ii yuoatlcm  Ireuem  acc<epiffeyut  Horatiusfyl  fise  trifyllabum  protulit  in  E podohcc  uerjit-  »  -niuesq;  deducunt  I  ouem,   *  Nunc  mare  nuncsfi  liite;   E/r  enim  dimetrum  iambicum  comunfhim  penthemimeri  heroicae,  quod  aliter  fhtre  non  poteft, ucfi  fylu.e  trifyllabum  accipiatur  .  Si¬  militer  Catullus  V eronenfis  <p  Zonam  fioluit  diu  ligtam , inter E nde  atfyllabos  vhalectos pofitit-ergp  nifi  fioluit  trifyllabum  accipias, uer-  fivs  fhtre  non  poteft. hoc  tamen  ipfium  in  deriuatiuis  uel  compofltis  fi  e  quentC'  fiolet  fieri ,ut  Heluo  uclutus,foluo  follitus ,auts, auceps,  aujfi-    PRIMVSdum,m<guriim,<UigupUS,lauo  l*u tu s,fitueo, fautor . F, aigam  ma  apud  Aeoles  ejt, quando  m  metris  pro  nihilo  decipiebant, ut  4“/“*  ^Fetpi  vccvro  6 w  7<>i  ^vuorotv  Fouiv.Ep enim  h exametr u/m heroicum, apud  latinas  quoq;  hoc  idem-u  ,inuenitur  pro  nihilo  inmtris,&  maximo  apud  uetufb.fpmos  comicorum, ut  Terentius  in  Andria -  M  sine  muidia  laudem  inuenias,Et  amicos  pares. eft.niamicum  tri¬  metrii, quod  nifi,pne  mui,pro  tribracho  accipiatur, fhtre  uerfus  non  potejl.jciendu  tamen  q>  hcc  ipptm  Aeoles  quidem, ubiq;  loco  ajpira-  tionis  ponebant  effligentes  ffnritus  affcritatem.nos  dutmmultis  qui  dem,non  tamen  m  omnibus  illos  faquimur  ,  ut  cum  dicimus  ueffera,  uis,uejhs. hiatus  quoq ;  atupt plebant  illi  mterponer e -F, digama, quod  ojhndunt  et  Poetae  Aeolidae  up,AlcmanxsH  X" yocrrJ pn  Mio/  et  'Epigrammata, qu£  egmctleg  m  tripode  uetujhfprrw  Apollinis  qui  pat  in  Xerolopho  Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov ,\oiFonxi uv.Et  nas  quoq;  hiatus atupt  interponimus •  V doco digama ,F ,ut  dauus, arduus,  pauo,ouum,ouis,  bouis.hoc  tamen  etiam  per  alias  quapiam  cbfonan  tes  hiatus  uel  euphoniae  atufa  folet  peri, ut  prodeft  ,cbburo  ,fi  cubi  ,nu  cubi,  quod  gract  quoq;  pol  ens  facere  junntr/,oi/  utri. Sed  tamen  hoc  at  tendendam  efl  quod  pr&ualmt  in  hac  littera,idefr,in-u,loco  digam  ma  pofito,potepas fimplids  confonantis  apud omnium poetarum do -  {hfpmos.in.b, et  folet  apud  Aeoles  tranfire.F ,  digama  quotiens  ab  p, incipit  diflio  qux  folet  a[pirari,ut  pdrcop  (Spnrup  dicunt  quod  di  gamma  nip  Uoaili  praeponi  &  m  principio  fyliab <e  non  pottft .  ideo  autem  locum  quoq;  tranpmtauit, quia. B, uel  diqamma  pofx-p, in  ea¬  dem  fydaba  pronuntiari  non  pote fl-  A pudrns  quoq ;  efl  munire  <p  pro. u,confonante.b, ponitur, Coelebs  codcfium  uita  ducens, p  er. b,  feri  bitur  y.u.corfonans  ante  confortantem  poni  non  potep.pcut  etia  bru  qes  0  Belenam  antiquifpmi  dicebant  tefh  Quintiliano, qui  hocofle  dit  m  primo  mfhtutionum  oratori  arum. nec  mirum  cum. b, quoq;  m  \i,eufhoni&  aufa  conuertimuenimus ,ut  aufropro  a  pro.  A ff  ira  tio  quoq;  ante  uoatles  omnes  poni  potefl,pofl  confortantes  autem  quattuor  tantummodo  more  antiquo  gr^ecoru. c,t,p,r, ut haheo, Herenni-  usberos, hyems, homo, humus, hylas, Cremes; Thrafo, vhilippus,Vyr rhus-ideo autem extrmpcus afcribitur uoatlibus,ut  minimum  fanet,  confortantibus  autem  mtrinfecus, ut plunmu.  omnis  enim  littera  fiue  uox  plusfonat  ipfa  fefe,cum  p  opponitur, quam  cum  anteponitur, q<t  Uoatlibus  aeddens  effe  uidetur-ncc  p  tollatur  e  a, perit  etiam  uti  f-  gnipationis , ut  fi  duztm  Erenmus  abfq;  afpiratione,qUti  uitium  ui-  dear  facere  ,  intellectus  tamen  inteqvr  permanet .  Confortantibus  autem  pc  cohaer  et; ut  eiufdem  penitus  ptbpantite  fit  , ut  p  aufratur ,    LIfignifirttionh  uim  minuat  prorfis-ut  fi  dica  Cremet  pro  chremes*  unde  hac  confyderata  ratione  ygr  oecorum  dothffhni,finguld4  fecerit  cas  quot];  litteras, quippe  pro,th,Ofpro,ph,p, pro ,  ch,%  f  feribentet  nos  autem  antiquam  finpturam/eruamus-  In  latinis  tamen  diiho  nicits  nos  queqj  pro  ,ph, coepimus  fjeribere, ut  fi  lins,  fima,  faga, nifi  qnbd^utfupra  do  mimus)  cft  aliqua  in  pronuciatione  eius  litterae  dif-  firetia^oim  fono,ph,ut  ofkndit  tpfius  palati  pul fis, lingua, labro  rum-R.h, autem  ideo  non  eji  tranflatum  abillis  m  aliam  fibram, qg nec fle cvhxret  huic  quomodo  mutis ,nec(fi  tolla tur) minuit  fignifid  txonem  ,quanuis  enim  fibtrafot  afpiraticne  dicamus, retor  ,  Vyrrus t  intellectus  permanet ynon  aliter  quam  fi antecedens  Uoailwns  au fe¬  ratur.  Vnde c frenditur  ex  hocquoq;  aliquaeffe  cognatio-r, litterae  cu  uocahbus-cx  quo  quidam  dubitauer  ut , utrum  proponi  debeat  huic  af/iratio>an  fubiungi^nde  Aeoles  loco(ut  diximus) afpirationis  digamma  ponentes  in  dictionibus  ab -p Rapientibus  j olent  loco  digam  ma-B  fcnbere /ududntes  debere  praeponi  diyrtmma  qua.fi  uoathfeA  rurfis  quafi  confonanti  digamma  in  eadem  fyllaba  preepenere  re -  cu j, 'antes ,comutxoant  id  in-Bfiparcop  fcpo Condicentes  Sed  apud grte  cos  hxc  littera /idzji ,p -multis modu fungitur  loco  uoculif  ,ut  in  decli  natione  nondnum  in,pcc,&  in  a  puram  dcfmentum,qu<e  fimiliter .  a, /eruant  per  obliques  cufis ,ut  ui  px  w  pocr^opCoc  <ro<p'*s-  Apud  lati  nos  autem  non  adeo -Q^ucentur  cur  inuah  &ah  poftuocrtles  poni  tur afpiratio  -  &  dicimus  quod  apocopa  fidei  efl  extremae  uoctilif  ai  proponebatur  afpiratio, nam perfidi uaha aha fint-ideo autem abfdffione fidhi extremce uocztlti, tamen  afpiratio  manfitex  [k  periere  pendens  uocrtli,  quia  fium  eji  imterictUonis  noce  alfcondita  profrri-ltaq;  pars  abfeondii &  extremitatis  uidetur  congrue  in  in =  teritVYiefhcnis  naturali  prclahonercmanfiffe-nec  mirum  cum  in  Sy  rorum  Acgyptiorumq;  dichoni  msf oleant  etiam  in  fine  afpirari  uo  atles.lnfrricttionum  autem  pier *q;  communes  fint  naturaliter  omnium  gentium  uoces-inter-cjine  affiratioruey&  cum  af/irahoneeft  g, inter- tyquoq;  &tih,cft.d,&'  inter -p ,gr, ph,fiue-f,  efl -b Sunt  iff-  tur  hae  tres, hoc  eft -b.gfdymcdice,qute  nec  penitus  atvent  afpiratione,  nec  eam  plenam  pojfident.hoc  autem  cflvndit  etiam  ipfius  palati  pulfi<s,&  linvueucl  labroru  confimihs  quidem  in  ternis ,  inter .  p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts  inter -c.&.ch  .&-g- fimiliter  inter -t  &-th-&.d  fidin  humus  exterior  fit  puifus/naf/eris  interior, in  me  dijs  inter  utrvet;  fipradiihrn  locu-qdfiale  digno fci 'tur, fi  ai  te  damus  in  fipr  tdi&ismoiil  us  ora  mirabili  natura  lege  modulati  a  noces- Toto aut e e  cognatio  earu  <p  inuice  muemutur pro fi pofitee in  qbu fidit ditfionihusyt  ambo  pro, u<pu>t  luxus  pro  w  i  os, &  publicus  pro  TouvMHor,  trismphus  pro  dpfocyfros,  gubernator  pro  HvfitpvSx  rnr,  gobius  pro  inofcio,  Caere  *Vj'  toJ  %oupi  puniceus  <po/vi'*tif  deus  Stof  purpureum  Troptpj  piov.  Hoe  quocp  obfiruanduan  efl  <p  nd  computationem  aliarum  cofonantium  quae [olent  mutari  uel  abq-  dper  cti fis , immutabiles  funt  apud  nos  tresl  n-r-per  cmnes  erwn  at  frs  eaedem  permanent, ut  fil  falis ,  flumen  fluminis, caefin  coefaris-t.  quoq;  &  >c.  quduis  m  trilus  folis  mueniantur  nominibus  quaepof-  fint  declinari ,hoc  idem  firuant,ut  caput  rapitis,  &ab  eo  copojita,  Ut  finciput  fi 'napitis , occiput  occipitis, alec  alecis, lac  l albis, in  quoetia  t. additur  •  quare  quibufdam  non  irrationabiliter  nominatum  hoc  lath  prolatus  inuenitur. Reliquae  uero  cojonantes  mutantur , uel  ab ij  cimtur-d-ut  aliquid  alicuius  an. ut  templum, templi, peliumpelij-f  Ut  magnus  magni-x-rex  regis, nix  niuis-ln  uerborum  qucqipraete *=  ritis  p er fettis  jolent  omnes  modo  mutari  modo  manere,  cxcaeptis-L  p.fx  Mae  enim  nunq  mutantur, ut  habeohabui,  iubeo  iuffi,compefco  compefcHi,dico  dixi, afcendo  a fiendi, laedo  Ufi, lego  legi,  pingo  pinxi, demo  dempfi, pr  emo  presfi, moneo  monui, fi  no  fui,  nequeo  nequi  ui, torqueo  tor fi, differo  differui,uro uffi,uertouertiftedv  flexi. \llae  au  tem  quattuor  ut  fiupra  diximus  nuquam  mutantur,  mpraeterito  per  fiflv.l.  ut  caelo  caelaui,doleo  dolui,uolo  uolui,  mollio molhui.p .turpo  turpaui,ftupeoftupui,fadpo  fiulpfi,  lippio  lippiui.fiquaffo  quaffik  ui, cenfio  cenfiti-arcefjo  arceffim-x-nexo  nexui. Voatles quoqiin  eifde  praeteritis  perfiflis  quaem  principalibus  fy liabis  mueniwntur  uerborum, modo  ex  correptis  producuntur, modo  mutantur  in  alias  uo  cales, modo  manent  eaede-Troducuntur  plemnq omnes, ut  fiiueo  fani,  ctiueo  cdui,  fedeo  sedi ,  /ego'  legi,uideo  nidi,  moueo  mom, fbueo  fo  ui, fugio  fugi .  Mutantur. a,  &. e-a. quidem  in. e. medo  produ&tm  modo  correptam.Vrodu(fhim,uta^p  egi  capio  cepi  facio  faa.fi  ango  fregi. correpta, tango  tetigi, cado  cecidi, parco  peperci .  E. uero  tran-  fitm.i.ut  eo  m,ueUij.Solinus in  colledhtneis  uel  polyhijhre.  Tatius  in  arce  ubi  nuc  aedes  efl  xunonis  Monetae  ,  qui  anno  qntv  q  mgref-  ptsurbem  fuerat  a  lauretibus  inter  e  p  tus  efl  ,/eptima  &uiqvffinia  olmpiade  hominem  exiuit.Qjteo  quiui  uel  quij. Haec  eadem  uoculis  penultima  muerbis  fi  eundae  coniu^tiois  fepe  mutatur  in-u.ut  do¬  ceo  docuiynoneo  monui,  doleo  doluuquod  fimiliter  efl  quado  in  ter¬  tia  uel  quarta  coniuqntione  patitur  aut  rapio  rapui,  aperio  aperui  M.&.o>manet  in  principalibus  fy  liabis  pofitae  immutabiles  ,tempo  Yimquoq ;  m  quibufdam.ut  ruo  rui ,  domo  domui, doceo  docui.  Hoc  queep  olfirnandu  efl  p  mnq  in  fupradifiv  tempore  poteft  qeminari    m  ]   i   i!    - n    VK  - - —    UBER  .   Wf  M  principio  ncq;  in  fine  fyllaba  ni  fi  qucedtmte  incipit -  ut  ton¬  deo  totondi,  pendeo  uel  pendo  pependi ,  difco  didici  f  pofcv  popofii,  tundo  tutudi, pedo  pepedi,  iungy  tetigi, c&do  eradi ,  atdo  evadi ,  pello  pepuli,  fxllofifilii^rodo  prodidi  ,  nendo  uendidi-ex  quo  etiam  ap*  paret . f .  uvm  magis  mutce  obtinere  d  quaincipiens  eft  geminata  fyl¬  laba- S-  antvmutem  pofita  muenimtur  duo  uerba  epice  qeminant  fy liabam  m  prcetvrito.jb  ficti, fiondeo  fiepondi  -  Antiquiffnni  etiam ,  fcindo  fdadi  dicebant  ,q>  innior er  fddi  dx  erunt ,  ut  mpr&terit*  perfitfv  uerbi  ofiendemus -  nec  fine  ratione •  9.  ante  mutam  pofita  vnuemtur  qvminatum  uerbum, c/m s-  amittit unn  fiiamplcnmcp,  fic  pofita  ante  mutam,  wndenec  in  fecunda  fyllaba  repetitur-  M -quocf  ge minatur  ,  mordeo  momordi ,  quee  loco  nuttee  in  multis  fungitur,  nam  ante-n  pofitx  communem  fiat  fyllabam,  ut  r amnes  ramnetis ,  fieut  Cremes  Cremetis-  lamlicti  enim  fiunt  quee  fic  declinantur ,  quod  Callimachi  quoque  au  thr  itato  con fi  r  ma  tu  r  in  A  ct  ijs  ,ficu  t  i  am  t :f  radicium  cfl  hocucrfiu  7w;  juiv  o  uvv <rd paetos t<pn  £tvos  uAinr  cuvut-  nunquam  tamen  eadem-  m •  ante  fe  natura  lonqxm  uo-  adem  palitar  ;  n  eadem  fyllaba  ejfe,  ut  illam,  artem  ,  puppim,  i/=  Ium  ,  rcmjfiem  ,  diem  ,  cum  abue  omnes  femiuoatles  bcc  habent ,  ut  Meccenas ,  pcean  ,fol,  pax,  par  -  praeterea  fola  heee  femiuocalis  pofr-s. ponitur, quod  trntar u  cfl, ut  fimyrna,fmardgdu6,&  ante  liqui  dam  ut  fitmnis,&q>  ante-s  .pofita  in  finali  fyllaba  nominis , more  ma  tce  interpofita  i. fiat  genihuu  hyems  hycmls,ucl  uti  inops  inopis, eoe  leis  ccehbis- Apparet  igitur, <q)  elementoru  alia  funt  eiufde yvnerts ,  ut  uoctflcs,&  con fonantes. alia  eiufde  fiedei,ut  in  uocuhbus  breues,  &  longce ,  &  in  corfonantibus  fimplicvs,&  duplices ,  quee  halent  afiiratione,^ quee  non  habent ,  &  earum  medice-  alice  uero  fibi  funt  affines  per  c6rmtatione,idefi  q>imuicvm  pro  fe  pofitee  inucniim  tur,ut  breucs,CT  longce  quee  habent  afiirationem, et  quee  atrent  ea *  A  lice  autem  per  coiuqationem,uel  cognationem  cognatee  littorce ,  0*jg  feinuicem pofitee, ut. b.p.f.necnon-g  &-c-cim  afiiratione  fiue  fine  ea-x»quoq;  duplex,  fitnilitor-d.&.t. cum  afiiratione  uel  fine  ea,&*  cum  his-z-duplcs-unde  fiepe-d  feribentos  latini  hanc  exprimunt  fi  no, ut  medidics ,hcdie , antiqui (fimi  qucq;Medentius  dicebant, pro  tnt  fentius  -  Qjxinenam.fifimplexhabet  aliquam  cum  fipr adi flis  co¬  gnationem,  unde  fiepe pro-z-eam  folemus  geminatam  ponere, ut pa-  trifjo  pro  -jr<x,7(>i{w  pitiffo  pro  tnaffil  pro  juoc(oc-&do,  es  tj   pro  <rJ-wndc  nos  queq ;  tu  pro<rj  (j*  te  pro  ri-kttia  autem  tixAccr-  roc  pretia  Aderret  tipUrTXpro  tipvcrrx  &  httov  proi  crerov  ,&  /i/^i   jux^os  pro  <n/'wxXos ,  Romani  etiam  aiax  pro  tuus .  in  uoatlibus    \    V  v  >••••    V    .  g   quoq;  frut  affines,  e. correpta  fiue  produdht  cum  ei  dipthongy,qH<t  ue  teres  latini  utebantur  ubiqs  loco  -idongee-mnc  aut  contra  pro  ea. i.  longa  ponimus, uel.  e  produdhtm,  ut  v£\os  nilus,  uocAAio^reiu  allio =  peagopci*  chorea. e .  pe ?Utitimamodo  correpta  nwdo produ&t .  o  breuisfiue  longi  cum  u. ut  hos  pro  p>ojr  ehur,  robur,  pro  ehor  ro~  bor,&  platanus  pro  'TAocTx/or.A.quoq;  cwn-c.&.i-arceo  g?  coer¬  ceo. facio  infido, nec, ion alue cum alqs.g?  quia frequenter he m  omnibus pene  litteris  mutationes  non  filum  perafus,ucl  tempora,  frd  etiam  per  figurarum  compofitxones ,  uel  denuationes  gj*  tran-  jlationes  d  grreco  in  latinum  fieri  filent,  neceffarium  efi  e  arum  po  nere  exempla  .A.  correpta  conuertitur  in  productam,  faueofdui,  I n.  e .  correptam  parco  peperci ,  armatus  mermis .  I n  e.  produ -  {ktm  facio  feci, apio  cepi producta  quoque- a. im. e .produ<fhtm  in¬  venitur,  halitus ,  anhelitus  in.  i  .  correptam  amicus  mmlcus ,  in  c.  etiam  juxpuocpor  marmor,  in.  u.  fitlfus  infrifiis,ara  arula-E-cor  rep tatranfit  m.  e.  produchtm,  legoleg.  in.  a.  fero  saties ,reor  r a  tus. in  i correptam  moneo  monitus ,  lego  diligo,  in-  o .  tego  tvgt .  Antiqui  quoque  amplofli  pro  amplctti  dicebant .  Et  animaduortt  fro  animaaduerti.in-u.tego  tuguriim-Et  apud  anttquijjimos  quoti  € fcuncp.n.d.fecpumtur  vnhis  uerbts  quee  d  tertia  comugntioe  nafcun  tur loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut  faaundnmjcgundu,  dicundum f  Kertundum,pro  faciendum,  legendwi, dicendum, uertvndnm-I.tr  an  jitin.a.ut  genus, genens  ,ypneranm, paulus  paulipoulatim  -tn,e  far  tis  forte  fortiter  fapiens  fapientis  fapienterdn.o. patris  patronus ,&  patro  uerbumglh  pro  illifaxi faxofus .  m-u.arnis  arrn/frx  antiqui  pro  arnifrx,ut  lucens, pro  libes  &  pe  farnus  propefjhm.  Sci¬  endum  tamen  eft  q>  pleraq;  nomina  qu^e  cum  uer^is  fiue  partiapijs  componuntur , uel  nomiruttiui  mutant  extremam  fy liabam  in-i.cor  reptam, ut  arma  armipotens  ,homo  homicida, cornu  cor  niger  ,fivlla  fhlliger , arcus  araten es  fatum  fatidicus, nurum  nunfrx,aiifa  ctiufi-  dicus  fadhts  lucificus, cornu  cornicen,  tuba  tubicen,  fidis  fidicvnfi^  des  plurale , cuius  ftngulare  fidis  eft,unJe  etiam  diminutiuum  fidi =  cula-tibia  tibicen, pro  tibfan,  tibia  enim,  a-md-debuithmitare,  ut  fit  praditfhtm  eft ,unde pro  duabus- vj.breuibus  una  logafadla  ep\c[Uod  in  alia  huiufremodi  compofihone  non  muenies .  uulnus  uulm ficus ,  magnus  magnificus ,  amplus  amplificus,  fruflas  fruflificus ,  opus  opifrx  uel  gemtna .  ut  uir  uiri ,  umpotens ,  par  paris  parrict =-  da  quod  uel  a  pari  componitur  ,  uel  ut  alij  dicunt  d  patre  .  ergo  fi  efi  d  pari-r-euphoni£  dufa  additur  ,  find  patre  .tdn r. converti¬  tur ,  quilufdam  tamen  d  parente  uidetur  cffc  compofitum,  g?  pro    JLIBER   farentidda  per  fyncopen,&  commutationem -t.fn.r.fadbitn  parn^  eida  frater  fratris  ,fr  atruida  foror  for  oris,  foror  icida,  lux  quoqj  lu *  ets  lucifer, flo;  floris  florifer ,  fdcer  facri  facnficus,ars  artis  artifix •  p aucti  fwit  quce  hanc  non  [eruant:  regiam,  ut  auceps,  anes  atpiens0  mtnceps  ,mcnteatptus  ,municeps  munera  cupiens,  au^his  augufius  [milia •  &qute  ex  duobus  nominanuis  componuntur , ut  puta  tufiu -  randum,refpu.non  tnutant  extremam  fy liabam, fid  ea  cum  defigu*  ris  dicemus  latius  traifhtbimus  •  O  ,aliquot  Italia?  ciuitates  tefce  P linio,  non  habebant,  fed  loco  eius  ponebant. u .  &  maxime,  Vmbri,  <Z?Y  jhufa.o ,tranfit  in.a.ut  creo  creaux-vn  e.Ht  tutor , tutela, bonus  6e-  ne  71  w  genu  wi/rpes .  antiqui  compes  pro  compos. m  quo  xolesje*  nuimur.  I Ili  enim  t^ovioc  pro  ocP/vroc  dicunt,  o .  conuertitur  vnn,  tsirgo  uir <gnis-m-u.tr emo  tremui, huc  illuc  pro  hoc  illoc .  Virgin  yiij.  Hoc  tunc  ignipotes  ccelo  defcedit  ab  alto. et  pleraq ;  qu&  apud  grtfcos  twminatiuum  in,  os.  terminant, o.m-u.conuertunt  apud  nos»  Ut  h\j' pos  Cyrus ,  zvovJft  o s  fpondeus,  kv  vrpos  cypruS,  ^tA ayos  pelagus.  Multa  praeterea  uetufhffimi  etiam  m  principalibus  mutabat  fyUabis,  ut  cungrum  pro  congrum,  cunchin  pro  conckm,bumincm  pro  hominem  proferentes  ,  funtes  pro  fontes ,  frundes  pro  frondes.  Vnde  Lucretius  m  idibro  Angujkq;  fretu  rapidum  mare  diuidit  undis ,  pro  freto,  idem  in  tertio,  Atqui  animorum  etiam  qu<ecunc Ji  acherunte  profundo  pro  acheronte .  in  eodem  •  Nec  tityon  uolucres  ineunt  ach  er  untei  acente  m,Qjta?  tarnena  iutiioribus  repudiata  fiunt,  quafi  ruftico  more  didht •  V, quoque  multis  ltalue  populis  in  nfa  no  erat, fid  e  contrario  utebantur,  o. under  ornatiorum  quoq;  uctufhffi -  mi, in  multis  dicionibus  loco  cius-o-pofiuffe  inueniuntur,poblicupro  publicu,qi tefhttur  Vapirianusde  orthographia, polearum  pro  pul  chrii,colpam  pro  culpam  dicetes,&hercole  pro  hercule,&  maxi  mc  digamma  antecedente  hoc  faciebant,  ut  firuos  pro  firuus  ,uolgus  pro  vulgus ,dauos  pro  dauus-Tranfit  in.a.ut  ueredus  ueredarius,  in. e. pondus  ponderis, deierat  peierat  pro  deiurat  peiurap, labrum  labellum, [aerum  facellum,  antiqui  auger,  &  auger atus  pro  augur,  et  auguratus  dicebant.  I n.i-cornu  cornicen, arcus  arcitenens, flucfhis  fluttiuagus  ,curfus  ,ucl  currus  curriculus,  uel  curriculum  in. o. nemus  nemoris  cbttr  cboriSy  robur  roboris.  Votutur  ha?c  eadem  littera  itt  gratcis  nominibus  modo  loco •  oj  .  dephthong,ut  mufia  pro  juv o-oc  modo  prou  correpta  ut  homerus  pro  oyupos  pro  eadem  produfhtut  fux  pro  (pupficute  contrario  pro  p>ojs  bos. modo  pro .  u  .loga,ut  probus  mus,  modo  pro  correpta  to' pepv pa  purpura.  In  plerisfy  tamen  £oles  ficuti  hoc  faarrns.  I Ui  enim  OQvycin?  dicunt  pro  Suyxrvp.oj.cor?/ **   M   »3   ♦5) PRIMVS -   ripientes  ,Uel  magif.v fino-u. jbliti  pronuntiare ,  ideoq;  afcribunt  e .  rwn  ut  dipbthongum  faciant  ibifid  ut  fo  ium-  u.  colicum  ofiendanf  Ut  Callimachus  HX\hi%tafv  %6oviF,ojpi'xs  SouyxTup.  Qjsod  nos  fi  cuti  u, modo  correptam  modo  productem  halemus ,  qua  usis  uidca-  tur-oJ -diphtkoYKg  fanmi  habere .  Pro .0, cpiocp.au ,  joletrt  frequenter  ponere  greeti  oj pos  oj aos  pro  5  poto  hos, voj  <ros pro  vo<ros  dicentes, qd  nos  frequenter  habemus  in  finalibus  maxime  fyllabts,  ut  V  namus,  pylus, pelium-u, tamen  cvrripientes-lft  quando  amittit -u^im  tam  uo  diu  q  confortantis, ut  cum  inter. q,  &  aliam  nodi  em  ponitur,  ficut  ia  commcmorauimusyt  quifquam  •  Hor  idem  pier unq;  patitur  etia  inter. g,&  aliquam  uocalem,ut  [anguis  lingua.  s ,  quoq;  antecedente  u,<&  fiquente.a,uel.e,koc  idem  fepe  fu, ut  fiadeo  fiuiws  fuefio  fetus, quod  apud  atoles  quoq;.y,fepe  patitur  et  amittit  uim  litterae  m  metro, ut  <rXT<pu)  ,%a\x  Tu/ePtoc  eA  Sin  xor/a-xrtt  purx,  f  militer  W-    av/  difyllabuminuenitur  apud  cofdcm  cnm-y-  nonef  dipthongus.   .quando  tranfit  in  confomntem  idemu,ut  vxuthf  nauta  ,  nauita,  gaudeo  sgtuifus ,  ficut  eamtrafa  confonante tranfit  inuodlem  ,ut  ft -  pra  diximus, dueo  atutus,foluofolutus,faueo  fautor ,  uoluo  uolutus .  fepe. u, interponitur  inter ufuelcm, in  gratis nominibus, ut »  pxu  herculesxcTKXurijs  <efculapiHS&  antiqui ,x\k,uh'vh  dlcununa  ,x\-  nutum  alcumceon •  I n  confonantibus  quoqi  rmltce  fune  fimiliter  con~  mutationes.  L, triplicem  ,ut  P  linio  uidetur  fonum  habet ,  exii  em,  quan  do  geminatur  facundo  loco  pcfita,ut  ille ,mctellus , plenum . quando  fi¬  nit  nomina  uel  fylldbds,&  quando  habet  ante  fi  in  eadem  fyllaba  aliquam  confonantem,ut  fol,fylua,flauus, clarus , medium  inalijs  ,  ut  ledtus  ledht  le&um»  L, tranfit  in.  x  ,ut  paulum pxuxiUsm,mala  maxilla, uelumuexillum,in.r,ut  tabula  taberna •  M ,ob fimum  inex  tremitate  dictionum  fonat, ut  templum  apertum  in  principio ,  ut  ma  gnus}mcdiocre  in  mcdqs,ut  umbra.tranfit  in.n,  &  maxime,  d,  ucl  t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut  tam  tandem ,  tantum  tantundem,  idem  identidem  ,nwm  nvmcul  i,&  ut  P  linio  placet, mnquis,  nunquam,  an  ceps,proamceps.am  enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus  in.n,  mutat. m,ut  anfi  adhts, anci fia, anquiro,  uodli  nero  fi qu ente  interci-  pit.b  tut  ambitus, amhefi:s,ambufius,amb ages jntenon  etiam  in  com¬  buro  combufius  idem  fit •  F inahg  di&ioms  fubtrahitur,  m,  in  mtr •  plerunq; fi  duodli  incipit  fiquens  diflio,ut  lUum  expirantem  transfixo  pe  flor  e  flammas.   Vetufafflmi  tamen  non  fimper  eam  fubtrahelant.   'Ennius  in. x.  annali  ttm .   infignita  fire  tum  millia  militum  ofh    b    ltb  er   *  Duxit  delcftvs  b  ellum  tvller  are  potentes .   N -quoque  plenior  in  prbnis  fionat ,  in  ultimis  partibus  (yllaba -  rum,ut  nomen,  [hmen, exilior  in  medijs,  ut  amnis,  damnum, tran-  fitin.g,ut  ignofeo, ignauus,igno tu s, ignaris, igno minia,  cogno fco,  co=  gnatus-  poteji  tamen  in  quii  ufdam  eorum  fermonum  etiam  per  con -  qfionem  adempta  uideri-n, quia  in fimplitibus  quoque  potefl  inueni  r  iper  adie^nonem-g, ut  gnatus  gnarus-  &  fequente.g,  uel.c,  pro  ea  g,  fer  ibunt  graa.  &  quidam  tamen  uetujhffimi  authres  Romano¬  rum  eupnonia  cuufa  bene  hoc  facientes, ut  agchifes,agcepsyaggulu$,  agqvns-qucd  ofhndit  v arro.i. de  origine  lingua  latina  his  uerbis  •  Aggflas  aggvns  agguiUa  iggerunt.  In  eiufmcdi grati  &  Attius  no *  fvr  binam. g. feribunt  ,alq-n,& .gyquod  in  hoc  ueritatem  facile  uide-  rc  non  efhjimiliter  ageeps  &  agcora.tr an fit  etiam. n,wd,  ut  unus  ullus, nullus, uvnum  uillum, catena  catella, bonus  bellus, catinum  catil-  lum,fimiliter  collega tcolligp,  illido, collido,  tranfit  m.m-feqmntibus-  b-ucl •  m-ucl-p.  audoee  Vhnio  &  Papiriano  ,&  Probo, ut  imbibo,  wi  o  e  ilis,  bn  outus ,  bn  mineo ,  ynwvt  t  to,  im  mo  tus ,  improb  u$,  imp  erator,  mpello ,  ftmiliter  in  gr acis  nominibus  neutris  bi.on  .  definentibus  zrxAAx.Stov  paUadium  tthaiov  pclium, tranfit  etiam  in*r.ut  corrigo ,  corrunpo ,  irrito  .  Hanc  autem  mutationem  litterarum  / ciendum  ejl  quadam  naturali  feri  uccis  ratione,  propter  celeriore  motum  lin¬  gua  labrorumq;  ad  uicincs  facilius  tranfemtium  pulfus .  T rafit  fu-  pradibht  confonans-n, etiam  in-s, fando  ftifjus, findo  fiffiis ,  in.t-atnis  catulus, catellus- in- c. ecquid  pro  cnquid.pxpclhtur -n,d gratis  in-w,  definentibus, cum  m  latinam  tr anfaunt  firmam,  ut  demipho,  fimo,  leo, draco, fi cut  contra  additur  latinis  nominibus  in-  o .  definentibus  apudgracos  ut  mm  puv }kxtuv tpro  acero, cato.  Tranfit  m.u.confona =  tem,ut,fino  fiuiyfivrno,  ftraui-R.fine  afiiratione  ponitur  in  latinis,  in  graas  Ucro  principalis  uel  geminata, m  media  ditfione  afiiratitr,  ut  rhetor,  rh  entes,  rhodus, pyrrhus, tyrrh  ems  ,orrh  ena  y  pro  quo  nuc  o  fit  ena  dicentes  afpir  ationem  poft-r -antiqua  feritant  feriptura-tra -  fu  in -l.  niger  nigellus- umLr a, umbella. in-s. ut  arbos  pro  arbor, odos,  pro  odor -Plautus  in  Captiuis-  Q^uorum  odos  fub  bafiliatnos  omnes  abigit  m  firu-uerror ,  uerfius.in  duas-ffiuro  ufifi,gvro  gvffifo.H.con-  fi>iantemytero  trimfiro  feui.in.n,  ancus  pro  areus-S-in  metro  apud  uetufhffitrws yubn  fiam  frequenter  amittit .   *  v irgiiius  in. xi. aneidos, Ponite  fies  fibi  quiscp-  idem  in-xiu   ^  inter  fe  eoijjfe  uirosy<&  decernere  firro .   Nf  autem  comunthone  fequente  am  apoflropho  penitus  tollitur  ut  uidcn,fiatin,uim,pro  uidesne  fatifne  uis'ne.  necmn  etiam  in gradi  mhUmlus.^-Uet.  es.  ter  minantibus  plermtq;  tollitur,  cu  fmt  pri¬  ma  declinationis, ut  Gefa^irrhia^hedria^cherca  poeta  quoque jo*  phijht,fytha  ,  citharifkt-in  quibus  etiafner}produ<fhtm  a  correptum  conuertitur  .  tranfit  hac  eadem  in -  m.  utrurfmn  pro  rurfus,dun  mimo  pro  difminuo .  T erentius  in  adelphis  d>mmmetur  tibi  te¬  rebrum,  m-  n -  mittitur-  s-  pinguis  fangninis.  in .  r.  flos  floris,  ius  iu-  ris,curfts  amiculus  ,  «e/  curriculum -in-  x  -  aiax  pro  ausgr  pi  flrix  propiftris-in  quo  fequimur  dores.ilh  enim  o pvtE  pro  opvis.  m-  d-  cujks  cujbdis  ,  pes  pedis  ,prafes  pr a fidis,  palus  paludis .  in .  t- nepos  nepotis ,  uirtus  uirtutis  ,famnis  famnitis .  in-u.  condonan¬  tem  bosbouts .  /ape  pro  afbiratione  ponitur  m  his  dictionibus  quas  d  gracis  fump fimus ,  ut  /emis ,  fex  ,-feptem  ,fefal.  nam  ijulv.  eA/.  t  vtd  .  e .  «Ar  .  rfjwd  illos  aspirationem  habent  m  principio .  adeo  autem  cognatio  ejl  huic  littera  idefi-s,  cum  afbiratione  }quoa pro  ea  in  quibufdam  dicionibus  [olebant  bceoti  idefi  pro-s-h-fcnbere ,  nudi  a.  pro  mu fi, dicentes -huic- s.prapcnitur-p. et  loco. ‘b-grace  fungitur, pro  qua  claudius  Cafar  antifigma -  X  hac  fiqaira  fcnbi  noluit  fed  nul¬  li  susfi  funt  antiquam  feripturam  mutare,  quamuis  non  fine  ratione  kacpuoq;  duplex  d graas  addita  uideatur,  nam  multo  meliorem ,  & uclubiliorem  fonitum  habet-^.qudm-ps.uelds-ha  tamen  ideft.bs  non  alias  debent  poni  pro  ^ -hoc  ep  in  eadem  fyllaba  coniunfla ,mfi  m  fine  nominatiui, cuius  gimtiuus  m  bis  definit, ut  urbs  urbis, coelebs  coelibis ,araps  arabis -Sicut  ergo-^.  melius  fonat  quam  ps-uel.bs.fic .  x-etiam  quam- gs-  uel.es -&-x- quidem  affump fimus -i- autem  non •  fed  quantum  expeditior  eft-^-qudm- ps. tantum  ps-qudm  bs-  ideoq ;  twn  irrationabiliter  plerisqsloco  uidetur  .^.ps -debere  feribi , quod  de  ordine  litterarum  docentes  plenius  traChtb imus -x-  duplex  modo  pro  es.mvdo  pro-gs. accipitur, ut  apex  apicis,  grex  gr  e  gps,  tranfit  tamen  etiam  m-u-confonantem ,ut  nix  niuispiecmn  in.  61. ut  nox  no5hs,fu -  pellex  fupellefUhsSedhac  contra  regulam  declinari  nide ntur-fubit  etiam-x. littera  loco  aflpirationisfut  uehouexi  traho  traxi-x-uertitur  in-f.  ut  efficio  effero. &  /ciendum  cp  quoticfuncp .  ex  -  prapofitio ,   Konitur  compofita  didonibus  duocahbus  incipientibus  ,uel  ab  peattuor  confonantibus ,  hoc  eft.c  -p.t.s-  integra  manet,  ut  exa¬  ro, exeo  ,  exigo ,  exoleo  ,  exuro  ,  excutio,  expeto  f  extraho  ,  exe=  quor  ,exfpes,in  quo  uidenmr  contra  gracormn  facere  conflatu =  dinem-illi  enim. a .  fequente  nunquam  •  /  •  praeponunt ,  fcd-n -  pro  ea  tuttK$ot!ri! .  melius  ergo  nos  quoq;.  x  .  [olam  ponimus,  que  lo¬  cum  obtinet,  es- cuius  rationem  nonfolum  ipfe-  fonus  auriu  iudido  pof  fit  reddere,  fed  etu  hoc  f  qemituiru  s-Jifta  confonante  a madente   b  ij    LIBER.   minime  potefl -geminari  autem  indetur  pofr  confortantem -s-x*  antece¬  dente ,qu£  loco-c.&.sfrinqjttcr  fi  tyfia  confequatuT,ut  exfrquia  ex -  [e^uor -quod fi  liceret, licebat  etiam  pejt -bs, uel- ps. quas  loco -  dupli  as  acapnnus  adderes, ut  dicer enm  objfiffus, abjfichts ,  quod  minime  licet -nunquam  ennn  necs,riec  aha  conjonans  geminari  poteft,  ut  di¬  ximus, alia  antecedente  confionante-nunc  de  mutis  dicrmus-B -  tranfit  in  egit  occurro  fiuccnrro,m  f,ut  opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut fuggro,  in-myut  fivmmitto, globus  glomus ,in-p  ,ut fiuppo/io,nj-r,ut  fitrnpio,ar  rtyio,ms,ut  luleo  iufp-nam  fiifdpio  &  fijluli  d  fitfrum  uel  fiurfium  aduerbio  compofiite  fiunt,  wnde  fiubtinnio  &  fihbcumlo  non  mutauem  runt-b-ins  •  fijpicor  quoque  fiffido  d  frufim  uel  fiurfibm  cvmpo-  nantur ,  fed  abqdum  urnam  s -non  enm  didamus  fufjjnao  fedfiujpU  do,quia  non  potejl  duplicar  i  conjonans  alia  fu  pquente  conjonante ,  quomodo  nec  antecedente ,nifi  fit  mutuante  liquidam, ut  fiupplex  ptf*  fr agor fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g),  quomodo  &  apud  grteccs  o-uyypnoopcJ  <njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn f/cov  ,tp6iyy/Ax.  C- tranfit  in.u, confio-  nantem, ut  quiefeo  quieui,pafico  paui y  afeifeo  a  fani, in- x, ut  dico  dixi,  duco  duxi,  noceo  noxa  noxius,  ins, parco  par  fi, uel  peperci, m-g,an*  te  cedente. n, quadringenta, quingenta,  feptmgenfo .  ango  quoque  pro  ancho.et  riofond  cm  cjr  f  ante  hanc  julam  mutem  finalem  inueniwn  fur  longce  uoatles,  ut  hoc, hac, sic, hic  aduerbium-nam  ante.t,fi  qua  fnueniatur  uoatlis  longa. p er  confdfionem  hoc  euenit ,  ut  audit,  mu¬  nit  fimat,pro  audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita  trafit  aliquando  m-t,ucl  ajjumit  cam,ut  irafeor  iratus,  nancificvr  nafhts,  nafivr  natus , pacificor  padhts ,pafivr  pafhts.  u-tranfit  m-c,ut  acci -  dit,quicq  iam,m  g-ut  aggero,in-l,ut  allido, in. p, ut  appono,  in-r,ut  arrideo,  meridies,  antiqui jjimi  uero  pro  ad  frequenti  [fime,  ar ,  pone -   bant,aruenas, amentor  es, aruoaitDS,ar fines, aruclar  e, arfkri,dicetes,  pro  aduenas,aduentores,aducattvsyadfines,  aduolare,  adfrri .  unde  ofienditurrefte  arcrjfo  dia  ab  arao  Herbo, quod  nuncacao  didmus,  quodefr  ex  ad  &  do  ccmpofitim-arger  quoque  dicebant  pro  agger •  tranfit  etiam  ins  ut  afifiideo,rado  rafifradeo  fiuafi  ,  in  duas  queep  ffiut  cedo  affi,  fr  dio  fv/fiis,in.t, attinet, attamino, attingo,  heee  eadem  tamen -d  frequenter  interponitur  mcompofitis  hiatus  atufa  prohih  e-  di, ut  rediw , redarguo, prodejl-  fini  trahitur  etiam  cum  fequens  fiylla  ba  abs-&  alia  aonjbnante  indpit,ut  afipiro,  afpido ,  afeendo ,  afb -  V. multis  medis  muta  magis ofkndmr , cum  pro.p , et  afpiratione  qu<*  fi  militer  mute,  e fr  acdpitur,de  quo  fiiffiaeter  fiupo  ius  diximus -qua-  q  tam  antiqui  Romanorum  atoles  frequentes  loco  afpiratioms  eam  ponebant ,  effligentes  iffi  quoque  affirationem  •  &  maxime  atni    eonfenante, re  rufabant  eam  proferre  in  latino  fermone -habebat  au-  tem  haec-  f-littera  hmc  fenum  quem  nunc  habet  u-loco  confemntis  fofita,mde  antiqui-afpro  abferibere  felebant,fed  quia  mn  potefe  MU,  idejl  diqnmma  in  finefyllal &  inueniriydeo  mutata  ejl-fm-b.  fi  filum  quoq;  pro  fibilum,tefee  Nonio  Marcello  de  do  floram  indagi¬  ne, dicebant.  G-tr  an  fit  m-;-jfargo ffarfi, mergo  mcrfi,m.x.tego  texi,  fingo  pinxi,in.fl.agor  afht; , legor  lebhi; , fingor  piflu;.  li. littera  nonejfe  ofeendjm>ts  ,fed  notam  afeirationis,  quam  gr  aecorum  anti-  qulffe.m  fimiliter  ut  latmi  in  uerfe  fer  ibebant, nunc  autem  diuiferunt,  &  dextram  eius  p artem  fefra  litteram  p onente;,pfilen  notam  ha-  bent,quam  Remnius  Palcerrwn  exilem  uocut.  Griliuis  nero  ad  vir -  gtium  de  accentibus  fcriben;, lenem  nominat,  finijlram  autem  con *  trarix  illi  afpirationi;  da  fiam, quam  Grillus  flatilem  uocrtt-K-fef  er-  tutata  eft,ut  fefra  diximus,  qu^e  quatmis  feribatur  nullam  aliam  uimhabet  quam- c.De-q- quoq ;  feffidenter  fefra  traflntum  efl  ,<pA&  nifi  eandem  uim  haberet  quam.  c.  nunquam  in  prinapij;  infinito¬  rum  uel  mtcrrogatiuorum  quorundam  nominum  fofita  fer  obii  *  quo;  atfe;  in  illam  tranferet ,  ut  quis  cuius  cui- fimiliter  d  uerbis-q »  habentibus  in  quibufdam  participi j;  m-c. tr an; fertur, ut,  fequor  feat  tu;, loquor  locutu;. trd fit  in-;. ut, torqueo  torfi,  fient  gr-c-parco  par  fifimi-iiter  abqdt.nfn  proterito  featt  &.  c .  linquo  liqui, umeo  mei .  tranfit  etiamin-x-ut , coquo  coxi, duco  duxi, apud  antiquo;  frequen¬  ti  ffimcloco.cn -fyllab*,  qm, ponebatur ,  &  econtrario ,  ut  arquus  eoqm;,oqvHlus,pro  ar cu;, cocu;, oculus, qum  pro  cu,qnur  pro  cur.  trafit  in-; -ut  uerto  uerfe;, concutio  concuffus,  osx  grxcnfro  offl.c.uc  yo  antecedente, tr  an  fit. t. in -x -ut  peflo  pexui,fleflo  flexi- v  ,& ,(,tan  tummodo  ponuntur  mgreeei;  diflionibus,  quantus  in  multi;  uctere ;  haec  quoq;  rmfaffe  mueniantur ,  &  pro-v.u-pro-'{ -  uero  quod  pro.  ff.  conimfli;  acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut  fagtmurrrhapro  yuyfjuJ}*  fcc,  fegunthum  mafjk  fro  (xHvyffo;  juxfa  ,  edor  quoq;  xtto  toj  o'(ciy,  fethus  fro  {»6o;  dicente;, &Medentius  pro  M  efentius.ergp  corylus  t?  limpha,  ex  ipfe  feripturad  graed;  fempta  non  cft  dubium,  cum  f  u -ferio atur  70 7  no  puAo;  toj  vj^ucpif  Solebat  enim  Uetufhffi   mi  gr aecor um-Lpro -n-ferib ere, unde  quinquaginta  quoq;  numeri  fi°  gnum,quod  illi  per -n  ,feribunc,  no;  per-l-morc  illorum  antiquijjl-  feribimus -   D  c  ordine  litterarum.   Kdo  quoq;  aeddit  litteris, qui  quantus  in  ;yllabis  dignofrf-  *  tur  ,  tamen  quia  conimflu;  effe  uidetur  cmn  p ote[ht.teele=   mentorum , non  ah  fer  dum  puto  ei  nunc  illum  febiungerc.   .  b  ili    *»   w    •31    •9    •Jf   t*      Uodtes  pr<epcfitiu<e  alqs  uodlibus  fitbfiquentibus  in  eif  dem  syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi  apud  antt  quos  pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum  fidebat, qua  pro. omni. i,  logt  fcribebant  more  antiquo  gr  cecoru.lnuenltur  h<ec  eademi,pojl  u  an  grceds  nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus  cfi-Sunt  igitur  dij.  hthongi  quibus  nunc  utimur  quattuor .diphthongi  autem  dicun¬  tur  q>  binos  phthongosyhocefi,uoces  comprehendunt. nam  finqul <e  uo  dies (1*04  Uons  habent, &.  ac. quando  d  poetis  per  di<erefim  profer  tur  fecundum  graecor  per.  a- &  .i.fcribitur  ,ut  cudat, piffai, pro  auU  &*pifre-Et  Vir  glus  in  tertio .   Aulai  in  medio  libabant  pocula  bacchi.  idem  in  cdktuo •  t)iues  equum  ducs  pidhti  uefhs  &auri  •  in  gy<eds  nero  quoties  hu^  iufcemcdi  fit  apud  nos  di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro  duplici  con  fanante  accipitur  ,ut  maiapro  juou'x  aiax  pro  cuxs.  Trafitini ,  pro  dufhtm,ut  qu<ero  inquiro, exqui  royquanuis  exqu<ero  Vlautus  dixit  in  Aulularia. intro  exquire  jit  ne  ita  ut ego praedico  .  l<edo  illido 9  c.edo  occido. Vonitur  pro.edongt,ut  a-^vd  fccena  &  pro. a. ut  <efiu-  lapias  pro  xraAH^/os,  inepto  <eoles  fiquimur.  illi  enim  vu^upsus  pro  vj  fiepoes  &<poujlv  pro  (pari v  diau.t  muenitur  tamen  hac  diphthon  qus ;  n  media  dicHone  correpta  tunc  ^quando  compofitce  dithonis  ante  cedentis  in  fne  ejl fiquente  uodli,utpr<eufis.v irglms  in  fiptimo .  Stipitibus  duris  agitur  fndibn*'ue  pueufti -Homerus  dv ndo' ttoAs  X*   JUOlii/VOU.    fiait  etiam  longae  uodles  flent  corripi  yut  dchifiv,virgi.in  quinto -  Infindunt  pariter  fideos  ,totu  mq;  delvfat ,   Conuulfitum  rernis roftrisq;  tridentil us  sequor. G  e  .queq;  idem  pati¬  tur  apud  grsecos  Aefchylnsoizpos  roiujdixs  rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn  de  quidam  non  fine  ratione  imum  tempus  &  fimis  fingulas  eas  ha¬  bere  dicunt. idevq,-  fi  confiquatur  condonans  qa<e  dimidium  tempus  habet ,omni  modo  producantur •  Mt  quocp  uidetur  quafi  pati  diuifio  nem  cum.i.poft.u. addita ftranfit  eadem .Hin  cvnf  nantium  pctcfkt-  tem  ut,gtudco  gtuifits/udrus  nauitay&  vuZ:  nauis •  tranfit  et  indo.  uttaufiro  ab  finii  allatus  .Et  fiicndumi  cp  pro  ab  pr  <epofincne.au.  po  nitur  in  his  uerbis  ,aufugo  &  aufero. E  contrario  queq;  frequenter  f  let  fieri  m  antecedente. a.  C7-H  loco  condonantis  fiquente  ,fi  abijeta-  tur  uocuhs  pofitapofi  eam  idefi  pcfi.u .con fana ntem- au  dipht h o ngus  fiat.u.redeunte  in  Uodlemjut  lauor  lautus y  fiueo  fautor }auis  auceps f  augurium  yaugufiUs . trarfi i  ino.predudhtm  more  antiquo,  ut  lotus  pro  lautus, ple firum  pro  plaufiruan, cotes  pro  dates,  fient  etiam  cun=  trapro.o.au.ut  aufirum proyjl rmiguif culmi  pro  ofculmfiequcn    It    mwvj.   ufrim/q;  hoc  faciebant  antiqui, in. u.  quoq;  longam  tranfit  fraudo  de  frudo, claudo  includo  •'tu- tranfit  m.edo/igtm,ut  A  chiller  pro  x  a<o/V  .vlyxer  pro  oJvarri^quod  o frenditur  m  gninuo  ulyxei,Hora.  «  in  prime  cdrminum, Nec  curfar  duplicet  per  mare  vlyxei.in-n.etta  mutatur  fago  pro  epsdyu .  oe-eft  quando  per  dicer  e  [i  m  profertur  in  grecir  nermni  us  &gr<ectim  ) eruat  fcnpturam  pro.  o .  enim  &.i.  ponitur, que  tamen  ( jient  fr+pradiflum  efr)  locum  d  ipliar  optmet  confonanttr  ,ut  troia  pro  rr?oix}maiapro  jxoux-in  hoc  quoq ;  <eclcr  fa-  quimur  fic  enim  illi  diuideter  diphihongum  ni 7 aqv  pro  koiaov  dicut .  Apudgnecor  tamen  quoq;  .i.  fequente  producere  licet  antecedentem  breuem,ut  Homerus  in  hocuerfat  n  rtfopx  oj  h  t  Ace  BtvJ&Xti  Tnvdvrx  xip  tjuxnr   aufertur  elidejl-oe.  diphthongo,  alter  a  uoaths  faquente.  e- longi  more  attico,ut  poeta  pro  xamdr, poema  pro  xof»/aa,necnon  pYo,w/.diph -  thong  gr nor  hanc  idejhoe. ponimus, ut  «<y/W/ *  comoedia, 7  poc-  yufix  tragoedia  dicentes ,  nec  mirum  cum  pro. v. quoq;  habemur. o.  &  pro.'i.e.m  diphthog  accipimur. hoc  tamen  ad  imitationem  boeo  torum  friemur  facere. Tranfit  in. u. longam  ,ut  phoenices ,punicer ,phoeniceon  puniceum,  poena  punio.  Nunquam  diphthongir  in  praeterito  perfiflv  mutatur ,ut  haereo  hefa,  audio  audiui,mcenio  moeniui ,  ex¬  cepto  c<edo  cecidi  -Ei.diphthong  nunc  non  utimur  ,fed  loco  eius  in  gr&ctr  nominibus- e.uehi.produdhtr ponimur. Et  in  priore  /equimur  Aeoles  -  lUiennniw  Jh^oo-Suii  dicunt  pro  SHjuotrdtvei  &  ixov  pro  ei  xov.  Et  nor  plerunq;  cum. ei.  apud  graecor  fit  purapenulhma  ,  in  illis  maxime  femininis  que  per  adiechonem  affamunt.a.apud  gre  cor  mutamur. ei. in.e.produfktm, ut  ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo'   •xh  HXKKio-yreix  cztlkopea.nam  in  illis  quemda-frlum  definunt  apud  graecor  raro,fathoc,ut  arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia-  Statius  in.iiij .   1$  C andensq;  iugr  Lampia  niuofar/idem  in  eodem,   Hoc  quoq;  fe creta  nutrit  Langa  fub  wmbraidem  in  facundo.   TWnc  donis  Arga  nitet , uder  q;  fororis,   Ornatur  facro preculta  frperuenit  amo.Raro  autem  diximus  pro -  i  f&r  Medeam, plateam, niceam-Nam  quod  Virg.  Qui  tela  tiphoea  i  temnis. e. correptam  protulit ,doricum  efr  ,  illi  enim  frient. a  .  diph-  thong  abijeere .  i ,  In  laiinir  autem  dictioni’ m  difficile  (nuentes -i  longam  ante  uoctilem  pe  fatam  nifa  in  gnirnts  in  tus  defi  nentibus ,  ut  illius,  folius, ullius, quae  tamen  licet  &  corriperem  metro  &  in  ucr  bo  fiam  fias  fiat,  quod  ipfrm  quoq;  contra  aliorum  eiufdem  coniugrt  tionir  fit  regulam  uerborum.  I n  tnafatlinis  quoq;. ei.  pura  m.edon-   b  iiij    M    »3    HIBER.   grm  conuertitur ,  £xkk uos  Achilleus,  a^puos  alpheus  caror  fu  os   /pcndcus-non  fine  ratione  tamen  hoc  fitySed  quia.^purapenultima  ante.us,uciayiiel.umy  per  mminatmos  nm  muenitu r  p rodufta  in  latinis  dicncnisiis  nif  indifyllabis  &ipfis  greeas .  Nam  m greeeis  fepe  inuenimus  ut  chius  £r  diay  &  m  tino  triJylUbo  quod  apud  M  Statium  legiyut  licyus-  Statius  in  decimo  Thebaidos.  Ad  patrias  f  n  quando  domos  optafaq;  paean.  Templa  hcyc  dabis  tot  ditia  dona  facratis  V ofibuStO4  totidem  noti  memor  exiget  auros .  m  ahjs  nero  co  fionanteyl  y fequente  pro  ei  diphthongo  longrtm.i y  ponimus  ut  rubos  nilus  •  In  femiuocaiiius  f  militer  fiunt  alia  prcepofitiuce  alijs  femtUo-  cahbus  m  cade  fiyilab  a  ytt.m,  fequente. nyut  mnefivus,amnis.Sf  quoq»  f  Ruente. m,  ut  finyrnayfmaragdus  .  nam  uitium  facium  qui.z,ante  m,  firibunt .  Nunquam  enim  duplex  in  atpite  fyilab#  pefita  potejl  cum  aha  iwngi  condonante  .  Luatnus  quocp  hoc  ofendit  in  deamo.   '*  Terga  fa dent  crebro  maculas  difhndkt  fmaragdo. nam  f  effet.^an-  te.mfiubtrahi  vnmetro  minime peffet tnec  fair et uerfus-  Syenim  irum  trofepe  uhn  conjonantis  amittit. m  fine  autem  fyllabte  omnes  liqui*  dee  f  lent  ante.s .  poniyut  plus  hyems fmons yars -fimiliter  dnte.xyexc<e  ptn.myut  falx  lanx  arx.  In  mutis  proponuntur  .b  ^.g,  fequente  >d,  ut  [ScPihv po  ?  bdellium  genus  lapidis ,abdir ,aldomcnfmygdonides.C,  uero  Zr-p , proponuntur  fequcnte.t }ut  a{htsylc£hisyaptusydiphthon  gus.  Semiuoczths  nulla  proponitur  mutis  nifi.s,  fequete.b,  ut  afbejhfs  ajbufivs.cfuelqyut  fcutii  fquallor  .p  yut  [pes  /phatra.tjhtfusfihenni-  us-Ante  alum  autem  nullam  nuitur um  .  Mut<e  uero  fetniuo atlibus  praeponuntur  liquidis  abfip.  myomnes  pene  omnibus-bly  ut  blandus  clyut  clarus -dlyabcdlas  nomen  barbarnrn.fi frauus-gl  gladius  gla^  brio.tlytlepolemus ^tlas  pl, planus 'bnyabnuo  frd>by  magis  fiuperio *  ns  ejl  jyilaba:.  cnyc nidus. dnyadnus  ariadne.  gnygneusanyatna.  pn,  therapnefpnus.  brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra-  tusfr, frater- prfratum.trsracfhts.  Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*  ut  py  r  a  cmony  alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi  mos .  T  res  aut  confio  nates  no  aliter  pcjjimt  iungi  in  principio  fiyllabce  nifii  fit  prima. syucl.cyuel  py fecunda  pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p.  Tofit.ct  aute  aut- p,prma pales  fiainda.tytertialHchrfd.lyin  fiohs  illis  quee  ab.symapiunt.ut  A fclepicdotus,  fiyiba fitlopus fylendidus ,  fretus .  Ingratas  etiam. <p ,t fecunda  ponitur  qudm  nos  per.ph,plerunqs  ficru  bmus.crypxyit  uittrix.fceptrum •  Nam  pofi.pt yuehdyfimul  iunfkts  l  non  inuenitur  iit  cfivndjmus,  ipfit  fioni  natura  pyohibente. \n  fine  uero  aitUonis  contra  inuenimus  primam  liquidam  fequentem  muta,  poftremam-  fiut  uris  ,fhrps  •  fin  aute\n  in  cluas  definat  confionantes   di&io      diMoynecejfe  cfi  priorem  liquidam  effe,et  /cquente-s-uelx-ut  fitpr*  offendimus, ude. ueUt- antecedente. n,ut  hmc,dicunt ,  amat, hunc, uel  loco-i-grace  bsuel  ps  fcribcrc  pro  ratione  <grutwi,ut  arahs  arabis,  petopr  p  elopis, coeleps  ccelibis ,  princeps  principi*. Quii ufdam  fame  Ut  fupra  docuimus ynon  aliter  uidetur-^- gr<e at  nifi  pro-psfcnben =  da.quanquam  enim  ratio  genitim  fiipradiflttm  exigat  scripturam,  tamen  cognationem  foni  ad  hoc  procliuiorem  cjfe  aiunt  hoc  tamen  fci  endum  eft,cp  principium  syllaba  omnimodo  pro. i. ps  >debcthahere0  Utpfitacns,pfiudolus ,  ipje,mbo  quccp  mp fi, scribo  scnpfi  faciunt,  quanuis  analogia  per  -b,cogat  scribere  ,/edeuphonia  fuperat,  qua  etiam  nuptam  non  nubtam,  &  scriptum  non  scribtum  compellitper-p,non-b,dicere  &  scribere-  PROBI IWSTITVTA  ARTIVM. M  R.  P-  ^'  30  V.  DE VOCE.  Vox  sive  soDus  est  aer  ictus,  id  est  percussus,  sensibilis  auditu,  quan-  lUDi  io  ipso  es(,  hoc  est  quam  diu  resonat.  nunc  omnis  vox  sive  sonus  aul  articulata  est  aut  confusa.  articulata  esl,  qua  homines  locuntur  et  5  lilteris  conprehendi  potest,  t  puta  ^scribe  Cicero',  ^  Vergili  lege'  et  cetera  UHa.  confusa  vero  aut  animalium  aut  inanimalium  est,  quae  litteris  con-  prehendi  non  potest.  animalium  est  ut  puta  equorum  hinnitus,  rabies  €3Dum,  rugitus  ferarum,  serpenlum  sibiius,  avium  cantus  et  cetera  talia;  inaDimalium  autem  est  ut  puta  cymbalorum  tinnitus,  flageilorum  strepitus,  10  uodarum  pulsus,  ruinae  casus,  fistulae  auditus  et  cetera  talia.  est  et  con-  fusa  vox  sive  sonus  homiiium,  quae  litteris  conprehendi  non  potest,  ut  puta  oris  risus  vel  sibilatus,  pectoris  mugitus  et  cetera  talia.  de  voce  sive  sono,  quaDtum  ratio  poscebat,  tractavimus.   DE  ARTE.  15   Ars  est    unius  cuiusque   rei   scientia  summa   subtilitate   adprehensa.  Dam  el  Graeci  aico  TtjgciQSTijg,  a  virlute,  censebant  artem  esse  dicendam.  uDde  et  veleres  artem  pro  vlrtute  frequenter  usurpant.     nunc  huius  artis,  id  est  grammalicae,   omnis  dumtaxat  Latinitas  ex  duabus  partibus  constat,  '  hoc  esl  ex  analogia et anomaiia,  et ideo utriusque parlis rationem sub20 iriiDus. Analogia  est  ratio  recta  perseverans  per  integram  declinationis  disciplioam,  ut  puta   hic  Catilina,   haec  lupa,  hoc  scrijnium  et  cetera  talia;  $cilicet  (|uoniam  haec  nomina  sic  per  ||  omnes  casus  secundum  sua  genera  2S  in  derlinalione  perseverant,  sic  uli  est  analogiae  rccta  declinationis  dis-  riplina.   1    PROBI    GRAMHATICI   DB   VIII  0RATI0NI8   MBMBRI8   AR8  MINOR.    DB  VOCE   V   Ci COdtParisinus  7519  incipit  tractatos  probi  granmatici  de  uocb  codex  Parisinus  7494  DE  TocB  fi:  cf.  PrUeian.  p.  727  conl.  Prob.  p.  306  ed,  Find.,  Pompei.  p.  187  ed,  lixd.  conl.  Prob.  p.  236  sqq.  ed.  f^ind.  4  omnis  R  communis  r  9  ruditus  corr,  ragitus  R  rndttus  rv  serpentum  R  serpentium  rv  24  scrioium  rv  scriptam  R  "  26  analogiae  recta  R  analog^ia  recia  r  analogia  e  recta  v .Anomalia  est  misrcns  vel  inmutans  aut  deficiens  ratio  per  declina-  tionem.   De  miscente.  miscens  anomaliae  per  declinalionem  ratio  esl  ut  puta  5  ab  hoc  altero,  huic  aiteri;  scilicet  quoniam  quaecumque  nomina  ablativo  casu  numeri  singularis  o  littera  terminanlur,  haec  secundum  analogiae  rectam  rationis  disciplinam dativo casu  numeri  singularis  o  iittera  definiun-  tur.  item  ab  hac  mula,  his  et  ab  his  mulabus;  scilicet  quoniam  quaecum-  que   nomina  ablalivo  casu  nueri  singularis  a  littera  terminantur,    haec    secundum  analogiae  rectam  ralionis  disciplinam  dativo  et  ablativo  casu  numeri  pluralis  is  litteris  definiuntur.  item  ab  hoc  iugero,  horum  iugerum;  scilicet  quoniam  quaecumque  nomina  ablativo  casu  numeri  singularis  o  liitera  terminantur,  haec  secundum  analogiae  rectam  ralionis  disciplinam  genetivo  casu  numeri  pluralis  orum  litteris  definiuntur.   sic  et  cetera  talia, quae  contra  anaiogiae  rectam  rationis^disciplinam  miscent  per  casus  declinatiouuro  formas,  anomala  sunt  appellanda.   De  inmutante.  inmutans  anomaiiae  per  declinationem  est  ratio,  ut  puta  hic  luppiter,  huius  lovis.'  sic  et  cetera  talia,  quae  conlra  analoglae  rectam  rationis  discipfinam  inmutant  per  casus  declinalionum  formas,  anomala  sunl  appeilanda.   De  deficienle.  deficiens  anomaliae  per  declinalionem  est  ratio,  ut  puta  hoc  nefas    et  cetera   (alla;    scilicet  quoniam   haec  contra  analoglae   .  rectam  rationis  disciplinam  non  per  omnes  casus  in  declinatione  per-  severanSic  iam   et  per   ceteras  partes  orationis  analogia   vel  anomalia   comsideranda  est,  hoc  est  ut,  quaecumque  pars  oralionis  neque  miscet  neque  inmutat  aut  deficil  per  deciinalionis  disciplinam,  ad  analogiam  pertineat,  quae  vero  miscet  vel  inmutat  aut  deficit  per  declinationis  discipllnam,  anomala  sit  appellanda.     nunc  etiam  hoc  monemus,  quod   analogia  maximam  partem  oralionis  contineat,  anomalia  vero  aliqnam.  de  anomalia  et  analogia,   quantum  ratio  poscebat,  tractavimus. Liltera  est  elementum  vocis  articulatae.  eleroen{|tum  autem  est  unius  cuiusqi.ie  rei   initium,   a  quo  sumitur  incrementum  et  in  quod   resolvltur. accidit  uni  cuique  lilterae  nomen  figura  polestas.  nomen  lilterae  est  quo  appellatur.  sane  nomen  unius  cuiusque  litterae  omnes  artis  latores,  prae-  cipuequc  Varro,  neutro  genere  appellari  iudicaverunt  et  aptote  decllnari  iusserunt.  aploton  est  autem,  quando  nomen  per  omnes  casus  uno  sche-  mate  declinatur,   ut  puta  hoc a, huius a, huic a, hoc a, o a,  ab  hoc  a.   40  sic  et  ceterarum  lillerarum  nomina  genere  neulro  aptote  et  numero  tantu esi  inmiscens  liv neqne  inmiscd  Rv sit]  sunt  Rv orationis  o  rationis  R in quod v et Diomedes p. 415 in quo R—24 49  p. 1U.56R.  p. 231.32  V.  siflgulari  declinaDda  suBt.  figura  litterae  est  qua  notatur  et  qua  scribitur.  polestas  litterae  est  qua  valet,  hoc  est  qua  sonat.  nunc  omnes  Latinae  litterae  dumtaxat  sunt  numero  XXIII.  hae  nominantur  Tocales  semivocales  el  mutae.  sed  semivocales  et  mutae  appellantur  consonantes.  sane  qnae-  rilor,  qua  de  causa  semivocales  et  mutae  consonantes  appellanlur.  hac  de  &  causa,  quoniam  coniunctis  iliis  vocalibus  sic  nomina  earundem  consonanl.  sed  cum  ad  ipsas  litteras  pervenerimus,  iliic  quem  ad  modum  coniunctis  illi.s  Tocalibus  nomina  earundem  consonent  conpetenter  tractabimus.  Vocales  litterae  sunt  numero  quinque.  hae  per  se  proferuntur,  hocio  est  ad  vocabula  sua  nuliius  consonantium  egent  societate,  ut  puta  a  e  i  o  u,  et  per  se  syKabam  facere  possunt,  hoc  esl  ut  ipsae  inter  se  tantum  modo  misceantur  et  syilabae  sonus  efficialur,  ut  puta  ua  ue  oe  au  ui  ia  et  cetera  lalia.  Iiarum,  id  est  vocalium,  hae  duae,  i  et  u,  transeunt  in  consonantium  poteslatem  tunc,  cum  aut  ipsae  inter  se  geminantur,  ut  luno  viator  15  rultus,  vei  quando  cum  aliis  vocalibus  iunguntur,  ut  vates  vecors  iam  vos  maiestas  maior  et  cetera  talia.  nunc  quaeritur,  quando  i  vel  u  litterae  loco  consonantis-  sint  positae,  vel  quando  inter  vocales  accipi  debent  quare  hoc  monemus,  ut  tunc  i  vel  u  loco  consonantis  accipiantur,  quaudo  praepositae  vocalibus  in  syllaba  scilicet  sua  inveniuntur;  quando  vero  subiectae,  et  ipsae  vocales  iudicenlur:  ut  puta  iu,  utique  i  nunc  loco  conso-  oaDtis  et  u  loco  vocalis  accipitur;  item  ui,  utiqueu  nunc  loco  consonantis  et  I  loco  II  vocalis  consideratur.  sic  et  iuxta  |  vocales  alias,  si  i  vel  u  litterae  in  syitaba  sua  praeponuntur,  vim  consonantium habere iudicantur; si vero subiciuntur, vocalium loco funguntur. Semivocales  consonantium  litterae   sunt  numero  septem.     hae  secundum  musicam  rationem  per  se  proferuntur,   hoc  est  ut  ad  vocabula  sua  nullius  vocalium  egeant  societate,   ut  f  1  m  n  r  s  x.     at  vero  secundum  metra  Latina   et  structurarum    rationem  subiectae   vocalibus  nomina   sua  ao  elficiunt,  ut  ef  el  em  en  er  es  ex.  sed  per  se  syllabam  facere  non  possunt,  sciiicet  quoniam  semivocales  litterae,  si  inter  se  misceantur,  sonum  syllabae  facere  non  reperiuntur,  ut  puta  fl  ms  rx  ns;  et  ideo,  ut  diximus,  per  se   semivocales syllabam facere non possunt. ex  his  autem,  id  est  ex  semi<  vocalibus,   x  littera   duplex  in  metris  sive  structuris  ludicatur,   siquidem  3&  geminatarum  harum  consonantium  sono  fungatur,  id  est  gs  aut  cs,  ut  rex  et  regs,  pix  et  pics.    nunc  etiam  hoc  secundum   aliquos  reprehendendum  est,  quod  huic  duplici  litterae,  id  est  x,  ad  exempium  genetivum  casum   10  Tecors  o  uaecors  R  20  yocalibns  v  uocabulU  R  22  consonantis  el  1  loco  ak.  R9  ^23  iaxta  vocaies  alias  v  ex  codice  Parisino  7519  iaxta  ceteras  uucaittB  •Hu  R  secundum  R  iuxta  rv 50  PROBI   p.  156.  67  R.  p.  232.  33  V.   videantur  subicere,  ut  puta  rex  r^is,  pixpicis;  quod  a  ratione  x  litterae,  quae  duplex  est,  longe  alienuin  esse  videatur.  at  in  Iiog  nomine  non  est  simile  huic  tractatni,  quod  est  nix  nivis.   DE  MVTIS.   «  Mutae  consonantium  litterae  sunt  numero  novem.  hae  nec  per  se  proferuntur  nec  per  se  syllabam  facere  possunL  per  se  hae  non  pro«  feruntur,  siquidem  vocalibus  litteris  subiectis  sic  nomina  sua  deOuiuiit,  ut  pula  be  ce  de  ge  ba  ka  pe  qu  te.  per  se  autem  syllabam  facere  non  pos-  sunt,  scilicet  quoniam  mutae  litterae,  si  misceantur,  sonum  syllabae  facere   lonon  reperiuntur,  ut  puta  bc  dg  tk  pq  et  cetera  talia.  nunc  et  in  his  mutis  supervacue  quibusdam  k  et  q  litterae  positae  esse  videntur,  quod  dicant  c  litteram  earundem  locum  posse  complere,  ut  puta  Carthago  pro  Kartiiago.  nunc  hoc  vitium  etsi  ferendum  puto,  attamen  pro  quam  quis  est   qui  sustineat  cuam?  et  ideo  non  recte  hae  litterae  quibusdam  super-   15  vacue  constitutae  esse  videntur.  [|  item  ex  isdem  mutis  h  aspirationis  notam,  non  litteram  esse  existimaverunt,  cum  et  haec,  sic  uti  ceterae,  certum  sonum  retineat  potestatis  suae,  ut  puta  honos:  numquidnam  onos?  aut  cetera  talia;  et  ideo  hoc  quoque  non  recte  existimasse  notandi  sunt   Nunc  quaeritur  de  consonanjtibus,  quare  in  duas  partes  dividantur,  hoc  est  in  semivocales  et  mutas.  hac  de  causa,  quoniam  semivocales  maiorem  potestatem  habent  quam  mutae.  nam  cum  omnes  artis  latores,  praecipueque  Caesar,  propter  rationem  metricam  et  structurarura  quaUta-  tes  singularum  litterarum  sonos  ponderarent,  hac  ratiooe  semivocales  mutis  praeferendas  iudicaverunt, quod semivocales geminatae ad  sonum  vocalibus occurrunt, hoc est ut syllabam facere possint, ut puta fla ars mons iners  et  cetera  talia;  at  vero  niutae  geminatae,  si  vocalibus  ocAirrant,.  nec  syllabam  nec  sonum  scilicet  facere possint. quis enim b cdkpqtg  geminatas vocalibus misceat et sonum syllabae  potest  audire?  et  ideo  hac  pcaelatione  semivocaies  mutas  rite  videntur  antecedere.     nunc  hoc  monemus, quod h iuncla cum aliis mutis possit vocali concurrere et sonum syllabae suscitare, ut puta pulcher; et ideo hic aspirationis nota, id esl sonus, non littera accipi debet, scilicet quoniam mutae coniunctae, si vocalibus occurrant, prohibentur sonum syllabae suscitare. y  aotem et  z propter Graeca nomina LATINI  accipiunt. Nunc etiam hoc quaeritur, qua de causa ratio metri vel musicae proclivior sit ad rationem Graecam quam LATINAM. utique hac de causa» quoniam Graecarum litterarum vocabula in dimidia parte sunt dtsyliaba et in alia monosyllaba, id esl ut  XXX et VI sonos contineant. at vero litterarum  LATINARUM nomina cum sint omnia monosyllaba, id est ul XX et 2 atnivis alia manu add Ua esge in codice adnoiatwn esi in R11supervacue coniecU ediior Vindobonensis superuacuae Rv quod r quo R 14 8uper>  vacuae R       28 misceat r miscel corr. misceat R.68  R. 34V.sonum  contiDeaDt,  necesse  est  ut  et  in  ratione  roetri  vel  musicae plus facultatis raUoGraeca quam LATINA obtioeaL sed boc in metris vel rousicis conpetenter traclabimUs. dudc et boc moDemus, quod pauci sciuDty siquidero ood semper x littera duplex sit accipieuda; sed  tUDC duplex accipieDda, quaudo subiecta syllabam coDfirmat, ut  puta dox et  6 Docs, lex et legs, felix et felics. et celera talia, siquidem tuDc et soDum duaruffi litterarum coutiDeat.at vero qqaDdo praeposita syllabae existat, noD duplex sed simplex est accipicDda, ut puta maximus auxius: Dumquiduam macsimus aut aocsius? Et cetera talia; et ideo, ut diximus, quotieos X [[ littera praepositasyllabae existat, simplex est supputaada, sciiicet loquoDiaro cs et gs litterae geroinatae, si vocalibus praepooaDtur, numquam sonum syllabae suscitabuDt de litteris, quaoluro ratio poscebat, tractafimus. Etiaro de syllabis, quouiaro dod brevis ratio est, ideo alio loco cod- i6 petenter cum roetris tractabimus. Partes orationis sunt VIII: nomen, pronomen, participium, adverbium, coniuctio, praepositio, interiectio, et verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than they analise it. I play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes from Cicero, ‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a formula ‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a correlation of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”. Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus, definizione di voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’ --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The Swimming-Pool Library.   

 

Grice e Chiavacci: l’implicatura conversazionale poetica di  Gentile – filosofia italiana – Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo italiano. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo gentiliano. Riceve l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequenta la facoltà di lettere del Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Mazzoni, e conobbe tra gli altri il poeta filosofo Michelstaedter, di cui divenne grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore.  Con l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, C. combatté al fronte come capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini.  Comincia a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica.  Entra a far parte dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell'atto puro. C., L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica». La filosofia di C. si muove tra l'idealismo attuale di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Michelstaedter dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista cristiana.  Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e un futuro illusori.  Riappropriandosi al contempo del criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».  Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e smarrisce la «fonte della verità».  L'atto invece, per C., proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro».  Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza oggettivarsi», è per C. fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui».  Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo C., essenzialmente fede.  Opere Tesi di laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica». Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica (Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della religione. C. ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter (Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana.  A lui si devono poi altri due saggi sul Rosmini:  Filosofia e religione nella vita spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini (Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, Leonardi, introduzione di Garin, Firenze, Olschki, Gentile-C.. Carteggio, Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Grita, C., su treccani. Antonio Russo, C., interprete di Michelstaedter, Trieste. Così C. ricorderà il suo primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di C. a Gentile, cit. in Gentile-C.: Carteggio Simoncelli, Firenze).  Scheda su C. su agiati.org.  Cit. anche in G. C., Quid est veritas? Saggi filosofici, C. Leonardi, Olschki. C., Il pensiero di Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia italiana». C., Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, in «Giornale critico della filosofia italiana», C., Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, C., Quid est veritas? Saggi filosofici, C. Leonardi, Olschki, C., Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo, C. interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo, C. interprete di Michelstaedter, C. su sapere.  Gaetano Chiavacci, Michelstaedter in «Enciclopedia Italiana», Roma.Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La Scuola, Guzzo, C. la "Ragione poetica", in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,  Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di C., in «Filosofia», Negri, Gentile: sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, C. interprete di Michelstaedter, Campailla, in  La via della persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia) Gentile Idealismo italiano Michelstaedter La Persuasione e la Rettorica C.  C., in Dizionario biografico degli italiani.  L’encomiabile Bibliografia michelstaedteriana1, regolarmente aggiornata, che appare sul  sito della  Biblioteca statale isontina,  ha ormai assunto  dimensioni più che ragguardevolie,  nell’ultimo  anno,  per  via   del   centesimo   anniversario   della  sua  morte,  essa   si   è   di  molto arricchita.  Sembra, quindi, cosa ardua dire qualcosa di nuovo su Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto  che con il giovane pensatore goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale  anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono  i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di laurea ed è  stata data alle stampe postuma; sicché il  riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma  anche di carattere internazionale, che essa ha avuto, sono in gran parte dovuti alla devota  sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri scritti  di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa prematura, il merito di aver  sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici  fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e  C.. Il  lavoro paziente e meticoloso del secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di Michelstaedter, con la sua edizione delle  Opere  (Firenze, Sansoni), “costituisce una  pietra   miliare   nella   vicenda   storico-culturale   e   storico-critica  del filosofo goriziano. L’edizione Sansoni di C. è all’origine del lavorio critico e interpretativo  che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna ormai a declinare”           In  uno  studio su   Michelstedater,  non   si  può  allora   perdere  di   vista  questa   verità;  e,  soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare il compito di chiarire il  senso e i termini della ricostruzione del suo pensiero proposti da C.e da Arangio –  Ruiz.        E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio  un   autore,  Gentile, le  cui suggestioni   sono  penetrate   per  canali   vari  e   hanno  raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita  nella cultura italiana. Non a caso, con  aderenza  più o meno piena, da lui hanno preso le mosse  molti autori che poi hanno svolto  idee originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro aspetto della  sua  filosofia. Nella sterminata  letteratura critica che gravita sull’attualismo,  i due pensatori  ‘fiorentini’ compaiono,  sia pure con caratteristiche proprie che li distinguono dall’uno e dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio –  Ruiz) o della destra gentiliana (C.) Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure  ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei  suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori, e in particolare  sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni ad insistere:  essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono” Gentile ; non persero mai di vista  l’approfondimento  del  suo  pensiero  e  si   riconobbero   in  esso  nell’arco  di  alcuni   decenni,  giungendo  ad  un  suo  “sincero   ripensamento”.  Una  lettera   di   dedica   a  Gentile   (che   apre   il   volume  La   ragione   poetica,   Firenze,   Sansoni),   mette  ampiamente in evidenza l’effetto che provoca su C. la  lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale  intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del quale   ogni altra cosa non ha pregio”     A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e   di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche  e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore limitazione del  discorso al solo rapporto C. – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz  non   ha  lasciato   un   grosso   volume   sistematico,   ma   solo   volumi   di   saggi;   e   quanto   a  Conoscenza e  moralità,  che   già subito non lo appagava più...egli  stesso  lo considerava un  saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e  colto letterato, un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di discussione  su  problemi di estetica e di critica  d’arte”. Infine, tutta  la sua  opera è pervasa  sin dai suoi   momenti iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo  dei   motivi   tipicamente   attualistici   e   culminano  con   maggior   consapevolezza   ed   esiti   più  cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione dell’idealismo14.        Qui,  come   termine  di  riferimento   e  di confronto,   occorre   prendere  in  considerazione  l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua attività didattica e scientifica trovò il suo  più maturo affermarsi, a partire a Roma. Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le  basi di un fitto tessuto di relazioni  che  interviene   a   connettere   C. a Gentile, in un  rapporto   che   diventerà   sempre   di   più   assiduo,  “amichevole   e   confidente”.  La   prima  domanda da   porsi, per  sgomberare  il  terreno   da equivoci,   è di   sapere, attraverso  l’analisi  puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti di dissenso.     Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i testi.  Gentile si occupa  ripetutamente di  Michelstaedter. Su sollecitazione   di  C., che si era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle  sue  cittadelle   editoriali,   per   caldeggiare   l’edizione  de  La   persuasione   e   la   rettorica  data  effettivamente alle stampe; in lettera a C.) chiede  allo stesso   C. di   redigere  per  l’Enciclopedia  Italiana  la  voce  Michelstaedter   di 10  linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe18. Nel  1922, poi, recensisce l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel  farlo,   tributa   innanzitutto   elogi   all’iniziativa   ad   opera   di  un   “fido   gruppo   di   amici”   di  Michelstaedter; rileva  subito  dopo che   si   tratta di  uno   scritto giovanile  in   cui non  c’è   un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati, e né un loro  “sviluppo  sistematico 19.  Infine, prende  in considerazione “il problema  dell’opposizione tra la persuasione  vera, che  corrisponde al possesso della vita, e la falsa persuasione, scopo della rettorica”.      Per Gentile, in   Michelstaedter la persuasione  serve ad indicare il  fatto che il “possesso  della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica   “della sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come  lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo mondo:  nel suo animo”. Di contro, la rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e  s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa  credere di vivere in mezzo ai piaceri”;   la   rettorica   uccide   la   vita,   irretisce   l’uomo  “nella  vana   teoria   dei   concetti”,   “sdoppia   il  sapere   e   la   vita”,  oppone   “alle  cose   direttamente  affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra “l’insufficienza delle cose che hanno  nella persona il loro correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine  integrante”Tuttavia,   per   Gentile,   anche   se   il   Michelstaedter  sceglie   giustamente   a   suo  bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze speculative e del proprio   lavoro di tesi, “non ha né tempo né animo per considerare direttamente e con pari studio la  persuasione.   Sono   accenni   qua   e   là,  e   qualche   spunto   del   suo   pensiero   positivo   si   può  scorgere”   nelle  Appendici  e,   più   precisamente,   ne  Il   prediletto   punto   di   appoggio   della   dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica  “di chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro,  e tenere raccolta nel presente la propria  vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine  poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul  cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno  speculativo   più   cospicuo,   secondo   Gentile,   consiste   nel   mettere   in   rilievo   un   universale  aspetto di verità,   che  consiste nel  fatto   che  l’uomo “rientra   in   se stesso, liberandosi   della  rettorica e gettando la salda ancora della vita nel porto della persuasione”.    Quali furono le reazioni di C. a questo giudizio di Gentile Uno sguardo da  vicino  all’elenco dei  suoi   scritti e una  loro   attenta  analisi consente   di   accertare   che   la   sua   personalità   speculativa,   ma   anche   quella   di   Arangio   –   Ruiz,   nasce  dall’incontro con Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo  “culto” per l’amico comune  “restò fino all’ultimo  sempre vivo”27. Entrambi gli autori, poi,  pur se  procedono con  diversa,  e non certo  marginale, fisionomia sistematica  e speculativa,  fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto le suggestioni di   Michelstaedter,   nel   tentativo   di   riguadagnare,   come   nel   caso   del   Chiavacci,   l’essenza  dell’attualismo   e   così   di   offrire  un   contributo,   “perfettamente   consentaneo”,   alla   sua   più  compiuta espressione.     L’intero percorso speculativo di C., ad esempio, manifesta fino in fondo la fedeltà a  conservare queste istanze, comunque egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo  pensiero. In particolare,  egli dà  alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui   Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due nature. In esso, egli  affronta il   problema del rapporto tra  finito e infinito, sostenendo  che “l’infinito ideale non  può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del finito”30. Il  testo viene pubblicato con una postilla dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita  a non insistere tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e, soprattutto,  ad approfondire  meglio gli aspetti relativi   al ruolo della “negatività  nella dialettica propria  dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in  cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si è posto e si afferma nella  “sua libertà da ogni limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una   trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella sua  concretezza”.  Dopo   questo   intervento,   due   anni   dopo,  e  sulla   scia   evidente   delle  sollecitazioni  di  Gentile,  nel  Giornale critico  della  filosofia   italiana,  la  rivista   fondata   e diretta dallo stesso Gentile, C. dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in  cui cerca di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di  Michelstaedter  non  è   riconducibile   ad  “una  realtà  negativa”,   ma  è  “la  positività   dell’atto  negante, in  quanto vero atto, cioè vita”; esso non è “pura  negatività”, e tutta  la  sua novità  consiste nel fatto che  “il positivo di Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e   perciò è senza condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”. Tutto il  testo  di C. è una serrata,  e pacata, replica  e a Gentile,  in cui  si pone il  problema   di   precisare   e   difendere  le   giuste   esigenze,   quasi   come   una   esplicitazione   in  positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi  su  La  persuasione   e  la  retorica.  Già  il   titolo  dell’articolo  di   C.   è   una  risposta  a   Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina filosofica, di  un   approfondimento   metodico   e   di   uno   sviluppo   sistematico   e   parlava   piuttosto   di  “personalità filosofica”.      Per C., invece, Michelstaedter non parla direttamente della persuasione, ma non  per questo è giusto dire che ne dia pochi cenni della persuasione si parla in tutto il saggio,   perché essa  è il criterio della lotta contro la rettorica”. Egli non ne fa la teoria, “come non fa  la teoria del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato, come un fatto  staccato dal processo”. Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a  tante altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter  stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo  organismo vivo che non può contraddirsi”; e perciò la definizione della persuasione risulta  “da tutto il saggio”. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera,   la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita. “La via della persuasione  è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito,  è la vera vita del finito: è processo, vita”39.      Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di trascendente, “ma è la  realtà  stessa  più   profonda  del  soggetto”;  quel  che   egli  nega  del   particolare   “è  insieme  affermazione,   come   dice   l’idealismo”:   si   nega   la   particolarità   del   particolare,   “nella   sua  [C., Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”,  pretesa immediata, quel che si afferma  è   quel   che   implicitamente  era in lui di universale,  senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che  dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che  del particolare ci deve premere, la  sua   aspirazione   all’universalità,  quella non perisce, ma  s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”. Questo  particolare, questo esserci del mondo come particolare, come finito, non è possibile senza “la  richiesta dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra  e trionfa...’è  il lampo che  rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato.      La convergenza delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,  diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere naturale e che “non  si restringe nei limiti del particolare: perché egli non può né pensare, né sentire, né altrimenti  realizzarsi,   che   in   un   modo   universale”,   caposaldo  e   tipica   espressione   dell’attualismo  gentiliano chiamata in causa nel testo di C., viene pienamente accolta. E si  pongono così le basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti  del confronto tra i due autori.         Per cogliere ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e C., al di là  dei  punti  di   convergenza  fin  qui   messi  in risalto,   è   necessario  tener  presente   i  principali  scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo  primo affermarsi con  volontà   rivoluzionaria.  Si determinava una   svolta   essenziale del suo  pensiero e della sua azione”. Gentile, infatti, al culmine della propria  maturità   scientifica,  iniziava   il  corso   di   Storia  della   filosofia.  E,   nel  concludere   la  sua  prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con   l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il  vecchio letterato è  morto…l’accademia   e   la  filosofia da eruditi devono essere   davvero   un  passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia continua46.         Come documento più significativo di  questa svolta  può essere preso il proemio del primo numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della  Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della prolusione. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per incominciare una  nuova   vita,   uscendo   dall’individualismo   e  dall’egoismo.   E,  per   farlo,  egli  dice,   occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una  parte   c’è   la   scienza   e   dall’altra   la   filosofia.   La  prima   presuppone   il  proprio   oggetto   di  conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se  potesse veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente:  critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”; la seconda, invece,  e lo stesso discorso vale per la religione, “non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea;  non analizza perciò, ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di  questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto fondamentale  del programma della nuova rivista. Gentile parla qui di sviluppo dialettico che si risolve e si  supera   in   un   dramma   eterno,   che,   proprio   perché   continuo   superamento,   rinvia  necessariamente   al   continuo   superato,   all'oggetto   nel  soggetto.   Cosicché   la   realtà,   o  atto  spirituale, è una unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia   della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a più riprese,  significa che  la   filosofia  non è più "teoria e  contemplazione   del  mondo, ma solo azione e  creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza  di   agire''.   Tanto   che,   come   afferma  Spirito,   "l'idealismo   trionfa   veramente   di   ogni  intellettualismo non in quanto   esso   rimane  una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua,  sicché il suo  valore   teoretico  è assolutamente nulla   (intellettualismo)  se non diventa etico  (attualismo)''.           Gentile insiste,  in altre  parole, sul valore  dell’attività creatrice dell’uomo e sviluppa il   concetto di un mondo che   noi   facciamo  e dobbiamo fare. Anzi,  esso   è   l’unico veramente  esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto  che il problema dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro  della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta  in   quell’umanesimo,   che   dà   significato   fin   da   principio   alla   teoria   e   alla   storiografia  dell’attualismo.  La   vita spirituale   è educazione,   anzi  autoeducazione...questa   affermazione  non   ha   un   significato   parziale,  e   relativo   ad   una   determinata   questione,   ma   rappresenta  l’essenza del concetto di  spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile. E, perciò, per  intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre  ”guardare al lato più propriamente etico  della sua filosofia: a quello cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato intellettualistico, si  afferma   come   identica  alla vita, come il valore  stesso   della   vita.   La   filosofia   del   Gentile   è   tutta   Etica   o   meglio   Pedagogia.   Poiché  una  filosofia   che   non   è   concetto   della   realtà,   ma   autoconcetto,   non   può   essere   più   teoria   e  contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52.      In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una   tale filosofia, infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il   filosofo   poteva   rintanarsi   nell’ozio   speculativo,   far  propria  una   ideologia   estetizzante   da  filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e giudicare, per intendere  una realtà altra ed indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per  il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa ogni   dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole  di sé, vita umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di conoscere e   fare e viene   meno la separazione meccanicistica, e con essa  ogni   residuo dualistico, tra le  varie sfere dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti termini  sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del nostro mondo e  di conseguenza natura,  società, storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è   assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più quella  degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma “quella della nostra personalità, più  profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo  seno in una vita  unica   che   deve  farsi sempre più una, e   cioè   sempre  meno particolare ed  egoista”53. Così  viene  vanificata  la   nozione individualistica   della  persona,  nel   tentativo di  guadagnare  una  societas in interiore  homine, perché, per  usare le stesse parole del  Gentile  della  Teoria   generale  dello  spirito  come atto   puro :“altri, oltre   di  noi, non   ci  può  essere,  parlando a  rigore,   se noi lo conosciamo, e ne  parliamo.   Conoscere è identificare, superare  l’alterità   come   tale.  L’altro   è   semplicemente  una   tappa   attraverso  di   cui   noi  dobbiamo  passare, se dobbiamo  obbedire   alla  natura immanente del   nostro   spirito :   ma   passare, non  fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi  e struttura della società, dove si afferma che l’individuo non da considerare come un  atomo; ad esso, infatti, è  :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché  non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter,  che è il suo essenziale socius”.  L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria  “personalità nella coscienza di una vita universale”. Gentile, secondo Spirito, non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà,  ma con la propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della nuova  idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita sociale si sono realizzate nella sintesi  più   concreta  e   consapevole.   Egli,   perciò,  nel   significato   più   proprio   della   espressione  hegeliana,   è  un  individuo   portatore   dello   spirito;  anzi,   “è   il   simbolo,   e,   meglio,   che   il  simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua umanità non si riduce ad una vuota e  vaga  astrazione,  ma   egli   è  un  uomo   intero,  appunto  perché   è  quella  “universalità  che   si  concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi nell’individuo”58.         Il che, nei suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che C. aveva  svolto nel suo articolo. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo  di  vederlo  più   sopra,  anche  Michelstaedter   non  elabora una  teoria   della  persuasione,  e   il  criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni  sua affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo  essenziale del suo   pensiero,  quindi, è l’attività vera, la vita,   che   non ha fuori di sé la   vita  “perché deve essere essa la vita. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori  di  sé.  Essa  intanto  è   la  vita  dell’infinito   nell’individuo  finito,  è   la  vera  vita  del finito:   è  processo, vita.          Lo stesso tema  verrà   ulteriormente   ripreso   dal   C.  negli anni successivi. Il suo  volume  Illusione  e  realtà,    e  sua  prima   opera  sistematica  di   filosofia,  per  usare  un’espressione   di   Garin,   può  essere   intesa   “come   una  sorta   di   esplicitazione  in  positivo del pensiero di Michelstaedter e in  particolare come una prosecuzione della sua  tesi su La persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi,  cioè  il tema della  persuasione. Dopo pochi anni,  ossia nel 1936, dà alle  stampe un   Saggio   sulla natura dell’uomo  (Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione  dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di continuare  la   chiarificazione   delle   principali   istanze   michelstadteriane   in   rapporto   alle   posizionigentiliane. Tale  compito campeggia sin dalle prime battute discorsive  del saggio,  che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe riuscire  ad   una   riaffermazione   di   idealismo”. Nell’Epilogo,  poi,   il   risultato   dell’argomentazione  discorsiva,   considerato   nelle   sue   rigorose   e   ultime   conseguenze,   lo   porta   ad   individuare  nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale della  riflessione   attorno   a   cui   disegnare   il  tracciato   del  confronto   Michelstaedter   –  Gentile.   E  questo atto consiste in una liberazione e in un  distacco da tutto ciò che è caduco e relativo;  epperò,  nello  stesso   tempo,  conduce  “a   vivere  con   altra   mente   la  vita  che   ci  troviamo  a  vivere, un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione, perché tale  atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è lo  stesso suo puro conoscere, la stessa sua assoluta liberazione interiore”64.   In un altro saggio  del 1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia  italiana”, C.  affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto.   Nel  farlo  ammette   che  il  centro   dell’attualismo  è  l’attualità  dell’atto,  ossia   l’affermare  la  realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e non è”, atto come  processo che è “assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi”. Per spiegare come  sia da intendere questa affermazione di carattere fondamentale, C. analizza alcuni dei  principali   testi  del  Gentile;  mette  in   evidenza,   poi,   che  la  realtà  di  cui   il  filosofo   di  Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio   preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro. In questo processo, il  finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua  pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo valore, quando,  vedendosene   l’insufficienza   in   sé,   è   considerato   nel   suo   essenziale   rapporto   con  l’infinito...perché   visto  con   altri  occhi   nella   sua  vera   realtà” Per C., in questo consiste la verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il gentilianesimo  indica quando parla di attualità dell’atto. Non più filosofia in senso logico, ma vita in atto,  attività giudicante e nello stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto  più importante,  avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito, in cui “il processo  è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e  vivere. In questa  concezione, per C. sembra   annidarsi, comunque, una difficoltà di  fondo, cioè:  anche l’attualità dell’atto  sembra essere una  forma di mediazione, di logica, e  quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a  suo tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per   Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito, non fatto ma atto,  farsi. Viene facilmente pensato  che  questa  sia la   nuova  mediazione;  giacché   un  farsi,  un  divenire, non può essere in sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere  all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione di questo problema è di  capitale importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che  esso non sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma sia  “più vivo che mai”. Per  sciogliere  i  nodi  del   problema   e   dissipare  i  dubbi,  in  modo   da   comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente che  la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in  atto, “è una mediazione non  di opposizione, ma   di distinzione, in  cui non si  afferma né si  nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si vive la vita altrui, e  si vive   l’altrui in quanto si vive   la  nostra” Questo è il vero e incontestabile   attualismo,  ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non  essere  (cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del  finito  in cui  si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia dell’arte e  Genesi e struttura della   società, in particolare, C. trova conferma a questa sua rilettura del Gentile, soprattutto  quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della Società  trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già  nel suo  principio,   non un’unità semplice, un io indivisibile,   un   individuo atomistico: ma è  unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per la quale  soltanto  ci  possono   essere  l’io  e   l’altro. Si   tratta  di  fondare  una   società,  in  cui   “l’io,  essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli altri, e la vita di ciascuno è  la stessa, identica vita di tutti. Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si  crea per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua più vera realtà, ora consapevole   e   perciò   soltanto   ora   veramente   reale   nella   sua   concretaindividualità.   Si   tratta   in   altri   termini   di   una   dialettica  tra   logo   e   attualità   o   attualità  dell’atto, che consente al Gentile, secondo C., di prendere le distanze e di realizzare  un fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel.      Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi anche quelli  di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana  tra persuasione (vita del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e  trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo atomistico, ecc.).   A   ulteriore  dimostrazione   di   quanto  fin   qui   affermato,  c’è   un  altro   testo   di   C., significativamente intitolato L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che  non si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui ‘individuo’ “.  Per cogliere il vero senso del pensiero di Michelstaedter, occorre allora tener presente  che “egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una  nuova realtà, in  cui il  mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in   quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta verso  tutti,  perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose lontane’ “. E,  nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero significato del pensiero  di Michelstaedter, C. ribadisce ulteriormente che :”il valore individuale...è la concreta  consapevolezza che la nostra essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In  tal modo si porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità reale,  che  né   spazio  e   né   tempo  potranno   minacciare,   e   il   molteplice   del   mondo   si  unificherà  anch’esso e si farà a noi interiore”. Giunti  fin  qui,  il  quadro che   nei  suoi  tratti   più  peculiari  ci   si   presenta   agli  occhi,  in  particolare dopo la sintetica analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata  attualistica e dei testi dati alle stampe da C. nell’arco di alcuni decenni, è quello di un tentativo   di   riguadagnare   il  più   profondo   significato   dell’attualismo.   C.,   in   altri  termini,   a   partire   dai   primi   anni   Venti,   riprende   un   motivo   tipicamente   attualistico,  espressione  di   quell’idealismo  che  egli   considera come la  “più  ricca  eredità  tramandataci  dalla storia  della filosofia moderna, e  cerca di mostrare  i legami di  fondo che stringono  Gentile a Michelstaedter.   Colloca   così in primo piano   i   punti  di forza del   momento   dellapersuasione e, nello  stesso   tempo,  del momento dell’attualità dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e  rinnova il  problema   della   persuasione   e  di   Gentile   quello   dell’atto   in   atto,  che   si   fa  continuamente,   che   è   vita.   Il   suo   intento  è   quello  di  collocarsi   all'interno   dell'attualismo  nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più  recondito, del lascito gentiliano - e de  La persuasione e la rettorica - e di non lasciare che  esso   venga   ridotto   a   teoria,   ad   una   chiusura   sinteticistica   o   una   formulistica   ripetuta  pedissequamente. Lo stesso  Gentile,  per   C., non   sempre  ha  avuto   piena coscienza  degli ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto,  e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista, ma  questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente  verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo  pensiero, ma addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente  le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza.      Così C. ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse,  la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una  di quelle verità fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma  che  possono  essere  pienamente  accolte  e   fatte   oggetto   soltanto  di  ulteriori   svolgimenti   e  approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo, non più inteso come atomo e che  perciò non può più rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso  nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che  il mondo sia con noi una sola cosa”79  -, e che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il  qui, convertendoli   in  sempre   e dovunque  :  sceglie  la   qualunque situazione   che si   trova a  vivere,  e   esaurisce   in   essa   l’infinita   sua   esigenza:  far  finito   l’infinito,   far   vicine   le   cose   lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della sua  dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un  differente   uso   terminologico   e   di   enunciazioni   gentiliane   non   sempre   rigorosamente  univoche.     Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle stampe,  C.   conferma   e   sviluppa   ulteriormente   queste   posizioni,   sempre   sullo   sfondo   del  dialogo con Michelstaedter   e   con Gentile, ancora una   volta   nel  tentativo di  conciliarne   leesigenze di fondo. Così in un saggio, significativamente incentrato su L’eredità di Gentile, si  propone   il   compito   di  individuare   e   descrivere  ciò   che   deve   al  filosofo   di  Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che cosa debba al  pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, che egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono  l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare, ma  anzi accrescere, il patrimonio  che   il   padre  per amor loro onestamente aveva guadagnato e  saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta  di questa: la dottrina dell’atto puro. Su questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed  è un io senza residui intellettualistici che, per  poter   assolvere   opportunamente   il   suo  compito e realizzarsi senza  impietrarsi, non deve avere alcuna realtà  presupposta, ma deve  “reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo  qualcosa fuori di  questo” Si tratta qui di  un   io il cui carattere   peculiare   è di avere una   infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale, di una natura presupposta,   di  un   mondo   di  idee   già  codificato   e  platonicamente   costruito   sin  dall’eternità   -,  che   si   alimenta   tutto   e  sempre   “sull’infinita,   indefettibile,   unica   attualità   dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite individuazioni storiche” o “la  consapevolezza   che   l’atto   ha   di   sè   come   forma   immanente   dello   stesso   suo   concreto   e  individuato  agire”,  “assoluta   responsabilità   di  chi  si   assume   attualmente  la  responsabilità  della propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo”.83  Sicché non può  esservi altro che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito che  si  realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno speculativo più cospicuo  dell’attualismo gentiliano, ossia “la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno,  e tale da aprire la possibilità dei più felici sviluppi”      Tuttavia,   secondo   C.,   il   filosofo   siciliano   non  è   riuscito   a   dare   alla   propria  riflessione una  formulazione   in tutto  e   per tutto univoca; e anzi  ha   mantenuto aperte   due  possibilità interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col  rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare, Gentile non avrebbe  assolto   pienamente   al   proprio   compito  di   riformare   la   dialettica   hegeliana   :   avrebbe   sì  investito  in  maniera   efficace   e  acuta  Hegel   dell’accusa   di  intellettualismo,  per  esser   eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di  questa   sua   battaglia   e   sarebbe   ricaduto   egli   stesso   in   una   dialettica   a   sua   volta   intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa il movimento per il quale  il reale è; è il concetto dell’autoconcetto,   per   dirla   con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto  stesso, che per essere tale non può essere concetto, ma autocoscienza superante il concetto.  In altri termini, una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua  attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può essere colta da una  teoria ad essa  staccata  e   sopranuotante  che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in  sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per  C., si ricade soltanto, e ancora una volta, in una forma di platonismo o di dualismo;  invece, la vita interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non può  esser   conosciuta   che   per   la   consapevolezza   che   il   soggetto   ha   di   sé   senza   oggettivarsi,  consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è  conscio del suo rapporto   all’altro,   così   che il soggetto come vivente relazione non è terzo  oltre i due momenti, ma è tra i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno  di essi è per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può essere   che una monodiade. Il passo che Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a rigorosa  coerenza il   suo discorso   filosofico  consisteva  nel  far  propria   l’esigenza  di   una “dialettica  attuale,  fra  momenti   attualmente  vissuti  nella   loro  reale soggettività...la  dialettica   triadica  degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva  intendere “l’atto come il vivente attuale  processo unitario in cui gli oppos  ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando la   proprio apertura  infinita,   supera  le determinazioni intellettive e attua quella coincidenza   di  individuale e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente proclamata tante volte dal Gentile, la   quale   mal   si   concilia  con   la   solitudine   del   logo   come   sintesi.  Essa  richiede invece un interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben  si può scorgere nel più profondo dell’esigenza   gentiliana”. Solo  così,  ossia   liberando  la   dialettica  dai   residui  intellettualistici   che   ancora   ne  gravano   la   comprensione   e   il   pieno   sviluppo,   è   possibile  riaprire   il   discorso   e   operare   un   rinnovamento   dall’interno dell’attualismo,  per farne  fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto l’intenzione fondamentale  che   pervade   anche   gli   altri,   successivi,   scritti   di   C.  -   tutti   volti   alla   miglior  comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a connotarsiquesta   sua  più   significativa   e   innovativa   scoperta90;   ed   egli   resta   in   definitiva   ancora  impigliato nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo  C. occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema  del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia  dello   spirito   che   vive   nell’intuizione;   e   poi   è   necessario   cercare   di   rispondere  all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme  soggetto e oggetto, nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri dell’attualità dell’atto, per così  dire mortificati da certe inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.        In  un   altro,  denso  e   complesso,  saggio   della  tarda  maturità  su  L’autocoscienza   nella  filosofia di Gentile,  le   posizioni  fin qui prese in esame ricompaiono,  imperniate sul bisogno di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche.  Esse,   infatti,   ruotano   sempre   attorno   al   problema   dell’atto   e   ai   vari   aspetti   ad   esso  strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue  articolazioni, perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste  l’essenza   e  l’esistenza   concreta   dell’Io,   diviene  il   centro   che  sostiene   la  realtà   di   tutto  l’universo”.Per Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il  pensiero gentiliano, negli scritti  del filosofo siciliano,  tranne qualche sporadico cenno, non  compare una esposizione  adeguata   del modo in cui   l’Io   trascendentale  ha coscienza  di   se   stesso. Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia  e in  qualche  altra opera,  ad esempio, si dice quà e là, e in maniera stringata, che l’Io, l’atto, in  quanto realtà presa nella sua infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito  si conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si  riconosce  che   ogni  grado   della  consapevolezza   (sensazione,  percezione,   rappresentazione,  intuizione, sentimento, e così via) è cosciente  perché si  tratta di distinzioni relative di certi  atti psichici  con certi altri,  e in quanto  tali, sul terreno del  logo astratto, esse  sono sempre  espressione   di   un   pensiero   logico.   Tuttavia,   affinché   l’atto   spirituale   sia   veramente   uno,  questa distinzione per   gradi  tipica della psicologia empirica e di una  concezione analitica  dell’anima   umana,  nell’attualismo   viene  abbandonata.   In  forza  di   queste  considerazioni,  Gentile, secondo C., per evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così  di considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette nell’intuizione una  forma di logo che non è quella astratta del logo oggettivo, epperò la traduce in termini diversi  da quello di intuizione, ossia con auto-concetto,   facendo   valere   la  distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia,   pur   se  questa  via  è   in   profonda   dissonanza  con  i  modelli della comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata. Per C., la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel  momento in cui c’è una forma dell’io  che conosce se stesso distinta  da quella con  cui l’io  conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico,  stricto sensu  parlando, l’io non ha  alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano.  Questo  è  un  aspetto che orienta  tutto  il  quadro  di   pensiero   di   Gentile   -   e  su   cui   egli   è  costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione comporta la necessità di precisare come concepire  l’autocoscienza   e   “quell’autotrasparenza per la quale mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in  atto di conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale  intuizione di sé, che si svela ancora  una volta come un atto logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato, concettuale e oggettivante,  “non ci sarebbe neppure l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere  intuitivo, la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo della  conoscenza sin dal  suo   primo  momento e se  si   tien   conto, secondo C.,  di   come  a  partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che si  tratta di “un atto di analisi che dà per risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali,   concreti, come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche  l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si riflette, il  contenuto della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il  mondo che vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale si  può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli   ulteriori  svolgimenti  discorsivi,  poi,   sul   terreno  che  in   termini  attualistici   viene  coperto  dall’area  semantica   del  pensiero pensato,   in  cui  si   analizza   il  contenuto  sintetico  datoci  attraverso l’intuizione e si costruisce  un fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè  la  kantiana sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere   di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico analizzato”, per  esplicitarla in   maniera analitica. Una cosiffatta mediazione  concettuale, infine, da  punto  di  vista del   filosofo  di Castelvetrano   non può  non   riconoscere la   propria  astrattezza,   cioè   la  coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla sintesi  di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e  che è l’intuizione costitutiva dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus   sui”. Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per quanto utile e   per certi aspetti finanche necessaria, come  momento essenziale dello sviluppo dialettico, se  abbandonata a se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio,  ma che  invece se si alimenta  alla fonte di ogni   mediazione, che è la  consapevolezza di sè  dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella  concreta unità dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e   proficua radice.      Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate  non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura alla  religiosità   della   vita   spirituale   mostrata   da   Gentile   in  tutto   l’arco   della   sua   produzione  scientifica  e,  in  particolare,  negli   ultima anni della sua vita. L’atteggiamento del filosofo siciliano  nei confronti della religione,   tuttavia,   in  proposito   avrebbe  potuto   essere più evidente e  di maggior respiro, se   egli avesse stabilito con chiarezza  inequivocabile  come  individuabile   specificazione   dell’autoconcetto   ciò   che   esso   veramente   è:   intuizione   o  sentimento Nel tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il punto più  debole  e  bisognoso di una   riconsiderazione   critica.   Per   C.,   infatti,   la   sua  costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di  grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di  oltrepassare con la  costruzione  intellettuale,  col loro  logo pensato, l’unica   autentica  fonte  della verità, il  logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa nell’attualità  dell’atto”. Questo  non  significa affatto sminuirne l’importanza e le grandi possibilità  che  essa  ci   dischiude;   anzi,   il   valore   sostanziale   delle   sue   tesi   comporta   il   più   ampio  riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a profitto ciò che egli solo ci  ha insegnato, riprendendo l’aureo filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e  arricchendolo nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò fin   dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando ero quasi giunto al  mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi  permise di  riprendere   il  mio cammino attivamente. E di questo   non  cesserò mai di sentire  gratitudine. E’ una gratitudine non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi  sempre incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”. Questa conclusione riassuntiva implica il  riconoscimento  dell’importanza fondamentale  della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il  più genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad  approfondimento   e  revisione   interna,  in   un  ampio,   continuo  e   serrato  dialogo,   con  una  disamina volta a   stabilirne  una più  rigorosa   coerenza  che valga   a   guidare e inquadrare   la  propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge C., nel corso  del  suo   lungo  cammino   intellettuale,   presa  nel  suo  complesso,  comporta   in  definitiva  un  triplice guadagno: un riuscito tentativo di promozione dell’opera dell’amico goriziano, per accreditarle una  sua peculiarità e dignità filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana; C. nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica  dell’attualismo;  gli spetta così il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori  citati, non  solo di aver  speso con efficacia   le sue migliori   fatiche in difesa dell’amico,  ma   anche  un posto  d’onore, con una sua originalità e  competenza, nell’ambito della letteratura  che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un  indirizzo del pensiero filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli  che più sono progrediti”. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono stati variamente tributati,  le acute indagini e la argomentazioni del C., volte a svolgere una vigorosa opera di  individuazione   e   di   messa   in   chiaro   di   un   comune   ambito   teoretico   tra   Gentile   e  Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi esse suscitarono non  poche perplessità. E’ questa, ad esempio, la convinzione di Spirito che, nel concludere la  propria   risposta   all’amico  C.,  non   esita  ad   affermare:   “a  me   sembra  Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle michelstaedteriane,  non abbia   potuto  conciliarle  fino   in fondo,  sia  rimasto in   una  posizione  intermedia  tra la  concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”. Su questo punto, comunque, la riflessione critica  che gravita sugli autori fin qui presi in  considerazione  (alquanto lacunosa, a dire il vero,  soprattutto negli ultimi anni e per quanto  concerne   l’esigenza   e   il   compito  di   saggiare   storicamente   le   posizioni   di   C.!!)   a  tutt’oggi   non  è   concorde   e  perciò il   problema   della  conciliazione tra   la  speculazione  gentiliana   e   quella   di   Michelstaedter   ci   sembra   tuttora   aperto   a   ulteriori  sviluppi  e approfondimenti che sono ben lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del  tutto assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The Swimming-Pool Library.

 

 

Grice e Chiocchetti: l’implicatura conversazionale prammatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena). Filosofo italiano. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” -- Veste l'abito francescano. Conclude gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna. Ordinato sacerdote.  Studiò filosofia a Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò un'assidua collaborazione, su invito di Gemelli, alla Rivista di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione. Progettò uno studio sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore le lezioni di psicologia di Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto, assunse la direzione della Rivista tridentina.  Note  C. su siusa.archivi.beniculturali. Faustini,, C., SERBATI e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri.  Faustini,, C.: un filosofo francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura, Trento, Pancheri, C. un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento. "Archivio Trentino", Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-C., Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, Centi, Un filosofo francescano C. Trento, Gruppo culturale Civis, Coen, C. in Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,,  C. filosofo trentino rettore generale francescano e professore di storia della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di C..Pubblicazioni di C., su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO  COLLEZIONE DIRETTA DA PICCOLI  C. Milano IL 5a  PRAGMATISMO agi   E 7 EDIZIONE ATHENA MILANOVia Vigentina' 7-9 s santo, MRETTRI   s»,  è ita, canina eno er insit) miri iztarta e ea  Nihil obstat quominus imprimatur 19 Mediolani, Bernareggi. Nihil obstat quominus imprimatur  Mediolani,Mons. Can. Cavezzali. ALL'AMICO  P. ARCANGELO MAZZOTTI  CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE  SA CERCARE E COGLIERE    LA FILOSOFIA    sg    AL LETTORE    ca    Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume questi  «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi  anniì sono nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per-   chè il Pragmatismo contiene aspetti di verità che non  A vanno dimenticati. Quali siano quest» aspetti verrà  rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo i  Uue principali rappresentanti di esso il James e lo   Schiller.   f In questa esposizione ho introdotto solo mulazioni  accidentali, più che altro verbali, che mettano quella    corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritual-  mente dai nostri.a E. C. LLINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II Pragmatismo. Pragmatismo e Umanismo. Pragmatismo e conoscenza. Nell' Inghilterra e nell'America, come è noto, la filosofia ha avulo sempre un carattere prevalentemente pratico, cioè, ha studiato con particolare predilezione quei problemi filosofici che si riferiscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle  scienze pratiche, in generale; e, anche quando si è  sollevata alle più alte speculazioni, non ha mai perduto il contatto intimo con la vita pratica «ed è stata  più sollecita della ricerca del vero in vista dell'orga-  nizzazione della vita reale, che non dell'astrazione  collivata per sè stessa e per la sodisfazione dello Spirito. Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta  pensare alla filosofia di Hobbes e di Bacone, all  filosofi cmpirica e crilica di Locke, alla filosofi  naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De  (3) Cfr. «Revue Néo-Scolastique», dove son  tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B  CELAERE' (New-York) le parole citate. La «Revue Néo-Sc  Stiquen ne di un amplo riassunto col titolo: Le mouveme  hilosophiqgue en Amérique. Vedi anche i riassunti  cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in Inghil-  Mica in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N. IL   SEE.   (6) Linee fondamentali    sti, alla fase clica del movimento empirico del se-  colo XVIII, all'Associazionismo e all'Utilitarismo. Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni  filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghil-  terra, degli inglesi emigrati, i quali naturalmente  portarono al di lù dell'Oceano la caratteristica della  filosofia della madrepatria: l'atteggiamento pratico,  che assunse allora, per speciali circostanze storiche,  un carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra,  «una corrente più profonda non ha mai cessalo di  rimontare in senso opposto (alla corrente empirica).  Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i  Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del  ‘senso comune, e apparisce nella sua forma più sor-  prendente in Berkeley, fondatore dell'’idealismo in-  glese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte, Hegel  e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha  mai perdulo il'carattere pratico, sperimentale, e  tende ad appoggiarsi più volentieri sulla volontà e  sul sentimento e a trascurare le categorie puramen-  le logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì  deve dire della filosufia in America.   Quando la rivoluzione americana pose fine al pe-  Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a  manilestarsi varie e nuove correnli filosofiche —  ppiella del senso comune, il Trascendentalismo di  Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel; l'Ideali-  smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre  la tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita,  a non perdere il contatto con la realtà, a far risal-  lare il carvaltere pratico dei problemi filosofici. « Ne-  gli scritti, p. es., dei seguaci dell'Idealismo Kan-  liano non è la critica che tiene il primo posto, ma la  psicologia cosidella scientifica in opposizione alla  psicologia metufisica» (2).    (1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica » (1 i S-  sunto della relazione del MACHENZIE: La EIA  nea in Inghilterra, donde sono prese le parole citate.   (2) «Revue Néo-Scolastique », I. c.    rat ET tit, 0 ELLI a_n GI   Il Pragmatismo ('S   Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti  nel mondo inglese-americano sono o erano qualche  anno fa il Neo-hegelianismo e il Neo-volontarismo.  Quale dei due trionferà? Se la storia ci può ammae-  strare, se il carattere cinico dei due paesi può servire  di fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc-    si guì dei lempi sono veridici — intendo la reazione "i  Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI    denza della filosofia contemporanea a dare il valore Li  principale della valutazione delle vedule speculative i  al sentimento e alla volontà — possiamo applicare  anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive dell'America: « È verosimile che il corso fuluro del pen-  | siero filosofico non subisca tanto l'influsso dei Neo.  hi  legeliani quanto quello dei Neo-volontaristi ».  Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano non  è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo  studiarlo, lauto più che esso non è più limitato a  quelle regioni, ma ha suscitato anni addietro vivo  a interesse in lutto il campo filosofico, dove, accanto e  ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi  nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-.  n° no, con lono da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le  filosolie avversarie. Già lo Schiller aveva annunziato  il maturarsi di grandi eventi nel mondo intellettuale  à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto  vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi |  di un tempo propizio a nuove intraprese filosofiche  secondo la nuova forma, egli guardava con compia-  cenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour:  «Le basi della fede»; alla serie di opere popolari.  del James: «Lu volontà di credere, Immortalità  _ mana, Le varie forme della cuscienza religiosa»  | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È  | Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà,  «una volla centro di Idealismo, un manifesto così  dace com'è «L’'idealismo personale» dello stesso  | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori Linee fondamentali    della scuola di Chicago (alla testa della quale slava è  il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘  tions» della Università (1). i;  Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non  passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase  del «batti ma ascolta!» e quando i falsi concetti, È  dovuti a prella mancanza di famigliarità con la dot- |A  — trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile D  applicazione ».  D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è *  affermato con sempre crescente energia, suscitando  vive polemiche, incontrando simpatie e disprezzo,  seguaci c avversari, così che polè scrivere il James:  «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine delle  .. © riviste filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi  di pensiero che mancavano di un denominatore comu-  ne lo trovano nella parola Pragmatismo » (3).   Esso ha avuto in tutte le nazioni rappresentanti di  grande valore, fra quali, i principali sono: in America  il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger-  mania il Simmel e il Jerusalem (4), in Ilalia gli seril-  tori del Leonardo, specialmente il Papini; in Francia ,   (1) ScHiLcen, IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri;    (9) Der Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte Denkmetho-  «en, trad, in tedesco dal Prof. \VILHELM JERUSALEM, p. 29, Leip-   zig 1908. Verlag. von Dr, Werner Klinkhardt. Di questa tradu-  zione tedesca mi servo nella esposizione del Pragmatismo.    (3) Zbid.    (4) Sì è voluto vedere un Pragmatista anche nell'Eucken. In  s tà il suo «ttiwismo non ha niente a che vedere col Pragma-  tsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni  metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a  eno il Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com  fa l'Eucken, Ja concezione intellettualistica della vita, non è  una caratteristica del  Mo- |  | talismo e di Misticism    ca  À «  n  Pragmatismo ma di ogni specie di  (OA 2       vrib CE: Il Pragmatismo .    il Blondel, il Le Roy, il Bergson e molti fra i moderni-  sli più avanzati (1).   Come si vede, aveva un po' ragione lo Stein quando  scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola d'ordine»  filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuo-  vo indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico  che passa potentemente dall’ America sul vecchio  mondo e comincia a incerospare la superficie - delle  nostre acque stagnanti (2) ».   Facciamoci a considerare davvicino una tale filo-  sofia, allenondoci specialmente ai suoi due rappre-  sentanti più illustri: il James e lo Schiller.   gs 2 — Il nome «Pragmatismo » viene dal greco  «pragma» che significa «azione, operazione », vie-  ne dalla stessa radice che ha dato origine alle parole    «prassi, pratico»; perciò, più italianamente sì chia- mercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella fi-  losofia fu Charles Sander Peiîrce (3) «nel senso di  un metodo che consiste nel giudicare del valore di  una affermazione dalle sue conseguenze nella pra-  lica », ossia di un metodo che era già stato applicato  dall’Empirismo inglese alla valutazione delle cono-  scerize umane. Ecco in breve Ja sua dottrina.   È un falto psicologico che il dubbio, l'incertezza  producono in noi uno stato di malessere, di irrita-  zione; uno stalo spiacevole insomma,   Per uscirne — e noì vogliamo uscirne — è neces-  saria una convinzione, una credenza in cuì l’attività    del pensicro possa riposare: la credenza attutisce    le sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è la    sola funzione del pensiero: il pensiero in altività —    non persegue allro fine che il riposo del pensiero e lo distinguono profondamente dall'inglese-americano.  (2) «Archiv. fur system Philos.»  (3) Egli espose il suo sistema fino dal 1878, ma non fu che —  | dopo essersi servito lungo tempo della parola CART EVA    nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un articolo .    | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le Pragmatism Bi.    Alcan, Paris 1908, p. 6. Lan    "a    (1) IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie che. 2A  f    10 Linee fondamentali    quindi tutto ciò che non contribuisce alla formazione  della credenza non fa parte del pensiero propria-  mente detto. La credenza, poi, ha per fine di pro-  durre un'abiludine alliva, che diventa regola per  fazione. Se le credenze mettono fine allo slesso dub-  bio, creando la stessa abiludine e la stessa regola  d'azione, non diversificano fra loro.   Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non  c'è da far altro che determinare quali abitudini essa  produce, poichè il senso d’una cosa consisle sempli-  cemente nelle abiludini che essa implica. Il caral-  tere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa  ci fa agire in ogui possibile circostanza... e il fine  dell'azione è di condurre a un risultato sensibile.  Noi prendiamo, così, il sensibile e il pralico come  base di qualunque differenza di pensiero, per quanto  sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo  così sottile da non polev produrre una differenza  nella pratica (1). In allre parole: Il pensiero crea la   “convinzione, la convinzione è regola dell'operare e  in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’ope-  l'are è il risullato sensibile, pratico: questo, dunque,  deve servirmi di crilerio per giudicare del valore del  pensiero, per conoscere con chiarezza il significato  dei concetti. Come render chiare le nostre idec? In-  lerpreliumole dal punto di vista pratico, domandia-  nio ad esse quale efficienza pralica contengono, quali  Sensazioni possiamo aspellarci dall'oggetto che ci  bappresentano, e quali reazioni dobbiamo preparare.  La rappresentazione di questa efficienza pratica, me-  diaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap.  presenlazione dell'oggello e in ciò sla tutto il significalo positivo della rappresentazione. « L'idea di una  cosa è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice il Peir-  ce (2). «E contradittorio il dire che si conosce con    (1) Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub  pippoz pt Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto   «Rev HosophiQuew 1879-VII: «( x È  ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos    (2) « Revue philosophique» 1. c. p. 47. | IRIS Il Prugmatismo    precisione l'effetto di una forza, ma che non si com-  prende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo  gli effetti della forza si conoscono tutti i fatti impli-  cili nella affermazione della esistenza della forza e  uon v'è più nulla da conoscere » (1).  Come render chiare le nostre idee? «Pensando »,  risponde il Des Carles, conducendole alla evidenza  della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri  sponde il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità  ‘* d'azione che è in esse, nell'oggetto rappresentato:   è ciò che agisce, è distinto ciò che produce effetti di-  stinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito ergo.  sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la  funzione della filosofia è di scoprire quale differenza  definitiva forà a ine 0 a te in definiti istanti della  vila se questa è quella formuia del mondo fosse la  vera. 4   Tale è il principio del Pragmatismo. Rimasto inos-  servato per venVansi fu mpreso dal James ed appli  calo alla religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca  nerale poi. D'ullova in por tanto il nome quanto i  principio hanno falto forluna, così che i due leader:  pragmalisti ce no possono dure una esposizione co  vaggiosa e abbastanza sistemalica in due opere ap  parse nel niondo anglo-sassone e diffuse rapidamen-  te fra i cultori di filosofia. “a   Per comprendere l'importanza del principio enun: 3  ciato, ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad  applicarlo vi casi particolari, come fece con perfetta   | chiarezza, senza nominare il Pragmatismo, l' Osl-  - wald nelle sue lezioni sulla filosofia della. nalu    -. TTI) Ivi, p. 92. Ne  (2) Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società. fil  “sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il n  | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »;  egli dice nella prefazione al « Prugmatismus», D. X.  (3) Zweite Vorlesung, P. 29.  12 Linee fondamentali    conforme a ciò che egli stesso scrisse al James:  « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c  ? questo influsso è quello che per noi esse significano.  - Nelle mie lezioni iv sono solito domandarmi: in  qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se fosse  vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente  per cui sarebbe differente, l’alternaliva non ha sen-  si so » (1). Che è quanto dire: le opinioni rivaleggianti,  «nel caso. hanno identico significato pratico e non  esiste che un solo significato: il pratico (2). Ossia:  qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti; il  valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E  poichè i falli in tanto sono in quanto sono da noi  csperimentali, il valore di un'idea mi è dato se la  risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es.,  sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza.  Una sostanza noi la conosciamo per i suoi attributi  (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò che di essa si  può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o di essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se  Dio, lasciando l'ordine degli accidenti, distruggesse  la sostanza, noi non lu potremmo neanche sapere.  Se del legno mi resta la combastibililà e la struttura  Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inacces-  sibile ad ogni forma di esperienza?  d Dunque Ja sostanza come un quid in sè distinto  dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so-  | Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti.  L'unica applicazione pragmatistica dell'idea di so-  Stanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il caltolico  non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza  del corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del  Berkeley della sostanza materiale è affatto pragma-  lîslica, e pragmalistica è la critica del Locke e del-     l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte del  Bea,  o    n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato f   | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA   3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT ;  (2) Ibfa. A    non ci sia un quid come soggetto, sostegno, substrato.  ià It Se   ll Pragmatismo 13    Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un  dato istante della vita, ci ricordiamo di quello che  eravamo in altri istanti e sentiamo questi istanti co-  me parli della stessa serie personale di avvenimenti  vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci to-  gliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la so-  slanza dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo  di lui, la maggior parte dei psicologi empirici, negò  l’anima addimttura (1).   Altro esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha  cercato Dio; il materialista lo dà come il risultato di  forze fisiche, cieche.    Ebbene, le due teorie sono identiche, se il mondo si.  considera come un tutto terminato, completo. Poi-  chè «che valore ha Dio per il mondo, per noi, se  Egli non lo può mutare e far procedere di un passo?  Sé il mondo fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il  mondo non è al termine della sua evoluzione, allora  la questione: «Materialismo e Teismo» acquista  una importanza vitale. La ‘scienza della natura pre-  “dica che la fine di ogni cosa e di ogni sistema di  cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà come non  fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli  ideali, i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del  materialismo! Ma se Dio esisle, se è Dio che dice  al mondo l’ullima parola, allora potrà perire il mon-  do materiale, ma gli ideali saranno conservati e  lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine  morale e recide le speranze che su quello si fonda-  no; lo Spiritualismo afferma un eterno ordine mo-  rale del mondo e lascia libero spazio alle speranze    (1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha    dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes-    sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Giovanni    Stuart MIN, dal quale ho imparato la prima volta la pra-  gmatica apertura dello spirito e che, nella mia fantasia, figuro.  così. volentieri come il nostro duce, se vivesse al presente    Non per nulla il sottotitolo aggiunto al Pragmatismo suon  . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere di pensare»,  sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio Empirismo  inglese,       14 Linee fondamentali    dell'uomo (1). Lo slesso principio si deve applicare  alla questione della finalità nella nalura e della li-  bera volontà. Dio, finalità, volontà libera, pragmati-  slicamente hanno un senso; intelleltualisticamente  nessuno (2). ) x   Empirismo, dunque, e Pragmatismo applicano lo  stesso principio, giungendo, naturalmente, alle stes-  se conseguenze. Con una differenza però, tiene a  dirci il James. I vecchi empiristi non fecero che un  uso frammentario del principio pragmatislico: ne era-  no un semplice preludio. Il Pragmatismo rappre-  senta l'empirismo in una forma più radicale e meno  aperla alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto,  una volla per sempre, a una mollitudine di abitu-  dini antiqualo, care ai filosofi di professione: alle  astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramen-  le verbali dei problemi, alle argomentazioni «a prio-  bi» ai principî fissi, ai sistemi chiusi, all’assoluto e  all'originario, alla vecchia melafisica intellettuali-  sfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi.  pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia,  ragione, assoluto, energia, crede di possedere il si-  smficalo ullimo dell'essere e di aver raggiunto il  fermine delle sue ricerche metafisiche 13). — L'atteo-  giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel-  Ieltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è  dci più decisi (4).   Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al-  l'agire, alla forza, è signore della disposizione em-  pirica, ama l’aria libera e le molteplici formazioni  della natura, sì oppone al dogma, alle artificiosità,  alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva (9).(1) Dritle Vorlesung, p. 59 sgg.  (2) Ibid. p. 76. «Eine andere als dicse praktische. Bedeu-    tung haben die Worte: Gott, Will Z, -  MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber    (3) Zweite Vorlesung, D. 31-33.  (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più che nel  James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si trova    di fronte ad un hegeliano Vi  gni ig non meno aggressivo, quale è {l    (5) IUid. p. 32.    ne 1° MN i 14    PACI ZZZ Il Pragmatismo 15  Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti  intellettualista perchè vuol essere una dottrina per   la vita prima che della vita, un metodo ordinato alla  sodisfazione dei bisogni umani quotidiani. « Esso non  ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo me-  lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî,  dulle calegorie, da presupposle necessità, e ci fa  volgere lo sguardo alle cose ullime, ai frutti, alle  conseguenze, ai fatti (1). Perciò non accella nulla,  non ripudia nulla a priori. a  “sso chiede a tulte le teorie, a tutti i sistemi, a sa  lulli i concelli: qual'è il vostro valore pratico? siete.  utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica, —  all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura  all'uomo? L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e   di principî, di scienza e di religione. Ebbene, quale  filosofia si offre all'uomo per soddisfare a questi suoi  bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo  Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo  religioso bensi, ma lontano da ogni contatto col mon- :  do, colle nostre gioie e coi noslri dolori e per il quale  le cose reali sono un niente: è questo il dilemma at-  luale nella filosofia (2). ma  Il Pragmatismo invece può soddisfare ambedue  quei bisogni: può conservarsi religioso come i si-  9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione  coi falli (3;. Il Pragmatismo, come dice il Papini, si.  trova nel mezzo delle teorie come un corridoio in un  albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo che la-.  vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza  ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede  «e forza; in una {erza un chimico ricerca le proprietà  dei corpi; nella quarla sì sta abbozzando un sistema    »   Vily]  (1) Ib2d. n». 34. «Er hat keine Dogmen und keine Leh  ausser . seiner Methode. Die pragmatische Methode bedeutet.  Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- — *  rende Stellungnahme ». >»    (2) Il JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma  tutta la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der  — Philosophie ».    (3) Erste Vorlesung, DD. 10-12.  o  x    è   16 2 Linee fondamentali    di metafisica idealistica, nella quinta un Tizio dimo-  stra la impossibilità di ogni metafisica. E il corridoio  appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se ab-  SE bisognano di una via praticabile per entrare e per  hi uscire (1). ,  Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo  fine è di por terminc alle beghe filosofiche presen-  ì lando un criterio Pratico per giudicare del valore di  NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è una uni B  va plicità? — Vi domina il fato 0 vi è una volontà li-  bera? — È materiale o spirituale? — I giudizi dati in  Proposito valgono tanto che niente e le discussioni  sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo  ; Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare  a ognuno di questi giudizi dalle sue conseguenze pra-  i tiche. Quale differenza pratica risulterebbe per qual-  cheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei giudizi?  Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono r.ra-  icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove 1.n  c'è differenza di Significato pratico non vi può es-  sere differenza di significato teoretico. Con questo  metodo, sempre secondo il James, si  sare gli allriti, attenuare le contese ie  intelligenze, riuscire alla concordia e alla pace, Esso  © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non  «Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo  «della speculazione due teorie che abbiano le medesi-    f    me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE  Pi» (3). .Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo   Pragmalistico non permette    ecc. come lermine ultimo della  ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'espe-  — rienza: le teorie non    sono soluzioni, ma programma  per nuovo lavoro; non risposte definitive, ma stru-    menti d'azione, ma indice che cj addita i mezzi per.    Ì ) di considerare le parole : È  __ Dio, materia, energia,    ty Gazelle Vorlesung, p. 34,   2) p. 28. Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il  Lettura seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall,   J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus? (Cosa vuole   “Ri ORANDO, La Mlosoha   | «Rivista Rosminiana » A Apologetica Moderna]   dell'azione e vr  » N. I, 1906,          not? PO UTNE e ne I Il Pragmatismo 1? k    i)   | 1 quali le realtà esistenti possono esser mulate e  adattate all'uomo (1). Il Pragmatismo toglie così alle   i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa la-   j vovare (2). Esso si accorda col Nominalismo nello È   i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es   | cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di- ,   i sprezzo delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@   i bali, delle astrazioni metafisiche, di tutto ciò in-  somma che non serve all'uomo nella vita reale. Per-  chè luomo è il centro dell'universo, afferma l'Uma-    nismo (3) conlro il Noaluralismo che considera l’uomo | è.  come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son  subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmocentrica (Uanlica) e alla teocentrica (la medioevale) ani  deve sosliluirsi l'aniropocentrica. «L'uomo è la mi-  sura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo- È    prolagorista, con Prolagora l’umanista (4). L'Uma-  nismo consiste semplicemente nel rendersi conto che  sono degli esseri umani coloro ai quali è proposto.  il problema filosofico, degli esseri umani che si sfor-  zio di comprendere un mondo di esperienza umana |  coi mezzi che fornisce lo spirilo umano.   Secondo l'Umanisimo sono «il sentimento e la vo  lonlà che custiluiscono l'interesse centrale dell’es-  sere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti  nel mondo esterno ».    (1) « Theorien werden... zu Werkzeugen », p: 33.  (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n.  (2) Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal  James, c'è differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil-  «_ ler l'Umanisino è più largo, il suo metodo sì applica a tutto:  i d@ll'etica, all'estetica, alla metafisica, alla teologia, mentre il  Pragmatismo non si applica che alla teoria della conoscenza.  In realtà Je applicazioni che fa lo Schiller del suo metodo, —  È le sa o le accetta anche il James, Lo confessa il James stesso,  ] P. Al. n°  AE  | _.,(4) Protagora l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d  Gli: Studies in Mumanism, p. 302. A p. 36 egli stesso chiam  il suo sistema « Nèo-Protagoreanismo », > o  ip”td  54  18 - Lince fondamentali    Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia  la filosofia più autropocentrica che si possa dare.  L’«ago ergo sum», del Pierce può essere sostituito  «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un  melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggia-  mento benevolo di fronte a tutte le concezioni, pur-  che non si voglia erigerle a un che di « assoluto ”,  ma sì prendano come pure interpretazioni umane  5, dell'esperienza umana. Non si dimentichi — avverte  lo Schiller — «che l’uomo è la misura di tutte le  cose, cioè di iullo il mondo dell'esperienza... non si  dimentichi che l'’uomu è il fattore delle scienze che  servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo, tutto  all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il  Pragmatismo accetta questa dottrina umanistica, e  «io — dice il James — la tratto sotto il nome di  Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire, il  soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma-   | lisliche: non ha valore che ciò che ha un significato  per l'uomo.    $ 3. — La logica finora ha tentalo di essere una  pscudo-scienzu di un, processo non esistente e im-  | possibile chiamaio pensiero puro. In nome di essa  ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero  Ogni traccia di sentimento, d'interesse, di desiderio  © di emozione, come le Diù perniciose surgenti di er-  tore. Così la logica fu ridolta ad una pura rappre-  | Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al-   luale, perchè non si è voluto osservare che quegli  __ inMussi (sentimento, emozione) sono egualmente fon-  le di verità e pervadono tutto il nostro processo co-  | gilulivo (3). Poichè «il Primo passo nella acquisi- (1) Humanisme, (Prefazione) p. xx.  (2) Lettura seconda, p. 4I, (8) ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10 SEITE ELE    0 logico e gnoseo-       zione di nuove conoscenze è l'intervento di un postu-  lato emozionale » (1).   Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo,  la natura data di un conosciutu non può formare il a  fondamento logico per la inferenza di caratteristiche 0  opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside- |. Ù  rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò  mondo la necessità dell’esistenza di un mondo mi:  gliore, sc il ragionare — come afferma la logica tra-  dizionale — è il prodotto di un pensiero puro non  affetto da volizione?    «Sollanto se una trasfigurazione sconosciuta del-  l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in parec-  chi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pensiero puro non influenzato dall'affetto non potrebbero  mai raggiungere e ancor mero giustificare quella  conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero de-  ve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri  menti della volizione e del desiderio » (2). La ragione -  «pura» e una pretla finzione c una impossibilità si   psicologica; lu strultuva reale della ragione attuale E  è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata fino n]  nelle midolla (permeated (lhrough and through) da  ulti di fede, da desiderì di conoscere e da volontà di  credere, di non credere, di far credere. E altrove: Dini”  La intellezione pura non è un fatto che abbia luogo |  in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il * a  nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo,  dai nostri interessi e dalle nostre preferenze, dai   | Il Praghiatismo 19  /  i  |    nostri desiderî, dai nostri bisogni e dai nostri fini. x  Questi formano il potere movente della nostra vita  intellettuale.   « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non 3:  sa nulla (3), postulati di una fede che sorpassano la È    2    (1) Ibid. p. XI.    >» (2) p. XII «To attain it, cur thougth needs to be impelled vi  ‘na guided by the promptings of volition and desiro ». -  POS) (3) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL,(Pensées), LA 4    20 Linee fondamentali    intelligenza pura e possiedono una razionalità più  alta che un gretto inlellettualismo non è riuscito a  comprendere. L'irrazionale si trova ad ogni passo,  in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede    «sla a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la    razionalità stessa è il supremo postulato della fede.  Senza fede non c'è ragione; la fede è un ingrediente  nel progresso della conoscenza; realizza sè stessa  nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula alle  conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e  ragione perchè la razionalità pura non esiste (1). Il  carattere leleologico della vita mentale influenza e  pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole.  Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del  Pragmatismo: ne dà la vera definizione (2). Il pen-  siero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge in una    - psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò    finalistica. L'uomo non pensa per pensare e il Prag-  malismo è: «una prolesta sistematica contro l'igno-  vanza della finalità nella‘conoscenza » (3). La volontà,  lintenzionalilà è da per tutto: il Volontarismo si  constata nella psicologia, nella logica e nella meta-  fisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto  di visia leleologico. Il Pragmatismo si formula da per  lutto in funzione della finalili..   «La ragione è un'arma nella lolla per l'esistenza  cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne segue che  l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione)    (1) Questi concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i  JI S ° seialmenie in  un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI The  Ilibbert Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra l'altro, che è base es-  senziale in scienza e in religione partire da supposizioni che  TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se  ; Viviaino per fede può anche esser veri r -  Ralemo pen pata L e esser vero che cono  (2) Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4, 5.    (3) Stud. in Hum Essay, I &  * Èssay, I $ II — È ques a ses  sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se    nite e collegate l’una con l'altra nei  S S b ;3  (4) «I cannot but conceive the Or AR]  In the struggle for existence and  tation è. pag. 7, Humanism,    reason as being... a weapon  a means of achieving adap-       à, cea  Il Pragmatismo i    svolgimento, deve essersi impresso profondamente   nella sua strullura, se pure non l’ha formata da  istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore n   pratico ai fini della vita è una mostruosità, una aber-   razione morbosa, una mancanza di adattamento che   la selezione naturale presto o tardi deve far spari-   re {1). Quindi, da questo punto di vista il Pragma-   lismo polrebbe definirsi: « Una applicazione coscien-   le alla epistemologia (0 logica) di una psicologia te-   < leologica, che, in ultima analisi, implica una metafi-  sica voloniaristica » (2). pis  TANA Nice di questa psicologia felcologica applicata  alla conoscenza i problemi della logica devono appa-  rire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una im-  porlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine.  Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno sfor-  zo diretto a conoscere, che, come ogni sforzo, è te-:  leologico, ispirato da un bene che si vuol consegnire. SI  Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza  è una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore   di bene (3).   Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il  | Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come  TU la logica, che ne è lo strumento, e come la metafi-  sica che ne è il coronamento, ha il suo fine e la sua  giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento  | slabile e sicuro in quel primo dato originario e di |  Ù conoscenza immediata che è la nostra vita interiore,  i col suo ricco contenuto di sensazioni, rappresenta  zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo corredo  di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr  scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut  zione» (4).  (1) Mumanism, p. 8.  (2) È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre Je  AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma- |   smo. - ae  p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto «Essay» di  questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i »  = (4) L, AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm  otze — «La Cultura Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295,   ai  dui  #  iii ar E° vee  Linee fondamentali    Non è qui il luogo di dimostrare che, se il Lotze  ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli perè  non è un umanista alla Schiller. La ragione nelle sue esplicazioni molteplici, è una  strumento ordinato ai fini della vita. È questa la  concezione strumentalistica della conoscenza esposta  dal Dewey e dallo Schiller (1) e accettata dal James.  Essa è un portato del metodo evolutivo e della con-  cezione biologica della conoscenza. Darwin con la  teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio-  “ne naturale» aveva insegnato «che nulla può sus-  Sistere o svolgersi che non abbia un determinato  Significato per l’intera concatenazione della vita ».  Scrittori posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sosten-  nero che lu vita è un continuo accomodamento alla  natura circostante, fisica, sociale, morale. E ora la  teoria della evoluzione è chiamata da molti a spie-  gare anche il sorgere e il progressivo. svilupparsi  ella vita cognoscitiva (2) e così i principt evolutivi  di cambiamento, di relalività e di movimento sono  ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo sviluppo del pen-  siero in generale, il suo carallere, il suo valore, allo 2  Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i  __Te c spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il   — Valore della stutlura, degli organi, di fulte le dif-  __ Ierenziazioni biologiche. Come in bio   non ha valore nè senso che per la sua ulili  dine all’adatlamento dell'individuo  condizioni fisiche circostanti, ha, cioè un valore e  un senso puramente Pratico, così in psicologia qua-  ai 5  ao    (1) L'opera principale del Dewey è: Studies 1  Theory bey John Dewey, with the Cooperation of embe  Fellows of the Departement of Philosophy. Decennial Pubbli-  1 one of the University of Chigago — Second Series vol. XI  e» Peli ha esposto le sue teorie anche in: The esperimentai  Pe: # in: eguig otel Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307;  din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N Sì  6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S.    Lol), Cir. Baowr, 7hioughi and rh; i *  AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1: Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi puntf    Il Pragmatismo 23    lunque differenziazione : sensazione, coscienza, pen-  siero ecc., trova tutta la sua raison d’étre e la sua  giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze, nella ef-  ficacia pratica. La questione di valore non si può  scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la  considerazione statica deve dar luogo alla conside-  vazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda il  pensiero, la logica formale alla logica funzionale (1).   La concezione biologica della conoscenza (2) ha  fatto un passo innanzi: non ha detto semplicemente :  applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo, (il  che, per sè, non inchiude la riduzione della psico-  logia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti  del pensiero teorelico hanno un carattere utilitario »  (biologico) «cioè servono come strumenti al conse-  guimento di fini essenzialmente biologici, perchè mi-  rano a dare soddisluzione alle esigenze dell’organi-  smo cioè ai bisogni della vita» (3).   Questa subordinazione della vita teoretica alla vita  pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna ma-  raviglia quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e  fatta oggetto di studi speciali (4).   Il Dewey, oltre alla funzione generale della cono-  scenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico:  il giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico.  larmente degli assiomi primi della conoscenza.   S'è veduto in che cosa consiste la concezione stru-  mentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in base   (1) Baldwin, Op. c. 1. c. passim.  (2) È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal  Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le  monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ost-  wald in «Cultura Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4.  . Lo Psicologismo logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4,  specialmente pp. 242-255.  Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, —  « Cultura Filosofica » a. III, n. 2.  (3) A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La « Cult. Fil.» a. IMI,  n. 3, p. 254. pà &  {4} Intendiamoci: hanno accettato la dottrina della subor-  ‘dinazione della vita teoretica ai fini pratici, in generale, no  ai fini biologici esclusivamente, È   24 Lince fondamentali    ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in ter-  mini di funzione; esso è una armonizzazione di varie  parti della esperienza; è uno sforzo « per determi.  nare gli elementi che realmente procedono di con-  serva e per respingere quelli che solo si collegano  apparentemente »: così esso si forma, per differen-  ziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e  di unità nelle esperienze (1).   To Schiller (2) afferma e dimostra, a modo suo, che  gli assiomi fondamenlali della conoscenza o primi  princip! (di identità, di contradizione, del terzo esclu-  so, di causa) sono dei semplici postulati. Un postu-  lato è «una supposizione, che senza dubbio l’espe-  rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma  che non è, nè può essere lenuta come provata, poi-  chè spesso di poi la si assume solo perchè la desi-  deriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» (3). I  postulali sono domande che noi facciamo alla espe-  rienza; processo di esperimento ordinato a porre il  mondo in armonia coi nostri desiderì; sono perciò  un processo di sviluppo non dissimile dalle altre at-  tività e funzioni umane, derivando dalle esigenze  dell’uomo, dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal  suo volere: sono quindi un prodolto della attività  umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che una  cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre  Db, ecc. perchè diversamente, come polremo conoscere  la sua condotta futura rispetto a noi? e, per conse-  g&uenza noi desideriamo che nulla venga a distrug-  gere quella idenlità: così nascono il principio di  identità e di contradizione, che sono due aspelli (po-  Silivo e negalivo) dello stesso principio, Noi esigia-  Mo delie distinzioni precise, delle disgiunzioni com-  plete, perchè con esse possiamo dominare (assimi- (1) Op. cit. II, passim, Vedi anche  N. c. 257 dove si trovano le parole da’  (2) Personal Idealism — « Arioms  902.    La Cultura Filosofica »  me citate,  Macmiizs o! as Postulales n — London,    (5) ScHILLER in 3   «The Hibbert Journal» }, e,   Il Pragmatismo    lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della esperienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco  il principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si  durre degli avvenimenti utili alla vila e di impedire  i nocivi; per agire abbiamo bisogno di un mondo  connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una causa €  una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto di-  venta; l'identità perfella non esiste. La enntradizio-  ne è pensata frequentemente contro la grescrizione -  della legge; l'esperienza non sodisfa le nostre esi- ae”  genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente,  e ve la poniamo noi.    A chi opponesse a questa concezione volontari-  slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di uni-  versalità e di necessità, lo Schiller risponde che:  «Ia universalità di un postulato deriva dalla sua  stessa natura, inquantochè, quando ci serviamo di  una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo  di farne uso ogni volta che ci piacerà; la neces-  sità di un postulato designa semplicemente il biso-  gno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle esì-  senze di una volizione intelligente e finalislica; la  incapacità di pensare il contrario di una proposizione  si riduce... ad un nostro rifiuto di compiere un certo  atto del pensiero ».   Il James accetta e fa sue le dottrine dello Schiller  e del Dewey (1) ce proclama: «Dalla logica scienti-  fica è stala cacciata la necessità divina, e al suo.  posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla  mostri melodi fondamentali di pensare sono inven- —  . zioni dci nostri antichissimi antenati e si sono. potuti —  conservare attraverso {tutte le esperienze successive. —  pe    (1) Il James considera gli « Studies in Logical Theory » com  | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism  Vorwort, XI, AI            ve,    26 Linee fondamentali    Essi formano ciò che si chiama «il senso comune »,  che, in filosofia significa l’uso di certe forme dell’in-  lelletto e di determinate categorie del pensiero. Noi  pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie  per mettere unità e ordine nella piena confusa, nella  Varietà sensibile delle esperienze, per combinare con  meno dispendio di forze possibili le nuove con le  vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per con-  neltere il iontano dell'esperienza col vicino, per adat-  lare, in una.parola, la esperienza ai nostri bisogni    dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz- \  zandola.    i «Se fra le impressioni dei sensi e i concetti pos-  è».    cai  È, t ATI    tas    siamo trovare rapporti univoci abbiamo già razio-  nalizzato le impressioni sensibili. I senso comune   > mette questa razionalità nelle esperienze (vollzieht   diese Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î   sà quali i più importanti sono i seguenti ; 4   = Cosa (in sè) —- Identità e Diversità — Specie — Spi- x   , rili -— Corpi — Un lempo — Uno spazio — Soggello b   e ullributo — Influsso causale — Immagini fanta- >   stiche — Realtà (1). 9    Queste categorie lrovale forse in momenti felici  ai nostri antenati si sono conservale e sono dive-  nule la base del nostro pensiero per la loro sufficien-  za a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe  possibile che calegorie diverse dalle enumerate po-  __lessero servirci, come quelle che usiamo ora, alla  elaborazione della nostra esperienza. Del resto il  Senso comune non è che una fase della evoluzione  dello spirito umano, c, nonostante che la filosofia  _bemipatelica abbia tentato di fissare per sempre le  Sue categorie, concatenandole ordinandole in si-   _ stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione  MICCCALVII È a più i  DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il car    a scienza della natura e la filos riti  hanno. rotto i limiti del pensiero ATao CECI            (1) Finfte Vorlesung. Con la scienza della natura cessa il Realismo in-  genuo. Le qualità secondarie perdono la loro realtà:  non restano che le primarie. La filosofia critica di-  strugge lutto: le categorie del senso comune non si-  gnificano più nienle di reale.   Esse non suno che astuti provvedimenti del pen-  siero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfug-  gire alla inquietudine in cui ci getta l'incessante cor-  rente delle sensazioni (1).   Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di  pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il natu-  ralistico, almeno, può vantarsi di aver servito ai fini  pratici quanto il senso comune; si pensi al Galilei,  ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur trop-  po, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 qua-  si); nessuno di essi è assolutamente più giusto e più  vero degli altri (2). e;   La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi  particolari.   Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue  presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo  & presupposizioni che ne costituiscono la vera es-  senza. Il James dice che un aspetto essenziale del  Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della ve-  rità (3). Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «pa-  rallela alla teoria della verità è quella della realtà »,  e perciò la trallazione della prima non può andar  disgiunta dalla esposizione critica della seconda (4).  A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottri-  ne essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0  applicazioni del metodo alle due forme oggettivo-  soggettiva c oggettiva dell’essere. E   Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci  lrattando della teoria della verità e della realtà nel  pragmatismo. \    (1) Ibid., p. 117.  (2) Ibid:; p. 118 Par  (3) Der Pragmatismus, p. ki: Das wdre das Wesen des    Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens cine. gene    tische Wahrhettstheorie »,  (4) Stud, tn Hum., p. 284,    "E    lla ate    RA A da LTL   LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTA. La Condotta. La dottrina della  verità. La dottrina della realtà. Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla  condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponen-  dlola sopra un piedestallo all'adorazione del mondo 0 |  la deprime perchè venga calpestata dalle persone i  Superiori? In allre parole: qual'è, secondo la filoso- |  fia. lo relazione della lcoria colla pratica della vita,  della cognizione coll’azione, della ragione teoretica  colla pralica? » (1). Così comincia lo Schiller il suo    primo saggio del volume: « Umanismo, — La base  È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina di  È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in-  bi tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo    della storia risulla chiaramente un fatto: che le pre-  lese delle teorie antagonistiche (leoreticiste e prali-  gra * cisle) sono così larghe e così insistenti da rendere   impossibile ogni compromesso fra loro; bisogna sce-  pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita.  i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì  un sogno: aul Caesar aut nullus » (2). Noi sappiamo    a giù quale dei due estremi abbia scelto il Pragmati-  sil smo. Invece di supporre che il pensiero sia altra cosa  o dall'azione, esso tralta il pensiero come una forma di  , È condotta, come una parle integrale della vita attiva.       (1) umanism, Invece di considerare i resultati pratici come poco  o affatto importanti, fa dei valore pratico un deter-  minvute della verilà teoretica. Im una parola: la  condotta, in luugo di svanire nella nullità di una il-  lusione, è ristabilita nel potere di controllo di ogni  dominio della vila.   Dal punto di vista pragmatislico della psicologia le-  leologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i problemi  logici quanio i metafisici si presentano in una luce  | nuova, poichè vien dala una importanza decisiva i  | concetti di proposito e di line.   SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro  l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie sul pensie-  ro e sulla realtà, la finalità del pensare attuale © i  rapporti delle nustre realtà attuali ai fini della vila;  è r'aflermazione delta basc chica della iogica e della  id metafisica. « La valutazione (cologica è una sfera  speciale della ricerca clica, € quindi il Pragmatismo,  To con la sua accentuazione della teleologia in ogni  (campo del pensiero, assegna al metodo lipico «della  elica una validità metalisica » (1), alfermando la su-   preva autorità della concezione etica di bene sopra |  da concezione logica di vero € la metafisica di reale.  II bene, il valore pratico © un determinante essen-  ziale così della verità come della realtà. La condotta  è la sostanza del tulto. La nostra apprensione del  reale, la nostra comprensione delia verità si effet  luano sempre in esseri che tendono al consegui-   mento di qualche bene: sono penetrate, informate  “dalla tendenza a un fine pratico, dalle esigenze della    condotta. pt    g 2. — Chi studia seriamente i processi conoscitivi  della intelligenza umana viene subilo a trovarsi d  fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni  La teoria della realtà e della verità logiche hanno l'audace pretesa, senza riserva e senza d  riguardi alle pretese delle altre, di esser vere. Eppure  gran parle di esse non sono che delle menzogne :  non sono realmente vere e la scienza deve respin-  gere la loro pretensione. Per far questo è necessaria  una scella di ciò che è realmente vero dalle verità  apparenti: una condanna del falso ed una ricogni-  zione del vero; il logico, in altre parole, deve valu-  tare le ioro prelensioni di verità (1). Con qual crì-  levio? Come dislinguere fra proposizioni che preten-  dono di esser veré c non sono, e le pretese buone  che pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il  carattere distintivo della verità? Così si pone il pro-  blema crileriologico; e una teoria della conoscenza  che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). ©  Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una  proposizione alla quale è stato in qualche modo al-  luccalo (attached) ialtributo «vero» e che, conse-  __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La ve-  Tila è la lolalità delle cose alla quale e stato appli-  «cato o è applicabile questo modo di lraltamento sia  | ©hesi eslenda o meno alla totalità della nostra espe-  _ Rienza» (3). È una qualità di certe rappresentazioni  «© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni  con l’oggello {4). È questa la definizione comune che  | accellano, come qualcosa di evidente, intellettualisti  * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti comincia  Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si-  —_ Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà »  con la Tuale devono convenire le nostre idee (5)  |, Secondo la concezione Opolare | n BRA  { ot ROIO Popolare l'accordo consiste  > In una copia dell'oggetto. Alcuni idealisti affer  ne ue le nostre idee sono vere quando corrispondono. a or  \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno al loro  alla /eoria della       *&gello, Altri, streltamente fedeli    (1) ScHmzLER: Stu  (2) Id., Jvta.  (3) Id., p. 14. Essay Y.     @ JAMES, Der Pra  i o gmatismus, p,  i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor],    dies in MHumantsm, D. 3. Essay I    Il Pragmutismo_ 31  i ì tre idee in  copia («copytheory»), dicono che le nostre in  nilo sono vere in quanto corrispondono ai pensieri  elerni dell'assoluto. Vediamo quanto valgano queste    concezioni. ;   Intanto la verità assoluta, scrive lo Schiller, non  esiste. La storia del pensiero umano è caratlteriz-  zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla mutabilità  delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-  somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per  verità, Ogni verità umana, com! è attualmente e  com'è stata storicamente, sembra fallibile e transi-  toria... le verità del passato sono riconosciute come  errori al presente; quelle del presente sono in via di  essere riconosciule erronee in un domani più o meno  lontano. Quindi la verità umana non può affacciare  pretese di assolutezza. Per isfuggire allo scetticismo  che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri-  valutazione e transvalutazione delle verità, che for-  ma la storia della conoscenza, si è ricorso ad una  verità assoluta trascendente indipendente dalle vicis-  situdini della verità umana; la quale verità assoluta  si concepisce come un modello da imitarsi, come una  misura per la valutazione delle verità nostre, come  una rocca inespugnabile in cui non può penetrare  cangiamento alcuno (1). i   Si slabilisce, cioè, una distinzione fra verità al  luale o umuna e verità assoluta, ideale, che è posta  al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le  nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri  . flesso imperfetto, ma valido, misleriosumente tran-  sustanziato per la immanenza in esso dell'Assolulo    e per la partecipazione della sua stessa sostanza. i  Mau l'espediente è fulile e dannoso. |   l'utile perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a  mutabile, non può discendere dagli eccelsi cieli della        logica a trasformare le nostri ‘i Ì  La, e verità e a togliere la  transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana,    (1) ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay VIII, p. 204.    32 La teoria della realtà e della verità    dal canto suo, non può SORIrare alle prerogative so-  Rraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta  non può identificarsi, in qualche modo con la umana,  e se la cognizione umana non può diventare assolu-  la, non può congiungersi con l'Assoluto, l'Assoluto  per nvi non esiste e non può quindi redimere dal  ilusso perpeluo le nostre verita. I che lale unione  luon esista, anzi che sia impossibile, si deduce dal  contrasto di caralleri fra la copia (verità umana) Cc  tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità  lrascendente).   La verità umana è fluida, non rigida; temporale e  lemporanea, mon elerna e perenne; arbitraria, non  necessaria; scella, non inevilabile ; nata, come Afro  dite, di passione e di slancio da un Inare schiumoso  di desideri, non puramente intellettuale e spassio-  nata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner-  tante ; assorbita nella tendenza di ottenere ciò che  ion c uncora compiulo; non beala nella. sua com-  iiulezza. Questi caratteri della verità umana risul-  tano dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve-  tilà. Essa è discorsiva perchè non puo abbracciare  lutta la realtà; © fallibile perchè è ‘essenzialmente  parziale € puo quindi Sempre venir corretla e com-  pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve-  rità assolula si estende al lutto e dipende dalla cogni-  zione del lutto. Li sua ussolulezza si fonda sulla sua  onMucomprensività (2). Se non V'è conoscenza conm-  pielamente adeguata all'intero sistema della reallà    _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la no-    stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap-  punio perchè parziale, la verità umana poggia su  dati parziali, è generala dalle parzialità dell'alten-  stone selelliva ed'e diretla a fini parziali. Un abisso  Separa le due specie di verità: fra loro non vi può  essere ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi   verità attuale sia in « accordo con la    b RP assurdo che Ju   he (I) SCHILLER, 07, cl, 7.  E (I Ide TER OD. ci, p, 207,  via {9) Id., 4bid.  E (4) SCHILLER, 1a., p. 2,   i   Le   Lia       - di   asta ideale, eterna, Irascendente » come pretendono gli as-  solutisti. be  La concezione della verità assolula è anche perni  ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la differenza fra  ia verità assoluta e la relativa o non la percepisce.  Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m-  . perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo  | Scelticismo sarà inevitabile. CIÒ è tanto vero che,  ‘anche attualmente, la linea di divisione. tra questa  specie di assolutisti e gli scettici è molto indecisa:  insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà  come assolute anche le nostre verità. E poichè l’as-  soluto non soffre aumento nè alterazione, egli non  _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi, rigetterà  come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso al-  cuno nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as-  surdo Ja rovina della teoria della conoscenza. Nel  nostro conoscere c'è aumento, c'è alterazione: e una  teoria della conoscenza che non li può spiegare, anzi  li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera-  zione, e non ci salverà dallo scellicismo, reso anci  ui tabil ; SE ’ «anche  du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di  ‘0 FUNe I nostro reale progresso cognosellivo:   ud est verilas? È forse un «accor  realtà ; La Accordo »  Questa ipotesi reatitiae csfetto, del fallo. sterno?   A LI ‘a — dice ancora lo Schiller   ci conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5  CIOS alermare degli incredibili paradossi,    con la    cha: 1 SE  Rc e die   n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI  » che «eg hipothesi » 16/x trascende SD   i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS È   e]  | Pragmatismo - 3 x = SONA È    [e    È    |<    PRE e  %% È Da teoria della verità e della realtà  c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che la  «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso  fuorì della noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare  nella nostra conostenza, è in qualche modo perfelta  e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non pos-  siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen-  _ siero, dall'aîtro Voggello esterno.  Nè si può dire che la verilà consista nella « cocren-  za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina-  “zione assolula e perciò la verità c la realtà possono  «essere costruite im diverse maniere, cioè in diversi  Sistemi, con diverse «cocrenze » sistematiche: biso-  cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2). RR  . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero  e quale è falso? »  Im che consisle la verità del «sistema coerente? »  Dal punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori »,  on è possibile dare una risposta reale alla questio-  ne; non si può indicare nessun metodo praticabile di  ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se  non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con-  | seguenze, di saggiare la validità delle rappresenta-  zioni (c dei sislemi di rappresentazioni); se non rica-  | Noscendo uno stadio intermedio, nel facimento della  s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e  tn ideale completo di verità assoluta (3). Il Pragma-    smo è appunto il tentativo dì tracciare il modo del    > (I) Id, p. 181, Essay, VII.    (2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a   dottrina _pragmatistica della verità e della A  ita «ex professo « nella quarta lezione (del vol. cit.): Etn-  lett uni Vielheit « Unita e Pluralità. — © pluralismo è la  gucazione Metafisica della realtà come di una molteplicità di  ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico (Ato-  TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico (Dua»  smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulte-  ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London,    Longman Green 1909, tradotto in f  [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e pub-  mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam-    (3) SCHILLER, Stud. in Hum. facimento aztuale della verità, le maniere attuali di  distinzione tra vero e falso per giungere alle sue ge-  neralizzazioni circa il metodo di determinare la na-  tura della verità (1): mette in luce, in altre parole,  lo sladio intermedio del divenire della verità, il modo  della convalidazione delle pretensioni di verità. Or-  bene, come s'è veduto, non si può spiegare il movi-  mento del pensiero verso qualche cosa senza fare  appello a motivi psicologici: desiderio, sentimento,  interesse, attenzione ecc. ; non è possibile descrivere  cosa alcuna in puri termini logici e senza costante  ricorso alla psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi  della definizione della verità sono anzitutto psicolo-  gici»; ogni verità attuale è, in primo luogo «un pro-  cesso psichico, c, come tale, condizionato dalla va-  rietà degli influssi psicologici sentimentali e voliti-  vi» (3). i   E così anche i sistemi di verità. L'esistenza di un  numero di giudizì cocrenti connessi in sistema non  basta per avere da noi la ricognizione della verità.  li «sistema» per esser vero, deve anche aver valore  ai nostri occhi; la tendenza al «sistema» è parte  della tendenza più vasta all'«armonia attuale », 0  per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il si-  stema non è semplicemente un tutto di consistenza  logico-formale, ma anche il prodotto di influssi ema-  <ionali. in vista di soddisfazioni emozionali. Perciò    nessun sistema è giudicato intellettualmente « vero »  se non è migliore — in rapporto alle nostre esigenze  -— di un altro, se non abbraccia e non soddisfa qual-  cosa di più che gli aspetti intellettuali astratti delle.    esperienza (4).    (1) 1d., ibid., p. 4-5. « Pragmatism essays to trace out the  actual «making of truth», the aciual ways In which discri-  _minations between the true and the false are effected, and  derives from these its generalisations about the metliod of  determining the nature of truth ». ?   (2) Id., Humanism, Essay III, p. di.   NI (3) Id., ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Spe-  cialmente p. 152 Sgg.  (4) ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. 42-50.       ‘36 La teoria della realtà e della verità    Vi sono dei sistemi che, nonostante la loro coeren-    za, non hanno valore di verità, perchè non TiMUON Π no e non risolvono un senso di disaccordo finale nel-    l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici (1); e n  sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi-    cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-|    slema (2). Non si dimentichi mai — ci avverte conti-    nuamente lo Schiller — che la nostra conoscenza èi  maleriata di inleresse, di desideri e di sentimento;    che la verità e il sistema della verità è il prodotto dei  mostri sforzi lelcologici (3). Da ciò risulla che il pro-  hlema della verità è essenzialmente psicologico, €  deve essere formulato così: « Qual’è la natura psi-  chica della ricognizione della verità? A qual parte  della nostra esperienza è applicata questa ricognizio-  ne?» (4) N Pragmatismo risponde : «La verità è una  ferma di valore; la natura psichica della sua rico-  gnizione è la valutazione » (3). « La valutazione della  nostra esperienza è un processo naturale ininterrotto  in una coscienza normale. Sponlaneamente, neces-  sariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat.  live », «belle » e « prulte », «vere» e «false». È l’osi-  stenza di quesl’abito che fa sorgere le scienze nor-  mutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le diverse  valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valuta-  zioni del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le  valutazioni del «buono» e del « cattivo »). Anche la    (1) 1d., tDid. «AI pessimismo in filosofia » lo Schiller consa-  cra il IX Essay del sno /umanism. Anche il « pessimismo, come  ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di fronte alla  grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi di  valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo  dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se  no, il suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel pri-  Rpanraso abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo  LA .    (2) Mumanism, D. 50,    (5) Specialmente là dove tratta del ri a e  Re ti el rapporto fra logica    (4) Humanism, Essay III, p. 54.    (5) «Truth is a form of a Value »..  Would be no «tru    ren    o na    er at    - * Without valuation there Ri  the at all» tv p. 55.    (4 4umunism, Essay II, p. 55. >    7 Il Pragmatismo . 37    logica è una scienza normativa che ha per fine di re-  golare e di ridurre a sistema le nostre valutazioni di  «vero » e di «falso » (1).   Come in ogni altra classe di valulazioni anche nella  valutazione della verità (2) l'inleresse umano è vi-  tale, il che vuol dire: che una verità ha conseguenze  (ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha  una portata sopra qualche interesse umano, e che le  conseguenze debbono valere, debbono essere conse-  guenze per qualcheduno, in vista di un fine determi-  nato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ».  berciò, a tulle Ie asserzioni che prelendono di esser  vere noi dobbiamo intimare: « Mostrateci che siet>  buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo pet  tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità;  noi dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal  frutto conosceremo l’ albero n. Una asserzione che  soddisfa un interesse umano pratico, che corrispon-  de al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che  è praticamente buono; è falso ciò che è praticamente  cattivo (3). 1 predicati «vero» c «falso» non sono  in fondo che indicazioni di valore logico, comparabili  come valori, coì valori «elici» ed «estetici» (4).   Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo,  invece di considerare la verità intellettualisticamen-  le, cioè, come un rapporto puramente statico fra rap-  presentazione e oggetto, si pone, di fronte ad ogni  pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una  rappresentazione 0 un giudizio affaccino la preten-  sione di verita, noi chiediamo: Quale diffevenza con-  creta produce nella vita concreta di un uomo quel  tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es-  sere vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso  dell'esperienza se quel tal giudizio fosse falso (0.    3    (1) Id., bid. La parentesi è mia    |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità », perchè que-  | Sta fla verita) non è che il processo della valutazione. Ingl,  | «truth-valuation ». ‘    | (8) Stud. in Hum, p. 5-8:   38 La teoria della realtà e della verità    vero)? Qual'è il valore della verità se noi la cambia:  mo în moncla di esperienza? » (1) ue   Per il Pragmatismo porre la questione è scioglier-   la: «Sono vere quelle rappresentazioni che possiamo  far nostre, cioè che possiamo far valere, lrasforma- —   re in forza e «verificare», sono false quelle che non   sono suscettibili di lule trasformazione in valore pra-   tico » (2). La verità di una rappresentazione non è   una proprietà immobile che le è inerente: la sua ve-   rità è un accadimento: una rappresentazione non   è vera, ma divien vera; è un divenire, è il progresso   della sua auloverificazione (der Vorgang ihrer Selb-   È stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro  che il processo del suo farsi valere (3). E si fa va-  È: lere, e si verifica con le sue conseguenze pratiche,  con la sua utilità: anzi il farsi valere e il verificarsi  non sono in fondo che queste conseguenze (4).  Dalla definizione della verità come vulore logico (5) —  segue che lutte le verità debbono essere verificate.  Una rappresentazione che non vuole o non può sol:  tomettersi alla verificazione è già condannala. Essa |  può avere lull'al più una verità potenziale, senza si-  «| _°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente  “fl da condizioni non uvverate. Per diventare realmente          da  3 (1) Der Pragmatismus, VI Vor, p. 125. <   è» (2) « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny   die wir gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hòn-  pe; nen, [alsche Vurslellungen sind solche bei denen dies alles  ("g nicht moglich ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che  n sottolinea. :  % (3) Id., 126. E lo SCHILIER: «Che cosa erano le verità prima   p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se «vero» significa    «valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera  quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel  LA processo della verità: verità da venir fatta, verità diveniente,  i verità fatta. Il processo è unico e identico per tutte le verità a.  _ Stud. in Huni. p. 195-199. i    (4) JAMES. fui. SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono que:  Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti del principio del   EIKCE. \   (5) È la prima definizione del Pragmatismo, secondo lo.  Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud  in Hum.) p. 5. Me:            ati t 44  vera deve venir dichiarata e provata, e non si dichia-  ra nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30.  ne fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue  applicazioni (1). Le verità astralte, come tali, non  sono verità. Perfino le verità aritmetiche derivano il  loro esser vere dall'applicazione all'esperienza.   Osservale per esempio ll’ enunciazione astratta:  22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima di  aderirvi, conoscere a che cosa si applicano 2 e 4,  poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera  applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e  due dispiaceri, a due + due goccie d'acqua, ecc.  Così si dica delle verità tutte in generale (2).   Vi sono delle verità fuori d'uso, e vi sono delle  verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita con-  creta. Finchè non operano nel mondo della esperien-  za immediala sono ambigue (3); solo la potenza e le  conseguenze del loro operare le tolgono all’ambi-  guilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M  le, vere o false. Le verità sono regole per l'azione;  ma una regola che rimane nei campi dell’astratto  non significa nulla, non regola nulla: il significato  d'una legge sla nelle sue applicazioni (4) ec ogni st  gnificato dipende dal proposito (5), perchè qualunque  applicazione della verità all'esperienza è in istretta  connessione con qualche fine il quale determina ta  natura dell'intero esperimento. Per ragione della di-  pendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi-    (1) E la seconda definizione del Pragmatismo (ivi p. 6).    (2) Stud. in Hum. p. 9. ; Ria  ioè: sono in potenza alla verità € alla falsità. 0)  mind di questo AT delle idee astratte lo SCHILLER nana  consacrato un saggio intero: il V (Stud. in Hum): «The  ambiguity of Trutn» p. 141-162. >  (4) Secondo ALFRED SinGWicK_ — seguito in questo dallo |  ScuiLcer — le parole sot.olincate contengono l'essenza del med  todo |pragmatistico, e ne sono la terza definizione (Stud. in  Hum, p. 9). . ,  (5) Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle due PD  denti. (Id., ibid.).    ib pi A    40 La teoria della verità e della realtà    cato è selettivo e teleologico: il giudizio logico è «va-  lutazione » (1). °   Resta da rispondere alla seconda questione: « A  qual parte della nostra esperienza è. attaccata la ri-  cognizione della verità? » i Re:  _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo noi 1l  valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi nella  valulazione della nostra esperienza? È «vero» ciò  che è praticamente buono, sta bene; ma che cosa  chiamiamo noi «praticamente buono?» (2).    «La risposta a quesla questione — dice lo Schiller  — ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci  spiega in che senso il Pragmatismo professi di avere  un criterio di verità » (3). E la risposta non è diflì-  cile. Il nostro pensiero tende all’armonia e alla quic-  te del pensiero, a ridurre a sistema, con un lavoro  di selezione guidala dall’interesse, il complesso della  esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli  elementi della vilu: quindi è vero, (cioè buono, il  che è, per lo Schiller lo stesso) «ciò che armonizza  con le leggi proprie del pensiero e con tulta la nostra  esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di cen-  tro vitale per ulteriori esperienze. È vero ciò che ci  fa progredire. Il possesso della verità non è fine a sè  stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche ne-  cessità della vita (5). La verità non è altro che la  via, per la quale noi siamo condotti da un fram-  mento dell'esperienza ad allri frammenti che mette  conto di far nostri (6). La verità è una guida all’a-  zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una selva  în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa  che assomiglia ad una strada, immagino in fondo ad  Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi salvo. La    (1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154, passim,  (2) Id., ibid.   (3) Id., ibid.   (4) IZumunism. Essay JII, p. 57.   (5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127.   (6) JAMES, Op. c. p. 128.    2°    Il Pragmatismo    |  I rappresentazione della casa è vera perchè è verifi-  \i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi prendere  | la strada che vi conduce (1). Questo semplice e per-  | severante carattere di « guida» che possiede e mo-  | stra una rappresentazione è il vero prototipo del pro-  cesso della verità. È vera quando, finche-e in quante  |       «conduce n: e si intende vera di verità reale; poten-  zialmente è vera la rappresentazione alla a condur- _  ve, falsa la inutlu.   ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni  soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da  ressi psicologici e mirano ad una soddisfazione s0g- —  gettiva, non può formare che un complesso di verità  soggellive, individuali: la mia esperienza è soltanto  n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto  valulazioni mie: come si esce dal soggettivo? non x  | siamo in pieno «solipsismo? » (2) No — risponde lo eo  Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista), facendo na  dell'individuale il suo punto di partenza, intende fili  fermarvisi.   Egli sa che 1 giudizi individuali non sono che una  piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi.  Sa che l'uomo è un animale sociale e che la verità è  in gran parle un prodotto sociale. La verità non ‘si  salva finche rimane pura valutazione individuale: Ra.  bisogno di una ricognizione sociale, deve trasformar-  si in proprietà comune, E diventa sociale appunto  per lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo        3 (1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con:  duciveness a «proprietà di condurre», come di un criterio di  Verità, Le «conseguenze pratiche» non sarebbero in fondo, che  questo « Hinfùhren» che permette poi uni specie di «previ-.  sione » di cio che è utile, Cf, a questo proposito: «La previ-  stone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento A. I, Fa-  ‘scicolo II, 1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: « Per  conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari   ‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre-  «vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non   | solo della verità e della falsità ecc...» Id., ivid. -&  (2) Del «solipsismo» lo SCMILLER si occupa nel X Essay   (Stud. in Hum.) « Absolutism and Solipsism» 258-265. Per   | questione se «l'empirismo radicale» sia «solipsistico» ctr   ournal of Philosophy, vol. II, N. V e IX.    li    42 La leoria della verità e della realtà    Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie valutazioni  soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai  fini principali delia vila, così lo stesso criterio (del-  lVuso) fa una selezione lra le valutazioni individuali  e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni scelle,  la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale.  Ciò che non è socialmente ulile, elliciente, operativo,  presto o lairdi viene eliminato. L'utilità sociale è così  l'ultimo delerminante della verità (1). Protagora ha  detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1 commen-  latori sì domandano: uomo si deve intendere in sen-  so individualislico 0 generico? Tutte e due le inter-  pretazioni sono esatte — dice lo Schiller. L'umani  smo di Proiagora era abbastanza vasto per esten-  dersi all'uomo individuale e agli uomini (2), Egli ri-  conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per-  cezioni individuali (3): fra i giudizi di valore indivi-  duali si stabilisce una selezione dei migliori, che so-  pravvivono agli altri e si consolidano in grandi siste-  mi di verilà oggellive accettabili da tutti (4). Ed ora  SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is  made), «come viene prodotla dalle nostre operazioni  sui dali dell'esperienza umana. La conoscenza. cr'e-  sce in estensione e in fidalezza (trustwartiness) per la  fecondità e la buona riuscita del suo funzionamento,  per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-  riale da parte dei complessi organici preesistenti di  cognizioni. I sistemi (come organismi viventi) sono  Im un conlinuo processo di « auloverificazione » di    (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.    (2) «His Humanism Was Wide enough to em  and men», Stud, in Hum., Ess. JI DI 34. RIS a    (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire a Protagora che,  se le percezioni di uno non possono essere più vere di cuelle  MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di  mo ignorante o rdinario sta È  saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo ASI LUoO    (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi accettiamo  come vera la migliore, quella che possiede «greater conduci-  Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C  astronomia copernicana, così semplice   troppo complessi. (Id., ibid.)       Il Pragmatismo 49    prova della propria validità dalle conseguenze e dal  potere di assimilare, predire, controllare fatti nuo-  vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel pro-  cesso biologico, così anche qui assimilare significa  transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle  nuove, per la compenelrazione delle nuove, assu-  mono un aspetto dillerente e cambiano in realtà, in-  Irinsecamente poichè diventano più operalive ed effi-  cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga-  nizzazione; ci conducono meglio ai nostri fini, acqui-  slano maggior capaciià di armonizzare le esperienze  future in reiazione a noi, al nostro interesse e ai  nostri desideri (2). In realtà siamo noi che facciamo  la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere  falli nuovi, muove esperienze: il fattore della sele-    ‘zione, è il nostro interesse, è la loro utilità rispetto    a noi. È questo processo di fare la verità è continuo,  progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un  intento conoscitivo conduce alla formulazione di un  altro; una verità nuova diventa presupposizione di    ulteriori imdagini (3). I così all’indefinito: la conqui-    sla della verita assoluta, cioè della verità adeguata  ad ognì fine umano non è che un ideale, com'è pura:  mente ideale la verità stabile, immutabile, eterna (4).  Ogni verilà può esser mulala da una nuova espe-  rienza. La Verità non esiste: esistono le verità. « La  Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi-    stono nel mondo umano soltanto le verità, altrettante  quanti sono gli: uomini, cioè le rappresentazioni e le  affermazioni praliche di cose che non sono, ma di-    vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su  di esse, lanto più eflicace, quanto più, con l’azione    esso passa dall'incosciente al consapevole ed al ri-    liesso (5). 4  (1) Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195.  (2) Id,, ibid. 23,   (3) «A new truth, when established, naturally becomes ti e   presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E,  4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN  a GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita   le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646, S6g.). de          4h La leorìa della verità e della realtà    Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi-  nizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu  realtà? » «La parola accordo — dice James (1) —  comprende ogni processo mediante il quale da una  tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve-  himento fuluro corrispondente ai nostri interessi v  bisogni, cioè utile alla nostra progressiva evoluzio-  ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di ricono-  scere la verilà non è che una parte del dovere ge-  herale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto.  Il tornaconto, contenuto nelle idec, è l’unica ragione  che ci obbliga di allenerci ad esse» 3). k lo Schiller:  «La risposla alla questione » Che cos'è la verità?  è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della  verilà-valutazione, là verilà può definirsi: «la fun-  zione finale (ullimate) della nostra allività infellel-  liva; se si ha riguardo agli oggetti valutati come  Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì rende  Utili primariamente ad ogni fine umano, ultimamen-  le allu perfetta armonia della nostra vita intera che  cosliluisce Ja nostra uspirazione finale » (4).    $ 3. — La dottrina della realtà è affine a quella della  verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa.  ll principio umanistico di Prolagora è universale:  umano genera e informa lutto ciò che è; anzi...j ma  uscolliamo i due leaders del Pragmatismo.    Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a-    niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso  ln quella cognizione di noi stessi dalla quale dipende.  li-cognizione del mondo. ‘ale passo in avanti non è  Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della fi-  losofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolo-  logica la priorità sulla questione ontologica (5).    (1)-1d., {bid., Vorles, VI, p. 135-136.  (2) Id., ibid. e passim in tutta la medesima lezione.  ° (5) «Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten, ist  ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu halten»    (4) SCHILLER, Humanism    » III, p. 60-61.  (5) Id., Ibid., p. 85. :    <>    at loin    | +    cat       ”    Il Pragmatismo : 45    Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini ontolo-  gici, era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino  a tanto che non si melle in chiaro come la realtà  possa venire in noi, è impossibile qualsiasi risposta  alla questione; non esisfe, per noi, nessun reale se  non in quanto è conosebile; una realtà inaccessibiie  alla nostra cognizione è inutile e quindi si distrugge.  Perciò la vera formazione del problema metafisico è  questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1).  La dollrina della reallà è condizionala dalla dottrina  della conoscenza; la ontologia suppone come fonda-  mento la epistemologia: ecco quella che Kant chia-  mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».   Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora  il Pragmalismo rispello alla formula epistemologica.  lisso dice: ta nostra conoscenza non è una operazio-  ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i nostri  interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a  noi delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto  quegli aspelli che sono termine di un nostro deside-  rio attuale, di una tendenza a conoscere: tutti gli  altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).    (1) Id., Ibhid., p. 9    (2) Il BERGSON +- il rappresentante, in Francia, della Philo-  sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi apprendiamo  le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere con-  siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti sol-  tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, « Noi  cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o  queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0  di attitudine dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Méta-  pliysigue). Cfr. anche La cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO  RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione, trad. del PAPINI, p. 43.   Il Bergson è pragmatista? Risponda lui stesso: « Bisogna  distinguere due maniere profondamente differenti di conoscere  una cosa... la prima si ferma al relativo, l'altra ragglunge  l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per simboli, per  concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og:  getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia  intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto |  per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi  d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima nasce dalle esi-  genze della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil  seconda nasce dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal  concetti-ctichette ed è quella per cui è possibile la vera meta-    46 La teoria della verità e della realtà    Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non  ciò che è oggetto di una nostra tendenza, di un no-  stro desiderio e volere; e non si desidera, non sl  vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la questio.  «me di fatto (ontologica), nè la questione di conoscen-  3a (cpislemologica) sono possibili a considerarsi in-  — (ipendentemente e senza coinvolgere come loro base  la questione di valore (psicologico-etica) (1). Le nostre  | valutazioni pervadono la nostra esperienza tulla  «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni cogni-  zione. Perciò la verità della formulazione epistema-  logica del problema della realtà è incompleta finchè  «non realizza, tutto quello che è implicito nella cogni-  zione nostra: cioè il desiderio, la tendenza, l’inte-  SEEGS 3  La completa il Pragmatismo così: Che cos'è la  realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» si-  gnifica: reale per qual proposito? per qual fine? per  qual uso? (2). È la «volontà di conoscere » che pons  la questione e quindi non potrà venir risolta che in  termini della volontà di conoscere (3). Ecco la spie-  | gazione. della diversità di dottrine che intorno al  «reale» ci hanno dato le scienze e le filosofie. La di-  x rezione della sforzo determinata dalla «volontà di  * conoscere» entra come fattore necessario e isradica-    IN   Di  ar  v    fisica, cioè la cognizione dell'assoluto » (Ibid.} passim). E an-  cora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre directement, sans  faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir er non  plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice, p. 323).   JI Bergson riedifica sulla intuizione il tempio dell'Assoluto  che prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità dell'ana-  list, della cognizione per idee astratte. Poco importa che non  ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius.  PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intui-  zionismo contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT ecc...)  La distinzione delle due differenti maniere di conoscere; in-  tuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente  inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora,    (1) Z/umanism, I, p. 9-10.  (2) Id., Ibil.    (3)... the answer... comes in terms of the will to know which  puts the question» Ibid., p. il.       Il Pragmatismo urti    . bile (ineradicable) in ogni rivelazione della realtà a  nol.   i La risposta alle nostre questioni dipende dal loro  carattere, ma questo dipende in tutto da noi. Siamo  noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del tutto  nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della  nalura o l'astenercene; dipende da noi il formulare  le nostre domande alla natura. Se la domanda è  falla bene la nalura risponderà; se è fatta male non   risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova (1).   ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or-   dine. Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at-   « lribuiscano alla realtà le scienze.   . Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è trattata   nelle scienze, la realtà presenta i seguenti caratteri:    a) non è rigida, ma plastica e capace di sviluppo.    h) non è reale assolutamente e incondizionatamen-  le, ma relaliva alla nostra esperienza e dipendente  dallo stato della nostra cognizione.    7.6) La concezione che noi abbiamo della realtà cam-  bia e perciò:    d) riduce spesso all'irreale ciò che è slato accettalo  lungo fempo come reale.       e) Una «realtà iniziale» (come una «verità ini-  ziale») è reclamala da ogni cosa sperimentabile: è  necessario, CENCI un principio selellivo che ci serva  come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale »  e «realtà reale » (2).    (1) «M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa ha due ma-  Michi: bada di prendere quello giusto ». Emerson, American  È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La natu-   ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... « Natura  Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti bene   Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in corri.   spondenza con altre loro asserzioni.   (2) SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo  tto Ja differenza fra realtà «iniziale» (primaria) e realtà  reale». :  VELA         i  48 La teoria della verità e della realtà    Contro la dottrina scientifica il Razionalismo af-  ferma: «La reallà è immutabile, è finita e completa    . da tutta VPeternità (1). Essa è una perehè ha un fine    uno, forma un sistema, narra un'unica storia (2).  La nostra esperienza della realtà è mulevole come  la nostra cognizione della verità, non perchè verità  e realtà divengano, mutino, ma perchè la esperienza  dell'una e la cognizione dell'altra sono processi psi-  chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e Realtà  sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, cono-  scendo, non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida,  uon migliorabile; è e sarà quello che è stata; non  diviene 4).   Il Pragmatismo si pone dal punlo di vista delle  scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e dan-  nosu come la verilà assoluta per le medesime ra-  gioni. Lu concezione della realtà assoluta non entra  nelia nostra cognizione attuale della realtà (5); non  e conoscibile, il che è quanto dire: non esiste. Non  esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre  esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che    le realtà ora conosciute e accetlate siano un milione :    tsse non esauriscono tulle ie possibilità dell'univer-  SO: VI possono esistere accanto ad esse allri dieci  milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come  lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in  mostro potere: molle realtà in potenza, cioè irreali,  al presente, possono venir realizzale dai nostri sfor-  zi E viceversa: molle delle realtà conosciute pos-  sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir-  leali e rigellale (6).   Non v'è nulla di assolutamente posto. La realtà  come la verità, diviene senza posa (7). La natura    (1) James, #0id., VI, Vorl. p. 143   (2) Id., ibid., IV Vorl, p. ot.   (3) Id., ibid., D.. 143.   (4) Id., tbid., passim.   (5) SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D. 219,  (6) Stud. in Mum., p. 218.   (7) 1d., ibid.    È lui che sottolinea.    iii    - — —_ _—_ Sali    I       Il Pragmatismo 49    delle cose non è delerminata ma determinabile come  quella dei nostri simili. Prima del nostro esperimento  su di essa è indeterminata non solo per la nostra  ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto di  vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si de-  termina sotto i nostri esperimenti come il carattere  umano. La nozione del «fatto in sè », come quella  della «cosa in sè, è un anacronismo filosofico (1).   Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa facciamo  i nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di  pendente da noi?   Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa  di postulato, una base iniziale di fallo, come condi-  zione dei nostri esperimenti (2), ma quesla prima  base è affatto indelerminala e plaslica: può diven-  lare tullo quello che nvi vogliamo che essa diven-  li {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo sce-  gliere e realizzare la migliore (4).   Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia  realtà iniziale prima, della base di fatto dei nostri  esperimenti? »   E come può ammetterla il Pragmatismo se essa  sfugge alla nostra esperienza, se non è conoscibile?»   Schiller risponde: «La difficoltà di concepire nel  Pragmalismo l’accellazione del falto come base non  dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=*  matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo  lulto il suo significato.   Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever luce  la distinzione importante tra realtà che è «fatta»  soltanto per noi, soggettivamente, cioè «scoperta »,  e ciò che noi supponiamo che venga «fatto » real    (1) Humanism, p. 12 in nota  (2) Stud. in Mum. vp. 428-XIX. x    -    (8) EMERSON scrive: «Com'era plastico e fluido nella mano    di Dio, così Il mondo è in mano nostra». Queste parole sem:  brano un commento alle parole dello Schiller: « Noi possiamo  quanto può Dio nello schema intellettualistico di Leibniz».    «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare nella    formazione del inondo », ibid.  (4) Stud. in Hum. mente, oggettivamente, in sè (I). Che noi facciamo  tale dislinzione è chiaro, ma perchè la facciamo? Se  tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della  rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello  slesso processo cognoscitivo, sotto l'impulso degli  sforzi soggellivi, come può sorgere o mantenersi, da  ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia-   «ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci   ; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer-   i mare «the making of reality » in senso oggettivo. Sia   È può benissimo concepire quel facimento come pura-  | mente soggettivo, solo in rapporto alla nostra co-  quizione della realtà e punto in relazione alla sua  esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della me-  lafisica, ma della epistemologia: si può essere prag-  mualisli in epistemologia e realisti in metafisica (2).  Sia che si ammetta, sia che si neghi che la realtà è  fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero  che sono necessari i nostri sforzi per iscoprire la   _‘—‘vcealtà, che i nostri desideri, i nostri interessi deb-   è bono anticipare le nostre «scoperte» e farci la via  id esse e che, perciò, la nostra concezione del mondo  .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva di  Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi-   stenza (3). }   .__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo i no-  Sti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel  Jlusso omogenco degli eventi (4).   Per noi la realtà iniziale è pura potenzialità, come  la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di tullo  | ciò che è deslinalo a diventar reale (5). È un concetto   # Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia   ; U.C0E e; è la possibilità indeterminata di   __ lutto cio che sarà, di lutto ciò che noi facciamo, co-   nuscendo: ogni realtà attualmente riconosciuta si  () Id., ivu., p. 428, XIX Gi    (2) Id., ibd., p. 42) «in nota»,  (3) Id., 40id., p. 499-XIX «in nota»,  i) Jd, ibid, IN p. 299.  (9) Jd., ibid., XIX p. 222.    (6) Ia., ibia., p, 12 in nota, È    Il Pragmatismo 51    deve concepire come evoluta dal processo e nel pro:  cesso conoscitivo nel quale ora la osserviamo e come  destinata ad avere una storia (1). Per la teoria prag-  inalica della conoscenza i principî iniziali sono lel-  teralmente dei semplici termini @ quo, scelti varia-  mente, arbilrariamente, casualmente, nella speran-  sa e nel tentativo di avanzare verso qualche cosa di  meglio (2).   lullo ciò che è, è reale. Bisogna distinguere fra  vealtà «primaria» (primary reality) e reallà reale  (real realtty). La realtà primaria è semplice domanda  di divenir reale: è la realtà non veryicata © com-  pele anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè  criterio di distinzione a priori fra apparenza e realtà.  La distinzione sorge soltanto quando la mente, mos-  sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa  passa a controllarla (3). La reallà «primaria » che ri-  sponde alle noslre domande interessate diventa real-  la «reale»; quella che non risponde ad esse si ma-  nifesta come apparenza. La realtà «reale» non è  che la realtà primaria passata a traverso il fuoco del  criticismo esperimentale e promossa a un grado su-  periore (i). I poiche gli interessi crescono. e variano  continuamente e i propositi sono continuamente dif-  terenziati, anche la realtà « reale » cresce in comples-  stla, viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano  in sistemi, i sistemi vengono coordinati e- subordi-  nati fva loro (5).   E così all'inciciimto. Il processo della nostra co-,  suizione della realtà (= della nostra creazione delle  reullà) si estende dal caos assoluto fino alla saddi-  sfuzione assoluta (6).    (1} 14. td.  (2) ju., tbid., p. 439.    (3) Id., IX, p. 233-234, «Watever is, is «real» ls what we  begin with,..    (4) Id., p. 244... «real» reality which has survived the fire    of criticism and been promoted to superior rank. - Le conse- %  | guenze provano la realtà come provano e fanno la verità,    (6) Id., ebid., VIII 221.       SCART ROTA    À ge    52 La teoria della verità e della realtà    La realtà è plastica. Forse (1) la lasticilà del reale  dipende (anche) da una vena di indeterminazione, di  libertà che corre per l'universo: questo giustifica il  nostro trattamento delle idee come di forze reali e  Passerzione cho il nostro fare la verilà è necessarla-  menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo facciamo la  verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva.  della nostra esperienza «reallà» e «verità» cresco-  no pari pussu (3). Realtà significa « realtà per noi»  precisamente come verità è «verità per nol». Noi  assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto »  ciò che giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è  il bene, l'ulile; l'elica, dunque, è la base della me-  lafisica e della logica.   È il James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità  debbono dar ragione, debbono controllare. Da que-  slo punto di visla la corrente delle nostre sensazio-  ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci  sono imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab-  biamo nessun controllo sulla loro natura, sul loro  ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono nè  vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù  che noi diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le  teorie intorno alla loro natura, al loro essere, ai loro  rapporti possono essere veri o falsi.   Il secondo elemento della realtà è costituito dai  rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella    4 (1) Siamo in piena metafisica e come! Non solo la livertà  è nel reale ina anche la cognizione. « L'usare e l'essere usato  implicano «conoscere a cd cssere conosciuto («to use and to  be used includes to know and to be know»). La nozione della  « materia » morta... non trova più favore nella scienza mo:  derna » — «Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:  l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilo-  zoisino » 0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpre-  tazione del basso (inferiore) in termini del superiore, « Sebbene  non sia che un metodo, tuttavia esso inclina a questa 0 &  quella metafisica secondo che meglio corrisponde a’ suoi ca-  noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p. 422-4na.   (2) Id., p. 427.   (3) Id., p. 426.   (4) Id., 20i4,    (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr arde    è RS  | eee VI   Il Pragmatismo    nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e ac-  cidentali; p. es. quelli di spazio e di tempo, altri sono  sempre uguali a sè slessi ed essenziali perchè si fon-  dano sulla intima natura degli oggetti corrispon-  denti.   Gli uni c gli altri di questi rapporli vengono perce-  pili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe-    cie di falli più importanti per la teoria della cono- Fi  scenza è l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas  terne, le quali vengono apprese ogniqualvolta gli Da  i oggelli sensibili sono messi in rapporto fra loro e  | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e >    gico-matematico.  : Il ferzo elemento della realtà consta delle verità È  antecedenti che debbono esser prese in considerazio- es  ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone    | molto minore resistenza degli altri due: finisce quasi  ty sempre col cederci il passo (1).  i Ora, sebbene questi elementi della realtà siano un    po’ fissi, tuttavia, operando in essi godiamo di una  cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero; il  loro essere non dipende da noi; però dipende da noi,  dal nostro interesse di rivolgere l’attenzione a que-  ste più tosto che a quelle; dipende da noi di tener + a  conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende da  noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza de- +  cisiva alle prime 0 alle seconde (2). LS  Noi leggiamo le stesse cose diversamente secondo   il punto di vista da cui le guardiamo. La battaglia  di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle-  ‘se, come sconfitta da un francese. Così l’ottimista.  legge nell'universo la parola « vittoria», il pessimi. (1) Id., îbid, Come? tra le verità antecedenti vi sono ancl  le relazioni elerne fondate sull'intima struttura dell'oggett  mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è i  discutibile? non formano esse la struttura del nostro pensiero?  ‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero logico-matematico?  À parte questa incoerenza, è certo che il James non sl pre  «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol   sembra di trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel  | lettualista autentico. Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15,  «Bulletin d’Epistemologie » p. 278-298. =  (2) James, î'2d., p. 156,    pers    i: La teoria della verità e della realtà       È, sta la parola «sconfitta». «La esistenza della real- ©  tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo di-  pende dalla nostra scelta, e la scelta dipende da   | noi» (1). La realtà è muta. Le sensazioni dei rap-   (SAh porli loro non ci dicono niente intorno alla propria  natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice-   2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi scol-   piamo la statua. Giò vale anche per le parli « eterne »   della reallà. Noi scompigliamo le nostre percezioni   Mei rapporli inlrinseci e le ordiniamo a nostro pia-   . cere; le classifichiamo in serie, le raggruppiamo in  classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come fon-  damentale, finehè le nostre credenze formino quei  sistemi di verilà che conosciamo solto il nome di lo-  gica, di geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli   ‘sistemi la forma e l'ordine è evidentemente opera   (umana (2). È difficile parlare di una realtà indipen-   «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al concetto   di ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non è   | @ncora denominato, oppure all'assolutamente mulo,   o a, un limite puramente immaginario della nostra   coscienza (3). Ad ogni modo è inaccessibile, inaffer-   | rabile: quando crediamo d’'averla còlla noi ci tro-  viamo lra Je mani un semplice surrogato, una crea-   . lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega-   lala per il noslro uso e consumo (4). La corrente   delle sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di-   ciamo di quel flusso è creazione nostra dal principio   sino alla fine. Noi condensiamo la corrente plastica   | în cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e   1 predicali*dei nostri giudizi veri e falsi: tutto cià   «che è, è frutto della nostra elaborazione. «Il mondo   «| non è — come vogliono i razionalisti — l'edizione in     (1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr, aber    hr Inhalt hingt von der Auswal ‘  RO vahl, und die Auswahl hangt    (8) 1d., p. 159.  | (a) Ia., ivia.       Il Pragmutismo 56    folio infinita, l'edizione di lusso elernamente com-  plota che le coscienze individuali non riescono a de-  cifrare nella sua interezza e rifanno in lante piccole  edizioni finite, piene di errori di stampa, più o meno  deformate e mutilate; ma è un’edizione non ancora  perfetta, che viene completandosi a poco a poco spe-  cialmenle per l’attività degli esserì pensanti » (1). E  questi la stampano nelle loro edizioni; la plasmano  nei loro schemi connoscitivi, in mille modi diversi,  secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri,  hanno tutti lo slesso valore di verità se rispondono  al fine per il quale furono elaborati. L'anatomico con-    sidera l'individuo come un organismo: la sua realtà  sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples- È  so di cellule, il chimico un insieme di molecole (2). Il n    numero 27 si può considerare come la terza potenza  di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di  26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0,  conoscere come nell’operare. Il mondo aspetta la sua  forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo  apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice del-  Puomo (3); così il pensatore è rivestito di dignità    LI    nuova piena di responsabilità. 6 i  Noi «solleviamo ad altezze nuove la realtà pree- »  sistente » se sappiamo credere, agire, lottare: la fede    ci fa salvi, ci porla alla conquista dell'universo, ul  niglioramento progressive della realtà (4) La no:  stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fata-  lismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar:  cobaleno: vi troviamo tutti i colori, a nostro grado:  la noslra azione ve li crea (9). a    VP    | (1) 10. ibid., pi 165... Cfr.: La cultura filosofica, N. 2, Pi 124, >  dove ho tolta la traduzione delle parole qui citate.    i (2) Id., p. 161-161; passim.    Ù (8) La frase è del PAPINI, «der Fiihrer der italienischen  V80 Pragmatisten » come lo chiama il JAMES, ibid., p. 104. NP».  int (4) Le parole sono prese dall'EuckeN ima non si ha alcuna  e) citazione di opera; EUCKEN parla di una « Erhohung des vorge-    i fundenen Dascins » -- p, 163. ine.  (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life glitters  ti în all the colours». /fum, 16, \?,   uindi, o uomini, imparale a conoscere voi stes-  vi consapevoli delle vostre vocazioni; in-  allargate le vostre finalità: sollevatevi  i | dominazione in dominazione; sappiate volere e  sappiate creder?, cioè uermare con tutto il vostro  essere che le cuse stanno realmente come voi le po-  ele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede \} farà salvi,  ioè vi permetterà di conseguire i. fini della vostra  esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esi-  ste in sè; ma parlate, pensale, agile come se real  ente fosse tal quale voi la vedete, voi non servi,  na padroni suoi © suoi fallori» (1).   ‘Questa è lu dottrina della realtà sostenuta dal  agmalismo.      INI.  LA RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO       “Sommario: x l. Le preoccupazioni etiche e religiose. —  $ 2. L'esistenza di Dio. — $ 3. Il concetto di Dio.  — \ 4. Religione e religioni.    g. 1. — Esporre con una certa ampiezza le dottrine  pragmaliste, senza fare un posto speciale al modo  con cui in esse sono presenlali e risolti i problemi  religiosi, sarebbe una mancanza grave.   — Chi ha studiato o lello con amore, le opere — al  meno le principali — dello Schiller e del James, sa  “che, allraverso ad esse, si sentono passare, come  n fremito, più o meno distintamente, due preoccu-  | pazioni; luna, più generale, che tulto pervade, tulto   “colora, tulto fondamenla: la preoccupazione etica:  l’altra, più speciale, che nasce dalla prima come  condizione necessaria o postulato del coronamento  dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione  — religiosa (I).   È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non  è così intensa e così manifesta come nel James; lo    (1) Per questo io credo che, se si può e si deve parlare di  nn pragmatismo religioso (e così pure di uno epistemologico,  metafisico ed estetico) come di un complesso di applicazioni  del principio del Peirce alla religione (alla metafisica cecc.),  non si può invece parlare di un pragmatismo etico, come di  lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma-  ismo è etico: l'etica è alla base della epistemologia, della me-  a Lab della SESLIgione °, della IOICUCE Di quest'ultima non  È ames e Jo Schiller non se ne son Ù A   articolare, Il non ne sono occupati    5          0 58 La Religione nel Pragmatismo    Schiller — il véro filosofo del pragmatismo, sebbene  meno popolare del James — ha lavorato sopratlulta  a stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio:  il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra at-  tività e di ogni prodotto dell’altività umana: tutta-  via sono numerosi i saggi nei quali egli si occupa  ex-professo, più o meno largamente della religione,  V, e da per tulto si sente che per lui la religione vale.  - Del resto: non ci dice lui stesso, espressamente, che  il pragmatismo «non è soltanto un movimento che  riguarda un insieme di dottrine tecniche intorno al  7 problema della conoscenza, ma anche un tentativo  di determinare i rapporti tra «fede, ragione e reli   . gione?» (1).   Quanto ai James è nolo — per la sua stessa con-  fessione — che la prima applicazione da lui falla del  principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi   KS. religiosi (2). Ed è noto del pari che, dal giorno del  ; suo primo discorso pragmatista all'Università di Ca-   È lifornia (1898) fino all'opera: « A _Pluratistic Univer-  | Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie  forme dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le volte che gli si presentò l'occasione, ha posto \  e risollo, a modo suo, i più fondamentali tra i pro- i  blemi della religione. Il James fu un? anima carat- -  leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :    «Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per  il inisticismo del grande pensalore svedese Swe-  dlenborg, il principio del quale era la relazione tra’  gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa  «dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la  opera del James» (3). Egli lrovava «la forza e lu  pace del cuore e dello spirito nella fedeltà alla crc-  denza che fuori del mondo del nostro «pensiero co:  Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le  energie capaci di arricchire e di trasformare la no- 4             (1) Studies in Humanism, Essay XVI, p.  (2) Pragmatismus, p. 29.    |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5  Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale,    349, SEE.    culi *       Il Pragmatismo 59    stra vila» (1). «Chi sa — scriveva egli, conchiuden-  do un’opera classica sulla religione — se la fedeltà  di ogni uomo alle sue umili credenze personali non  possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen-  {e ai deslini dell'universo? » (2).   Aggruppo l'esposizione intorno a questi tre punti:   1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.) Reli-  gione e Religioni.    «2. — Cominciamo col James,   La storia della filosofia è in gran parte la storia  del conflitto dei temperamenti umani, Ogni filosofia  è l’espressione, il riflesso del carattere intimo del-  l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento; ogni  intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più  nè meno che un complesso di reazioni del carattere  umano assunte, o a propria insapula, o deliberata-  mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega il sor-  gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.   Noi possiamo distinguere due principali tipi spi-  rituali d'uomini aventi caralterisliche affalto diver-  se: l'uomo dalla (empra tenera (lender-minded) e  l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il tipo  simpatico c il cinico (4).   Mettele questi due tipi profondamente diversi in  faccia all'universo e chiedele loro una dottrina: a-  vrele da una parle il malerialismo sensualista, con  lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo,  come traduzione del temperamento rude e cinico;  dall’altra lo spiritualismo con contenuto ottimistico,  quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.   L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto  dei due lemperamenti malcrialistico e spiritualisti    co assumono tulto il loro speciale rilievo di opposi- |    zione davanti al problema dell’esistenza di Dio. Il    (1) L'Expérience religleuse, p. 436.  (2) /ui, p. 437. :    Li Mi  (3) JAMES, Der Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ;    Universe, p. 20  (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »    -    ?    60 La Religione nel Pragmatismo    complessa delle cose che vediamo, che esperimentia.  mo e che abbiamo convenuto di chiamare « mondo »  sono il prodotto della materia o di Dio esistente fuo-  ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le  cose 0 e'è anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il  quale non sarà risolto mai — e la storia è là a di-  mostrarlo — in base alle vuote, astratte e. sottilis-  sime discussioni sull'essenza intima della materia €  sui suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h-  telleltualistiche de! Dio che è in questione (2). Ogni  speculazione è impotente — di fronte al materiali-  smo ateo — a dare una solida base razionale alla re-  ligione: i due grandi (entativi sistematici di dimo-  strazione dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti-    ‘co e l'idealismo trascendentale — hamno fallito al  loro scnpo.    ‘Tulli conoscono gli argomenti classici della filo-  solia Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per  sempre la causalilà dal mondo fisico, ha reso impos-  sibile ogni inferenza dal creato a una causa prima;  del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire  di fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume,  Kant ha dimostralo che, Dio, l'immortalità e la li-  berlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono  parole vuole di-senso dal punto di vista della cono-  scenza (corica, e ha fatla giustizia una volta per  sempre della vecchia leologia, che ora non regna che  nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario.  Il darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova  per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il disor-  dine che noi troviamo nel mondo non sono che in-  venzioni umane: chiamianio ordine ciò che corri-  sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne    (1) I metodo praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra-  duzione PAPINI).    (2) Occorre far notare che questa visione degli ontologi non  è da confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione  sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT,  Insuffisance des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg.    Il Pragmatismo 61    allontana (1). Finalmente il pragmalismo, cacciando -  dal mondo la necessità logica, ha tollo ogni speran-  a di una soluzione per coucetti del problema in que-  stione, di modo che le prove dell’esistenza di Dio non  sono valide che per coloro che già credono in Dio    i  e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3  3  i  A       “pre credenza (2).  ; L'idealismo trascendentale non è più felice nel suo  SG tentativo di dare una base solida alla fede: vedremo  quali assurdilà sono implicite nel concetto di una  coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x  - inondo: vedremo a che si riduce l'Assoluto. e  «E allora? Quale altra via rimane aperta per risol  vere il problema? Già nell'opera : La volontà di cre-  dere, il James assegnava ai molivi emozionali un  valore definitivo, nel casu che l'intelletto non poles-  E se offrire delle ragioni sulficienti per l'adesione a  i doltrine di caraltere religioso. La via è aperta: met-  liamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per il  pragmatismo si risolve in questa, più determinata e  più chiara: «Quali conseguenze pratiche importa  (| per la reallà, per noi, l'esistenza di Dio?» Se prali-  = camente, cioè dal punto di vista del criterio della uti-  .lita pratica, la negazione dei malerialisti vale quan-  lo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equi-  valenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il  di lato e il valore pratico (9). 7  | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione di  Dio o prodotto delle forze materiali può essere con-  pe sideralo da un doppio punto di visla: relrospettivo  + e prospettivu. lFingiamo che il mondo sia completo.  ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di vista retro-  | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri  sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun-  (1) Jaars, L'Expérience religicuse, D. 418 (in nota), p    ce 369-331. ia   a JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui  qui déjà croit en Dieu ces arguments sont solides... La On  {ltoure... des arguments pour défendre ces croyances le    doit les trouver ». : di  Ò NI Vol., p. 59; L'Experience        (3) JAMES, Der Prugmatismus,  religlouse, pas. 132.    INA  La Religione nel Pragmatismo  que aumento e qualunque alterazione. Da un mondo  lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da  temere, perchè il potere creativo, qualunque fosse  slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che è, che  è irrevocabilmente, in tulle le sue particolarità: uno  dono che ci è stato dato e che non può essere ripre- ì  so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il valore  «di Dio, sc ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo  mondo già trascorso? » (1). Egli non varrebbe niente  più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo, non  avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè  egli, secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6  aggiungere a ciò che è. A un Dio simile noi saremmo  riconoscenti per quello che ha fallo, non per altro.  lì ora prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le  parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» po-  lessero fare lullo quello che, nell’ipotesi precedente  Da fatto Dio: saremmo noi loro meno riconoscenti  che a Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se  lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo respon-  subile la sola maleria? Come, essendo l'esperienza  definitivamente cd irrevocabilmente ciò che è sfata,  “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più vi-  vente e più ricca al nostro sguardo?» (2) « Chiamia-  mo materia la causa del mondo e non leviamo nep-  pure una parle di quelle che lo compongono; nè, sc  chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque  «materia e Dio significano precisamente la stessa  | cosa, cioè il potere, nè più né meno, capace di fare  | questo mondo celerogeneo, imperfello e tuttavia ter-  | Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e il  leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifi-  ante». Se la presenza di Dio «non porta un giro v  lin risultato differente all'insieme del mondo, non  Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al:    RE TIE           (I) JAMES, 12 metodo pragmatista, in Saggi È   : MES, li SI, gi pragmatisti,  x D. 15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da  3 Saggi pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione  | del PaPINI e del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo  | pragmatista dall'inglese,    | (2) James, 0 Metodo Prag matista, pp. 16-17; Dì  mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis: — mondo) verrebbe nessuna indegnità se Dio non hi  fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch È  scena» (1). È saggio colui che volta le spalle a siffat-  ‘la inulile discussione (2). 3  ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un punto  di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel  inondo reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu-  ro, che è tullavia incompleto... ». ; 3  «In questo mondo non finilo l’allernativa di «ma-   lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa  si può formulare così: «In qual modo il programma  della nostra vila è allo a variare, secondo che si con-  siderano i fatti dell'esperienza come configurazioni  di atomi senza finalità (materialismo), oppure come  dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero  che in questo mondo non finito la materia fa prati  camente lutto ciò che può far Dio, che essa equivale  u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima ri-  chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia,  di cui paria Spencer, per la quale si compie il pro-  i cesso dell'evoluzione cosmica, è veramente un prin-  | cipio di perfezione infinita quanto Dio? ». (8)  Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria  dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione  della materia e del moto» sono rivolte incessante-  _Inente al disfacimento del mondo, «a dissolvere tutte  le cose che hanno falto evolvere ». Così il Balfour  cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo  quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le e-  Nergie del nostro sistema si consumeranno ; la gloria  del: TR cselrata, e la terra, inerle e desolata,  a disturbato 1a oltre la razza che per un momento  E SS GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel  EF va suoi pensieri periranno. La inquieta  a... le «azioni immortali » moriranno, e l'a-  i More, più forte che la morte, sarà come se non foss  _ mai slalo. Nè vi ‘'à Il i i sli se  1 sarà nulla che sia meglio o peggio    i fu) Ivi, PP. 17-18; pp. 59-63.  a (2) Ivi, p. 81; p. 61.  (8) d04, DD. 18-21, pp. 63-64/             64 La Religione nel Pragmatismo          per lulto ciò che il lavoro, il genio, la devozione e la  sofferenza dell'uomo avranno fentalo di effettuare  durante età innumerabili » (1). Dunque la sorte ulti-    ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmica-  mente evolute è tragedia. Nulla rimarrà di ciò che  è slalo: non un'eco, non una memoria: la rovina  sarà universale. È si noti: « questa rovina e trage-  dia finale sono nell'essenza del materialismo scien-  lifico. Le forze più basse, e non le più alte, sono le  forze eterne o quelle che sopravvivono ultime nel  solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definiliva-  mente vedere » (2).   Ma se Dio esiste, i risultati pratici dell'evoluzione  dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che con-  lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi ar-  derè o ghiacciare, ma però noi pensiumo che Egli  pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura che al-  riveremo a goderne; perciò il naufragio e la disso-  luzione non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno  di un ordine morale eterno è uno dei più profondi  bisogni del noslro cuore... ».   «Qui giacciono i significati reali del materialismo  e leismo...; matlcrialismo signitica Ja negazione del.  l'ordine morale eterno e l'esclusione delle speranze  ultime; il teismo significa l’afiermazione di un eler-  no ordine morale e dà libero corso alla speranza » (3).   Un'altra conseguenza pralica di grande importan:  za deriva dalla affermazione feislica: il sentimento  d'intimità col mondo.   I mulerialismo con la sua visione impersonale  dell'universo ci pone di fronte a una realtà muta, in:  differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò che  crea, senza curarsi del bene e del male, e dei biso   - gni umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma  l'uomo per il quale si dovrebbe avere dei riguardi:  L'individualità di ciascuno di noi è come una    (1) BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede)  p. 30, citato dal JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in.  Der Pragmalsmus, pp. 64-65.   (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D. 66.   (3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg.  Il Pragmatismo    = rrasca,  7 are in burra  sopra: unt ma senza tre-  qui epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT  sj venti e le onde c iizoirenomoni Uasc  due i i non siamo che degli €} gli eventi (1). Come  otza (dol flusso irresistibile deG Letta così falla?  È Si simpatia e amore per o a senoi mettiamo  6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono  n Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo-  | ù calde, viù vicine a e voni saremo più estra-  "o pensiero : >  e al Nostro La non lo saranno a noi. Ri  Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe dire  Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il  le la differenza che passa fra de senlire i no:  CE "nali el concepire e sentire  ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE  BLOGO SÌ differenza sociale. £  i rapporti col mondo è una eee  iamo malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn  {ra socio, il mondo, difidenti e USE E  guardia che non ci GU slringorit  Spiritualisli noi possiamo fidare li, S SECOLI  Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra  " tai Ise peosstere ident so utile, che  on ai Rostri bisogni emozionali, che ci fa  ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze sulla  Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do-  —  mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della  | Verità, noi dobbiamo concludere che il (eismo è vero  © il materialismo è falso.  Vi sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare  conclusione in favore dell’esistenza di Dio. Se  Dio, Egli produce differenze prati  porti call'universo; se c'è un Dio,  renze « nella sorte finale del mondo :  lo. Ma possiamo dire d    questa  c'è un  che nei nostri lap-    questo s'è vedu-    i produca differ  . Ina durante tutto il  ere che l’esistenza di    Mella sorte finale  do» (3) Ammetl    ì, L'Expérience    religieuse, D. 409, 411.  >, Il Metodo pr    agmut., p. 15; 4 Pluratistie Univer  Il Met. Ppragm., p. 25.    Egli produce diffe    È più: se c'è un Dio noi possia-.  no aspellarci che egl enze non solo,  | corso del mon-  Dio non possa a               66 La Religione nel Pragmalismo    — cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare  ‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap-  punto in quelle differenze che debbono essere ammes-  se nella nostra esperienza, ove il concello sia ve-  “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un  ‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La  Z esperienza fisica, o percezione degli oggetti esterni, e  la esperienza psicologica pura c semplice limitata alla  tà percezione deil'io, non colgono la realtà tolale e pie-  ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di espe-  ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che  (ci dà una massa di esperienze concrele affalto ori-  «_—‘ginali. «Se voi chiedete cosa sono queste esperienze  vi dirò che sono conversazioni coll’invisibile, voci e  visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di cuore,  Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura  zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si  mettono in una cerla attitudine interna, con certi  modi appropriati. Il potere viene, va e si perde, e  può esser trovalo soltanto in una certa direzione de-  terminata, proprio come se fosse una cosa concreta  e maleriale» xl}, Vedremo più sotlo perchè pratica-  mente parlando è cosa di poco momento che il Dio  della teologia sistemalica esista o non esista; «ma  se il Dio di queste particolari esperienze è falso, è  una cosa lerribile per quelli la cui vita è poggiata  su tali esperienze » (2).  _, Concludendo: «la controversia teislica assume un  lreniendo significato se noi la saggiamo coi suoi re-  ; sultati nella vita attuale » (3). Il naluralismo, il posi-  ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con cu-  lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa-  talmente nella tristezza e nello scoraggiamento inerte.  Se invece, come afferma il teismo, la nostra vita  ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un universo mo-  rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre sofl-   a    O TAES: ALI relty., ). 432.   ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto queste  | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci  CRA la e la materia di: L'Experience  — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30.    a    N       ll Pragmatismo 67°    ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore;  se il cielo sorride alla terra e se gli dei vengono a  visitare gli uomini; se la fede e la speranza sono  come l'atmosfera della nostra anima, allora la no-  stra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a  grandiose prospellive (1) i   Possiamo tirar subito una conseguenza importan-  le dal punto di vista pragmatlistico ; la speculazione è-  impotente a condurci a Dio; noi affermiamo la gran-  de probabilità della sua esistenza in base alle con-  seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che  derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen-  te, e lo vedremo sotto, il pragmatismo non può darci  più che una probabilità.   Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse  conseguenze. Col James egli rigetta le prove tradi-  zionali dell'esistenza di Div e fa una guerra spietata  alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli idea-  lisli trascendentali.   Per lui la comune insufficienza delle prove tradi-  zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti, sono  applicabili alla concezione di un universo qualsiasi,  non ul nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar-  gomento cosmologico inferisce Dio dal fatto che vi è  eausazione in astratto; l'argomento fisico-teleologico  è costruito arguendo, in maniera affatto generale,  dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-    ‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo.    Dal momento che si possono applicare ad'ogni sol-  ta di mondo, buono o cattivo che esso sia, ne segue  che la divinila inferita con questa specie di argomen-  tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,  al bene e al male che esso racchiude: è un Dio  amorale, che si può inferire così bene da un universo  ollimo come da uno pessimo. La inferenza di Dio dal  mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel  l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a  Dio attribuli morali sono condannati a ;certo insuc-    (1) Ivi, p. 30.  (2) JAMES, L'Experionce religieuse p. 117.       4  Se    |  il  |             cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mon-  do come si può giungere a un principio morale gli  esso? Ebbene, non è di codeste prove che noi abbia-  mo bisogno; non chiediamo una prova dell'esistenza  di Dio che sia valida per ognì universo pensabile, mù  per il nostro mondo aituale, che tenga conto del con-  tenuto concreto, reale delle cose che noi: esperimen-  liamo; ci occorre un Dio il quale ci dia sicurezza, che  nel nostro mondo vi è un polere capace e disposto a  dirigerne il corso (1). È È   Il dialogo: Gods and Priestes (Dei e Sacerdoti) (2)  è lullo una critica birichina degli argomenti raziona-  li (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi pa-  re che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esi-  stenza dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero,  e che ci starebbero a fare i sacerdoli? » Un argomen-  lo puerile, a dir poco, come si vede. Eppure Anlino-  ro risponde: «Questo argomento è... migliore della  più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre Antinoro  dice: .« Finchè il Dio ignoto non è desideralo è inco-  moscibile » (4). Noi sappiamo che « inconoscibile », per  l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma dunque  il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio?  Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli  dei sono reali in quanto responsi ideuli ai reali biso-  gni umani, che ci funno realmente agire» (5). Dio 6  un postulato della fede ed è delia stessa nalura dei  postulati della scienza (6), cioè una supposizione uli-    (1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82.  = lo non posso indugiarmi a esporre largamente le teorie re-  liglo5e dello SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola  non basta a ciò, Del resto non è neanche necessario, perchè lo  SCHU.LER, quando pula di religione. si appoggia spesso al  JAMES, €, sostanzialmente, lo riproditeo   (2) ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay XV, pp. 326-348.   (3) Ivi, p. 227.    (4) Ivi, p. 347.    (5) IVI, pp. 340-341: «They (gods) nre real as the ideal re-  sponses to real human needs, which really move us,   (6) Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La  tolontà di credere del James,    = "i si » etiam  Lu e e ir__nnnn_nn_    RPEI EN   oli Pragmulismo    le, una domanda di qualche cosa che corrisponda alle  esigenze dell'uotno e mella armonia in una speciale  sfera di esperienze.  L'uomo fa la verilà e la realtà, come s'è veduto: È  è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la  soslanza è allivilaà, e l'attività non esiste se non come  attività per noî. La domanda di Dio non è la doman-  da di un essere lrascendente, ma di uno perfezio-  È nante la esperienza nostra (1). Perciò la questione:  LI, Dio esiste? significa: Qual'è il valore per noi del con-  X cetto di Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol-  | le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi ai quali  lulte sì possono ridurre? E qual'è il migliore fra i  concetti di Dio?    $ 9. — Nella filosofia spiritualisla noi troviamo due  specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico,  o teismo propriamente detlo, e il leismo monistico  o panteislico. Il primo è la elaborazione teologica  della filosofia scolastica, il secondo è proprio dell’idea-  lismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o ideali-  smo simpliciter, che si voglia chiamare (2). Esponia-  noli brevemente ed esaminiamone il valore alla luce  del pragmatismo. >»  Il'ieisino scolastico insegna che Dia è la Causa Pri-  ma, la quale differisce tolo genere dalle sue creatu-  re. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è la fon-  le di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e  assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e per-  sonalità metafisica, ecc.; e degli attribuli morali:  sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia, im   mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene, applichiamo a    -    (1) ScuuLer, ivi. Considerazioni simili a quelle del James  contro ia visione materialistica della vita nol troviamo li  — Humanism, Ess. XIV, pp. 250 seg.: «The ethical significance.  of immortality ». Vi dintostra che la vita non è degna d'esser  "vissuta se non sono conservati i valori ideali. /    (29) JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der Pragma-  lismus, VIII Vorl. p. 192. a  (3) JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376; Saggi prag-  mat., IL metod. pragm., pp. 25-20. ) ar       n . 70 La Religione nel Pragmatismo    RO T   questi attributi di Dio il principio del Pierce ec vedre-  L mo che fra essi ve n'ha di più e di meno importanti.  i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che diven-  N gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol  attributi morali? Quali effetti possono produrre sulla  nostra condotta? Che cosa importa per la vita del.  l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè stesso,  che Dio non appartenga & nessun genere ecc. ecc.?  «Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlima-  mente? Quale speciale cosa posso io mai fare per    adattarmi alla sua « semplicità? n «O come devo de-    terminare lu mia condotta da qui innanzi se la sua  «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan-  ‘do di quesli attributi ci si desse una dimostrazione  logica rigorosa noi dovremmo confessare che essi  non hanno senso, 4  poichè sono lontani dalla morale,    lontani dai bisogni umani (1).  ‘Non è così degli attribuli morali. Essi risvegliano  il limore e la speranza e sono il sostegno dell’ani-  ma. Se Dio è santo non può volere che il bene; se  è onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la  sua onniscienza ci vede nelle tenebre; per la sua  iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche segrete.  ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile  e quindi possiamo contare sul suo amore. i  Iddio, nella creazione, si è proposto come fine la  manifestazione della sua gloria; « questo dogma ha  certamente una qualche elficace connessione pratica  ©. colla vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen-  | za che ha esercitato sulla storia ecclesiastica e per  ? ripercussione sulla storia degli Stati curopei» (2).  Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezio-  ne monarchica del mondo, di una divinità con la sua  corle e le sue pompe non corrisponde più alla nostra  mentalità, ma gli aliri attributi hanno un valore re-  ligioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica    (1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod.  Pragm. (op. c.), p. 25-27.   .(2) JAMES, L'Expérience religicuse, p. 376; Il Metod. Pragm.  (op. c.), pagina 27-28. i    LA    4  s  =    lì Pragmalismo 1  polesse stabilire in modo irrefutabile che Dio li pos- e)  siede (gli attribuli morali}, darebbe una base solida si    alla religione. Ma, come per l’esistenza di Dio, cusì 19  per gli allribali morali essa ba fallito nel tentalivo sl  {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare d  storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È  suno. Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno |    che dubita della bontà di Dio, che Dio è buono per- ì  chè non vi è non-essere nella sua essenza! (1) Quegli ni    altribuli hanno valore non perchè e in quanto sono  dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi du-    (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto ur;  eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A  livo e fanno appello a qualche particolare condotta =  da seguire» (2), non quindi in base a speculazioni, | Pi    - ma per la loro efficacia pratica. |,   V'ha di più. La concezione leistica (scolastica) di-  pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una  dall'altra, anzi come affatto diversi, mette il soggel-  lo umano fuori di ogni contatto con la più profonda  realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal- .  l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in  - lo unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- :   carci, si afferina, (conte possa toccarci è un misleto)  ma Lui non può essere affetto dalla nostra reazione.  Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i due terni. |  ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore  del nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma  nostro maestro e giudice, ll nostro dovere inorale  è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi, di  aderire pussivamente alle verità che non noi faccia  > mo, ma che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE  ‘ decrec» (4). Ebbene, lutto questo meccanismo LEO= N  logico, che ha parlato così vivamente all’animo dei  nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, |  con la sua creazione dal nulla, con la sua moralità    ta W) JAMES, L'Erper. relig., DD. 370-977. “26  o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 . Ca  ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i |    (4) James, «Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |             72 La Religione nel Pragmalismo    giuridica ed escatologica, col suo gusto per le ricom-  pense e le punizioni, col suo considerare Dio cone  un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al piu  di noi come se si trattasse di una religione selvag-  gia di stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evolu-  Zionismo scientifico e lo marea monlanie degli ideali  delia democrazia sociale hanno cambiato il tipo del  la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico  è vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mon-  do dev'essere più organico G più intimo. Un creatore  esteriore e lc sue islituzioni pussono essere professa-  le ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule che  sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è  lontana da esse, non lano più adito nei nostri cuo-  sti (1). Quel magnifico uomo nou naturale (2) che è il  ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello  delle idee morali correnti e perciò condannato dal-  l’'alinosfera morale regnante, divenula per noì indi.  spensabile.   «I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno  perduto ogni valore per noi, le idee morali e sociati  nostre ci costringono, sc abbiamo bisogno di Dio, a  foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli  ideali del lempo nostro (3).   Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto la  possibilità di una più intima Weltunschauung; la vi-  sione panteislica di un Dio immanenfe come sostar-  za inlima del mondo, e il mondo come parle di quesia  profonda realtà. Questi concezione hu assunto due  forme diverse: la monistica e la pluralislica (4).    (1) Ivi, pp. 29-30. — Lo stesso pensiero è espresso più lar-  gamente in: L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la  Saintele, pp. 250-284   (2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., p. 24.   (3) JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto che”il Dio  tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè così  porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare  «il complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una  data epoca, l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quel-  la brutta cosa che tutti conoscono, non credo che sia esatto  il dire chè il James giudica di Dio in base ad essa. Cfr..  L'Erpér, relig., 1. c.   (4) JAMES, LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la sostanza umana (e mondia- ©.   le) si identifica bensì con Ja divina, ma non diventa  veramente tale che nella forma della totalità. Lo spi- -   3 rifo finito non ha realtà che neila comunione con lo   pi spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente   È solo quando è esperimentato nella sua assoluta l0-   rà lalità. Pev il monista essere significa due cose: se si   È predica delle cose finite significa: essere un oggetto   Ì dell’Assoluto; se si predica dell’Assoluto stesso vuol   i dive: essere il pensamento dell'insieme degli oggetti.   " LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente come noi,  nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una  storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e asso-  julo sono la stessa cosa espressa con nomi diversi:   " pensiero e pensato (Gedanke und Gedachles). «Quale  grandiosa concezione nella sua terribile unità!» esela:  ma il James (1). Quale intimità fra il mondo e 1 AS-  solulo! >   Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI    St  x.    milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà il  divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo  monarchico (2). E in vero: per lassolulisla noi, POSI   ad uno ad uno nella nostra finilezza empirica non  abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per far  (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro indi-  vidnale con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'As-  Ea solulo è noì e lutte le allre apparenze, ma non è  I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel tutto TION  x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua-  Fat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam  wr mentem conslituit — ha scritto lo Spinoza, il primo  ; grande assolulisla (3). La vera conoscenza di Div =  serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che le  cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han:  ‘no verilà (4). L'Assoluto — secondo il Taggarl —  non è processo, ma stato immobile: il movimento  (1) JAMES, ivi pp. 34-37,  (2) Zbta.  (3) James, A Plural. Univ., pp. 40-47,  (4) Ivi, p. Di.   » DI art ri È  aaa” * -- ul = Pa.        ASTRA La Religione nel Pragmatismo    il cangiamento sono assorbiti nella sua immutabili  È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più  DA estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza  nè volontà, nè una persona, ne una collezione di per-  sone, nè vero, nè bello, nè buono nel senso che noi  diamo a queste parole? — come. ha scritto il Brad-  ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi-  sico incapace: di odiare e di amare, di soffrire e di  desiderare? (3) L’Assoluto non può essere personale  nel senso ordinario della parola; dunque non può  interessarsi delle persone: la sua relazione con ess?  è tutt'al più una relazione di inclusione, puramente  logica, quindi, non morale (4). Io non posso avere  nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha co-  mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu-  dine non s’inleressa di me come posso io interes-  sarmi di Lui? (5) =  Non solo l'Assoluto non è un principio morale,   ma non ha neppur valore scientifico. Per aver valore  scientifico dovrebbe essere un aiuto alla compren-  sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non  è la ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ;  ticolare (e l'universo si compone di cose particolari) >  appunto perchè è la ragione esplicativa di ogni cosa î  in generale; e qual'è il valore di una spiegazione ge-  merale che non spiega nulla in particolare? (6). È,   come si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat-   lezza dei concetti con i quali sì prova, in teologia,  2 che Dio esiste e se ne deiermina l’essenza, secondo  lo Schiller.          s (1) JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p  o i ud. in Hum. Essay XII, passim;  (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e:  (Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE  (3) JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER, Ess. JV.  (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287.  | (5) James, A _Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. —  bp, 391; « If th» One is neither of these {hings (beautiful and  | good), I will not worship it. nor call it Good. If it is indif-  ferent to 9ur Gocd, I am indifferent to its existence n.    (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25).       db    Ît Pragmatismo Ti)    Ma c'è di più. Uno dei problemi che ha maggior-  mente alfalicalo il pensiero umano è il problema del î  male, il più fondamentale e il più pressante dei pro-  blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico.   Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» —   Il prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor-   ge dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio.  con la sua onnipolenza e con la sua infinità. Se Dio   è il tutto, la perfezione assoluta, senza limitazione   nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se Dio   è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru   il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la  periezione di Dio è la sorgente delle cose; ebbene,  guardate: il primo altu di questa perfezione è la spa  ventevole imperfezione di tutto il finito sperimenta   bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede 7  queste schifose forme di vita che troviamo nella real-  tà? (2). Ecco il problema che nessun assolutista € .  nessun infiniusta potrà maì risolvere. Negarlo nou  è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la im-  pertezione del tuito non è che apparenza, una illu-  sione degli esseri finiti, che il maligno non esiste 0  è assorbito con Dio nella sintesi superiore dell’As-  soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma ingarbugliare  il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.   L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x  la quantita del male che è nel mondo? ». Il lato pra-  tico del problema, chie è il solo veramente impor-  tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò che  è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto :  ogni cosa l determinata nel suo essere e nel suo di-  venire; ia connessione fra le cose è assoluta, ogni ——  evento è determinato da lulti gli eventi (3). Non esi-    lai” sad    (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258. nati    (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda è  rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |  rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural.  Univ., vp. 119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo  imperfetto, e non si contenta di contemplarlo nello schema  ideale perfetto? » >    95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a    La Religione nel Pragmatismo    ioni; i é che  stono possibilità di nuove connessioni; non vi è c ;  DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP DESeRa  silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR  na sono chimere. Ecco a che conduce. la  Assoluto.  Eibovo queste terribili accuse ACCIAIO  deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan  nato alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO  amet no RO . Dal punto di vista intel:  ì es (1), E ris : ) 5 :  CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL SDOlai  elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser-  Di all'uomo. Orbene, quantunque l'Assoluto  sia e non possa essere il Dio della religione popo-  laure ordinaria e non si debba confondere col Dio  del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa — ne  vedremo più sotto il perchè — tuttavia è stalo e può  essere il Dio di una certa classe. d'uomini, che in  Lui solo trovano la pace {?). Ciò che sembra logica-  nente assurdo c impossihi  può essere dimostraio in q    non    le — dice lo Schiller  ualche modo con una fede  eroica e palelica, Non v'è materiale così poco pro-  Inettente che non possa divenire il fondamento di una  veligione. Non' vi sono conclusioni così bizzarre che  non possano essere accellale con fervore religioso.  Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfa-  zione non possa essere riguar    data come un atto di  cullo (3).  Perciò l’assolulo può esistere ed esiste come Dio  se ha una reale iniluenza s    ulla vita umana, se è qual-  “ehe cosa di vitale e di valutabile pragmalicamente.  Ebbene, la storia delle religioni ne ha dimostrato  l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una  sicurezza assoluta che l'esito del mondo sarà buono,  che l'universo non audrà in isfacelo sotto il COZZO    (1) Zut, p. 110,   (2) Jul, pp. 110, Iii, 1923; Der Pragmatismus, VIII Vorl.,  ASSI,  (3) SCHILLER, S/ud. in Ilum., p. %6.                i    Iîì Pragmatismo Ti    degli clementi instabili e fortuiti; lale sicurezza non  può aversi che ammettendo un'assoluta necessità e  una interna coerenza del mondo, una determinazione  a priori del futuro.   Vi sono anime che provano un sentimento d’orgo-  glio al pensiero di essere una parle, una «manife-  stazione », un «veicolo» o una ripreduzione della  Mente Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime stanche,  accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare  in sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita si sfa-  scia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo, co-  me una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo  dei momenti in cui aspiriamo al Nirvana, alla libe-  razione di noi stessi dalla esperienza finita. Questo  stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì certi  temperamenti mistici ai quali è conforto ed ebbrezza  il sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche  l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che tutto  è uno in Dio e che in Dio lullo è buono. che in que-.  slo mondo di apparenze, qualunque sia il nostro suc-  cesso, siamo sempre dei miserabili » (2).   Vi è dunque un istinto dell’Assoluto. L’Assoluto  può servire all'uomo, e perciò, nonostante le sue as-  surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci dicono a una  voce il James. e lo Schiller — poichè gli istinti uma-  ni sono preziosi © sacri (3) e tutto ‘ciò che opera è  vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo sotto le grandi  ali della misericordia... del pragmatismo. ,   Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra  concezione del mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto  mena necessariamente all’indifferenlismo e al quie-  lismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti  che non rifuggono dal male della vita ma lo affron-  tano pur nel dubbio di trionfarne, esso è per le ani-  me un oppio spirituale; è il Dio dei deboli, degli stan-    (1) JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., pp. 174-194, passim;  SCHILLER, Stwal. in Mum., PP. 289-290.    (2) JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di questo singo-  lare stato d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig.,  Chap. X, pp. 353-358,    (3) JAMES, Der l'ragmat., p. 176; SCHILLEK, op. c., p. YI.                fo) La Religione nel Pragmatismo    chi (1); il pragmatismo non può accertarlo. Si è aC-  cusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però.  Non è a credere che la dottrina pragmalista, rigel-  tando VAssoluto e il Dio del teismo monarchico, ne-  ghi che il mondo contenga in forma di coscienza qual-  cosa di più grande e di meglio che la nostra co-  scienza. Forse che la nostra fede istintiva in esseri  superiori, il nostro persistente rivolgersi verso una  società divina non è che una illusione patetica di  anime incorreggibilmente sociali e immaginative? (2).  No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia  reale; per quanto possano essere gravi le difficoltà  che le si oppongono, l'esperienza dimostra che essa  opera. Il problema di Dio consiste in questo: come  elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare  in accordo con le allre verità operative? (3), Ebbene,  è logicamente possibile di credere in esseri sovruma-  ni senza punto identificarli con l'Assoluto. Il con-  _celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idea-  listico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzio-  ne del pluralismo: è la forma pluralistica del pan-  teismo religioso.  Il pluralismo — in quanto ha rapporto con la re-  ligione — ammette col monismo la immanenza di  Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda delle  “cose, sostanzialmente identica con la vita e con l'es-  sere più vero dell'uomo (4), ma differisce inconcilia-  bilmente dal monismo negli svolgimenti ulteriori  della lesi unica.  — Per il pluralismo la vera realtà delle cose è la loro  individualità. Il mondo è collezione, non unità. Ogni    (1) JAMES, iui, pp. 176 @ 188.    (2) Jimes, Her Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc   È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER pro-  is contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine  f adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. — Per Îl res della  citazione, vedi; A Plural, Unlv., n° 133. Per E    (3) Jamrs, ber Pragmat., p. 192.    (4) James, A Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller parla del  Pluralisino in generale in: Stud. in Human D 907 è 459; vl  ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. plu-  ralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina XX    PI    LA  SE  cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un  ambiente esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU  inclusive). Nessuna inchiude lulte le cose assorben-  done la realtà tutta, nessuna domina su tutte. Men-  {re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All  form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del plu-  valismo è caratterizzata dalla Zach-form (forma del  le individualità o distributiva, come altrove la chia-  ma il James): è la forma dataci dalla esperienza im-  inediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una repub-  blica federale che un impero, un regno. L'unione  delle cose singole — atomi e unità spirituali — non è  compenetrazione di tulte in ognuna, non è il tipo del  la unione monislica della tosalità-unità (Alleinheit),  non è complicazione universale, ma contiguità, con-  tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di unio-  ne synechislica (1), quindi vi è dislinzione e indipen-  denza. Perciò nessun centro di coscienza, nessuna  azione puo lutto abbracciare: qualche cosa sfugge  sempre e non può mai essere ridotta all'unità to)  Non c'è un'assoluta unità causale del mondo; non  cè un'assolula unila generica; non e'è un'assoluta  unità teologica e morale; non c'è un’assolula unità  estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale    (1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il «synechi-  smo» è quella tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea  di continuità una delle più Importanti in filosofia. Il continuo  è inteso come qualens cosa le di cui possibilità di determina-  zione sono inesavribiti.    (2) Oltre questo synechismo — che è metafisico — ve n'è    uno epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica  come gradualmente approssimabile, ma non mai interamente  taggiunsipilo dal pensiero. I.'uomo tende a una interpreta-  zione scinpre più razionale e coupleta dell'universo, ma ogni  fase del processo conoscitivo non è che una razionalizzazione  parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE Pragmatism nel  ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce il |  Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea.  (Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera  Thegries of Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Lo;    dra 1910: da essi ho prese queste cliazioni n proposito del    symechismo,  dal 7   9    80 La Religione nel Pragmalismo    dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità, reali  indelerminazioni, reali incominciamenti, reali finì,  roali mali, reali crisi, reali catastrofi e reali scom-  pi (2). Nel mondo accanto all'ordine vi è il Cso  ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a  bello il brutto, accanto al bene il male: non vi è  dunque perfetta, unità, ma molteplicità reale neil u-  nità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi sarà  mai; forse non potranno essere liberate dalla di-  sgregazione e dal disordine che certe parli del mon-  do, quelle alle quali si estende la nostra allivilà uni  ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà pos-  sibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma  alla fine, non un primo ma un ultimo (3); la salute  — ogni salule, anche ia parziale — non è necessa-  ria, certa a priori, ma solo possibile. Nella concezio-  ne assolulista il fondamento della realtà è l’unità sta-  tica; nella pluralista sono delle possibilità, pure pos-  sibilità. Il pragmatismo riconosce un valore reale al-  la prima, ma preferisce la seconda, come più in ar-  menia col suo temperamento, poichè essa è alta a  suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di  esperienze future e sprigiona in noi determinate al-  livilà. Il suo effetto sull'uomo non è il quielismo, 1a  il lavoro strenuo, poichè com’essa insegna, da lui  {dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria pos-  sibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi  stenza della realtà ad essere redenta è unificata. Così  il jvagmatismo tiene Ja via di mezze fra l'ollimismo  — per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è  “sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute an-  che parziale è impossibile. Il pragmatismo è melio-  tristi: per esso il fuluro sarà di più in più migliore  del vresente come il presente è migliore del passato.  E la possibilità anzi la probabilità della salvezza per    (1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal. Univ.  specialmente Zesi. VIII pp. 303-331.    (2) JAMES, Will to Believe, p. IX { Schiller: In  Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo Schiller    (1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180.    _    i      mo.    il Pragmatismo 8    ja liberazione dal male e per la diminuzione della  moltiplicità non unificata aumenta in proporzione  del numero e della bontà delle forze iiberatrici.   Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e lot-  tano con noi?   Allora la incertezza della salute è ridoita di mol-  lo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buo-  no. Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipo-  lesi di Dio; per questo gli uomini religiosi del tipo  pluralistice hanno sempre credulo in Lui (1). Ma chi  accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovru-  mane (2), deve elaborare il concello di queste in mo-  do da accordarlo con le esigenze e con le verità ope-  rative di tale dollrina. Quindi: la realtà divina (o le  lealtà: vedremo più sotto se al singolare o al plura-  le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi-  duali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussiste-  re le possibilità, le indeterminazioni, la libertà e quin-  di la incerlezza del futuro; dev'essere personale al  iagdo nostro, poichè diversomente ci è impossibile   1 mità con essa: in una parola: può e deve es-  SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente  RT Ta Tio onnipotente. Noi non sappiamo che  Alon Si Di s7ranico alla nostra natura; noi vo:  FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in  Tondo dr 5 amen e umano, al mondo in quanto è  ONT sperienza. Noi e il mondo di cui siamo  Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia;  RSA la f apporti reali, non puramente astrat-  CES col mondo deve esistere nel tempo e   una storia, deve quindi escludere la staticità    È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191.  IESUe i celli accetta il pluralismo con tutti i suoi pericoli e  Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du solo per rendere  Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui reli-  Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al  tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo  sulla AT i mezzo — che è la via aurea — perchè conta    a dleì temperamenti umani. I più degli  sono dai i . I pi egli uomini  : si EONANO I SIANZA dei due temperamenti opposti: a questi    mamente ul tipo meltorislico del telsmo,. Ivi, p. 193-    Pragmatismo - 6    v    PEPE], Pg ASS RE. I RARE          1 pragmatismo    È s2 La Religione ne    ,”  ed avere Un ambienté    esiratemporale dell'Assolulo  esterno come noi. essere, IN una arola, uno degli  euch, UD mombro del mondo pluralistico, una conti  nuazione di esso (1). i ;  Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può con:  cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente _.  ‘dice il James — purchè sj ammetta la sua finità; è  Vunica via per sfuggire a tutti gli assurdi e gli 1n-  convenienti che por sè l Assoluto (2). Tuttavia  il pragmatismo inclina evidentemente al politeismo,  alla concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss!  occupa di una frazione dell'universo; © di una ge-  rarchia di coscienze inferiori che vanno dalla c0-  d una suprema, senza soluzione    scienza della razza ® | i  a non è infinita perchè  di continuità; © la suprem infir  ‘sintesi di coscienze finite (3); © è — dice il Boutroux  — ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli    idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori pos-  sono entrare in relazione fra loro, amarsi e compren-  dersi (4): sla qui il suo valore pratico.   ‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto a  rovarci che la loro concezione del divino sì accorda  perfettamente con la religione pratica, con la espe-  rienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la teolo-   ia orlodossa non inquinata dal veleno monistico. —  «Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre Ce-  Jeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Asso-  julo se non questo, che lutti e tre sono più grandi  dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche    fn 9”  cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0    (1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318.    (2) JAMES; Ivi, p. 310-311.  13) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV Let  ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner »: 133-177    0 oo  : ì questa coscienza feclneriana « esistente dietro le quinte ;  da È del mendo» e non ienulicabilc con l'Assoluto dei ° rascenden- ‘  ° talisti, il James sveva già pirlato in una conferenza « sull'im- i  Saggi “Pragmatisti: « L'ime |    i    | mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr:  (mortalità dell'anima » p. 199,    (4) Op. c. Di JI.    =    Il Pragmatismo 83    di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente fini-  to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti  locali e personali » (1).   La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio par-  ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po-  veri framinentli finiti del tutto (2). In nessuna religione  il Divino, il principio dell'aiuto e della giustizia, è ri-  guardalo come onnipolente in pratica (3).   Il politeismo originario dell'umanità si è svolto solo  imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il  monoteismo stesso, in quanto è veramente una reli-  gione e non il tema di conferenze universitarie, ha  sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un  primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre-  sicdono alla storia del mondo e la formano {4). Il tei-  simo pratico e popolare è sempre stato piu o meno  francamente un pluralismo, per non dire un politei-  smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo  risullante di più principì indipendenti gli uni dagli al-  tri, purchè gli sì permetta di credere che il principio  divino (dal quale viene l’aiuto) sia il principio supre-  mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E vero che  questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo-  sofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che ab-  bianìo così severamente giudicali. È «unico », è «in-  finito »; l'idea che possano esistere -più dei finiti nn  è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto che il po-  polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti  di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In  reullà la credenza religiosa è semplicemen'e la fede  in qualche cosa di più grande in cui si può trovare la  liberazione dal male. I bisogni pratici e le esperienze    (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,   (2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa.  e svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz  Cfr.: Le Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp.  447-457, anno 1906.    (3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì.  (4) TAMES, Der Pragmat., p. 192.  (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.       pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@    en TEZZE       RR a ge    84 La Religione nel Pragmatismo    dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che  esta: esisle per ogni individuo una porsnza supe:  riore & lui, e a lui favorevole, alla quale può \.nirsl  perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per susci-  tare la confidenza dell’uomo pasta che quel potere sia  assai grande, sia più grande dell'io cosciente, non è  necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conce-  irlo come Un “ jo» più grande € più divino, del quale  io attuale non sarebbe che l'espressione in piccolo:  Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di questi  «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso-  luta. Questa specie di politeismo è sempre stata la  religione del popolo e 10 è ancora (1). La credenza  opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVI-  denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il  mondo ideale è il mundo reale, i supporre che le po-  lenze spirituali intervengano nel gioco delle forse tisi-  Vide che a determinarne gli avvenimenti particolari ». Qui  sta il vero valore di Dio o del Divino e ì praginaUusti  sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.  smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja  mes; e io sono persuaso che questa è L'ipotesi che sod-  ita disfa un più gran numero di legittime aspirazioni del  cuore e dello spirilo: per questo il pragmatismo la fa  sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da  ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate  st Riti sanno che nol abillamo in un ambiente spirituale in-  visibile, donde ci viene l’aiuto; che la nostra anima  è misteriosamente una con un'animu più vasta di cul  noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che  uesta anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu-  rale e più probabile è ammettere che VI ha un Dio, ina  finito, sia in potere 0 in sapere 0 nell'uno e neli'al-          } tro (2).  1:4% (i) gas, L'Erpér. relig., DD, 194495 -  7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si trovano le parole sottoli  î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli. — A_PAE: 125 è più    Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2 Giovanni Mul il quale  DI aveva detto che bio non può essere oggetto di religione ine  L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To credo che  : unicamente un Dio finito è degno di questo nome », appunto  perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.    * bd  mici dissi a    = o    Ie Les E così è sciollo il problema del male. Im questa con-  cezione Dio non è responsabile dell’esistenza del male,  non lo sarebbe nemmeno se il male non dovesse mai  esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto, -  il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo prin-  cipio in Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale asso-  lutaumente alla religione — dice lo Schiller — come sì  salva? Ebbene ammettiamo che fin dall'origine il mon-  do è un insieme di principî distinti, che il male non è  parte essenziale, ma un elemento indipendente e la  bontà di Dio è salva: il problema teorico del male è-  sciolto.   E col leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è  essenziale, come parte dell'Assolulo, il male è indi-  struttibile; se invece è elemento non appartenente al-  essenza della realtà, noi possiamo sperare di poter-  Ì lo espellere (il male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a  le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee  ha subito l'influsso degli assolutisli, concepiscono di  fulto il male come dovuto a un potere che non è Dio  e ne è in qualche modo indipendente: è denominato  variamente: «materia », « volontà libera », 0 « il dia-  volo ». La onnipotenza di Dio dei teologi non è quella  dell’Assoluto: essa è dipendente da necessità metafi-  siche (2). HE   Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala  col criterio del valore pratico sulle rovine della critica.   È dell'Assoluto e del leismo scolastico e in armonia col  si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle.  4 esigenze umane del divino; è salva la libertà del-  l'uomo: è dato un fondamento alle sue speranze è al  suoi desideri di salule ed è resa possibile la massima.  intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento e  intimità morale, cioè la vera religione, che tanto ha  operato e opera sulla condotta. :  Noi chiediamo ; « Di che natura sono le reallà spl       TOA =             (1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. . “A  () ScHILLer, Stud, in Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,,         - -.86 La Religione nel Pragmatismo    ; P,   rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James (1).  Chiediamo ancora: ‘ esistenza di Dio è un puro  "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè am   mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re-  | ligiosa, è reale, che ha un'efficacia reale e che tutto  | accade come Se una forza sopramondana agisse diret-  tamente sul mondo dell'esperienza umana (2); am  mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale va-  lore pratico quando è affermata con fede, specialmente  coloso com'è quello del pluralismo ;    ‘in un mondo peri  ina noi sappiamo dal James stesso « che certi oggetti  ovocano in nol delle reazio-    uramente intellettuali pr C i C î  ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o reali (3).  Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà    sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen-   dente per sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in-   dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer-   -  miamo lale?   e TS il pragmatismo questa domanda non ha sen  -S0; richiamiamoci alla mente la sua dottrina della  verità, della realtà e della conoscenza.   Una dottrina che nega il valore rappresentativo dei  concetti e professa il nominalismo; che dichiara di  te abbandonare la logica francamente, recisamente ©  irrevocabilmente (4) » non può condurre che all'agno-  slicismo e allo scetticismo. È  Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione   pragmalistica del criterio delle conseguenze alla reli-   gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui.  Che cos'è la religione? È assai probabile che nen    e che quindi è impossibile definirla. « Religione » non  designa un principio unico, ma piuttosto una collezio-  ne: non v'è un'emozione religiosa elementare, come    (1) L'Expér. relig., D. 136.   (2) James, L'Erper. relig.. D. 433,  (3) Zut, p. 45. ù   (4) A_Plur, Univ., p. 24.    arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-       Il Pragmatismo 87_    non esistono nè un oggelto religioso nè un atto reli-  gioso specificamente determinati. Se è impossibile da-  re una definizione astratta della essenza della religio-  ne non è però impossibile delimitarne il campo e in-  chiudere in una formula i lraiti caratteristici empimci  délla religione. Una divisione salta subito agli occhi:  tra istituzioni religiose (0 religioni stabilite) e religioni  individuali (0 personali). La religione stabilita è un in-  sieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici  propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si  può definirla: un'arte pratica di assicurarsi il favore  della divinità, La religione personale è la vita interio-    re dell'uomo religioso; gli atti che essa produce sono |    personali, non rituali ; l'individuo sbriga da sè i pro-  pri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli, coi  suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa  in ultima linea. Si può definire: «le impressioni, i  sentimenti, gli atli dell'individuo preso isolatamente  in quanto si considera in rapporto con ciò che gli ap-  parisce conie divino » (1), comunque poi s'intenda que-  sto divino: come legge dell'universo, come anima del  mondo o come un Dio personale.   Parliamo anzitutto del valore della religione in senso  personale e poi del valore delle religioni o istituzioni  religiose. — Per quanto grande sia la differenza con  cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli  altri elementi del pensiero, anzi, per quanto diverso  sia il principio stesso religioso nella molteplicità delle  sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi possiamo  affermare che le credenze più caratteristiche della  vita religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che  una parte d'un universo invisibile e spirituale, dal  quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine dell'uomo  è l'unione intima, armoniosa con questo universo.    (1) James, L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons  exclusivement par le divin une réalité première de telle na-  ture que l'individu se sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle    ‘une attitude solennelle et grave, en Jaissant de coté tout  blasphème et toute plaisanterie » (p. 34). — Son io che sot» |    tolineo.    (2) JAMES, L'Expér, relig., P. 406,    tas dee tie. nea          880. La Religione nel Pragmatismo   9.0. La preghiera, cioè la comunione con lo spirit   dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente una  ; legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne  i risulla un influsso di energia spirituale che può mo-  “A ‘ dificare in una maniera sensibile (anto i fenomeni    materiali quanto quelli dell'anima (1). (ei   Nella valutazione di queste credenze il criterio non  sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eolo-  gico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto .  sì conosce. l'albero. E poichî nella religione il senti-  mento vi ha la parte fondnmentale, vediamo qual'è  il valore affettiva della religione. Tolstoi ha detto che  Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli-  gioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dine-  mogenica che tonifica e rianima la potenza vitale:  aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli oggetti  più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se  la religione non avesse che questo valore soggettivo,       IR non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza  } $ nessull contenuto intellettuale, vera 0 falsa che cessa  RAI — fosse, nol sarebbe meno una delle funzioni biologi-   UU: che più importanti della specie umana; ciò che ha  SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non è  373 Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio    2: non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2).  Ma la religione ha anche un'immensa fecondità  pratica sociale.   JI frutto della vila religiosa è la santità, che inchiu-  de in sè tutto ciò che di meglio ci abbia dato la sto-  ria. La santità ha avulo bensì delle manifestazioni  ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE  n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive-  lavo nei santi dei precursori © dei creatori. La san-  lità accresce nel mondo în somma di energia mora:  le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con la    (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le  varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza  e per quali ragioni. 2   (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas dire    que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire que  l'on s'en serta,   sua forza d'animo, col suo amore eroico pei mise-  rabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è  un fallore essenziale del benessere sociale. La reli-  gione è la condizione necessaria di certi effetti, la  «fonte dei quali nè l'individuo nè la società hanno sa-  | puto trovare altrove: il disinteresse, l'energia, la per-  severanza (1). : 2 BAR   Olire questo valere affettivo, o biologico, indivi  duale e svciale, la religione ha anche un valore in-  lelleltuale? Questa questione si divide in due — dice  il James: — «Solto la moltitudine delle credenze vi  sono delle affermazioni comuni? » E: «sono vere tali  affermazioni?» La risposta alla prima questione è  affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali —»- —.  d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S  in noi c'è qualche cosa che va male, e il sentimento  che noi siamo salvati dal male entrando in rapporto  con esseri superiori — con qualche cosa più yrande  di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi della reli-  gione personale e il perchè del suo immenso valore  sulla vita. Ma che cos'è questo qualche cosa di più  grande? È reale o immaginario? Come possiamo en-  {rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità  della religione?   Xispondeve a quesle questioni impiicile nelia  se-.  conda è costruire delle sopracredenze (surcroyances)  individuali e collettive, tutte buone se aiimentano il  nucleo vitale della religione. Vi possono essere e vi  sono di fatto tante aggiunte individuali alla credenza  unica quanle sono le anime o i lipi religiosi (2), Il  «rapporto col divino potendo essere, o essere inter-  { pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale,   «Si capisce come possano nascere delle costruzioni 7A  _ losofiche e leologiche — delle quali abbiamo visto  | Valore — e anche come sorgano le Chiese (3).  . James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil       SA (1) JAMES, L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX.    E)  (2) JasrEs, ivi, pp, 406 e 423-125, — Ci è nota la sua  croyance. 0%   ‘La Religione net Pragmatismo    pragmalisti — non ama — a dir poco — le Chiese,  con la loro organizzazione, coi loro. dogmi, con le  loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita inte-    AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es:  sere giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti  della vita religiosa sono sommessi alla giurisdizione  del buon sense (2) e dei pregiudizi filosofici e istinti  morali — dice allrove (3). Ed essendo questi pregiu-  ‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti, essi  stessi, dî una. evoluzione empirica incessante, anché  le idee religiose si andranno incessantemente modi-  ficando. Dal giorno che ìi frutti di una data forma re-  ligiosa perdono ognì valore, dal giorno che la vec  chia credenza è in contraddizione con un nuovo idea-  le; dal giorno che la ragione la dichiara lroppo pue-  rile, troppo assurda o troppo immorale... essa cade  trascinando, nella sua caduta, il Dio creato dall'uo-  | mo per «servirsene » (4). E noi confessiamo che in i  una dottrina interamente antropocentrica, nella qua- d  le l'uomo è la misura di iulte le cose, cioè, le esi» È  enzo, i desideri e gli interessi umani nel modo che  s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino &  un certo punto: Ed è naturale che il pragmatismo  creda di fare un mondo di bene alla religione € alle  religioni. Ci dice lo Schiller: Il pragmatismo jo uma  nist,0) ha dimostrato che la volontà di credere sta.  ulla base, non solo della religione, ma di qualunque  - gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi,  la sfera dei iudizi di valore non è coestensiva solo |  |» alle verità religiose, ma a qualunque verità: la fede i  lia così cessato dì essere un ‘avversario e un sosli- i  | futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo |  essenziale. ‘  Come potrà la ragione contestare la validità della    dor: L'Erpér. relig., speclalinente Chap. IK, pp. 281-293:  IA Ivi, p. 293.   (9) /vi, p. 281. 7  (4) Ivi, p. 272. — Pel «s î  actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita ancora il Lepba L  lì Pragmatismo dI    fede, se la fede è essenziale alla sua stessa validi-  tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni (concrete)  possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che  l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi del-  la nalura umana e verso le evidenze e i metodi delle  religioni. 1l pragmatismo, affermando il fatto reli-  gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza inte-  riore e dei risultati individuali e sociali, rende vani  gli altacchi razionalistici e mette la religione al sicu-  ro dalle confutazioni dialettiche. Il pragmatismo inol-  (re, come si è mostrato un eccellente « eirenicon » tra  le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon» non  meno efficace tra le religioni. Non è vero che lutte  operano (in senso pragmatista) in una cerchia più o  meno vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro  parle veramente vilale, attiva: e che importa sc dif-  feriscono teoricamente? Terzo beneficio: il: pràgma-  lismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in esse  di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed  csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce. — Che cos'è  la parte non-funzionale della religione? È il suo lato  teologico (2). 18 qui una tirata contro i sistemi teolo-  gici, contro le infiltrazioni della metafisica greca nel  « Credo atanasiano » e contro l’identificazione di Dio  con «l'Uno». Già! — La conclusione possiamo ac-  cettarla anche noi, ma basandola su fondamenti af-  futio diversi da quelli del pragmatismo: «La reli- 5  gione più vera è quella che proclama una vita mi- $  , gliore e la promuove» (8). ;  (1) Stud. in Hum., pp. 352-353.  | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p. 363.  | ,..(8ì E la conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri    ligion in: Stud. in Humarism, p. 369: «the truest reli tons  that Which issues in and fosters the best life», Rd       A    eri della Logica formale nella con=    Sommario: S 1. Caratt  — { 2. La validità formale.    cezione dello Schiller.    gi. Lo Schiller (1) sotto il nome di « logica formale» inchiude e condanna non solo quella che da al  tri è designata col nome di « logica formalistica » mn    anche la logica formale propriamente detta, e, cri    | licando e condannando quella, presume di aver cri    ficato e condannato anche questa, cioè, in blocco, .  tulla la logica tradizionale e classica, alla quale do-  vrà sostituirsi la logica psicologica, 0 psicologistica,  cioè quel complesso di leggi o regole o norme del  pensiero che risultano dall'analisi psicologica del pen    siero, ossia dalla considerazione dei processi del pen- |    siero, non in una pretesa forma di esso di  materia idel concetto, del giudizio, del raziocinio con:  siderati astraltamente nella loro forma verbale di  temine, proposizione € sillogismo considerai9 esso  pure, a sua volla, astrattamente), ma nel loro sor-  gere e syolgersi allraverso la fitta rete psichica di  Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello psicologi  smo e della forma speciale di esso offertaci dal prag-  matismo, insomma. Una logica & posteriori risut    1) F. C. S. SCHILLER. — Formul Logic. A sclentifle and s0-  cial Problem. ——> Un yol, in:8 pp. XII-123, Macmillan and 0.9,    ‘London 1912.    stinta dalla |   er selezione, non a priori, una logica, pare,  SOA sì, ma indotta in base a postulati, non  dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura  del pensiero non esistono; quindi ogni logica è neces-  sariamente empirica nella sua origine e nel suo va-  lore. E così con la logica sillogislica è condannata  anche la logica del concello col solo semplicismo che  abbiamo imparato a conoscere altre volte nello Schil-  ler. Ma, evidentemente, prima di condannare in bloc-  co, bisogna vedere se tra la logica formale e forma-  lislica c'è idenlità, o se non c’è invece una diiferen-  za radicale che impone una pertraltazione a parle e  radicalmente diversa di quelle due discipline. La lo-  gica formale vera è la dottrina della forma unica del  pensiero: il concelto, come sintesi di individuale c    come concelto universale contro, come scienza del  concetto puro. Per essa la forma verbale in cui si  suole incarnare generalmente il concetto non ha nes-  sun valore logico e si guavda bene dal cousiderane  le distinzioni verbali come distinzioni conceltuali 0  l’identità di forma verbale come identità concettuale.  La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti  le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei  giudizi le modalita e le specie delle proporzioni, lra-  sporta nei raziocinì le figure e ì modì dei sillogismi:  anzi la distinzione stessa delle forme logiche in con-  celti, giudizì e raziocini è nient’allro che una proie-  zione di forme verbali nell’altivita del pensiero. Per-  ciò la logica formalistica qua talis, non ha valore  speculativo (logico in senso vero), ima solo empirico  © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con piu o meno pretese  (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo  51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila  "a discussione delle idee; è un'arte in senso di tecnica,  9 meglio, è una collezione (non connessione) delle  forme del discorso empirico umano, una specie di  leltorica 0 grammatica messa a servizio non del par-  lur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è fino  a un certo punto praticamente utile come tutte le.   discipline descriltive assunte a discipline nurmative  d    universale, come storia o guidizio sintetico, a priori, . DA | Sèhiller e la Logica Kormale    e precettistiche, ma non ha valore speculativo, ron   ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del pensiero   necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le forme  esteriori, arbitrarie è quindi componibili € combina:   bili all'infinito. - .   I Jo Schiller na un buon gioco @ mostrare il caral-  tere arbitrario di questa logica, la astrallezza di essa,  la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può  anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della  mente individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs nol .?   ossible t0 abstract {rom the aclual use of the logical |  material and lo consider — forms ol lought — @ 4  Ihemselves, voilout incurring thereby @ total loss,   1’    hi    nol only of Wrui, but also of meaning ” (IX). i  s 2. — Ma con ciò non si è déito che ba ragione @ |  ‘non riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica, |  tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale cu- |  mè la chiama erroneamente lo Schaller), c'è la logica i  formale vera secondo la quale la maleria è fusa nel  la forma, poichè per èssa la forma logica, concel-  ‘tuale, sintesi di materia e forma, di pensiero e lup-   ‘esentazione: è forma Non astratta me concrela ;          e tulto il pensiero reale storico perchè appunto sun: f  (esi univarsale individuale: è il razionale-reale, il fl  concetto.   È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0 psicologi- |  stica! Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di #  meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì  trova neanche quella apparenzà di necessità e di as-  Solutezza che la logica tradizionale ci oifre, sia pure  solto una forma astratta e verbalistica. Finchè non  si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro  e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà  nulla più che un saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario,  dall'astratto ali’astratto e un aggiungere al mele 131  nuovo male o una forma nuova del male. L per yite-  nere questo scopo non mette certo conto di scrivere  un grosso libro come questo.   Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che lui    ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1o-  Ml Praqmalismo' (h)    gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia pos-  sibile considerare la «validità formale» come una  cosa a parle e indipendente e astrarre dalla verità  «materiale »; 2° la credenza che sia possibile tratta-  re la iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrar-  re dal contesto atluale in cui le asserzioni sorgono,  tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc.  (P. 375) e se avesse poi esaminato con più spassio-  natezza la logica del concetto-sloria, non avrebbe for-  se futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi-  zionale cd avrebbe trovato che parecchie delle sue  critiche sono state già fatte da altri, i quali non sen-  lirono però il bisogno di sostituire, come fa lui, le  elichelte psicologiche alle elichette della logica for-  malistica. In questo libro c'è molto del buono anche  perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una  domanda sempre crescente di concretezza ce, anzi,  pare a volte che lo Schiller abbia colto il centro della  critica e della ricostruzione. Purtroppo i: pregiudizi  pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un  punto di vista superiore; anche lui, pur nella lotta  contro gli schemi e !e elichetle, maneggia schemi ed  etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon  pragmatisla, ne è consapevole.     := & | La reazione contro l'intellettualismo. — Verità e ‘utilità. |    gi, — Del pragmatismo non si parla più che com   di un indirizzo di ricerche e di asserzioni, che ha avi |  {fo il suo proverbiale quarto d'ora di celebrità pei  scomparire per sempre e senza visibili influssi sullu  svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata  da une reazione all'intellettualismo razionalislico ed  empiristico, che non sapevano valutare l'attività de:  soggetto nella creazione del mondo del pensiero €  della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:;  nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha  sapulo nè volulo evilare, con una doverosa distin:  zione dì logica e psicologia, lo scoglio terribile dellà  formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte lt  cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici  sino, È inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso;  fia a un prodolto dell'individuo, © ad espressioni del  la nostra soggellività volitiva e i giudizi scientifici  speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos  sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima  immanente e ascendente dell'essere o del divenire  con l'affermazione della universale soggettività e Ie  ‘natività; posto l’utilitarismo a base di ogni costruzio:  ne concelluale e considerati, quindi, i concetti com‘  funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0  ciale, il pragmatismo si risolve logicamente in uni  rinunzia a fi osofare. Può essere metodo per sè, I i UT  Il Pragmatismo    : i lla vita colta  non filosofia sc IRRMIgSORE E So  nella sua razionalità e nei s o ve omalismo profes-   E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso non ha  sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan:  dog int aa istcao mon è forse una dottrina?  Magli vamestto he riassume il me-  Non è una dottrina la formula c arsi tutte  todo pragmatistico: « Sono er 6 da acco utili  le neri SAS SIE n è forse implicito  alla svitaza in: ilitari ico e, insieme, il  n più Sconto no leorecot È esp ducslo ab:  Dima definito, credo, Felino due aspetti più es-   ziali la teoria pragmati nd AR   Sa CLES Della quale non è qui il luogo di TISIRLS  estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D  pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al-  l'eccesso opposto nella sua reazione all intellettua-  lismo, perchè ha negato addirittura il concetto come  tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso, vano,  perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in-  dirizzo, quella che, purificata di tutto l’utilitarismo +  materialistico che troppo spesso la intorbida, si può  esprimere nelle parole evangeliche: «Dai frutti co-  noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso spirituale  altissimo della parola — è un aspetto della verità:  la verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma,  non dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a  propriamente parlare, perchè e in quanto è utile, ma  è utile perchè‘vera.   .La verità metafisica e logica di una idea e di un  Sistema d’idee è il fondamento di tutti gli altri at-  tributi dell'idea e del sistema e di tutte le loro cor-  rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.       Yogi Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie: « The Pych  Zev. » Parini, Sag-  gì pragmatisti, R. Carabba, Lanciano; Ugo SPIRITO,  JI pragmatismo nella Jilosofia contemporanea, Firen-  ze, Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su  James, Milano,. Ed. Athena 1924.  | Segnaliamo poi, nella ricchissima bibliografia del-  argomento — oltre ui molti scritti segnalati occasio-  almente nelle note — le seguenti opere: G. VAILATI,  Scritti, Firenze, Secher 1911; G. Papini, Sul Pragma-  | lismo, Milano, Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato  ‘dal Vallecchi nel 1920); M. CALDERONI è G. VAILATI, IL  $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, U. SPr-  “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O. CAM-  7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce»,  IT.    I.    III. —    INDIVI    - LUO   LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo anglo-americano. Pragmatismo e Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA  REALTÀ.La condotta.La  dottrina dolla verità. La dottrina  della realtà. LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. Lo preoccupazioni etiche e religioso. L’esistonza di Dio. Il concetto di Dio.Religione e  Religioni. SCHILLER E LA LOGICA FORMALE.Caratteri della logica formale nella  concozione dello Schiller. La validità formale Ù 5 5 9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione contro l’intellottualismo.Verità e utilità . È. NOTA BIBLIOGRAFICA .  I MAESTRI DEL PENSIERO.    VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE   i)  ei n VALENTINO PICCOLI À {  Bi: INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA. ROTTA PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY |  IALENTINO SETCOO LI ! GIUSEPPE TAROZZI |  PLATONE LOCKE |  S: PICURO. E. PAOLO LAMANNA  AAA ° "KANT 6000  V. ARANGIO-RUIZ na *  LOTINO GIUSEPPE MAGGIORE |»   FICHTE    HQ    P. E. CHIOCCHETTI  AGOSTINO PIETRO MIGNOSI  E. CHIOCCHETTI SCHELLING |  "S TOMA ASO GIUSEPPE MAGGIORE |  CHIOCCHETTI HEGEL i  S. PONAVENTURA Big ni x  TISSI  c ARTESI O SCHOPENHAUER i  Fa PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI  o SPINOZA STUART MILL  “50 »ALENTINO PICCOLI E. MORSELLI  Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P. ROTT _ SEINOZS  x ì. MiGGIONE HEGE  ZINI =. 2 SoioFENnAUER  P. LAMANNA — KA  MAGGIORE — FIGI TITE  . E. CHIOCCHETTI — S. TOMASO  VICO    "TISSI _ GATESIO  MORSELLI. COMTE   BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO    IRINA  Kc}  fe3: Emilio Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher, and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica, Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Chiodi: l’implicatura conversazionale dell’esistenti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Corteno Golgi). Filosofo italiano. Grice: “I like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” Frequenta le scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida di Credaro, che lo avvia allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò sotto la guida di Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò/ Qui entrò in contatto con Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il personaggio di Monti.  Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, C. entra far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia di “Piero”. Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle), insieme ad altri patrioti. Narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici italiani.  Dopo la liberazione di Torino, C.  torna ad Alba. Si trasfere come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne la libera docenza e fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino. L’Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la filosofia e negli fu conferito il Premio Bologna.  Alla ristampa di Banditi C. premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia».  Raccolse grande stima ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio.  Attività filosofica L'attività filosofica di C. si concentra specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Heidegger.  Egli è il primo traduttore in italiano di “Essere e tempo.” Proprio a C. si deve la definizione della terminologia heideggeriana in italiano, divenuta poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione di “Dasein” come “esserci”, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non ancora raggiunta in questo specifico caso in altre lingue. Al filosofo tedesco dedica anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger, L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e fenomenologia. È, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento e Sentieri interrotti. A Kant dedica, invece, La deduzione nell'opera di Kant e ne tradusse la Critica della ragion pura e gli Scritti morali. È infine da ricordare il suo interesse per Sartre, del quale si occupa nell'opera Sartre e il marxismo.  L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di C.i, per cui il valore della libertà occupa sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio fa rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Lajolo «Il più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità) e da Fortini “un capolavoro.” Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come nel comico».  Opere C., Banditi, con introduzione di Beccaria, Torino, Einaudi, C., Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici Italiani, su restellistoria.altervista.org. C., Banditi, Torino, Einaudi, Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati politici italiani Esistenzialismo Heidegger Opere di C.,.  Biografia di C. nel sito dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi Fenoglio C., su centrostudibeppefenoglio.Antifascismo Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality, maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Chitti: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Citanova). Filosofo italiano. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione.  Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti patrioti del tempo.   Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, la principessa di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la restaurazione ha la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, e quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ha l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si reca a Bruxelles.  In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli confere la licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture sono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento. Pubblica altre saggi ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli conferì la carica di professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi saggi e strinse amicizia con GIOBERTIi, che lo define valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimane in Belgio. Altre saggi: “Trattato di economia politica o semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì. New York Daily Times pag. 4  Daily Free Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley Online Library  Vincenzo De Cristo, Prime notizie sulla vita e sulle opere di C. Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno, Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-  cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti. Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬  rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in « Giornale degli Economisti ». Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in «Archivio di studi corporativi », Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corpo¬  rativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in « Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in «Rivista di Politica  economica » Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traen¬  do alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della «Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in « Lo Stato »; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », ;  e dello stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in  « Studi sassaresi », ; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM, Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Problemi del Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in : « Rivista di Politica Economica »,  (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬  gli individui dei gruppi animati di una coscienza corpo¬  rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo benessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una « economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli economisti»; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino,  e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », ed Economia corpora¬  tiva e politica economica, in « Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incompren¬  sione degli economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li-  erali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬  nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬  scito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda-  mentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬  mica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pub¬  blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬  sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia  corporativa, in « Critica Fascista »;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬  logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma italica », e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  «Giornale degli economisti»,  (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-  guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-  rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara; Spirito U.: La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che  m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pensiero di Hegel e di Marx.   Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-  sione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬  diente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze).   Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e attualizzata, in «Critica»; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬  cali e Corporativi », Ferrara; Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», e dello stesso: Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni (Archivio di Studi Corporativi) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬  zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!).   La nostra divergenza ideale con l’economia degl’idealisti non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista  di Politica Economica»). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  e correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non euclidea.   Papi U. : Un principio teorico deW economia corpo -  rativa, in « Giornale degli Economisti », e  più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano regolatore). Vinci F.: Il corporativismo e la scienza economica  («Rivista Italiana di Statistica» etc..  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬  l’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatis¬  sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente:  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  «La Riforma Sociale», pag. 150-174. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in  « Echi e Commenti », e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat.  trib. »e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357;  Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬  butario, « Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto  del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ».  Roma, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara. Fra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento cor¬  porativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬  sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4  del 1929), e Genco («Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere impo-  sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un con¬  tenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-  stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finan¬  ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-  Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli  1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Cor-  porativo in « Echi e Commenti », e dello   TTr- A r- ,ane r e   in «Giustizia tributaria»,; Gangemi L-   rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-   Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e   S“,° Ì 93 £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili   (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Ales¬  sandria Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni   m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,  CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-  guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore».   Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬  retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬  senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬  portanti suoi compiti.   Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni dell’economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬  stema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-   Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia.    nosce che l’opera del primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato ».   . Nello Stato corporativo anche la politica finaziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato — qualora rispetti il principio della pro¬  prietà privata — si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda.  E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corpora¬  tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’ob¬  biettivo prefisso.   Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maf¬  feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova-  tori sistematici ed i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cicerone: l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably the Scipioni!” --  Marcus Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy. This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls humanitas  a coinage whose enduring influence is attested in later revivals of humanism  and it alone provides the foundation for constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached  much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness and originality.  “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed courage. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei se­gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­to – le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere so­cio-politico, volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere tut­to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”, le “Partitio­nes oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­rossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” con­densa l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si tro­vano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­tecedente p che permette discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario -- l'im­pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indi­zio di colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua relazione temporale con il fatto crimi­noso -- anteriorità, contemporaneità, posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione del segno proposta da Cice­rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­pare infatti all'interno della teoria dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ) , o la dimostra in un mo­do necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza argomentativa debole – “probabili­ter ostendens” -- e un'inferenza necessaria – “necessarie demon­ strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­vato diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv. , l, 86. Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­lazione inscindibile – “cum priore necessario posterius cohae­rere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" -- De inv., l, 46. Con questa definizione, Cicerone mette in evidenza due caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.”  (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ne che per Aristotele definine il verosimile -- Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi, compare come una sottopar­tizione del segno non necessario, accanto al “credibi­le” --  all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a crite­ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­za particolare. "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­stri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra deri­vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv. , I, 48. Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non vo­lontario. Qui sono presentati in una forma non proposizio­nale. Ma niente vieta che venga sviluppato in proposizio­ ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa­ mente latinizzata. Dall’altre, l’indizio -- qui chiamato  “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione” (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia. Tut­tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­digma divinatorio all'interno del fatto semiotico, anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrin­seco, in particolare tra quello che riguarda lo stato di cau­sa congetturale. La congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria rei ( Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­sponde all’”eikos” aristotelico, di cui ha il carattere probabili­stico e generalizzante. La “nota propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che riman­da alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Ari­stotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carat­tere di necessità e si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­gnis, l, 12-16). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non define QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cor­nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum) vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista episte­mologico per la sua insicurezza, Cicerone è pronto a rico­noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­zione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­rali) e prova extratecnica corrisponde la distinzione tra di­vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­micamente rileva (De div. , II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­losofia a fondamento razionalistico, e contempora­neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decrizione, demandata a specia­listi, ciascuno esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle stelle --, in­terpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il  logos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conse­guente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche pro­fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66). In certi casi l'interpretazione è motivata da ra­gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based. His idea is that if x, y.  x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il Cicerone di Rensi.  Spero enim homines mtellecturos  quanto sit omnibus odio crudelitas et  quanto amori probitas et clementia.   C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14    C. Renisi . Vita    parallele ,li due filosofi    4  Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo  Stato legale romano, che già precedentemente a-  veva subito terribili scosse, ma che mediante una  saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo  stesso tronco senza frattura o soluzione di conti¬  nuità, riceveva da Cesare il colpo di grazia...  Non è più necessario rivendicare la grandezza  di Cicerone contro le denigrazioni del Mommsen  e di altri due o tre storici tedeschi (I). Egli non  era una ràbula e un politico superficiale. Bensì  un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,  nel cui animo si radicava e viveva di vita vigo¬  rosissima tutta la grande tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si  può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die  Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal  (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però rivendica  solo il valore di Cicerone come epistolografo e oratore,  non come filosofo.   e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse,  ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della  nuova direzione che quella tradizione doveva pren¬  dere, e della misura e forma in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca :  Demostene e Platone insieme pel suo paese, come  riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto  a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una  passione vivacissima per le cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer „, com’egli stesso dice,  attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneae,,   (Ad Att.) ; e   basta aver letto attentamente le sue orazioni e  aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono  costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine,  una sensibilità in generale per le cose, le persone,  gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui, nella  sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo  interamente noi stessi : e il suo dolore erompente  e pieno di accenti passionali per la morte della  figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri  tempi. Uomo, in una parola; assolutamente completo. Platon, ed. cit., voi. I, p. 745.   (2) Un pensatore di così sottile e sicuro buon gusto  e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente  Il rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi  di poltrona hanno quasi sempre occasione di ri¬  volgere al grande che si è trovato a dover dav¬  vero vivere avvolto da un gigantesco turbine di  avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille  volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila,  come è invece agevole a quelli che non fanno se non  pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto  venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto  nè nella repressione della congiura di Catilina, nè  nella lotta per la salvezza della costituzione con¬  tro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che  chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale.  Le sue incertezze di altri momenti sono unicamente  frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo  fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo  a cataclismi enormi che travolgono gli individui  come fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si trovò,  mentre non può operare contro coscienza, e per  questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche  i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi o-  perando secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella che tracciano le  fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo  giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands  espnts qui aient jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte  fecero, nec ullum in his malis consilium periculo  vacuimi inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando  i frangenti in cui un uomo si trova realmente a  vivere sono davvero quelli così delineati, si può  domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui coloro che poi spulciano  comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro e  diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che  non sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista  Celio Rufo, che a Cicerone da questo consiglio  {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti  sfugga come nelle discordie politiche interne gli  uomini debbano seguire, finché si lotta senz’armi,  la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che  è migliore ciò che è più sicuro „ (Celio Rufo, del  resto ottimo scrittore, tanto che per molti uma¬  nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello  di stile). Ma Cicerone era un uomo di coscienza.  Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,  la causa della sua rovina.   Egli era andato con Pompeo, non già sedotto  dalla speranza della vittoria, ma quando la causa  di costui era ormai pressoché perduta e con la  piena nozione di tale condizione di cose, e mentre  Cesare, Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo  almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime :   secuti non spem, sed officium „ {Ad Div. X 5).  Vi era andato essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di  quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che  poco o nulla c era da sperare da essi circa la  restaurazione della legalità, animati come costoro  erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.), e   chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno  che dai cesariani non si pensava che a far man  bassa dello Stato: “ regnandi contendo est » (Ad  Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est,  non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea  d una guerra civile e unicamente in obbedienza a  considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza  che ci costringe, scrive ad Attico (X ,8), a stac¬  carci da Cesare più ancora se vincitore che se  vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà  alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et  turpissimorum honores, et regnum non modo Ro¬  mano homini, sed ne Persae quidem cuiquam to-  lerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni  e speranze, unicamente per senso del dovere.   Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me  plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse  Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset  meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel  pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego  prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam  sum profectus (Ad Div.). Egli sapeva  cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza  a yu principio d'onore (pudor) e di gratitudine,  per quel poco che Pompeo aveva fatto onde ri¬  chiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famae¬  que cedere quam salutis meae rationem ducere  riconferma a M. Mario. E ritornando  più tardi in una lettera a Torquato, che aveva  anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae  nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id  faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis  esset victoria. Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua con¬  dotta di quel tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo  editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il  piede in più staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti)  per constatare che tale veramente, cioè il senso del  dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque  adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existi-  matur traiectio (Ad Alt. Vili, 15). E quando  Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte  le parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli si  cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere  stato con Pompeo sino alla fine; “ numquam  enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis  mallem fuisse „ (Ad Att.). Il principio,  insomma, che in un’altra posteriore circostanza,  piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro  Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi ma-  ximae curae est, non de mea quidem vita, cui sa¬  tisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo di Cicerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza,  o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al  rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare  incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli  dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non  mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa po-  tiora „ (Ad Att.).   Certo, un uomo mosso prevalentemente da sen¬  timenti di tale natura, nelle tragiche vicende pub¬  bliche da cui si trovò avvolto Cicerone, va al  fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di  inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo  che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia del¬  l’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni  freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di  coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera  attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo  un favorito potentissimo di Siila, era un pavido.  Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo conso¬  lato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza  di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò  che egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che  titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano  narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus  optime respondit ipse, non se timidum in susci-  piendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio:  mi accusavano di essere timido, “ eram piane,  timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt „ ;  mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura,  quae facta sunt „ (Ad Dio.). Nè è giusto  accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza  le situazioni e di essersi per questa deficienza di  sguardo gettato a corpo perduto a combattere per  soluzioni che la realtà escludeva. È questa la so¬  lita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi  ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel  dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro  colui che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era  giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il mero  fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di  giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa  storicamente prostrata non sia quella che avrebbe  dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di  Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da lui  combattuta e che vinse costituì la rovina della vita  di Roma : basta per accertarsene constatare che  nella stessa nostra memoria di posteri la vita di  Roma resta chiaramente presente e attira la nostra  appassionata attenzione appunto sino ad Augusto;  ci rimangono ancora come appendice già torbida  i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde di¬  nanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di  continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo sto¬  rici di professione) non distinguiamo piu ne nomi,  nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè  c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva Roma Mas¬  simo d’ Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma  quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi,  intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò  la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate  dai più vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre  vittorie che un voto ne’ Comizi „. E poco prima : Se  è giusto e vero il principio fondamentale delle Società  moderne, essere la legalità di un governo dipendente dalla  volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se  1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera  per sostenere la causa che soccombette, erano ina-  deguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto  quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva  cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la  fedeltà dei maggiori personaggi militari e poli¬  tici ; aveva costituito e messo in campo eserciti  poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il  tono morale del popolo all’ interno. Se la causa  non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a  condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite  allo sguardo di Cicerone, o al logos immanente  nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi,  che potevano accadere diversamente e in tal modo  rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo  Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo  può sciogliere la propria mente da molti pregiu¬  dizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è  l’esercitarsi a considerare le cose non solo come  sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di  storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie  l’ha applicato in modo grandemente interessante a  tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi),  scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi,  per l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero  bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose;  se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬  vellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per  portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco  non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe ba¬  stato per far di Cicerone il capo dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di  Roma d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto.  E quanto lo Stato romano e la posterità sareb¬  bero stati più fortunati se il potere fosse venuto  in mano ad un uomo di rettitudine profonda e  di vivo senso del diritto e del dovere, come Ci¬  cerone, anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata luminosamente dal fatto che, avendo  cominciato ancora puer o adolescens, come sempre  Cicerone lo chiama, (sed est piane puer n \Ad  Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo per 1 ap-  poggio datogli appunto da Cicerone e con lo stri¬  sciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat  primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel  non longe a Capua... ducem se profitetur nec nos  sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die mihi  litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano  cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuani  venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi  totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice   et amice Octavius „ — Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,  XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad  una propria maggiore ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli,  si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo  per mezzo dei suoi generali e specialmente di A-  grippa (1), e non aveva il coraggio di presentarsi  nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamental¬  mente istrione e poseur come risulta dal fatto,  narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comu¬  nicava mai nemmeno con sua moglie senza scri¬  vere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché  dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che  egli amava stilizzare a particolare espressività e lu¬  minosità i suoi occhi, “ quibus etiam existimari  volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque   [Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres  laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vain-  quit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est le  seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection  des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une  làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence  des Romains. Tanto Cesare quanto Augusto  avevano l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di  Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto  è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava  citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello  violare il diritto, è quando lo si viola per conseguire la  tirannide citazione signifìcatiice dello spirito violento e  illegale. Augusto amava citare il verso 559: è meglio  per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che es¬  sere ardito (ihf aouc) „ ; citazione significatrice della vi¬  gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio  Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis  vultum summiteret e infine in modo palmare dalle  parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae commode transigisse „) e dalla citazione greca richie¬  dente 1 applauso per la commedia ben riuscita,  con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99). Uomo  che desta particolare antipatia precisamente in  grazia del suo proposito di moralizzare la vita  romana ; perchè niente è più ripugnante del dis¬  soluto che si da il compito di costringere gli altri  alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,  conducendola con sé in un altra stanza donde era  ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi  introducendola in casa propria incinta d’un altro  (ib 62, 69) ; aveva commesso le oscenità che narra  Svetonio, irripetibili, tranne forse una :  “ adultena quidem exercuisse ne amici quidem  negant; e dopo ciò faceva udire le parole am¬  monitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre  i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa con¬  dotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse   [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly  disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume  thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid  aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same  temper, he signed thè proscription of Cicero and thè  pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were  artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si  aveva il senso netto del come si poteva prendere  sul serio una riforma morale che pretendeva at¬  tuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti  precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare  si avvicinasse alla sessantina, Cicerone non. era  uomo che non sapesse comprendere i tempi. Li  comprendeva benissimo, più profondamente e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente  era in pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli  poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che su¬  scitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono  e saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte   ( I ) Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum  esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,  more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi velie-  menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.  lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,   ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui-  mème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre  l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile  de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa  la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait  choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne „  (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli  svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più  decisa, piu energica e più importante, e, insieme,  con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui  ancora non tocca nella forma d’arte che gli era  propria : “ divina „ chiama giustamente un giudice  certo non facile, Giovenale (X, 125), la seconda  di esse. La sua idea di portare alla luce del  mondo politico, sotto la sua direzione, il proni¬  pote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo  (aveva appena diciannove anni), accordandogli an¬  che onori che a molti parevano eccessivi, e di  riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far  rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine  costituzionale e a dominare in tal modo una si-  Inazione difficilissima, era una idea geniale, abi¬  lissima, da politico grandemente avveduto, l’unica    (I) Sull immensa influenza esercitata da Cicerone sui   a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente  r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte  I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella  sua Vita di Cicerone ( Heroes of thè Nations Series „)  dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli  scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno,  la decisione sarebbe ,n favore di Plutarco e Cicerone —  hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane   aonr enVa rf matUra era andato sempre più   apprezzando Cicerone. Ld è proprio giusto il noto giu-   d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può  aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne  etico-politica) cui Cicero valde placebit „ (X, 112).   G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea che in quel terribile cataclisma poteva dar  buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non riuscì,  e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli  del futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬  demente intelligente, un uomo di Stato fondamen¬  talmente onesto come Cicerone, non fa entrare  nel suo giuoco la supposizione di una perfidia  enorme, di gran lunga travalicante la media ne¬  quizia umana, come fu quella di Augusto; nè si  può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare,  e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi man¬  dando a picco i suoi piani più accortamente e  sapientemente elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40 a. C.,  cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, Cicerone  assume risolutamente, nel momento più pieno di  vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Se¬  nato e del popolo romano, come egli stesso scrive  a Cornificio, “ me principem Senatui populoque  romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ;  spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti  quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere   (I) Giustamente Platone osserva (Rep. 409 A-D) che  le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai  malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti  di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa  óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, a-  bilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingan¬  nato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se,  e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni  (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta  scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello  Stato con la prima Filippica: “ fundamenta ieci  reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al gio¬  condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto  faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua  azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic  tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini  aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi  liberique sint : nullum locum praetermitto mo-  nendi, agendi, providendi : hoc demque animo  sum, ut si in hac cura atque admistratione vita  mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem „  (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi mesi  del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli  aveva idealizzato nel De republica : consigliere,  esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei  governatori delle provincie „ (1). Non è questa  la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano  illanguidite.   Ma, sopratutto, a prova della sua esatta com¬  prensione dei tempi, basta ricordare come la ri¬  forma che occorreva allo Stato romano, pessima¬  mente attuata, secondo attestò la susseguente vita    (1) F, Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza I929‘ p. 187).   Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle politique  qu à ce moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom-  me d Etat que ces ennemis lui refusent „ (Boissier, Cr-  céron et ses amis] dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata  prospettata per primo da Cicerone nel De Re¬  pubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più  fermo principio d’autorità sotto forma di un rector  rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae  d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep. V, 3, 4, 6).  Senonchè Cicerone, con molto maggior senso della  necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano  e con molta maggior disinteressata cura di esso,  non intendeva che questa riforma dovesse rivol¬  gersi a distruzione della costituzione esistente, bensì  che dovesse ingranarsi in essa e formarne un na¬  turale complemento e uno svolgimento spontaneo  e logico ; “ homines non tarai commutandarum  quam evertandarum rerum cupidos „ , egli giudica  i cesariani .(De Off. 11 c. 1), mentre per lui la  costituzione romana, come esattamente nota lo  Zielinski, era “ capace di ogni progresso in quanto  questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo  di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui egli  concepiva la riforma e il modo con cui la attua¬  rono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito  dalle seguenti sue due proposizioni : “ me nun-  quam voluisse plus quemquam posse quam uni-  versam rempublicam „ (jdd Div • VII, 3); “ ego  sum, qui nullius vim plus valere volui, quam ho-  nestum otium „ (ib. V, 21). Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps  e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa  nel bell’ emistichio con cui Lucano (1, 150) de¬  scrive il modo di operare di quest’ultimo : « gau-  dens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto  che non solo la mente di Cicerone era nel suo  pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei  tempi (se per questa s’intende, non già furbesca  valutazione personalmente opportunistica delle cir¬  costanze, ma avvertimento delle necessità profonde  che ad un dato momento si presentano nella vita  sociale e politica d’un paese) era perfetta.   (1) Il * ‘ sovversivismo „ di Cesare è provato dal dolore  che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei  (“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant„ —  Svet, Caes. 84), cioè precisamente coloro che nel seno  nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costitui¬  vano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la  veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riusci¬  rono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si  deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti  intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella ple¬  baglia quella sommossa per e attorno al rogo del ditta¬  tore, la quale fece prender nuova forza al cesarismo. “ É  noto come per la commozione popolare che lo straziante  rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali,  se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia  de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con  Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne  vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto „  (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano] Mente possente, senso politico sicuro, compren¬  sione dei tempi piena. Non si può dunque attri¬  buire a deficienze intellettuali il modo con cui  Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui  capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come  la sua figura si è plasmata nella storia, che corona  con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato  in ogni presente la consacrazione del bruto suc¬  cesso di (atto. Lo vide come glielo presentava la  realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo:   Pulcre convenit improbis cinaedis,   Mainurrae pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare  e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Men-  tula) il suo generale del genio. A permettere al  quale di “ mangiare „ (il verbo si usava anche in  latino con questo preciso significato) milioni su  milioni, il commovimento politico aveva principal¬  mente servito. Doveva essere una cosa nota a  tutti, se Catullo la mette correntemente in versi:  Cinaede Romule, haec videbis et feres ?   Es inipudicus et vorax et aleo.   Eone nomine, imperator unice,   Fuisti in ultima occidentis insula.   Ut ista vostra diffutata Mentula  Ducenties comesset aut trecenties ?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impu¬  dico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Ce¬  sare. E press’a poco così lo vede Cicerone.   Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo in¬  teressato dei seguaci e poi gli storici l’hanno co¬  struito: gli storici, i quali (in generale) non fanno  mai altro se non aggiungere, per supino servilismo  postumo, la loro adulatrice consacrazione al suc¬  cesso di fatto e di solito non osano mai, per la  paura di passar per “singolari,,, sviscerare il  clamoroso successo di fatto ottenuto da un “ grande „  nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente  in luce le vere molle, spessissimo casuali, o basse,  o vili, ma sempre invece per essi è “ grande „  colui che nella sua epoca le circostanze, o la  perfidia, o i misfatti hanno portato in alto (I).   (1) “Si vous avez une vue nouvelle, une idée origi¬  nale, si vous présentez !es hommes et les choses sous  un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le le-  cteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais  dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si  vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier  et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que  vous insultez à ses croyances... Un historien originai est  1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels».  Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la  satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile  des Pingouins, préf., p. IV-V). Ci sarebbe solo da ag¬  giungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo  verso i personaggi della storia che vivono. Cicerone vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,  nella vita vera, non nella luce abbagliante del  mito. Esso gli appare screditato, corrotto, senza  senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la  cui vita, i cui costumi danno la certezza che si  condurrà male : e sopratutto la danno la gente che  lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua erat  area scelerum! scrive ad Attico (IX, 18), dopo  uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che  Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza  accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze  i manigoldi audaci e bisognosi (2). Egli scorge   ( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine storiche  di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier  sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge  (p. 269 ) : “ Tout personnage qui doit vivre ne va point  aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a quelque  distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce  personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,  des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les  hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à  un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les  peintres fixent sur la toile ces inventions et la posterité adopte  le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire est une  pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva già  osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes,  corame les autres, aux caprices de la fortune „ ( Grandeur  et décadence des Romains, Ch. 1 !   (2) “ Habebat hoc omnino Caesar : quem piane per-  ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam homi¬  nem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem liben-  tissime recipiebat „ (Fi/. Il,]  radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca  e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dan¬  nate, vexu (<x (Ad Att. IX. 18), “ omnes damnatos,  omnes ignominia affectos, omnes damnatione igno-  miniaque dignos, omnem fere inventutem, omnem  illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att. VII,  3,), tutti i giovani circa i quali pensava che “ma¬  ximas republicas ab adolescentibus labefactas,, (De  Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita  iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barba¬  tuli iuvenes, grex Catilinae » (ib. I, 14), «feccia  di Romolo » (ib. II, I), i precursori di quella che  poi Giovenale denominerà «turba Remi» (X, I, 3);  cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare  è raggruppato tutto il canagliume della penisola,  « cave autem putes quemquam hominem in Italia  turpem esse, qui hinc absit » (IX, 19); osserva¬  zione identica a quella che è costretto a fare il  cesariano Sallustio: “ occupandae reipublicae in  spem adducti homines, quibus omnia probo ac luxu-  ria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep.  Ord. II, 2). Come Catullo, Cicerone vede con  disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al lusso  ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo  (altro comandante del genio di Cesare e sua longa  manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae  coenae? quae deliciae?... at Balbus aedificat „ “(Ad  Att XII, 2) (1), e Antonio scorrazza l’Italia con¬  fi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso  ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante  in un’altra sua moglie, “ septem praeterea coniun-  ctae lecticae amicarum sunt an amicorum ? „ l^/JJ  Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in Cicerone  una nausea invincibile: “ nosti enim non modo sto¬  machi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso-    contiene un’osservazione di indole psicologica e morale  eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa  che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij  péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vulupta-  ria quaerenti nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo pensa a  costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in  verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la co¬  scienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può  dire ho vissuto   (1) La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non  solo nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filip¬  piche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che  stanno a dimostrare una volta di più come, in una situa¬  zione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente  turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo  dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono sop¬  presse dalla forza e la gente costretta al silenzio. — Non  ostante, in un primo tempo Cicerone, usando l’avveduta  prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere  quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della  legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le se¬  guenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in repu-  blicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sen-  tiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur,  deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi „   (c. XI).] lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per Cicerone “ hominem  amentem et miserum che non ha mai conosciuta  neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tiran¬  nide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII,  1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeter-  rime facturum „ ( ib . VII. 12), uomo del quale  “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, so¬  di „ fanno ritenere che non potrà comportarsi se  non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La sua  condotta sarà anche resa peggiore di quel che per  l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella  guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad  arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a vincere.  “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis  civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria :  quae etiamsi ad meliores venit, tamen eos fero-    (1) La stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da  ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immo¬  ralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19). E De¬  mostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe ca¬  duto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli  uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assen¬  nati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità  (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)   sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv  Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti  hanno sempre provato che è vana speranza contare che que¬  ste ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza  morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut  etiamsi natura tales non sint, necessitate esse co-  gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos  vicit, etiam invito, facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9).  E su questo stesso pensiero insiste anche con Cor-  nificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim ci-  vilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant,  quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus  sit, quibus adiutoribus sit parta victoria „. La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare  appare a Cicerone un mostruoso sfacelo dell’eticità  pubblica. “ Tutto allora in Roma precipitava a  rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, po¬  polo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio  d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti  sanguinari la tirannia degli imperatori „ (2). Cice¬  rone vede come non appena Cesare, annientati i  suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica,  ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in   ( I ) Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare  è quello che un veramente grande italiano, il Carducci,  ci presenta nei due sonetti II Cesarismo , che cominciano  con le parole, estremamente significanti e pregnanti,  Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto  Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.   Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,  con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna.   (2) Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche nei libri  di Cicerone.] seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt „ (jdd  Div. IV, 9) al punto che Cesare redige in casa  sua, a suo libito, quelli che devono apparire come  senatusconsulta (Ad Div. IX, 1 5), si formi un’at¬  mosfera di falsità, di servilismo, di adulazione uni¬  versale, tanto da parte di privati quanto di enti  pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento  sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur,  quibus voluntas a simulatione distingui posset «  (Ad Att. Vili, 9); (1) quell’adulazione e quel  servilismo, che, diventati poi a poco a poco ora¬  mai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, sti¬  gmatizza con magnifici versi, facendone risalire  1' inizio appunto al dominio di Cesare :   - V   (1) “ Cette abjection de la patrie releva I’ àme de  Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire de  Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès,  qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes  àmes (Lamartine, Cicéron, Calmati - Levy, 1874,  pag. 167). E’ un libro, poco conosciuto, in cui Lamartine,  in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,  presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati,  la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di prece¬  denti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambi-  tieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les cor-  rompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque, les  barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec  Cesar „ (p. 186). “ Coriolan... n’avait rien fait de plus  monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a  déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui  prennent le succès pour juge de la moralité des événe-  ments „ (154).] Namque omnes voces, per quas iam tempore tanto  Mentimur dominis, haec primum repperit aetas.   Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,   Ausonias voluit gladiis miscere secures,   Addidit et fasces aquilis et nomen inane  Imperii rapiens signavit tempore digna  Maestà nota (I).   Cicerone vede come, appena risultò che Cesare  era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovver¬  sivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure   (1) V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium „  qui non significa il nostro “ impero „ ma “ officio pub¬  blico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usur¬  pazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio  pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di  potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro,  ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribu¬  nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’ impero  si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la  potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi,  che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire :  demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito  democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,  non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se  non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura,  nata per difendere la libertà del popolo, che conteneva  perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide...  costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca »  (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬  nistico comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico.  “ C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa  vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au  regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a restar sempre a galla, “ huic se  dent, se daturi sint „, sia pure perchè terrorizzati,  sebbene essi ora dicano che lo erano quando os¬  sequiavano Pompeo (Ad Alt IX. 5); come essi  se^ venditant „ a lui, mentre i'municipi fanno di  lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il grosso del  pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa  che alla propria tranquillità (“ otium „), non rifiuta,  come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide  dummodo otiosi essent „ (ib. VII, 7), non si  occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini,  nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi villulas,  msi nummolos suos „ (ib. Vili, 13) ; atonia che  si aggravo ancora più tardi quando diventava po^  tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est  populum romanum manus suas non in defendenda   YA/I own , " plaudendo consumere (Ad Att.  AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula-   (I) Anche qui si riscontra un parallelo nella potente  e \ ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci  del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che i  Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece  hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi   iTera^ C ° Sa 'vi ^ ^ Persian ° e fece la Grecia   def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza  (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare   uiterr di bene ** Gr “   j .' , , 1 era un tempo non avere   fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità  e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole   V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale, questo continuo panegirismo or¬  mai diventato di prammatica, non è, per Cicerone,  se non un’universale falsificazione di coscienza,  quella stessa per cui più tardi egli osservava che  i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato  a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della  patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam  esse utile faedissimum et taeterrimum parricidium  patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab op¬  pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf.  Ili, 83) (1). Questa situazione che fa fremere d’or¬  rore Cicerone (2), nella quale egli trova che non c e   salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra  viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella  malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi  creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;  gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil. IV, 11).   (1) In questo stesso luogo, volendo Cicerone dimostrare  che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra  l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler  dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse  dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,  earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam  putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore?  Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei  regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum  romanum oppressisset ? ».   (2) Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di  Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai suoi  scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo  tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità  in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec-  tis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac   Dh - V. 16), gli appare sopraia!,„  basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto  1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera  ufficiale orma, impone, circola larghissimamente  quel malcontento e quell’esecrazione generale verso  ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava  già precedentemente quando essi avevano iniziata  tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium  omnium hominum in eos qui tenent omnia ; mu-  tationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Que¬  sta esecrazione generale, sotto le parvenze dell’os¬  sequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare,  il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in  realta persino “ egenti ac perditae multiludini in  odium acerbissimum venerit „ ( ib . X, 8). Invero,  Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover  esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità  e distanza, così urtante al senso cittadinesco ro¬  mano, che egli aveva finito per prendere : dopo  la sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone che    stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei  seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non  permettete che , vostri diritti siano impunemente calpe¬  stati „ (Dottr. della Virtù § 12). Che è, del resto, il  precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,   SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs   UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r»   G. Reati . Vita parallele di due filosofi  avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo  come Cicerone deve attendere per essere introdotto  da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego  dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad Att.  XIV, 1 e 2) (I).   (1) A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti  i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato »  da Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il  tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia dato  « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (A.  Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa  mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto  che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per  Bruto una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo.  Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello  Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo  caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali  (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le  leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo  Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far  proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,  assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare  od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse  di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e quasiché  questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello  stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più  per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il  sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene.  — Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane Marcello  dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un individuo,  gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare, è  un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per  [Era, insomma, la situazione che un filologo ita¬  liano contemporaneo descriveva di recente crn  tutta esattezza così : “ La crescente potenza di  Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Far-  salo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo  la libertà della vita politica di Roma, aveva, per  primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli    questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle  leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè  precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle  leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no.  — Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto pieno  di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice che  egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè  questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se  non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca  un beneficio, ma si astiene da un maleficio : « in ius dandi  beneficii iniuria venerai; non enim servavit is, qui non  interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De Benef.  Il, 20). Del pari piena ragione ha Cicerone, il quale, ad  Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di  non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva :  questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un  assassino per non aver ucciso taluno : « quod est aliud  beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se  dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111).  E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi  alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia,  poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi  facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto  miratore contentus „ (Ad Helviam IX, 8), il secondo  dipingere nel suo poema con smaglianti colori di gran¬  dezza morale “ magnanimi pectora Bruti „ (11, 234 e s.). ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che  disertavano il partito dei vinti per quello più van-  taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi,  che, r er trar partito dalle circostanze ad accu¬  mular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal  fondo di quella corrotta società, come marcida  fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le cru¬  deltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo  di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella  folla dei concorrenti a quella specie d’albero della  cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello  Stato con le loro mille seduzioni e promesse di  dominio e di saccheggio dei beni pubblici e pri¬  vati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato  in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volon¬  tario, le anime dei virtuosi e degli onesti, fautori  del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva  a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...  Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi  non mai dome nel loro caratteristico orgoglio, il  malcontento per il nuovo regime... La miseria in¬  tanto cresce spaventosamente in Roma e nella  provincia ; lo spettro della fame s’aggira nelle  campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le classi  medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed  alla disperazione... Torme di miserabili si vedono  per ogni dove languire d’ozio e di fame „ (I)   (1) U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus, Torino,  Chiantore, 1932. p. XXVIII, XXXI. Ora, tanto appare a Cicerone falsa e menzognera  la situazione che egli è certo che non può durare.  La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie  circa la restaurazione finanziaria (“ divitiarum in  aerario „) sono cadute; è impossibile che egli e  i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, rie¬  scano ad amministrare soddisfacentemente le pro-  vincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli errori  propri, “ per se, etiam languentibus nobis ,,, “ aut  per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi  est adversarius unus acerrimus „ ; questa tirannide  non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id re¬  gnimi vix semenstre esse posse „ (ib. X, 8) ( I ).   ( 1 ) Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe sopra¬  tutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quel¬  l’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità e  l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo pro¬  cedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di teme¬  rità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura  o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si  pecca d’intolleranza allorché si vuole seminare e racco¬  gliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire con¬  tro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della  riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel man¬  tenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare il  tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali,  le vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono,  invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un  frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei  Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree pa¬  role d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che an¬  drebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale previsione di Cicerone andò incontro ad  nna smentita colossale. Quella “ divinatio „ del¬  l’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo  studio e dalla pratica, aveva la coscienza di pos¬  sedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si  sprigionava vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a quel  popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr.   T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione  dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che vennero  appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso  di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà  1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render  ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padronanza „ (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod  ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis  umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem,  ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem ego tam video animo, quam ea quae  ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex aliqua  specula prospexi tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa  sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento,  Cicerone lo possedeva in effetto. Anche nella circostanza  suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè quello  che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si svolsero  in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in  un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone. Cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi  tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale  e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando  e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in  cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché  Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come  risulta da una sua nobilissima lettera (Ad T)iv.  XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che  gli rimase fedele anche morto, e anche durante  quel momento in cui, subito dopo l’uccisione del  dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesa¬  riani in pericolo — diceva, deplorandone la morte:   che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui,  con 1’ ingegno che aveva, non trovava la via d’u¬  scita, (exitum non reperiebat), chi la troverà  ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la morte  di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose  finirono per peggiorare rapidamente. Anche Cice¬  rone è costretto a constatarlo. Il tiranno perì (egli  dice) ma vive la tirannia (Ad Att. XIV, 9 e 14);    (I) Va però tenuta presente anche la profondissima  osservazione di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que  Cesar pùt défendre sa vie ; la plupart des conjurés étoient  de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits :  et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de  grands avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune  devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part  au malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il  importe peu à certains égards en quel gouvernement il  vive » (Grandeur et décadence cfr. XI). ] d siamo liberali dal re „„„ dai regno (yìj Di,.    /aj' fi marzo non consolano più come  pnma (Ad AH. XIV, 12, 22): " stolta L iZZ  Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus  cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa   ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio  1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con   piu libertà parlare contra illas nefarias partes   xiv r vivo che non ucci - tó   ' X V 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare   vivesse ancora nonnumquam Caesar desideran-  dus , (,b. XI V, 13). Infatti, la situazione era di¬  ventata quale la descrive ad Attico così • “ S ed  vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides  tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exer-  cniis ; vides in latere veteranos „ (ib. XIV 5)   In conseguenza il sistema di governo che Cicerone  prevedeva non poter durare un semestre, durò  invece, continuamente aggravandosi o peggiorando  per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’im¬  pero bizantino.   Ma la fallacia di questa previste   la torio all. mente di Cicerone. E' la fallacia  propria delle menti profondamente razionali, che  hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la  mente di Cicerone era appunto secondo la felice  dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkà-  rungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile   (I) O. c. P . 147.     ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’as¬  surdo vengano a tradursi permanentemente nel fatto,  si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,  quindi è impossibile „ ; questo è per siffatte menti  un canone assolutamente insopprimibile, sradicando  il quale essa sentirebbero di strappar le proprie  medesime radici. A cagione della stessa forza della  loro compagine razionale, è ad esse impossibile  riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda  non impedisce menomamente che essa divenga  realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana  avviene che ciò che all’ inizio la mente scorgeva  come cosa “ assurda », “ pazzesca „, implacabil¬  mente ciò non ostante si realizza. Come buon  platonico Cicerone non poteva a meno di essere  fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov  xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.).  Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva  dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva  giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per  lui una conquista permanente» della civiltà, la ci¬  viltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale  forma di governo il suo spirito si era immedesi¬  mato ; essa faceva parte essenziale della sua co¬  scienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava  tutta la sua vita spirituale. Pensare che tale   [Che tale stato d'animo fosse non solo “ cicero¬  niano „ ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’in¬  dignazione per la caduta di quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente scom-  parire, era come pensare che potesse precipitare  tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra,  il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’e¬  terna legge della natura. Sempre gli uomini quan-  o si sono trovati in una fase di cangiamento   analoga a quella in cui si trovò Cicerone_e   tanto più quanto più la loro mente era fortemente  razionale hanno emesso la medesima errata pre¬  visione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,  quindi non può durare. ( 1 )   prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano  d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic  erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam  perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo  audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in  honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor  gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam do-  mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle  deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit  msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat  impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens nu-  mero postremus ex primo ? „ {Hexameron, XV).   ... ^ osa & nota : lo stesso errore, la stessa   illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si  e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa  esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche Demo-  j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza  di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v  t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per  lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza  costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma, della vita di Ci¬  cerone, è appunto questo. II dramma dell’uomo   oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop-  xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at...  xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT;  xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci  anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea.  Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni  di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le  illusioni in cui il « razionalismo » induce gli uomini. Ma  neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal-  1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,  Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg,  splendidamente vestito, incoronato : con la morte dell’uomo,  secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva  certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sor¬  reggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa  xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione  fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene,  non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura  fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini non  possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a  possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi  permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia  illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti,   1 « razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal  male che sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure  quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè  di essere definitivamente istrutti dell andamento assoluta-  mente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.  Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e  alle deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché  aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque  res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr. V. I 1 30). ] che con disperazione vede rovinare intorno a sè  senza possibilità di salvezza il mondo civile di  cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il  mondo “ razionale „, e trionfare ineluttabilmente,  “ in causa impia, victoria etiam foedior „ ( T)e  Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una  forma di mondo umano “ impensabile „, “assurda,,.  11 dramma della coscienza eticamente desta che  vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione  morale e iniquità acquistare ufficialmente il carat¬  tere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi  a restare definitivamente sotto questo aspetto nella  storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella  mente di Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando  egli è ormai costretto a vedere che non c’è più  speranza, a domandarsi: “ quae potest spes esse  in ea republica, in qua hominis impotentissimi  (violento) atque intemperantissimi armis oppressa  sunt omnia ? „ (Ad Div. XI); quando deve con¬  statare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam  ut allevationem quisquam non stultissimus sperare  debeat „ (Ad Div. IX, I), il suo strazio non ha  confini- Ciò che già precedentemente, quando tale  condizione di cose si delineava, egli cominciava  a sentire, civem mehercule non puto esse qui  temporibus his ridere possit „ (Ad. Div. II, 4),  diventa ora il suo stato d’animo permanente. La  vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra  erepla mihi omnis est „ (ib. IX, II). Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi (v. 1 608  e seg.).   Du hast zerstòrt   Die schòne Welt   Mit màchtiger Faust ;   Sie stiirzt, sie zerfàllt !   Ein Halbgott hat sie zerschlagen !   Wir tragen   Die Triimmern ins Nichts hinuber   Und kiagen   Uber die verlorne Schòne.   Questo dramma strappa a Cicerone espressioni  di dolore profondamente dilacerante. E la sua  corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo  ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scrit¬  to, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita  vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno  per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel  dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la  terribilità della sua rovina personale affligge gravemente Cicerone : “ natus enim ad agendum   semper aliquid dignum viro, nunc non modo a-   gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi   quidem „ (Ad Div. IV, 1 3) ; ed egli ha ragione   di deplorare di essere stato travolto proprio nel  momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo  il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice  della sua carriera. “ Omnis me et industriae meae  fructus et fortunae perdidisse „ (ib. XI, V). “ Casu       nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut  cum maxime florere nos oporteret, tum vivere  edam puderet „ (ib. V. I 5). Certo anche la ro¬  vina che incombe sulla sua famiglia e specialmente  sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis  una est prò omnibus quod istam miseram patre,  patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam  (Ad Att. XI, 9). Ma ciò che forma il crepacuore  di Cicerone non è la sua situazione personale,  bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.'  “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius  (Ad Dio. II 15, XV, li). “ Ego enim is sum,  qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci-  vium causa fecerim „ (ib. V. 21 ). Ma ora ? “ Ego  vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,  insanus, si, quod opus est, servus existimor, si  taceo, oppressus et captus, quo dolore esse de¬  beo ? „ (Ad Att. IV, 6).   Due sono sopratutto le note in cui erompe  1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,  andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder  più simili cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire  ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam „  egli ripete con un tragico antico (ib. VII, 28, 30,  Ad Att. XVI, 13, XV, 11); “ ac mihi quidem  iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo  exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dice-  bantur, nec viderem nec audirem „ (Ad ‘Dio. IX,  2); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere,  cuius iam etiam nomen invitus audio „ (ib. IV, I).        95    Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando  abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che  sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam  beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc  esse beatus potest ? „ (Ad Db. VII, 28). E’ il  desiderio che si fa strada persino nei suoi trat¬  tati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Da-  marato. Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit  exilii libertatem domesticae servituti ? (V, § 1 09).  O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in  solitudine : “ nunc fugientes conspectum scelerato-  rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quam-  tum licet, et saepe soli sumus „ (De Off. Ili, 3).   In secondo luogo, morire. “ Perire satius est,  quam hos videre „ (Jd Db. Vili, 1 7) < Mortem]  quam etiam beati contemnere debebamus, prop-  terea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc  [Che cosa pensi intimamente Cicerone della vita  futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi puramente  estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla  sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due  altri, (Ad Dw. VI, 3 e 21) ricordati più innanzi, basterà  citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo  ^ or ,*. v erum finis etiam doloris futurus sit » (ib.  Vi, 4). E anche in altre opere di Cicerone questo suo  vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane (V. I 1 7) :  Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in  Pro Marcello (IX) c Q uo d (la fine) cum venit, omnis  voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla est  futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid  ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?]  sic affecti, non modo contemnere debeamus, sed  etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra  < exprobrare quod in ea vita maneam, in qua  nihil insit, nisi propagatio miserrimi temporis >  (ib. V. 15) ; non si sa < si aut hoc lucrum est  aut haec vita, superstitem reipublicae vivere > (ib.  IX. 1 7) ; « nam mori millies praestitit quam haec  pati > (Ad. AH. XIV, 9) ; « eis conficior curis,  ut ipsum quod maneam in vita, peccare me exi-  stimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur con-  sciscerem causa non visa est, cur optarem, multae  causae > (ib. VII, 3). In uno spirito, così pro¬  fondamente romano, cioè volto all’attività pratica  e civica, la desolazione dello Stato faceva spun¬  tare questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ?  aut cum diu haec curaturi sumus ? » (jdd Att.  XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin  cogites > (Ad Div. II. 7). Cosi, pur nell'atto che  prevede la prossima caduta del cesarismo, dice :   Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso,  riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena  da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di  morte appunto perchè con questa cessa la coscienza e  quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra  neque curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va  però notato che Cicerone dà un’altra interpretazione a  questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era  contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a  diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed  aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum  quietem esse » (In S. Catilinam, IV, cap. IV. § 7.).] id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus  est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua  vita cogitare » (Ad. Att. X, 8). E il pensiero della  morte come unico scampo e rifugio viene a gran¬  deggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo  vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici :  così, p. e., nel proemio del terzo libro del De  Oratore : « sed 11 tamen rei publicae casus secuti  sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immor-  talibus vita, sed donata mors esse videatur > (IH, 2);  e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad  mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuis-  sem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumu¬  lata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant  (I, 109). Morte per sè, morte per coloro che  amiamo ; questo soltanto è ciò che lo « status  ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare :  « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt,  minus autem miseri qui his temporibus amiserunt,  quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica,  perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi  hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum  aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta-  libus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima  conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).   Ne solo nell animo di Cicerone il trovarsi « in  tantis tenebris et quasi parietinis rei publicae >  (ib. IV, 3) induceva il desiderio di sfuggire a  questo sfacelo con la morte ; ma tale sentimento  era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui    G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio Sulpicio cerca di consolare Cicerone per  la morte della figlia, 1 argomento principale che  egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non  pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore  licitum est mortem cum vita commutare „ e che  Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum repu-  blica fuisse „ (Ad Dio. IV, 5) ; al che Cicerone  dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo  consolava dei dolori domestici, l’affettuosa intimità  con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora  “ nec eum dolorem quem a re publica capio do-  mus iam consolari potest, nec domesticum res pu¬  blica „ (ib. IV, 6). Ed anche in Catullo, il di¬  sgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum  honores „, disgusto che faceva gemere dal suo  canto Cicerone, cosi ; “ o tempora ! fore cum du-  bitet Curtius consulatum petere ? „ (Ad Att. XII,  49, e circa Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione  alla morte (LII) :   Quid est, Catulle ? quid moraris emori ?   Sella in curulei struma Nomus sedet,   Per consulatum peierat Vatinius ;   Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge Cicerone qualche conforto in  questa immensa iattura ? Non dal foro che egli  (interessante confessione) dichiara di non aver mai  amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla     99    da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas,  unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim  mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia ? „ (Jld  Jltt. XII, 21). Era il momento in cui i vincitori  della violenta lotta politica, giravano per Roma  baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato  legale, battuti, erano melanconici : “ Mane saluta¬  rne domi et bonos viros multos sed tristes (1),  et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose  et peramenter observant „ {Ad Div. IX, 20). Due  di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a  prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con  questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Ce¬  sare. Anche queste lezioni recano a Cicerone qual¬  che sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior mi¬  sura, egli ne ricava dal far udire, quando e come  era possibile, qualche parola di ammonimento. Così,  pur avendo risoluto di non più parlare in Senato,  allorché sulla universale istanza di questo, Cesare  amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun  passo per essere richiamato e sembrava non de¬  siderarlo — e che fu, del resto, assassinato da un  suo impiegato nel momento in cui stava per par¬  tire alla volta di Roma), Cicerone prende la pa-   (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni im¬  morali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come  un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce  si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos  alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos  assis ne feceris » (Ep. 123, § 11).] rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche at¬  traverso i ringraziamenti esporgli il parere più  libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia  sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli  ha 1 ardue di significargli) hic exitus futurus fuit,  ut devictis adversariis rem publicam in eo statù  relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua  divina virtus admirationis plus sit habitura quam  glonae „. (Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza,  preoccuparti della vera gloria, del giudizio che da¬  ranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare  ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei con¬  temporanei, ma con quelli di coloro che giudiche¬  ranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non  avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sa¬  rai certo sempre ricordato, ma non con giudizio  concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,  sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii lau-  dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for-  tasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi  belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut  illud fati fuisse videatur, hoc consilii „ (ib. IX).   E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino  onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna  riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben  più vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed  equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75) (1).   (1) Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta  constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1 uso del potere per  far tacere censure al detentore di esso, e persino  per impedire di rispondere agli attacchi, comincia  con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pol-  lione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il servile  Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a  prostituire poi il suo genio a colui che tra questi  occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli    “ nam et ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi  ad acquitatem et ad rerum naturam videtur „ Ad Dio.  VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde  con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straor¬  dinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo  personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri,  a diffondere anche intorno il sentimento di felicità che il  successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamental¬  mente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,  quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più  duro e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo  col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tor¬  mentare, perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era  Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad  Emilio Lepido : “ Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab  externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con-  suhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse-  rat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae  res in miserationem ex ira vertunt „ (Hist. Fragni.). Ra¬  ramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più  bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali in¬  genio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate-  fecit „ (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, (I) dedicò la sconciamente  cortigiana e piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante  epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4)  che non si può più scrivere dove in risposti si  può proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio  cuna fescenmnos ,n eum Augustus scripsisset, ait:   g taceo ; non est emm facile in eum scribere  qui potest proscribere (2)   Più ampio conforto ricavò Cicerone dagli studi,  bbene una volta fuggevolmente accenni che forse  senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale!  exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma-   (I) Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p • , »    I  J1 '> e la dimostrazione che questa   viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna  e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1  niente manca in Virgilio „ (L. II C VI) “ V  -esse avuto nell’animo quella   P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e  quindi assai maggiore il suo libro „ (L. II C VI •  vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci  j ; , C S ‘   uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani,   V l D < ’ . .: Vlr glio si lascia traricchire   • anche Boissier, Lopposition sous tes Césars p. I3Ì”   RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma senza citare la fonte il   Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente versione:  Les Komains disaient avec raison qu il est rare mi num est . (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto dallo  studio della filosofìa, la passione per la eguale 'quo-  tidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad  prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia  levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4).  Le sue lettere di questo periodo sono piene delle  sue attestazioni che non vive se non negli studi  filosofici e non trae conforto che da essi (ib IV  3 ; VI, 12 ; IX, 26 ; XIII, 28). Ad aumentare  questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero  dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua atti¬  vità di scrittore. Sono questi gli anni della sua  intensa e feconda produzione filosofica. “ Nisi mihi  hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae,  quo verterem me non haberem „ (Jld Alt. XIII,  9) Equidem credibile non est, quantum scribam  die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi „ (ib.  XIII, 26). “ Nullo enim alio modo a miseria quasi  aberrare possum „ (ib. XIII, 45). Vero è che le  afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avve¬  nire, derivanti dal pessimo andamento degli affari  pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello  studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo,  si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec  inter nos studia exercere possemus ! „ Però, ap¬  punto in tali circostanze, “ sine his cur vivere ve-  limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trat¬  tati di filosofia di Cicerone, circa i quali si cita  sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase  “ sono copie „ cascatagli dalla penna scrivendo al       104    suo amico e certo come convenzionale espressioni   t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad  X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare tale  fra e con le sue numerose e consuete esternaziom  dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli   off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles „ (ib. XII  38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc-   G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud  , cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)-   le chiama “ argutolos libros „ ^ XIli.Y 8 ,00^   XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4.   XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve -   hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib   ?AJ ÀI XvT i , soddisfa Attico   bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M   AA- ( 8 ^ eSpnme anehe ,a sua Propria   soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle   pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d!  Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e  sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente  si prendono per un mero esercizio letterario, sono  invece un libro profondamente vissuto, rampollato  da a tragica realtà di vita i cui Cicerone" si di¬  batteva e che come tale, come idoneo cioè a for¬  nir conforto e forza in quelle circostanze doveva  essere generalmente sentito, e certo da Attico se  Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tu-  scu ana te confirmat, sane gaudeo : neque enim  ndhim est perfugium aut melius aut paratius ,,  (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in  ogni epoca, nelle medesime circostanze da cui  esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato  scritto : “die Eroica der romischen Philosophie „  come con calzante espressione lo definisce lo Zie-  linski ( I ).— Ma il supremo conforto di Cicerone è  un altro.   #   * *   Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella  filosofia come un’occupazione mentale opportuna  a distornare il pensiero da quello che poi Lucano,  il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri  datum „ (II, 1), quanto nel rivivere in sè i con¬  cetti della filosofia come atti a fornire forza d'a¬  nimo per affrontare e sopportare le sciagure de¬  rivanti da una situazione politica e sociale particolar¬  mente triste : filosofia cioè non come “ ostenta-  tionem scientiae, sed legem vitae „ ( Tusc. II, 1 1).  Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si  servì Marco Aurelio (VII, 2) zi 5 óypaia (2).   (1) O. c., p. 87. — Giustissimamente il Moricca: “Sa¬  remmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tul¬  liana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che  quelle parole... furono scritte per una generazione d’uo¬  mini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore „.   “ Un libro di morale dell’epoca di Cicerone è da con¬  siderarsi non come una fredda e vuota argomentazione  rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del pas¬  sato, che sale dalle tombe e vince i secoli „ (O. c. p. XXIX).   (2) Secondo il testo di Trannoy (* Les Belles Lettres »).          106    bisogno di vivere tali precetti A' i ,• .  ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl  gere a ciò, Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '  maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na  consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl  profecto anfe me TeZ. ^Z 'T ***  consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s  serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P'  esso talem ; totos die® U c °nsolationem   quid, sed t n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™  XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor „ (Ad 4tt   « 'a ll'Tlzr ™ di r'*   d«„e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre   '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4   stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, °  e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi   vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’   e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni,   .1 hiosofo :z :L: r , ai ^   cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo   c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f «   molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI  rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX    .(I) Plauto, fatto morire da Neron» •  mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl  Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et socratici viri ! (esclama Cice¬  rone, qui, veramente riguardo a traversie di ca¬  rattere privato). Numquam vobis gratiam referam  Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt.  XIV, 9). Attico (egli scrive al suo liberto e se¬  gretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sem¬  pre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae  septus sim „ (Ad Div. XVI, 23). La disperata  e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego  non ferrem nisi me in philosophiae portum con-  tulissem „ (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et  omnia quae homini accidere possunt sic fero ut  philosophiae magnam habeam gratiam, quae me  non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam con-  tra omnes fortunae impetus armat, tibique idem  censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid-  quam m malis numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23)   E noi vediamo veramente questo pensiero centrale  dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il  proprio interesse da ogni cosa esteriore per con¬  centrarlo unicamente nel nostro comportamento, e  m ciò trovare appagamento e pace (questo, come  si può chiamare, ottimismo della disperazione, che  e il solo che resta nei momenti di maggiormente  infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto,  riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an-    Demetrio (ib. XVI, 35): e Seneca dice di Cano.  dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni  Losophus suus „ (De Tranq. An. XIV, 9).    man-   phi- ] cora una tavola di salvezza), vediamo questo pen¬  siero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più  chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come po¬  stogli innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim  sentio, id demum, aut potius id solum esse mi-  serum quod turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e v.  anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis  qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse  sapientis praestare nisi culpam „ (Jld Dio. IX, 19).  Cogliamo il procedere di questa appassionante tra¬  gedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto  a gioire delle cose, degli spettacoli naturali, del-  I arte, della letteratura, delle relazioni sociali, del-  I attività pubblica e anche della ricchezza, è, a  poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro  se stesso e costretto a vedere e cercare la feli¬  cita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le  meditazioni filosofiche (scrive a Varrone) ci re¬  cano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in  re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi  tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,  cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad  r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sen¬  timento a cui Cicerone è ora pervenuto, il pen¬  siero della morte, qui fonte anchesso di consola¬  zione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero,  eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid  e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum  mors sit extremum... magna enim consolatio est cum  recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta      109    vereque sensisse „ (Ad Div. VI, 21). “ Nec enim  dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ;  et si non ero, sensu omnino carebo „ (ib. VI, 3)  Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen  ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae  non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre de-  beamus „ (Jld Div. VI, 20).   E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed  incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si  scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il  dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione che a lenimento di  questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti  avvenimenti politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se Cicerone ad ogni momento ripete di sè  quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec  esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa magnum est  solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi  oportere. Se l’esperienza di quella  dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta  conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, « a Lucccio7“'“ 8 “ 1  humanas contemnentem et opule Cont r 7  c„ g „„ vi „ {Ad0 7   casu, et deiicto h Z ,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non  veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una commo-   Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ—   digni et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus ’   V. 19 ) : e a Torquato f T Tectl8s  (A.   praesertim quae absit a   ancora a Torauato   P ) e   delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina  teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7   “r: e, atque noTZIt,»   questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a  anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ?   scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerón  1 et eum aui a Ine ' '-' ,cer °nem esse   9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare con-  Ili    silium quae alns praecipere soles, ea tute tibi  subirne, atque apud animum propone; vidimus ali-  quotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam  fac ahquando intelligamus adversam quoque té  aeque ferre posse. Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da  servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono  in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi  trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove  egli dava sistemazione teorica alle medesime idee  1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in Cicerone  dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua cor¬  rispondenza, ci si ridimostrano, non mere eserci¬  tazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla  vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte  da questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama giustamente Cicerone lo]  Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro sotto la  oga, glielo prese, e visto che era di Cicerone ne  lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo •  uomo dotto e amante della patria, Xó r ,o : *vl'  ?. «rat, io T ,o £ *«l Tardo (come al so’   hto) riconoscimento del meriti di colui che egli ave¬  va raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma  Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e   st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circo-  ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.   sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma   d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza  d, dolore trarre un-espenenza morale di elevazione   e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della  filosofia intesa come via, di cui molti e b   dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò  che rende appassionatamente attraente la sua grande   figura alla quale veramenle-secondo un penTero   che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e   Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava   Sr p a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem,   Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit. Platone   Cicerone Ultime pubblicazioni dello    stesso Autore    Pesco Piente Fu , un [Mi|an0i CogliariJ.  f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1  Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto]   nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida],  Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a Pagine di Diario :    Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J,  Cicute [Todi, Atanórj.   Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia]  Sguardi [Roma. La Laziale],   Scolli [Torino, Montes, 1934],      Imminenti :    Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.  Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ciliberto: l’implicatura conversazionale del principe -- il suo principato– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno.  Preludio al Machiavelli *   Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola — dalle legioni   chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma ’  1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli   ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo   ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 \l  Pnncipe di Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade   ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà  Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-  ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe   loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S , e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -   po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel  Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi-  velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia-  dottrin, e’l^ non .8 uastare la di contatto diretta fra la sua   dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di   n0mmi , e f° Se ’  3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi  )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f quindi una fredda dissertazione scolastica  irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi  come io credo, m un certo senso drammatico il tentativo di gettare   NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^ cveuti   La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c’è an-  cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero ave-   * Da “Gerarchia”,  I ,i . •>\fruzione del regime  i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II  tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in   > 111 1 11 scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte   > I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina  • li Machiavelli è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli  nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si  h« i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e dei  itopoli. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare, uti-  li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in  < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre la  i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la poli-  lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è  l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste-  inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo “uomini” dobbiamo  Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli  Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contempora-  nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o  pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie della eternità”? Mi pare  ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di po-  lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe,  oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli de-  gli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,  t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del  Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della  nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di  continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno  Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco  documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti.   (,li uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose  chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni.  A1 capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili  .imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene,  ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi,  .piando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel  l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa-  rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia  mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo di  obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità  (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie  quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o  padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba  mai. La ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato,  uno fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere.  E al capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia  di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi  in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a  usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione...  Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà  abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione  e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani  riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-  gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna  tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi dei pensiero di  Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come  giudicava gl’uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei  simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il  giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non  si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,  fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico  scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola “principe” deve intendersi come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui tendono, sospinti dai loro  egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente.  Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare  la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il  proprio io sull’altare dello STATO. Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di  ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come   hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO. C’è una finzione  .• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai definito.   I una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa  iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di “sovrano”  applicato a “popolo” è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi “rapprenntativi” appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche  nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e  secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o  una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non  resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che  la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei  momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria  ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del  POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra  forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei  gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti,  non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio  oramai famoso articolo “Forza e consenso”, Machiavelli scrive nel  Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una  cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.  E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto  fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.  IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI  DI MUSSOLINI. "PRELUDIO" DI MUSSOLINI POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS  POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL PRINCIPE"  PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore di un "Elogio di MACHIAVELLI". Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme" dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel "Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in "Dei sepolcri".  Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.  Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco.  In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione" come profeta della riscossa nazionale.  Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè).  A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.   Entrammo poi nel "Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su "Gerarchia", poi cura a prefazione (che chiama "PRELUDIO") di una edizione del Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).  In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di “fasci”, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato dalla "sovranità POPOLARE", e sulla stessa utopica "democrazia POPOLARE".  Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua teoria la "morte dello Stato.” E nell'organizzare gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale "Avanti" che dirige – ed è poi perfino cacciato dal partito socialista.  Poi durante e dopo la guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi "fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame.  "La sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis.  Abbiamo detto “utilizzo”, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. "usare la forza" --  dando origine a quel mito del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità "fa quello che vuole". E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre ...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso per strada anche gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare "quello che voleva" lo appese a un distributore a Piazzale Loreto.  "Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore". "I meccanismi politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli uomini.  "L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica". E ancora ("non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile"). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener -      Mussolini usò tante parole. "Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone: "qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil prudenza machiavellica"  Paradossalmente proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini".  Solo lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo "suo il popolo": "devono solo Credere, Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse il consenso, c'è la forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso.   * ecco qui sotto il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli.    Mussolini: " Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.   Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo.  La domanda si pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.  Se la politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire.  Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito "sotto la specie della eternità" ?  Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.   Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti.  Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".   E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine ». Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.  E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli.   Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale.   La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.   Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo.  C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.   I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.   Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione.   Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi.  Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai.   Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso" (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati".  POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA" MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI   Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere "scientificamente" una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo, dell'azione.   Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo.  Non é detto che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della dottrina.  Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale.  Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo.  Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti?  Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo?  E' questo il liberalismo?  Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato.   Qui cade il discorso della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare il circolo.   Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo.  Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà.  Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.   Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.   Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali.  Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà".  Benito Mussolini, da Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS  CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de "IL PRINCIPE" Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato)  DE SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.   Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici.  In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miserie.  All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par elogium".  I suoi Decennali, arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni », scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core;  io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore;  io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento;  ogni cosa mi dà nuovo dolore:  così sperando piango, rido e ardo,  e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.  E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.   Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato "machiavellismo" questa dottrina.  Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.  Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -  L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.   Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.  Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani.  Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo « decadenza » egli disse « corruttela », e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.  La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.  Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.  Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua demolizione.  L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole.  Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.  Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.  Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento.  Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.  Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.   Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita.  Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.  Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' « essere » o, com'egli dice, alla verità « effettuale ». Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due « Soli » stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.  C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La «patria» del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano "Stati" o "Nazioni".  Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio » tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo.  Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e indipendente.  La « patria » del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la « patria », ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.  Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.   PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi "repubblica". E dicevasi "principato" dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.  Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.   Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno « disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a « sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est ».  Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.  La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa « forza », « energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.  La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.  Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza », come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove « non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura ».   Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.  Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.  Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini.   Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia.   La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva.  E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel quale s'inizia la scienza moderna.   E' l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti.  Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite, insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra nulla.  Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o quell'ironia de' « profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ».  Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.   Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la materia era intellettuale, o « descrizione », se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta.   Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua realtà.  Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae.   Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.  La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.  La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.   Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi « forma letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.   Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.   Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono", che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi.  Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il cervello.  Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.  Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.  L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.  Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.  Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.  Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare superficiale.  Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi: degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.   Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono « gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere », cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.  Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.  L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei.  La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale.  E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.   Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano solo velleità.  E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.  Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale ferità di core ». -  Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.  Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.  Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.  Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: "La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello". Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: "Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi".  Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della « setta saracina », e le virtù « de' popoli della Magna » al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: "Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive:  "Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura " "Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo".  Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: "Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro.  Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero, barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma.  L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », « Italia », « buoni ordini », « buone armi », erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.  Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.  E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie.  Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca » e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano".  Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel « libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca  "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:  "Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente". Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.  Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche. "Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi".  L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa. Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide";  .....dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia.  Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?  Scusatelo con questo: che s'ingegna  con questi van pensieri  fare il suo tristo tempo più soave,  perchè altrove non ave  dove voltare il viso;  chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue,  non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, « assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra.  E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.   Alle ragioni della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. - « ... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie ».    Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!" Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua mercanzia". E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: " ...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce bene i suoi polli: "Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche". Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene ».  - Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: " Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento". Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un « misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.  Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.  Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.  La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : «d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ». C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.  Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo».  Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama «patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.  E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo » quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.  C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.  La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe.  Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta « uomo », in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi.  Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.  La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: « altere et pati fortia ». Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.  Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo « Stato » non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La « ragione di Stato » ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute pubblica» le sue mannaie.   Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.  Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.  Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.  Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre coorte di naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.  "Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti". Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: « Conoscere non è mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è « l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità » ; ma «per il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio temporale.  Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse », ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per sè, « nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma « non s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè « mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo », e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito ». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà », ma « in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi ».  La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra.  Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi », come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi », quando « i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo".  In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si richiede la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' « esperienza » che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta.   Si richiede anche la « discrezione » o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il vero libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il quale si richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non basta, e non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».  L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari » pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » : perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, « credi poco e fidati poco ».   Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.  Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.   Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti.  Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.  Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.  Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.   Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti « atrocissimi accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.  La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.  L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.   Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.  Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle sue opere.  Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia , l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze.   Presso il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore "molto splendido e magnifico" che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua " ultima ruina " . In quella occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell'energia e del " furore " che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni . Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli.  I problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) , sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze ) , di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare come ambasciatore presso la " repubblica degli Zoccoli " , cioè presso il capitolo dei Frati minori di Carpi .   Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro "vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La Mandragola.  Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti al Principato" con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la "virtù" - sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di "energia" e "capacità" - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi.   La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la "ruina" di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del "fine che giustifica i mezzi" che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la "realtà effettuale" italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del "principe nuovo" come la sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é " più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe " e che " se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi , formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente " nella prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in " questo tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é già consapevole della sua libertà ed individualità " e il " ragionamento a piramide degli scolastici " cede il posto al " ragionamento a catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni .   La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge , di frequente , con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi compagno e sodale del suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo . In tal senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera , il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della semplicità rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante , la " ruina d' Italia " , nelle sue istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell' avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola , il capolavoro del teatro del '500 . Egli , però , ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in Europa , sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e corrotta . Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire " in laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti " cittadini " , che soli possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare .  Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola .   Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria " gravità de' tempi " é un principe dalla straordinaria "virtù" capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso .    Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica .   Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale .  Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali " che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anzichè all' " immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla " verità effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi .  Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique " . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e delle stelle .   Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri " , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica .  Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono " laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni .   Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero " cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera " cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre .  Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " , ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un " opuscolo de principatibus " , in cui si trattava " che cosa é principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio " . Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " , sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana .   Il Principe é un' operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I - XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilità . Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV - V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno .  Machiavelli affronta il principato " civile " , in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa , come nel caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell' Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa . Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verità effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere " non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l' " ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l' argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre argini alle variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo é , come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari .  (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ) .filosofico.net/filos1.html     ANDIAMO ALL'ARTICOLO di Pellegrino. Mangieri  IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA  ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE   IL PRINCIPE > >   HOME PAGE STORIOLOGIA. Grice: “When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe!” --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.

 

Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.

 

Grice e Cimatti: l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un es­sere animato ed è dotato di significato -- se­mantikos. Ora, un suono emesso da un ani­male non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito, riso, pianto), ha tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” -- e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na­ tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o "non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi, "invisibili" -- possono articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­guaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel resto, l'opposizione convenzionale/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale, questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un es­sere animato (II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un ani­male, per quanto definito psophos (''rumore"), ha tutta­via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per na­tura" phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese lin­guaggio umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal verbo delofìsi (''rivela­re", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio comunicativo di un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and bang.   What's wrong with this theory?  Relatively few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all are derived from natural sounds.   The Ding-Dong Theory  The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose in response to the essential qualities of objects in the environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with the world around them.  What's wrong with this theory?  Apart from some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an innate connection between sound and meaning.  The La-La Theory  The Danish linguist Otto Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that language may have developed from sounds associated with love, play, and (especially) song.  What's wrong with this theory?  As David Crystal notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to account for "... the gap between the emotional and the rational aspects of speech expression... ."  The Pooh-Pooh Theory  The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection – a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"), surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").  What's wrong with this theory?  No language contains very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to the vowels and consonants found in phonology."  The Yo-He-Ho Theory  According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt, the groan, and a snort evoked by heavy physical labour.  What's wrong with this theory?  Though this notion may account for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come from.  Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.   Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3].   Le lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata.  L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali:  Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.  Parola e linguaModifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa.  Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di lessigrammi.  Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.  Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10].  Antichi ominidiModifica C'è una speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi. Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca:  una sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate.  Le caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra. Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa.  Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua[21].  Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso.  Le aree di Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri umani.  Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua, attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente a che fare con le condizioni climatiche.  MonogenesiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi[24][25].  Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità.  Alcuni sostenitori di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per varie ragioni[28][29].  Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice comunicazione.  Due tipi di prove sostengono questa teoria.  Il linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto.[32]  La questione più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni:  I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte interamente da segni e gesti.  Pidgin e creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9]  Se questi contatti tra i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle lingue da cui sono nate.  Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]  Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica creola.[9]  Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.  I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro.  In seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della grammatica.[34]  Approccio sinergicoModifica La Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della scrittura.  Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:  Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili:  Fase I: Fonema = frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della parola[non chiaro][35],[36]  StoriaModifica La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.  Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti fino al XIX secolo. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.  Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono.[37][38][39]  Nella religione e nella mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva.  Uno dei migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi 11:1–9).  Un gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su Language Miniatures. 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Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info. Controllo di autoritàLCCN ( EN ) sh85074529 · GND ( DE ) 4077740-6 Ultima modifica 1 mese fa di Paroll PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.  Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library.Cimatti.

 

Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Firenze). A philosopher of the Porch.

 

Grice e Cinna: il portico a Roma  -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C. the value of friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.

 

Grice e Cione: l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  «Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.  Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo.  Home  Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione   4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al Regno.  Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un socialismo  che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.  Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln.  Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale, confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare sulla riconciliazione degl’italiani.  Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi.  Naturalmente ciò avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come  Borsani, Agazio e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma ed Almirante.  La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto questo.  Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che cercarono di costruire  dei ponti tra fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla  CONCORDIA nazionale.  Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di potere non considerare  con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante da recuperare in una chiave pluralistica.  Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C. non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio.  In questa sua incapacità di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità politica del saggio di C. sulla Rsi,  ma anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici.  La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è vero  che in Italia il filosofo  tende a correre verso il carro del vincitore, la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale.  C. compiuti i suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C., sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli insegnamenti.  Un saggio suo, pubblicato a Napoli e intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul filosofo.  Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari con il titolo "Croce".  Dopo l'internamento e il confino, ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod "Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli. Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il "Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale, affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi. documentazione collegata. C.  fontiGennaro Incarnato, in Dizionario biografico degli italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993.  CIONE, Domenico Edmondo di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981) Condividi     Pubblicità CIONE, Domenico Edmondo. - Nato a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone, figlia di commercianti di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il consolato germanico, poi al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in permanente e gravissima crisi economica.  Alla Nunziatella si tendeva a sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.  Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee, attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente.  I numerosi studi sul De Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce. Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano (Napoli romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per venire incontro ad aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e nel 1932, seguendo i suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune familiari registrano nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non veniva ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu trasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con l'opposizione liberale al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti intrinseci. Tra il 1930 ed il 1940 l'adesione al sistema crociano era del resto indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi sul Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica al marxismo), sul Valdès e dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis, l'emancipazione non era così consapevole come tenterà ad affermare in seguito.  Nel settembre 1940 l'intercettazione di una lettera da parte della polizia, che ne interpretò malamente il contenuto, provocò il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori furono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui maturò la sua crisi politica e la rottura col Croce. La convivenza con oppositori socialisti, anarchici e comunisti aveva su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponevano al fascismo sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnavano nei loro programmi di far uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo indusse alla revisione e all'abbandono, dell'antifascismo.  La compilazione di un volume celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rese possibile la pubblicazione L'opera filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942), dopo strascichi giudiziari.  Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista Popolidell'Istituto per gli studi di politica internazionale, diretta da F. Chabod. Nel 1942 conseguì la libera docenza in storia della filosofia; fu professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, e nell'aprile 1943 ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia, nell'università di Napoli. Nel 1949 conseguì la libera docenza in storia moderna.  L'armistizio lo colse a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di P. Martini, antifascista di tendenze moderate e conciliatrici; il movimento venne poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finì trucidato alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a Milano con un giudizio negativo sull'antifascismo del quale coglieva solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione del C. sulle colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.  Mussolini mostrò d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della Cultura, s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21 ottobre 1944 il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli antifascisti hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.  Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da Mussolini dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli negò la pubblicità per il giornale, considerando il suo "un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.  Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di professore e nel 1948 riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951).  Nel 1946 ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964).  Collaborò alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.  Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito.  Sull'onda dello spostamento a destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio.  Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli 1962).  Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli 1960)per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna 1962).  Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della Facoltà di lettere e filosofia dell'Istituto magistero di Napoli, anno acc. 1960-61, pp. 65-69; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX (1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino 1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965), pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma 1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari 1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.   Sulla bibliografia Fascista    Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i campi.   Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a  cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed  Artisti, Poma, 1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni  riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura  di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi  dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di L. Màdaro); Il Libro (Vita-  ha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929 (complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura  di C. S. Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, ed.  tedesca, Heidelberg, 1928; ed. italiana, Firenze, 1927.  Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista, Roma,  1927; Mussolini e il Fascismo, Roma, 1929 (complesso  di 30 studi); Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930  (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni  del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della  « Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili.  A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio  1932-33 con la seguente pubblicazione annuale a cura  dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale  del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario  19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De  Stefani A. La Restaurazione finanziaria (1922-25). Bolo¬  gna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata: Finanza  Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli,  1924; Gangemi L. : La politica finanziaria del Governo  Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.:  Le Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova Italia ». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del  Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Mi¬  nistero delle Colonie, con prefazione di Mussolini).  Mondadori, Milano. Nei riguardi della difficile  questione meridionale, si vegga l’esauriente volume di  Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno  d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933.   Fra le pubblicazioni straniere quelle tedesche sono  le più ricche e meglio informate.   Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che meglio compresero il  Fascismo e la sua organizzazione economica, e cioè:  Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eber-  lein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.;  Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J.  W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo,  Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma, X.). Si vegga  inoltre: Beckerath (von) E.: Wirtschaftsverfassung des  Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche  Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi pub¬  blicati in « Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegege-  ben von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche:  Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen,  herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e  svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni  dell’azione economica corporativa   Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Catania, Studio Editoriale Moderno, 1932.   Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬  tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-  cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti  del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬  rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬  nale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬  nomia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Lit¬  torio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬  fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in « Giornale degli Economisti ». Febbraio  1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particola¬  ri, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in «Ar¬  chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III,  Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in « Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in «Rivista di Politica  economica » del 31 gennaio 1931. (Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo eco¬  nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬  novesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchica¬  mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della «Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre  1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1933;  e dello stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in  « Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Pro¬  blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬  mia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara  1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in : « Rivi¬  sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬  gli individui dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬  scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬  ciente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Pur¬  ché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una « eco¬  nomia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli economisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », novembre 1928, ed Economia corpora¬  tiva e politica economica, in « Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria » (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incompren¬  sione degli economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li-  erali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬  nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬  scito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda-  mentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pub¬  blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬  sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia  corporativa, in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬  logia economica, Catania (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬  tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  «Giornale degli economisti», settembre 1930 (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica cor¬  porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-  guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-  rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia cor¬  porativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.: La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves 1932, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni, 1933.   L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituziona-  listi americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che      m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen-  siero di Hegel e di Marx.   Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-  sione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬  diente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬  rativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze, 1933).   Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, ap¬  presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬  nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen-  naio 1931 ; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre 1933;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo -  ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬  cali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu-  leri A.: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», 16 dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi-  talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora-   .V'iV-’i 193 - 3 ’ anno *V, f asc - IV) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!).   La nostra divergenza ideale con l’economia de¬  gl idealisti non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista  di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non eu¬  clidea.   Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930 e  più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬  ria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto cor¬  porativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema or¬  ganico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬  mismo economico il volano regolatore).   Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica  («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio 1934.  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle con¬  dizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Cor¬  porazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬  porazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente :  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬  nanze, Torino, 1932, pag. 257-262. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in  « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. II; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat.  trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬  butario, « Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto  del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬  nanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ».  Roma, 1929, ed infine, sempre dello stesso: Ordina¬  mento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e per¬  ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬  sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4  del 1929), e Genco («Comunicazione al II Conve¬  gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932,  voi. II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere impo-  sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-  stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-  Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli  1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Cor-  porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello   TTr- A r- ,ane r e   in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L-   rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-   Stato C e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e   S“,° Ì 93 £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica», fase. VII-Vili   (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Ales¬  sandria Colombani, 1932 (è questa una diligente ras-  segna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni   m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,  CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬  te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-  guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬  retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema at¬  tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬  senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬  portanti suoi compiti.   Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni del-  1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-   Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia.    nosce che l’opera del primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬  mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato ».   . Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato — qualora rispetti il principio della proprietà privata — si può valere, per intervenire nel cam¬  po dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda.   E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo prefisso.   Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maf¬  feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova-  tori sistematici ed i creatori di schemi astratti fareb¬  bero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; p. 99; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211, “La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.Cione

 

Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron

 

Grice e Civitella: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo italiano. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica nacque nel castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,  ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9  da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” --  come ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori, parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale: GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO. Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ,  il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’ patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig. del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia – GL’OTTIMATI --  non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi della libertà. Ma chi  giudica senza prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri. Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione. L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali  e perchè nulla manca di condimento aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi: la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle leggi. La scovri ancora il  [VICO, Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad. Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO  e generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime. E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico, ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza, non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici, vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO) e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj – gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge  le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza. Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato, si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio. Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO, nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura, ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso, il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12 ) Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo: Ma PAPINIANO  è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente, ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene, avrebbe trovato più opportuno mezzo  a correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso, chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall ' azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO. Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme; i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli (come rapporta PLUTARCO) i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs & libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf (18) DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM  (126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE. Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava, per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso, credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione della legge e nella generale corruzione.

Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. Delfico. Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico..Spannocchi a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G. Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico..Filippo Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a M. Delfico..Bertola a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M. Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M. Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206  Bossi a M. Delfico..Tommaso Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M. Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231  Tracy a M. Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig. Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326  Stati Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico,  C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo.  L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C. rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53).  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano (74).  Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86).  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità, senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale.  Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche.  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali (103).  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia.   Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno 1835.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a  Gentile dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio fascista. Di recente, nuove linee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante gli anni della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e della politica. Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», a.  col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63.  (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317.  (4) Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma 1990, pp. 103-155;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753.  (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp. 744-780.  (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg.  (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.  (11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11.  (13) M. Delfico, Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846.  (14) M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete, cit., vol. III,  p. 126.  (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano  (16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino 1988, pp. 501-508.  (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit.,  (20) Ivi, p. 47.  (21) Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp. 71-85.  (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.  (23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.  (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260.  (27) Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235).  (28) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.  (29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes,  vol. III, Gallimard,  Paris 1964, p. 193.  (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253.  (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.  (32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo.  (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323.  (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo nel 1783.  (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279.  (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-396.  (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.  (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7.  (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.  (42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354.  (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n. 402.  (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg.  (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 403-431.  (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.  (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432.  (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.  (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867.  (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.  (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.  (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419.  (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione.  (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit.,  pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone.  (56) Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.  (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999.  (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69.  (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.  (60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519  sgg.  (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58.  (62) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995.  (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139.  (64) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.  (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg.  (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250.  (67) Ivi, p. 472.  (68) Ibidem.  (69) Ivi, p. 250.  (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814.  (71) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.  (72) Ivi, p. 246.  (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94.  (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.    (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit.,  vol. II, p. 11.  (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.  (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.   (78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43.  (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325.  (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 174.  (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  (82) Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138.  (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.  (84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40.  (85) Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53.  (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.   (87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497.  (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550.  (89) Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999.  (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985.  (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.  (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20.  (93) Ivi, p. 67.  (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70.  (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII,  p. 79.  (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159.  (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588.  (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505.  (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp. 37-50.  (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37.  (101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32.  (102) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 38.  (103) Cfr. ivi, pp. 47-49.  (104) Ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico.  (105) M. Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45.  (106) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156.  (107) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87.  (108) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G. Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio. I. voi.  in 16. 1774* ( segnato nell'indice de' libri  proibiti ).   a Indizi di morale ( proibito prima di pubblicarsi ) Discorso sullo stabilimento della milizia  provinciale. TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella  provincia di Teramo  Napoli  Porcelli Elogio del marchese D. Francescantonio  Grimaldi . Napoli 1784* presso  Vincenzo Orsino Memoria sul tribunale della grascia e  sulle leggi economiche nelle provincie confinanti  del regno . I. voi. in 4 * Napoli 1785. presso  Porcelli .     Memoria sulla necessità di rendere uni-   formi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti  4 * Napoli 1787. presso Porcelli . ’ -   8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su la  servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma-  rittime degli Àpruzzi. I. voi. in 8. Napoli 1787.   9 Discorso sul tavoliere di Puglia e su la  necessità di abolire il sistema doganale presente  e non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor-  ma. I. voi. in 8. Napoli 1788.   10 Memoria per la vendita de’ beni dello  Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli. 1788.  ( stampata una col reai dispaccio di appro-  vazione ) .   I I Riflessioni su la vendita de’ feudi umi-  liate a S. R. M. I. voi. in 8. Napoli 1790.  presso Porcelli .   1 2 Ricerche sul vero carattere della giu-  risprudenza romana e de’ suoi cultori . un voi.  in 8. Napoli 1791. presso Porcelli : ( ristam-  pato in Firenze , ed in Napoli un altra volta  nel 18 15 )   1 3 Lettera del signor duca di Cantalupo  ( su feudi ) Napoli Memorie storiche della repubblica di  San Marino I. voi. in 4 * Milano 1804. dalla  tipografia di Francesco Sonzogno .   1 5 . Memorie sulla libertà del commercio :  ( stampate nella Collezione de classici italia-  ni di Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza  ed inutilità della medesima . I. voi. in 8. Forlì     Pensieri sopra alcuni articoli relativi  all’ organizzazione de’ tribunali : ( stampati sen-  za il nome delF autore , nè V epoca , dalla  stamperia reale di Napoli nel 1808. )   18 Lettera al Climo sig. Abate D. Gasparo  Selvaggi ( sulla Tragedia. Pubblicata dal Gior-  nale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. I. voi. in  8. Napoli 18 j 8.   20 Ricerche sulla sensibilità imitativa con-  siderata come il principio tìsico della sociabilità  della specie , e del civilizzamento de’ popoli e  delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac-  cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie ) .   21 Memoiia su la perfettibilità organica  considerata come il principio fisico dell’ educa-  zione , con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria sulla perfettibilità  organica ec. ( letta nel 1816. , e pubblicala  come sopra ) . Ragionamento su le carestie ( letto  nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli il 1.  dicembre 1818 , e pubblicato negli Atti della  medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) .    Poche idee su V accusa de' ministri .  Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di  Napoli il z 3 . dicembre i 8 ao.   a 5 Dell* antica numismatica della città  d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare  su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni. I. voi. in fol. Teramo 1824.  con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal  Micali su la stessa , e di una Lettera al sig.  Conte Zuroli su le antiche ghiande missili di  piombo. I. voi. in fol. Napoli 1826. , dalla  tipografia di Angelo Trani : con più tavole in  rame .   27 Della preferenza de’ sessi. Lettera all’or-  natissima signora contessa Chiara Mucciarelli Si-  monelti . I. voi. in 8. Siena 1829. ( Ristam-  pata in Napoli insieme ad alcune poesie del  Conte di Longano )  Lettera all’ autore delle Memorie in-  torno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa-  ta in fine delle stesse Memorie , Ascoli i 83 o ).   29 Espressioni della parlicolar riconoscenza  della provincia e città di Teramo dovuta alla  memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due  Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul-  la città di Benevento. Memoria. 1768.   3 1 Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul-  la città di Ascoli . Memoria . 1 768.   3 a * Lettera a' fratelli sulla eruzione del  Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli  animali . pag. 8.   34 Lettere sulla cavalleria ed i romanzi .   P a S- 7 -   35 Lettera al sig. Michele Torcia sul  tratto di paese che si estende dal Fortore al  Tronto . 1784 . pag. 1 5 .   36 Supplemento alla Memoria su la gra-  scia , per rapporto all' estrazione degli animali  vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri-  bunale collegiato nella provincia di Teramo .  1786. pag. 11.   38 Memoria per lo stabilimento d’ una uni-  versità in Teramo . 1786. pag. 7.     • I titoli in carattere corsivo sono per ^quegli scritti che  1’ autore lasciò senza una denominazione .   ** S’ intende per lo più di pagine scritte , come si dice ,  alta spagnola , ossia nella sola metà . Pel resto si troverà sod-  disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria  nel iy 83 . - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche  de' Castelli. Lettera. 1788. pag. 24*   4 1 Appendice al discorso sul Tavoliere di  Puglia . 1788. pag. 84.   42 Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati  nel iygo. pag. 8.   43 Estratto ragionato del Saggio analiti-  co su le facoltà dell’ anima di Carlo Bonnet .  pag. 100.   44 Seconda Memoria sulla vendita de’ be-  ni allodiali. 1791. pag. 7.   45 Breve Saggio su l’ importanza di abo-  lire la giurisdizione feudale , e sul modo di ese-  guirlo . pag. 32.   46 Supplemento alla Memoria pe’ regii  stucchi .Degli Appalti. Memoria, pag. g.   48 Per la città di Teramo intorno d  beni dell' abolito convento di S. Agostino .  pag. 11.   4 g Memoria per la decima impesta al re-  gno . 1797. pag. io.   5 0 Memoria intorno a’ danni sofferti nella  provincia di Teramo dalla cattiva monetazione  dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da  ripararli. Osservazioni su la nuova monetazione   dello Stato papale per rapporto al commercio  delle provincie confinanti del regno . 1797.   pag. 17.   5 a Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.  Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia , ( Questo ed i selle seguenti scritti si  suppongono composti in Napoli dal 1806.  al 18 15.   55 Rapporto alla reai società d’ incorag-  giamento sul progetto di stabilire nelle provin-  cie del regno altre società simigliatiti , Considerazioni sul debito pubblico , e   su’ beni nazionali relativamente alla legge de’ a.  luglio 1806. pag. ia. «   57. Breve esame dell’ indole delle dogane  interne . pag. 20.   58 Rapporto per gli stabilimenti di uma-  nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . pag. 1 3 .   6j Osservazioni sulle procedure criminali  die si chiamano Nullità . pag. 14.   62 Parere intorno ad un’ opera del Sig.  Biie D. Davide JV'uispeare , intitolata : Storia  degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar-  si i buoni scrittori . Opuscolo,  Lettera sulla imputabilità de’ muti .   65 Pochi cenni su’ fondamenti delle Scien-  ze morali. Discorso ( letto nella reale Accade-  mia delle Scienze di Napoli nel iSlij , e de-  stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti  della medesima , insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i metodi  d’ istruzione usati in Europa .   67 Alla Giunta preparatoria del Parlamen-  to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore di alcuni impie-  gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine po-  litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici per  supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3 o.  t&arzo 18 23. pag. 19.   7 1 Deli’ importanza di far precedere le co-  gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia  intellettuale . Discorso ( mandato alla reale  Accademia delle Scienze di Napoli il 26. lu-  glio 1823. ) pag, 18.   72 Elogio in morte della Duchessa di  S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto-  ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi-  ma , per risposta alle obiezioni di Amaury D re-  vai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A  ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che  seguono nella presente classe furono compo-  sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So-  cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del  genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filo-  sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da -  miron. Lettera, pag. 3 .     Lettera su cF un manoscritto comuni-  cato , riguardante politica, pag. 28.,   78 Due biografie di se stesso : una scrit-  ta nel i 8 z 5 , t altra nel 182J.   79 Delle cagioni per le quali il civilizza-  mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8.   82 Sulla medicina omiopatica . Lettere  due. Sulla dottrina medica di Samuele  Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera al  Mse. Tommasi. pag. 18.   86 Sullo stesso argomento. Lettera pole-  mica. De' confini del regno di Napoli nella  linea del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi-  ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza. Let-  tere 3 .    Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile , ossia  trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti , ossia  della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-  versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà, pag. 123.   96 Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia colla Fi-  losofia. Dissertazione, pag. 12.   98 Dell’ eguaglianza de’ diritti delle donne , considerati specialmente nelle successioni,  Distinzione fral merito c la gloria.  Dritti politici e dritti civili, pag. 14.   100 Sul quesito : Quale sia il miglior  de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag. 26.   101 Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati , o sia de’ veri principi della  Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu-  ni. Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della pro-  vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 .     Ricerche su le leggi coniugali , con-  siderate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,  nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali  e civili, pag. 3 fi.   106 Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina. Pensie-  ri. pag. 5 fL   108 Osservazioni sull ’ opera intitolata :  De’ principi della scienza etimologica, pag. niL   109 Saggio filosofico su la guerra e su la  pace. pag. fili.   i_lq Igiene, pag.     % JFritmmitttt     iti Di ciò che si chiama quadro dello  stile , pag. sLm   112 Sul poeta Orazio. Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj.  pag.’ 224.   1 1_4 Qualche osservazione sull' opera di  Neker Sur 1 ’ administration. pag.  t i fi Del Vesuvio, pag. £L  1 ifi Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc.   ( Prefazione per una raccolta di aneddoti ) .  pag. 2. m   120 Sulla Città di Reggio, Sul travaglio, pag. 2«   1 22 Progressi dello Spirito - Orgoglio na-  zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di  tipografia, pag. 18.   128 Su’ pastori, pag. 2.   124 Saggio sull’ adulazione. ( Progetto di  un' opera ) . pag. 2.   iz 5 Ricerche storico - filosofico - polili-  clie su la nobiltà. ( Progetto di un' opera ) .  pag. a.   126 Istoria dell’ anima, pag. 5 L   1 27 Sugli ospedali. ( Molti pensieri non  legati) . pag. 96.   128 Progetto d’ un nuovo giornale delle  mode. pag. 1 Q.   129 Notizie su le opere impresse nel pri-  mo secolo della stampa , per ordine alfabeti-  ca fino alla lettera P. pag. io 4 <   180 Qualche pensiero di dritto pubblico,  Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati munici-  pali. pag. 4^   1 33 Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni  di Filosofia de Laromiguiere. pag. 8.   1 35 Qualche osservazione sull’ opere fi-  siologiche di Spurzheim.pag. 8.   1 36 Della civiltà, Catechismo universale, pag. 2.   1 38 Della ragion di stato, Estratto della politica d’ Aristotile.   Morale nelle leggi,   Piano di scienze morali, pag. 4-  14 ^ Dell’ origine e significato della parola   morale , e delle varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi,  Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti  sulla lingua italiana, Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemer-  cier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti-  lità del presente Viste politiche e morali sugli effetti  della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune  espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle  Scienze naturali, pag. io.  Al sig. Ab. D. Cataldo Jannelli .  Dell’ uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive  in mezzo alla società. Sull’ Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la  divozione pel Sangue di Gesù – Cristo  Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Clarano: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of Seneca from the time they study philosophy together under Attalo. In a letter to Lucilio the Younger, Seneca contrasted the ugliness of his body with the beauty of his soul. Grice: “Strictly, this is Chiarano – since the Italians, unlike the Romans, seem unable to pronounce the ‘cl-‘ cluster.” Clarano.

 

Grice e Claudiano: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Writes a treatise on the sould against Fausto d Riez. Claudiano Mamerto. Claudiano.

 

Grice e Claudio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best under Appius. Appius Claudius. A reforming politician who, according to Cicerone, was at least influenced by Pythagoreanism.

 

Grice e Claudio: la sofistica a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of the sophist Marco Antonio Polemo. Primarily known as a sophist himself, he was also a logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.

 

Grice e Claudio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofi italiano. A philosopher highly regarded for his moral virtue. Claudio Antonino. Claudio.

 

Grice e Claudio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch and a friend of Antonino. He had a career in public life and was highly respected. Antonino says he leart the value of self-control from him and admired him for his cheerfulness, modesty, imperturbability, and generosity of spirity. He presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio Massimo. Claduio.

 

Grice e Claudio: il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo italiano. A Lizio --  a friend of Antonino. The emperor admired him for his kindness, warmth, and honesty, as well as for his dedication to philosophy. Claudio Severo. Claudio.

 

Grice e Cleemporo: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Plinio Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of herbs that others attributed to Pythagoras.

 

Grice e Cleomene: la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A gnostic who founded his own set in Rome. Originally a pupil of Epigono.

 

Grice e Cleonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Cleofronte: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.

 

Grice e Cleostene: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Clinagora: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Clinia: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana  -- Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. The information about Clinia is confusing, but running through it all is the constnt theme that he was a Pythagorean. Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and Heraclea. Clinia and Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the works of Democrito di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of Pythagorean friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di Cirene at considerable cost and risk to himself. Although neither story is possible to date with any precision, if both are true, Clinias would appear to have lived a very long time. A confusion of two people with the same name is perhaps more likely.

 

Grice e Clitomaco: la setta di Thurii -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Thurii). Filosofo italiano. Probably a pupil of Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio, Clinomaco was the first to write about propositions and PREDICATES. He was interested in logic and attached great value to the use of argument. Some regard him as the initiator of the dialectical school.

 

Grice e Clodio – Roma: la setta di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. According to Porfirio, Clodio wrote a book arguing against vegetarianism.

 

Grice e Clodio: all’isola -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano Clodio Sesto – a teacher of rhetoric.

 

Grice e Cocconato: l’implicatura conversazionale --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).  Filosofo italiano. Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS, op. cit. loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER: op. cit. loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de! 1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il " Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098. MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age „. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0  great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz. de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti: pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom. 4. V. 15.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part 3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz. 1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag. 224-248; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris, 1827 > T. III. N. 16186.  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato.  [H] Desideri:  fenomenologia degenerativa e strategie di controllo     1. I/epithymia nella fenomenologia degenerativa   Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per il sa-  pere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione  dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una  prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-  lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig-  matiche di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in-  dagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al-  la disamina delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo-  gia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel libro  Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania di-  segnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposi-  zione strutturale tra repressione e canalizzazione, parimenti  inerente a epithymiai ed eros, che attraversa il grande dialogo.   A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico volto a  riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di ori-  gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a  convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi-   1 Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui voi.  Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.  VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi e  i Greci, Torino 1996; pp. 431-67 (p. 441); sul rapporto complessivo psyche-so-  ma, cfr. T.M. ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54.     472 ' PLATONE, LA REPUBBLICA   ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicolo-  gici della fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'u-  no con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una sfera "pro-  pria" di desideri esplicitata nel libro IX: «siccome tre sono le  parti della psyche, triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno  proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il loro ruolo  di comando» (580d6-7). Con ciò la statica tripartizione deli-  neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata, retroattivamente,  all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme  caratteriali disegnata nell'VIII.   Più da vicino, l'attribuzione rende conto del legame tra il  governo del logistikon e il desiderio di sapere del filosofo, il go-  verno dello thymoeide s e il desiderio di onori e gloria del carat-  tere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal gover-  no del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desi-  deri e piaceri: 1) i «necessari», dei quali «non ci si può libera-  re», quali fame, sete ed eros riproduttivo, il cui appagamento è  utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono essere «al-  lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene, talvolta  anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge, per-  versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi allonta-  nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale pog-  gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, do-  minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio  per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-  mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri  non necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure   2 La convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio Fici-  no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza";  soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,  appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della metapsicologia  aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul-  la revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A.  GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.  22-24.  Vm E IX, [H] 473   deYL'erottkos e del tirannico, invasi e pervasi dai desideri para-  nomoi?   Questa diairesi delle specie del desiderio, tassonomica-  mente inerente d& epithymetikon, eccede euristicamente la ca-  talogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene con-   3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei desideri e il poli-  morfo epithymetikon, cfr., per es., D. HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'.  Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha  sostenuto la forte «discrepanza» e «aperta contraddizione» tra la tripartizione  psichica e r«improwisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia-  logform und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat-  tutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme costituzio-  nali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione psichica  sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero che rimangano  delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al desiderio necessario del carat-  tere oligarchico: l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata  quale elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithy-  metikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente  i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "interme-  die". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme  politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic',  Goteborg 1971, pp. 155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin Plato's 'Repu-  blic', Sankt Augustin 2003, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson,  il carattere meramente «analogico», «non causale» dell'isomorfismo, cfr. so-  prattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipo-  lis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia (p.  69); vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo  (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della di-  namica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani, come  544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata la degenera-  zione caratteriale come a p. 67 ove non considera che il giovane timocratico  «esce di casa» etc. (550a), e che la figura paterna risulta infine «sconfitta» per-  ché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo modello psico-  caratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico  (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico (p.  74) ove tace su 557b, 563d e 564a, nonché 559d sgg. In breve ritengo, di con-  tro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di  corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia  semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva nel     templata la possibilità che i desideri possano essere allontanati  o meno, approccio che mostra come la materia epithymetica  sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo adottabili  nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della qua-  le si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte,  anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veico-  lati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro  soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofi-  sico complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di  gestione tese al contenimento e allontanamento del materiale  epithymetico più pericoloso, insidie e derive psicopatologiche  ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre la dege-  nerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la loro  unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ri-  percorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenera-  zione.   2. Repressione ed esilio   Kolazomenai: i desideri possono essere e talvolta vengono  repressi:   Fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere  contrari alle leggi. Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se ven-  gono repressi (kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con  l'aiuto della ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto  oppure restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi.   La repressione dei desideri non necessari, ed in particolare  di quelli paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita  rispetto alla modalità funzionale, tripartita quanto alle catego-  rie caratterologiche.     contempo la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-tempora-  le, dialettico.   E IX, [H] 475   a) L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi «si al-  lontanano del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito  viene ascritto, più in generale, alla repressione giovanile dei de-  sideri genericamente non necessari: «si potrebbero allontanare  (apallaxeien) , se ci si prendesse cura di farlo fin da giovani»  (559a3). Ancora: se il desiderio non necessario «è represso ed  educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può es-  sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli  uomini» (559b9-10).   b) La permanenza: i desideri repressi permangono esplicita-  mente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso  permangono «pochi e deboli» desideri; condizione che non  viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due  forme riguardano la stessa categoria di persone. 3) Nel terzo  caso permangono desideri «più forti e numerosi»» sì che viene  delineata una seconda categoria di persone. 4   Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le con-  seguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie re-  pressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello democratico.   Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera il  giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita  distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimen-  to del desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono di-  strutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson). Ab-  bandonati i desideri banditi al proprio destino, Platone si con-   4 Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di  «abwenden» i desideri non necessari e il «fortdauern» dei paranomoi attestata  dall'analisi dei processi onirici, di H.P. VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute  bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei  desideri necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte oli-  garchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive compa-  gnie, rappresentanti della parte democratica.     I     476 PLATONE, LA REPUBBLICA   centra quindi sull'analisi di «altri desideri affini a quelli che so-  no stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio ne-  vralgico, che, in talune occasioni, «cresciuti di nascosto» (hypo-  trephomenai) , diventano infine «molti e vigorosi» (560a9-b2).   Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, in-  sensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse  «unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla»  (560b4-5). Essendo tale proliferazione «nascosta», «segreta»,  «furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettiva-  mente «inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da  cui si nascondono non può essere se non ciò che noi usualmen-  te indichiamo con l'espressione «coscienza». In breve, sfuggo-  no alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non  necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intra-  psichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera co-  sciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri para-  nomoi repressi nel caso in cui restano «forti e numerosi».   L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici  pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto atte-  stata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove  leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando perso-  ne viziose, ammassino «senza accorgersene {lanthanosin) un'u-  nica grande mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario,  devono crescere tra «opere belle» così che la loro «aura», «fin  da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li conduca «al-  l'armonico accordo con la bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed an-     6 Anche D. HELLWIG, op. cit. (n. 3), pp. 121-22, 130, sottolinea come le  «Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e pos-  sano poi rafforzarsi «in heimlichem».   7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze 1954, voi. II, pp. 601, 395  parla a questo proposito di «inconscio», così come J. Lear, La psicoanalisi e i  suoi nemici (1998), trad. it. Milano 1999, pp. 183, XVIII; il termine «incon-  scio» però, in questo caso specifico, non può essere inteso nel senso classico e  ristretto (dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla ri-  mozione.   cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione esce dalla  mente» «in modo involontario» (412el0-413al), come accade  in «coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e  che se le dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ra-  gionamento, le portano via di nascosto {exairoumenos lantha-  nei)» (413M-7).   Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Plato-  ne all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desi-  deri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto,  «hanno infine conquistato l'acropoli della psyche» (560b7-8).  L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luo-  go nel quale si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre  istanze e le particolari sfere di desideri ad esse pertinenti pos-  sono governare l'individuo. I conflitti, lo scontro tra sfere di  desideri alternativi che segnano intimamente la psyche hanno  quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la «regale fortezza»,  penetrare attraverso i «portali» che conducono al cuore del  soggetto, al sé (553b7-d7).   La repressione che si limita ad allontanare, ma forse anche  a bandire, e comunque esclusivamente a dislocare topicamente  il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora intendere quale  espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa, resistenza  e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata nel  mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non so-  no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso  alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui la  politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo  metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro-  cessi psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-  rettamente, in questa dimensione concettuale.   Un ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressi-  ve, sempre di matrice psico-politica, è la schiavitù cui sono  soggetti i desideri repressi. Una prima chiara indicazione in tal  senso ci è data nella discussione del carattere oligarchico che  letteralmente «rende schiavi», «mette in schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge, in  generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e mette-  re in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te kai  doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro-  cessi onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette  le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo-  lo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la re-  pressione in taluni casi si configura come un processo seguito  da una forma di controllo radicale, di incatenamento.   In conclusione, la repressione dei desideri, paranomoi ma  più in generale non necessari, è un processo tale per cui essi  vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa comporta  la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della co-  scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi  di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo-  mento, tentare un attacco alle sue porte.   3. Il ritomo onirico del represso   I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del  libro IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3),  inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci  offre un contributo tanto stringato quanto sorprendente per la  sua modernità, essenziale nell'architettura metapsicologica  complessiva delle strategie di controllo deH'epithymia nonché  ai fini della definizione della specie dei desideri paranomoi e  della deriva psicopatologica complessiva della fenomenologia  degenerativa.   II «risveglio» avviene   quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adat-  to al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di ci-  bo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di  aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi (571c3-7).   Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, sti-  molato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via il       sonno; ciò comporta il sincronico «risveglio» dei suoi desideri;  ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò non  può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche  ciò che è «socievole», 8 probabilmente lo thymoeides.   Il proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: «Sai  bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e  liberata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c7-  9). H sonno del logistikon, l'istanza cui va ascritta la phronesis,  e verosimilmente dello thymoeides, al quale possiamo attribui-  re, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne, viene quindi  a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza che  impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore  quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni so-  no perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto dall'ecci-  tazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pres-  sione dei desideri, segue la loro emersione e soddisfazione per-  messa dall'inattività delle forze razionali, morali.   Date tali condizioni,   tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina) non la imbaraz-  za affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi, animali, e commette-  re qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun cibo (571c9-d3).   Quadro «edipico», 9 perversione, aggressività omicida.  Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli occhi  dell'impotente sognatore.   Posto che l'attività onirica rappresenta la «soddisfazione»  «immaginaria» o «visionaria» di desideri repressi (571dl;  572a9-bl), riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari-   8 Su hemeron e thymoeides cfr. W. JAEGER, A New Greek Word in Plato's  'Republic' (1946), in Scripta Minora, 2 voli., Roma 1960, voi. II, pp. 314-16.   ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, K.R. POP-  PER, La società aperta e i suoi nemici (1966 5 ), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi.  I, p. 421; C.H. Kahn, Plato's Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics»,  XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p. 83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der  Staat, Munchen 1991, p. 506.     zione e sincronico appagamento potrebbero essere interpretati  come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la vigilan-  za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione, an-  che se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela nell'uni-  co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'a-  cropoli si verrebbe così a configurare come sfera della coscien-  za, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri impon-  gono la visione della loro drammatica rappresentazione, diven-  tando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare le  funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,  priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini  spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il  sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è  possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti  in schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11   Platone ha così dischiuso e percorso la «via regia per l'in-  conscio» tracciata nel Novecento da Sigmund Freud. A monte,  la repressione platonica si lascia intendere alla luce della rimo-  zione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché quest'ultima,  che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken), 12 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte (1982), trad. it. in  G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia, Roma-Bari 1988, pp. 103-20 (p.  109). La più articolata trattazione platonica di ciò che noi indichiamo con le  espressioni «coscienza» e «autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo  33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un indivi-  duo «vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opina-  te» (39b-c), poi che egli «scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Re-  pubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare  presupporre una concezione della «coscienza» simile.   u Parlano di desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn, op. cit. (n. 9), p.  82, e J. LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142.   12 «Ci sono nella vita psichica desideri rimossi [...]. Ci sono non è inteso  storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrut-  ti; per la teoria della rimozione [...] simili desideri rimossi esistono ancora,  ma contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio     COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, [H]     481     dal carattere «morale», 13 tesa a contrastare una sfera di deside-  ri «immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadi-  che», 14 anziché condurre ad «una completa distruzione» 15 dei  desideri, si limita al loro «allontanamento» (Entfernung) dalla  coscienza. 16 Questi perciò «permangono» (Fortbesteben) al  di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il  rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto", "fuori-  legge".   La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio ta-  glio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di  «scaricarsi nell'azione reale», 19 gli viene metaforicamente nega-  to l'accesso alla Festung freudiana, la «fortezza» dalla quale si     colpisce nel giusto quando parla della "repressione" (Unterdrucken) di tali  impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di  realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni,  in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino 1967-80, voi. Ili, p. 220; originale:  Die Traumdeutung, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999,  voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste  edizioni).   13 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. LX, p. 498; cfr. anche Lo., Breve compendio di  psicoanalisi, voi. IX, p. 592.   14 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni', voi.  X, p. 158.   15 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 201 [S. FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoa-  nalyse, voi. XV, p. 98: «eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo  è certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico, voi. X, p. 3 1; cfr. anche  S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290.   16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza  consiste semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla co-  scienza» [Die Verdràngung, voi. X, pp. 252 250]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, voi.  IX, p. 480.   17 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, voi X, p.  251].   18 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung,  Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185].   19 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, voi. IX, p. 205.     482 PLATONE, LA REPUBBLICA   «domina la motilità». 20 Sull'altro però esso «sopravvive al di  fuori» della coscienza godendo del «privilegio della Exterrito-  rialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può  «sviluppare derivati e annodare connessioni», «prolifera per  così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rap-  presenta la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23 Da  qui la necessità di una costante attività di «resistenza» alle so-  glie della coscienza. 24 In termini spaziali: espulso un ospite in-  desiderato si deve «poi far sorvegliare perennemente la porta  da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la for-  zerebbe». 25   Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le orme  platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per l'inconscio  perché in esso i desideri repressi, approfittando del cedimento  della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e godendo del casuale     20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, voi. Ili, p. 517 [Die Traumdeu-  tung, voi. II/III, p. 573]. Riprende questa stessa immagine, accostandola ai  conflitti della psyche platonica, M. Stella: cfr. qui voi. III, [J], p. 317.   21 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hem-  mung, Symptom und Angst, voi. XIV, p. 125]; cfr. anche Id., Il problema del-  l'analisi condotta da non medici, cit, voi. IX, p. 370.   22 S. Freud, Metapsicologia, voi. VIII, p. 39 [Die Verdrdngung, voi. X, p.  251].   23 Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi.  VILT, p. 44.   24 Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud, Metapsico-  logia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 303. Sulla  distinzione tra derivati e rimosso originario, e tra rimozione originaria e post-  rimozione, cfr. Id., Metapsicologia, voi. Vili, pp. 38 sgg.   25 S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque  conferenze sulla psicoanalisi, voi. VI, pp. 143 sgg.; Id., Introduzione alla psicoa-  nalisi, voi. Vili, pp. 454 sgg.   26 Cfr. in questo senso anche A. KENNY, The Anatomy of the Soul,  Oxford 1973, p. 12.   27 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 134.      Vili E IX, [H] 483   rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta a  farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze» della co-  scienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che condu-  ce alla motilità» durante il sonno viene «chiusa» dal «guardia-  no», 30 il sogno rappresenta infatti la «soddisfazione allucinato-  ria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi  peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la censura  inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche per  Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino  sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno  subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui  allude Giocasta nell'Edipo re». 34   Infine, considerato che il concetto di inconscio in senso  stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente «ricavato»  dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è per     28 Cfr. S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Intro-  duzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico-  logia, voi. Vili, pp. 40-42; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI,  p. 509, viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei pro-  cessi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpreta-  zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C.   29 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp. 317-18;  cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111.   30 S. Freud, Il interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si  può rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp. 104-  05.   31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi.  VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  pp. 134, 142.   32 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le-  zioni), voi. XI, pp. 135 sgg.   33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni' ,  voi. X, p. 158.   34 Ibidem. Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice:  «Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so-  gno con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).     4     noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato  dal fatto che i desideri confinati «non possono divenire co-  scienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente co-  me accade per i desideri repressi platonici tenuti in schiavitù,  possiamo concludere affermando che, di fronte alle analogie  tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono essere  considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci in  senso stretto (dinamico). 36   4. Difese pre-oniriche   La difesa approntata da Platone per prevenire l'emersione  onirica dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così deli-  neata: ci si deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben de-  sto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere assopito Ye-  pithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per  cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infi-   55 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. IX, pp. 477-78.   36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER, op. cit. (n. 7), voi. II, pp. 599, 602; T.  GOULD, Platonic Love, London 1963, pp. 175, 108; J. Lear, op. cit. (n. 7), pp.  XIX, 34, 140-42; A. HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the  Impersonai Good, Cambridge 2000, p. 57; O. GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L.  MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi  greci e il piacere, Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e salute,  Milano 1999, pp. 281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.  E.R. DODDS, Plato and the Irrational Soul, «The Journal of Hellenic Studies»,  LXV (1945) pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n. 26), p. 11. Di diversa opi-  nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in Plato's 'Protagoras' , in Procee-  dings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, VI (1990), pp.  115-140, rispetto a Repubblica cfr. soprattutto pp. 116-18, 135; egli rimanda  però alla messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon (589c6-  590c6), che abbiamo visto essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfrut-  tamento" e non all'allontanamento (cfr. n. 42), dalla messa in schiavitù dei de-  sideri paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in M. SOLI-  NAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei  Freud, «Philosophisches Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp. 90-112.   ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni  fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi»  (571d6-572bl). 37   Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un  carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'e-  mersione del materiale represso, il suo risveglio rappresenta  però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitu-  tiva ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la sua  natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica  che potrebbe suggerire che esso possa contribuire alla manife-  stazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere marca-  tamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logi-  stikon ed un vago «ciò che è socievole».   Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del  lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un richiamo alla  concezione del desiderio quale soddisfazione di una mancanza  (cfr. 43 9a), sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalo-  rata dal fatto che l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta  comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi «dolori»  (572al: %aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che trova  un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si risveglia  dal sonno, come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7).   Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi  e ricerche» (571d7), emerge un'asimmetria funzionale: il sonno  rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resi-  stenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di svolge-  re alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di funzio-  ni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza» po-  trà «venire in contatto con la verità» (572al-3). 38 Attività che   37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra tranquillità e  qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna e sogno.   38 Cfr. nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n. 10), p. 108.  Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire una  conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la ragione deve «interpretare con     non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei desideri  repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta di-  stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno  dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39   Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter-  vento diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare  o compiere una qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali  intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento, come vie-  ne ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere per-  seguito e raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto  dopo aver assolto questo compito ci si può finalmente conce-  dere il riposo (572a7). La non-emersione dei desideri è, dun-  que, garantita univocamente da un intervento consapevole,  pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi oniri-  ci paiono perciò significativamente ridotte rispetto a quelle  della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e proprio  conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere «turbata»  dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon (571e2), accenno  che sembra indicare che essa si limiti a percepire passivamente,  ad assistere impotente alle sue turbolente manifestazioni.   In conclusione, il quadro dei processi onirici è così artico-  lato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed allora  «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle   il ragionamento» (72a) dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubbli-  ca sono i sogni quali appaiono in Fedone 60e, Critone 44b, Leg. 909e-910a,  Epinomide 985c, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al  riguardo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (1951), trad. it. Firenze 1997 2 , pp.  122-31.   39 Cfr., per es., S. FREUD, Lio e l'Es, voi. IX, p. 489: «un lavoro intellet-  tuale sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,  può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non  vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e  Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 136: la  funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma  «non ha nulla a che fare con il lavoro onirico». leggi», ed esso può attivare le sue funzioni intellettuali; oppure  V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son desti e il  logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Es-  sendo l'esito univocamente determinato da un intervento indi-  retto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare  con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, di-  retta ed inconscia. 40   In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non compaiono  affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.   5. Strategie di controllo e caratteri universali   Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una con-  dizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle sud-  dette misure preventive prima di concedersi il riposo, sì da evi-  tare la manifestazione delle empie visioni, è necessario che sia  presente, anzi incombente il pericolo della loro comparsa. La  ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di ogni  forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche ri-  spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei  processi onirici:   Però parlando di queste cose siamo andati troppo lontano. Ma ciò  che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei pochi di noi  che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio presente  una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si manifesta  chiaramente appunto nel sonno (572b2-8).   Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap-  parenze, il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro  che più sembrano moderati, nonostante ciò possa parere inam-   40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le-  zioni), voi. XI, p. 130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e  sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-  nalisi, voi. XI, p. 594.     missibile, ebbene anche in loro, anzi in «noi» - Platone qui  sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie di desi-  deri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno».   Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la  migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse-  re stati «interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né  pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione la-  scia aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso peri-  colo affiorava del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone  scriveva che gli uomini «cari agli dèi», in altri termini i mode-  rati, predispongono la «guardia» alle porte dell'acropoli  (560bl0).   Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon soddisfa «i suoi  abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In questa defi-  nizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: sia-  mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e  illegale» che costituisce un elemento strutturale dell' 'epithyme-  tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e origina-  ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata non  può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò  Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi-  deri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5-  6). Del resto i desideri non necessari bussano alle porte dell'a-  cropoli fin dalla giovane età, come mostrano i molteplici ri-  chiami ad operare una loro repressione ed educazione «fin da  giovani» (559al sgg.).   Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana-  ti «esistano» anche nei moderati non significa che il loro status  sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo-  derati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio-  ne i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare.   Bipartiamo dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i  desideri non necessari (554a7), in altri termini essi «vengono  tenuti sotto controllo con la forza» (554cl: katechomenas bia);  spiega ancor meglio Platone:        [il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di  sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano,  non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li  ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della necessità  e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei [...] oì>  TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p).   La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe-  ra razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o vio-  lenza (bia) di una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia  apprezzabile, lodevole (epieikei), con le catene della schiavitù  non risolve il problema. Siamo di fronte a due modelli di ge-  stione del desiderio alternativi: l'uno repressivo, negativo, l'al-  tro persuasivo, positivo. 41   Di contro, è anche vero che Platone discutendo del carat-  tere democratico scrive:   se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desi-  deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e ono-  rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste  occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari  rispetto (561b8-c4).   Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore positivo,  sembra emergere una contraddizione. In verità però come il  processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabi-  le» nelle intenzioni, è comunque meglio di niente per un indi-  viduo degenerato, così nel «discorso vero» che deve esser fatto  passare nella psyche del giovane carattere democratico, che è  ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non   41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste su  «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit Gewalt un-  terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al carattere ed alla co-  stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera fenomenologia degenerati-  va; la Hellwig inoltre riferisce tale alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon-  do adottati da Platone.  preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già  sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-  re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a-  dozione della strategia più drastica: la loro repressione e messa  in schiavitù. Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a  disposizione dei degenerati caratteri oligarchico e democratico  (e anche del timocratico), nei quali il logistikon, l'unico in gra-  do di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai «asservi-  to» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides: 553dl-7) 43   Stringente il parallelismo semantico e concettuale che si  pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la degenerazione poli-  tica e sociale permette la nascita e proliferazione di «ladri, ta-  gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della polis  che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la for-  za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il  circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico, si  avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con-  turbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e  polis, di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e  patogena, ancorché lodevole, della repressione violenta. 44     42 In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del-  lo sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare  le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei desideri  ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento, espulsione, allonta-  namento.   43 Sull'armonia psichica instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua  contrapposizione con la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R.  KRAUT, Plato's Comparison of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla-  ton. Politela, Berlin 1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.).   44 Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg.,  ove Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen-  de la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le di-  rettive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non pie-  namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio, nell'uno  si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per cui l'auspicata ar-  monia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie di controllo dei  desideri non necessari emergono allora quattro modelli para-  digmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi,  uno misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «di-  strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quel-  lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene «allontana-  to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser «controllato con  la forza», è «convinto» e «ammansito». 45   Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside-  ri paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla  loro esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è  esattamente una medesima operazione repressiva come l'ab-  biamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie af-  fini ma distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e  mette in schiavitù» ed ha l'esito univoco di spostare e incatena-  re il desiderio. La seconda rientra nel modello per cui il deside-  rio «represso ed educato [...] viene allontanato». Qui la com-  presenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allon-  tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente incate-  nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione in  un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno  interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali per-  mangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale po-  tremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Plato-  ne abbandonava al proprio destino: in tutti e tre i casi i deside-  ri vengono repressi, non distrutti, ma si tratta di una repressio-  ne per così dire morbida, tendente perlomeno in parte alla loro  «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle porte  dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva, di   ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che adotta, a  priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo, lacerante.   45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan; 2) 561c2-3: kolazein te  hai doulousthai; anche 554a7: douloumenos; 3) 559b9-10 kolazomene kaipai-  deuomene [...] apallattesthai; anche 559a3: apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia ka-  techei [...] oupeitho [...] oud'henieron logo.        messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico dei  desideri; è questa la via che conduce prima al democratico, poi'  alla mania del tiranno.   In conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emer-  gano oniricamente i desideri paranomoi si lascia intendere co-  me se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono  ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe origina-  ri e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfit-  tare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logi-  stikon per mostrare le strutture universali, esse stesse «incon-  sce», 46 che generano e sospingono in avanti i singoli desideri  paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli desi-  deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là di ogni modalità di controllo  adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno mo-  stra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei  desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «be-  stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa  sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in  quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48   46 W. Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di fronte alle  «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso A. Kenny,  op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n. 10), p. 108; W. Janke, AAH0E-  LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», XLVII/3  (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera del resto una distinzione  tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali», «innate» ed «inconsce»  dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, cit., voi. XI, pp. 572 e 590;  Id., Luomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id.,  Metapsicologia, voi. Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr.  Id., Dalla storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591.   47 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495:  «tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Al-  cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 159; Id., I  miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T. GoULD, op. cit. (n.  36), p. 175.   48 Sostengono apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli  altri, Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge    Dal sogno alla realtà: derive psicopatologiche   Se ritorniamo alla degenerazione caratteriale, è facile ora  riconoscere come rispetto alle modalità intrapsichiche di con-  tenimento del desiderio l'approccio univocamente repressivo  alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva psico-  patologica.   La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione necessa-  ria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal  governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico,  che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides (cfr. 550b4  sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora una figura pa-  tologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si  fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il  carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari  dell 1 ' epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met-  tere in schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri-  solve ma acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un  simile uomo non potrà dunque esser libero da conflitti interio-  ri, e non sarà uno ma in un certo senso doppio» (554d9-10). In  negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armo-  niosa, fuggirà via lontano da lui» (554e4-5).   La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane figlio  democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare  con la forza quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non   1975, p. 534; A. BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150;  C.H. KAHN, op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in Plato s  Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp. 341-56 (p.  347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear, op. cit. (n. 7), p.  142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel migliore dei casi nella  psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da rendere inoffensivi o da ri-  muovere».   49 L'approccio duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta  presenza nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la  persuasione ma con la forza» (548b7-8).     4 necessari» (558d4-6: Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta»  èSovcòv), In questo modo però, se talvolta alcuni desideri ven-  gono distrutti, talaltra invece proliferano «inconsciamente»,  rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli. Saranno allora  «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere le porte  della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il pudo-  re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante  fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzial-  mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in  passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5).   Il passo che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de-  terminismo degenerativo disegnato da Platone, è però ormai  cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero  sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida»  (573 a-b), e quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si libera-  no definitivamente «dalla schiavitù», mentre prima, quando  egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le opinioni]  si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le cate-  ne della schiavitù sono state spezzate:   Ma sotto la tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi-  ta da desto quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non  si asterrà da alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione  (574e2-4).   L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come  l'avevamo descritto nei suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi-  sta della fenomenologia degenerativa questa figura è dunque  dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso che  scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento oni-   50 Cfr. anche J. Lear, op. cit. (n. 7), p. 193: «La comparsa dell'uomo de-  mocratico è, in linea di principio, il ritorno del represso nella generazione  successiva»; sull'oligarchico cfr. ivi p. 182.   51 Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i  suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni  dissolute del tiranno.   rico a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rap-  presentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immagi-  nazione alla conquista permanente dell'acropoli.   L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni  settore della psyche abitandovi come un tiranno» (577d; 329c-  d; 573 d; 575a). I rapporti di forza della psyche-polis vengono  nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori  di sé i desideri e le opinioni oneste» (573a3-b7). Tirannia che  genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della «vo-  lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più sel-  vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai comple-  tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro inappagabile  ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne cade  preda. 53 Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai  suoi desideri e amori». 54   Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il processo  di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico  ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia del-  l'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale  risultato di un approccio brutalmente repressivo del materiale  epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza e  il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei  processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigo-  ritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psico-  patologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed  espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodina-  mica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere at-  tribuita la più grave responsabilità della fenomenologia dege-  nerativa.     52 Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,  cfr. O. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a),  “Museum Helveticum”.   54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV.     7. L 'altra via: la canalizzazione     PLATONE, LA REPUBBLICA     La strategia antitetica alla repressione è quella della per-  suasione e educazione del desiderio. L'architrave metapsicolo-  gico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato dal-  l'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura  all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.   Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico  si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge lim-  pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che quando le epithy-  miai di una persona si concentrano con forza in una sola dire-  zione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto,  come una corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone, «in  quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi  e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il piacere  della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del corpo»,  come accade nel philosophos (VI 485dl0-12). Se, allora, si con-  sidera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente sin-  golarità, si tratti di specifici desideri necessari, non necessari  e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà,  esse risultano essere una forza energetico-pulsionale unitaria,  canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo un  modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a  monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di  gestione del materiale epithymetico.   Questa è la ragione, dalla nostra prospettiva psicodinami-  ca, con la quale si spiega perché l'estensione metapsicologica  della tripartizione del libro IX poteva coniugare esplicitamen-  te, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e  governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,  «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,  rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia  intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le     Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov.     COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata. 56 Modello  rafforzato, descrittivamente, da una sorta di estremizzazione  erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del filosofo o  meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la sua  forma» (V 474d8-10), come chi «desidera qualcosa la desidera  in tutta la sua forma». Estremismo che conforta la  tipologia caratteriale del libro Vili.   L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e  caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura  comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della ve-  rità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione  strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radica-  lizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scor-  re il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i ter-  ribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare  .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma  benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza  psichica che in virtù della sua potenza può supportare la lunga  navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro  della dikaiosyne. 38   In conclusione, posta la permanenza di specie di desideri  stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento,  come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può mai  svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithy-  metico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti   56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Repu-  blic', Oxford -Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di  una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel  Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la necessità di non confinare l'eros nel-  la dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls short of the truth. PLATONE, LA REPUBBLICA  di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte  riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma  doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché  tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E  questo lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi  i due approcci fondamentali, le due strategie basilari di con-  trollo del desiderio adottate da Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare la  via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una  massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dal-  le catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini  della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e per-  mettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi  l'esplosione finale del loro devastante potenziale.  Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Coco: l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale prevalente -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo italiano. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --  Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.  Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa,  Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.  La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del Codice Civile e del  Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.  “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo,  come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica amministrazione”.  -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu­ra, ricevette  i primi  rudimenti  di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in taluni suoi saggi filo­sofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti ol­tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano  e Calabria  della Corte d’Appello  di Napoli,  dove  vi  permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne  la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale  “Il  Tribunale”, pubblicazione mensile  edita a Roma, lo sa­luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte­nere, nonostante  l’altissimo  grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon­tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale  della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun­zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa­rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato­re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel­la  Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per  noi particolarmente  caro, di Redattore Capo della    Rivista di Diritto Pubblico. La  recente nomina, se indubbiamente  costituisce un nuo­vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà  di  buon  grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate  funzioni giudiziarie, alle quali porta il va­lido contributo della sua competen­za, ma soprattutto una grande se­renità ed equanimità. Riguardo ai meriti  illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so­lidissima dottrina e da rigorosissi­mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e­voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po­litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi­va normativa di attuazione gli die­dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina­zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor­mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove­rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri­ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va  dal  primo  dopoguerra all’ av­vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace  e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin­dacale, o “giuslavorismo”, costi­tuendo davvero una novità assolu­ta nelle scienze giuridiche del tem­po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco­nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli­tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto  Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag­giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap­punto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura  Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi­nenza della promulgazione, il Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide  con  l’immane  conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nono­stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave­va scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi e que­stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu­ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu­ridecennale collaborazione, ne sco­va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in­tegerrimo, del quale va appena ri­cordato, ammesso ve ne fosse biso­gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle­citazioni per una causa che la inte­ressava. Ebbene, Coco pro­cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me­riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida­mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri­corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese­mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri­conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana­mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente.  Del Lavoro.  Le Società di Mutuo Soccorso in Italia.    Il prof. Gobbi, nel suo pregevole libro: « Le Società di Mutuo  Soccorso » dice che « il nome di Società di Mutuo soccorso è comunemente assunto da associazioni, le quali hanno per loro scopo  principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci stessi ».   Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie  di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e mestieri,  nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste associazioni  si proponevano scopi di difesa professionale, di perfezionamento nelle  arti esercitate dagli associati ; qualche volta, in via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumevano importanza politica  di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nelle arti della  repubblica Fiorentina.   Abbiamo però nel nostro paese esempi di società mutualiste sca¬  turite dal vecchio tronco della corporazione o del Collegio, o meglio  che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti  noi possiamo considerare la Società fra i falegnami e fabbri di  Faenza che fa rimontare la sua origine al 1410; l’altra pure di  Faenza fra calzolai ed arti affini che si dice sorta nel 1474; la Società Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del 1454 ; la Società  Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei Cappellai di  Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi d’arte  di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui sodalizi  che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del deci-  mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610); le  due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami  ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai, sellai, fabbri¬  canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni di Asti (1681);  la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri  ferrai e serraglieri (proprietari di officina) (1700); la Confraternita  Sovvegno fra israeliti di Padova; le Società Riunite Sovvegni  spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino (1736); la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di  Torino può dirsi la prima che abbia assunto dalle sue origini e poi  meglio perfezionati con successivi adattamenti, i caratteri del mutuo  soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e poi  nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E  ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo  e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica di To¬  rino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano par-  ticolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del  i/54 e la Società dei Servitori di Faenza  T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in  rippnr, • P rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto mo-  Daese affe[>m are che di buon'ora si manifestò nel nostro  Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale. Ed è cosa singo-  concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica del  Sassari dalIe , f orme più semplici di essa dovrebbe   videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre¬   previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi della  Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio  auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,   litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù so-   adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo  domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti   quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico  che l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare   contributo che versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il   fini della mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai   “lata, sottratta alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar-  occorre per i bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto   me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro-  primo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851   società di mutuo soccorso (1).    di dii Gl0va rammentarle  dl Bergamo : nel 1810. Pr«    ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr    ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a Società di M. S. fra cap-  ’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società  Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la  unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido  incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della  prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro la  luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni  soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896 So¬  dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con  un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza siano  quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica, pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza. Le Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono  associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere  assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste  altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche  e intellettuali e morali dei soci.   Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte  l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una  volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai  contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua  di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano  un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi  periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il sussidio  subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le  altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi, e  ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24 mesi.  Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a  12 mesi: il 76 per 100 del totale.   Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno  della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le al¬  tre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale i  soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche So¬  cietà va oltre i dieci giorni.    orefici ed arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel'  1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la Società  •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società  di M. S. fra lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società  operaia di M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri di  "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei  1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici  e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e  provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua pro¬  vincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra  calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S, l’Unione operaia pa¬  triottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione  italiana fra lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i  pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma  Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la quale la  statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548 Società soltanto.  Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle  altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il  numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120 giorni  La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2 per  1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in molte  altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti giorni  sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro tutela  oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela tutti:  l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non appli¬  cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione  obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri  sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto inte¬  gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità  temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965) conside¬  rano questa agli effetti-del sussidio come una malattia ordinaria; le  altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero  delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita permanente  (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un assegno una  volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il numero  maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo la  entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor numero  sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di in¬  fortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in misura  determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o  di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.   Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno  valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussi¬  diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli  oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor-   Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,  per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una  spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia,  sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussi¬  diate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate  5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci  delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore  ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corri¬  spondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono  con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia,  annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio esistente.   Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per  spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono diretta-  mente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle  spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che danno  sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in forma  continuativa. Sono relativamente poche le Società che concedono  sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono molte le  Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5 per 5 — 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa  la statistica recente.    Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società mu-  iualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar  vita ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa  geniale filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mu-  tualista fu rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno  studio che, per conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia  delle nostre Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny  ed al Rayneri (1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa.   Nel quadro seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo  Soccorso che esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di consumo   Cooperative  di lavoro   Cooperative  di credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia 233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182  23   1 Toscana.   92   58   1 Marche 128   24   1 Umbria. 72   18  Lazio 63 2 . Abruzzi.   82   5   Campania. 150   10  Puglie 1 • 57   7   1   Basilicata.   27   Calabria 47   14 Sicilia.   95   17 Sardegna 15 Regno . .1597 552   5 2    Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni autonome  fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami di  attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di  questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine di  produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si com¬  prende come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I ma¬  gazzini di consumo, che sul totale rappresentano 8 6 per 100 delle  Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per 100  delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e merita par¬  ticolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino,  reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo  dei ferrovieri.  La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano  poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le  Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive,  scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di  premi, la provvista dei libri e così via.   Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^  ed alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento;  il conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni  operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati  sotto le armi.   Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge del  1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le Società di  mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei  loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge vuole  soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono assumere,  costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella  legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione  di intraprendere la costruzione di case Operaie.    Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale,  dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la  vecchiaia degli operai.   Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano pensioni  di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due  Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali  non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai  loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi disponibili.   E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di  vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale  alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge  institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste  Società di versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci aventi diritto a  pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più anziani, qualche  maggior favore. Quel precetto della legge è provvido, contiene un germe che  dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di  quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio.   Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza  per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la soli¬  darietà mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuo-  soccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed  altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei  b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari  vorrebbero che una parte delle risorse assicurate  - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a  quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato  servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato  Io non posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate  già in pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non  occorrono lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la  prima. In un paese in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi  forniti dallo Stato, può assicurare pensioni di vecchiaia in misura  superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori consigliandoli a  preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui appartengono.  Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un gruppo operaio  alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza e della soli¬  darietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li afforza,  procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano  le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento  turbato.   La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe:  il fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto  utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel  quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così  proficua dei grandi numeri.   In un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella  obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo  Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente  di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,  vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sot¬  tratti all’Istituto Nazionale,   L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra  di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello  Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori.   La legge operò quindi saviamente quando volle associare alla  grande opera dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli  operai le forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore  farà ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato  sistema di premi, per la iscrizione dei soci della Società di mutuo  soccorso.   Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del  grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio,  il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi  in danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle  Società di mutuo soccorso che al 30 giugno del corrente anno di¬  mostreranno di avere contribuito efficacemente alla iscrizione dei  propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi frutti.  Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o procu¬  rato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise  di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società  hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare  mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino  che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m. s. per  le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia di  m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di Mol-  fetta. (Bari) che ne ha inscritto 512.    3.° La legislazione e la giurisprudenza.   Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge  15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il  legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconosci¬  mento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mu¬  tualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le  Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere  il riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La for¬  mula rigida della legge è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi operaia una  Società costituita in gran parte da operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti,  di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il  benefico ufficio del patronato.   Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono  ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice  civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono  tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mu¬  tuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette che  in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa essere distribuito  fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi afllni o in opere  di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso nello  acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che contempla appunto enti morali.  a uà, ^aucenena aei j   naie Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e  statuto.    statuto.  Le condizioni che la legge vuole adempiute sono soltanto le seguenti :   1. Le Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti:   assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ;   venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti.   Possono inoltre;   cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ;   dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere ;   esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica.   2. Gli statuti delle Società devono determinare espressamente;   la sede dèlia Società;   i Ani pei quali è costituita ;   le condizioni, la modalità d’ammissione e di eliminazione  dei soci ;   i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acquistano ;   le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del  patrimonio sociale ;   la disciplina alla cui osservanza è condizionata la vali¬  dità delle assemblee generali, delle elezioni e delle deliberazioni;   la costituzione della rappresentanza della Società in giudizio   e fuori ;   le particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo  scioglimento, la proroga della Società e le modificazioni degli sta-,  tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie alle disposizioni  della legge.   La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo  soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto  all’ esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate.  Non si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni,  di legge presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la  dimostrazione tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi,  non si impone l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di  investimenti. Deve però avvertirsi che la legge parla di sussidi  e dalla discussione parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni, implicando un regolare servizio di  pensioni necessariamente la dimostrazione di un ordinamento tec¬  nico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della  legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza  che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso,  che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare,  che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una .  così importante funzione.   B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del legislatore  ammettendo che occorra una speciale concessione governativa per'  esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità; concessione   subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che dia  sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1).   Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a  concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®  Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di  più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può  sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne  meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma  ove si consideri che si tratta di Società fra persone che hanno  qualche maggiore coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse  una più razionale discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬  taglio negli Statuti. E nello stabilire quelle nome il Consiglio della  Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio  alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e non può quinci  escludere che si faccia di più e meglio.    I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di mutuo  soccorso riconosciute sono i seguenti:   esenzione dalle tasse di bollo e registro, conferita alla So¬  cietà cooperative dell’articolo 228 del codice di commercio;   esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall' imposta di  ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto 1877, numero 4021;   parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per  la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ;   esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti  dalle Società ai soci.   Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio  Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle  comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali  sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente.  Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli  per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia  il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto  impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero  esercita nelle Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza so¬  vra di esse, non potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari Regi.   Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine  fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei  del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo so<   lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile --   -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi    i una nota al modello di statuto  spirano ad ottenere la persona-  s possono proporsi di assi-    diretti dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva-  mente, o quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a  mio giudizio, costituisce il loro miglior vanto.   Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non continua¬  tivo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e  da sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e  commercio.   Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare mensione  quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa di  Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio ordi¬  nate.   Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto  un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinque¬  cento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società ope¬  raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di inabilità  al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo sociale,  sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Ho rammentato più sopra il concorso a premi del 1905.   Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società di  mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.  Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il  Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima  Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a  quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche  con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E  frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai  sodalizi operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di  buon ordinamento e di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i sussidi in denaro, non molto larghi data  la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti.    A. Lo stato attuale.   La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate  dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la  esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali   riconosciute 1548   non riconosciute 4987   Abbiamo veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava  al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo  soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata  uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per  cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale  e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1    per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia  settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì  notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0  per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono,  andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a  dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimo¬  strazione riesce più evidente classificando il numero delle Società  per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie  seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904:    Società fondate prima del 18*0 — % . 1.0   » ,, dal 1850 al 1859 — » . 2.7   » » dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3   » » dal 1870 al 1879 — » . 19 . 2   » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9   » » dal 1885 al 1889 — » . 14 . 5   » » dal 1890 al 1894 — » . 12 . 6   » » dal 1896 al 1899 — » . 8.7   » » dal 1900 al 1904 — ». 12 . 1    Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889, con una  inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo il  decennio 1870-79 con 19 2. .   Ma l'incremento più rapido si determina appunto dal 1860 in poi.   Esaminando le cifre afferenti ai vari compartimenti è da notare  che, mentre nell’Italia settentrionale e centrale è piccolo il numero  delle Società instituite negli ultimi anni, questo numero è notevole  nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in queste regioni si  riscontra pure la maggior diminuzione delle Società nel periodo 1895-  1904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più breve.  Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:   Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle  sciolte nel decennio:    Piemonte   Liguria   Lombardia   Veneto.   Emilia.   Toscana   Marche   Umbria    Abruzzi   Campania   Puglie.   Basilicata   Calabria   Sicilia .   Sardegna    Regno    25 . 2    L’indice più alto di diminuzioni lo danno le Puglie; seguono la  Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna. °    Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904    sono composte di soli uomini .   » » di sole donne   » » di uomini e donne   se ne ignora la composizione .    5,078   252   1,017   189   Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono  1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e  1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile  1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi fu  quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per %•  L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che  la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e  formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello  esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non  le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento  incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in  pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella  imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,  indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.  Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano  dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze  trovano più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e per la  protezione del lavoro.   Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti:  nel 1885 — 730,475  nel 1894 - 933,685  nel 1904 — 926,026   Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le  indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il  criterio della media dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le  cifre seguenti :   nel 1885 — 760,085  nel 1894 — 956,328  nel 1904 — 953,455   La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di 153.2, nel  1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9.   Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Ita¬  lia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emi¬  lia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti  gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei  soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna,  si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri com¬  partimenti.   Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa com¬  posizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti:   Sino a 99 soci . — 53 . 6  Con soci da   » » da   » » da   » » da   » » da   » » da   b b da 1000 a 1500 — 0 . 5   b b oltre . 1500 — 0.3    100 a 199 — 27 . 6  200 a 299 — 27 . 3  300 a 399 — 4.5  400 a 499 — 2.3  500 a 699 — 1.2  700 a 899 — 0.8    In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se  ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per  100, più della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in ge¬  nerale un quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100  a 200.   La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi.  Dei 926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne.    Sul movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si pos¬  sono fare raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non con¬  tiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi  alle due date:    Entrata.  Spese .  Patrimonio    L. 7.    L. 14,632.425  .404.205 » 11.790.028  1.200.840 » 72.395.544    Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885 era di  L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85.   Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non  diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come cri-  terio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti:    Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle  entrate ed alle spese.   Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto dalla  ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L. 4.919.727  nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218 sul pa¬  trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100.  t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di  L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi  e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia di  Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un  Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la   „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre:  “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, do¬  nazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di  entrate nel 1904 ,1 tre elementi davano le cifre seguenti:   Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80   Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28  Altre entrate . . y . . . 29 * 47   Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come abbiamo già no¬  tato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la proporzione diventa  maggiore quando si consideri che le altre entrate slno in malsima  dei fondi impiegati, i quali alla loro  volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate  1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo  Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in  Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società  riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono  al 1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti:    Redditi patrimoniali  Contribuzioni di soci  Introiti lordi . . .   Redditi straordinari    | Rendita di beni immobili ... 1. 69   ( Interessi attivi.17. 13   (effettivi.38.60   ^ non effettivi.0. 99   l di Magazzini di consumo ... 27. 58   1 di aziende sociali.6.85   .7.16    Anche per queste Società, nella media generale del Regno, il  maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi,  esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene da¬  gli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior  parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due So¬  cietà di Palermo, quella fra la gente di mare e T altra dei capitani  marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le  contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimo¬  niali; ivi infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più  rilevante.   Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109  nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi.   La spesa media per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84  e per socio di lire 13. Nelle medie per Società della spesa si va da  un minimo di lire 679,30 per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo  di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma; il minimo ed il  massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle  quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La spesa per  ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un  massimo di lire 16,51 in Liguria.   Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta  discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi  divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad  ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti:    spese per sussidi.51.4   altre spese.29.7   Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria:  nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate. Nelle So¬  cietà della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione delle  altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per sussidi  ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore  delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie.   Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti rag¬  guagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante l’anno  1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa    Spese di malattia j f^^se '. ! :  Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro  Sussidi di vecchiaia.    Soci defunti  Altri sussidi    l Onoranze funebri. .   ^ Sussidi alle famiglie    19,45  3.01  4,40  10 87  0.75  2.62  1.34 03 ( Magazzini di consumo .   “§ < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre spese.   Spese di amministrazione  Spese straordinarie. . .   Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del totale  delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia ad  un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni,  esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per  sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nel¬  l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia.  Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02  per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97 per  cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in  Piemonte, al 33.47 in Basilicata.    . 28.78  . 7.05  . 2.6S   . 13.14  . 5.91    La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che  come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società  e per soci e distinta fra Società registrate e Società non registrate,  dà le cifre seguenti:    patrimonio medio.   per ciascuna Società   Società riconosciuta 24.267,00   Società non riconosciuta 7.887,67   Riconosciute e non riconosciute 12.017,85    per ciascun Sòcio   123.32   60,16   82,50    È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬  stra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬  tati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della  personalità giuridica.   Dalla media generale del patrimonio per Società si discostano,  nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la Calabria  con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media del pa¬  trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria.   Si hanno i dati della composizione del patrimonio soltanto per  le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre 1903.   A quella data il patrimonio delle Società riconosciute ammon¬  tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto.   Beni stabili ...... L. 3.580.079 10,0   Titoli pubblici e privati .... » 15.239,047 42,6   Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374 40.7   Altre attività.» 2.50S.461 6,9    La misura massima di impieghi in immobili è nelle Società delle  Calabrie ove si ha il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle  della Campania col 2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a  risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento.   Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società  di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬  duto. Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero  delle Società per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904.   Numero delle Società che hanno un patrimonio:    Da L. 0 a   999   Cifre assolute  1.517   Su 100 Società  23.6   11 1000 a   4999   2.117   35,3   » 5000 a   9999   9S9   16.5   n 10.000 a   49.999   1.239   20.6   n 50.000 a   99.999   156   2.6   n 100.000 a   249.999   60   1.0   ii 250.000 a   49.1,999   12   0.2   n 500.000 a   1.000.000   5   0.1   Oltre un milione   4   tu   Senza indicazione del patrimonio 535   —    Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro pa¬  trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un patrimonio  superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per  cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3  per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un  patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio  da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio da lire  50.000 a 100.000.    5. Le federazioni.   Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬  noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬  messa la costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con medici e farmacie, per mettere in  comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte legalmente riconosciute  per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano resi-  Ta legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente la  costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la propria  autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione a  favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati nella  legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni  stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri  effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi  diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la fonda¬  zione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società  per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga durata;  il servizio del collocamento gratuito.   La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi  o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta  analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione di  unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite  e per quali scopi.   Nel primo Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso  tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra  m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in federazione  nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente, con  a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto  a Hi n^ ta 1 o annUa dl , pre ,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci  t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di indire un  mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle delle Ca-  La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune ».  con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900,   Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole morale.  Società federate ed? ,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle  nomico delle classi i a JÌ ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed eco-  raS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per  aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale:   previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di  Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°"-   fare opera di solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de ! lavoratori; e   ,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r   slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema completo di legi-  a tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione,  sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano   nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo   mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza,   meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1   mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di  siano inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto - P^chè-   videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre-   di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata:  se hanno da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10  ài lire 20 se hanno più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’   6 «5dfott federa a e hano diritt0:   consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni circostanza   teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione stabilirà nell’in-   àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione Ita-  Congresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di ogni   « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di in¬  dole amministrativa;   « e) di valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare  quelle questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e  della previdenza ».   Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle Società  federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal  Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione esecutiva  composta di nove membri scelti fra i soci delle Società federate e  residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le circoscrizioni  stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei Sindaci com¬  posto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal Congresso  fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni  di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse re¬  clamata la costituzione.   La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello  di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Fi¬  renze nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo nei cinque  anni 1901-1905 nella proporzione seguente:   1901 — 548   1902 — 573   1903 — 720   1904 — 733   1905 — 745    In un Congresso internazionale e nel chiudere questa rela¬  zione la quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni  mutualiste in Italia, io non credo che si possano presentare, come  epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che abbiano riferimento  alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire.   Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha necessario  legame con la proposta costituzione di una Federazione internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso, poiché,  a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il suo  principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali. Ed  il voto è il seguente:   Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od  Unioni regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i fini  additati dalle Norme e meglio specificati dalla legge francese, in  quanto siano applicabili alle particolari condizioni e funzioni delle  nostre Società ;   Che le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione  Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è  nel programma dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici  propri delle federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire  i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di  lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale  la Federazione regionale esplica la sua azione.  Uo spirito cooperativo.   Se il tracollare di tante impresa o società sorrette  da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume delle  nostre afflizioni , è bello invece vedere per virtù popo-  lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in  Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.  Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà ,  e non mossi da studio di soverchio guadagno , finiscono  col raccogliere anche la ricchezza , come premio della loro  virtù e col dare un'alta pro\a di quella verità che gli  affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei conti i  più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di pic-  coli indaslriali , svincolale dai vecchi rancori , amiche  deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando  ed aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una buona    Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta Tlta-  lìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero ,  sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione.   Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai  quali nulla di onesto e di utile pare impossibile, e che  nel meditare al proprio, tornaconto non dimenticano quello  degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia sorgano  e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano inlen-  dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere  buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella  spensieratezza , colla quale i più le stemperano nella ca-  scafigine e nelT ozio.   E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi nei  gruppi de' nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti  discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie  0 di certi volumi di economia politica , senza lettori, val-  gono a provare colla evidenza dei fatti , che la maggiore  delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e  r associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna  materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti  e delle virtù nostre.   Di fronte al movimento d'associazione che si estende  da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui  s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associa-  zione.   Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla  avevano per unica mira il guadagno di coloro che le di-  rigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo , aveva per   motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la speculazione  e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno  fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le società cooperative hanno invece per ragione la fra-  ternità, per principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore,  la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e per  ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà ai-  spiaiTo d' associazione.     25     r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso  ciò che gli appartiene , ed a ciascun cooperatore accorda  la facoltà di aver parte air amministrazione delle cose co-  muni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza , vi*  vificata dair amor fraterno , rivela air uomo T arcano della  sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli  sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fon-  damenlo di ogni rigenerazione sociale , si addomanda ai  cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiega-  zione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui ruppero tanti , cessino di tenersi in guardia contro i funesti  allctlamenli, i desiderii ambiziosi , le passioni egoistiche  e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi con-  tengono i germi di discordia e di dissoluzione che bi-  sogna sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in Italia,  mentre dobbiamo conoscere la devozione , il disinteresse  dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza fe-  lici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da supe-  rare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno  sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto.   Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie  abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che  un progresso non è realmente buono se non m quanto  possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima  della cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il genio  cooperativo nel suo oggetto , nel suo scopo e nelle sue  conseguenze sociali , ha una missione immensa da com-  piere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle campagne quanto nelle grandi città.   Ma perchè le società di credito e di produzione pos-  sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno del-  l' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate alle  campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza cogli operai. Per togliere dallo stato precario e  dalla miseria, ove si trovano, lutti questi campagnoli che  disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle manifatture »  bisognenibbe procurare la loro emancipazione col mclterli  anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che  condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli  c industriali, abbastanza potenti per oHrirc un asilo a  coloro che non hanno una via aperta alla loro aUivilà.  Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui,  poiché ove le società cooperative non propagassero ia loro  azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià, su-  birebbero i maggiori disinganni.   Ed oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge  quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma  reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affit-  jtaìuoli , proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa  concorrenza che , a detto loro , impedisce di vendere i  frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pen-  sano intanto che la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe,  quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e  appunto per la concorrenza delle fucine che procura a  minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isiru-  menti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tes-  sitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra  nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la concorrenza  diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrec-  ciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia  che è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed  è appunto un gran prezzo dell’opera il far in modo che  ì campagnoli restino nelle campagne , nò depongano la  marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio.   La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane,  e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato dello sforzo che fa  ciascuno pel proprio interesse , e porta poi come ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio  deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli  uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè per-  meile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è  una compensazione che ci facciamo a vicenda.  Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pa-  gherebbero tutto ad una esorbitanza di prezzi , e senza  la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto cadrebbe  a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato  alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae l’emulazione «  che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per Fat-  tività deir uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi-  tazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento , e trovare nuovi processi di  produzione più economica e più abbondante per accorciare  il tempo e conseguire Y esito migliore , e per soggiogare  le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza  deir uomo?   Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far  meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;  egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che  lavora meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo;  e chi invoca misure restrittive, chi domanda ai governi  la proibizione d' introdurre merci forestiere , attenta alla  liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo pro-  fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra-  nieri.   Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la  concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella delP artigiano delle  città, perchè a questo la giornata si paga più cara che  ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario  alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate  agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni di  quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo  «uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto siamo  ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in  minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi  le loro istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide  virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i tetti di  paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed  al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. Coco

 

Grice e Codronchi: l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo italiano. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO. C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo. Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie, conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto, e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori, e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente, non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero, che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua, e il diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au tore ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della ſperanza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione, e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni. Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo? Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva, che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali. 67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra. Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita. Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo. Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre. Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee, il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1 1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; 112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97 giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere, imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza, e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva, ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli, queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità, durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1 Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. 110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra. Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta; verità che ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito appariſca, per poterne formare la propor zione.. Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta, le oſſervazioni, e non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni io dico, che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità, che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze, che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of  any text-book on mercantile law will hardly deny  that CONTRACT is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in tdwns hucksters do  not employ them. Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out 1 that the Roman household consisted of many families under the rule of a   1 Ancient Law, p. 312.  B. E. 1 2 paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Contract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system f of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either by the person interested,  or  by the gods, or  by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punish-  ment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, self-help  must have proved a difficult and therefore inade-  quate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delin-  quent and may even have entailed religious disabili-  ties. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege.   III. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strength-  ened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They  might consist of an entirely formless compact,  (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn  appeal to the people. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompani-  ment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided 1 . If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising  1 GELLIO. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20.  the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agree-  ment belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the feshion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals was alone con-  sidered, and their form was of no importance.  But under the influence of custom or of the priest-  hood, they assumed by degrees a formal character,  and it is thus that we find them in our earliest  authorities.   Since Religion and Law were both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious  forms of promise have their counterpart in the  customs of Greece and other primitive peoples, whereas the secular forms are peculiarly Roman 1 ,  the religious forms are evidently the older, and  formal contract has therefore had a religious origin.  Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise was to place it under divine  protection. This could be accomplished in two  ways, by iusiurandum or by sponsio, each of which  was a solemn declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the gods.  Each of these forms has a curious history, and as  they are the earliest specimens of true Contract,  we may discuss them in the next chapter.   III. Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggested itself for the  protection of agreements, was to perform the whole  transaction in view of the people. Publicity ensured  the fairness of the agreement, and placed its ex-  istence beyond dispute. If the transaction was  essentially a public matter, such as the official sale of  public lands, or the giving out of public contracts,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement was in that case  binding. The same validity could be secured for  private contracts by having them publicly witnessed,  and the nexum was but one application of this  principle. In testamentary Law it seems probable  that the public will in comitiis calatis was also  formless, whereas in private the testator could only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote"   Thus the two elements which turned a bare    agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast off.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was folly attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung.     Art 1. Ivsivrandvm is derived by some  from Iouisiurandum 1 , which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath in LIVIO, where SCIPIONE says: Si  sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime, domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and  from the oath upon the Iuppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens /alio, turn me  Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem" A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53.   » Off. ni. 31. 111.     in the time of CICERONE, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA MASSIMA) was a place at which solemn  compacts (ovvdfjtcai) were often made 1 , while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath 2 . It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods 8 ; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn promise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath 5 , the commission of any act at  variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90.   8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13.   6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4.  6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149.     they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god 1 ,  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius 2  and in the XII Tables 8 was the epithet of condem-  nation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as CICERONE hints, was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius 6 is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus , for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  onry the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare.   8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25.   6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian^ the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath 1 . But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman 2 ,  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by DIONISIO. But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi obligatio was en-  forced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipu-  latio*, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.  1  worded 1 formula (concepta tierba), wherein he called  upon the gods {testari deos)*, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae.   Art. 2. Sponsio. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as sponsio, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise 4 . The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine 8 , quite distinct from the con-  vivial \ocfirf or libatio 6 , so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by   1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52.   * 46 Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106.   8 Festus p. 329 s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o.        Varro 1 and Verrius 2 from sports, the will, whence  according to Girtanner 8 sponsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology.   I. This pouring out of wine, as Leist 4 has  shown, was in the Homeric age a constant accom-  paniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (optcia iriara) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring  alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals 5 , and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connec-  tion with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride 6 , were very  like those of other Aryan communities 7 . We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation.   III. In the third and last stage sponsio meant   1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u. spondere. 8 Stip. p. 84.  4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ. p. 448.   8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc. ciu       nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force ; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by GAIO 2 , was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early  formalities of an international compact (op/cia mard),  it was natural that the word spondeo should survive  on such occasions, even after the oath and the wine-  pouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subse-  quently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know,   1 Gai. in. 93. 2 in. 94.      though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro 1 informs us that, besides being used at be-  trothals the sponsio was employed in money (pecu/nia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely 2  that nexum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  nwmerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the afibio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institu-  tion, but was introduced at a date subsequent to the XII TABVLAE. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early   1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42. J  sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandum, which' we know of only through a  casual remark of CICERONE’s. 8 .   The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of neocum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left 4 . This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply 6 ,   i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.   8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326.   5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24.   B. E. 2   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influence 2 . In  another place 8 he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to  this view are that the etymology is probably  wrong, and that the inference drawn as to the  original meaning of spondere iuvolves us in serious  difficulties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words " spon-  desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43.   8 Ius Nat. §§ 33-4.   to be regulated by the laws of Romulus 1 , is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed 2 , the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from sports, the  will; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind 3 . . His chief argu-  ment for this view is to be found in PAOLO DIACONO,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ?   (d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz 4 , maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n. 516.   3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif.   2—2     9   to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evidence than that of  Danz 1 . Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactum) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modern law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original causa ciuilis which dis-  tinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris cvuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious cere-  monial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we may  conclude that sponsio was a primordial institution   1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291.     of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, (a) It was originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not made under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, (c) Lastly it became a verbal formula,  expressed in language implying the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justi-  nian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "  " Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?  Throughout its history this was a form which Roman  citizens alone could use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they used question and answer rather  than plain statement is a minor point the origin  of which no theory has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless* imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the     pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations 1 .   Art. 3. nexvm. There is no more disputed sub-  ject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses 2 ; that the commodity so weighed was  a loan 8 ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage 4 and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipium 6 . To assert, as Bech-  mann does, that since nexum included conveyance as   1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp. 435-443.   2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L. 7. 105.  4 Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22.      well as loan " mancipiumque " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables 1 , is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexwm, and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of mami8, ownership ; nexum implies the making of  a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexwm and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modern deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold 8 and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexwm, how  are we to explain the fact that nexwm is used  by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equi-  valent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that neamm had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf f p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11. p. 162 n.   * ad Fam. 7. 30 ; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1. 35. ; pro  Mwr. 2.   4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u.  nexwm ; Manilim in Varro, L. L. 7. 105.    Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucius  Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1 on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  negotia per aes et libram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of trans-  actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 .  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because need liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem*. One peculiarity men-  tioned by Gaius in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gaius says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res maricipi  included land and cattle. Therefore if mancipiwm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s. u. nexum.   3 Gai. iii. 173-5.      aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted 1 , and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur*  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Bepublic, partly  to denote the binding force of any contract 4 , partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram\ Even in Cicero we find the word  nexum used chiefly with a view to elegance of style 8  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where 7 there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical sense and  actually tells us that it had become obsolete 8 .   1 See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22.   2 .16. p. 181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum.   4 Cf. "nexu uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.   5 Cic. de Or. in. 40. 159.   6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.   7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.   8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. mi. 28. 1.       Rejecting then as untenable the notion that  nexum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending corn or copper or any other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexurn was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public super-  vision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, — a strong argument that  nescum and mandpium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed.   The fixing of the number of witnesses at five 1 ,  which we find also in rnancipium, . is the only  modification of nexum that we know of prior to   1 Gai. hi. 174.     .  the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian ceruma, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius 8 that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author 8 ,  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann 4 , who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the intro-  duction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange 5 . This view  is part of Huschke's theory, that neacum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act per-  formed under public authority, and (2) it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight.   The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that nexum was confined to loans of money or of   1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii. 15.   4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff.     copper. Indeed we gather from a passage of Cicero  that far, corn, may have been the earliest object of  nexum 1 , while Gaius states that anything measurable  by weight could be dealt with by neari solvtio*. No  inference in favour of Huschke's theory can be  drawn from the name negotium per cms et libram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal signifi-  cance, and when the aes (ravduscvlum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as  we certainly should, that nexum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Buschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neawm  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities 4 , but which  has few if any supporters among modern jurists.  This , view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as   1 Cic. de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87.  4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in  Danz, Rom. RG. n. 25. a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes 1 . The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexwm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a nexum' 2 .  Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor man-  cipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtors person, for the idea of treating a debtor like  a res mancipi or like a thing quod pondere numero  constat, is absurd. Again, if nexum = mancipium, the  conveyance of the debtors body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore (1) by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capite deminutus*, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was 4 . Clearly then mancipium was under no cir-  cumstances a factor in nexum.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungibiles.   1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52.   8 nexum inire, Liu. vn. 19. 6.   3 Paul. Diao. p. 70, *. u. deminutus. 4 Decl. 311.     The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neanim, the first  genuine contract of the Roman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked . the great  advantage of accurate measurement, which neanim  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neanim from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neanim is  all that can be given with certainty. The details  of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistant 1 .   Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number,     probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time.   The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the noto-  riety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement.   The release (nexi solutio) was a ceremony pre-  cisely similar to that of the nexum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses 1 .   Art. 4. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision   1 Gai. in. 174.     \.t     of that code. As to the origin of uadirnonium,  we cannot be certain, but judging from a passage  in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V  asses et taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum  antiquitas." We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period.  The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio.   Art. 5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian 8 we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio was a promise by stipu-  lation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is difficult to know  whence it acquired its binding force as a contract,   1 xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. vi. 1.      since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  9,lso by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law 1 . An illustration occurs in Terence 2 , where the  father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  "Accipio"; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code 8 ,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4  and by Gaius 5 , was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the fathers side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian 6 distinguishes between dictum and promis-  sum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  (a) Von Meykow 7 holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  bride and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4.   4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n. 9. 3. 6 21 Dig. 1. 19.   7 Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3     promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted.   (6) Bechmann 1 , again, connects dotis dictio with  the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectum, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is tKat it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz 2 ,  ie. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress   1 Rom. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. a Z.f. R. G. vn. 243.  upon us that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that  " accipio " was an indispensable part of the trans-  action. He may merely have meant that the bride-  groom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance.   A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz 8 . He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium pietatis 4 ,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing 5 . The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an offidum to his patron, and which he  acknowledged by the iurata operarumpromissio. The  dos and the operae were both officio, pietatis, but   1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig. 3. 59. 3 Rom. RO. I. 163.   4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2. 63 ; Oic. Quint. 31. 98.   3—2      it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt 1 states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia; the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason 3 ;  and (3) a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his posses-  sion, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with   1 XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23.     FORM OF D0TI8 DICTIO. 37   regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of (1) the bride's father or male cognates, (2) of the  bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner 1 . No  particular formula was necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Roman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral: the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the promisee.   1 Gai. Ep. 3. 9.  The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion. Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or State. Nicola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.

 

Grie e Colazza: l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle “forme”.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur.  “ Giardino di Maturità , chiamano certi  antichi saggi il luogo, in cui pone piede  l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel  giardino non ci sarebbe fiore, che non re-  casse il suo frutto, non uovo, che non por-  tasse .a maturità la vita in esso germinante.  Ma come oscure e- pericolose vengono al  tempo stesso descritte le vie che menano  alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu-  de quel giardino. Si assicura, però, che quel-  l'oscurità diviene più chiara del sole e che  quei pericoli non hanno potere contro le  forze di cui ferve l'anima di colui, al quale  queste vie sono mostrate con provvida mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come puerile concezione di un' e-  poca, in cui nulla si sapeva delle scienze  dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu-  minato, che crede di saper distinguere fra  i vaneggiamenti di una fantasia  brancolante  e le ponderate vedute d'un intelletto “ scier-    “i    So ca | oggi  tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei  È , suoi contemporanei un sorriso, se. non di  di : ll sprezzo, per lo meno di compassione.   Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono  I alcuni che, come quegli antichi saggi, par-  MAS lano del « rondo dell'anima , e della “ pa-  “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono riputati  | fe AMA ì È 3  | persone che parlano di un mondo immagi-  fa nario, figurato loro soltanto dalla propria  | » Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi,  LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto  i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e  i, now austera logica, vadano brancolando come eb-  branco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la  li sicurezza, perchè non si attengono a ciò  È che esiste “ positivamente ,,.   Ora, che cosa dicono questi edbri stessi  i a codesti contradittori ? Quando si sentono  f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito  il diritto di parlare di sè, allora dalle loro   È labbra si odono uscire le parole seguenti :   È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che  dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo  che molti di voi sono persone da bene, che  senza riserva si pongono al servizio del  Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er =>    voi non ci potete capire, fin tanto che pen-  sate come appunto pensate. Sulle cose, delle  quali noi abbiamo da ragionare, potremo di-  iscorrere con voî, soltanto quando vi sarete  presi voi stessi la pena di apprendere il lin-  guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia-  razione molti di voi, certo, non vorranno  più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno  di aver riconosciuto che al farneticamento  della nostra fantasia si accoppia in noi an-  che un immedicabile orgoglio. Noi però  comprendiamo voi anche in siffatta affer-  mazione e sappiamo al tempo stesso che  dobbiamo essere non già superbi, ma mo-  desti. Per incitarvi a tentare di entrare nel  nostro ordine di idee non ci resta che una  cosa da dire: Credeteci, noi non ricono-  sciamo un vero diritto di parlare delle no-  stre conoscenze se non a colui, il quale sia  capace di sentire con voi ciò che vi co-  stringe alle vostre asserzioni, e che cono-  sca a fondo la forza, la potenza convincente  e la portata della vostra scienza. Colui che  non reca in sè la sicura consapevolezza di  poter pensare ponderatamente, scientifica  mente, come l’ astronomo o il botanico 0  lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di    vita spirituale, di conoscenze mistiche do-  9    e   = e    Re    vrebbe contentarsi di apprendere, e non  già volere insegnare. Ma non ci si frain-    ‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti,    non di studiosi, Studioso di misticismo può    : divenire chiunque, giacchè nell’ anima di    ogni persona si trovano le facoltà, i poteri  presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi-  stico dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai  quali, secondo il grado del loro intendimento,  egli non potrebbe dire un centesimo della  verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro  oggi riconoscono questa millesima parte ;  domani riconosceranno la centesima. Tutti  possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,,  non dovrebbe voler diventare nessuno, che  sia incapace di assoggettarsi alla disciplina  del più austero intelletto e della scienza' più  severa. Sono veri insegnanti di misticismo  soltanto coloro che sono stati precedente-  mente rigidi cultori della scienza, e che sanno  perciò che cosa viga nella scienza. Anche  il vero mistico ritiene visionario, inebriato,  chiunque non sia capace di deporre in qua-  lunque momento il solenne paludamento del  mistico per indossare la modesta tunica del  fisico, del chimico, del botanico “e dello  zoologo »,  sitori ;' con la massima modestia li assicura  ‘che intende il loro linguaggio e che non si  arrogherebbe il diritto di essere un mistico,  se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al-  lora, però, egli può anche aggiungere di sa-  f |pere, e di saperlo come si sanno i fatti della  Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi-  ® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa que-   sto come chiunque, il quale abbia studiato  chimica, sa che, date certe condizioni, dal-  l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua.  Che Platone non volesse ammettere ai   gradi superiori della sapienza nessuno che   > mon conoscesse la geometria, non significa  «già che egli facesse suoi alunni soltanto i    li  Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppo-  A    9  U  L  dotti in geometria, ma significa che quei    suoi alunni dovevano essersi educati alla se-  vera, rigida, ed esatta investigazione, prima  che venissero loro schiusi gli arcani della  vita spirituale. Una tale esigenza ci appari  sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo che    nelle regioni trascendentali viene meno l'ele- |    mento di fatto, a cui si saggia e corregge  ad ogni piè sospinto l' investigazione ordi-  naria del mondo. Se il botanico si forma  “concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu-    n    conci    Da  (UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e il mi-  stico corre il rapporto stesso che intercede  fra chi cammina su strada piana e chi ascende  una montagna: il primo può cadere a terra,  ma solo in casi eccezionali potrà causarsi  la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo  sta sempre dinanzi, E certamente nessuno  che non abbia imparato a camminare può  ascendere una montagna. Poichè ; fatti spi-  rituali non correggono i concetti allo stesso  modo che li correggono i fatti del mondo  esteriore, un pensare rigorosissimo e degno  della massima attendibilità è un ovvio pre-  supposto per l'investigatore mistico.  Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,  si riconosce che cosa intendevano dire que-  gli antichi saggi, allorchè parlavano dei pe-  ricoli che minacciano chi voglia penetrare  negli arcani del mondo. Se alcuno si ap-  pressa a questi arcani con mente indiscipli-  nata, essi determinano nella sua anima de-  plorevoli disordini. Divengono pericolosi come  una bomba di dinamite nelle mani di un  fanciullo. Perciò da ogni investigatore mi-  stico si esige rigorosamente che la norma-  lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua  vita psichica, abbia saggiato le proprie forze  SE E    attorno a problemi gravi e spinosi, prima  che egli si appressi ai compiti più elevati.  Valga ciò come accenno a quel che il mi-  stico intenda dire, quando parla dei primi  gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica    | più alti gradi della cultura moderna, stimano  che sano pensare e misticismo siano due  termini incolta   sano che una illuminata educazione scienti-  fica debba estirpare dall'individuo qualunque |  tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor»  tantissimi risultati della moderna scienza na-  | turale. Se avesse ragione chi la pensa così,  | si dovrebbe allora, certo, concedere che la  Mistica non abbia nel nostro tempo se non  | piccola probabilità di trovare accesso alle  anime dei nostri contemporanei; giacchè nes-  «suno, il quale abbia intendimento dei biso-  gni spirituali di questa nostra età, può du-  bitare che siano pienamente giustificati i  trionfi della scienza naturale già conseguiti.  e ancora da conseguire in avvenire. Biso- vi MER  Na bilmefite antitetici. Essi pen- K pate    ticolar modo incomprensibile che abbia an)  "fi  LI    Peli so  Naturalistici  itreprimibili do  u + Con una certa tr  ‘ zione cotesti insoddisfatti  <j O  Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le”  oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino  Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj.  Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si  In contatto con e Sa costoro sentono |  Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo |  eve incessanternente ce  vino! D’    rcare: l’ali  Ta parte, Però, essi sj   Petere ;l ito   diate a    monito: « Bj   ‘formarvi, mediante Ja cie  rale, un pen |  non vj    chiappanuvole vai   monito, l’anima loro sj inaridisce,  econdita , . tò, in fondo all’ an   ogni individuo Verità, e   i che grande maestra dell’uomo è la   ]    mande AIR    Chi potrebbe non dare, per intimo consenso,  ragione al Goethe, allorchè dice che dagli  errori e dalle disarmonie degli uomini egli  si ritira sempre con rinnovato contento, ri-  volgendosi alle eterne necessità della natu-  ra? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali    il grande poeta descrive i sentimenti che lo    assalirono in una solitaria meditazione sulle  ferree leggi, secondo le quali la natura forma    le montagne ?    “ Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e  spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso dirmi: “ qui tu  poggi immediatamente su di un suolo, che    ‘arriva fin giù ai più profondi strati della    terra. In_questo istante, in cui le eterne forze  di attrazione e di movimento della terra    quasi direttamente agiscono su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono    gli influssi del cielo, vengo come sospinto  a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla  natura.... Così, dico fra me e me, mentre  da questa cima nuda volgo lo sguardo in  giù, così sentesi solitario chi voglia schiu-  dere l'anima propria unicamente ai più pri-  mordiali, più antichi e più profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso:   SONG). pe    Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, im-  mediatamente eretto sul punto più basso  della creazione, offro sacrifizio all'Essere di  tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione  d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi  alla grande istruttrice Natura, si trasferisca  sulla scienza ‘che ne discorre.   Non deve esistere antinomia fra i senti-  menti che pervadono l'anima, quando essa  si approssima alle “ austere e profondissime  verità primordiali , circa la vita spirituale,  e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si  posa sull'attività costruttrice della natura.   Manca forse intelletto al mistico per co-  testa armonia della natura coi sentimenti più  sacri all'anima umana? Tutt'altro; giacchè  al di sopra dell’altare, sul quale il vero mi-  stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca,  in cui può spingersi l'indagine umana, stette  scritto a lettere di fuoco fiammante, come  legge. suprema: “ Natura è la grande guida  al divino, e la conscia ricerca umana delle  fonti del Vero deve seguire le orme della  sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma  suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi-  stere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto   meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in   un'epoca, che tanto deve alla scienza na-  turale.   Per intendere bene quest’ ordine di de  occorre domandarci: “ In che, dune ue  consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie  e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,  aversi un'antitesi? ,,   Ebbene, l'accordo non può venir cercato |  se non nel fatto che le rappresentazioni che   ci facciamo intorno alla entità dell’ uomo  ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in-  | torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella  — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di  “ ordine retto da leggi ,. L  Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo-  lesse vedere nell’uomo un essere di specie  "completamente diversa dalle creature natu-  rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal  senso si sbigottirono fortemente quando, più  di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,  informandosi allo spirito stesso della scienza  — naturale moderna, sulla base della somi-  pigliante struttura anatomica, concluse la stretta  parentela fra l’uomo e gli animali supe-  ori con queste parole: “ Possiamo prendere in esame un sistema di organi qual-  siasi; l'esame comparativo di essi nella serie  delle scimie ci conduce sempre a questo me- È  desimo risultato: che le diversità anatomi-  che, per le quali l’uomo è distinto dal go-  rilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi  quanto quelle che separano il gorilla dalle  altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire  solamente quando la si riferisca in modo  errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può.  facilmente rampollare il pensiero: “ Ma come  è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Questa stretta affinità non suscita però nel mi-  stico nessuna preoccupazione , giacchè per  lui ne balza subito anche l' altro pensiero: |  “A quali fini superiori, però, possono ser-  \vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, —  allorchè sono trasformati in organi umani! »  Il mistico sa che l'occulta volontà della na-  tura muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma  gli-organi animali. Egli segue le sicure orme  della natura e ne continua l'operato. Per lui  i l'opera della natura non è punto terminata  con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene  un fido discepolo della natura per il fatto  appunto di portarne l’opera a maggiore al-    1       toi    tezza. La natura lo ha portato fino al pen-  sare e al sentire umano; egli, però, non  prende questo pensare e questo sentire come  qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende  capaci di attività superiori. Avviene per opera  della sua volontà ciò, che nell'ambiente na-  turale esteriore avviene indipendentemente  da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,  attestano che gli organi visivi sono capaci  di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©»  nelle scimie. Così l’ occhio può venir tra-  stormato. Le facoltà psichiche del mistico  evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo  non evoluto, nello stesso rapporto in cui  sono gli occhi umani rispetto a quelli delle  scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende  tende l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel  misura, in cui l’animale può intendere il, mote  pensare dell’uomo. E come alla creatura non  pensante si schiuderebbe tutto un nuovo  mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà   del pensare, così il mistico, dopo lo svi-  luppo delle sue facoltà superiori acquista la  visione di un altro mondo. In questo “ altro  mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re  »Yiene Mistico rinnega la natura. Ègli non È   a progredire ciò che essa ha prodotto senza   di lui con la propria volontà occulta. Per-    di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL.       PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL  Los ; mid : ni gd ed deli è y  villa mM ni collo i fiat 1a CA  di (ANI it pece  iò egli si pone in contrasto con la natura,    «giacchè questa trasmuta continuamente le   proprie forme: dal vecchio essa crea eterna-   mente il nuovo. Ora, chi, conformemente   %@. alla moderna scienza naturale, crede a que-   sta trasmutazione, crede a questa evoluzione   n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se   esso , costui riconosce, sì, la natura, ma   A; nella sua propria vita si pone in contradi-   &l-zione con essa. Non si deve soltanto rice-   > noscere l'evoluzione, si seno ivato Non si   limitino, dunque, le facoltà della nostra vita   ;, col tener conto esclusivamente della nostra   ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu-   cazione mistica diviene un fido alunno della   natura, si schiude il senso per la superiore  evoluzione.   A proposito di questi cenni sulla Mistica   e sulla /riziazione molti diranno: Ma che   ci giova questo discorrere di facoltà a noi   sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre-   deremo ! ,. Nessuno, però, può dare a un   altro cosa che questi rifiuti. E il più delle   volte ciò che incontrano i nostri mistici è   . un brusco rifiuto. Al presente essi non pos-   sono fare. molto .di più che raccontare le   loro cognizioni mistiche a quelli che vo-   gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente n nt x  IE RAIPAT cn    potima tl — 29    C j Pa ENTI OT  le ero Art 1 er? che,  I, , a . = ì” \ wr    / a) i e. e 7  pederntdt    hern ci tCAns4- 1 È   à a tutta prima un volersela cavare col  RE ce raccontare che cosa c'è in America  a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,.  Ma pare, non è realmente una scappatoja,  perchè i processi dello spirito sono diversi  da. quelli fisici Molto tempo prima che  l'uomo sia in grado di fissare la verità im  piena luce, egli ha la possibilità di intrave-  derla, e di accoglierla nel suo sentimento.  E questo sentimento stesso è una forza, che  lo può condurre più avanti. E' questa una  fase per cui è necessario passare Chi segue  con ricettivo abbandono la narrazione del  Mistico, già calca il sentiero che mena alle    verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende  completamente l’Iniziato: ma angie per  vero rende anche il non iniZiato ricettivo  alle parole del Mistico. E questa sua ricet-  tività è strumento con. cui egli lavora a schiu-  dere i propri organi mistici. Ciò che prima-,  mente occorre è che si abbia questo senso |  della possibilità di conoscenze superiori: al- |  lorà not si passa più incurantemente ac-  canto alle persone che di queste conoscenze  superiori tengono parola.   E' stato già detto che anche al presente  ci sono persone che si adoperano a rinno-  vare la vita mistica.    Up irene Kona    diteou@    crt    u  pe ud)    fasi cl    fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale    tri rautwews i E    Qui vi voglio intrattenere di due esempi  di tal genere, cioè del libro “ // Cristiane-  simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di  Annie Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati »   el geniale pensatore e poeta francese Edoardo  Schuré (2). Ambedue queste opere gettano  luce sulla natura della così detta Iniziazione.  Annie Besant, mostra come il Cristianesimo  debba venire compreso quale risultato di  codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg-  gia le figure dei massimi duci spirituali della  umanità, fondandosi sulla convinzione che  le grandi confessioni religiose e le grandi  filosofie cosmologiche da quei duci dispen-    sate all'umanità, celano verità eferne, che si  possono cercare e re soltanto in  quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria  giustificazione unicamente nel campo del Mi-  sticismo. Esse traggono la loro origine da  quella corrente spirituale dei tempi nostri,  che è destinata ad elevare l'umanità da un  incivilimento puramente esteriore all'altezza  Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma,  1904,   (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti |  RA    fOdeth4, nu pori? IU)    di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il  “pensiero scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito col.negarlo , e che  | non si contr lle leogi naturali col_cer-  re Treo © x iii dpi  uelle spirituali. Non si designeranno  iù i Mistici come oscurantisti , giacchè si  saprà che soltanto pei loro avversari il campo  di cui essi ragionano è oscuro.  E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i  non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2    gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94    imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta  L'indagine implica la necessità di adem- ' 3    piere a certe condizioni preliminari. Queste  P** ic;  condizioni per l'aspirante mistico non con-  sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- |  cismo esteriore, bensì na osservanza di  un determinato orientamento della..vita si- È  ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide  il senso per certe verità, le quali non con-  templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A  cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\  itori v Bi n_simbolo ». In_s sid | oe  alla esistenza umana giacciono capacità,su- |  CRA i GIONO CA  \periori, come il frutto giace.in grembo al  fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe  TI YOMOMono wu € 0kL Lia  UT E E I ipa  ln Leno el muyert Sace    caprata farvi vtuel' fa P even   ord  LISI    (NE presumere di dire che “ nel suo mondo vi  i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ».  Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomi-  i glia al verme che ritiene_come orizzonte  i | della esistenza il mondo dei suoi sensi.   li —_ * Giardino di maturità » Chiamasi quel  IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del  mondo. Per accedere a tal luogo bisogna  tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà  AU x al raggiungimento della propria maturità.  Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da te  È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli  |       see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi en-  n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino  È di maturità ,.  TAR Come molti uomini insigni, anche il  p Goethe espresse numerose verità dalla pro-  fonda vena del suo intuito , enunciandole  non già in diffusi e circostanziati discorsi,  bensì in brevi e spesso enigmatici accenni.  sr Uno di tali accenni è in questo periodo:  dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle  n e della Natura, sono le intenzioni, che meri-   / tano specialmente la nostra attenzione ,,.   E' questo un aforisma che verrà com-  preso in tutta Ia sua profondità quando lo  Î si applichi ai più importanti fenomeni della  vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci senso e comprensione per  le azioni di un singolo individuo soltanto  quando ne veniamo a conoscere le_inten-  zioni, così ci accade anche per la storia del-  l'intiero genere umano. Ma che abisso in-  tercede fra l' osservazione degli atti che si  svolgono palesemente alla luce del giorno,  e il riconoscimento delle intenzioni che giac-  ciono nelle regioni occulte dell'anima! Si  può essere addirittura rudimentali quanto a  intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro  uomo, ed essere tuttavia capaci di osser-   varne le azioni; ma bisognerà avere almeno  un po' delle sue qualità di spirito e della sua  levatura psichica, se si vuole penetrarne le    intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !    agire rimane un arcano, un enigma, alla cui  soluzione ci manca la chiave, Non accade  diversamente con i grandi fatti della storia  spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son  lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma  le intenzioni giacciono in profondità molto  recondite. In queste profondità deve pene-  frare colui, che vuol procurarsi la chiave per  la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’a-  zione giacerà tanto più profondamente re-  condita, quanto più questa azione avrà im-  portanza e quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita  quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma  non può essere così, naturalmente, di azioni,  la cui portata abbraccia una serie di secoli.  Chi a ciò pon mente giunge a presentire  che cosa siano i Misteri: giacchè in cotesti  Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi  fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il  mondo intero nella loro portata. E coloro  che conoscono queste intenzioni e posseno  con ciò conferire alle proprie azioni stesse  \ quel peso che le rende realmente efficaci per  lunga serie di secoli, sono gli /niziati.  Solo chi nella storia del mondo scorge  unicamente una mèra successione di casi  fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e  degli Iniziati. In tal caso non c'è che da  attendere che un uomo siffatto si ponga un  bel giorno a studiare con occhio amorevole  i fatti della storia. Allora un po’ per volta  albeggerà al suo sguardo un significato, un  nesso, ed egli finirà per non più conside-  rare Tortuiti quei fatti storici, come non con-  sidera automa un individuo che veda muo-  versi ed agire. Giungerà così nella sua in-  vestigazione là, donde gli Iniziati dirigono  il progresso umano, secondo le conoscenze  the sono avvolte nell'ombra dei Misteri.          AA vila AATZzat fer, i 40 dad    x x £ > it  hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7        Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi  di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti  coloro, che non si fermano alla vita estrin-  seca dei fondatori delle varie religioni , nè  alle vicende storiche del propagamento delle  loro dottrine; ma che, invece, cercano di  elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di |  religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il  fatto che queste intenzioni rimangano av-  volte in arcana oscurità e vengano comu-  nicate soltanto a degli eletti entro le scuole  di sapienza, che sono appunto i Misteri;  giacchè si fa opera saggia solo quando a  un individuo si comunica ciò che egli può  capire, o, con altre parole, quando gli si  comunica qualcosa, soltanto quando egli si  sia messo in condizione di capirla. Per com-  piere azioni che abbiano peso e valore oc-  |_——corre possedere un’alta sapienza, e per ap-  propriarsi un'alta sapienza bisogna passare  per un periodo lungo e arduo di prepara-  zione. Così avviene nei Misteri.   L’ evoluzione spirituale dell'umanità pro-  cede innanzi per opera delle varie religioni  e cosmologie. Chi coopera a questa evolu-  zione mette in movimento le forze spirituali  degli uomini. Bisogna che egli conosca le  leggi da cui dipende questo movimento,  DE: pri    come deve conoscere le leggi della chimica   chi vuol mescolare le sostanze con effettuale  risultato. Néi Misteri vengono insegnate le .  leggi supreme della vita spirituale; viene in- _   segnata la chimica dell'anima. E bisogna   cercare di penetrare nella natura di queste   leggi, se si vogliono sorprendere , o anche  solo presentire, i moventi che stanno alla i  A base delle azioni dei grandi Istruttori della   umanità.   All'unisono con tutti coloro che cercano   di schiudersi per tale visione gli occhi spi-   rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/   Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino-   ré) », di un “ lato occulto delle religioni , A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane-   1% simo, del così detto suo contenuto esoterico,   ne. essa luminosamente si addentra e trascina.   d il lettore nell'intimo della questione relativa  sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |  Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven-   gono date al mondo da uomini più saggi    delle masse etniche , alle quali le religioni  Stesse sono dispensate e hanno appunto lo   Vedi pure «Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7  porad, Firenze).    Lolo scrullo du fevomeri    sia Pe i  Dul th h Ha DI ire  _ eSleeml J  > Uibftsore » Sé Lap de  scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.    Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di  bono giungere fino agli individui e avere in-  fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î  tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i  l'evoluzione potrebbe venire rappresentata  come una scala ascendente di gradi, su ognuno       asLelo api    dei quali si trovano uomini. I massimamente  evoluti stanno di un gran tratto più su dei  meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A  rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4  .. comprendere egualmente che quella di agire. }  E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE  _ segnamento religioso; quel che gioverebbe  all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil  all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e  in estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì  ferente il delinquente...2 LE  La religione deve essere graduata con l’e- =  voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI  UGANB: Es. Chr. pag. 3-4): ;  Il modo, dunque, in cui il maestro di re- :  ligione parla a uomini di grado evolutivo i -  . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1  . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N  | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso  | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i  | pienza, per mezzo della quale egli ha da       START.    agire; e il modo come egli porta in sè que-  sto nocciolo deve essere tale da renderlo  capace di parlare ad ognuno secondo la sua  comprensione. Perciò chi studia i discorsi  degli Istruttori religiosi dal loro lato este-  riore, conosce soltanto un lato e precisa-  mente quello più estrinseco della loro sa-  pienza. Acutamente accenna a questi fatti  Edoardo Schuré nel suo libro sui “ Grandi  Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri  di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,  Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da quello  investigatore intuitivo, da quel nobile artista  dei pensiero, da quell'anima satura di pro-  fondo sentimento religioso ch’ egli è. Così  nell'introduzione al libro egli espone il suo.  modo di vedere :   “ Tutte le grandi religioni hanno una sto-  ria esteriore ed una interiore; l'una visibile,  l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da  intendersi i dogmi & i miti pubblicamente  © insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono-  sciuti nei culti e nelle superstizioni popolari.  Per istoria interiore è da intendersi la scienza  profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire  dei grandi Iniziati, profeti o riformatori che  hanno istituite, sorrette e propagate le reli-  gioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla  vista di tutti, ma non per questo è meno  oscura, complicata, contradittoria. — La se-  ‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |,  rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima €  Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa  infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle  segrete confraternite, e i suoi drammi più  appassionanti hanno intieramente per iscena  l’anima dei grandi profeti, che non hanno  mai nè fissato in pergamena, nè confidato  ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute,  o le proprie estasi più paradisiache. Questa  seconda storia vuole essere indovinata, ma  non appena si è scorta, apparisce luminosa,  organica, sempre in armonia con se stessa.  Potrebbe essere anche chiamata la storia  della religione eterna e universale. In essa  le cose mostrano il loro rovescio e la co-  scienza umana il suo diritto, mentre la sto-  ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD  questa seconda storia cogliamo il punto ge-N  netico della religione e della filosofia , che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8,  per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T}  unto è costituito dalle verità trascendenti. N  vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene  prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della  RES 1; RARO    provvidenza mediante i suoi agenti terre-  stri. ,,   Questi “ messaggeri terreni , lavorano  nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spi-  ritualistico della umanità. Ciò che li abilita  a questo lavoro sono le leggi imperiture della  chimica spirituale ed i processi chimici spi-  rituali che esse operano: vale a dire i grandi  prodotti intellettuali e morali della storia del  mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra  è soltanto simbolo, immagine della sapienza  superiore dimorante nella profondità delle  loro anime, immagini e simboli proporzio-  nati all'intendimento di coloro, che ad essi  porgono orecchio. Soltanto a coloro che  adempiono alle condizioni, che garantiscono  la comprensione e il “ reffo uso » della sa-  pienza superiore, questa può venire dischiusa.  E allora. nella Iniziazione mistica sentono  l'immediato contatto coi primordiali motivi  spirituali, con le potenze genitrici della esi-  stenza.   Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com-  penetrato di siffatti sentimenti: Clemente  Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e  3° secolo della nostra èra , il quale prima  del suo battesimo fu un “ Misto ,, ossia       A EE       un alunno dei Misteri, esalta questi con le  seguenti parole :   “O veramente santi Misteri! O puris-  sima luce! Una face viene portata dinnanzi  a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io  sono santificato, allorchè ricevo la consacra-  zione. Gli arcani però .me li rivela lo spi-  rito primordiale e suggella in me l’Iniziato  con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi  presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=  bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce-  rimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu  vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze  spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa  carola attorno all’ increato, all'imperituro, al  tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che  a te dal Cosmo viene inspirata intonerà  gl'inni di lode a questo Tutt'Uno ,..   . Si comprende la descrizione che fa Annie  Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini-  ziati devono parlare di sè come lo fa Cle-  mente Alessandrino con le parole suriferite:  “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano  il vanto di quella vetusta contrada e i più  nobili figli della Grecia, come ad esempio  | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi  | iniziare nei Misteri dai maestri della sapienza  | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per. IDO. JIA    siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e  i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre-  cia, i Misteri di Samotracia, della Scizia,  della Caldea, sono universalmente noti, al-  meno di nome, come le parole d'uso fami-  liare. Persino nella forma estremamente at-  tenuata dei Misteri eleusini il loro valore  viene altamente magnificato dai più eminenti  uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle,  Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E nei  Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento  del sapere, alla sola spiegazione di cose  ignorate, ma alla elevazione di tutta la na-  tura umana, di modo ch’ essa si compene-  tri di quella “sacra disposizione iniziatica,  che pone in grado di comprendere le fonti  e principi del Cosmo. Il mistico non solo  conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la  sua propria natura si fonde con esse. Egli  deve quindi essere preparato al fine di po-  tere accogliere come si deve le fonti di ogni  vita che in lui affluiscono. Appunto nel no-  stro tempo, in cui si vuol riconoscere come  attendibile soltanto ciò che è scientifico in  senso materiale, diviene difficile il credere  che, circa le cose supreme, quello, che im-  V. Esot. Chr. pag. 21, a    porta veramente è una disposizione d° a-  nimo. Per tal modo si fa della cognizione  un fatto intimo dell'anima umana: e tale  essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno  la soluzione di tutti gli enigmi del mondo:  Il Mistico troverà sempre che una siffatta  esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'o-  recchio e svanisce, se |’ anima non. è stata  prima preparata ed innalzata ad un livello  superiore ; egli troverà che il sentimento non  ne resta affatto toccato, se non è staîc di-  sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza  come un “ Sacramento ,. Solo chi intende  ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto  della quale discendono certe espressioni del  Mistico, come quelle di Filone: « Sovente,  allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%  reità_e rientro in me, distogliendomi dal  mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, .  scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono  certo di essermi internato nella parte mi-  gliore di me; metto in attività la vita vera,  sono unito col divino e in lui fondato, e  conseguo la forza di trasferirmi nel mondo  trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo  riposo nell’ elemento spirituale del mondo,  discendo nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come  potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse  nel vivere quotidiano, posto che la sua pa-  tria è pur quella dove testè mi sono sof-  fermato ! “ — Chi sa quale grado di puri-  ficazione del sentimento e della funzione  intellettiva sia necessario per arrivare a sen-  tire così conosce anche le ragioni per cui  la sapienza mistica, la sapienza consacrata  non può essere oggetto della vita consueta  quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario,  nè dei documenti della storia esteriore; e  perchè essa stia chiusa nell'anima dei di-  vini messaggeri e debba costituire, come  dice E. Schurè, il riservato oggetto della  iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quan-  tunque questa immediata comprensione della  verità rimanga un fatto d’ insegnamento del  tutto intimo, pure tutti gli uomini parteci-  pano dei benefici della sapienza. Come i  benefici delle ferrovie elettriche ricadono su  tutta la popolazione, pur restando monopolio    degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi  Pe così avviene, quanto ai frutti,  ella efficacia e della sapienza dei Misteri,  E come il beneficio delle cognizioni tecni-    che si traduce nelle istituzioni esteriori della  civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto  spirituale della vita dell'umanità: cioè nei  suoi miti, nei concetti informatori delle sue  credenze e delle sue religioni, nel suo mondo  di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì  nelle sue idee di morale e di diritto, e da  ultimo anche nella sua attività artistica, nelle  sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico  mostra «che la sapienza più profonda della  umanità è la radice di tutti questi vari con-  tenuti della vita, rendendosi ben conto che  essi tutti possono trovare la loro vera spie-  gazione soltanto in quella sapienza.   Clemente Alessandrino parla del fatto che  “ un uomo può avere la fede seriza posse-  dere eru Izione ,, ma al tempo stesso pro-  clama essere impossibile che un uomo senza  sapienza comprenda gli oggetti che vengono  spiegati nella fede , (v. Besant, Esot. christ.  pag. 84).   Ogni Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i  due non può esistere contraddizione j ma  anche alla Mistica egli può fare riconoscere  valore unicamente sulla base della vera scien-  za. Anche di ciò parla Clemente:   ... Alcuni che si ritengono favoriti da na-  tura, non desiderano di occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non deside-  rano di studiare e imparare la scienza na-  turale; essi_ richiedono nuda fede soltanto...  Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui  che tutto mette a contributo per la verità,  così che traendo dalla geometria e dalla mu-  sica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa,  ciò che è utile, difende la fede da ogni as-  salto.....   Quanto è necessario per chi desidera par-  tecipare dei poteri di Dio il trattare filoso-  ficamente soggetti intellettuali !....    ... Lo gnostico (Mistico) si vale del rami  dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr. Pag. 84). Chi ha colto questo profondo accordo della  Fede col Sapere si trova costretto a rile-  vare sempre di nuovo una caratteristica pe-  culiarità della nostra civiltà moderna, la quale  ha invece scavato un abisso tra Fede e  Scienza.   E. Schurè accenna a questo abisso fin dai  periodi introduttivi del suo libro :   “Il peggior male del nostro tempo è il  mostrarsi la Scienza e la Religione come  due forze nemiche e irreducibili. Infermità  intellettuale questa tanto più perniciosa in  quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le mem-  bra, come un veleno sottile che si respiri  nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritel-  ligenza diviene a lungo andare infermità  dell'anima e in conseguenza un male so-  ciale.   “« Fintanto che il Cristianesimo non fece  che affermare ingenuamente la fede cristiana in  seno a una Europa ancor semibarbara, come  era nel medio evo, esso fu la più grande  delle forze morali, e ha plasmato l’anima  dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza  sperimentale , apertamente ricostituitasi nel  secolo 16°, non fece che rivendicare i legit-  timi diritti della ragione e l’ illimitata sua  libertà, essa fu la più grande tra le forze  intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e  fornito la mente umana di fondamenta in-  crollabili ,,.   Non meno energicamente Annie Besant  accenna a questa peculiarità della civiltà  spirituale moderna. Per ognuno che studi l’ultimo imme-  diato quarantennio del secolo passato è chiaro  che persone meditative e morali sono in gran  numero esulate dalle chiesé perchè gl’ inse-  gnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il loro senso  morale.   E' vano pretendere che l’agnosticismo così  ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra-  : dice solo nella mancanza di moralità o in  È; una deliberata involuzione della mente. Chiun-  A que attentamente studi gli esposti fenomeni,  ammetterà che uomini di forte intelletto sono  stati allontanati dal seno del Cristianesimo  per via della rude goffaggine delle idee re-  ligiose loro presentate, delle contradizioni  negli insegnamenti delle varie autorità, nelle  vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee  n che nessun intelletto colto e metodicamente  ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare ».  a (A. B. Cris, esot. pag. 32-38).   Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in  questa direzione ? , Annie Besant risponde  inspirandosi alla veduta che anche la radice  del Cristianesimo giace in una sapienza oc-  culta e che la Fede deve, quindi, per sus-  I sistere risospingersi a questa radice:   “ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi-    i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e ria-  d | vere la propria Mise € l propri insegna-  sd cculti; deve di nuovo erigersi come.  ‘un istruttore autorevole di verità spirituali,  ma rivestito della sola autorità meritevole ..    x *  '  Me,    ù   Mes    di essere alquanto apprezzata, l' autorità,  cicè, della conoscenza. Se questi insegna-  menti ‘verranno recuperati, la loro influenza  sarà subito constatabile nelle più ampie  e più profonde vedute che si avranno circa  la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno riconosciuti subito  quali parziali presentimenti di realtà fonda-  mentali. In primo luogo il Cristianesimo  esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tem-  pio, così che tutti i capaci di riceverlo pos-  sano seguirne le linee di pensiero palese, e  secondariamente il Cristianesimo occulto ri-  discenderà nell'adito celato dietro la Cortina  che custodisce il « Sancta Sanctorum , in  cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B.  Es. Chris. Pag. 40-41).   Mediante il senso della vista l'uomo per-  cepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della  luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne  determinano gli aspetti cromatici variamente  sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione  della luce solare sia una funzione abituale  dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce:  Sole; esso viene accecato dal contatto im-  mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò che   ‘ 0°    néi suoi effetti è adeguato al compito quo-  tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof-  ferenza, quando, come causa in sè, colpisce  l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giu-  sto modo questa immagine alla vita spiri-  tuale dell'uomo, comprende perchè “ coloro  che sanno » parlano di “ pericoli » della  Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esi-  stono innegabilmente; se non che, chi ne  parla non va preso alla lettera, interpretando  la parola « pericoli ,, nel senso usuale. La  intelligenza e la ragione umana sono tanto  poco assuefatte a riconoscere le fonti del  vero nel complesso totale del mondo, quanto  poco è capace l'occhio di fissare direttamente  il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon-  denti gli effetti delia luce, così intelletto. e  ragione sentono a sè rispondenti gli effetti  della sapienza eterna nei fenomeni della na-  tura e nel decorso della storia degli uomini.  Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla    sorgente stessa della luce, così l'intelligenza umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri-  mordiali della sapienza. Questo umano inten-  dimento nel subito arretra, rinuncia. Or bi-  sogna assimilare nel debito modo ciò che  allora succede nell’ uomo , al fatto dell’ ab-  bacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella  Natura e nell'attività dello spirito soltanto  il riflesso della Verità, e non questa imme-  diatamente , egli viene meno di fronte alla  verità stessa, quando questa gli si presenta.  Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo  sente le manifestazioni della sapienza supe-  riore come illusioni, come costruzioni di una  fantasiosità irreale: esse non gli possono dire  nulla, sono per lui come forme aeree che  svaniscono quando egli le vuole afferrare,  così come è solito afferrare gli oggetti della  realtà consueta. Questa lo avvince a sè con  mille lacci; ciò che essa gli può promettere  egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez-  zare in mille modi. Chi qui vede giusta-  mente, comprende che cosa intendano dire  le leggende religiose quando parlano del  Tentatore, che promette tutte le magnifi-  cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo-  gliono intraprendere il sentiero della illumi-  nazione superiore. Se noh è risvegliata in.  loro la forza di resistere a cotesto Tenta-  tore, essi cadono inesorabilmente in sua ba-  lia. Con ciò si accenna a quel che s'intende  per “ pericoli della soglia ,, che occorre  varcare, se si vuole calcare il “ sentiero,  della sapienza. Niuno può giungere a que-  sto sentiero se non intende valersi dell’ oc-  chio spirituale, dell'intelletto e della ragione,  diversamente da come vengono adoperati)  nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il  piede sulla soglia come un trasmutato, come  "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato raffor-  zato; ed è singolarmente difficile nell’ età  nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio,    x giacchè appunto dalla nostra scienza esso  viene rivolto o a.ciò che è concreto  li tangibile. Per compiere le sue conquiste  nel campo delle forze naturali esteriori que-  , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco  alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si  fraintenda tutto ciò, prendendolo per un  rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l  canismo di un orologio non ha certo biso» i}  gno di risalire con l'indagine fino ai pen-/!   ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può   mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla   [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo   stesso meccanismo. a nessuno può com-   preridere come le forze e le cose che coo-   perano nell’ orologio siano state originaria-   mente combinate, se non va in traccia dello   | spirito che le ha combinate e non indaga   le ragioni per cui esse sono state così com-  f frze   Tmnon © SEXI ma ) fe   | fa meda; meo N el Mm NK ke  -- bt re e  € o’    uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0    A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a  È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs    ti dae  binate. Il naturalista può comprendere giu-  stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le  cerca anzitutto le forze con cui essa opera. "°  Se afferma che queste si sono combinate | ® cudl  da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat  di pensare che un orologio si sia conge-  gnato da sè. S izione-è non il A |    lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo  alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è,  non colui che cerca l'inventore dell’ orolo-    gio, ma colui che nell’orologio stesso im-  magina ‘uno spirito , il quale manda avanti Π le lancette. Soltanto quando in questo modo ||  sî fraintendono coloro che vanno in traccia  dello spirito dell'esistenza cosmica, si può  metterli in un fascio con quelli che a buon  diritto sono accusati di superstizione e che  cen altrettanto buon diritto vengono oggi  riguardati come turbapace, perchè compro-  mettono i “ benefizi , che la nostra coltura  scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _  velato da. preconcetti saprà a chi si vuol  alludere nelle due categorie citate).  Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d  accesso alla visione superiore, se vuole riu i "  scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN  forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn  l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x    i  T] x  > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in    — 54 —    x gono soltanto fantasticaggine ed illusione.   . Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto,  là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi*  torio e temporaneo altro non appare che  fantasticaggine ed illusione. Nessun utile,  dunque, risentirà un uomo che venga con-  dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa-  pienza colgalo corredo.della.sua intelligenza  rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado  d Iniziazione non consiste nell'impartire un  nuovo sapere intellettuale, ma nella com-  pleta trasmutazione delle forze conoscitive  dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo  Scuré descrive nei suoi “ Grandi Iniziati ,  il cammino di chi tende al “ Sapere , me-  diante i Misteri:    ALE « L’ iniziazione era a leaneno  r, le di futfo l'essere umano _ad ascen-  lere le vette vertiginose dello spirito , dal-  l'alto delle quali si può dominare la vita..... ,   E più innanzi egli dice:   “«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo  ha bisogno di una totale rifusione del pro-  prio essere fisico, morale e intellettuale. Or-  bene, questa rifusione non è possibile se  non mediante |’ esercizio simultaneo della  volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè  il loro completo accordo l’ uomo può svi-    }  ;)  I    Fapiecinia TX. iNalonta       Ponso ;  I he sli    luppare le proprie facoltà fino a limiti in-  definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini-  ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro-  fondo e un'applicazione costante l’uomo può _  mettersi in rapporto cosciente con le forze  occulte dell'universo. Con uno sforzo por-  entoso egli puo raggiungere la percezione  spirituale diretta, schiudersi i sentieri che  portano. all’olt a, al superfisico, e di-  venire capace di regolarvisi. oltanto allora  può dire di aver vinto il destino e di es-  Sersi conquistato fin da quaggiù la propria  tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato può  vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a  dire veggente e formatore di anime. Infatti  soltanto colui, che comanda a se stesso  può comandare agli altri, e soltanto chi è  libero può liberare ».   (Opera cit.).   La missione dei Misteri va intesa in tal  senso, per quel che si riferisce al loro primo  grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA  scienza, ma della produzione di nuove forze   | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,    ivenire un altro, prima di venir condotto    al Sole spirituale, alla sorgente della sa-  pienza.  Colui, le cui forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,, non  sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}.  che quivi gli si fanno incontro. In luogo di —  entrare in rapporto con_un mondo supe-  riore egli ricade nel mondo inferiore. À que-  sto pericolo trovasi esposto chi va in cerca  delle sorgenti della sapienza. Se egli soc-  combe, allora ha temporaneamente ucciso  in sè l'eterno germe. Questo era per l'in-  nanzi dormente in lui, ma, pur così dor-  mente, era tuttavia ciò che nobilitava la  passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo  viveva con questo rudimento di spiritualità  superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-  ziazione quel latente rudimento JÉne. di-  strutto. All'individuo non resta che l'istinto    di vivere nel transitorio, di yivere «Soltanto  pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.  avere sentito come_illusorio il “ divino spi-  rituale , , egli divinizza il « sensibile_mate-  riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può  andare perduto per l'individuo il suo più  prezioso tesoro, la sua parte immortale. Que-  sto è il pericolo analogo all’ accecamento  dell'occhio nella similitudine su riferita.   E' ovvio che coloro, cui nei misteri in-  combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei  |    Rito  fonda consapevolezza della propria respon-  sabilità, estremamente esigenti verso i disce-  poli, giacchè tali esigenze dovevano servire  a temprare nel senso indicato le loro forze  spirituali. E. Schuré descrive la scala gra-    duale della Iniziazion ‘a_praticata I  riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.)    e-la sua descrizione è tutta improntata di  geniale senso d’arte e di mistica profondità.  Mi appoggerò appunto ad essa per parlare  di quei gradi iniziatici.   Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co-  loro che offrivano sicurezza di riuscita per  la costituzione appropriata della loro natura  intellettuale, morale e spirituale. Per costoro  cominciava allora il periodo della « Prepa-  razione ,. Per molti anni essi diventavano   itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno  sf crede autorizzato a giudicare e criticare  mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,  torse anche più sovente, quando non ha an-  cora imparato nulla, non è punto facile ren-  dere simpatica l’idea" quel lungo udito-  rato. All'uditore era imposto il più assoluto  silenzio, inteso non nel senso esteriore di   ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di  | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva  Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru-    due crilica       PESTO, gp    zione, senza turbare questa spregiudicatezza  con una prematura analisi critica. Il saggio  sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un  certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare,  giacchè il sapere che ricevevano era appunto  ciò che occorreva per renderli maturi all  critica. Come è possibile che impari vera-  [mente chi vuole immediatamente criticare \{  quel che apprende? Con questo metodo di  ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno reso  maggio a una massima, che sola può fare  ascendere i gradini della conoscenza. Chi  ha percorso la via della conoscenza lo sa.  Egli non può che sentire pietà per coloro,  che si creano intoppi su tale strada coi loro  giudizi prematuri e con le loro critiche. Il  nostro tempo è tutto pieno di questo_im-  maturo spirito di critica: basta osservare in-  torno a noi ciò che i nostri oratori dicono  e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi  fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito  pitagorico, resterebbero. inespressi più dei  nove decimi di quanto vien detto e altret-  tanto rimarrebbe non stampato di quanto  vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è ap-  piccicato in testa un paio d'idee, si crede  autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui  sel  RARI TESE,    soggetti più essenziali. Invece un tale di-  ritto spetta soltanto a chi abbia imparato a  contenere per anni il suo giudizio e a por-  gere ascolto spregiudicat ea quanto i  savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate  tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace  norma dell'anima di chi non è maturo per  esaminare. Il nostro giudizio non vale pro-  prio nulla, nulla affatto di fronte alla Ve-  rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto esa-  minare dalla verità stessa. Invece di dire:  “ Io esamino tutto e voglio tenermi il meglio » , molti dovrebbero dire : “ Io voglio  fare esaminare me stesso dalla Verità, e  quando io sia sufficientemente buono per  essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi non  si è esercitato per anni ad adattare, a inal-  veare la propria vita in questo illimitato ab-  bandono al giudizio delle sagge guide della  umanità, non arriverà mai a formulare giu-  dizi che siano più che fumo e vacua riso-  nanza. Pa   Una norma siffatta è certamente invisa in  questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui  dominano la pubblica criticaglia, e lo spi-  rito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici  si attenevano appunto a cotesta norma. Rag-  giunta la voluta maturità, l' uditore vedeva       | 4 iena: acli    Neg    giunto per lui il “ giorno d'oro ,,, col quale  cominciavano le rivelazioni sull'essenza della  natura e dello spirito umano. A poco a poco  i gli si faceva comprendere la “ zomìa », le  4 B:, ” leggi della esistenza corporea e psichica.  Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non  raffinato intelletto ordinario non ne com-  prende nulla. Il Goethe una volta accennò  a questo. Allorchè nel suo viaggio per l'I-  talia e per la Sicilia si era dato con tutta  lena allo studio delle piante, e si era for-  mato quelle sue vedute tanto citate ma tanto  poco comprese sulla_“ pianta archetipa ,  scriveva in. Germania che avrebbe voluto  fare un viaggio in India, non per scoprire  qualche cosa di nuovo, bensi per guardare  a_Suo..modo_.il già scoperto» Quel che im-  porta, appunto, non è il conoscere le leggi  messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi  bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi  nell’ intima essenza della vita vegetale. Si  fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di questa vita vege-  tale. | nostri scienziati hauno veramente delle  strane idee a questo proposito. Essi o cre-  dono che, in genere, non si possa penetrare  nell'intimo della natura, o affermano che la  nosira indagine non è ancora fanto avan-  Db    zata. Essi non sospettano che con questa  indagine mediante i sensi e l'intelletto pos-  sono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico  le nostre cognizioni, ma che per investigare  (| « interno ,, è, invece, necessaria una ma-  niera di pensare tutta diversa da quella che  essi mettono in pratica. Non vogliono sa-  perne dell’ “ inventore dell'orologio ,,, men- |  tre studiano l'orologio alla stregua dei prin-  cipi della fisica. Poichè non possono tro-  vare nell'orologio nessuno “ spiritello ,, che  spinge avanti le lancette, o negano lo spi-  rito, che ha congegnato le ruote, o asseri-  scono che esso è inaccessibile all’umana co-  noscenza, 0 del tutto o “ fino ad oggi ,.  Chi parla dello spirito della Natura viene  accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma  non è colpa sua se gli accusatori non sen-  tono in ciò altro che parole! I discepoli pi-  tagorici, al secondo grado della loro istru-  zione, venivano introdotti nelloSpirito della  Natura.   Soltanto: dopo RARO al questo grado,  potevano venir condotti alla “« grande Ini-  ziazione ». A questo punto erano maturi per  accogliere in sè i “ Segreti della esistenza »;  il loro occhio spirituale era ormai sufficien-   | temente vigoroso; oramai non apprendevano  più a conoscere soltanto lo spirito delia na-  i tura, ma anche le intenzioni di questo spi-  i rito. Da questo punto in poi non sì può più  i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma  soltanto per via d'immagini, giacchè il no-  (a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto  | e non ha parola adatta alla conoscenza su-  È periore, di cui qui ci occupiamo. In questo  È senso va inteso pure quanto segue.   Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-  prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro-  pria esistenza personale. Da ciò traeva l' e-  sperienza che quella sua vita era la ripeti-  iS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino  dell'esistenza. Si poteva convincere che quel  i che è lecito chiamare “ anima , nel giusto  senso della parola, si rincarna ripetutamente,  e che le capacità, le vicende e le azioni della  Me sua vita presente erano da interpretarsi come  effetti di cause reperibili in quelle sue vite  antecedenti. Egli si rendeva anche conto che  i fatti e gli eventi di quella sua vita presente  dovevano produrre i loro effetti in esistenze  1 avvenire. i  ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni,  da perchè ho intenzione di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della  “ Rincorporazione , e della “ Legge cosmica », ovvero, in altre parole, della “ Rin-  carnazione , e del “ Karma ,, (1).   Queste verità potevano divenir convin-  zioni per il discepolo dei Misteri, come è  verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; per-  chè al terzo grado il discepolo era a ciò  maturo. Ma anche a questo grado si può  avere un giudizio completamente sicuro su  queste conoscenze, unicamente perchè si è  ormai acquistata la capacità di compren-  derne giustamente il significato.   Anche oggi, come in ogni tempo, molto  si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene  criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie ,  concezioni dei critici stessi, che non hanno  alcuna importanza. Del resto, però, si deve  anche pienamente convenire che pure molti  seguaci della idea della rincarnazione non  hanno di essa concetti migliori di quelli dei  suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi  difendono queste dottrine, le comprendono  veramente. Anche tra questi difensori ce ne  sono molti che sono troppo scansafatiche 0  troppo.... « consci di sè » per apprendere in  silenzio prima di far da insegnanti. 0°   (1) Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teo-    sofia — Scienza occulta — e i minori Azione del Kar-  ma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. LL NEI    Ora, se non forse presso i Pitagorici,  c'era, però, in altri Misteri, dopo la grande  « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della vera  “ Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto  l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere  conscio veniva esteso oltre l'immediata per-  sonalità dello individuo. Per essa il discepolo  non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un  veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza  delle cose, ma la viveva con esse. Molto  arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si  tratta. Il veggente non ha soltanto la sen-  sazione degli oggetti, bensì sente regoli og-  getti stessi, trasferendosi nel loro interno;  egli non pensa circa la natura, bensì esce  di se medesimo e s'interna, pensando, re//a  natura. (E' questo un procedimento noto al  Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi  dei sensi astrali ») (1). L'uomo intellettuale  non bada ai veggenti: essi debbono esser per  lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece,  ha senso per le loro doti, li ascolta con pio  rispetto, giacchè sente parlare in loro non più  una persona umana, bensì la stessa Saggezza  vivente. Essi hanno fatto olocausto delle    (1) Cfr. dello stesso autore: « Come si acquista co-  noscenza dei mondi trascendentali v. EA    proprie inclinazioni, simpatie, opinioni per-  sonali per poter prestare la propria bocca  all’eterno Verbo, “« mediante il quale fu-  rono fatte tutte le cose ,. Giacchè dove  parla ancora l'opinione umana, dove cam- _  peggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi  tace la sapienza eterna. E quando questa  giunge all'orecchio di coloro che non  ‘hanno ancora sentimento per essa, appare  loro soltanto come personale parola umana,  per quanto in essa possa chiudersi una forza  divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini  ‘potrebbero imparare ad “ ascoltare », giac-  chè il veggente fa tacere la sua umana per-  sonalità quando a lui parla la voce della Ve-  rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le  sue inclinazioni gli stanno dinanzi altret-  tanto insignificanti quanto il tavolino che  ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel-  | l'ascoltazione interiore.  . Solo il veggente ascenderà al grado suc-  cessivo, che gli antichi chiamavano del  " Teurgo » e che nella nostra lingua può  venire designato come quel grado, in cui  si opera una “ completa riversione , delle  facoltà umane. Forze che, di solito, afflui-  scono nell'individuo da/ di fuori, ora si ef-  fondono da /uîi. In certi campi, nei quali  5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un  dominatore colui, le cui facoltà sono “ tra-  smutate ,. E poichè solo il veggente è in  grado di giudicare la portata e la maniera  “a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà  Ti in possesso senza aver raggiunta la purità   _ del veggente, ne farà mal uso. E questa  do « sapienza senza purità ,, è possibile a causa  w di un cencatenamento di circostanze, di cui  <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Ini-  ziazione superiore, a proposito dei Pitago-  rici, E. Schuré ha il seguente magnifico    passo : 1  i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toc-  +. cato la cima della iniziazione antica. Da  dr questa vetta la terra apparisce come im-    cf ersa nell'ombra, come un astro morente.  \\*® Di lì si schiudono le prospettive sideree e    eri dispiega nel suo meraviglioso complesso |  Le * Scegatao ii a n 1  la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma    \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire  VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.   È le regioni incommensurabili del Cosmo, li  UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri    pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti  e meglio temprati pei cimenti della vita.  I,    Il Maestro aveva condotto i discepoli per    iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei    î  =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva   seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè ora per il discepolo si  trattava di far discendere la verità nelle pro-  fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in  azione nella pratica della vita.   Per raggiungere questo scopo ideale oc-  correva secondo Pitagora riunire tre perfe-  zioni: avere realmente la verità nell’intelletto,  la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.  Un'igiene sapiente, una regolata continenza  dovevano serbare al corpo là purezza che si  richiedeva non come scopo, ma come mezzo,   | Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e  quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente  | organismo dell’ anima, e per conseguenza  anche nello spirito... A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede  bastante energia, entra in possesso di facoltà  e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in-  terni animici, e la volontà si riversa radiosa  negli altri sensi.... (vedi E. Schuré op. cit.  Cap. 8).   Di tutto ciò che l'uomo compie prima di  raggiungere questo grado, le cause sono da  ricercare in regioni a lui completamente sco-  nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece,  | spazia in coteste regioni, e “ in perfetta consapevolezza , egli irradia da sè quanto  nell'uomo dorme di solito “ inconsciamente , nelle più profonde latebre dell'anima,  Egli trovasi a faccia a faccia con la sua  Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto in-  visibilmente da “ tergo ».  Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb-  bero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: “ Quando il veggente vede  l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui  grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che  ha gettato via merito e demerito, raggiunge  immacolato l'unione suprema ».  Alle vette, dunque, che vengono così con-.  quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la  mistica fede nella fulgida forza di codeste  vette gli conferisce la capacità di trapassare.  alcuni dei nebulosi veli che nascondono la.  vera natura delle grandi Guide dell'Umani  tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi “ Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone e  Gesù. A grado a grado da coteste Guide  sono state irraggiate nell'umanità le forze a_  seconda della maturità raggiunta dal genere  umano nelle diverse epoche. Rama condusse  alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di al-  «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono  l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta  Sanctorum ,, l'intimo sacro. penetrale.  Sarebbe sciupare tutto il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne rac-  contare il contenuto, nel quale, così com'è  ognuno dovrebbe profondarsi da sè.  Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra-  mite del Fondatore del Cristianesimo le  forze della sapienza dei Misteri sono state  riversate nelle vene spirituali dell’ umanità  in forma tale, che le orecchie dell’ umanità  hanno potuto udirla. E anche in questo ter-  reno la verità deve essere cercata pei sen-   tieri che E. Schurè ci presenta. La forza .  che s' irradia dalla personalità di Gesù, è  forza vivente nei cuori di tutti coloro, che  la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere  la vivente Parola che in questa forza agi-  | sce, può solo colui che se ne procaccia la  chiave, mercè la comprensione della sa-  pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per  — quanto è possibile, il fondamento A. Besant  | col suo “cristianesimo esoterico ,. E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto  | significato delle parole bibliche si svela al  lettore che tutto vi si abbandona,  Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no.  stri giorni. L'umanità era in condizione del  F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, “l'annunzio gioioso.”Oggidì l’in-  telletto ha ben altro allenamento che non  ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’ uomo ‘può  trasmutare in vita propria la forza vivente  della “ Parola palese » soltanto se riesce ad  afferrare cotesta forza mediante la propria  facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta  $ vero eternamente, anche se il modo come  i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso  i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio-  7555 }cinio facciano valere i propri diritti è una  necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà  oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è  stato dato ad altre forze dell'anima. Da que  sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe  scaturire l'attività del vero teosofo , e così  vuole essere interpretato il “« Cristianesimo  esoterico , di Besant. Il teosofo sa  che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa al-  tresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cri-  ‘sto, non è un “ Duce di morti , bensi un  “ Duce di vivi ,. Il teosofo intende la grande  parola del Maestro: “ Io sono con voi tutti  i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS    te, non a quella dei ragguagli storici, si ri-  volge anzitutto chi, come A. Besant, vuole  spiegare il Cristianesimo. Ciò che la “ Pa-  rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al-  l'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò  che poi proietta la sua luce sul racconto  evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della  Parola è rimasto qui fino ad oggi e può  dirci come dobbiamo intendere la lettera dei  ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di-  scorsi.   “Le buone novelle » debbono essere  intese “ esotericamente cioè, bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza  vivente, che imprime su di esse il sigillo di  . Gò che è “ Santo ,,. E poichè l'intelletto e  il razigcinio sono i grandi strumenti della  civiltà d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe-  rati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico , della comprensione meramente  “ positiva , della realtà. L'intelletto stesso  dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare  che lo riempie di vera religiosità , giacchè  non è esatto che l’assennato intelletto non  valga che a distruggere le “ illusioni , di  cui il sentimento religioso avvolge le cose.  Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato e  inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000    e nel dominio delle forze puramente mate-  riali della natura. Gli uomini del presente  e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e  i nostri storici, si credono Ziberi nel loro  mondo intellettuale unicamente edificato sul  fatto positivo. In Verità essi vivono sotto  l’azione di una Suggestione dominante su  tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre-  ste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del  mondo, di sforia umana e di evoluzione  della civiltà, non sono altro che « sugge-  \stioni collettive ,. Un giorno vi cadrà la  benda dagli.occhi, e allora soltanto speri-  meénterete fino a qual punto è verità e non .  errore quel che voi pensate dell'elettricità e  della luce, della evoluzione animale ed umana;  giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar-  dano le vostre asserzioni non come errori,  ma come verità. Infatti anche la vostra in-  terpretazione della natura è per loro una  “ professione di fede », e quando essi di-  cono “ di volere cercare il nucleò della ve-  rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non  solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,  ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed  Hickel,       ay ( (A   E opere come queile citate di Schuré e   di Besant sono destinate a togliervi  la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle “ vostre suggestioni ».  Conseguentemente, in libri siffatti quel che  importa non è tanto il loro contenuto let-  terale, quanto le occulte forze che mossero  la penna dei loro autori e che si trasfon-  dono nelle vene dei lettori, così che questi  vengono tutti pervasi da un nuovo “ senso  della verità ». 1 lettori che subiscono il giu-  sto effetto di tali libri ricevono sotto un  certo rispetto una /riziazione di tipo , diremo così, intellettuale. Chi a questa frase  mon arriccia il naso, come alla asserzione  di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,  invece, qualche cosa di più che una va-  cua frase, potrà anche comprendere, come  — libri siffatti gli vengano presentati non già  per allettarlo a fare una delle solite letture,  ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati  scritti, debbono suscitare in lui forze dor-  menti, anche se a tutta prima coteste forze  possano essere soltanto quelle dell'arimia in-  tellettiva.  Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera  Iniziazione, che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori , evitando di passare per l' intel-  letto, mon capisce nulla dei “ segni dei |  tempi , e non può far altro che porre sug-  sa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!”  Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Colecchi: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo italiano.  Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO, pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant -- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO  o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da GAIO DIRITTO COMUNE  a tutti i popoli, altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale.  All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where  Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a number of small states, independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war ensues,  in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded  Lavimnm,  in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,  succeeds to  the  kingdom,  and to him Silvius,  a second son,  ^lom be had by lAvioia. It would be tedious  and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that followed,  and  of  whom we know little mtae than the names. It  will be sufficient to say,  that the  sacoesnoD coatiDiied  for  near  four  hundred years in the family,  and  that  Numitor,  the  fifteenth  from Aeneas,  is  the  last  king  of  Alba. Numitor,  vho  took  posseBsitHi  of  the  kingdom in consequence of  his  father's will,  had  a brpther  named  Amnlius,  to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too generally prev^  against  right,  Amolins made use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,  ot  content  with  the crime of usurpation,  he added  that  of  murder  also.  Nnmitor's  sons  first  fell  a  sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his brother's  only  daughter,  to become a vestal virgin,  which office obliging her to perpetual celibacy,  made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are  all  frustrated  in  the  event;  for  Rhea Silvia,  going  to fetch wator  frqip  a  Qeighbopring grove, was met and ravished by a man,  whom,  pei^tqw  to palliate her offence, she avers to be MARTE,  the god of war. Whoever this lover  of  hers was,  whether  some  person  had deceived  her by  assuming  so great  a name, or Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was broug:lit  to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated their  chasti^,  and  the  twins are  ordered to be flung into tbe riverTiber.It  happens,  however,  at  the  time  this  rigorous  sentence  was  put  into eieculion,  that  the  river  had  more than  usually overflowed  its  banks,  so that the place where the children are thrown, being at a distance from thei main cnirent,  the water is too  shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they continued without harm; and  that  no  part  of  their  preservatioD  might  want  its  wonders,  we are told,  that  they were for some time  suckled there by a wolf,  until Fanstulos,  the  king's  herdsman,  finding  ihem  exposed, brought  them  home  to  Acca  Laurentia,  his  wife,  who  brought  them  up  as  her  own.  Some,  however,  will  have  it;  tiiat  tbe  nurse's  name  was  Lnpa,  which  gaya  rise  to  the  stoijr  vt  their  being  nouriihed  by  a  wolf;  but  it  is  needless  to  vfad    Do,l,,-cdtyS  oirt a  iwglH  MBpg«b«ba%  fian  'venevntB  vbtfe  die  vkote «  omgrowB  with  ftUe.   Boraoloa  and  Bemna,  Ae  twins  thtu  strangely  prcwcved.  Memed  eariy  to  diacover  afai)iti«i  uid  desiret  above  the  me«i-  noH  of  thor  aapposed  origiiuL  The  ahepkenl's  life  be^an  to  di^leaae  them,  aod  fnaa  tending  the  flock,  or  hantiag  wild  beasts,  they  soon  tnmed  their  strength  agsinst  the  robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their  feUew-shepherds.   In one  of  these  ezcmnons  it  was  that  Remus is  taken priaoner  by  Nvmttor's  berdsmen,  who bring him before  the  king,  and  aoensed  him  of  the  very  crime which he bad ao  t^tea  attempted  to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^  informed 1^  FaiiBtaliu  of his real birth, was not  remisa  in  assembling  ft  munber  of  hia  fbllow^epherds,  in  order  to  resooe  bis  brother  from  posoD,  and  foroe the kingdtmi from  tbe  bands of  tbe  nsnrper.  Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near the place by different ways, while  Beniiis  with  eqnal  vigilaooe  gm&ed  npon  tbe  dtiuua  within. AmalioB,  tfans  beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof  for bit seoiuity, was,daring hia  amasenent  and  distraotion,  taken  and daio, while Numitor who had been deposed forty-two  years,  recognised  bis grandscns,  and is restored to the throne.  Nnmitor  being  tints  in  qvet  posiewion  of  the  kingdom,  hot  grandaou  resolred  to  bnild  a  eify  npoo  those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda. The  king  had  too  many  oUigations  to  them  not  to  approve  their  des^;  he  appointed  tbem  lands,  and  gave  pennisnoB  to  .snoh  of  hia  subjects  a»  thoo proper  to  settie  in  their  new  colony.  Many  of  the  neil^draariiig  shejdierda  also,  and  sncb  as  were  fond  of  change,  lepabed  to  the  intended  dty,  and  prepared  to  raise.  For the more  speedy oarrybg on  this  work, the  people  were  divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what  was  designed  fi»  an  advantage proved  nearly  fatal  to  this  infimt  oolony: it gives birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who  themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should be most favoorable^  afaonld  in  all  reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take   their  stations  npon  diffra«nt  hilk. To  Remus  appear  six  vultures,  to  Romulus,  twice  that  number,  to  ttwt  each  party  thongfat  itielf  viotoriovi,  the  one  tiaviog  the  *first*  omen,  the  other  the  most  nnmeroiu.  Tbifl  prodnoed  a  contest,  whitdi  ended  ui  a  batde,  wherein  Bemoa  is slain,  and it is even said, that he was kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city  wbU,  itrack  him dead upon  tbe  qrat,  at  the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla withim punity.  Romoltu, being now sole  coHunuider,  and  eighteen yean of  age,  b^an  the  fonndation  of  acity,  that was one day to give laws to the woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was  at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near a mile in compass,  and commanded  a small  territory  ranod  it  of  about eight  miles  over.  However,  smallas  it  appears,  it  was,  ootwithstandiiy,  vone  inhabited;  and  the  first  method  made  uae  of  to  increase  its  numbers  vaa  the  opemng  a  sanctosry  for  all  male&otors,  slaves,  aod  snch  as  wm«  desirons  of  novelty.  These came in  great multitudes,  and  cootibated  to  increase  the  number  of our  legtslatoi'B  new  subjects.  To  have  a  just  idea  ther^re  of  Rome in its infant  stale,  we have  only  to  iwsgine  a  coUec-  tion  o(  cottages,  sairotinded  by  a  feeble  wall,  rather  built to  serve  as  a  military  retreat,  than  for the  purposes  of  civil  >o-  cie^,  rather filled  with  a  tnmoltuoas  and  vicious  rabble,  thaD  with  subjects  bred  to obedience  and  control.We have only to conceive men bred to  rapine,  Iwing  in  a  place  that  merelj  seemed  calculated  for  the  security  of  plonder;  and  yet,  to our astonishment,  we  shall  soon  find  this  tumulbioas  coocouise  unit>  ingin  the  strictest  bonds  of  sode^;  this  lawless  rabble putting OB the most sincere regard for religion;  end,  thouf^  composed  of  the  dr^s  of  mankind,  setting  examples,  to all  the  worid, of  valour  and  riitne.    Doiii,,ih,.   WWLOU   SoARGB  mm  tbe  city rnsed  abore  iti  &niid«tioB.  vhen  Hs  rade  mhalulsBtB  hegaa  to  tfauik  of  gmag  some  fonn  to  their. MoslitBtioii.  Their  first  object  was  to  unite  lifoer^  and  em-  pire;  to  fonn  a  kiod  of  mixed  monncby,  by  irfaicfa  all  power  vw  to  be  dividad  between  the  prince  and  the  peopte.  Bo- nlna,  by  an  act  of  great  geoeromtf,  left  them  at  liberty  to  dwose whom they wonld for dieir king,  and  tliey  in  gnrtitiide  eoBcmred  to elect their founder; be was accordingly acknowledged as  chief  of  dieir religion, sovereign magistrate of Rorne,  md geoeral of  Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT,  armed with axes  tied  op  in  a  bnadle  of  rods, who were to  serve  as  execntioners  of  the  law,  and to impress  hii  new subjeots  with  an  idea of his authority.  Yet  stUl  tUa  aKiboriQr  was  ondw  very  great restriotii»ig,  as  his  whole  power  CMisisted  in  caQing  the THE SENATEsenate  togedier,  in  assembling  the  peo< pie,  io  condoctmg  the  army,  when it  was  decreed  by  the  other  part  of  the  constitation  that  they  ahonld  go  to  war,  and  in  k^  pointing  the  qnestors,  w  neainrers  of  the  pnblk:  money, <^ficers  which  we  may  soppose  at  that  time  had  but  very  Ktfle  eni^oyment,  as  neither the  soldiers  nor  magistrates  recrived any  pay.   The senate,  wluch  was  to  act  as  cosnsellors  to  the  king,  was composedof  an  imndred  of  the  printnpal  cttisens of  Bune,  oODStsting  of  men whose age, wisdom, or valoor,  gave  them natoral  an^toiitf  over titeir feUow-«ab|ect8.  The  king named  the  fint  senatw,  and  appointed him to the  government  of  &e  atj, whenever war reqoired the geoeial's absence.  In  dds  neqiect^e  assembly was  transacted all the important boainesa  of  the slate, the king himself presiding, ^thongh every question w'as  tO'be  determined  by  a minority  of  voices. Ai^ they were supposed to liave a parental affection for  die  people,  they  were  called  latbMS,  and  their  descendants patricians.  To the  pafericiaits  belonged  all  ttte  dignified  oiBees  of tlie state,  as  well   r,o,i,,-cMh,. as of  tiie  imesfbood. To these  the; were  appofaited by  the senate and  the  people,  vhile  the  lower  ranks  of  citizens,  wlio  were  thns  excluded  from  all  views  of  promotion for thenseUes, woe to expect advantages  ou^ from  their  ntloiir  in  war,  or  their  assidiiity  in  agriculture.  The  plebwms,  who composed the third part  of  the  legi»-  la^oce,  assumed  to  tbemselTcs  the  power  of aathorising'  those  laws  iHiicb  were  passed  b;  the  kia^  or  the  setwle. All  tUi^  x^ative  to peace or  war,  to  the electi<Hi  of  magistiatei,  and  even  to  the  choosing  a  king,  were  confirmed  by  their  sufiragea.  la  their  namMmu  aaaomblies.  all  mterptises  against  the  enemy  were  proposed,  while  the  senate  had  onij  a  power  of  rejeotiog  «r  approving  their Aemfpit.  Thus was  the ststa  composed  of  three  orders,  each  a  check  np<»i  the  other:  the  people  resolved  whedier  the  proposals  of  the  king  were  pleasing to  them,  the  senate  deliberated  upon  the  expediency  of  the  measure,  and  the  king  gave  vigour  and  spirit  by  directing  the  execBtion.  Bat  thov^  the  pei^le  by  these  regulations  seemed  in  possession  of  great  pow«,  yet  th«re  was  one  cdr-onmstaace  which  c<nitiibuted  greatly  to its dimmntion, nara^,  the  rights  of  patronage  which  wece  lodged  in  the  smate.  I^  king,  sensible  that  in  every  state  there  must  be  a  'dependaoee  of  the  poor  upon  the powerful,  -gave permission  to  every  |:4e-  beian  to  choose  one  among  the  senators  for  a patron.  Tke bond between them was of  the  strongest kind;  the  patron  was  to  give  [woteotion  to  his  client,  to  assist  him  with  lus  advice  and  fortune,  to  plead  for  him  before  the  judge,  and  to  rescue  him  from  every  oppression.  On  the  other  hand,  the  climt  attached  himself  to  the  interests  of  his patron,  assisted  han,  if  poor,  to  portion  his  daughters,  to  pay  his  debts,,  or  his  rmuom  -  in  case  of  being,  taken  prisoner.  He  was  to  follow  him  on  every  service  of  danger;  whenever  he  stood  candidate  for  an  office,  he  was  obliged  to  give  him  his sufi&age,  and was  proUbited  from  giving  testimony  in  a  court  of  justioe  whenever  his  evidence  affected  the  int^ests of  his  patron.  These  reciprocal dotias  were held  so  sacred,  that  any  who  violated  them  were  ever  after  held  infamous,  and  excluded  6x»n  all  the  pro-  tection of  the taws :  so  that  from  hence  we  see  the  senate  in  effect  possessed  of  the  snffirages  of  &ea  clients,  nnce  all  that  was  left  the  people  was  <Hily  the  poww  of  choonng  what  patron  Ibery  should  obey.  Amoaf  a  nRtion  m>  tMibstont  and  fierce  as  the first  Romans,  it  was  wise  to  enforce  obedience  ■t  &6  most  reqnidte  dnty.   lie  first  care  of  the  new-created  king  was  to  attend  to  the  interests  of  religion,  and  to  endeavour  to  hnmantse  his  subjects, by  the notion  of  other  rewards and pnnishnients than diose  of  hnman  law.  The  precise  form  of  their  worship  is  nn- known;  bat  die  greatest  part  of  the  religion  of  that  age  con-  siMed  in  a  firm  relianoe  upon  Ae  credit  of  their  soothsi^ers,  irito  fvetended,  from  observations  on  the  flight  of  birds  and  the  entrails  of  beasts,  to  direct  the  present,  and  to  dive into  fntmrity.  This pioos  fhrad, wbich  first  uvse  from  ignorance, soon  became  a  most  usefnl  machine  in the  hands  of  government.  Romnlns,  by  an  express  law,  commanded,  that  no  election  should  be  made,  no enterprise  undertaken,  witfa-  flat  first  conaolting  die  soothsayers.  With  equal  wisdom  he  •rdained,  that  no  new  divinities  should  be  introdoced  into  pnhlic  worship,  that  the  priesthood  should  continue  for  fif,  and  that  Aone  shonM  be  elected  into it  before  the  age  of  fifty.  '  He  fort>ade  them  to  mix  fable  witb  the  masteries  of  their  reUgion;  And,  timt  they  mi^t  be  quaKfied  to  teach  others,  he  ordered  Aat  tiiey  should  be  tiie  iHstoriographns  of  tiie  times;  so  tiia^  while  instructed  by priests  Bk^  these,  the  people  cordd  never  degenerate  into  total  barbarity.   Of  his  other  laws  we  have  but few  fragments  remmnii^. In these, however,  we  learn,  that  wives  were  forbid,  upon  any  pretext  whatsoever,  to  separate from  tbeir  husbands;  wUle,  on  the contrary,  the  husbaod  was  empowered  to  repudiate the wife, and  even  to  put  her  to  death  with  the  consent  of  hef  retatioQB,  in  case  she  was detected  in  adultery,  in  at-  tempting to  poison,  in  making  false  keys,. or even of  having  drank  too  much  vine.  His  laws  between  children  and  their  parents  w«'e  yet  sdll  more  severe;  the  father  had  entire  power over his  offspring,  both  of  fortune  and  fife;  he  conid  ■ell  them  or  imprison  them  at  any  time  of  their  lives, or in any ttations to which they  were  arrived.  The  father  might  expose  his  clnldren,  if  bom  witii  any  deformities, having previoasly  eommunicated  bis  intentions  to  his  five  next  of  kindred.  Our  lawgiver  seemed  moze  kind  even  to  his  enemies, for his subjectswere prt^hited  from  killing  them  after  they  bad  surren-  dM«d,  m  even  from  sdling  them:  his  ambition only aiaied  at    .,Coo<^lc    r  of  luB  ateaaeB  i^  mak  After  M>  many  endeaToiiTs  to  inoraase  bia  BnbjeotBi  aad  m  mmy  Inra  to  r^nlate  them,  he  next  gave  ordeis  to  ascertna  tbeir  numbers.  Tbb  whole  amoanled  bat  to  three  tbooMnd  foot,  and about as  many  bnndred  horsemen,  capable  of  beari^  arms.     These,    therdbre   were   divided   equally   into   three tribes,  and  to  each  he  asiigaed  a  different  part  of  the  taty. Each  of  these  tribes  were  sabdivided  into  ten  cmin  or  compame,  consiBting of an  hundred  men  each,  with  a  oentnrioB  to  command  it,  a  priest  c^ed  curio  to  perform  the  sacrifioes,  and  two of  the  principal inhatntants,  called  duumviri,  to  distribute jnstioe. Aocordijigly to  the  number  of  ooriv  he  dividedthe  lands  into  thirty  parts,  reserving  one  portion  for  public  uses,  and  another  for  religiaus ceremonies.  Tbo  «m-  ■phaty  and  fingality  of  tha  times  will  be  best  iindeistood  by  observing,  that  dach citizen had  not  id>ove  two  ictea of  ground  for  his  owB  subsistence.  Of  the  horsemen  mentioned  above,  dtere  were  chosen  ten  from  eei^  curia;  tfaey  were  particularly  appointed  to  fi^t  round  the  person  of  the  king;  of  them  hU  gaud  was composed, and from  tbeir  alacrity  in  battle,  or  fhuB  the  >ame  of  their  first  commander,  ^ey  were  called  ceUrat,  a  word  equivalent  to  our  light  horsemen.   A  goremmcot  thus  wisely  instituted,  it  may  be  suppoaed,  nduced  numbers  to  come  and  live under it:  each day  added to  its  strength,  maltitudes  flocked  in  from  all  the  adjacent  towns,  and  it  only  seemed  to  waqt  women  to  ascertain  its  du-  ration. In  this  exiaeiatx,  Romulus,  by  the  advice  of  the  se-  nate, sent deputies among the  Sabines,  his  neighbours,  en-  treatingtheir  alliance,  and  upon  these  terms-  ofiering  to  cement  the  most  strict  confederacy  with  them.     The  Sabines,   .  who were  then  considered  as  the  moat  warlike  people  of  Italy,  r^ected  the proposition with disdain,  and  some  even  added  raillery  to  the  refusal,  demanding,  that  as  he  had  opened  a  sanctuary  for  fugitive slaves,  why  he  had  not  also opened  another  for  prostitute  women. Tbis  answer  quickly  raised  the  indignation  of  the  Rpmans; and the  king, in  order  to  gratify  their  resentaient,  while  he  at  the  same  time  should  people  hb  ci^,  resolved  to  obtain  by  force  what  was  denied  to  intrea^.  For  this  purpose  he  proclaimed  a  feast,  in  honour  of  N^tane,  diron^ut  all  the  nMghboitring villagea, and made  the  meet    KAPB  OF  THK  BABINBS.  t   mmgaiAMat  pnftamtkmi  for  it  Tbets  feuta  wen  guan^  preceded  by  sacrifices,  and  ended  in'  shows  of  wreeden,  ^ft-  diaton,  and  chariot-^onrses.  The  Salnnes,  as  he  had  expected, were among the foremost  who  came  to  be  spectalon^  fannging  their  wives  and  daughters  with  them  to  share  t^  pkasore  of  the  sight.  The  inhabitants  also  of  maaj  of  tht  ueig^hoariDg  to^os  came,  who  were  received  by  the  RomaM  with  marks  of  the most cordial  hospitality. lo the  mean  time  '  the  games  began,  and  while  the  strangers  were  most  intent  upon  the  spectacle,  a  number  of  the  Roman  yonth  rushed  la  mnoag  them  wiUi  drawn  swords  seized  the  yotingedt  and  meet  beaatilid  women, and earned them  off  by  violence.  ,  In  vain  the  parents  protested  against  this  bre&cfa  of  hospitali^;  in  vain  the  virgins  themselves  at  first  opposed  the  attempts  of  th^  raviBfaers;  perseverance  and  caresses  obtained  those  &•  TOWS  which  timidi^ at firstdenied:  so  that  the  betrayera,  frma  being  objects  of  aversion,  soon  became  partners  of  their  dearest  affections. But however the afiront might have been botne by them, it was  not  BO easily pnt  up  by  their  parents;  a  bloody  war  ei^  sued.  The  cities  of  Cenioa,  Antemna,  and  Cnutuminm,  wen  the  &at  who  resolved  to  revenge  the  common  cause,  which  the  Salnses  seemed  too  dilatory  in  pursuing.  These,  by  making aeparate inroads, becamea  more  easy  conquest  to  Romulus,  who  first  ovothrew  the  Ceoinenses,  slew  dieir  king  Acron  in  sio combat, -and made an offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the  spot  where  the  capitol  was  afterwards  built  The  Antemnates  and  Crustuminians  shared  the  same.  fate;  their  armies  were  overthrowu,  and  their  cities  takes.  The  conqueror,  however,  made  the  most  merciful  use  of  las  victny;  for  instead (rf  destroying their  towns,  or  lessemi^l  tbent  nnmbeis,  he  only  placed  colonies  of  Romana  in  them,  to.  serve  as  a  frontier  to  repress  more  distant  invasions.   Tattos,  king  of  Cures,  a  Sabine  city,  was  the  last,  althou^  the  most  formidable who undertook to cevuige  the  disgrace  his  country  had  suffered.  He  entered  the  Roman  territoriea  at  the  head of twenty-five thousand  men|  and  not  content  with  a  superiority  of  forces,  he  added  stratagem  also. Tarpeia, who  was  daughter  to  the  commander  of.  the  Cajutolme  hill,  happened to  &11  into his hands,  as  she  went  without  4>e  walls  of  the  city  to  fetch  water. Upon her  he  prevailed,  by  meant  of    hrga  pttuSaet,  to  bebrajr  aae  of  the  ^^ates  to  his  army.  Tlie  i«<irwd  she  eagdgei  for  was  vfaat  the  soldiers  wore  on  their  atteB,  by  vfaich  the meaot their  bracelets.  They,  however,  cotber  miataking^  her  meaning,  or  wiUing  to  panish  her  peifidy,  ttvew  tlieir  bncklera  upon  her  as  they  entered,  and  crushed  ber  to  death  beneath  them.  The  Sabines,  being  thus  possessed of  the  Capitoline, had the  advantage  of  continning  the  War  at  tbeir  pleasure;  and  for  some  time  only  slight  enconnters  passed  between  them.  At  length,  however,  the  tedionsness  of  this  contest  began  to  weary  out  both  parties,  so  that  each wished,  but  neither would stoop  to  sue  for  peace.  The  desire  of  peace  ofteii  gives  vigour  to  measures  in  war ;  wherefore  boUt  sides  resolving  to  terminate  their  doubts  by  a  detMsive  action, a  general engagement ensued,  which  was  renewed  for  several  days,  with  almost  equal  success.  They  both  fon^t  for  all  that  was  vEduable  in  life,  and  neither  could  think  of  submitting: it  was  in  the valley between  the  Capitoline  and  Qui-  rinal  hills,  that  the  last  engagement  was  fought  between  the  Romans  and  the  Sabines.  The  engem«it  became  general,  and  the  slaughter  prod^ioua,  when  the  attention  of  both  sides  was suddenly  turned  from the scene  of  horror  before  them,  to  (mother  infinitely  more  striking. The Sabine women, who  h^  been carried off  by  the  Romans,  were  seen  with their  hair  loose  and  iheir  ornaments  neglected,  fiying  in  between  tbe  combatants, regardless of their  own  danger,  and  with  loud  outcries  only  solicitous  for  that  of  their  parents,  their  husbands,  and  their  cUIdren.  "  If,"  cped  ihey,  "  you  are  resolved  upon  daughter,  turn  your  atma  upon  us,  since  we  only  are  the  cause <tf  your  animosity. If any  must  die,  let  it  be  us;  since  if  oar  parents  orour  husbands  faU,  we  must  be  equally  miserable  in  being  the  surviving  cause."  A  spectacle  so  moving  could  not  be  resisted  by  the  combatants;  both  sides  for  a  wtiile,  as  if by  mutual  impulse, let fall  their  weapons,  and  beheld  the  distress  -  in  silent  wnazement  The  tears  and  entreaties  of  thdr  wives  and  daughters  at  length  prevaUed;  an  accommodation  ensued,  by  which  it  was'  agreed,  that  Romulus  and  Tatius should  t«ign  jointly  in Rome, with equal power and prerogative;  diat  an  bailed  Sabines  should  be  admitted  into  the  senate;  that  the  city  should  still  retain  its  farmer  name,  but  that  As  citizens  should  bctdled  Qnirites,  after  Cures,  the  principal  town  of  the  Sabines; and that both  nations being thus united.   11   •aoh  of  the  Sabtees  u  i^ose  it  shoiM  be  sdnAted  to  Bniad   eDJoy  all  the  privilegea  of  citizens  oi  Rome.  llaH  erery  •torm,  vhich  seemed  to  threateo  this  growing  empire,  only  served  to  increase itvigour.  That army, wfaich  in  die  mondug  had  resolved  upon  its  destruction,  came  in  the  evetlin^  with  j(^  to  be  enrolled  uiDoag  the  number  of  its  ctttzens.  RomfoloB  saw  his  dominions  and  his  sul^ects  increased  by  more  then  half  in  the  space of  a  few  hours; and, as if  fortune meant every way to assist his greatness,  Tatins,  his  partner  in  the  govem-  ment,  was  killed  about  five  years  after  by  the  Lavinians,  for  having  protected  some  servants  of  his,  who  had  plundered  them  and  slain  their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.   Rome  being  greatly  strengthened  by  this  new  acquisition  of  power,  began  to  grow  formidable  to  her  neighbours ;  and  it -aiay  be supposed, that  pretexts  for  war  were  not  wanting,  when  prompted  by  jealousy  on  their  ride,  and  by  ambition  on  that  of  the  Romans.  Fidena  and  Cameria,  two  oe^hbonring  cities,  were  stibdoed  and  tAken.  Veii also, one of the most power Ail states of Etruria, shared nearly the same fate;  after  two  fierce engagements  tiiey  sued  ftM*  a  peace  and  a  league,  which was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river, and  hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with those limits which had been wisely fixed to his  power he began to affect absolute sway, and to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience. The senate was particularly displeased at  his  conduct,  finding  themselves  only  used  as  instrom^its  to  ratify  the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get rid  of  the  tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he disappeared  while  reviewing  his  army:  eertain  it  is,  that  from  the  secrecy  of  the  fact,  and  the  concealment of the body, tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld not bear as a king,  tbey were contented to worship as  a god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad  a temple  built  to turn under the name of  Quirinus, one of  the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that  be  had  appeared  to  hm,  and  desired  to  be  isTtAed  by  that  tide.  We  see  little  more  in  the  obaraeter  of  this  princ,  than vhat mi^t  be expected in andk an a^,  great  temperance  and  great  valour,  wbich  generally  make  np  the  catalt^e  of  sar^^e  virtues.  Howeva,  the  gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates in  u an adnuration of tiie founder,  viftoat mnch raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Colletti: l’implicatura conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana.  C. su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe: a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.   Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.  Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.  Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione.  Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.  Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.  Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase repubblicana).  Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio.  Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia.  Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi.  Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato.  C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia.  Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.  TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche:  Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità  La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma  Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen Horatius  Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David  Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.

 

Grice e Colizzi: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo italiano.Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed eresia: il problema storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi   Edizione di riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Letteratura italiana Einaudi   Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Letteratura italiana Einaudi Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde- gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super- bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no- stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura italiana Einaudi 4   Giordano Bruno - De gli eroici furori quel splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui Bruno - De gli eroici furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es- sere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile, non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in si- militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me, viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap- partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo- roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en- te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari- mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata Letteratura italiana Einaudi 14   Giordano Bruno - De gli eroici furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura italiana Einaudi 16   Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con- fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re- frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura italiana Einaudi 17   Giordano Bruno - De gli eroici furori causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19   Giordano Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20   Giordano Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21   Giordano Bruno - De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte.  PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri- mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi 24   Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori, esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana Einaudi 26   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi “nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo “inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte” in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli: cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: [1] In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi, Letteratura italiana Einaudi 28   Giordano Bruno - De gli eroici furori non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il “suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga “ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi “restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31   Giordano Bruno - De gli eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura italiana Einaudi 32   Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34   Giordano Bruno - De gli eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura italiana Einaudi 35   Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36   Giordano Bruno - De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu, Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni: «Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi- derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi- nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in- differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana Einaudi 42   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43   fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico: perché si propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi- derazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46   Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare non più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”.  tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi- cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di- stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap- parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri, e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi 56   Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual- Letteratura italiana Einaudi 57   Giordano Bruno - De gli eroici furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina». cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.  tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in sé.  (cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli- candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere- grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con- gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse- guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68   cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri- Letteratura italiana Einaudi 70   Giordano Bruno - De gli eroici furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi 71   Giordano Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu- ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima: atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade. Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione, ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima- le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con- templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti” al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse Letteratura italiana Einaudi 78   Giordano Bruno - De gli eroici furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio- ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu- ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che “for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che “dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota.  cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele- mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha Letteratura italiana Einaudi 83   II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi 85   Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi- cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la Letteratura italiana Einaudi 86   Giordano Bruno - De gli eroici furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87   Giordano Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi 88   Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten- dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89   Giordano Bruno - De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la intelli- genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor de la specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90   Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi 91   Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana Einaudi 92   Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in- fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu- rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno Letteratura italiana Einaudi 94   Giordano Bruno - De gli eroici furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima (come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95   Giordano Bruno - De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi, avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi 96   Giordano Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè Letteratura italiana Einaudi 97   Giordano Bruno - De gli eroici furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero; “sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. Letteratura italiana Einaudi 98   Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura italiana Einaudi 99   Giordano Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è occupata al governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furio- so d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi 100   Giordano Bruno - De gli eroici furori quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor di- vino et eroico quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di color che leggono il corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il  X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102   Giordano Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante. Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi 103   Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo- re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo, summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104   Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te, con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto- posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105   Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi 106   Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me, voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi 107   Giordano Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af- fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108   tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi 109   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi 111   Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello “instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113   Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe- ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114   Giordano Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115   Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene.  interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude. cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun- Letteratura italiana Einaudi 119   Giordano Bruno - De gl’eroici furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni, per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta- de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap- paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel- lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez- za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti- Letteratura italiana Einaudi 122   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana Einaudi 123   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Letteratura italiana Einaudi 124   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara- zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta- re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana Einaudi 127   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi 128   Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129   Giordano Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver- bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, Letteratura italiana Einaudi 130   Giordano Bruno - De gl’eroici furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di- ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana Einaudi 131   Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro- prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene- rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri- soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne (come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte, non Letteratura italiana Einaudi 134   Giordano Bruno - De gl’eroici furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura italiana Einaudi 135   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà (diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il “volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti- tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove: «Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso, l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136   Giordano Bruno - De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che “non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137   Giordano Bruno - De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138   Giordano Bruno - De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale, dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140   Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141   Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac- campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli- genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu “quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo- strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto Letteratura italiana Einaudi 143   X. escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa presentar megliore o più como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta Letteratura italiana Einaudi 145   Giordano Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da conside- Letteratura italiana Einaudi 146   Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura italiana Einaudi 147   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con- solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran- dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi 148   Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi 152   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere. Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana Einaudi 153   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana Einaudi 155   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di Letteratura italiana Einaudi 156   Giordano Bruno - De gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi 158   Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della Letteratura italiana Einaudi 159   Giordano Bruno - De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro- cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa- pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura italiana Einaudi 160   Giordano Bruno - De gl’eroici furori inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161   Giordano Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene- stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura italiana Einaudi 162   Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi 163   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce- re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana Einaudi 164   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165   Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura italiana Einaudi 166   Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone, che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi 167   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168   Giordano Bruno - De gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169   Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana Einaudi 170   Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171   Giordano Bruno - De gl’eroici furori proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza Letteratura italiana Einaudi 172   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi 173   Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi 175   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie- co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana Einaudi 176   Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178   Giordano Bruno - De gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179   Giordano Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi 180   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi 181   Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan- to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183   Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re- gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura italiana Einaudi 184   Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mo- Letteratura italiana Einaudi 185   Giordano Bruno - De gl’eroici furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito. Letteratura italiana Einaudi 186   Giordano Bruno - De gl’eroici furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di- vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti, Letteratura italiana Einaudi 187   Giordano Bruno - De gl’eroici furori se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose divine sia per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro, onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura italiana Einaudi 188   Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189   Giordano Bruno - De gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana Einaudi 190   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi 191   Giordano Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere; onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 192   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la- menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap- parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi 194   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195   Giordano Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde Letteratura italiana Einaudi 196   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana Einaudi 197   Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari Letteratura italiana Einaudi 200   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.  Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,  dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

 

Grice e Colli: l’implicatura conversazionale dell’espressione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma.  Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in acqua.  Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto.  Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri dionisiaci.  Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1].  Riti notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però di descriverceli.  Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco.  Igino, Astronomy; Clemente di Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania, Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di Alessandria , Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino , Astronomia. Pausania, Descrizione della Grecia, Plutarco , Iside e Osiride. Portale LGBT   Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei teatri, della fertilità e dell'ubriachezza  Canopo (mitologia) Pederastia tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi  distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É  sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É  e profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi  mistero del loro essere, provengano da una particola  rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*  lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que  sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J.  Bachhofen in modo eccellente, trascina irresistibilmente  seco. l’eterno femminino di questa sfera e ne rimane  assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della  terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co-  scienza nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi  adoratori e agli estasiati si schiudon i tesori del regno.  terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti, che  lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore  e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-  gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis-  simi tratti essenziali della divinità della Terra son in  lui accresciuti a dismisura," ma pure infinitamente ap-  profonditi, Questa figura divina che tutto trascina con  sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >,  e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue  accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è  che similitudine, come quando paragona ad una Menade  Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento si  precipita fuor dalle sue stanze (Iliade; cfr.  Inno Omer. a Dem.), come pure quando occasional-  mente narra memorabili storie (Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non  trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi  ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio-  do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo  doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è  proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi-  stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino.   Da questa chiarezza sono assai lontane anche le al-  tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di  dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più sublime  gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.  Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della  sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza  è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la  rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano  nella notte della morte, o meglio: la morte ed il passato  risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei  viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il  trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore  nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò  che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre,  ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.  cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo  una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha  nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.  nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece  sì trae in disparte in modo tale, che non può essere ca.  suale. | I   . Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso  maschile, sibbene rappresentano decisamente lo spirito  virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a  Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente  il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m   Dirisioti ^LT^b  !-' 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp.   THE ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO." " PLOTINTJS," " POEPITIllY," " lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,'  * ABISTOTLE," ETC., ETC.     EDITED, WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER.  Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip-  pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav,  (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.   Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by  BulI TDN. The DeVinne Press. TO MY OLD FRIEND   ^cniarti OSuatitcl)   THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT  OR MODERN TIMES   CbiB Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli   BY THE PUBLISHER Bacchic Ceremonies. Bacchus ami Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies.      Eleusinian     Prieatesses.      Bacchante and Faun.     Faun and Bacchus.   Fable is Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of Cleanthes Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely  The human breing's pride that peoples space  With life and mystical predominance,  Since likewise for the stricken heart of Love  This visible nature, and this common world  Is all too narrow ; yea, a deeper import  Lurks in the legend told my infant years  That lies upon that truth, we live to learn,  For fable is Love's world, his home, his birthplace ;  Delightedly he dwells 'mong fays and talismans,  And spirits, and delightedly believes  Divinities, being himself divine.  The intelligible forms of ancient poets.  The fair humanities of Old Religion,  The Power, the Beauty, and the Majesty,  That had their haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or wat'ry depths; — all these have vanished.  They live no longer in the faith of Eeason,  But still the heart doth need a language ; still  Doth the old instinct bring back the old names."   Schiller : The Piccolomini, Act. ii. Scene 4. 9  Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering- to the public Taylor's admirable treatise upon the Elensiidan  and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few words of explanation. These observances once represented the spiritual life of (Ireeee, and were considered  for two thousand years and more the appointed means  for regeneration through an interior union with the  Divine Essence. However absurd, or even offensive  they may seem to us, we should therefore hesitate long before we venture to lay desecrating hands on what  others have esteemed holy. We can learn a valuable  lesson in this regard from the Roman philosophers, who had learned to treat the popular religious rites with mirth, but always considered the Eleusinian  Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance which leads to profanation. Men  ridicule what they do not properly understand. Alci-  biades was drunk when he ventured to touch what his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this  worhl is set toward one goal; and inside of human  credulity — call it human weakness, if you please —  is a power almost infinite, a holy faith capa))le of  apprehending the siipremest truths of all Existence.  The veriest dreams of life, pertaining as they do to  " the minor mystery of death," have in them more than  external fact can reach or explain; and Myth, how-  ever much she is proved to be a child of Earth, is also  received among men as the child of Heaven. The  Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella  of the Palace, and be wedded to the King's Son. The instant that we attempt to analyze, the sensible,  palpable facts upon which so many try to build disappear beneath the surface, like a foundation laid upon  quicksand. " In the deepest reflections," says a dis-  tinguished writer, '' all that we call external is only the  material basis upon which our dreams are built ; and  the sleep that surrounds life swallows up life, — all  but a dim wreck of matter, floating this way and that,  and forever evanishing from sight. Complete the anal-  ysis, and we lose even the shadow of the external  Present, and only the Past and the Future are left  us as our sure inheritance. This is the first initia-  tion, — the vailing [mnesis] of the eyes to the external.  But as epo])fm, by the synthesis of this Past and Future  in a living nature, we obtain a higher, an ideal  Present, comprehending within itself all that can be  real for us within us or without. This is the second initiation in which is uuvailed to us the Present as a  new birth from our own life. Thus the great problem  of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia. These were the most celebrated of all the sacred  orgies, and were called, by way of eminence. The  Mysteries. Although exhibiting apparently the fea-  tures of an Eastern origin, they were evidently copied  from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more  or less correct, may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore. Every  act, rite, and person engaged in them was symbolical;  and the individual revealing them was put to death  without mercy. So also was any uninitiated person who  happened to be present. Persons of all ages and both  sexes were initiated ; and neglect in this respect, as in  the case of Socrates, was regarded as impious and  atheistical. It was required of all candidates that  they should be first admitted at the MiJo'a or Lesser  Mysteries of Agree, by a process of fasting called ^j«f/'/-  ficafion, after which they were styled mysfce, or initi-  ates. A year later, they might enter the higher degree.  In this they learned the aporrheta, or secret meaning of  the rites, and were thenceforth denominated ephori, or  epoptm. To some of the interior mysteries, however,  only a very select number obtained admission. From  these were taken all the ministers of holy rites. The  Hierophant who presided was bound to celibacy, and  requii'ed to devote his entire life to his sacred office.  Atlantic Monthly, He had three assistants, — the torch-bearer, the lierux or  crier, and the minister at the altar. There were also a  hasileus or king, who was an archon of Athens, four  curators, elected by suffrage, and ten to offer sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth  year ; and began on the 15th of the month Boedromiau  or September. The first day was styled the agurmos or  assembly, because the worshipers then convened. The  second was the day of purification, called also alacU  mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated  ones ! " The third day was the day of sacrifices ; for  which purpose were offered a mullet and barley from  a field in Eleusis. The officiating persons were for-  bidden to taste of either ; the offering was for Achtheia  (the sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth  day was a solemn procession. The JcalafJios or sacred  basket was borne, followed by women, ciske or chests  in which were sesamum, carded wool, salt, pomegran-  ates, poppies, — also thyrsi, a serpent, boughs of ivy,  cakes, etc. The fifth day was denominated the day of  torches. In the evening were torchlight processions  and much tumult.   The sixth was a great occasion. The statue of  lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought  from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with  myrtle. In the way was heard only an uproar of sing-  ing and the beating of brazen kettles, as the votaries  danced and ran along. The image was borne " through  the sacred Gate, along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian  associations), where the procession rests, and then  moves on to the bridge over the Cephissns, where again  it rests, and where the expression of the wildest grief  gives place to the trifling farce, — even as Demeter, in  the midst of her grief, smiled at the levity of lambe  in the palace of Celeus. Through the 'mystical en-  trance ' we enter Eleusis. On the seventh day games  are celebrated; and to the victor is given a measure  of barley, — as it were a gift direct from the hand of  the goddess. The eighth is sacred to ^sculapius, the  Divine Physician, who heals all diseases; and in the  evening is performed the initiatory ritual.   " Let us enter the m3\stic temple and be initiated, —  though it must be supposed that, a year ago, we were  initiated into the Lesser Mysteries at Agrae. We must  have been mystm (vailed), before we can become epoptce  (seers) ; in plain English, we must have shut our  eyes to all else before we can behold the mysteries.  Crowned with myrtle, we enter with the other initiates  into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the  Hierophaut within will soon open our eyes. But first, — for here we must do nothing rashly,—  first we must wash in this holy water; for it is with  pure hands and a pure heart that we are bidden to  enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios  seJcos]. Then, led into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the designation nns Peter (an in-  terpreter), appears to have been the title of this personage ; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia, petroma]^  tliiuii's which we must not divulge on pain of death.  Let it suffice that they fit the place and the occasion ;  and though you might laugh at them, if they were  spokiMi outside, still you seem very far from that mood  now, as you hear the words of the old man (for old he  he always was), and look upon the revealed symbols.  And very far, indeed, are you from ridicule, when  Demeter seals, by her own peculiar utterance and sig-  nals, by vivid coruscations of light, and cloud piled  upon cloud, all that we have seen and heard from her  sacred priest; and then, finally, the light of a serene  wonder fills the temple, and we see the pure fields of  Elysium, and hear the chorus of the Blessed; — then,  not merely by external seeming or philosophic inter-  pretation, but in real fact, does the Hierophant become  the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all  things; the Sun is but his torch-bearer, the Moon his  attendant at the altar, and Hermes his mystic herald *  [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been uttered  ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are  vpoptit forever ! "  Those who are curious to know the myth on which   the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.  There is in these facts some reminder of the peculiar circum-  stances of the Mosaic Law which was so preserved ; and also of  the claim of the Pope to be the successor of Peter, the hierophant  or interpreter of the Christian religion.  * Porphyry.     Introduction. 19   the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will  find it in any Classical Dictionary, as well as in these  pages. It is only pertinent here to give some idea of  the meaning. That it was regarded as profound is  evident from the peculiar rites, and the obligations im-  posed on every initiated person. It was a reproach not  to observe them. Socrates was accused of atheism, or  disrespect to the gods, for having never been initiated.*  Any person accidentally guilty of homicide, or of any  crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The  secret doctrines, it is supposed, were the same as are  expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The  philosopher Isocrates thus bears testimony : " She  [Demeter] gave us two gifts that are the most excellent ; fruits, that we may not live like beasts ; and that  initiation — those who have part in which have sweeter  hope, both as regards the close of life and for all  eternity." In like manner, Pindar also declares : " Happy  is he who has beheld them, and descends into the Under-  world: he knows the end, he knows the origin of life."  The Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient Sijmhol-Worsliip. "Socrates was not  initiated, yet after drinking the hemlock, he addressed Crito :  ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar offering  made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the last  day, and he thus symbolically asserted that he was about to re-  ceive the great apocalypse."   See, also, " Progress of Religious Ideas," by Child; and " Discourses on the Worship of Priapus," by  EiCHARD Payne Knight.  or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical  personage, supposed to have flourished in Thrace.*  The Orphic associations dedicated themselves to the  worship of Bacchus, in which they hoped to find the  gratification of an ardent longing after the worthy and  elevating influences of a religious life. The worshipers  did not indulge in unrestrained pleasure and frantic  enthnsiasni, but rather aimed at an ascetic purity of   * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth the rites of  the hidden Mysteries."   Plato : ProUifforas. " The art of a sophist or sage is ancient,  but tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium  attached to it, sought to conceal it, and vailed it over, some under  the garb of poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others  under that of the Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus,  Musseus, and their followers."   Herodotus takes a different view — ii. 49. "Melampus, the son  of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of  Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the pro-  cession of the phallus. He did not, however, so completely ap-  prehend the whole doctrine as to be able to communicate it  entirely : but various sages, since his time, have carried out his  teaching to greater perfection. Still it is certain that Melampus  introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him the  ceremonies which they now practice. I therefore maintain that  Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divina-  tion, having become acquainted with the worship of Dionysus  tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into Greece,  with a few slight changes, at the same time rhat he brought in  various other practices. For I can by no means allow that it is by  mere coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so  nearly the same as the Egyptian."     y     r^isi      Etruscan Kleusiniau Ci-renionies.  life and manners. The worship of Dionysus \yas the  center of their ideas, and the starting-point of all their  speculations upon the world and human nature. They  believed that human souls were confined in the body as  in a prison, a condition which was denominated genesis  or generation; from which Dionysus would liberate  them. Their sufferings, the stages by which they  passed to a higher form of existence, their lafharsis  or purification, and their enlightenment constituted the  themes of the Orphic writers. All this was represented  in the legend which constituted the groundwork of the  mystical rites.   Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he had  begotten in the form of a dragon or serpent, upon the  person of Kore or Persephoneia, considered by some  to have been identical with Ceres or Demeter, and by  others to have been her daughter. The former idea is  more probably the more correct. Ceres or Demeter  was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta  in a fragment by Psellus, and is also styled a Fury.  The divine child, an avatar or incarnation of Zeus, was  denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being  destined to universal dominion. But at the instigation  of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-   * Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the  definite name of any goddess, but was used by ancient writers as  a designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be  of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other  divinities. cordingly, one day while he was contemplating a mir-  ror,* they set upon him, disguised under a coating of  plaster, and tore him into seven parts. Athena, how-  ever, rescued from them his heart, which was swallowed  by Zeus, and so returned into the paternal substance,  to be generated anew. He was thus destined to be  again born, to succeed to universal rule, establish the  reign of happiness, and release all souls from the  dominion of death.   The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as was  maintained by the philosopher Porphyry, that the  Mysteries constitute an illustration of the Platonic   * The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria,  and was iised in the search for Atmu, the Hidden One, evidently  the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8 ;  1 Samuel ii. 22 ; and Esekiel viii. 14. But despite the assertion of  Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in reality  Egyptian, there exists strong probability that they came originally  from India, and were Sivaic or Buddhistical. Core-Persephoneia  was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the patroness of the  Thugs, called also Goree ; and Zagi'eus is from Chakra, a country  extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar  Story, we can easily recognize the "Horns" as the crescent worn  by lama-priests : and translating god-names as merely sacerdotal  designations, assume the whole legend to be based on a tale of  Lama Succession and transmigration. The Titans would then be  the Daityas of India, who were opposed to the faith of the north-  ern tribes ; and the title Dionysus but signify the god or chief-  priest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus, the  institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a Hindu  ring all through.  FILOSOFIA. At first sight, this may l)e hard to believe ;  but we must know that no pageant could hold place so  long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus  asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are in  reality Egyptian and Pythagorean. The influence of  the doctrines of Pythagoras upon the Platonic system  is generally acknowledged. It is only important in  that case to understand the great philosopher correctly ;  and we have a key to the doctrines and symbolism of  the Mysteries.   The first initiations of the Eleusinia were called  Telefce or terminations, as denoting that the imperfect  and rudimentary period of generated life was ended  and purged off ; and the candidate was denominated a  mijsfa, a vailed or liberated person. The Greater-  Mysteries completed the work ; the candidate was more  fully instructed and disciplined, becoming an epopta  or seer. He was now regarded as having received the  arcane principles of life. This was also the end sought  by philosophy. The soul was believed to be of com-  posite nature, linked on the one side to the eternal  world, emanating from God, and so partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to the  phenomenal or external world, and so liable to be  subjected to passion, lust, and the bondage of evils.  This condition is denominated genemtion ; and is sup-  posed to be a kind of death to the higher form of life.  Evil is inherent in this condition ; and the soul dwells  * Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In this state, and  previous to the discipline of education and the mysti-  cal initiation, the rational or intellectual element, which  Paul denominates the spiritual, is asleep. The earth-  life is a dream rather than a reality. Yet it has  longings for a higher and nobler form of life, and its  affinities are on high. "All men yearn after God,"  says Homer. The object of Plato is to present to us the  fact that there are in the soul certain ideas or princi-  ples, innate and connatural, which are not derived  from without, but are anterior to all experience, and  are developed and brought to view, but not produced  by experience. These ideas are the most vital of all  truths, and the purpose of instruction and discipline  is to make the individual conscious of them and  willing to be led and inspired b}^ them. The soul  is purified or separated from evils by knowledge,  truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life  is a discipline and preparation for another state of  being; and resemblance to God is the highest motive  of action.*   * Many of the early Christian writers were deeply imbued with  the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of speech were  almost identical. One of the four Gospels, bearing the title " ac-  cording to John,'''' was the evident product of a Platonist, and  hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The  epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclec-  tic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as  well as with the Mithraic notions that had penetrated and  permeated the religious ideas of the western countries.  Proclus does not hesitate to identify the theological  doctrines with the mystical dogmas of the Orphic  system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden  allegories, Pythagoras learned when he was initiated  into the Orphic Mysteries.; and Plato next received a  perfect knowledge of them from the Orphean and  Pythagorean writings."   Mr. Taylor's peculiar style has been the subject of  repeated criticism ; and his translations are not accepted  by classical scholars. Yet they have met with favor at  the hands of men capable of profound and recondite  thinking ; and it must be conceded that he was endowed  with a superior qualification, — that of an intuitive per-  ception of the interior meaning of the subjects which  he considered. Others may have known more Greek,  but he knew more Plato. He devoted his time and  means for the elucidation and dissemination of the doctrines of the divine philosopher ; and has rendered into  English not only his writings, but also the works of  other authors, who affected the teachings of the great  master, that have escaped destruction at the hand of  Moslem and Christian bigots. For this labor we can-  not be too grateful.   The present treatise has all the peculiarities of style  which characterize the translations. The principal diffi-  culties of these we have endeavored to obviate — a labor  whicli will, we trust, be not unacceptable to readers.  The book has been for some time out of print ; and no  later writer has endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard, almost amounting to  veneration, for the author; and we hope that this repro-  duction of his admirable explanation of the nature and  object of the Mysteries will prove to them a welcome  undertaking. There is an increasing interest in philo-  sophical, mystical, and other antique literature, which  will, we believe, render our labor of some value to a  class of readers whose sympathy, good-will, and fellow-  ship we would gladly possess and cherish. If we have  added to their enjoyment, we shall be doubly gratified.   A. W.      V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^ teries of the ancients, so there is perhaps nothing-  which has hitlierto been less solidly known. Of the  trnth of this observation, the liberal reader will, I per-  snade myself, be fully convinced, from au attentive  perusal of the following sheets; in which the secret  meaning of the Eleusinian and Bacchic Mysteries is un-  folded, from authority the most respectable, and from  a philosophy of all others the most venerable and  august. The authority, indeed, is principally derived  from manuscript writings, which are, of course, in the  possession of but a few; but its respectability is no  more lessened by its concealment, than the value of a  diamond when secluded from the light. And as to the  philosophy, by whose assistance these Mysteries are de-  veloped, it is coeval with the universe itself ; and, how-  ever its continuity maybe broken by opposing systems,  it will make its appearance at different periods of time, as  long as the sun himself shall continue to illuminate the world. It has, indeed, and may hereafter, be violently as-  saulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition will be  just as imbecile as that of the waves of the sea against a  temple built on a rock, which majestically pours them   back,   Broken and A^anquish'd, foaming to the main.      Pallas, Venus, aud Diaua.  THE ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun.     a. SECTION I. SJ   WARBURTON, in Ms Divine  Legation of Moses, has ingeniously  proved, that the sixth book of Virgil's  ^neid represents some of the dramatic  exhibitions of the Eleusinian Mysteries ;  but, at the same time, has utterly failed  in attempting to unfold their latent mean-  ing, and obscure though important end.  By the assistance, howevei", of the Pla-  tonic philosophy, I have been enabled to  correct his errors, and to vindicate the  wisdomof antiquity from his aspersions The profounder esoteric doctrines of the ancients were  denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the [piosis  or knowledge. They related to the human soul, its divine parent-  Eleiisinian and   by a genuine account of this sublime  institution; of which the foUowing obser-  vations are designed as a comprehensive  view.   In the fii'st place, then, I shall present  the reader with two superior authorities,  who perfectly demonstrate that a part of  the shows (or dramas) consisted in a  representation of the infernal regions; au-  thorities which, though of the last conse-  quence, were unknown to Dr. Warbiu'ton  himself. The first of these is no less a  person than the immortal Pindar, in a  fragment preserved by Clemens Alexan-  drinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa-  acvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar, speaking of the Eleusinian  Mysteries, says : Blessed is he who, having   age, its supposed degradation from its high estate by becoming  connected with " generation " or the physical world, its onward  progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly sup-  posed to be transmigrations, etc. — A. W.  " Stroma la, book iii.  Bacchic Mysteries. seen those common concerns in the underworld, knows both the end of hfe and its  divine origin from Jupiter." The other of  these is from Prochis in his Commentary  on Plato's Politicus, who, speaking concern-  ing the sacerdotal and symbolical mythol-  ogy, observes, that from this mythology  Plato himseK establishes many of his own  peculiar doctrines, " since in the Phcedo he  venerates, mtli a becoming silence, the  assertion delivered in the arcane discourses,  that men are placed in the body as in a  prison, secured by a guard, and testifies^  accordlny to the mystic cerem^onies, the dif-  ferent allotments of purified and unpuri-  fied souls in Hades, their severed conditions,  and the three-forJicd path from the pecidiar  places where they tcere ; and this was shown  accordiny to traditionary institutions ; every  part of which is full of a symbolical repre-  sentation, as in a dream, and of a descrip-  tion which treated of the ascending and  descending ways, of the tragedies of Dio-  nysus (Bacchus or Zagreus), the crimes of  the Titans, , the three ways in Hades, and Eleusinian and   the wandering of everything of a similar  hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv   6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai  ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp-  -:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^  %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo   rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?   xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai  %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a  5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara,   7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV   rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov  3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov onxapiYjixa-   -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'-> TpCOOCOV,  7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV d'7L7.VXa)V." *   Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-  ceed to prove that the th'amatic spectacles .of  the Lesser Mysteries f were designed by the  ancient theologists, their founders, to signify  occultly the condition of the unpurified soul   * Commentary on the Statesman of Plato, page 374.   t The Lesser Mysteries were celebrated at Agrse ; and the persons there initiated were denominated Mi/sta: Only such could  be received at the sacred rites at Eleusis.  Bacchic Mysteries. invested with an earthly body, and envel-  oped in a material and physical nature ; or,  in other words, to signify that such a soul in  the present life might be said to die, as far  as it is possible for a soul to die, and that  on the dissolution of the present body, while  in this state of impuiity, it would experience  a death still more permanent and profound.  That the soul, indeed, till purified by phi-  losophy,* suffers death through its union with  the body was obvious to the philologist  Macrobius, who, not penetrating the secret  meaning of the ancients, concluded from  hence that they signified nothing more than  the present body, by their descriptions of  the infernal abodes. But this is manifestly  absurd ; since it is universally agreed, that  all the ancient theological poets and philos-  ophers inculcated the doctrine of a future  state of rewards and punishments in the  most full and decisive terms ; at the same  time occultly intimating that the death of  the soul was nothing more than a profound  union with the ruinous bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the life. Eleusinian and   Indeed, if these wise men believed in a  future state of retribution, and at the same  time considered a connection with the body-  as death of the soul, it necessarily follows,  that the soul's punishment and existence  hereafter are nothing more than a continu-  ation of its state at present, and a transmi-  gration, as it were, from sleep to sleep, and  from dream to dream. But let us attend  to the assertions of these divine men concerning the soul's union with a material  nature. And to begin with the obscure and  profound Heracleitus, speaking of souls  imembodied: "We live their death, and we  die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,  TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Em-  pedocles, deprecating the condition termed  " generation," beautifully says of her :   The aspect changing with destruction dread,  She makes the Uv'okj pass into the dead.   Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv.   And again, lamenting his connection with  this corporeal world, he pathetically exclaims:     Bacchic Mysteries. 37   For this I weep, for this indulge my woe,   That e'er my soul such novel realms should know.   KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. *   Plato, too, it is well known, considered the  body as the sepulchre of the soul, and in  the Crcifijlus concurs with the doctrine of  Orpheus, that the soul is x>^niished through  its union with body. This was likewise the  opinion of the celebrated Pythagorean, Phi-  lolaus, as is evident from the following re-  markable passage in the Doric dialect, pre-  served by Clemens Alexandrinus in Strom at.  book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx.  tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac, xqj-copiac,   £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^'' i. e. " The ancient  theologists and priests * also testify that the  soul is united with the body as if for the  sake of punishment ; f and so is buried in  body as in a sepulchre." And, lastly, Py-   * Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets, those filled  by the prophetic mania or eutheasm.   t More correctly — '* The soul is yoked to the body as if by way  of punishment," as culprits were fastened to others or even to  corpses. See PauVs Epistle to the liomans, vii, 25.     38 Eleusinian and   thagoras himself confii'ms the above senti-  ments, when he beautifully observes, accord-  ing to Clemens in the same book, " that  wild fever tee see when airali'e is death ; and  when asleep,- a dreamt brj^rxio;^ sa-rcv, oxoaa   But that the mysteries occultly signi-  fied this sublime truth, that the soul by  being merged in matter resides among the  dead both here and hereafter, though it fol-  lows by a necessary sequence from the preced-  ing observations, yet it is indisputably con-  firmed, by the testimony of the great and  truly divine Plotinus, in Ennead I., book viii.  ''When the soul," says he, '*has descended into  generation (from its first divine condition)  she partakes of evil, and is carried a great  way into a state the opposite of her  first purity and integrity, to he entirely  merged in ivhich, is nothing more than to  fall into dark mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies as much as it is pos-  sible for the soul to die : and the death to her  is^ while Mptized or immersed in the present     Bacchic Mysteries. 39   hocly^ to descend into matter * and he wholly  subjected hy it ; and after departing thence  to lie there till it shall arise and turn  its face away from the abhorrent filth.  This is what is meant hy the falling asleep  in Ifades, of those who have come there.'''' j   * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the principles the  negative of life, order, and goodness.   tThis passage doubtless alludes to the ancient and beautiful  story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall asleep  in Hades ; and this through rashly attempting to behold corporeal  beauty : and the observation of Plotinus will enable the profoimd  and contemplative reader to unfold the greater part of the mys-  teries contained in this elegant fable. But, prior to Plotinus,  Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such as  are unable in the present life to apprehend the idea of the good,  will descend to Hades after death, and fall asleep in its dark  abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov  Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa  Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo?  eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo  cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^  ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^  c'^aTiXja&ai ; xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v  jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;  ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e. "He who is not able, by the exercise  of his reason, to define the idea of the good, separating it from all  other objects, and piercing, as in a battle, through every kind  of argument ; endeavoring to confute, not according to opinion,  but according to essence, and proceeding through all these dia-  lectical energies with an unshaken reason; — he who can not     40 Bacchic Mysteries.   TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap   '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,  evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov  SGzrji 'jisacov. — A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^  iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o  GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac,  7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst  %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v  G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv  4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the   aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the  good itself, nor anything which is pi'operly denominated good?  And would you not assert that such a one, when he apprehends  any certain image of reality, apprehends it rather through the  medium of opinion than of science ; that in the present life he  is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams ;  and that before he is roused to a vigilant state he will descend  to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound."  Henry Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not  the ease the same with i"eference to the good ? Whoever can not  logically define it, abstracting the idea of the good from all  others, and taking, as in a fight, one opposing argument after  another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest  his ease, not on the ground of opinion, but of true being, — such a  one knows nothing of the r/ood itself, nor of any good whatever ;  and should he have attained to any knowledge of the (jood, we  must say that he has attained it by opinion, not by science  {sKizzfiiirj) ; that he is sleeping and dreaming away his present  life ; and before he is roused will descend to Hades, and there  be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14.     Bacchic Mysteries. 43   reader may observe that the obsciu'e doc-  trine of the Mysteries mentioned by Plato  in the Phcedo^ that the nnpurified soul in a  future state lies immerged in mire, is beauti-  fully explained; at the same time that our  assertion concerning their secret meaning  is not less substantially confirmed.* In a  similar manner the same divine philosopher,  in his book on the Beautiful, Ennead^ I., book  vi., explains the fable of Narcissus as an em-  blem of one who rushes to the contempla-  tion of sensible (phenomenal) forms as if  they were perfect realities, when at the  same time they are nothing more than Uke  beautiful images appearing in water, falla-  cious and vain. " Hence," says he, " as Nar-  cissus, by catching at the shadow, plunged  himself in the stream and disappeared, so  he who is captivated by beautiful bodies,  and does not depart fi'om their embrace,  is precipitated, not with his body, but with   * Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us ap-  pear to have intimated that whoever shall arrive in Hades un-  ptirified and not initiated shall lie in mud ; but he who arrives there  purified and initiated' shall dwell with the gods. For there are  many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are inspired."     44 Eleusiniari and   his soul, into a darkness profound and repug-  nant to intellect (the higher soul),* through  which, remaining bhnd both here and in  Hades, he associates with shadows." Tov   T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri   -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco  [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv-   taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still  farther confirms our exposition is that mat-  ter was considered by the Egyptians as a  certain mire or mud. " The Egyptians,"  says Simplicius, " called matter, which they  symbolically denominated water, the dregs  or sediment of the first life ; matter being,  as it were, a certain mire or mud.f Aco xat  AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i-  |5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXs-  yov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all   * Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind.  It is substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in  the New Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used  in Mr. Taylor's translation of the Platonic writers, may be  pretty safely read as spiritual, by those familiar with the Chris-  tian cultus. * A. W.   t Physics of Aristotle.     Bacchic Mysteries. 45   tliat has been said we may safely conclude  with Ficinus, whose words are as express to  our purpose as possible. " Lastly," says he,  "that I may comprehend the opinion of the  ancient theologists, on the state of the soul  after death, in a few words : tlieij considered^  as we have elsewhere asserted, things divine  as the only realities^ and that all others  were only the images and shadows of  truth. Hence they asserted that prudent  men, who earnestly employed themselves in  divine concerns, were above all others in a  vigilant state. But that imprudent [/. e.  without foresight] men, who pursued objects  of a different nature, being laid asleep, as it  were, were only engaged in the delusions  of dreams ; and that if they happened to  die in this sleep, before they were roused,  they would be afflicted with similar and  still more dazzling visions in a future state.  And that as he who in this life pursued  realities, would, after death, enjoy the high-  est truth, so he who pursued deceptions  would hereafter be tormented with fallacies  and delusions in the extreme : as the one     46 Eleusinian and   would be delighted with true objects of  enjoyment, so the other would be tor-  mented with delusive semblances of reali-  ty." — Denique ut priscormn theologorum  sententiam de statu animae post mortem  paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias  diximus) arbitrantur res veras existere, re-  hqua esse rerum verarum imagines atque  umbras. Ideo prudentes homines, qui divi-  nis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impm-  dentes autem, qui sectantur alia, insomniis  omnino quasi dormientes illudi, ac si in  hoc somno priusquam expergefacti fuerint  moriantur similibus post (hscessum et acri-  oribus visionibus angi. Et sicut emn qui  in vita veris incubuit, post mortem summa  veritate potiri, sic eum qui falsa sectatus  est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus  veris oblectetur, hie falsis vexetur simu-  lachris." *   But notwithstanding this important truth  was obscurely hinted by the Lesser Myster-  ies, we must not suppose that it was gen-   *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.     Bacchic Mysteries. 47   erally known even to the initiated persons  themselves : for as individuals of almost  all descriptions were admitted to these rites,  it would have been a ridiculous prostitution  to disclose to the multitude a theory so ab-  stracted and sublime.* It was sufficient to  instruct these in the doctrine of a future  state of rewards and punishments, and in  themeans of returning to the principles  from which they originally fell : for this   * We observe in the Netv Testament a like disposition on the part  of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and ex-  oteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,  and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom," says  Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1 Cor-  intliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know the  Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not given;  therefore I speak to them in parables : because they seeing, see  not, and hearing, they hear not, neither do they understand."  — Matthew xiii., 11-13. He also justified the withholding of the  higher and interior knowledge from the untaught and ill-disposed,  in the memorable Sermon on the Mount. — Matthew vii. : Give ye not that which is sacred to the dogs,  Neither cast ye your pearls to the swine ;  For the swine will tread them under their feet  And the dogs will turn and rend you."   This same division of the Christians into neophytes and perfect,  appears to have been kept up for centuries ; and Godfrey Higgins  asserts that it is maintained in the Roman Cliurch. — A. W. Eleusinian and   last piece of information was, according to  Plato in the PJuedo, the ultimate design of  the Mysteries ; and the former is necessarily  infeiTed from the present discourse. Hence  the reason why it was obvious to none hut  the Pythagorean and Platonic philosophers,  who derived their theology from Orpheus  himseK,* the original founder of these sacred  institutions; and why we meet with no in-  formation in this particular in any writer  prior to Plotinus ; as he was the first who,  having penetrated the profound interior wis-  dom of antiquity, delivered it to posterity  without the concealments of mystic symbols  and fabulous narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I think, we may infer, with  the greatest probabihty, that this recondite  meaning of the Mysteries was not known   * Herodotus, ii. 51, 81.   "What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras  learned when he was initiated into the Orphic Mysteries ; and  Plato next received a knowledge of them from the Orphic and  Pythagorean writings."     Bacchic Mysteries. 49   even to VIRGILIO himself, who has so elegantly  described their external form; for notwithstanding the traces of Platonism which are  to be found in the ENEIDE, nothing of any  great depth occurs throughout the whole,  except what a superficial reading of Plato  and the dramas of the Mysteries might easily  afford. But this is not perceived by modern  readers, who, entirely luiskilled themselves in  Platonism, and fascinated by the charms of  his poetry, imagine him to be deeply knowing  in a subject with which he was most hkely  but slightly acquainted. This opinion is still  farther strengthened by considering that the  doctrine delivered in his Eclogues is perfectly  that of THE GARDEN (L’ORTO), which was the fashionable philosophy of the age of OTTAVIANO; and that there  is no trace of Platonism in any other part of  his works but the present book, which, containing a representation of the Mysteries,  was necessarily obliged to display some of  the principal tenets of this FILOSOFIA, so  far as they illustrated and made a part of  these mystic exhibitions. However, on the  supposition that this book presents us with   , Eleusinian and   a faithful view of some part of these sacred  rites, and this accompanied with the utmost  elegance, harmony, and purity of versifica-  tion, it ought to be considered as an invalu-  able rehc of antiquity, and a precious mon-  ument of venerable mysticism, recondite  wisdom, and theological information. This  will be sufficiently e\ddent from what has  been already delivered, by considering some  of the beautiful descriptions of this book in  their natural order; at the same time that  the descriptions themselves will corroborate  the present elucidations.   In the first place, then, when he says,   faeilis descensus Averno.     Noetes atque dies patet atra janua ditis :   Sed revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras,   Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus amavit   Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,   Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,   Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1   * Ancient Symhol-Worship, page 11, noie.   t Davidson^s Translation. — " Easy is the path that leads down to  hell ; grim Pluto's gate stands open night and day : but to retrace  one's steps, and escape to the upper regions, this is a work, this is  a task. Some few, whom favoring Jove loved, or illustrious virtue     Bacchic Mysteries. 51   is it not obvious, from tlie preceding expla-  nation, that by Avernus, in this place, and  the dark gates of Pluto, we mnst understand  a corporeal or external nature, the descent  into which is, indeed, at all times obvious  and easy, but to recall our steps, and ascend'  into the upper regions, or, in other words,  to separate the soul from the body by the  purifying discipline, is indeed a mighty work,  and a laborious task ? For a few only, the fa-  vorites of heaven, that is, born with the true  philosophic genius,^ and whom ardent virtue  has elevated to a disposition and capacity for  divine contemplation, have been enabled to  accomplish the arduous design. But when  he says that all the middle regions are  covered with woods, this hkewise plainly in-  timates a material nature ; the word silva^ as  is well known, being used by ancient writers  to signify matter, and implies nothing more  than that the passage leading to the barafh-   advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected it.  Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding with  his black, winding flood, surrounds it."   * /. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting  truth, and reducing it to practice. Meusinian and   rum [abyss] of body, /. e. into profound  darkness and oblivion, is throngh the me-  dium of a material nature ; and this medium  is surrounded by the black bosom of Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamenta-  tions, the necessary consequence of the soul's  union with a nature entirely foreign to her  own. So that the poet in this particular per-  fectly corresponds with EMPEDOCLE DI GIRGENTI in the  line we have cited above, where he exclaims,  alluding to this union.   For this I weej), for this indulge my icoe,   That e'er my soul such novel realms should know.   In the next place, he thus describes the  cave, through which ^neas descended to  the infernal regions :   Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu,  Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris :  Quam super hand ulla? poterant impune volantes  Tendere iter pennis : talis sese halitus atris  Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat :  Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1   * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld.  \ Davidson’s Trnnslation. — "There was a cave profound and  hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,     Bacchic Mysteries. 53   Does it not afford a beautiful representation  of a corporeal nature, of which a cave, de-  fended with a black lake, and dark woods,  is an obvious emblem *? For it occultly re-  minds us of the ever-flowing and obscin*e  condition of such a nature, which may be  said   To roll incessant with impetuous speed,  Like some dai'k river, into Matter's sea.   Nor is it with less propriety denominated  Aornus, i. e. destitute of birds, or a winged  nature ; for on account of its native sluggish-  ness and inactivity, and its merged condi-   and the gloom of woods ; over which none of the flying kind were  able to wing their way unliurt ; such exhalations issuing from its  grim jaws ascended to the vaulted skies ; for w^iich reason the  Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).   Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but  especially those which had any preternatural quality and abounded  with exhalations. It was an universal notion that a divine energy  proceeded from these effluvia ; and that the persons who resided  in their vicinity were gifted with a prophetic quality. . . . The  Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or fountains of the  oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of God.' These terms  the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a nymph." — Ancient  Mythology, vol. i. p. 276.   The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca infe-  riore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors. — A. W.  Eleiisinian and   tion, being situated in the outmost extremity  of tilings, it is perfectly debile and languid,  incapable of ascending into the regions of  reality, and exchanging its obscure and de-  graded station for one every way splendid  and divine. The propriety too of sacrificing,  previous to his entrance, to Night and Earth,  is obvious, as both these are emblems of a  corporeal nature.   In the verses which immediately follow, —   Ecee autem, priini sub limina solis et ortus,  Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere  Silvarum, visaque canes ululare per umbram,  Adventante dea *   we may perceive an evident allusion to the  earthquakes, etc., attending the descent of  the soul into body, mentioned by Plato in  the tenth book of his Republic ;\ since the   * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth  under the feet begins to rumble, the wooded hills to quake, and  dogs were seen howling through the shade, as the goddess came  hither "   i Republic, x, 16. "After they were laid asleep, and midnight  was approaching, there was thunder and earthquake ; and they  were thence on a sudden carried upward, some one way, and  some another, approaching to the region of generation like stars."     Bacchic Mysteries. 55   lapse of the soul, as we shall see more fully  hereafter, was one of the important truths  which these Mysteries were intended to re-  veal. And the howling dogs are symbols  of material * demons, who are thus denomi-  nated by the Magian Oracles of Zoroaster,  on account of then" ferocious and malevolent  dispositions, ever baneful to the felicity of  the human soul. And hence Matter herseK  is represented by Synesius in his first Hymn,  with great propriety and beauty, as barking  at the soul with devoimng rage : for thus he  sings, addressing himself to the Deity :   Maxap 6c x:c popov oImc,  npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,  AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po)  lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi.   Which may be thus paraphrased :   Blessed! thrice blessed! who, with winged speed,  From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies,   * Material demons are a lower grade of spiritual essences that  are capable of assuming forms which make them perceptible by  the physical senses. — A. W.   t Hijle or Matter. All evil incident to human life, as is here  shown, was supposed to originate from the connection of the soul  to material substance, the latter being regarded as the receptacle     56 EleMsinian and   And, leaving Earth's obscnrity behind,  By a light leap, directs his steps to thee.   And that material demons actually ap-  peared to the initiated previous to the lucid  visions of the gods themselves, is evident  from the following passage of Proclus in  his manuscript Commentary on tlie first  Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov tsaskov  Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%-  poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov  ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e.  " In the most interior sanctities of the Mys-  teries, before the presence of the god, the  rushing forms of earthly demons appear, and  call the attention from the immaculate good  to matter." And Pletho (on the Oracles),  expressly asserts, that these spectres ap-  peared in the shape of dogs.   After this, ^neas is described as proceed-  ing to the infernal regions, through profound  night and darkness :   Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,  Perque domos Ditis vaciias, et inania regna.   of everything evil. But why the soul is thus immerged and pun-  ished is nowhere explained. — A. W.     Bacchic Mysteries. 57   Quale per ineertam lunam sub luce maligna  Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra  Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*   And this with the greatest propriety; for  the Mysteries, as is well known, were cele-  brated by night ; and in the Republic of  Plato, as cited above, souls are described as  falling into the estate of generation at mid-  night ; this period being peculiarly accom-  modated to the darkness and oblivion of a  corporeal nature ; and to tliis circumstance  the nocturnal celebration of the Mysteries  doubtless alluded.   In the next place, the following vivid  description presents itself to our view :   Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei  Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte :  Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,  Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas;   *" They went along, amid the gloom under the solitary night,  through the shade, and through the desolate halls, and empty  realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods  beneath the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter  has enveloped the sky in shade, and the black Night has taken  from all objects their color." Eleiisinian and   Terribiles visu forraje ; Lethumque Laborque ;  Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine bellum  Ferreique Eumenidum thalami et Discordia demons,  Vipereum crinem vittis inuexa cruentis.  In medio ramos annosaque braehia pandit  Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia vulgo  Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent.  Multaque prseterea variarum monstra f erarum :  Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque biforines,  Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,  Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera,  Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^   And surely it is impossible to draw a more  lively picture of the maladies with wliich a   * "Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief  and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases in-  habit there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess  of persuasion, and unsightly Poverty — forms terrible to contem-  plate ! and there, too, are Death and Toil ; then Sleep, akin to  Death, and evil Delights of mind ; and upon the opposite threshold  are seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of  the Furies, and raving Discord, with her viper-hair bound with  gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge expands its  boughs and aged limbs ; making an abode which vain Dreams are  said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides all  these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts. The  Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the hun-  dred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and  Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and  the shades of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is connected ; of the sonl's  dormant condition tlirougli its union with  body ; and of the various mental diseases to  which, through such a conjunction, it be-  comes unavoidably subject ; for this descrip-  tion contains a threefold division ; represent-  ing, in the first place, the external evil with  which this material region is replete ; in the  second place, intimating that the life of the  soul when merged in the body is nothing but  a dream; and, in the third place, under the dis-  guise of multiform and terrific monsters, ex-  hibiting the various vices of our iiTational and  sensuous part. Hence Empedocles, in perfect  conformity w^th the first part of this descrip-  tion, calls this material abode, or the realms  of generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a '^joyless  region^   "Where slaiighter, rage, ami countless ills reside;  EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa llYjpWV   and into which those who fall,   * This and the other citations from Empedocles are to be found  in the book of Hieroeles on The Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries.   "Through Ate's meads and dreadful darkness stray."     And hence lie justly says to sncli a soul,  that   " She flies from deity and heav'nly light,  To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla  demens of Virgil is an exact translation of  the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles.     In the hues, too, which immediately suc-  ceed, the sorrows and mournful miseries  attending the soul's union with a material  nature, are beautifully described.   Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas;  Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges  ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam.*   And when Charon calls out to ^neas to   * "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell  [Acheron] ; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and  vast whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."      IJiaua auct Calisto.     Bacchic Mysteries. 63   desist from entering any farther, and tells  him,   " Here to reside delusive shades delight;   ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night. Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse   nothing can more aptly express the condi-  tion of the dark regions of body, into which  the soul, when descending, meets with no-  thing but shadows and drowsy night : and  by persisting in her course, is at length lulled  into profound sleep, and becomes a true inhabitant of the phantom-abodes of the dead.   ^neas having now passed over the Sty-  gian lake, meets with the three-headed monster Cerberus,* the guardian of these infernal  abodes :   Tandem trans fluvium incolumis vatemque virumque  Informi limo glaueaque exponit in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description  of the underworld shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from Egypt, but from the Brahmans  of the far East. Yama, the lord of the Underworld, is attended  by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the three-headed. Meusinian and   Cerberus haec ingens latratu regna trifauci  Personat, adverse recubaus immanis in antro. By Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a dog,  on account of its sagacity, is an emblem ; and  the three heads signify the triple distinction  of this part, into the intellective [or intui-  tional], cogitative [or rational], and opinion-  ative powers. With respect f to the three  kinds of persons described as situated on the  borders of the infernal realms, the poet  doubtless intended by this enumeration to  represent to us the three most remarkable  At length across the river safe, the prophetess and the man,  he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of death] resound with barking from his  threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in the  opposite cave."   tin the second edition these terms are changed to dianoietic  and doxastic, words which we cannot adopt, as they are not  accepted English terms. The nous, intellect or spirit, pertains  to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia or  understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or opinion-  forming power, to the faculty of investigation. — Plotinus, accept-  ing this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees —  opinion, science, and illumination. The means or instrument of  the first is reception ; of the second, dialectic ; of the third, in-  tuition."— A. W.   Bacchic Mysteries. characters, wlio, though not apparently de-  serving of punishment, are yet each of them  similarly im merged in matter, and conse-  quently require a similar degree of purifica-  tion. The persons described are, as is well  known, first, the souls of infants snatched  away by untimely ends ; secondly, such as  are condemned to death unjustly ; and, third-  ly, those who, weary of their lives, become  guilty of suicide. And with respect to the  first of these, or infants, their connection  with a material nature is obvious. The sec-  ond sort, too, who are condemned to death  unjustly, must be supposed to represent the  souls of men who, though innocent of one  crime for which they were wrongfully pun-  ished, have, notwithstanding, been guilty of  many crimes, for which they are receiving  proper chastisement in Hades, i. e, through  a profoiuid union with a material nature.*  And the third sort, or suicides, though ap-   * Hades, the Underworld, supposed by classical students to be  the region or estate of departed souls, it will have been noticed, is  regarded by Taylor and other Platonists, as the human body,  which they consider to be the grave and place of punishment of  the soul. — A. W. Eleusinian and   parently separated from the body, have only  exchanged one place for another of similar  nature ; since conduct of this kind, according  to the arcana of divine philosophy, instead  of separating the soul from its body, only  restores it to a condition perfectly correspon-  dent to its former inchnations and habits,  lamentations and woes. But if we examine  this affair more profoundly, we shall find  that these three characters are justly placed  in the same situation, because the reason of  punishment is in each equally obscure. For  is it not a just matter of doubt why the  souls of infants should be punished? And  is it not equally dubious and wonderful why  those who have been unjustly condemned to  death in one period of existence should be  punished in another? And as to suicides,  Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition  of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) *  is a profound doctrine, and not easy to be  Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the  candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these were  made by the Hierophant, and enforced by him from the Book  of InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of stone.  This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a rock,     Bacchic Mysteries.  understood.* Indeed, the true cause why  the two first of these characters are in Hades,  can only be ascertained from the fact of a prior  state of existence, in surveying which, the  latent justice of punishment will be mani-  festly revealed ; the apparent inconsistencies  in the administration of Providence fully  reconciled; and the doubts concerning the  wisdom of its proceedings entirely dissolved.  And as to the last of these, or suicides, since  the reason of their punishment, and why an  action of this kind is in general highly  atrocious, is extremely mystical and obscure,  the following solution of this difficulty will,  no doubt, be gratefully received by the Platonic reader, as the whole of it is no where  else to be found but in manuscript. Olym-   or possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians,  xii. 6-8.— A. W.   * PJuedo, The instruction in the doctrine given in the  Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and  that we ought not to free ourselves from it or seek to- escape,  appears to me difficult to be understood, and not easy to ap-  prehend. The gods take care of us, and we are theirs."   Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior  faculty that Porphyry contemplated suicide, and admonished  him accordingly. — A. W. Eleusinian and   piodorus, then, a most learned and excellent  commentator on Plato, in his commentary  on that part of the PJuedo where Plato  speaks of the prohibition of suicide in the  aporrhefa, observes as follows: "The argu-  ment which Plato employs in this place  against suicide is derived fi^om the Orphic  mythology, in which foui" kingdoms are  celebrated; the first of Uranus [Ouranos]  (Heaven), whom Ki'onos or Satm^n as-  saulted, cutting off the genitals of his  father. But after Saturn, Zeus or Jupiter  succeeded to the government of the world,  having hurled his father into Tartarus. And  after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to  light, who, according to report, was, through  the insidious treachery of Hera or Juno, torn  in pieces by the Titans, by whom he was sur-  rounded, and who afterwards tasted his flesh :  but Jupiter,enraged at the deed, hurled his  thunder at the guilty offenders and consumed  them to ashes. Hence a certain matter be-  In the Hindu mythology, from which this symbolism is  evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or phallus, parted with his diviue authority.     Bacchic Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor  of the smoke ascending from their burning  bodies, out of this mankind were produced.  It is unlawful, therefore, to destroy ourselves,  not as the words of Plato seem to unport,  because we are in the body, as in prison,  secured by a guard (for this is evident,  and Plato would not have called such an  assertion arcane), but because our body is  Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus :  for we are a part of him, since we are  composed from the ashes, or sooty  vapor of the Titans who tasted his  flesh. Socrates, therefore, as if fearful of  disclosing the arcane part of this narra-  tion, relates nothing more of the fable  than that we are placed as in a prison  secured by a guard : but the interpreters re-  late the fable openly." Koci z^zi zo {j.'ji>c7,ov  s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst xsaaaps^  paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j  Oopctvoy, Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct  atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov Kpovov, 6   * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually so  translated.     70 Elensinian and   Ze'jc £p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.-  zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v  (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi a'jto'j  TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj   £7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V  '(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^  YEVEGil-a^ lO'JC 7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj.  Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl 0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^   Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3 a(0|X7.rr   TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO 7.7:0p-  P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^  ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U  OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC   al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~   V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV ]^(07,p7-  XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J   0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi rppo'jpa  £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£-  7a:v £|(oi)-£v. After this he beautifully ob-  serves, " That these four governments signify  the different gradations of virtues, accord-  ing to which oui^ soul contains the symbols  of all the qualities, both contemplative and  purifying, social and ethical; for it either     Bacchic Mysteries. 71   operates acoording to the theoretic or con-  templative virtues, the model of which is the  government of Uranus or Heaven^ that we  may begin from on high ; and on this ac-  count Uranus (Heaven) is so called irctpa  TOO la avco 6pc/.v, from beholding the things  above : Or it lives purely, the exemplar of  which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ;  and on this account Kronos is named as  Koro-nous, one who perceives through him-  self. Hence he is said to devour his own  offspring, signifying the conversion of him-  self into his own substance : or it operates  according to the social virtues, the sym-  bol of which is the government of Jupiter.  Hence, Jupiter is styled the Demiurgus,  as operating about secondary things : — or  it operates according to both the ethical  and physical virtues, the symbol of which  is the kingdom of Bacchus ; and on this  account is fabled to be torn in pieces by  the Titans, because the virtues are not cut  off by each other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-c-  tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov aps-  xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja  Bacchic Mysteries.   iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat   yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.-  ^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv  ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j  T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapa-  Sstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc st-  p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov  6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/)-  {laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatps-  cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)   XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;,   (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l-   %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou   A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti  O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.  And thus far Olympiodorus ; in which pas-  sages it is necessary to observe, that as the  Titans are the artificers of things, and stand  next in order to their creations, men are  said to be composed from their fragments,  because the human soul has a partial life  capable of proceeding to the most extreme  division united with its proper natiu'e. And  while the soul is in a state of servitude to       Kleusinian Mysteries.  Bacchic Mysteries. the body, she hves confined, as it were, in  bonds, througli the dominion of this Titan-  ical life. We may observe farther concerning  these dramatic shows of the Lesser Mys-  teries, that as they were intended to rep-  resent the condition of the soul while  subservient to the body, we shall find that  a liberation from this servitude, through the  purifying disciplines, potencies that separate  from evil, was what the wisdom of the an-  cients intended to signify by the descent of  Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and their  speedy return from its dark abodes. ' ' Hence,"  says Proclus, " Hercules being purified by  sacred initiations^ obtained at length a per-  fect estabhshment among the gods:"* that  is, well knowing the dreadful condition of  his soul while in captivity to a corporeal  nature, and purifying himself by practice of  the cleansing virtues, of which certain puri-  fications in the mystic ceremonies were symbolical, he at length was freed from the  bondage of matter, and ascended beyond her   Commentary on the Statesman of Plato. Meusinian and   reach. On this account, it is said of him,  that  He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;  intimating that by temperance, continence,  and the other virtues, he drew upwards the  intuitional, rational, and opinionative part of  the soul. And as to Theseus, who is repre-  sented as . suffering eternal punishment in  Hades, we must consider him too as an  allegorical character, of which Proclus, in the  above-cited admirable work, gives the fol-  lowing beautiful explanation : " Theseus and  Pirithous," says he, " are fabled to have ab-  ducted Helen, and descended to the infernal  regions, i. e. they were lovers both of mental  and visible beauty. Afterward one of these  (Theseus), on account of his magnanimity,  was Hberated by Hercules from Hades ; but  the other (Pirithous) remained there, be-  cause he could not attain the difficult height  of divine contemplation." This account, in-  deed, of Theseus can by no means be recon-  ciled with VIRGILIO’s: sedet, seternumque sedebit,   Infelix Theseus. There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus. Bacchic Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be reconciled  with himself, who, a httle before this, rep-  resents him as hberated from Hades. The  conjecture, therefore, of Hyginus is most  probable, that VIRGILIO in this particular committed an oversight, which, had he lived, he  would doubtless have detected, and amended.  This is at least much more probable than the  opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was  a living character, who once entered into the  Eleusinian Mysteries by force, for which he  was imprisoned upon earth, and afterward  punished in the infernal realms. For if this  was the case, why is not Hercules also  represented as in punishment? and this  with much greater reason, since he actually  dragged Cerberus from Hades ; whereas the  fabulous descent of Theseus was attended  with no real, but only intentional, mischief.  Not to mention that Virgil appears to be  the only writer of antiquity who condemns  this hero to an eternity of pain.  Nor is the secret meaning of the fables  concernmg the punishment of impure souls     78 Eleusinian and   less impressive and profound, as the follow-  ing extract fi'om the manuscript commentary  of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of Plato will  abundantly affirm: — "Ulysses," says he,  " descending into Hades, saw, among others,  Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus  he saw lying on the earth, and a vulture de-  vouring his liver; the liver signifying that  he lived solely according to the principle of  cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was  indeed internally prudent ; but the earth  signifies that his disposition was sordid. But  Sisyphus, living under the dominion of ambi-  tion and anger, was employed in continually  rolling a stone up an eminence, because it  perpetually descended again ; its descent im-  plying the vicious government of himself ;  and his rolling the stone, the hard, refractory,  and, as it were, rebounding condition of his  hf e. And, lastly, he saw Tantalus extended  by the side of a lake, and that there was a  tree before him, with abundance of fruit on  its branches, which he desired to gather, but  it vanished from his view ; and this indeed  indicates, that he lived under the dominion   Bacchic Mysteries.of phantasy ; but his hanging over the lake,  and in vain attempting to drink, imphes the  elusive, humid, and rapidly-ghding condition  of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec   cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc  xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c  yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv  Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo   STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0   cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov  a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo-  xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov,  %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/. xaxap-   p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,   hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC-  Tov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)   %7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£   xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat.   TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v.   Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,  %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord-  ing to the wisdom of the ancients, and the  most sublime philosophy, the misery which  a soul endures in the present life, when giv-  ing itself up to the dominion of the irrational     80 Elensinian and   part, is nothing more than the commence-  ment, as it were, of that torment which it  win experience hereafter : a torment the  same in kind though different in degree, as  it will be much more di'eadful, vehement,  and extended. And by the above specimen,  the reader may perceive how infinitely supe-  rior the explanation which the Platonic philosophy affords of these fables is to the frigid  and trifling interpretations of Bacon and  other modern mythologists ; who are able  mdeed to point out their correspondence to  something in the natui'al or moral world, be-  cause such is the wonderful connection of  things, that all things sympathize with all,  but are at the same time ignorant that these  fables were composed by men divinely wise,  who framed them after the model of the  highest originals, from the contemplation of  real and permanent heing, and not from regarding the delusive and fluctuating objects  of sense. This, indeed, mil be evident to  every ingenuous mind, from reflecting that  these wise men universally considered Hell  or death as commencing in the present life  Baccldc Mysteries. 81   (as we have already abundantly proved), and  that, consequently, sense is nothing more  than the energy of the dormant soul, and a  perception, as it were, of the delusions of  di'eams. In consequence of tliis, it is ab-  surd in the highest degree to imagine that  such men would compose fables from the  contemplation of shadows only, without re-  garding the splendid originals from which  these dark phantoms were produced : — not  to mention that their harmonizing so much  more perfectly with intellectual explications  is an indisputable proof that they were de-  rived from an intellectual [noetic] source.   And thus much for the dramatic shows  of the Lesser Mysteries, or the first part of  these sacred institutions, which was properly  denominated xsXst-r] [telete^ the closing up]  and [vrrpiz Muesis [the initiation], as con-  taining certain perfective rites, symbolical ex-  hibitions and the imparting and reception of  sacred doctrines, previous to the beholding of  the most splendid visions, or ETuoTutsta \epop-  teia, seership]. For thus the gradation of  Bacchic Mysteries.   the Mysteries is disposed by Proclus in  Theology of Plato, book iv. " The perfective  rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in or-  der the initiation [\xorpiQ, muesis], and initia-  tion, the final apocalypse, epopteiay npoY^yst-   STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to  observe that the whole business of initiation  was distributed into five parts, as we are  informed by Theon of Smyrna, in Matliema-  tica, who thus elegantly compares philosophy  to these mystic rites : " Again," says he,  " philosophy may be called the initiation into  true sacred ceremonies, and the instruction  in genuine Mysteries ; for there are five  parts of initiation : the first of which is the  previous purification ; for neither are the  Mysteries communicated to all who are  wilhng to receive them ; but there are cer-  tain persons who are prevented by the voice  of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those  who possess impure hands and an inartic-  ulate voice ; since it is necessary that such  as are not expelled from the Mysteries   * Theology of Plato. Bacchic Mysteries. 85   should first be refined by certain purifica-  tions : but after purification, the reception of  the sacred rites succeeds. The third part is  denominated epopfeia, or reception.* And  the fourth, which is the end and design of the  revelation, is [the investiture] the binding of  the head and fixing of the crowns. The ini-  tiated person is, by this means, authorized  to communicate to others the sacred rites  in which he has been instructed ; whether  after this he becomes a torch-bearer, or an  hierophant of the Mysteries, or sustains some  other part of the sacerdotal office. But the  fifth, which is produced from all these, is  friendship and interior commtmion with  God, and the enjoyment of that felicity  which arises from intimate converse with  divine beings. Similar to this is the com-  munication of political instruction ; for, in  the first place, a certain purification precedes,   * Theon appears to regard the final apocalypse or epopteia, like  E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere. This  writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and adds in a  foot-note — " Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According  to this the epopteia would imply the final reception of the interior  doctrines. — A. W. Eleusinian and   or else an exercise in proper matliematical  discipline from early youth. For thus Em-  pedocles asserts, that it is necessary to be  purified from sordid concerns, by drawing  from five fountains, with a vessel of indis-  soluble brass : but Plato, that purification  is to be derived fi'om the five mathematical  disciplines, namely from arithmetic, geome-  try, stereometry, music, and astronomy ; but  the philosophical instruction in theorems,  logical, pohtical, and physical, is similar to  initiation. But he (that is, Plato) denom-  inates zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contem-  plation of things which are apprehended in-  tuitively, absolute truths, and ideas. But he  considers the binding of the head, and corona-  tion, as analogous to the authority w^hich any  one receives from his instructors, of leading  others to the same contemplation. And the  fifth gradation is, the most perfect fehcity  arising from hence, and, according to Plato,  an assimilation to divinity^ as far as is pos-  sible to mankind." But though s'jroTrTS'.a,  or the rendition of the arcane ideas, princi-  pally characterized the Greater Mysteries, yet     Bacchic Mysteries. 87   this was likewise accompanied with the [j.uyj-  GLc, or initiation, as will be evident in the  conrse of this inquuy.   But let US now proceed to the doctrine of  the Greater Mysteries : and here I shall en-  deavor to prove that as the dramatic shows  of the Lesser Mysteries occultly signified the  miseries of the soul while in subjection to  body, so those of the Grreater obscurely inti-  mated, by mystic and splendid visions, the  felicity of the soul both here and hereafter,  when purified from the defilements of a  material nature, and constantly elevated to  the realities of intellectual [spiritual] vision.  Hence, as the ultimate design of the Mys-  teries, according to Plato, was to lead us back  to the principles from which we descended,  that is, to a perfect enjoyment of intellectual  [spiritual] good, the imparting of these prin-  ciples was doubtless one part of the doctrine  contained in the airoppTjia, aporrheta, or se-  cret discourses ; * and the different purifica-   * The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the  Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle  to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, — whether in     88 Eleusinian and   tions exhibited in these rites, in conjunction  with initiation and the epopteia were symbols  of the gradation of virtues requisite to this  reascent of the soul. And hence, too, if this  be the case, a representation of the descent of  the soul [from its former heavenly estate]  must certainly form no inconsiderable part of  these mystic shows ; all which the f ollomng  observations will, I do not doubt, abundantly  evince.   In the first place, then, that the shows of  the Greater Mysteries occultly signified the  felicity of the soul both here and hereafter,  when separated from the contact and influ-  ence of the body, is evident from what has  been demonstrated in the former part of this  discourse : for if he who in the present life is  in subjection to Ms irrational part is truly  in ITades, he who is superior to its dominion  is liheivise an inhahitayit of a place totally  different from Hades* If Hades therefore   body or outside of body, I know not: God knoweth, — who was  rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings ineffable,  which it is not lawful for a man to repeat."   *Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is  in the heavens."     Bacchic Mysteries. 89   is the region or condition of punishment and  misery, the purified soul must reside in the  regions of bhss ; in a hf e and condition of  purity and contemplation in the present life,  and entheastically,* animated by the divine   * Medical and Surgical Bejiorter, vol. xxxii. p. 195. "Those  who have professed to teach their fellow-mortals new truths eon-  cerning immortality, have based their authority on direct divine  inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all  claimed communication with higher spirits ; they were what the  Greeks called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking word  which Byron introduced into our tongue." Carpenter describes  the condition as an automatic action of the brain. The inspired  ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very vividly,  at some time when tliinhing of some other topic. Francis Galton  defines genius as " the automatic activity of the mind, as distin-  guished from the effort of the will, — the ideas coming by inspira-  tion." This action, says the editor of the Reporter, is largely  favored by a condition approaching mental disorder — at least by  one remote from the ordinary working day habits of thought.  Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual com-  motion of mind, will produce it ; and, indeed, these extraordinary  displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha, Moham-  med, all began their careers by fasting, and visions of devils fol-  lowed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries  also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic  orgies. "We do not, however, accept the materialistic view of this  subject. The cases are enftieasHe ; and although hysteria and  other disorders of the sympathetic system sometimes imitate the  phenomena, we believe with Plato and Plotimis, that the higher  faculty, intellect or intuition as we prefer to call it, the noetic part  of our nature, is the faculty actually at work. "By reflection,     90 Eleusinian and   energy, in the next. This being admitted,  let us proceed to consider the description  which Virgil gives us of these fortunate  abodes, and the latent signification which  it contains, ^neas and his guide, then, hav-  ing passed tlu^ough Hades, and seen at a dis-  tance Tartarus, or the utmost profundity of  a material nature, they next advance to the  Elysian fields :   Devenere locus Isetos, et amaena vireta  Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas.  Largiov Me campos gether et lumine vestit  Purpureo ; solemque suum, sua sidera norunt. *   Now the secret meaning of these joyful  places is thus beautifully unfolded by Olym-  piodorus in his manuscript Commentary on  the Gorgias of Plato. "It is necessary to  know," says he, " that the fortunate islands  are said to be raised above the sea ; and   self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised  to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to  the vision of God." This is the epopteia. — A. W.   * "They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re-  treats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and  purer sky here clothes the fields with a purjile light ; they recog-  uize their own suu, their own stars."     Bacchic Mysteries. 91   hence a condition of being, which transcends  this corporeal hfe and generated existence, is  denominated the islands of the blessed ; but  these are the same with the Elysian fields.  And on this account Hercules is said to  have accomphshed his last labor in the Hes-  perian regions ; signifying bythis, that having  vanquished a dark and earthly life he after-  ward hved in day, that is, in truth and light."  Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q  i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay  XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,  {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi ■vcc/.t  xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,-  Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv  s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov  ■jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv  sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who  in the present state vanquishes as much  as possible a corporeal life, through the  practice of the piu'ifying virtues, passes in  reahty into the Fortunate Islands of the soul,  and lives surrounded with the bright splen-  dors of truth and wisdom proceeding from  the sun of good.     92 Bacchic Mysteries.   The poet, in describing the employments   of the blessed, says :   Pars in gramineis exereent membra paleestris :  Coutendunt ludo, et f ulva luctantur arena :  Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.  Nee non Threicius longa cum veste saeerdos  Obloquitur uumeris septem discrimina vocum:  lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.  Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles,  Magnanimi heroes, nati melioribus annis,  Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus auctor.  Arma procul, currusque virum miratur inanis.  Stant terra defixse hastse, passimque soluti  Per campum pascuntur equi. Quae gratia curruum  Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis  Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos.  Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam  Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis.  Inter odoratum lauri nemus : unde superne  Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis.*   * "Some exercise their limbs upon the grassy field, contend in  play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the ground  and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his long  robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven  distinguished notes ; and now strikes them with his fingers, now  with the ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer,  a most illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears, —  II, Assarac, and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking  from afar, admires the arms and empty war-cars of the heroes.  There stood spears fixed in the ground, and scattered over the  plain horses are feeding. The same taste which when alive      •'i%^^^^_^ ^^^!^mm^      Eleusiuiau Mj'steries.     Bacchic Mysteries. 95   This must not be understood as if the soul  in the regions of fehcity retained any affec-  tion for material concerns, or was engaged in  the trifling pursuits of the everyday cor-  poreal life ; but that when separated from  generation, and the world's life, she is con-  stantly engaged in employments proper to the  higher spiritual nature ; either in divine con-  tests of the most exalted wisdom ; in forming  the responsive dance of refined imagina-  tions; in tuning the sacred lyi'e of mystic  piety to strains of divine fury and ineffable  dehght ; in giving free scope to the splendid  and winged powers of the soul; or in  nourishing the higher intellect with the sub-  stantial banquets of intelligible [spiritual]  food. Nor is it without reason that the  river Eridanus is represented as flowing  through these delightful abodes; and is at   these men had for chariots and arms, the same passion for rear-  ing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth. Lo!  also he views others, on the right and left, feasting on the grass,  and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove of  laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls  through the woods."  A peeon was chanted to Apollo at Delphi every seventh day.     96 Eleusinian and   the same time denominated plurimus (great-  est), because a great part of it was absorbed  in the earth without emerging from thence :  for a river is the symbol of hfe, and conse-  quently signifies in this place the intellectual  or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that  is, from divinity itself, and gliding with pro-  lific energy through the hidden and profound  recesses of the soul.   In the following lines he says :   Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,  Riparumque toros, et prata recentia rivis  Incolimus.*   By the blessed not being confined to a par-  ticular habitation, is implied that they are  perfectly free in all things ; being entirely  free from all material restraint, and purified  from all inclination incident to the dark  and cold tenement of the body. The shady  groves are symbols of the retiring of the     » li     ' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves,  and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with  little rivulets."     Bacchic Mysteries. 97   soul to the depth of her essence, and there,  by energy solely divine, establishing herself  in the ineffable principle of things.* And  the meadows are syin])ols of that prolific  power of the gods through which all the  variety of reasons, animals, and forms was  produced, and which is here the refresh-  ing pastui'e and retreat of the hberated  soul.   But that the communication of the knowl-  edge of the principles from which the soul  descended formed a part of the sacred Mys-  teries is evident from Yirgil ; and that this  was accompanied with a vision of these prin-  ciples or gods, is no less certain, from the  testimony of Plato, Apuleius, and Proclus.  The first part of this assertion is evinced by  the following beautiful lines :   * Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true  knowledge is naturally carried in his aspirations to the real prin-  ciple of being ; and his love knows no repose till it shall have been  united with the essence of each object through that jiart of the soul,  which is akin to the Permanent and Essential ; and so, the divine  conjunction having evolved interior knowledge and truth, the  knowledge of being is won."     98 EleiiHinian and   Prineipio cfelum ac tei-ras, eamposque liquentes   Lucentemque globum luuas, Titauiaque astra   Spiritus intus alit, totumque infusa per artus   Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.   Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum,   Et qu£e marmoreo fert monstra sub sequore pontus.   Igneus est oUis vigor, et cselestis origo   Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,   Terrenique hebetant artus, moribundaque membra.   Hinc metiiunt cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras   Despieiunt clausa tenebris et carcere csecc*   For the sources of the soul's existence are  also the principles from which it fell; and  these, as we may learn from the Thnams of  Plato, are the Demiurgus, the mundane soul,  and the junior or mundane gods.f Now, of   * "First of all the interior spirit sustains the heaven and earth  and watery plains, the illuminated orb of the moon, and the Titan-  ian stars ; and the Mind, diffused through all the members, gives  energy to the whole frame, and mingles with the vast body [of the  universe]. Thence proceed the race of men and beasts, the vital  souls of birds and the brutes which the Ocean breeds beneath  its smooth surface. In them all is a potency like fire, and a  celestial origin as to the rudimentary principles, so far as they  are not clogged by noxious bodies. They are deadened by earthly  forms and members subject to death ; hence they fear and desire,  grieve and rejoice ; nor do they, thus enclosed in darkness and  the gloomy prison, behold the heavenly air."   \ Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the  divine; and then delivered over to his celestial offspring [the     Bacchic Mysteries. 99   these, the mundane intellect, which, accord-  ing to the ancient theology, is represented  by Bacchus, is principally celebrated by the  poet, and this because the soul is particu-  larly distributed into generation, after the  manner of Dionysus or Bacchus, as is evident  from the preceding extracts from Olympio-  dorus : and is still more abundantly confirmed  by the following curious passage from the  same author, in his comment on the Plicedo of  Plato. " The soul," says he, " descends Cori-  cally [or after the manner of Proserpine]  into generation,* but is distributed into gen-  eration Dionysiacally,t and she is bound in  body PrometheiacallyJ and Titanically: she  fi'ees herself therefore from its bonds by ex-  ercising the strength of Hercules ; but she   subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.  These subordinate deities, copying the example of their parent,  and receiving from his hands the immortal principles of the human  soul, fashioned after this the mortal body, which they consigned  to the soul as a vehicle, and in which they placed also another  kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and fatal  passions."   * That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.   t /. e. as if divided into pieces.   X I. e. Chained fast.     100 We US in km and   is collected into one through the assistance  of Apollo and the savior Minerva, by phi-  losophical discipline of mind and heart purify-  ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv   'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza-   AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L-  '^(oc -(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however,  intimates the other causes of the soul's exis-  tence, when he says,   Igneiis est ollis vigor, et coelestis origo  Semiuibus *   which evidently alludes to the sowing of  souls into generation, t mentioned in the  Timmus. And fi'om hence the reader will   * "There is then a certain fiery potency, and a celestial oi'igiu  as to the rudimentary principles." /. e. Restored to wholeness  and divine life.   tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the  dead. It is sown in corruption [the material body] ; it is raised  in incorruption : it is sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it  is sown in weakness ; it is raised in power : it is sown a psychical  body ; it is raised a spiritual body."     Bacchic Mysteries. 101   easily perceive the extreme ridiculousness of  Dr. Warburton's system, that the grand secret  of the Mysteries consisted in exposing the  errors of Polytheism, and in teaching the  doctrine of the unity, or the existence of one  deity alone. For he might as well have said,  that the great secret consisted in teaching a  man how, by writing notes on the works of  a poet, he might become a bishop ! But it  is by no means wonderful that men who  have not the smallest conception of the true  nature of the gods ; who have persuaded  themselves that they were only dead men  deified ; and who measure the understand-  ings of the ancients by their own, should be  led to fabricate a system so improbable and  absurd.   But that this instruction was accompanied  with a vision of the source from which the  soul proceeded, is evident from the express  testimony, in the first place, of Apuleius,  who thus describes his initiation into the  Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et  calcato Proserpinse limine, per omnia vectus  elementa remeavi. Nocte media vidi solem.     102 Meusinicm and   candido coniscantem kimine, deos inferos, et  deos superos. Access! coram, et adoravi de  proximo." * That is, "I approached the  confines of death : and having trodden on  the threshold of Proserpina returned, having  been carried through all the elements. In  the depths of midnight I saw the sun glitter-  ing with a splendid light, together with the  infernal and supernal gods : and to these  divinities approaching near, I paid the tribute  of devout adoration." And this is no less  evidently implied by Plato, who thus de-  scribes the fehcity of the holy soul prior to  its descent, in a beautiful allusion to the  arcane visions of the Mysteries. Ka/.Ao? 3s   TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt   )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La  [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov  t£ 7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a-   pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^  OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p  /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa %7.C  aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£  7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl  * The Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn).     Bacchic Mysteries. 103     TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s  d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law-  ful to survey the most splendid beauty, when  we obtained, together with that blessed choir,  this happy vision and contemplation. And  we indeed enjoyed this blessed spectacle to-  gether with Jupiter ; but others in conjunc-  tion with some other god ; at the same time  being initiated in those Mysteries^ which it  is lawful to call the most blessed of all  Mysteries. And these divine Orgies* were  celebrated by us, while we possessed the  proper integrity of our nature, we were  freed from the molestations of evil which  otherwise await us in a future period of time.  Likewise, in consequence of this divine  initiation, we became spectators of entire,  simple, immovable, and blessed visions, res-  ident in a pure hght ; and were ourselves  pure and immaculate, being hberated from  this surrounding vestment, which we denom-  inate body, and to which we are now bound   * The peculiar rites of the Mysteries were indifferently termed  Orgies or Labors, teletai or finishings, and initiations.     10-i Bacchic Mysteries.   like an oyster to its shell."* Upon this  beautiful passage Proclus observes, "That the  initiation and epopfeia [the vailing and the  reveahng] are symbols of ineffable silence,  and of union with mystical natures, through  intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai r^   * Phcedriis, 64.   t Proclus : Theology of Plato, book iv. The following reading  is suggested : "The initiation and final disclosing are a symbol  of the Ineffable Silence, and of the enosis, or being at one and  en rapport with the mystical verities through manifestations in-  tuitively comprehended."   The ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as  relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal  happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp-  tion from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there  was a certain welcome to the abodes of the blessed. The term  cTTOTrcjioi, epopteia, applied to the last scene of initiation, he de-  rives from the Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being  regarded as having secured for himself or herself divine bliss.   It is more usual, however, to treat these terms as pure Greek;  and to render the mnesis as initiation and to derive epopteia from  STCOrtTopiat. According to this etymology an epopt is a seer or  clairvoyant, one who knows the interior wisdom. The terms in-  spector and superintendent do not, tome, at all express the idea,  and I am inclined, in fact, to suppose with Mr. Pocoeke, that the  Mysteries came from the East, and from that to deduce that the  technical words and expressions are other than Greek.   Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual  discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your  soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify        tl'^     £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.     Bacchic Mysteries. 107   TYjC iTpoc xa {jLoatixa "^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia-  xtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may be  inferred, that the most sublime part of the  zTzrj'Kisirx \epoptei(i\ or final revealing, con-  sisted in beholding the gods themselves in-  vested with a resplendent hght ; * and that  this was symbohcal of those transporting  visions, which the virtuous soul will con-  stantly enjoy in a future state ; and of which  it is able to gain some ravishing glimpses,  even while connected with the cumbrous  vestment of the body.f   the body, deny self, — affections as well as appetites, — and the inner  eye will begin to exercise its clear and solemn vision." " In the  reduction of yonr soul to its simplest principles, the divine germ,  you attain this oneness. We stand then in the immediate pres-  ence of God, who shines out from the profound depths of the  soul."- A. W.   * Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed  by the hierophant, and permitted to look within the cistn or chest,  which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains  sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he  now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and Al-  cibiades gazed with emotions wide apart. — A. W.  t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and then that  . we can enjoy the elevation made possible for us, above the limits  of the body and the world. I myself have realized it but three  times as yet, and Porphyry hitherto not once."     108 Bacchic Mysteries.   But that this was actually the case, is  evident fi'om the following unequivocal tes-  timony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic   TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^-  aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizM-  zov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v-  {J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc  dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all  the initiations and Mysteries, the gods ex-  hibit many forms of themselves, and appear  in a variety of shapes : and sometimes, in-  deed, a formless light ^ of themselves is held  forth to the view ; sometimes this hght is  according to a human form, and sometimes  it proceeds into a different shape." f This  assertion of divine visions in the Mysteries,     Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,  when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised up  to the First and Sovereign Good ; also that he himself was only  once so elevated to the enosis or union with God, so as to have  glimpses of the eternal world. This did not occur till he was  sixty-eight years of age. — A. W.   * I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape  of an object.   \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.      Cupids, Satyr, aud statue of Priapua.     Bacchic Mysteries. Ill   is clearly confirmed by Plotinus.* And, in  short, that magical evocation formed a part  of the sacerdotal office in the Mysteries, and  that this was universally believed by all  antiquity, long before the era of the latter  Platonists,t is plain from the testimony of  Hippocrates, or at least Democritus, in his  Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of  those who attempt to cure this disease by  magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac-   Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo  zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac  STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj?  {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^so-  oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.  " For if they profess themselves able to draw  down the moon, to obscure the sun, to pro-  duce stormy and pleasant weather, as like-  wise showers of rain, and heats, and to render  the sea and earth barren, and to accomplish   *Ennead, i. book 6; and ix. book 9.   t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their  associates.  X Epilepsy.     112 Eleusinian and   every thing else of this kind ; whether they  derive this knowledge from flie Mysteries^ or  from some other mental effort or meditation,  they appear to me to be impious, from the  study of such concerns." From all which is  easy to see, how egregiously Dr. Warburton  was mistaken, when, in page 231 of his Divine  Legation^ he asserts, " that the light beheld  in the Mysteries, was nothing more than an  illuminated image which the priests had  thoroughly purified."   But he is likewise no less mistaken, in  transferring the injunction given in one of  the Magic Oracles of Zoroaster, to the busi-  ness of the Eleusinian Mysteries, and in per-  verting the meaning of the Oracle's admoni-  tion. For thus the Oracle speaks :   Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,   That is, " Invoke not the self -revealing image  of Nature, for you must not behold these  things before your body has received the  initiation." Upon which he observes, " that     Bacchic Mysteries. 113   the self-revealing image ivas only a diffusive  shining light, as the name partly declares^ *  But this is a piece of gross ignorance, from  which he might have been freed by an atten-  tive perusal of Proehis on the Timceus of  Plato : for in these truly divine Commenta-  ries we learn, " that the moonf is the cause  of nature to mortals, and the self -rev eating  image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv  acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a.  o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is  desirous of knowing what we are to under-  stand by the fountain of nature of which the  moon is the image, let him attend to the fol-  lowing information, derived from a long and  deep study of the ancient theology : for from  hence I have learned, that there are many  divine fountains contained in the essence of  the demiurgus of the world ; and that among  these there are three of a very distinguished  rank, namely, the fountain of souls, or Juno,  — the fountain of virtues, or Minerva — and   * Divine Legation, p. 231.   t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter, symbolized as  Selene or the Moon,     114 Eleusinian and   the fountain of nature, or Diana. This last  fountain too immediately depends on the  vilifying goddess Rhea; and was assumed  by the Demiurgus among the rest, as neces-  sary to the prohfic reproduction of liimself.  And this information will enable us besides  to explain the meaning of the following i3as-  sages in Apuleius, which, from not being-  understood, have induced the moderns to  believe that Apuleius acknowledged but one  deity alone. The first of these passages is  in the beginning of the eleventh book of his  MetamorpJioses, in which the divinity of the  moon is represented as addressing him in  this sublime manner : " En adsum tuis com-  mota, Luci, precibus, rerum Natura parens,  elementorum omnium domina, seculorum  progenies initialis, summa numinum, regina  Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearum-  que facies uniformis : quae cseh luminosa  culmina, maris salubria flamina, inferorum de  plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus  numen unicum, multiformi specie, ritu vario,  nomine multijugo totus veneratur orbis. Me  primigenii Phryges Pessinunticam nominant     Bacchic Mysteries. 115   Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici  Cecropiam Minervam ; ilhiic fluctuantes Cy-  prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri  Dictjninam Dianam ; Sicuh trihngues Sty-  giam Proserpinam ; Eleusinii vetustam Deam  Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii  Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascen-  tis dei Sohs inchoantibus radiis iUustrantur,  ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pol-  lentes ^gyptii cserimoniis me prorsus propriis  percolentes appellant vero nomine reginam  Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved  with thy supphcations, I am present ; I,  who am Nature, the parent of things, mis-  tress of all the elements, initial progeny of  the ages, the highest of the divinities, queen  of departed spirits, the first of the celes-  tials, of gods and goddesses the sole hkeness  of all : who rule by my nod the luminous  heights of the heavens, the salubrious breezes  of the sea, and the woful silences of the in-  fernal regions, and whose divinity, in itself  but one, is venerated by all the earth, in  many characters, various rites, and different  appellations. Hence the primitive Phry-     116 Bacchic Mysteries.   gians call me Pessinuntica, the motlier of  the gods ; the Attic Autochthons, Cecropian  Muierva; the wave-siUTOunded Cyprians,  Paphian Venus ; the arrow-bearing Cretans,  Dictynnian Diana; the three-tongued Sicil-  ians, Stygian Proserpina ; and the inhabit-  ants of Eleusis, the ancient goddess Ceres.  Some, again, have invoked me as Juno, others  as Bellona, others as Hecate, and others as  Rhamnusia ; and those who are enlightened  by the emerging rays of the rising sun, the  Ethiopians, and Aryans, and likewise the  Egyptians powerful in ancient learning, who  reverence my divinity with cerenioaies per-  fectly proper, call me by my true appellation  Queen Isis." And, again, in another place of  the same book, he says of the moon : " Te  Superi colunt, observant Inferi : tu rotas  orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas  Tartarum. Tibi respondent sidera, gaudent  numina, redeunt tempora, serviunt elementa,  etc." That is, " The supernal gods reverence  thee, and those in the realms beneath at-  tentively do homage to thy divinity. Thou  dost make the universe revolve, illuminate     Bacchic Mysteries. 119   the sun, govern the world, and tread on Tar-  tarns. The stars answer thee, the gods re-  joice, the houi's and seasons retui*n by thy  appointment, and the elements serve thee."  For all tliis easily follows, if we consider it as  addressed to the fountain-deity of nature,  subsisting in the Demiurgus, and which is  the exemplar of that nature which flourishes  in the lunar orb, and throughout the mate-  rial world, and from which the deity itself  of the moon originally proceeds. Hence, as  this fountain innnediately depends on the  life-giving goddess Rhea, the reason is ob-  vious, why it was formerly worshiped as the  mother of the gods : and as all the mundane  are contained in the super-mundane gods,  the other appellations are to be considered as  names of the several mundane divinities pro-  duced by this fountain, and in whose essence  they are likewise contained.   But to proceed with our inquiry, I shall,  in the next place, prove that the different  purifications exhibited in these rites, in con-  junction with initiation and the epopteia  were symbols of the gradation of disciplines     120 Eleusinian and   requisite to the reascent of the soul.* And  the fii'st part, indeed, of this proposition  respecting the purifications, immediately fol-  lows from the testimony of Plato in the pas-  sage already adduced, in which he asserts  that the ultimate design of the Mysteries was  to lead us back to the principles from which  we originally fell. For if the Mysteries were  symbohcal, as is universally acknowledged,  this must likewise be true of the purifica-  tions as a part of the Mysteries ; and as in-  ward puiity, of which the external is sym-  bolical, can only be obtained by the exercise  of the virtues, it evidently follows that the  purifications were symbols of the pimfying  moral virtues. And the latter part of the  proposition may be easily inferred, from the  passage ah'eady cited from the Phmdrus of  Plato, in which he compares initiation and  the epopteia to the blessed vision of the  higher intelligible natures ; an employment  which can alone belong to the exercise of  contemplation. But the whole of this is  rendered indisputable by the following re-   */. e. to its former divine condition.     Bacchic Mysteries. 121   markable testimony of Olympiodorus, in his  excellent manuscript Commentary on the  PJuedo of Plato.* "In the sacred rites," says  he, "popular pui4fications are in the first  place brought forth, and after these such as  are more arcane. But, in the third place,  collections of various things into one are re-  ceived ; after which follows inspection. The  ethical and political virtues therefore are  analogous to the apparent purifications ; the  cathartic virtues which banish all external  impressions, correspond to the more arcane  purifications. The theoretical energies about  intelligibles, are analogous to the collections ;  and the contraction of these energies into an   * We have taken the liberty to present the following version of  this passage, as more correctly expressing the sense of the orig-  inal: "At the holy places are first the public purifications. With  these the more arcane exercises follow ; and after those the obliga-  tions [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending  with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and  social (political) virtues are analogous to the public purifications ;  the purifying virtues in their turn, which take the place of all  external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines ; the  contemplative exei'cises concerning things to be known intui-  tively to the taking of the obligations ; the including of them as  an undivided whole, to the initiations ; and the simple ocular view  of simple objects to the epoptic revelations."     122 Eleusinian and   indivisible nature, corresponds to initiation.  And the simple self-inspection of simple  forms, is analogous to epoptic vision." 'On   QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s   za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri  zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/Ao-  yooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i aps-  xa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii-   7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ   aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt-  %7c TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv  G'jya.irjSJsiQ sec "co ajispiarov X7cc \vyqGZGiy.   Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C   s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from  noticing, with indignation mingled with pity,  the ignorance and arrogance of modern crit-  ics, who pretend that this distribution of the  virtues is entirely the invention of the latter  Platonists, and without any foundation in the  writings of Plato.* And among the sup-  porters of such ignorance, I am sovry to find   * The writings of Augustin handed Neo-Platonism down to pos-  terity as the original and esoteric doctrine of the first followers  of Plato. He enumerates the causes which led, in his opinion, to  the negative position assumed by the Academics, and to the con-     Bacchic Mysteries. 123   Fabricius, in his prolegomena to the hfe of  Proclus. For nothing can be more obvious  to every reader of Plato than that in his  Laws he treats of the social and political  virtues ; in his Phcedo, and seventh book of  the RepiibUc^ of the purifying; and in his  Thceafetus, of the contemplative and sub-  limer virtues. This observation is, indeed,  so obvious, in the Phcedo, with respect to the  purifying virtues, that no one but a verbal  critic could read this dialogue and be insen-  sible to its truth : for Socrates in the very  beginning expressly asserts that it is the  business of philosophers to study to die, and  to be themselves dead,* and yet at the same  time reprobates suicide. What then can such   eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a re-  suscitated Plato. — Against the Academics, iii. 17-20.   * Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'.  (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y  Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply  themselves to philosophy seem to have left others ignorant, that  they themselves aim at nothing else than to die and to be dead.   Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we shall ap-  proach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion  with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer  ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from  it until God himself shall release us."     124 Eleusinian and   a death mean but symbolical or philosophical  death ? And what is this but the true ex-  ercise of the virtues which purify '? But  these poor men read only superficially, or  for the sake of displaying some critical  acumen in verbal emendations ; and yet with  such despicable preparations for philosoph-  ical discussion, they have the impudence to  oppose their puerile conceptions to the de-  cisions of men of elevated genius and pro-  found investigation, who, happily freed from  the danger and drudgery of learning any  foreign language,* directed all their attention  without restraint to the acquisition of the  most exalted truth.   It only now remains that we prove, in the  last place, that a representation of the descent  of the soul formed no inconsiderable part of  these mystic shows. This, indeed, is doubt-   * It is to be regretted, nevertheless, that our author had not  risked the " danger and drudgery " of learning Greek, so as to  have rendered fuller justice to his subject, and been of greater  service to his readers. We are conscious that those who are too  learned in verbal criticism are prone to overlook the real purport  of the text.— A. W.     Bacchic Mysteries. 125   less occultly intimated by Yirgil, when speak-  ing of the souls of the blessed ui Elysium, he  adds,   Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos,  Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno :  Scilicet immemores supera ut convexa revisant,  Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.*   But openly by Apuleius in the following  prayer which Psyche addresses to Ceres :  Per ego te frugiferam tuam dextram istam  deprecor, per Isetificas messium cserimonias,  per tacita sacra cistarum, et per famulorum  tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae.  Siculae fulcamina, et currum rapacem, et ter-  ram tenacem, et illuminarum Proserpinse  nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio  tegit Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse  Psyches animse, supplicis fuse, subsiste.f That  is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing right   * " All these, after they have passed away a thousand years, are  summoned by the divine one in great array, to the Lethfean river.  In this way they become forgetful of their former earth-life, and  revisit the vatilted realms of the world, willing again to return  into bodies."   t Apuleius : The Golden Ass. (Story of Cupid and Psyche),  book vi.     126 Bacchic Mysteries.   hand, by the joyful ceremonies of harvest, by  the occult sacred rites of thy cistae,* and by  the winged car of thy attending dragons, and  the furrows of the Sicilian soil, and the ra-  pacious chariot (or car of the ravisher), and  the dark descending ceremonies attending the  marriage of Proserpina^ and the ascending  rites which accompanied the lighted return  of thy daughter^ and l)ij other arcana  which Eleusis the Attic sanctuary conceals  in profound silence^ reheve the sorrows of  thy wretched suppliant Psyche." For the  abduction of Proserpina signifies the descent  of the soul, as is e^ddent from the passage  previously adduced from Olympiodorus, in  which he says the soul descends Corically ; f  and this is confirmed by the authority of the  philosopher Sallust, who observes, " That the  abduction of Proserpina is fabled to have  taken place about the opposite equinoctial ;  and by this the descent of souls [into earth-   * Chests or baskets, made of osiers, in which were enclosed the  mystical images and utensils which the uninitiated were not per-  mitted to behold.   t /• €. as to death ; analogously to the descent of Kore-Per-  sephone to the Underworld.      Ceres lends lier ear to Triptolemus.      Proserpina and Pluto. Jupiter augry.     Bacchic Mysteries. 129   life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q-   {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as  the abduction of Proserpina was exhibited in  the dramatic representations of the Myste-  ries, as is clear from Apuleius, it indisputa-  bly follows, that this represented the descent  of the soul, and its union with the dark tene-  ment of the body. Indeed, if the ascent and  descent of the soul, and its condition while  connected with a material nature, were rep-  resented in the dramatic shows of the Mys-  teries, it is evident that this was implied by  the rape of Proserpina. And the former  part of this assertion is manifest from Apu-  leius, when describing his initiation, he says,  in the passage already adduced : "I ap-  proached the confines of death, and having  trodden on the threshold of Proserpina,  / returned^ having been carried through all  the elements.^'' And as to the latter part, it  has been amply proved, fi'om the highest  authority, in the first division of this dis-  course.   * De Diis et Mundo, p. 251.     130 Meusinian and   Nor must the reader be distiu^bed on find-  ing that, according to Porphyry, as cited by  Eusebius,* the fable of Proserpina alludes to  seed placed in the ground ; for this is like-  wise true of the fable, considered according-  to its material explanation. But it will be  proper on this occasion to rise a httle higher,  and consider the various species of fables,  according to their philosophical arrange-  ment ; since by this means the present sub-  ject will receive an additional elucidation,  and the wisdom of the ancient authors of  fables will be vindicated from the unjust  aspersions of ignorant declaimers. I shall  present the reader, therefore, with the fol-  lowing interesting division of fables, fi'om  the elegant book of the Platonic philoso-  pher Sallust, on the gods and the universe.  " Of fables," says he, " some are theological,  others physical, others animastic (or relating  to soul), others material, and lastly, others  mixed from these. Fables are theological  which relate to nothing corporeal, but contem-  plate the very essences of the gods ; such as   * Evang. Prcepui: book iii. chap. 2.     Bacchic Mysteries. 131   the fable which asserts that Saturn devoured  his children : for it insinuates nothing more  than the nature of an intellectual (or intu-  itional) god ; since every such intellect returns  into itself. We regard fables physically when  we speak concerning the operations of the  gods about the world ; as when considering  Saturn the same as Time, and calhng the  parts of time the children of the universe, we  assert that the children are devoiu'ed by their  parent. But we utter fables in a spiritual  mode, when we contemplate the operations  of the soul ; because the intellections of our  souls, though by a discursive energy they go  forth into other things, yet abide in their  parents. Lastly, fables are material, such as  the Egyptians ignorantly employ, consider-  ing and calling corporeal natures divinities :  such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon,  heat • or, again, denominating Saturn water,  Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, in-  deed, to assert that these are dedicated to the  gods, in the same manner as herbs, stones, and  animals, is the part of wise men ; but to call  them gods is alone the province of fools and     132 Eleusinian and   madmen ; unless we speak in the same man-  ner as when, from estabhshed custom, we call  the orb of the sun and its rays the sun itself.  But we may perceive the mixed kind of  fables, as well in many other particulars, as  when they relate that Discord, at a banquet  of the gods, tlu'ew a golden apple, and that  a dispute about it arising among the god-  desses, they were sent by Jupiter to take the  judgment of Paris, who, charmed with the  beauty of Venus, gave her the apple in pref-  erence to the rest. For in this fable the  banquet denotes the super-mundane powers  of the gods ; and on this account they sub-  sist in conjunction with each other : but the  golden apple denotes the world, which, on  account of its composition from contrary  natures, is not improperly said to be thrown  by Discord, or strife. But again, since dif-  ferent gifts are imparted to the world by dif-  ferent gods, they appear to contest with each  other for the apple. And a soul living ac-  cording to sense (for this is Paris), not per-  ceiving other powers in the universe, asserts  that the apple is alone the beauty of Venus.     Bacchic Mysteries. 133   But of these species of fables, such as are  theological belong to philosophers ; the phys-  ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed to  the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ;  since the intention of all mystic ceremonies  is to conjoin us with the world and the  gods.^''   Thus far the excellent Sallust : from  whence it is evident, that "the fable of Pro-  serpina, as belonging to the Mysteries, is  properly of a mixed nature, or composed  from all the four species of fables, the theo-  logical [spiritual or psychical], and material.  But in order to understand this divine  fable, it is requisite to know, that according  to the arcana of the ancient theology, the  Coric * order (or the order belonging to  Proserpina) is twofold, one part of which is  super-mundane, subsisting with Jupiter, or  the Demiurgus, and thus associated with him  establishing one artificer of divisible natures ;  but the other is mundane, in which Proser-   * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is  derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure.     134 EJeiisinian and   pina is said to be ravished by Pluto, and to  animate the extremities of the universe.  *' Hence," says Prockis, "according to the  statement of theologists, who dehvered to  us the most holy Mysteries, she [Proserpina]  abides on high in those dwellings of her  mother which she prepared for her in inac-  cessible places, exempt from the sensible  world. But she likewise dwells beneath  with Pluto, administering terrestrial con-  cerns, governing the recesses of the earth,  supplying life to the extremities of the uni-  verse, and imparting soul to beings which  are rendered by her inanimate and dead."  Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytco-  xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G-  xtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic  JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv  sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£  {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i  zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v  £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^  {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£-  xpot?.* Hence we may easily perceive that   * Proclus: TJieology of Plato, p. 371.     Bacchic Mysteries. 135   this fable is of the mixed kind, one part of  which relates to the super-mundane estabhsh-  ment of the secondarj^ cause of life,* and the  other to the procession or outgoing of life  and soul to the farthest extremity of things.  Let us therefore more attentively consider  the fable, in that part of it which is sym-  bolical of the descent of souls ; in order to  which, it will be requisite to premise an  abridgment of the arcane discourse, respecting  the wanderings of Ceres, as preserved by  Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the  daughter of Ceres by Jupiter, as she was  gathering tender flowers, in the new spring,  was ravished from her dehghtful abodes by  Pluto ; and being carried from thence  through thick woods, and over a length of  sea, was brought by Pluto into a cavern,  the residence of departed spirits, over whom  she afterward ruled with absolute sway. But   * Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine  Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and  Providence ; the Second, the Intelligible, self-contained and im-  mutable Source of life ; and above all, the One, who like the  Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure will,  an Absolute Love — " Intellect." — A. W.     136 Bacchic Mysteries.   Ceres, upon discovering the loss of her daugh-  ter, with hghted torches, and begirt with a  serpent, wandered over the whole earth for  the purpose of finding her till she came to  Eleusis ; there she found her daughter, and  also taught to the Eleusinians the cultivation  of corn." Now in this fable Ceres represents  the evolution of that intuitional part of our  nature which we properly denominate intel-  lect'^ (or the unfolding of the intuitional  faculty of the mind from its quiet and col-  lected condition in the world of thought) ;  and Proserpina that living, self -moving, and  animating part which we call sonl. But lest  this comparing of unfolded intellect to Ceres  should seem ridiculous to the reader, unac-  quainted with the Orphic theology, it is neces-  sary to inform him that this goddess, from  her intimate union with Rhea, in conjunc-  tion with whom she produced Jupiter, is   * Also denominated by Kant, Pure reason, and by Prof, Cocker,  Intuitive reason. It was considered by Plato, as " not amenable to  the conditions of time and space, but in a particular sense, as  dwelling in eternity : and therefore capable of beholding eternal  realities, and coming into communion with absolute beauty, and  goodness, and truth — that is, with God, the Absolute Being."       Proserpina.— Greek.     Bacclius.— India.       Ceres.— Roman.     Demeter.— Ktruscan.     Bacchic Mysteries. 139   evidently of a Saturnian and zoogonic, or in-  tellectual and vivific rank ; and hence, as we  are informed by the philosopher Sallust,  among the mundane divinities she is the  deity of the planet Saturn.* So that in con-  sequence of this, our intellect (or intuitive  faculty) in a descending state must aptly  symbohze with the divinity of Ceres. But  Pluto signifies the whole of a material  natui'e ; since the empire of this god, accord-  ing to Pythagoras, commences downward  from the Gralaxy or milky way. And the  cavern signifies the entrance, as it were, into  the profundities of such a nature, which is  accomplished by the soul's union with this  terrestrial body. But in order to under-  derstand perfectly the secret meaning of the  other parts of this fable, it will be necessary  to give a more exphcit detail of the particu-  lars attending the abduction, from the beau-  tiful poem of Claudian on this subject. From   * Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Sat-  urn was denominated a legislative deity; and why illuminations  were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the  Eleusinian Mysteries.     140 Bacchic Mysteries.   this elegant production we learn that Ceres,  who was a&aid lest some violence should be  offered to Proserpina, on account of her in-  imitable beauty, conveyed her privately to  Sicily, and concealed her in a house built on  purpose by the Cyclopes, while she herself  directs her course to the temple of Cybele,  the mother of the gods. Hej:'e, then, we see  the first cause of the soul's descent, namely,  the abandoning of a life wholly according to  the higher intellect, which is occultly signi-  fied by, the separation of Proserpina fi*om  Ceres. Afterward, we are told that Jupiter  instructs Venus to go to this abode, and be-  tray Proserpina from her retirement, that  Pluto may be enabled to carry her away;  and to prevent any suspicion in the virgin's  mind, he commands Diana and Pallas to go  in company. The three goddesses arriving,  find Proserpina at work on a scarf for her  mother ; in which she had embroidered the  primitive chaos, and the formation of the  world. Now by Venus in this part of the  narration we must understand desire^ which  even in the celestial regions (for such is the      Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina*     Bacchic Mysteries. 143   residence of Proserpina till slie is ravished by  Pluto), begins silently and stealthily to creep  into the recesses of the soul. By Minerva  we must conceive the rational power of the  soul, and by Diana, nature^ or the merely  natural and vegetable part of our composi-  tion ; both which are now ensnared through  the allurements of desire. And lastly, the  web in which Proserpina had displayed all  the fair variety of the material world, beau-  tifully represents the commencement of the  illusive operations through which the soul  becomes ensnared with the beauty of imagi-  native forms. But let us for a while attend  to the poet's elegant description of her em-  ployment and abode :   Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant  Cyclopum firmata manu. Stant ardua f erro  Msenia ; ferrati postes : immensaqiie nectit  Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon,  Nee Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam  Spiravere uotis animge : nee flumine tanto  Incoctum maduit lassa fornaee metallum.  Atria vestit ebur : trabibus solidatur aenis  Culmen, et in eelsas surgunt eleetra eolumnas.  Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu  Irrita texebat rediturje munera matri.  Hie elementorum seriem sedesque pateruas     144 Eleusinian and   Insignibat aeu : veterem qua lege tutmiltum  Diserevit natiira parens, et semiua jiistis  Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :  111 medium graviora caduut : incaiiduit tether :  Egit flamma polum : fluxit mare •. terra pependit  Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro.  Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis,  Filaque mentitos jam jam cfelantia liuctus  Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam,  Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis.  Addit quinqiie plagas : mediam subtemine rubro  Obsessam fervore notat : squalebat adustus  Limes, et assiduo sitiebant stamina sole.  Vitales utrimque duas ; quas mitis oberrat  Temperies habitanda viris. Tum fine supremo  Torpentes traxit geminas, brumaque perenni  Fgedat, et a3terno coiitristat frigore telas.  Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,  Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen.  Prasscia nam subitis maduerimt fletibus ora.     After this, Proserpina, forgetful of her par-  ent's commands, is represented as venturing  from her retreat, through the treacherous  persuasions of Venus :   Impulit Joiiios pra?misso lumine fluetus  Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis  Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe.  Jamque audax animi, fidseque oblita parentis,  Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus  (Sic Parcse voluere) petit.     Bacchic Mysteries. 145   And this with the greatest propriety: for  obhvion necessarily follows a remission of  intellectnal action, and is as necessarily at-  tended with the allurements of desire.* Nor  is her dress less symbolical of the acting of   * When the person turns the back upon his higher faculties, and  disregards the communications which he receives through them  from the world of unseen realities, an oblivion ensues of their  existence, and the person is next brought within the province and  operation of lower and worldly ambitions, such as a love of power,  passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent, fall,  or apostasy of the soul, — a separation from the sources of divine  life and ravishment into the region of moral death.   In the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged  Steeds, Plato represents the lower or inferior part of man's nature  as dragging the soul down to the earth, and subjecting it to the  slavery of corporeal conditions. Out of these conditions there  arise numerous evils, that disorder the mind and becloud the rea-  son, for evil is inherent to the condition of finite and multiform  being into which we have "fallen by our own fault." The pres-  ent earthly life is a fall and a punishment. The soul is now  dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its incorpo-  rate state, and previous to the discipline of education, the rational-  element is " asleep." " Life is more of a dream than a reality."  Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms and  illusions. We now resemble those " captives chained in a subter-  raneous cave," so poetically described in the seventh book of The  Republic ; their backs are turned to the light, and consequently  they see but the shadows of the objects which pass behind them,  and " they attribute to these shadows a perfect reality." Their  sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a  dreamy exile from their proper home." — CucJcer's Greek Philosophy,     146 Eleiisinian and   the soul in such a state, principally according  to the energies and promptings of imagina-  tion and nature. For thus her garments are  beautifully described by the poet :     Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris,  Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu,  Nee membris nee honore minor ; potuitque  Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe.  CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes.  Peetinis ingenio nunquam felicior arti  Coutigit eventus. Nullse sic consona telae  Fila, nee in tantum veri duxere figuram.  Hie Hyperionis Solem de semine nasei  Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,  Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys  Praebet, et infantes gremio solatur anhelos,  Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.  Invalidum dextro portat Titana laeerto  Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte  Cristatum radiis : prime clementior sevo  Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.  Lseva parte soror vitrei libaraina potat  Uberis, et parvo signatur tempora cornu.   In which description the sun represents the  phantasy, and the moon, nature, as is well  known to every tyro in the Platonic philos-  ophy. They are likewise, with great pro-  priety, described in their infantine state : for     Bacchic Mysteries. 147   these energies do not arrive to perfection  previous to the sinking of the soul into the  dark receptacle of matter. After this we be-  hold her issuing on the plain with Minerva  and Diana, and attended by a beauteous  train of nymphs, who are evident symbols of  world of generation,* and are, therefore, the  proper companions of the soul about to fall  into its fluctuating realms.   But the design of Proserpina, in venturing  from her retreat, is beautifully significant of  her approaching descent: for she rambles  from home for the purpose of gathering  flowers ; and this in a lawn replete with the  most enchanting variety, and exhahng the  most dehcious odors. This is a manifest  image of the soul operatmg principally ac-  cording to the natural and external life, and  so becoming effeminated and ensnared  through the delusive attractions of sensible  form. Minerva (the rational faculty in this  case), likewise gives herself wholly to the   * Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj  sigaified a bride.     148 EJeusinian and   dangerous employment, and abandons the  proper characteristics of her nature for the  destructive revels of desire.   All which is thus described with the ut-  most elegance by the poet :   Forma loci siiperat flores : eurvata tumore  Pai'vo planities, et moUibus edita clivis  Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes  Roscida mobilibus lambebant gramina rivis.  Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles  Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu.  Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus,  Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus,  Hex plena favis, venturi pra?seia lanrus.  Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus,  Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos.  Hand proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani)  Panditur, et nemorum frondoso margine cinetus  Vicinis pallescit aquis : admittit in altum  Cernentes oculos, et late perviiis humor  Ducit inoflfensus liquido sub gurgite visus,  Imaque perspicui prodit secreta profundi.   Hue elapsa eohors gaudent per florea rura  Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite, sorores,  Dum matutinis prsesudat solibus aer :  Dum meus humectat flaventes Lucifer agros,  Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris  Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus  Invasere eohors. Credas examina fundi  Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges     Baccliic Mysteries. 149   Castra movent, fagique cava demissus ab alvo  Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis.  Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis  Iiitexit violis : banc mollis amaraeus ornat :  Heec graditur stellata rosis ; haec alba ligiistris.  Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,  Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris,  Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :  Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :  Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa  Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.  j3^]staat ante alias avido fervore legeudi  Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto  Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet :  Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.  Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum  Armorumque potens, dextram qua fortia turbat  Agmina ; qua stabiles portas et msenia vellit,  Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit,  Insolitisque docet galeam mitescere sertis.  Ferratus lascivit apex, horrorque recessit  Martins, et cristse pacato fulgure vernant.  Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem,  Aspernata clioros, libertatemque comarum  Injecta tantum voluit freuare corona.   But there is a circumstance relative to the  narcissus which must not be passed over in  silence : I mean its being, according to Ovid,  the metamorphosis of a youth who fell a  victim to the love of his own corporeal  form ; the secret meaning of which most     150 Bacchic Mysteries.   admirably accords with the rape of Proser-  pina, which, according to Homer, was the  immediate consequence of gathering this  wonderful flower.* For by Narcissus falling  in love with his shadow in the limpid stream  we may behold an exquisitely apt represen-  tation of a soul vehemently gazing on the  flowing condition of a material body, and in  consequence of this, becoming enamored  with a corporeal life, which is nothing more  than the delusive image of the true man, or  the rational and immortal soul. Hence, by  an immoderate attachment to this unsubstau-  tial mockery and gliding semblance of the  real soul, such an one becomes, at length,  wholly changed, as far as is possible to his  nature, into a vegetive condition of being,  into a beautiful but transient flower, that is,  into a corporeal life, or a life totally consist-   * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the pleasant  flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and the  narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I was  plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out  leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me,  grieving much, beneath the earth in his golden chariot, and I  cried aloud."     "v..            Pioseipiua gathering Flowers.      Pluto carrj'iiig off Pioserplna.     Bacchic Mysteries, 153   ing in the mere operations of nature. Pro-  serpina, therefore, or the soul, at the very  instant of her descent into matter, is, with  the utmost propriety, represented as eagerly  engaged in pkicking this fatal flower ; for  her faculties at this period are entirely oc-  cupied with a hf e divided about the fluctuat-  ing condition of body.   After this, Pluto, forcing his passage  through the earth, seizes on Proserpina,  and carries her away with him, notwith-  standing the resistance of Minerva and  Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter,  who in this place signifies Fate, to attempt  her deUverance. By this resistance of Mi-  nerva and Diana no more is signified than  that the lapse of the soul into a material  nature is contrary to the genuine wish and  proper condition, as well of the corporeal hfe  depending on her essence, as of her true and  rational nature. Well, therefore, may the  soul, in such a situation, pathetically exclaim  with Proserpina :     154 Bacchic Mysteries.   O male dileeti flores, despeetaque matris  Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! *   But, according to Minutius Felix, Proserpina  was carried by Pluto tlu-ough thick woods,  and over a length of sea, and brought into a  cavern, the residence of the dead : where by  'woods a material nature is plainly implied, as  we have already observed in the first part of  this discourse ; and where the reader may  likewise observe the agreement of the de-  scription in this particular with that of Yvn-  gil in the descent of his hero :   Tenent media omnia silvce  Coeytusque sinuque labens, cireumvenit atro.t   In these words the woods are expressly  mentioned; and the ocean has an evident  agreement with Cocytus, signifying the out-  flowing condition of a material nature, and  the sorrows and sufferings attending its con-  nection with the soul.   * Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised :  Oh cruel arts of cunning Venus !   t " Woods cover all the middle space and Cocytus gliding on,  surrounds it with his dusky bosom."     Bacchic Mysteries. 157   Pluto hurries Proserpina into the infernal  regions : in other words, the soul is sunk  into the profound depth and darkness of a  material nature. A description of her mar-  riage next succeeds, her union with the dark  tenement of the body :   Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi  Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta  Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile  Omina perpetuo genitalia federe sancit.   Night is with great beauty and propriety in-  troduced as standing by the nuptial couch,  and confirming the oblivious league. For  the soul through her union with a material  body becomes an inhabitant of darkness, and  subject to the empire of night ; in conse-  quence of which she dwells wholly with de-  lusive phantoms, and till she breaks her  fetters is deprived of the intuitive percep-  tion of that which is real and true.   In the next place, we are presented with  the following beautiful and pathetic descrip-  tion of Proserpina appearing in a dream to     158 Eleusinian and   Ceres, and bewailing her captive and miser-  able condition :   Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus ullis  Nuutia, materna faeies ingesta sopori.  Namque videbatur tenebroso obtecta reeessu  Carceris, et ssevis Proserpina vineta catenis,  Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae  Suspexere Dete. Squalebat pulchrior auro  Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes.  Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi  Flamineus oris honos, et non cessura pruinis  Membra eolorantur pieei caligine regni.  Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu  Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ? inquit.  Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas  In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri  Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ?  Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ?   Such, indeed, is the wretched situation of  the soul when profoundly merged in a cor-  poreal nature. She not only becomes captive  and fettered, but loses all her original splen-  dor ; she is defiled with the impurity of mat-  ter ; and the sharpness of her rational sight  is blunted and dunmed through the thick  darkness of a material night. The reader  may observe how Proserpina, being repre-  sented as confined in the dark recess of a     Bacchic Mysteries. 159   prison, and bound with fetters, confirms the  explanation of the fable here given as sym-  bolical of the descent of the soul ; for such,  as we have ah*eady largely proved, is the  condition of the soul from its union with the  body, according to the uniform testimony of  the most ancient philosophers and priests.*   After this, the wanderings of Ceres for the  discovery of Proserpina commence. She is  described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth  a serpent, and bearing two hghted torches in  her hands ; but by Claudian, instead of being  gu^t with a serpent, she commences her  search by night in a car drawn by dragons.  But the meaning of the allegory is the same  in each ; for both a serpent and a di'agon are  emblems of a divisible hfe subject to transi-  tions and changes, with which, in this case,  our intellectual (and diviner) part becomes  connected : since as these animals put off  their skins, and become young again, so   * Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly trans-  lated prophets, and actually signifies persons gifted with divine  insight, through being in an entheastic condition, called also mania  or divine fury.     160 Bacchic Mysteries.   tlie divisible life of the soul, falling into  generation, is rejuvenized in its subsequent  career. But what emblem can more beau-  tifully represent the evolutions and out-  goings of an intellectual nature into the  regions of sense than the wanderings of  Ceres by the hght of torches through the  darkness of night, and continuing the pursuit  until she proceeds into the depths of Hades  itself ? For the intellectual part of the soul,*  when it verges towards body, enkindles, in-  deed, a light in its dark receptacle, but be-  comes itself situated in obscurity : and, as  Proclus somewhere divinely observes, the  mortal nature by this means participates of  the divme intellect, but the intellectual part  is drawn down to death. The tears and lam-  entations too, of Ceres, in her coiu'se, are sym-  bolical both of the providential operations of   * " The soul is a composite nature, is on one side linked to the  eternal world, its essence being generated of that ineffable ele-  ment which constitutes the real, the immutable, and the perma-  nent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the Divinity, an  emanation from God. On the other hand, it is linked to the phe-  nomenal or sensible world, its emotive part being formed of that  which is relative and phenomenal." — Cocker.     Bacchic Mysteries. 163   intellect about a mortal nature, and the mis-  eries with which such operations are (with  respect to imperfect souls like oui's) attended.  Nor is it without reason that lacchus, or  Bacchus, is celebrated by Orpheus as the  companion of her search : for Bacchus is the  evident symbol of the imperfect energies of  intellect, and its scattering into the obscure  and lamentable dominions of sense.   But our explanation will receive additional  strength from considering that these sacred  rites occupied the space of nine days in their  celebration; and this, doubtless, because,  according to Homer,* this goddess did not  discover the residence of her daughter till  the expu-ation of that period. For the soul,  in falling from her original and divine abode  in the heavens, passed through eight spheres,   * Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter perambulate  the earth . . and when the ninth shining morn had come, Hecate  met her, bringing news."   Apuleius also explains that at the initiation into the Mysteries  of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious food  for ten days, from the flesh of animals, and from wine. — Golden Ass,  book xi. p. 239 (BoJin).     164 Eleusinian and   namely, the fixed or inerratic sphere, and  the seven planets, assuming a different body,  and employing different faculties in each;  and becomes connected with the sublunary  world and a terrene body, as the ninth, and  most abject gradation of her descent. Hence  the first day of initiation into these mystic  rites was called agurmos^ L e. according to  Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov,  an assembly^ and all collecting fogefher :  and this with the greatest propriety; for,  according to Pythagoras, "the people of  dreams are souls collected together in the  Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav   Jcav.f And from this part of the heavens  souls first begin to descend. After this, the  soul falls from the tropic of Cancer into the  planet Satm'n; and to this the second day  of initiation was consecrated, which they  called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initi-  ated ones ! "] because, says Meui'sius, on that   * Only persons taking a view solely external will suppose the  galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky.  t Cave of the Xymphs.     Bacchic Mysteries. 165   day the crier was accustomed to admonisli  the mystte to betake themselves to the sea.  Now the meaning of this will be easily  understood, by considering that, according to  the arcana of the ancient theology, as may be  learned from Proclus, * the whole planetary  system is under the dominion of Neptune;  and this too is confirmed by Martianus  Capella, who describes the several planets  as so many streams. Hence when the soul  falls into the planet Saturn, which Capella  compares to a river voluminous, sluggish,  and cold, she then first merges herself into  fluctuating matter, though purer than that  of a sublunary natiu'e, and of which water is  an ancient and significant symbol. Besides,  the sea is an emblem of purity, as is evident  from the Orphic hymn to Ocean, in which that  deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon  agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of  the gods : and Saturn, as we have already  observed, is pure [intuitive] intellect. And  what still more confirms this observation is,  that Pythagoras, as we are informed by Por-   * Theology of Plato, book vi.     166 Bacchic Mysteries.   pliyry, in his life of that philosopher, symbol-  ically called the sea a tear of Saturn. But the  eighth day of initiation, which is symbohcal  of the falhng of the soul into the lunar  orb,* was celebrated by the candidates by a  repeated initiation and second sacred rites ;  because the soul in this situation is about to  bid adieu to every thing of a celestial natui'e ;  to sink into a perfect obhvion of her divine  origin and pristine felicity ; and to rush pro-  foundly into the region of dissimilitude,!  ignorance, and error. And lastly, on the  ninth day, when the soul falls into the sub-  lunary world and becomes united with a ter-  restrial body, a hbation was performed, such  as is usual in sacred rites. Here the initiates,  filling two earthen vessels of broad and spa-  cious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,  plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the  former of these words denoting vessels of a  conical shape, and the latter small bowls or   * The Moon typified the mother of gods and men. The soul  descending into the lunar orb thus came near the scenes of earthly  existence, where the life which is transmitted by generation has  opportunity to involve it about.   t The condition most unlike the former divine estate.      Goddess Night.     Three Graces.     Bacchic Mysteries. 169   cups sacred to Bacchus, they placed one  towards the east, and the other towards the  west. And the first of these was doubtless,  according to the interpretation of Proclus,  sacred to the earth, and symbolical of the  soul proceeding from an orbicular figure, or  divine form, into a conical defluxion and ter-  rene situation : * but the other was sacred to  the soul, and symbolical of its celestial origin ;  since our intellect is the legitimate progeny  of Bacchus. And this too was occultly sig-  nified by the position of the earthen ves-  sels ; for, according to a mundane distribu-  tion of the divinities, the eastern center of  the universe, which is analogous to fire,  belongs to Jupiter, who likewise governs the  fixed and inerratic sphere ; and the western  to Pluto, who governs the earth, because  the west is allied to earth on account of  its dark and nocturnal nature. f   Again, according to Clemens Alexandri-  nus, the following confession was made by   * An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the  masculine divine Energy.  t Proclus: Theology of Plato, book vi. c. 10.     170 Eleusinian and   tlie new initiate in these sacred rites, in an-  swer to the interrogations of the Hierophant :  "I have fasted; I have drank the Cyceon;*  I have taken out of the Cista, and placed  what I have taken ont into the Calathns;  and alternately I have taken out of the Ca-  lathus and put into the Cista." Kcj^a-cc xo  a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa*   xtatY^v. But as this pertains to a circum-  stance attending the wanderings of Ceres,  which formed the most mystic and emblem-  atical part of the ceremonies, it is necessary  to adduce the following arcane narration,  summarily collected from the writings of  Arnobius : " The goddess Ceres, when search-  ing through the earth for her daughter, in the  course of her wanderings arrived at the  boundaries of Eleusis, in the Attic region, a  place which was then inhabited by a people  called Autochthones, or descended fi'om the   * Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of  sweet wine, but slie refused it ; but bade her to mix wheat and  water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she  gave it to the goddess."     Bacchic Mysteries. 171   earth, whose names were as follows : Baubo  and Triptolemus ; Dysaules, a goatherd ; Eu-  bulus, a keeper of swme ; and Eumolpus, a  shepherd, from whom the race of the Eumol-  pidse descended, and the illustrious name of  Cecropidse was derived ; and who afterward  flourished as bearers of the caduceus, hiero-  phants, and criers belonging to the sacred  rites. Baubo, therefore, who was of the  female sex, received Ceres, wearied with  complicated evils, as her guest, and endea-  vored to soothe her sorrows by obsequious  and flattering attendance. For this purpose  she entreated her to pay attention to the re-  freshment of her body, and placed before her  a mixed potion to assuage the vehemence of  her thirst. But the sorrowful goddess was  averse from her solicitations, and rejected the  friendly officiousness of the hospitable dame.  The matron, however, who was not easily re-  pulsed, still continued her entreaties, which  were as obstinately resisted by Ceres, who  persevered in her refusal with unshaken per-  sistency and invincible firmness. But when  Baubo had thus often exerted her endeavors  Bacchic Mysteries.   to appease the sorrows of Ceres, but without  any effect, she, at length, changed her arts,  and determined to try if she could not exhil-  arate, by prodigies (or out-of-the-way expe-  dients), a mind which she was not able to  allure by earnest endeavors. For this pur-  pose she uncovered that part of her body by  which the female sex produces children and  derives the appellation of woman.* This she  caused to assume a purer appearance, and a  smoothness such as is found in the private  parts of a stripling child. She then returns  to the afflicted goddess, and, in the midst of  those attempts which are usually employed  to alleviate distress, she uncovers herself,  and exhibits her secret parts ; upon which  the goddess fixed her eyes, and was diverted  with the novel method of mitigating the an-  guish of soiTow; and afterward, becoming  more cheerful through laughter, she assuages  her thirst with the mingled potion which she  had before despised." Thus far Arnobius ;  and the same narration is epitomized by  Clemens Alexandrinus, who is very indignant   * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin ciodiks.      Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.     Bacchic Mysteries. 175   at the indecency as he conceives, in the stoiy,  and because it composed the arcana of the  Eleusinian rites. Indeed as the simple father,  with the usual ignorance * of a Christian  priest, considered the fable literally, and as  designed to promote indecency and lust, we  can not wonder at his ill-timed abuse. But  the fact is, this narration belonged to the  aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane discourses, on  account of its mystical meaning, and to pre-  vent it from becoming the object of ignorant  declamation, licentious perversion, and im-  pious contempt. For the purity and excel-  lence of these institutions is perpetually  acknowledged even by Dr. Warburton him-  seK, who, in this instance, has dispersed, for a  moment, the mists of delusion and intolerant  zeaLf Besides, as lamblichus beautifully ob-  serves, t "exhibitions of this kind in the  Mysteries were designed to free us from hcen-   * Uneandidness was more probably the fault of which Clement  was guilty.   t Divine Legation of Moses, book ii.   I "The wisest and best men in the Pagan world are unanimous  in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed the  noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.   tioiis passions, by gratifying the sight, and  at the same time vanquisliing desire, through  the awful sanctity with which these rites  were accompanied : for," says he, " the proper  way of freeing ourselves from the passions is,  first, to indulge them mth moderation, by  which means they become satisfied ; hsten, as  it were, to persuasion, and may thus be en-  tirely removed."* This doctrine is indeed so  rational, that it can never be objected to by  any but quacks in philosophy and rehgion.  For as he is nothing more than a quack in  medicine who endeavors to remove a latent  bodily disease before he has called it forth  externally, and by this means diminished its  fuiy ; so he is nothing more than a pretender  in philosophy who attempts to remove the  passions by violent repression, instead of  moderate comphance and gentle persuasion.   But to return from this disgression, the fol-  lowing appears to be the secret meaning of  this mystic discourse : The matron Baubo  may be considered as a symbol of that pas-   * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians.     Bacchic Mysteries. 177   sive, womanish, and corporeal life tlirongh  whicli the soul becomes united with this  earthly body, and through which, being at  first ensnared, it descended, and, as it were,  was born into the world of generation, pass-  ing, by this means, from mature perfection,  splendor and reality, into infancy, darkness,  and error. Ceres, therefore, or the intel-  lectual soul, in the course of her wanderings,  that is, of her evolutions and goings-f orth into  matter, is at length captivated with the arts  of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her  sorrows, that is, imbibes oblivion of her  wretched state in the mingled potion which  she prepares : the mingled hquor being an  obvious symbol of such a life, mixed and im-  pure, and, on this account, liable to cor-  ruption and death ; since every thing pure  and unmixed is incorruptible and divine.  And here it is necessary to caution the  reader from imagining, that because, accord-  ing to the fable, the wanderings of Ceres  commence after the rape of Proserpina,  hence the intuitive intellect descends sub-  sequently to the soul, and separate from it. Eleusinimi and   Notliing more is meant by this circumstance  than that the diviner intellect, from the su-  perior excellence of its nature, has in cause,  though not in time, a priority to soul, and  that on this account a defection and revolt  (and descent earthward from the heavenly  condition) commences, from the soul, and  afterward takes place in the intellect, yet  so that the former descends with the latter  in inseparable attendance.   From this explanation, then, of the fable,  we may easily perceive the meaning of the  mystic confession, / have fasted; I have  drank a mingled potion, etc.; for by the  former part of the assertion, no more is  meant than that the higher intellect, previous  to imbibing of oblivion through the decep-  tive arts of a corporeal life, abstains from  all material concerns, and does not mingle  itself (as far as its nature is capable of such  abasement) with even the necessary delights  of the body. And as to the latter part, it  doubtless alludes to the descent of Proser-  pina to Hades, and her re-ascent to the     Bacchic Mysteries. 179   abodes of her mother Ceres : that is, to the  outgoing and return of the soul, alternately  falhng into generation, and ascending thence  into the intelhgible world, and becoming per-  fectly restored to her divine and intellec-  tual nature. For the Cista contained the  most arcane symbols of the Mysteries, into  which it was unlawful for the profane to  look : and whatever were its contents,* we  learn from the hymn of Callimachus to  Ceres, that they were formed from gold,  which, from its incorruptibihty, is an evi-  dent symbol of an immaterial nature. And  as to the Calathus, or basket, this, as we are  told by Claudian, was filled with spoliis agres-  tibus^ the spoils or fruits of the field, which are  manifest symbols of a life corporeal and  earthly. So that the candidate, by confess-  ing that he had taken from the Cista, and  placed what he had taken into the Calathus,   *A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt look-  ing upon these, was rapt with awe as contemplating in the»sym-  bols the deeper mysteries of all life, or being of a grosser temper,  took a lascivious impression. Thus as a seer, he beheld with the  eyes of sense or sentiment ; and the real apocalypse was therefore  that made to himself of his own moral life and character. — A. W.     180 Eleusinian and   and tlie contrary, occultly acknowledged the  descent of his soul from a condition of being  super-material and immortal, into one mate-  rial and mortal ; and that, on the contrary,  by hving according to the purity which the  Mysteries inculcated, he should re-ascend to  that perfection of his nature, from which he  had unhappily fallen.*   * "Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the  body, disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has  yet longings after that state of perfect knowledge, and purity, and  bliss, in which it was first created. Its affinities are still on high.  It yearns for a higher and nobler form of life. It essays to rise,  but its eye is darkened by sense, its wings are besmeared by pas-  sion and lust ; it is ' borne downward until it falls upon and  attaches itself to that which is material and sensual,' and it floun-  ders and grovels still amid the objects of sense. And now, Plato  asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,  the distempering influence of the body, and the disturbances of  passion, which becloud its vision of the real, the good, and the  true?"   " Plato believed and hoped that this could be accomplished by  philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline  for the purification of the soul. By this it was to be disenthralled  from the bondage of sense, and raised into the empyrean of pure  thought, 'where truth and reality shine forth.' All souls have the  faculty of knowing, but it is only by reflection and self-knowledge,  and intellectual discipline, that the soul can be raised to the  vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to the  vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy, x.  pp. 351-2.     Bacchic Mysteries. 181   It only now remains that we consider the  last part of this fabulous narration, or arcane  discourse. It is said, that after the goddess  Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered  her daughter, she instructed the Eleusinians  in the planting of corn : or, according to  Claudian, the search of Ceres for her daugh-  ter, through the goddess, instructing in the  art of tillage as she went, proved the occasion  of a universal benefit to mankind. Now the  secret meaning of this will be obvious, by  considering that the descent of the superior  intellect into the realms of generated exis-  tence becomes, indeed, the greatest benefit  and ornament which a material nature is  capable of receiving : for without this parti-  cipation of intellect in the lowest department  of corporeal life, nothing but the irrational  soul* and a brutal life would subsist in its  dark and fluctuating abode, the body. As the  art of tillage, therefore, and particularly the  growing of corn, becomes the greatest possi-   * " It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive  part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phe-  nomenal."     182 Elensinian and   ble benefit to our sensible life, no symbol can  more aptly represent the unparalleled ad-  vantages arising from the evolution and pro-  cession of intellect with its divine natui^e into  a corporeal life, than the good resulting from  agriculture and corn : for whatever of horrid  and dismal can be conceived in night, sup-  posing it to be perpetually destitute of the  friendly illuminations of the moon and stars,  such, and infinitely more dreadful, would be  the condition of an earthly nature, if de-  prived of the beneficent irradiations [irfio-  o5o J and supervening benefits of the diviner  hfe.   And this much for an explanation of the  Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres  and Proserpina ; in which it must be remem-  bered that as this fable, according to the  excellent observation of Sallust already ad-  duced, is of the mixed kind, though the  descent of the soul was doubtless principally  alluded to by these sacred rites, yet they  hkewise occultly signified, agreeable to the  nature of the fable, the descending of divinity     Bacchic Mysteries. 183   into the sublunary world. But when we  view the fable in this part of its meaning,  we must 'be careful not to confound the nature  of a partial inteUect like ours with the one uni-  versal and divine. As everything subsisting  about the gods is divine, therefore intellect  in the highest degree, and next to this soul,  and hence wanderings and abductions, lam-  entations and tears, can here only signify  the participations and providential opera-  tions of these in inferior natures ; and this  in such a manner as not to derogate from  the dignity, or impair the perfection, of the  divine principle thus imparted. I only add,  that the preceding exposition will enable  us to perceive the meaning and beauty of  the following representation of the rape of  Proserpina, from the Heliacan tables of Hi-  eronymus Aleander.* Here, first of all, we  behold Ceres in a car drawn by two drag-  ons, and afterwards, Diana and Minerva,  with an inverted calathus at their feet, and  pointing out to Ceres her daughter Proser-  pina, who is hurried away by Pluto in his   * KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page 227.     184 Meusinian and   car, and is in the attitude of one struggling  to be free. Hercules is likewise represented  with his club, in the attitude of opposing the  violence of Pluto : and last of all, Jupiter is  represented extending his hand, as if wilhng  to assist Proserpina in escaping from the  embraces of Pluto. I shall therefore con-  clude this section with the following remark-  able passage from Plutarch, which will not  only confirm, but be itself corroborated by  the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ Tza-  Xata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa-   Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj-  Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX-  Xoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov  UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc Opcpt-  Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ  XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt-  aa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ  cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $ia-  voirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both   * Plutarch : Euseh.   i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of Nature.     Bacchic Mysteries. 185   of the Greeks and the Barbarians^ was noth-  ing else than a discoiu'se on natiu^al subjects,  involved or veiled in fables, conceahng many  things through enigmas and under -meanings,  and also a theology taught, in which, after  the manner of the Mysteries,* the things  spoken were clearer to the multitude than  those dehvered in silence, and the things  delivered in silence were more subject to  investigation than what was spoken. This  is manifest from the Orphic verses^ and the  Egyptian and Phrygian discourses. But the  orgies of initiations^ and the sumbolical cere-  monies of sacred rites especiallij, exhibit the  understanding had of them by the ancients,''''   * MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like.      A.IB^     Psyche Asleep in Hades.      River Gortrtesses.     O. SECTION 11. 4:::?   THE Dionysiacal sacred rites instituted  by Orpheus,* depended on the follow-  ing arcane narration, part of which has been  already related in the preceding section,  and the rest may be found in a variety of  authors. "Dionysus, or Bacchus [Zagreus],  while he was yet a boy, w^s engaged by the  Titans, through the stratagems of Juno, in a  variety of sports, with which that period of   * Whethei' Orpheus was an actual living person has been ques-  tioned by Aristotle ; but Herodotus, Pindar, and other writers,  mention him. Although the Orphic system is asserted to have  come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that it  was derived from India, and that its basis is the Buddhistic phi-  losophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, con-  trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the  popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs.  The name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of  Hindu story. His visit to the chamber of Kore-Persephoneia  (Parasu-pani) in the form of a dragon or na(ja, and the horns or  crescent on the head of the child, are Tartar or Buddhistic. The   187     188 Eleusinian and   life is so vehemently allured ; and among  the rest, he was particularly captivated with  beholding his image in a mirror ; during his  admiration of which, he was miserably torn  in pieces by the Titans; who, not content  with this cruelty, first boiled his members in  water, and afterwards roasted them by the  fire. But while they were tasting his flesh  thus dressed, Jupiter, roused by the odor,  and perceiving the cruelty of the deed,  hurled his thunder at the Titans ; but com-  mitted the members of Bacchus to Apollo,  his brother, that they might be properly in-  terred. And this being performed, Diony-  sus (whose heart during his laceration was  snatched away by Pallas and preserved), by  a new regeneration again emerged, and  being restored to his pristine life and integ-   name Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The  Hera who compassed his death is Aira, the wife of Buddha ; and  the Titans are the Daityas, or apostate tribes of India. The doc-  trine of metempsychosis is expressed by the swallowing of the heart  of the murdered child, so as to reabsorb his soul, and bring him  anew into existence as the son of Semele. Indeed, all the stories  of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a part  of the serpent worship of the ancients. The evidence appears to  us unequivocal. A. W.     Bacchic Mysteries. 189   rity, he afterwards filled up the number of  the gods. But m the mean time, from the  exhalations arising from the ashes of the  burning bodies of the Titans, mankind were  produced." Now, in order to understand  properly the secret of this naiTation, it is  necessary to repeat the observation already  made in the preceding chapter, "that all  fables belonging to mystic ceremonies are  of the mixed kind " : and consequently the  present fable, as well as that of Proserpina,  must in one part have reference to the gods,  and in the other to the human soul, as the  following exposition will abundantly evince :   In the first place, then, by Dionysus, or  Bacchus, according to the highest concep-  tion of this deity, we understand the spiritual  part of the mundane soul ; for there are  Various processions or avatars of this god,  or Bacchuses, derived from his essence. But  by the Titans we must understand the mun-  dane gods, of whom Bacchus is the highest ;  by Jupiter, the Demiurgus,* or artificer of   * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the god of  providence, thought, essence, and power. Above him was the     190 Eleusinian and   the universe ; by Apollo, the deity of the  Sun, who has both a mundane and super-  mundane establishment, and by whom the  universe is bound in symmetry and consent,  through splendid reasons and harmonizing  power ; and, lastly, by Minerva we must un-  derstand that original, intellectual, ruhng,  and providential deity, who guards and pre-  serves all middle lives* in an immutable  condition, through intelhgence and a self-  supporting life, and by this means sustains  them from the depredations and inroads  of matter. Again, by the infancy of Bac-  chus at the period of his laceration, the  condition of the intellectual natui^e is im-  phed; since, according to the Orphic theol-  ogy, souls, under the government of Saturn,  or Kronos, who is pure intellect or spiritual-  ity, instead of proceeding, as now, from youth  to age, advance in a retrograde progression  from age to youth.t The arts employed by   deity of " pure intellect," aud still higher The One. These three  were the hypostases.   * Lives which are not conjoined with material bodies, nor yet  elevated to the lofty state which is the true divine condition.   t Emanuel Swedenborg says: "They who are in heaven are     Bacchic Mysteries. 191   the Titans, in order to ensnare Dionysus, are  symbolical of those apparent and divisible  operations of the mundane gods, through  which the participated intellect of Bacchus  becomes, as it were, torn in pieces ; and by  the mirror we must understand, in the lan-  guage of Proclus, the inaptitude of the uni-  verse to receive the plenitude of intellectual  or spiritual perfection ; but the symbolical  meaning of his laceration, through the strat-  agems of Juno, and the consequent punish-  ment of the Titans, is thus beautifully  unfolded by Olympiodorus, in his manuscript  Commentary on the PJi(edo of Plato : " The  form," says he, " of that which is universal is  plucked off, torn in pieces, and scattered into  generation ; and Dionysus is the monad of  the Titans. But his laceration is said to  take place through the stratagems of Juno,   continually advancing to the spring of life, and the more thou-  sands of years they live, so much the more delightful and happy is  the spring to which they attain, and this to eternity with increments  according to the progresses and degrees of love, of charity, and of  faith. Women who have died old and worn out with age, yet have  lived in faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in  happy conjugal love with a husband, after a succession of years,  come more and more into the flower of youth and adolescence."     192 Eleusinian and   because this goddess is the supervising  guardian of motion and progression ; * and  on this account, in the Iliad, she perpetually  rouses and excites Jupiter to providential  action about secondary concerns ; and, in  another respect, Dionysus is the epJiof^us or  supervising guardian of generation, because  he presides over life and death ; for he is the  guardian or epliorus of life because of genera-  tion, and also of death because wine produces  an enthusiastic condition. We become more  enthusiastic at the period of dying, as Proc-  lus indicates in the example of Homer who  became prophetic [[xavxcxoc] at the time of his  death.f They likewise assert, that tragedy  and comedy are assigned to Dionysus : com-  edy being the play or ludicrous representation  of life ; and tragedy having relation to the   'By progression [7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or  issuing forth of the soul ; having left the divine or pre -existent  life, and come forth toward the human.   t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to  cross the river, the divine and wonted signal was given me — it  always deters me from what I am about to do — and I seemed to  hear a voice from this very spot, which would not suffer me to  depart before I had purified myself, as if I had committed some     Bacchic Mysteries. 193   passions and death. The comic writers,  therefore, do not rightly call in question the  tragedians as not rightly representing Bac-  chus, saying that such things did not happen  to Bacchus. But Jupiter is said to have  hurled his thunder at the Titans ; the thun-  der signifying a conversion or changing : for  fire naturally ascends ; and hence Jupiter,  by this means, converts the Titans to his  own essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo  si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-   aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i-   vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru  aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai   OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV.   Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,  5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap  srpopG?, STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s  5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt xyjv  TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;   offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very  good one : for the soul is in some measure prophetic."  See also Shakspere : Henry IV. part 1.   " Oh I could prophesy,  But that the earthy and cold hand of death  Lies on my tongue."     194 Eleiisinian and   StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys-   T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav to'j [3tov  TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j-  I'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi?  syxaXoaacv, (o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov  Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov. Kspau-   VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05   X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol'  S'lriatpsrpsL O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by  the members of Dionysus being first boiled  in water by the Titans, and afterward roasted  by the fire, the outgoing or distribution of  intellect into matter, and its subsequent re-  turning from thence, is evidently implied:  for water was considered by the Egyptians,  as we have ah*eady observed, as the symbol  of matter ; and fire is the natural symbol of  ascending. The heart of Dionysus too, is,  with the greatest propriety, said to be pre-  served by Minerva ; for this goddess is the  guardian of hfe, of which the heart is a sym-  bol. So that this part of the fable plainly  signifies, that while intellectual or spiritual     Bacchic Mysteries. 195   life is distributed into the universe, its prin-  ciple is preserved entire by the guardian  power and providence of the Divine intel-  ligence. And as Apollo is the source of all  union and harmony, and as he is called by  Proclus, " the key-keeper of the fountain of  life," * the reason is obvious why the mem-  bers of Dionysus, which were buried by this  deity, again emerged by a new generation,  and were restored to their pristine integrity  and life. But let it here be carefidly ob-  served, that renovation, when apphed to the  gods, is to be considered as secretly implying  the rising of their proper hght, and its con-  sequent appearance to subordinate natures.  And that punishment, when considered as  taking place about beings of a nature superior  to mankind, signifies nothing more than a  secondary providence over such beings which  is of a punishing character, and which sub-  sists about souls that deteriorate. Hence,  then, from what has been said, we may  easily collect the ultimate design of the first  part of this mystic fable ; for it appears to be   * Hymn to the Sun.     196 Bacchic Mysteries.   no other than to represent the manner in  which the form of the mundane intellect is  divided through the universe ; — that such an  intellect (and every one which is total) re-  mains entire during its division into parts,  and that the divided parts themselves are  continually turned again to their source,  with which they become finally united. So  that illumination from the liigher reason,  while it proceeds into the dark and rebound-  ing receptacle of matter, and invests its ob-  scurity with the supervening ornaments of  divine light, returns at the same time with-  out interruption to the source or principle  of its descent.   Let us now consider the latter part of the  fable, in which it is said that our souls were  formed from the vapors emanating from the  ashes of the burning bodies of the Titans;  at the same time connecting it with the  former part of the fable, which is also appli-  cable in a certain degree to the condition of  a partial intellect * hke ours. In the first   * Partial, as being parted from the Supreme Mind.      Etruscan Kleusiuiaus.     Bacchic Mysteries. 199   place, then, we are made up from frag-  ments (says Olympiodorus), because, through  faUing into generation, our hf e has proceeded  into the most distant and extreme division ;  and from Titanic fragments^ because the  Titans are the ultimate artificers of things,*  and stand immediately next to whatever is  constituted from them. But further, our  irrational life is Titanic, by which the rational  and higher life is torn in pieces. Hence,  when we disperse the Dionysus, or intuitive  intellect contained in the secret recesses of  our nature, breaking in pieces the kindred  and divine form of our essence, and which  communicates, as it were, both with things  subordinate and supreme, then we become  Titans (or apostates) ; but when we establish  ourselves in union with this Dionysiacal or  kindred form, then we become Bacchuses, or  perfect guardians and keepers of our irra-  tional life : for Dionysus, whom in this re-  spect we resemble, is himself an epJiorus or   * The Demiurge or Creator being superior to matter in which  is concupiscence and all evil, the Titans who are not thus superior  are made the actual artificers.     200 Meusinian and   guardian deity, dissolving at his pleasure the  bonds by which the soul is united to the  body, since he is the cause of a parted hfe.  But it is necessary that the passive or femi-  nine nature of our UTational part, through  which we are bound in body, and which is  nothing more than the resounding echo, as it  were, of soul, should suffer the punishment  incurred by descent ; for when the soul casts  aside the [divine] peculiarity of her nature,  she requires her own, but at the same time a  multiform body, that she may again become  in need of a common form, which she has  lost through Titanic dispersion into matter.   But in order to see the perfect resem-  blance between the manner in which our  souls descend and the dividing of the intui-  tive intellect by mundane natures, let the  reader attend to the following admirable  citation from the manuscript Commentary  of Olympiodorus on the Phcedo of Plato :  "It is necessary, first of all, for the soul to  place a hkeness of herself in the body. This  is to ensoul the body. Secondly, it is neces-     Baccliic Mysteries. 201   sary for her to sympathize with the image, as  being of hke idea. For every external form  or substance is wrought into an identity with  its interior substance, through an ingenerated  tendency thereto. In the third place, being  situated in a divided nature, it is necessary  that she should be torn in pieces, and fall  into a last separation, till, through the action  of a life of puiification, she shall raise herself  from the dispersion, loose the bond of sym-  pathy, and act as of herself without the  external image, having become established  according to the first-created life. The like  things are fabled in the example. For Dio-  nysus or Bacchus because his image was  formed in a mirror, pursued it, and thus  became distributed into everything. But  Apollo collected him and brought him up ;  being a deity of puiification, and the true  savior of Dionysus ; and on this account he  is styled in the sacred hymns, Dionusites."   sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yyco-  oai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o-  Xcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust-     202 Eleusinian and   xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco?  av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv  eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa-  jj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso  xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV  C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp  Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco-  Xov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac  ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aov-  aystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc (ov  ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?.  Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence,  as the same author beautifully observes, the  soul revolves according to a mystic and  mundane revolution : for flying from an in-  divisible and Dionysiacal hfe, and operating  according to a Titanic and revolting energy,  she becomes bound in the body as in a prison.  Hence, too, she abides in punishment and  takes care of her partial and secondary  concerns; and being purified from Titanic  defilements, and collected into one, she be-     Bacchic Mysteries. 203   comes a Bacchus ; that is, she passes into the  proper integrity of her nature according to  the divine principle ruhng on high. From all  which it evidently fohows, that he who hves  Dionysiacally rests from labors and is freed  from his bonds ; * that he leaves his prison,  or rather his apostatizing life ; and that he  who does this is a philosopher purifying him-  seK from the contaminations of his earthly  life. But farther fi'om this account of Dio-  nysus, we may perceive the truth of Plato's  observation, " that the design of the Myste-  ries is to lead us back to the perfection from  which, as our beginning, we first made our de-  scent." For in this perfection Dionysus him-  self subsists, establishing perfect souls in  the throne of his father ; that is, in the in-  tegrity of a life according to Jupiter. So  that he who is perfect necessarily resides  with the gods, according to the design of  those deities, who are the sources of con-  summate perfection to the soul. And lastly,   *"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts  which God communicates ; but when God communicates himself,  then we can be only passive — we repose, we enjoy, but all opera-  tion ceases."     204 Bacchic Mysteries.   the Thyrsus itself, which was used in the  Bacchic procession, as it was a reed full of  knots, is an apt symbol of the diffusion of the  higher nature into the sensible world. And  agreeable to this, Olympiodorus on the Pluedo  observes, " that the Thyrsus * is a symbol of  a forming anew of the material and parted  substance from its scattered condition ; and  that on this account it is a Titanic plant.  This it was customary to extend before Bac-  chus instead of his paternal scepter; and  through this they called him down into our  partial nature. Indeed, the Titans are Thyr-  sus-bearers ; and Prometheus concealed fire  in a Thyi'sus or reed ; after which he is con-  sidered as bringing celestial light into genera-  tion, or leading the soul into the body, or  calling forth the divine illumination, the  whole being ungenerated, into generated ex-  istence. Hence Socrates calls the multitude  Thyrsus-bearers Orphically, as hving accord-  ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov  ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta   * The word thyrsus, it will be seen, is here translated from  vapd'Yj^, a rod or ferula.     Bacchic Mysteries. 207   TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at  Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp  Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj.  Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov.  Kat {isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g   ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO   oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs  xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav  £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvs-  atv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -co-  y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op-  cpt7,(oc, co^ C^'^vxac Ttxry.vcy.(oc.   And thus much for the secret meaning  of the fable, which formed a principal part of  these mystic rites. Let us now proceed to  consider the signification of the symbols,  which, according to Clemens Alexandrinus,  belonged to the Bacchic ceremonies ; and  which are comprehended in the following-  Orphic verses :   M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov.   That is,   A wheel, a pine-nut, and the wanton plays,  Which move and bend the limbs in various ways :     208 Eleusinian and   With these th' Hesperian golden-fruit combine,  Which beauteous nymphs defend of voice divine.   To all which Clemens adds saoTU'pov, esop-  troii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool,  and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone.  In the first place, then, wdth respect to the  wheel, since Dionysus, as we have already  explained, is the mimdane intellect, and in-  tellect is of an elevating and convertive na-  ture, nothing can be a more apt symbol of  intellectual action than a w^heel or sphere :  besides, as the laceration and dismemberment  of Dionysus signifies the going-forth of in-  tellectual illumination into matter, and its  returning at the same time to its source, this  too will be aptly symbolized by a wheel. In  the second place, a pine-nut, from its conical  shape, is a perspicuous symbol of the manner  in which intellectual or spiritual illmnination  proceeds from its source and beginning into  a material nature. " For the soul," says Ma-  crobius,* "proceeding from a round figure,  which is the only divine form, is extended  into the form of a cone in going forth."   * In Somnid Scijnonis, xii.     Bacchic Mysteries. 209   And the same is true sjrmbolically of the  higher intellect. And as to the wanton  sports which bend the limbs, this evidently  alludes to the Titanic arts, by which Dionysus  was allured, and occultly signifies the facul-  ties of the mundane intellect, considered as  subsisting according to an apparent and  divisible condition. But the Hesperian  golden-apples signify the pure and incorrupt-  ible nature of that intellect or Dionysus, which  is possessed by the world ; for a golden-apple,  according to Sallust, is a symbol of the world ;  and this doubtless, both on account of its ex-  ternal figui'e, and the incorruptible intellect  which it contains, and with the illuminations  of which it is externally adorned ; since gold,  on account of never being subject to rust, aptly  denotes an incorruptible and immaterial na-  ture. The mirror, which is the next symbol,  we have already explained. And as to the  fleece of wool, this is a symbol of laceration,  or distri])ution of intellect, or Dionysus, into  matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy  diJanio, which is used in the relation of the  Bacchic discerption, signifies to tear in pieces     210 Bacchic Mysteries.   like wool : and hence Isidoinis derives the  Latin word laua, wool, from Janiando, as  velliis from vellendo. Nor must it pass un-  observed, that Xq^jz^ in Greek, signifies wool,  and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the  pressing of grapes is as evident a symbol of  dispersion as the tearing of wool; and this  circumstance was doubtless one principal  reason why grapes were consecrated to Bac-  chus : for a grape, previous to its pressure,  aptly represents that which is collected into  one ; and when it is pressed into juice, it no  less aptly represents the diffusion of that  which was before collected and entu'e. And  lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe-  hone, as it is principally subser\dent to the  progressive motion of animals, so it belongs,  with great propriety, to the mystic symbols  of Bacchus; since it doubtless signifies the  going forth of that deity into the department  of physical existence : for nature, or that  divisible life which subsists about the body,   * The practice of punning, so common in all the old rites, is  here forcibly exhibited. It aided to conceal the symbolism and  mislead uninitiated persons who might seek to ascertain the  genuine meaning.         i\v>'- .../Mm      Hercules Reclining.     Bacchic Mysteries. 213   and whicli is productive of seeds, imme-  diately depends on Bacchus. And hence we  are informed by Proclus, that the sexual parts  of this god are denominated by theologists,  Diana, who, says he, presides over the whole  of the generation into natural existence,  leads forth into light all natural reasons, and  extends a prolific power from on high even  to the subterranean reahns.* And hence we  may perceive the reason why, in the Orphic  Hjjmn to Nature, that goddess is described as  " turning round silent traces with the ankle-  bones of her feet. ^^   And it is highly worthy our observation that  in this verse of the hymn Nature is cele-  brated as Fortune, according to that descrip-  tion of the goddess in which she is repre-  sented as standing with her feet on a wheel  which she continually turns round ; as the  following verse from the same hymn abun-  dantly confirms :   Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa..  * Commentary upon the Timceus.     214 Meusinian and   The sense of which is, "moving with rapid  motion on an eternal wheel." Nor ought it  to seem wonderful that Nature should he  celebrated as Fortune; for Fortune in the  Orphic h}Tnn to that deity is invoked as  Diana : and the moon, as we have observed  in the preceding section, is the aoro'iriov  ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of  Nature ; and indeed the apparent incon-  stancy of Fortune has an evident agreement  with the fluctuating condition in which the  dominions of nature are perpetually involved.  It only now remains that we explain the  secret meaning of the sacred dress with  which the initiated in the Dionysiacal Myste-  ries were invested, in order to the GpovLajxo^  (fhromsmoSy enthroning) taking place ; or  sitting in a solemn manner on a throne,  about which it was customary for the other  initiates to dance. But the particulars of  this habit are thus described in the Orphic  verses preserved by Macrobius : *   Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q.  * Satunialia, i. 18.     Bacchic Mysteries. 215   flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov «xTtvsaa:v   IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov a^cp-paAEO^oc-.   ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu xa*«-|a'.   ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,   Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o.   Eka r 6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at   n«;A'favoaiVTa irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia   Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv Tac-r]? (paja-wv avopouaiov   Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov Oxsavow,   Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa   Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov,   Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v   <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.   That is,   He who desires in pomp of sacred dress   The sun's resplendent body to express,   Should first a vail assume of purple bright,   Like fair white beams combin'd with fiery light :   On his right shoulder, next, a mule's broad hide   Widely diversified with spotted pride   Should hang, an image of the pole divine,   And dfBdal stars, whose orbs eternal shine.   A golden splendid zone, then, o'er the vest   He next should throw, and bind it round his breast;   In mighty token, how with golden light.   The rising sun, from earth's last bounds and night   Sudden emerges, and, with matchless force,   Darts through old Ocean's billows in his course.   A boundless splendor hence, enshrin'd in dew,   Plays on his whirlpools, glorious to the view ;   While his circumfluent waters spread abroad,   Full in the presence of the radiant god :     216 Eleusinian and   But Ocean's circle, like a zone of light,   The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.   lu the first place, then, let us consider  why this mystic dress belonging to Bacchus  is to represent the sun. Now the reason of  this will be evident from the following ob-  servations : according to the Orphic theol-  ogy, the divine intellect of every planet is  denominated a Bacchus, who is characterized  in each by a different appellation; so that  the intellect of the solar deity is called Trie-  tericus Bacchus. And in the second place,  since the divinity of the sun, according to  the arcana of the ancient theology, has a  super-mundane as well as mundane establish-  ment, and is wholly of an exalting or intel-  lectual nature ; hence considered as super-  mundane he must both produce and contain  the mundane intellect, or Dionysus, in his  essence ; for all the mimdane are contained  in the super-mundane deities, by whom also  they are produced. Hence Proclus, in his  elegant Hijmn to the Sun, says :     Bacchic Mysteries. 217   That is, " they celebrate thee in hymns as the  illustrious parent of Dionysus." And thirdly,  it is through the subsistence of Dionysus in  the sun that that luminary derives its circular  motion, as is evident from the following Or-  phic verse, in which, speaking of the sun, it  is said of him, that     " He is called Dionysus, because he is carried  with a circular motion through the immense-  ly-extended heavens." And this with the  greatest propriety, since intellect, as we have  already observed, is entirely of a transforming  and elevating nature : so that from all this, it  is sufficiently evident why the dress of Diony-  sus is represented as belonging to the sun.  In the second place, the vail, resembling a  mixture of fiery light, is an obvious image of  the solar fire. And as to the spotted mule-  skin,* which is to represent the starry heav-  ens, this is nothing more than an image of   * Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one  at the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.  In India the robe of Indra is spotted.     218 Bacchic Mysteries.   tlie moon ; tMs luminary, according to Proc-  lus on Hesiod, resembling the mixed nature  of a mule ; " becoming dark through her par-  ticipation of earth, and deriving her proper  light from the sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o-   So that the spotted hide signifies the moon  attended with a multitude of stars : and  hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon, that  deity is celebrated "as shining surrounded  with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppy-  ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as-  trarche, or " queen of the starsy   In the next place, the golden zone is the  circle of the Ocean, as the last verses plainly  evince. But, you will ask, what has the  rising of the sun through the ocean, from the  boundaries of earth and night, to do with the  adventures of Bacchus ? I answer, that it is  inpossible to devise a symbol more beauti-  fully accommodated to the purpose : for, in  the first place, is not the ocean a proper  emblem of an earthly nature, whirling and     Bacchic Mysteries. 221   stormy, and perpetually rolling without ad-  mitting any periods of repose ? And is not  the sun emerging from its boisterous deeps a  perspicuous symbol of the higher spiritual  nature, apparently rising from the dark and  fluctuating material receptacle, and confer-  ring form and beauty on the sensible uni-  verse through its light ? I say apparently  rising, for though the spiritual nature always  diffuses its splendor with invariable energy,  yet it is not always perceived by the subjects  of its illuminations : besides, as psychical na-  tures can only receive partially and at inter-  vals the benefits of the divine irradiation ;  hence fables regarding this temporal partici-  pation transfer, for the purpose of conceal-  ment and in conformity to the phenomena,  the imperfection of subordinate natures to  such as are supreme. This description, there-  fore, of the rising sun, is a most beautiful  symbol of the new birth of Bacchus, which,  as we have already observed, implies nothing  more than the rising of intellectual light, and  its consequent manifestation to subordinate  orders of existence.     222 Eleusinian and   And thus much for the mysteries of Bac-  chus, which, as well as those of Ceres, relate  in one part to the descent of a partial in-  tellect into matter, and its condition while  united with the dark tenement of the body :  but there appears to be this difference be-  tween the two, that in the fable of Ceres and  Proserpine the descent of the whole rational  soul is considered ; and in that of Bacchus  the scattering and going forth of tliat su-  preme part alone of our nature which we  properly characterize hy the appellation of.  intellect* In the composition of each we  may discern the same traces of exalted wis-  dom and recondite theology; of a theology  the most venerable for its antiquity, and the  most admirable for its excellence and reahtyo   I shall conclude this treatise by presenting  the reader with a valuable and most elegant  hymn of Proclusf to Minerva, which I have   * Greek, wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the  mind that apprehends the Ineffable Truth.   t That the following hymn was composed by Proclus, can not  be doubted by any one who is conversant with those already ex-  tant of this incomparable man, since the spirit and manner in  both is perfectly the same.     Bacchic Mysteries. 223   discovered in the British Museum ; and the  existence of which appears to have been  hitherto utterly unknown. This hymn is to  be found among the Harleian Manuscripts,  in a volume containing several of the OrpJiic  liymns^ with which, through the ignorance of  transcriber, it is indiscriminately ranked, as  well as the other four hymns of Proclus,  already printed in the Bihliotlieca Grmca of  Fabricius. Unfortunately too, it is tran-  scribed in a character so obscure, and with  such great inaccuracy, that, notwithstanding  the pains I have taken to restore the text  to its original purity, I have been obUged to  omit two hues, and part of a third, as beyond  my abilities to read or amend ; however, the  greatest, and doubtless the most important  part, is fortunately intelhgible, which I now  present to the reader's inspection, accompa-  nied with some corrections, and an Enghsh  paraphrased translation. The original is  highly elegant and pious, and contains one  mythological particular, which is no where  else to be found. It has likewise an evident  connection with the preceding fable of Bac-     224 EJeusinian and   chus, as will be obvious from the perusal;  and on tins account principally it was in-  serted in the present discoui'se.   Ek aohnan.   KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(;   IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa?  Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,*  KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia i)'U^uj   'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,] TTuXjUlVa;;.   Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya (p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^*  '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J rjyrj.v.xo^  Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou  l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa  Ocppa VEOi; ^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?,  Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov avY]^f]av] Alovuooo?.  'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va %apv]va  Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv  'H v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov  H jjioxov v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c,  Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t ^aXXouaa*   'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.   So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?'   * Lege oPptjULOTraxpT),  t Lege f)joaj,3Eia?.  t Lege a|j.oax'. Xuxoo.  § Lege tceXexu?.  II Lege Op;jL-r]v.     BaccJiic Mysteries. 225   'H x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa? p-^Xoiv.   K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa Trpoatouou-  Ao? OS ;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav.  Ao? -]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv  Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc- ,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi,  Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio xoXttojv  A'^spv-r] ,rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o,  Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.   IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f   Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot,   KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr   KsxXofl-: xjxXoO-- xa: ;xol iitCu^yiv 00a? 6tox£C.   TO MINEEVA.   Daughter of aegis-bearing Jove, divine,   Propitious to thy votaries' prayer incline ;   From thy great father's fount supremely bright,   Like fire resounding, leaping into light.   Shield-bearing goddess, hear, to whom belong   A manly mind, and power to tame the strong!   Oh, sprung from matchless might, with joyful mind   Accept this hymn ; benevolent and kind !   The holy gates of wisdom, by thy hand   Are wide unfolded ; and the daring band   Of earth-born giants, that in impious fight   Strove with thy fire, were vanquished by thy might.   Once by thy care, as sacred poets sing.   The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king,   * Lege a|xirXaxY]|ULa.  t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^.     226 Eleusinian and   Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,   Tlie Titans fell against his life conspired ;   And with relentless rage and thirst for gore,   Their hands his members into fragments tore :   But ever watchful of thy father's will,   Thy power preserv'd him from succeeding ill.   Till from the secret counsels of his fire,   And born from Semele through heavenly sire,   Great Dionysus to the world at length   Again appeared with renovated strength.   Once, too, thy warlike ax, with matchless sway,   Lopped from their savage necks the heads away   Of furious beasts, and thus the pests destroyed   Which long all-seeing Hecate annoyed.   By thee benevolent great Juno's might   Was roused, to furnish mortals with delight.   And thro' life's wide and various range, 't is thine   Each part to beautify with art divine :   Invigorated hence by thee, we find   A demiurgic impulse in the mind.   Towers proudly raised, and for protection strong.   To thee, dread guardian deity, belong.   As proper symbols of th' exalted height   Thy series claims amidst the courts of light.   Lands are beloved by thee, to learning prone.   And Athens, Oh Athena, is thy own !   Great goddess, hear! and on my dark'ned mind   Pour thy pure light in measure unconfined ; —   That sacred light, Oh all-protecting queen.   Which beams eternal from thy face serene.   My soul, while wand'ring on the earth, inspire   With thy own blessed and impulsive fire :   And from thy fables, mystic and divine.   Give all her powers with holy light to shine.     Bacchic Mysteries. 227   Give love, give wisdom, and a power to love,  Incessant tending to the realms above ;  Such as unconscious of base earth's control  Gently attracts the vice-subduing soul :  From night's dark region aids her to retire,  And once moi'e gain the palace of her sire.  O all-propitious to my prayer incline !  Nor let those horrid punishments be mine  Which guilty souls in Tartarus confine,  With fetters fast'ned to its brazen floors.  And lock'd by hell's tremendous iron doors.  Hear me, and save (for power is all thine own)  A soul desirous to be thine alone.*   It is very remarkable in this hymn, that  the exploits of Minerva relative to cutting  off the heads of wild beasts with an ax, etc.,  is mentioned by no writer whatever; nor  can I find the least trace of a circumstance  either in the history of Minerva or Hecate  to which it alludes.f And from hence, I   * If I should ever be able to publish a second edition of my  translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a translation  of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant ; but  which are nothing more than the wreck of a great multitude which  he composed.   t If Mr. Taylor had been conversant with Hindu literature, he  would have perceived that these exploits of Minerva-Athene were  taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani. The whole  Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and Buddhistic  legends into a Grecian dress. — ^A. W.     228     Bacchic Mysteries.     think, we may reasonably conclude that it  belonged to the arcane Orphic narrations  concerning these goddesses, which were con-  sequently but rarely mentioned, and this but  by a few, whose works, which might afford  us some clearer information, are unfortu-  nately lost.      Musical Couference.      Venus Kisiiig troni the Sea.     APPENDIX.     SINCE writing the above Dissertation, I  have met with a curious Greek manu-  script entitled: "Of Psellus, Concerning  DcBmons^* according to the opinion of the  GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov  So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which  he describes the machinery of the Eleusinian  Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo-  T(ov, oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov  OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/j-  x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]  xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot  sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat  iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs-   * Daemons, divinities, spirits ; a term formerly applied to all  rational beings, good or bad, other than mortals.   229     230 Appendix,   (ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj  6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl-  Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fo-  p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov  siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?.   Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt-  {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp   TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to)  x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou.  Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc,  y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa-   CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at   zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov  yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£-  poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc  (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat  6 yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v  ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v  x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries  of these demons, such as the Eleusinia, con-  sisted in representing the mythical narra-  tion of Jupiter mingling mth Ceres and her  daughter Proserpina (Phersephatte). But as     Appendix. 231   venereal connections are in the initiation,* a  Venus is represented rising from the sea, from  certain moving sexual parts : afterwards the  celebrated marriage of Proserpina (with  Pluto) takes place ; and those who are  initiated sing :   " 'Out of the drum I have eaten,  Out of the cymbal I have drank,  The mystic vase I have sustained,  The bed I have entered.'   The pregnant throes likewise of Ceres [Deo]  are represented : hence the supphcations of  Deo are exhibited; the drinking of bile,  and the heart-aches. After this, an effigy  with the thighs of a goat makes its appear-  ance, which is represented as suffering vehe-  mently about the testicles : because Jupiter,  as if to expiate the violence which he had  offered to Ceres, is represented as cutting off  the testicles of a goat, and placing them on  her bosom, as if they were his own. But  after all this, the rites of Bacchus suc-  ceed; the Cista, and the cakes with many  bosses, Uke those of a shield. Likewise the   * /. e. a representation of them.     232 Appendix.   mysteries of Sabazius, divinations, and the  mimalons or Bacchants ; a certain sound of  the Thesprotian bason ; the Dodonsean brass ;  another Corybas, and another Proserpina, —  representations of Demons. After these suc-  ceed the uncovering of the thighs of Baubo,  and a woman's comb (lie is), for thus, through  a sense of shame, they denominate the sexual  parts of a woman. And thus, with scanda-  lous exhibitions, they finish the initiation."   From this curious passage, it appears that  the Eleusinian Mysteries comprehended those  of almost all the gods ; and this account will  not only throw hght on the relation of the  Mysteries given by Clemens Alexandidnus,  but likewise be elucidated by it in several  particulars. I would willingly unfold to the  reader the mystic meaning of the whole of  this machinery, but this can not be accom-  phshed by any one, without at least the pos-  session of all the Platonic manuscripts which  are extant. This acquisition, which I would  infinitely prize above the wealth of the In-  dies, will, I hope, speedily and fortunately     k'^■      Jupiter disguised as Diana, and Calisto.     ~-_ ;^ ^ C\r I           ■■■■ mt^         Hercules, Deianeira and Nessus.     Appendix. 235   be mine, and then I shall be no less anxious  to communicate this arcane infoiTQation,  than the liberal reader will be to receive it.  I shall only therefore observe, that the mu-  tual communication of energies among the  gods was called by ancient theologists c'spo^  yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage ;  concerning which Proclus, in the second  book of his manuscript Commentary on the  Parmenides, admirably remarks as follows:   TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ GO-   Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat  Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpo-  voo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ  xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj-  Tpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov  xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?  Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af  irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi;  xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa.  Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£-   XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V   dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time  considered this communion of the gods in  divinities co-ordinate with each other ; and     236 Appendix.   then tliey called it the mamage of Jupiter  and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and  Gre], of Saturn and Rhea : but at another  time, they considered it as svibsisting be-  tween subordinate and superior divinities;  and then they called it the marriage of Jupi-  ter and Ceres ; but at another time, on the  contrary, they beheld it as subsisting be-  tween superior and subordinate divinities;  and then they called it the marriage of Jupi-  ter and Kore. For in the gods there is one  kind of communion between such as are of  a co-ordinate nature ; another between the  subordinate and supreme ; and another again  between the supreme and subordinate. And  it is necessary to understand the peculiarity  of each, and to transfer a conjunction of this  kind froin the gods to the communion of  ideas with each other." And in Tim (mis ^  book i., he observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple   /. e. '' And that the same goddess is conjoined  with other gods, or the same god with many  goddesses, may be collected fi'om the mystic     Appendix.     237     discourses, and those marriages which are  called in the Mysteries Sacred Marriages.''^  Thus far the divine Proclus ; from the first  of which passages the reader may perceive  how adultery and rapes, as represented in the  machinery of the Mysteries, are to be under-  stood when apphed to the gods; and that  they mean nothing more than a communica-  tion of divine energies, either between a su-  perior and subordinate, or subordinate and  superior, divinity. I only add that the ap-  parent indecency of these exhibitions was, as I  have already observed, exclusive of its mystic  meaning, designed as a remedy for the passions  of the soul : and hence mystic ceremonies  were very properly called a%£7., akea, medicines,  by the obscure and noble Heracleitus.'^   * Iamblichus : De Mijsteriis.      Saciifice of a Pig.      Hercules Drunk.     ORPHIC HYMNS.     I shall utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed,  Nevertheless, against all the profane. But do thou hear,  Oh Musseus, for I will declare what is true. . . .   He is the One, self -proceeding ; and from him all things proceed,  And in them he himself exerts his activity ; no mortal  Beholds Him, but he beholds all.   There is one royal body in which all things are enwombed,  Fire and Water, Earth, ^ther, Night and Day,  And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful Love, —  For all these are contained in the great body of Zeus.     Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last ;  Zeus is the head, Zeus the middle of all things ;  From Zeus were all things produced. He is male, he is female ;  Zeus is the depth of the earth, the height of the starry heavens ;   238     Appendix. 239   He is the breath of all things, the force of untamed fire ;  The bottom of the sea ; Sun, Moon, and Stars ;  Origin of all ; King of all ;  One Power, one God, one Great Ruler.   HYMN OF CLEANTHES.   Greatest of the gods, God with many names,   God ever-ruling, and ruling all things !  Zeus, origin of Nature, governing the universe by law,  All hail ! For it is right for mortals to address thee ;  For we are thy offspring, and we alone of all <   That live and creep on earth have the power of imitative speech.  Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.  Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys :  Following where thou wilt, willingly obeying thy law.  Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty hands,  The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.  Before whose flash all nature trembles.  Thou rulest in the common reason, which goes through all.  And appears mingled in all things, great or small,  Which filling all nature, is king of all existences.  Nor without thee. Oh Deity,* does anything happen in the world.  From the divine ethereal pole to the great ocean,  Except only the evil preferred by the senseless wicked.  But thou also art able to bring to order that which is chaotic.  Giving form to what is formless, and making the discordant   friendly ;  So reducing all variety to imity, and even making good out of evil.  Thus throughout nature is one great law  Which only the wicked seek to disobey.  Poor fools ! who long for happiness.  But will not see nor hear the divine commands.   * Greek, Aaifxov, Demon,     240     Appendix.     [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,   By thii'st of glory tempted, or sordid avarice,   Or pleasures sensual and joys that fall.]   But do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller!   Ruler of thunder ! guard men from sad error.   Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow   The laws of thy great and just reign !   That we may be honored, let us honor thee again,   Chanting thy great deeds, as is proper for mortals,   For nothing can be better for gods or men   Than to adore with hymns the Universal King.*   * Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders  this phrase "the law common to all." The Greek text reads:  " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv," — the term vojj.oc:, nomos, or  Law, being used for King, as Love is for God. — A. W.      Proserpina Enthroned in Hades.      Nymphs and Centaurs.  AporrJieta, Greek aiioppTjTa — The instructions given by the  hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to  be disclosed on pain of death. There was said to be a syn-  opsis of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it  is said, were bound together in the form of a book.   Apostatise — To fall or descend, as the spiritual part of the soul is  said to descend from its divine home to the world of nature.   Cathartic — Purifying. The term was used by the Platonists and  others in connection with the ceremonies of purification be-  fore initiation, also to the corresponding performance of rites  and duties which renewed the moral life. The cathartic  virtues were the duties and mode of living, which conduced  to that end. The phrase is used but once or twice in this  edition.   Cause — The agent by which things are generated or produced.   Circulation — The peculiar spiral motion or progress by which the  spiritual nature or "intellect" descended from the divine  region of the universe into the world of sense.   Cogitative — Relating to the understanding: dianoetic.   Conjecture, or Opinion — A mental conception that can be changed  by argument.   Core — A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and  later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She  was supposed to typify the spiritual nature which was ab-  241     242 Glossary,   Core — con tinned.   ducted by Hades or Pluto into the Underworld, the figure  signifying the apostasy or descent of the soul from the higher  life to the material body.   CoricaUy — After the manner of Proserpina, i. e., as if descending  into death from the supernal world.   D(emoii — A designation of a certain class of divinities. Different  authors employ the term differently. Hesiod regards them as  the souls of the men who lived in the Golden Age, now act-  ing as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus,  says " that daemon is a term denoting wisdom, and that every  good man is dsemonian, both while living and when dead, and  is rightly called a daemon." His own attendant spirit that  checked him whenever he endeavored to do what he might  not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons in  the second order of spiritual existence. — Cleanthes, in his  celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).   Demiurgiis — The creator. It was the title of the; chief-magistrate  in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus  or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla-  tdnists, and more especially the Gnostics, who regarded matter  as constituting or containing the principle of Evil, sometimes  applied this term to the Evil Potency, who, some of them  affirmed, was the Hebrew God.   Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered. The  spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded  as a whole, but in descending to worldly conditions became  divided into parts or perhaps characteristics.   Divisible — Made into parts or attributes, as the mind, intellect, or  spiritual, first a whole, became thus distinguished in its de-  scent. This division was regarded as a fall into a lower plane  of life.   Energise, Greek z^z^^-^zw — Ho operate or work, especially to  undergo discipline of the heart and character.     Glossary. 243   Energy — Operation, activity.   Eternal — Existing through all past time, and still continuing.   Faith — The correct conception of a thing as it seems, — fidelity.   Freedom — The ruling power of one's life ; a power over what per-  tains to one's self in life.   Friendship — Union of sentiment; a communion in doing well.   Fury — The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired  and actuated prophets, poets, intei'preters of oracles, and  others ; also a title of the goddesses Demeter and Persephone  as the chastisers of the wicked, — also of the Eumenides.   Generation, Greek Y^^'^t? — Generated existence, the mode of  life peculiar to this world, but which is equivalent to death,  so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned ;  the process by which the soul is separated from the higher  form of existence, and brought into the conditions of life  upon the earth. It was regarded as a punishment, and ac-  cording to Mr. Taylor, was prefigured by the abduction of  Proserpina. The soul is supposed to have pre-existed with  God as a pure intellect like him, but not actually identical —  at one but not absolutely the same.   Good — That which is desired on its own account.   Hades — A name of Pluto; the Underworld, the state or region of  departed souls, as understood by classic writers ; the physical  nature, the corporeal existence, the condition of the soul  while in the bodily life.   Herald, Greek y.7]po4 — The crier at the Mysteries.   Hierophant — The interpreter who explained the purport of the  mystic doctrines and dramas to the candidates.   Holiness, Greek ooioty]? — Attention to the honor due to God.   Idea — A principle in all minds underlying our cognitions of the  sensible world.   Imprudent — Without foresight ; deprived of sagacity.   Infernal regions — Hades, the Underworld.   Instruction — A power to cure the soul.     244 Glossary.   Intellect, Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and by Professor  Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the spiritual  nature. " The organ of self-evident, necessary, and universal  truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it takes  hold on truth with absolute certainty. The reason, through  the medium of ideas, holds communion with the world of real  Being. These ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of  unseen realities, as the sun reveals the world of sensible forms.  ' The Idea of the good is the Sun of the Intelligible World ;  it sheds on objects the light of truth, and gives to the soul  that knows the power of knowing.' Under this light the eye  of reason apprehends the eternal world of being as truly, yet  more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of  phenomena. This power the rational soul possesses by virtue  of its having a nature kindred, or even homogeneous with  the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,' and  like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we  are to understand Plato as teaching that the rational soul had  an independent and underived existence ; it was created or  'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,  is not amenable to the condition of time and space, but, in a  peculiar sense, dwells in eternity : and therefore is capable of  beholding eternal realities, and coming into communion with  absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with God,  the Absolute Being." — Christianity and Greek Philosophy, x.  pp. 349, 350,   Intellective — Intuitive ; perceivable by spiritual insight.   Ititelligihle — Eelating to the higher reason.   Interpreter — The hierophant or sacerdotal teacher who, on the last  day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book to  the candidates, and unfolded the final meaning of the repre-  sentations and symbols. In the Phoenician language he was  called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two  tablets of stone, was a pun on the designation, to imply the     Glossary. 245   Interpreter — continued.   wisdom to be uiit'olcled. It has been suggested by the Rev,  Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim, as the successor  of Peter, from his succession to the rank and function of  the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated  Apostle, who probably was never in Rome.   Just — Productive of Justice.   Justice — The harmony or perfect proportional action of all the  powers of the soul, and comprising equity, veracity, fidelity,  usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.   Judgment — A. peremptory decision covering a disputed matter;  also o'.avoLa, dianoia, or understanding.   Knowledge — A comprehension by the mind of fact not to be over-  thrown or modified by argument. o   Legislative — Regulating.   Lesser Mysteries — The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purifica-  tion, which were celebrated at Agrae, prior to full initiation  at Eleusis. Those initiated on this occasion were styled  fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ; and their initiation  was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of being  vailed from the former life.   Magic — Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating to the order  of the Magi of Persia and Assyria.   Material do'mons — Spirits of a nature so gross as to be able to  assume visible bodies like individuals still living on the Earth.   Matter — The elements of the world, and especially of the human  body, in which the idea of evil is contained and the soul  incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.   Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail — The last act in the  Lesser Mysteries, or rsXtza:, teletai, denoting the separating of  the initiate from the former exotic life.   Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods. The  most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and  Eleusis.     246 Glossary.   Mystic — Relating to the Mysteries: a person initiated in the  Lesser Mysteries — Greek jj.u3Totu   Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical sense.   Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic Mysteries.   Opinion — A hypothesis or conjecture.   Partial — Divided, in parts, and not a whole.   Philologist — One pursuing literature.   Philosopher — One skilled in philosophy; one disciplined in a right  life.   Philosophise — To investigate final causes; to undergo discipline  of the life.   Philosophy — The aspiration of the soul after wisdom and truth,  " Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned  being, and asserted that this was known to the soul by its  intuitive reason (intellect or spiritual instinct) which is the  organ of all philosophic insight. The reason perceives sub-  stance ; the understanding, only phenomena. Being (xo ov),  which is the reality in all actuality, is in the ideas or thoughts  of God; and nothing exists (or appears outwardly), except  by the force of this indwelling idea. The word is the true  expression of the nature of every object : for each has its divine  and natural name, besides its accidental human appellation.  Philosophy is the recollection of what the soul has seen of  things and their names." (J. Freeman Clarke.)   Plotinus — A philosopher who lived in the Third Century, and re-  vived the doctrines of Plato.   Prudent — Having foresight.   Purgation, purification — The introduction into the Teletce or Lesser  Mysteries ; a separation of the external principles from the soul.   Punishment — The curing of the soul of its errors.   Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, — One possessing the prophetic mania, or  inspiration.   Priest — Greek \xrjyz'.c, — A prophet or inspired person, ispjuc — a  sacerdotal person.     Glossary.     247     Revolt — A rolling away, the career of the soul in its descent from  the pristine divine condition.   Science — The knowledge of universal, necessary, unchangeable,  and eternal ideas.   Shows — The peculiar dramatic representations of the Mysteries.   Telete, Greek tjXext] — The finishing or consummation ; the Lesser  Mysteries.   Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to the gods.   Theoretical — Perceptive.   Torch bearer — A priest who bore a torch at the Mysteries.   Titans — The beings who made war against Kronos or Saturn. E.  Poeoeke identifies them with the Daittjas of India, who resisted  the Brahmans. In the Orphic legend, they are described as  slaying the child Bacchus-Zagreus.   Titanic — Eelating to the nature of Titans.   Transmigration — The passage of the soul from one condition of  being to another. This has not any necessary reference to  any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and  blood. See I Corinthians, XV.   Virtue — A good mental condition; a stable disposition.   Virtues — Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues — Purify-  ing rites or influences.   Wisdom — The knowledge of things as they exist ; " the approach  to God as the substance of goodness in truth."   World — The cosmos, the universe, as distinguished from the earth  and human existence upon it.      /■ ('§     Eleusinian Priest and Assistants.      Fortune and the Three Fates.     LIST OF ILLUSTRATIONS.     Drawm from the antique. A. L. RAWSON.     A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume properly  includes the two or three theories of human life held by the  ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Pro-  serpina, the most charming of all mythological fancies, and  the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives  to the artists of the originals from which these drawings  were made.   From them* we learn that it was believed»that the soul is a  part of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Cen-  tral Sun of the intellectual universe, and therefore immortal ;  has lived before, and will continue to hve after this '' body  prison " is dissolved ; that the river Styx is between us and  the unseen world, and hence we have no recollection of any  former state of existence ; and that the body is Hades, in  which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the  unseen world.   Poets and philosophers, tragedians and comedians, embel-  lished the myth with a thousand fine fancies which were   248     List of Illustrations. 249   woven into the ritual of Eleusis, or were presented in the  theaters during the Bacchic festivals.   The pictures include, beside the costumes of priests, jiriest-  esses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs, many  of the sacred vessels and implements used in celebrating the  Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were  drawn by the ancient artists from the objects represented,  and their work has been carefully followed here.   Page.   1. Frontispiece. Sacrifice to Ceres.   — Denhndler, sculptur.  The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a  sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter  approves. (See page 17.)   2. Decoratinq a Statue of Bacchus 4   — Bom. Campana.  The priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural  vine with grape clusters, and there are fruit and wine bearers.   3. Bacchantes with Thyrsus and Flute 4   Two fragments. —Bom. Camp.   4. Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4   Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page  208 for reference to pine nut.   5. Bacchus and Nymphs 5   6. Pluto, Proserpina, and Furies 5   — Galerie des Peintres.  The Furies were said to be children of Pluto and Proserpina ;  other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a son  of Ceres Avithout a father. (See page 65.)   7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6   8. Priestess with Musical Instruments 6   9. Faun Kissing Bacchante. — Bourbon Mus 6   10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus 6     250 List of Ilhistrations.   Page.   11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen 7   See drawings on page lOG.   12. Mercury Presenting a Soul to Pluto 8   — Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8.   13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav. 17 8   14. Eleusinian Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8 8   15. Bacchic Festival.— JSarto?*, Admiranda, 43 9   Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who was  an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and  fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy re-  moves the king's sandal. (See page 35.)   16. Apollo and the Muses. — Florentine Museum 10   The muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne ;  that is, of the god of the present instant, and of memory.  Their office was, in part, to give information to any inquiring  soul, and to preside over the various arts and sciences. They  were called by various names derived from the places where  they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,  HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was  called Musagetes, as their leader and conductor. The palm  tree, laurel, fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and  other sacred mountains, were sacred to the muses.   17. Prometheus Forms a Woman 11   — Visconti, Mus. Fio. Clem., IV., 34.  Mercury, the messenger of the gods, brings a soul from  Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates  attend. The Athenians built an altar for the worship of Pro-  metheus in the grove of the Academy.   18. Procession of Iacchus and Phallus 16   — Montfaucon.  From Athens to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia.  The statue is made to play its part in a mystic ceremony, typi-  fying the union of the sexes in generation. Attendant priest-  esses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit,  vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial instni-  ments. None but women and children were permitted to take  part in this ceremony. The wooden emblem of fecundity was  an object of supreme veneration, and the ceremony of placing  and hooding it. was assigned to the most highly respected  woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch     List of Illustrations. 251   Pagk.   say the phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the  top of long poles, and their bodies were stained with wine lees,  and partly covered with a lamb-skin, their heads crowned with  a wreath of ivy. (See page 14.)   19, 20, 21. From Etruscan Vases — Florentine Museum. 22   Human sacrifice may be indicated in the lower group.   22. Venus and Proserpina in Hades 28   — Galerie des Peintres.  The myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate  to eat in Hades, and so made her subject to the law which re-  quired her to remain four months of each year with Pluto in  the Underworld, for Venus is the goddess who presides over  birth and growth in all cases. Cerberus (see page 65) keeps  guard, and one of the heads holds her garment, signifying that  his master is entitled to one-third of her time.   23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades   (Invisibility) — Flor. Mus 29   See note, p. 152.   24. Pallas, Venus, and Diana Consulting 30   — Gal. des Peint.  Jupiter ordered these divinities to excite desire in the heart of  Proserpina as a means of leading her into the power of the  richest of all monarchs, the one who most abounds in treasures.  (See page 140.)   25. Dionysus as God op the Sun 31   — Pit. Ant. Ercolmio.  Dionysus — Bacchus — symbolizes the sun as god of the sea-  sons ; rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held  by a satyr, who also carries a wine skin bottle. The winged genii  of the seasons attend. Winter carries two geese and a cornu-  copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in the  other the mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf  of grain ; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of  fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of  Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the  larger figures.   26. Herse and Mercury 42   — Pit. Ant. Ercolano.  A fabled love match between the god and a daughter of Cecrops,  the Egyptian who founded Athens, supplied the ritual for  the festivals Hersephoria, in which young girls of seven  to eleven years, from the most noted families, dressed in     252 List of Illustrations.   Page.   white, carried the sacred vessels and implements used in the  Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made  for the occasion.   27. Narcissus Sees His Image in Water 42   — P. Ovid. Naso.  The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to be  very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of  the fountain where he saw his face reflected, and failing, he  drowned himself in chagrin. The gods, unwilling to lose so  much beauty, changed him into the flower now known by his  name. (See page 150.)   28. Jupiter as Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso . . 62   The supreme deity of the ancients, beside numerous marriages,  was credited with many amours with both divinities and mor-  tals. In some of those adventures he succeeded by using a  disguise, as here in the form of the Queen of the Starry  Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of  Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The com-  panions of that goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in  the form of a swan, surprised Leda, who became mother of the  Dioscuri (twins).   29. Diana and Calisto. — Ovid. Naso, Neder 62   The fable says that when Diana and her nymphs were bathing   the swelling form of Calisto attracted attention. It was re-  ported to the goddess, when she punished the maid by chang-  ing her into the form of a bear. She would have been torn in  pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and trans-  lated her to the heavens, where she forms the constellation  The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested  Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at night  beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of  Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip,  but revolves close around the pole star.   30. Bacchantes and Fauns Dancing 74   A stage ballet. — Bom. Campana, 37.   31. Hercules, Bull, and Priestess. — Bom. Camp 74   Bacchic orgies.   32. Fruit and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm 84   33. Torch-Bearer as Apollo. — Bourbon Mits 84   34. Eleusinian Mysteries. — Florence 3Ius 94     List of Illustrations. 253     r>- T-, Page,   60. Etruscan Mystic Ceremony.— i?oH«. Camp 94   36. Etruscan Altar Group.— JPtor. Mus 106   The mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks,  baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers,  make very pretty and impressive accessories to two handsome  priestesses.   37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en 106   These two groups were drawn from a vase (page 7) which is  a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols,  accessories, and all the details of implements used in the cele-  bration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase,  which is well preserved. This vase is a strong proof of the  antiquity of the orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and  Tusci were ancient before the Romans began to build on the  Tiber.   38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m 106   39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre . 110   Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real animal,  but science has dissipated that belief, and the monster has  been classed among the artificial attractions of the theater  where it belongs, and where it did a large share of duty in the  Mysteries. They were invented by the poets as an impersona-  tion of the life that animates the branches of trees when the  wind sweeps through them, meaning, whistling, or shrieking  in the gale. They were said to be the chief attendants on  Bacchus, and to delight in revel and wine.   40. Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110   The many suggestive emblems in this picture form an instruc-  tive group, symbolic of Nature's life-renewing power. The  ancients adored this power under the emblems of the organs  of generation. Many passages in the Bible denounce that wor-  ship, which is called " the grove," and usually was an iipright  stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,  where it became a statue to the waist, as seen in the engrav-  ing. The Palladium at Athens was a Greek form. The  Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with em-  blems of wood and stone, and use the natural objects in their  mystic rites and ceremonies.   41. Apollo and Daphne,— Galerie des Peint 118   The rising sun shines on the dew-drops, and warming them as  they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,     254 List of lUiisfrations.   Page.   leaving the tree ; and it is said by the poet that Apollo loves and  seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies and is  transformed into a laurel tree at the instant she is embraced by  the sun-god.   42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius 118   Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting  sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever  prevents them from enjoying each other's society. The fair  huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon,  or in the first quarter, to approach near the place where her  beloved one lingers near the Hesperian gardens, and to follow  him even to the Pillars of Hercules, but never to embrace him.  The new moon, as soon as visible, sets near but not with the sun.  Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and  would linger until the loved one can be folded in his arms,  but his duty calls and he must turn his steps toward the  Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await  his presence, ever cheerful and benign. Diana follows closely  after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants  of the Peaceful Islands, but while receiving their homage her  lover hastens on toward the eastern gates, where the golden  fleece makes the morning sky resplendent.   43. Ceres and the Car op Treptolemus 127   P. Ovid. Naso, Neder.  Triptolemus (the word means three plowings) was the founder  of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with  her car drawn by winged dragons, in which he distributed seed  grain all over the world.   44. Pluto Marries Proserpina 127   — P. Ovid. Naso, Neder.  Jupiter is said to have consented to request of Pluto that Proser-  pina might revisit her mother's dwelling, and the picture repre-  sents him as very earnest in his appeal to his brother. Since  then the seed of grain has remained in the ground no longer  than four months ; the other eight it is above, in the regions of  light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.  This seems conclusive that it was a representation of a dra-  matic scene. (See pp. 159, 186.)   45. Proserpina, according to the Greeks. — Heck... 138   46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138   A Roman Figure of Geres.— Heck 138    Demeter, from Etruscan Vase.— IfecZ; 138   49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the   Needlework of Proserpina.— Galerie des Peini . 142   50. Proserpina Exposed to Pluto 152   — Ovid. Naso, Neder.  There may have been a mild sarcasm in this artist's mind when  he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest mon-  arch in all the earth in the distance, hastening toward her. He  succeeded, as is shown in the next engraving.   51. Pluto Carrying Off Proserpina 152   — P. Ovid. Naso, Neder.  Eternal change is the universal law. Proserpina must go down  into the Underworld that she may rise again into light and life.  The seed must be planted under or into the soil that it may  have a new birth and growth.   52. Proserpina in Pluto's Court. — Montfaucon 156   As a personation she was the "Apparent Brilliance" of all  fruits and flowers.   53. Ceres in Hades. — Montfaucon 162   54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. — Montfaucon .... 168   55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168   56. A Group of Deities. — Heck 168   Pan and Dionysus, Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus,  and Silenus.   57. Night with Her Starry Canopy. — Heck 168   58. The Three Graces. — Heck 168   59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174   — Galerie des Peint.   60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174   — Anticld.   61. Baubo and Ceres at Eleusis. — Galerie des Peint. 174  See page 232.     256 List of Illustrations.   Page.   62. Psyche Asleep in Hades 186   — From the ruins of the Bath of Titus, Rome.  See page 45.   63. Nymphs of the Four Rivers in Hades 187   — Tomb of the Nasons.  "It was easy for poets and mythographers, when they had  once started the idea of a gloomy land watered with the rivers  of woe, to place Styx, the stream which mates men shudder, as  the boundary which separates it from the world of Uving men,  and to lead through it the channels of Lethe, in which all  things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with  shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."  Acheron, in the early myths, was the only river of Hades.   64. Etruscan Vase Group. — MilUngen 198   65. Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198   66. Greek Convivial Scene. — Millin, 1 ^9^ 38 198   67. Faun and Bacchante. — Bour. Mus 206   68. Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum 206   69. Bacchante and Faun.— 5o«r. Mus 206   These three verj' graceful pictures were drawn from paintings  on walls in Herculaneum.   70. KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212   71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212   Here is an actual ceremony in which many actors took parts ;  with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bac-  chantes, fauns, and other attendants on the celebration of the  Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings.   72. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220   — Montfaucon.  See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at the  Bacchic theaters, those dramas must have been very popular,  and justly so. To those theaters, which were supported by the  government in Athens and in many other cities througliout  Greece, we owe the immortal works of ^schylus and Soph-  ocles.  Page.   73, Musical Conference (Epithalamium) 228   S. Bartoli, Admiranda, pi. 62,  Written music was evidently used, for one of the company is  writing as if correcting the score, and writing with the left  hand.   74. Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229   This goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said  she rose from the sea — the morning sunlight on the foam of  the sea on the shore of the island Cythera, or Cyprus, or  wherever the poet may choose as the favored place for the  manifestation of the generative power of nature, and wherever  flowers show her footprints. The loves bear aloft her magic  girdle, which Juno borrowed as a means of winning back  Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to  her. Her worship was the motive for building temples in Cy-  thera and in Cyprus at Amathus, Idalium. Golgoi, and in many  other places. (See engravings 22, 39, and 49, and page 230.)   75, Jupiter Disguised as Diana, and Calisto 234   — Ovid. Naso, Neder.  The gods were said to have the power, and to practice as-  suming the form of any other of their train, or of any animal.  In these disguises they are supposed to play tricks on each  other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is  one of her attendants, and many white clouds float over the  blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).   76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234   — Ovid. Naso, Neder.  The sun nears the end of the day's journey; he is aged and  weary ; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but  stUl Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the  fair daughter of the king of ^tolia, retires with him into exile.  At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur, to  carry across the river. The ferryman made love to the lady,  and Hercules resented the indiscretion, and wounded him by  an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as a  love charm in case her husband should love another woman.  Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped  his shirt in the blood of Nessus — the crimson' and scarlet  clouds of a splendid sunset are made glorious by the blood of  Nessus, and Hercules is burnt on the funeral pyre of scarlet  and crimson sunset clouds.     258 List of Illustrations.   Page.   77. The Sacrifice. — Herculaneum, IV., 13 237   78. Hercules Drunk. — Zoegciy BassirilievU tav. 67 238   79. Proserpina Enthroned in Hades- — Archdol. Zeit. 240   The principle of growth rules the Underworld.   80. Bacchante and Centaur. — Bourbon Mus .Bacchante and Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241   82. Eleusinian Priest and Assistants 247   83. The Fates. — Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248   84. Supper Scene 258   85. Bacchic Bull. — Antichi Ou cover. Suppei- Scene.  The Eleusinian and Bacchic mysteries.     Princeton Theological Semmary-Speer Library  PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP    A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS    LONDON   PRIVATELY PRINTED. The present somewhat slight sketch of a most interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some of which being issued for private circulation only, are almost  unobtainable.  During the past few years several philophical  have been written  upon ancient Roman Phallicism in conjunction with other kindred matters f  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery y  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world.   Many of the topics have received only slight treatmenty  being little more than indicated ; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients .   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book , should consult the large  and important works of Payne Knight , Higgins , Dulaure,  Rolky Inman , and other writers .   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject , but the length  of the list prevented its being added. Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same — the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubt-  less Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prosti-  tution and other degrading rites. Thus it was not long before the emblems lost their pure and simple meaning and became licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved ceremonies at the worship  of BACCO, who became, not only the representative  of the creative power, but the god of pleasure and  licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all ;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience. Monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO  and PRIAPO on the other, by appealing to the most  animating passion of nature. This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male, the active creative power ;  the other the female or passive power ; ideas which were  represented by various emblems in different countries.These emblems were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people ;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the “ Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence through-  out Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains ; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.  “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes.     io Phallic Worship   pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island. “ They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems.”    PHALLUS   The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their re-  ligious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member ( membrum virile ), signifies,  “ he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfabl, and pole in English. Phallus is supposed     Phallic Worship    ii    to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or  phallo , “ to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal> “ to burst,” “ to produce,” “ to  be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation : a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity. “ If it were discovered,”  says Crawford, “ that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”    SYMBOLS OR EMBLEMS   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says : —   “ Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical repre-  sentations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship ; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives ; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva ; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are “ identical  in shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected.”     Phallic Worship    *5    THE POLE   The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day ; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring.   The May festival was carried on with great licentious-  ness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England : “ Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indiffer-  ently ; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in the     14 Phallic Worship   mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall.  . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, folio wyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.”   The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities.    PILLARS   Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with     Phallic Worship    iJ    a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of “ The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “ In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as  “ Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature.”     16 Phallic Worship   According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says  O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superin-  tendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settle-  ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship.    LOGGIN STONES, ETC.   Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “ are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones/ as they were  anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind ;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek.   B     1 8 Phallic Worship   xxiii. 14. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised.    TRIADS   The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also. “ Beltus,” says  Inman, “ was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives     Phallic Worship    *9   great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the  females or passive by the principles of “ water,” “ soft-  ness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes repre-  sented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea ; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring ; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies “ to be straight,” “ upright,” “ fortunate,”   “ happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians,     20    Phallic Worship    the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross.    THE CROSS   The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that “ The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.”   Another writer says, “ Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of  the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright — the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies c my  Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier ; and still further per-  sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed;     22    Phallic Worship    for he bluntly says “ whoredom was committed with the  images of men/’ or, as the marginal note has it, images  of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark  — a cross in the form of the letter T — that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judaea  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical,  and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality — worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad — three in one. The  female was the unit ; and, joined to the male triad, con-  stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held     Phallic Worship    2 3    it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa-  tion of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross , besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner : Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’ ;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9 ;  upon the left branch * Belenus * ; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;  under all, the same repeated, Thau ”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter  “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means  (i) the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4)  origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says :  “ Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam     24 Phallic Worship   was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : “ The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concha Veneris , which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta — a truly immaculate  female — if the truth can be strained to so denominate  a mother . The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum , we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs.     Phallic Worship    *3    Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity ; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  “the Yoni is my God,” or “I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esby means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,”  “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the  heat of love,” or “ the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim, Our " God is love ” ?  (i John iv. 8).   The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.     26 Phallic Worship   though the language is dressed in the habiliments of seem-  ing decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “ I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof ” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals. The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says :  “ Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2,  and xlvii. 29). This practice evidendy arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphe-  mistic expression thigh , was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ; Judges  vii. 30. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator , and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman : “I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive     28    Phallic Worship    punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have “ removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess ; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World, describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Romans,  was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, “It should     30    Phallic Worship    not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs , Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/  * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock , instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.”   Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work : “ The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom     Phallic Worship 51   he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple.”   Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where “ the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh , or kaesb ,  designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible — an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively  bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse-  crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times ; and we find that “ holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make     Phallic Worship    3 *   or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore ; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Ido/, selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh per-  forming a wild and enticing dance ; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to “ divine,” sexual, generative, or creative  power ; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the  strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher,  <c the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is  Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, iC El is  upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ; Aram,  " high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my  Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett,  M son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan,     Phallic Worship    33   “ he stands upright ” ; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work.    EARTH MOTHER   The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously :   “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine , it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose ; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5 , where the wicked  among the Jews were described as “ inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone , in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh — that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says : “ These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins.     Phallic Worship 35   which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above — “ born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy ; they  called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p. 346)    BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS   The Romans called the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber were the names  for the same god, although the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner.  The latter, according to Payne Knight, was celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of the Phallus was carried openly in  triumph. These festivities were more particularly cele-  brated among the rural or agricultural population, who,  when the preparatory labour of the agriculturist was over,  celebrated with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time was to bring forth the fruits.  During the festival a car containing a huge Phallus was  drawn along accompanied by its worshippers, who in-  dulged in obscene songs and dances of wild and extrava-  gant character. The gravest and proudest matrons  suddenly laid aside their decency and ran screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.     }6    Phallic Worship    The Bacchanalian feasts were celebrated in the latter part  of October when the harvest was completed. Wine and  figs were carried in the procession of the Bacchants, and  lastly came the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora , who carried baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carried poles, at the  end of which were figures representing the organ of  generation. The men sung the Phallica and were crowned  with violets and ivy, and had their faces covered with  other kinds of herbs. These were followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses ran in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingled, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals were carried into the night, and it was then  frenzy reached its height. He says, “ In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god ; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Maenades, who accompanied him.” These  festivities were carried into the night, and as the celebrators  became heated with wine, they degenerated into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the Luper-  calian Feasts instituted in honour of the god Pan (under  the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents , on the morning of the Feast ran  naked through the streets, striking the married women  they met on the hands and belly, which was held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus was celebrated towards the begin-  ning of April, and the Phallus was again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mixed with the multitude in perfect nakedness,  and excited their passions with obscene motions and  language until the festival ended in a scene of mad revelry,  in which all restraint was laid aside.”   It is said that these festivals took their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original ;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus.    DRUID AND HEBREW FAITHS   It seems not at all improbable that the deities wor-  shipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles ; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baal. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires ; he says : — “ on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this super-  stitious custom still continues, and that on “ particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them ; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially for-  bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish ; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows ; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum ; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signified by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob  put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the  same for a place of worship ; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement  made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were, — always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says : — “ There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . .  We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to     Phallic Worship    4i    show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus.    STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS   Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or cir-  cumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus — who lived in an age before the Trojan war —  which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyrcetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called hypathral ,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title (“ surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times ; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace — for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub-  ordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss , or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertion* of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monu-  ments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been some-  thing singular and important ; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned     44    Phallic Worship    at all ; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name . — Payne Knight* s  Worship of Priapus.    BUNS AND RELIGIOUS CAKES   Says Hyslop : — “ The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the     Phallic Worship    45    Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.” “ One species of  bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes  mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says : — “ The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient times we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated ; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one.   Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)  says : — “ When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mullot , shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the  “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in     46    Phallic Worship    the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the  privy members — and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne, at the end of their  palm branches ; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at B rives ; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places.    THE ARK AND GOOD FRIDAY   The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were     Phallic Worship    47   exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all things sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent ; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle  — the Creator ; the second, the passive or female, the  germ of all animated things — the Preserver ; and the  last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents ; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent.   “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of     4 «    Phallic Worship    the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt ; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says : — “ The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law ; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle — as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During     Phallic Worship    49    the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen — that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The similarity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, 'which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  pot according to our present reckoning ; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the “ Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot cross-  bun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion — that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says : — “ In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eoster-  mona, and that the name of the goddess had been frequently     50    Phallic Worship    given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is under-  stood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread ; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment — or other evil influences  which might arise from their former heathen character —  they marked them with the Christian symbol — the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them ; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.”      ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE  LOTUS   The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date ; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo ; its capital being the same  •eed-vessel pressed flat, as it appears when withered and     Phallic Worship    5 Z   dry — the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horizontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars . — Payne Knight .    BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP   Stripped, however, of all this splendour and magnifi-  cence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the     Phallic Worship    53    destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus y by which the generative attribute is dis-  tinguished, seems to be merely a corruption of Briapuos  (clamorous) ; the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are ; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments ;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion ; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing . 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight's "Symbolical  Language of ancient Art and Mythology."     Phallic Worship    54   monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells ; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades.    HINDU PHALLICISM   The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion : — “ Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester them-  selves from this world ; they lived retired from the towns ;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him ; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced     Phallic Worship    55    the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten ;  the things of the Poo j ah (worship) lay neglected ; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night — attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came ; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves ; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight ; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed.   “ Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation ;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them ; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency      had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said — ‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose I Stay with us and we will serve thee ; nor  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee/ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .   “ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrass-  ment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done ; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid — the women, the Pandaram.   “But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than     Phallic Worship    57    before. They then performed various penances ; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man ; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger ; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.   “ Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing them-  selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind ; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices ; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire with indignation against the  human race ; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties     JS    Phallic Worship    Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped \ which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau> attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand ; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices,  all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims ; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray.      BEADS   Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity ; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity ; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre.    THE LOTUS   The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga ; the petals and filaments are the mountains     6o    Phallic Worship    which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day — I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins’s Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : —  “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel.     Phallic Worship    6x   shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where they are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, like other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry , does or ever did prevail.  The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc.  The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other ; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says : — “ The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of     62    Phallic Worship    the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Philce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients : —  “ We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years) ; after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became pre-  dominant in the mind of the Great Creator . In the first     Phallic Worship    65   place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? *  * whence came I ? 9 ' and where ami?’   “ Brahma, thus kept two hundred years in contem-  plation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected — again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man  of perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water ; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling     6 4    Phallic Worship    the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground.    MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mons veneris — Meru and Mount  Calvary — each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.  Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris > through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba.     Phallic Worship 65   LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA   This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.”   In one of the smaller temples was an image of Lingam,  “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean   E     66    Phallic Worship    washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the “ Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says : — “ Women sought a remedy for barren-  ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.”   The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be     Phallic Worship    67    excused, “ is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling.    VENUS-URANIA. — THE MOTHER GODDESS  The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex : such as the shell or  Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there-  fore associated with him in the most ancient oracular     68    Phallic Worship    temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno ; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective sub-  ordinate attributes were on other occasions added :  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name — the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the     Phallic Worship    69   Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant : whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica , which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic orna-  ments extant ; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum.    LIBERALITY AND SAMENESS OF THE  WORLD-RELIGIONS   The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles. “ The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century, “ shun disputes and believe that  almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de  Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied, “ that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same send-     7 °    Phallic Worship    merits and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? ”   The Hindus profess exactly the same opinion. “ They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them, “ but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed — like that of the Greeks and Romans — remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted     Phallic Worship    7i    whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calum-  niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated.   These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality ; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them ; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state ; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country , performed them in a manner pleasing to the  Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey ; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual.     7* Phallic Worship   The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist ot ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. <c Even they who worship other gods , says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they know it not.   Knight.  Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione,  L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon , the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.

 

Grice e Collini: l’implicatura conversazionale del naturismo -- naturalismo e naturismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è C. Narra il Denina che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene. Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. È compagno al FILOSOFO poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim, cui un altro dove seguirne sulla letteratura tedesca. E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del [C. stesso nel suo Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin, confessa la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano C., sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. C. è il curatore della Naturalien Kabinett, o camera delle meraviglie -- l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale --  nel palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim. Il campione è stato affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, dopo essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt, La data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, quindi deve essere stato acquistato nell’anno della descrizione di C.. Ciò potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto. È descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx -- oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx --- che però è stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo.  Ricostruzione di Wagler su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus C., nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, conclude che si tratta di un animale volante. In realtà, C. non riusciva a capire di che tipo di animale si tratta, ma lo accosta ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso C. ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su una supposizione di C. che pensa che le profondità dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti. L'idea che gli pterosauri sono animali marini persiste ancora in una minoranza di scienziati tra cui Wagler, che pubblica nel suo "Anfibi", un articolo che vede gli pterosauri come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe “Gryphi”, tra uccelli e mammiferi. Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann. È Hermann che per primo dichiara che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus vienne usato per sostenere una membrana alare. Hermann è allertato da Cuvier dell'esistenza del fossile di C., che è stato catturato dagl’eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra. In seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito invia una lettera a Cuvier, dove vi è scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale dove trattarsi di un mammifero, e invia anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. È la prima ricostruzione per uno pterosauro. Hermann disegna l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia -- all'epoca il fossile non presenta ne segni di membrana alare ne di pelliccia. Hermann nel suo schizzo aggiunge anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann, pubblica questa nuova descrizione. In uno scritto Cuvier dichiara che non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito serve a sostenere un membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, forma una buona ala. Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier è convinto che l'animale fosse un rettile.  In realtà l'esemplare non è stato sequestrato dai francesi. Infatti, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile è portato a Monaco di Baviera, dove Moll ottene un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiede a Moll il permesso di studiare il fossile, ma è informato che il pezzo non è trovato. Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in cui l'animale vienne chiamato "Ptero-dactyle" e confuta l'ipotesi di Blumenbach, che sostene che l'animale è un uccello marino.   Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von Soemmerring. Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.  Paleobiologia Classi d'età  Esemplare giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6]  Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6]  Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]  Crescita e riproduzione  Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]  Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]  Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29]  Note ^ Fischer von Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany – first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, Bennett, S. Christopher, New information on body size and cranial display structures of Pterodactylus antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische Zeitschrift. 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Volume 19 of Knight's weekly vol. ^ Ősi, A., Prondvai, E., & Géczy, B. The history of Late Jurassic pterosaurs housed in Hungarian collections and the revision of the holotype of Pterodactylus micronyx Meyer 1856 (a ‘Pester Exemplar’). Geological Society, London, Special Publications, 343(1), 277-286. ^ Collini, C A. (1784). "Sur quelques Zoolithes du Cabinet d'Histoire naturelle de S. A. S. E. Palatine & de Bavière, à Mannheim." Acta Theodoro-Palatinae Mannheim 5 Pars Physica, Wagler, J. (1830). Natürliches System der Amphibien Munich, Cuvier, G., [Reptile volant]. In: Extrait d'un ouvrage sur les espèces de quadrupèdes dont on a trouvé les ossemens dans l'intérieur de la terre, in Journal de Physique, de Chimie et d'Histoire Naturelle, vol. 52, 1801, pp. 253–267. ^ von Sömmerring, S. T. (1812). "Über einen Ornithocephalus oder über das unbekannten Thier der Vorwelt, dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. 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Modifica su Wikidata (EN) Pterodactylus, su Fossilworks.org. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. LCCN (EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri.  Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the Italian Renaissance Garden. Most of the history of Western philosophy and theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent contradictions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'. However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art and ideas. This study— promenade through the landscapes and gardens, paintings and poems that have inspired me—proposes a sketch of the implications of such poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Burckhardt describes this paradigm shift in the perception of the external world, the moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous lines the sense of the morning airs and the trembling light on the distant ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the view—the first man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated in the work of PETRARCA, often cited as the first humanist, indeed the first "mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade, appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be reached by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in the middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a vaulted grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles that small room where CICERONE some- times went to recite; it is an invitation to study, to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his temperament, inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each extreme of nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two gardens, one leading towards the empirical, the other towards the spiritual. For PETRARCA, as for CICERONE, his predecessor in literature and garden- ing, the landscape was a major source of inspiration, both literary and empirical; for while these gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also constituted a rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch experimented with different varieties of plants according to meteorological and astrological conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth. He also used these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret gardens, "appertain to the double register of the fictive and the real, the physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the paradigmatic place and origin from which gardens draw their spiritual energy."^ It is precisely for this reason that the study of gardens necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the symbolic significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in 1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4 Though inspired by literary motives—specifically, the tale in Livy's History of Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with its attendant views—the experience shifted from the literary to the sensory, where revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history. "At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant ascent of the soul. Thus, opening a copy of Augustine's Confessions he had with him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men go about to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves they consider not."^ This is the ironic moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility becomes a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which, when great itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a syllable fell from my lips until we reached the bottom again. The three major realms that informed early humanist sensibility were thus interwoven in an allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity, sensitivity to nature, and salvation within Christianity. Certain technical, mathematical, and financial consider- ations would be added to these preconditions to localize and system- atize such apperceptions in the creation of the Italian Renaissance garden. The consequent transmigration and intercommunication of symbols and allegories would henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of them towards their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on the Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized as follows. The theological revolution of Francis of Assisi redeemed nature's state of grace. His "Canticle of Creatures"—indeed, every act of his life—expressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all nature was a reflection of God; thus nature itself was the foundation of spiritual values. As Cassirer explains in The Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a metaphysical guide to the current study: With his new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke through and rose above that dogmatic and rigid barrier between "nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to permeate the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon, to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature mysticism" we find one of the origins of Western ecological and environmental thought. (Indeed, in 1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed the state of nature in a postlapsarian world, but praised nature—specifically the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbria—with a glorious and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature according to human desire and volition into a new form that would become the "humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo- logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This is especially the case insofar as such myths express a profound connection to the natural world, as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis, Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would once again have a voice, as in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron (describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum, and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch, landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to formulate this sensibility in relation to the his- tory of landscape architecture, it might be said that the new form of garden is no longer delimited by either cloister walls or restricted cosmological symbolism (the latter allegorically corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed garden), but rather by the limits of the imagination responding to the very act of human per- ception. Rather than serving as a static allegorical form, the garden reveals the dynamic, creative relation between humanity and nature. The view shifts from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not only the ambient scene, but also distant views; space is no longer treated as metaphoric, but is revealed in its localized and particularized reality. Nature incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder, terror and awe—prefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the picturesque, the beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new sensibility was the development of a system of pictorial representation—the quattrocento rediscovery and refinement of linear perspective—that both drew upon and informed the multifarious Renaissance modes of appreciating the landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes- thetics in perspectival representations constitutes a major structure that articulates the reciprocal influences between landscape, garden, literature, and painting, one that marlcs the subsequent history of landscape architecture. Here, the varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature and painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically, three works of Leon Battista Alberti (1404-72) codified the intricate interrelations between perspective and vision, pictorial representation and landscape architecture: Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life that celebrated the advan- tages of country living, thus instilling a taste for gardens and the landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of linear perspective; and De re aedificatoria (1452), which, in establishing "rational" architectural rules based on ancient models (notably Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping terrain with open perspectives from which the countryside could be seen. Though the view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric, organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the "secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho- logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of water—fountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and theaters, hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes {giochi d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion were introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of instability, surprise, and evanescence that would become central to the baroque sensibility, with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK) Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,' to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature), its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land- scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy, painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities, as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence, found- ed by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were expressed by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic philosophical study that began to modify the relatively rigid and often dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's writings never called the theological foundation of this system into question, they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations. This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the- ological domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the hidden god—the ftiture development of the worldly sciences would not be impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis. This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper- ates according to finite determinations, generating predicable and measurable differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the necessity of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein the mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned, indeterminable realm of the divine and the empirical, con- ditioned, determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of mathematics fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative theology begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards its incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno- rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble universal to the sensible particular, with its attendant concrete symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new, "rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus, utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms. Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure, proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Ficino. "Yesterday I arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul. "'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in reciprocal symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical temperament, as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration, meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not contained, because I myself am the faculty of containing." But all these predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts, objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in Plato's Symposium and Phaedrus, Ficino places mystical love (in a manner very differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu- itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion with Him. According to Ficino, amor is only another name for that self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love, "Platonic love," that "divine madness" which is the source of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus, Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino. Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial, intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible: amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love, ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love, which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception. Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni- verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for the idea.^' Love is both psychological and theological, human and divine, con- templative and active, intellectual and passional; it achieves a central epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context, the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of "perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros, is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the "invisible" in the "visible," the "intelligible" in the "sensible." Although his intuition and his art are determined by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production, insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists, regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form: "stylistics becomes the model and guide for the theory of categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts (philosophy, rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It was, indeed, a model for the new nature of thought, where style is not a formal effect bounded by the limitations of sheer representation, but rather where representation itself is a creative act. Within this context, the garden would no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation. Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ- ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^ "Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being, had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary, though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu- larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each individual existence. In this system, where existence precedes essence, coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of thought. This openness towards the world implied that human volition and knowledge must traverse the entire cosmos in order to achieve individual spiritual fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his Oration on the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that creature to whom He had been able to give nothing proper to himself should have joint possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds of being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and, assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus: "Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode, what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all other beings is limited and constrained within the bounds of the laws prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself, thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish. Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis, entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no man can possibly make all observations without help in such a multitude and variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing preci- sion following the development of the new sciences of geography, astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries, gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs, spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became more and more numerous, and less and less coherent with the previously contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry, from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable, mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil, and Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought. Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is multiple, and always capable of increase, and each single name is related to the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at least poly- morphic, vision of the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in the hidden God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of Ficino and Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could only have been united within God, could now be provisionally reconciled in human conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could only be stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual and ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a new iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance. Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth was a protection against profanation; revelation was thus a function of disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae (Attic Nights), is a concrete case in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic level of understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta- physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible) oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended, "to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed. Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to "initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory, literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an alternate entry into the theological system, a means of circumventing the obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^° Thus there obtained a hybridization of elements within imagery; theological connotations were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular and contemporary truths. What Wind termed a "transference of types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance art; it estab- lished an epistemological overture that indicated the metaphysical foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics. This syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were evident in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the end of the sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in Florence in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion between old and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus on every page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of writing and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics, and chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to create a moving and animated work with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo, Monteverdi established a musical synthesis of court airs, madrigals, recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding scenographic synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the synthesis of the sciences in a unified theory, so would the opera syncretize the arts on the spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might be argued that the humanist garden of the Italian Renaissance is the major precursor of the totalizing artwork, insofar as it already served as the ground, synthesis, and scenarization of all the other arts. “Hypnerotomachia Poliphili” of Colonna was published in Venice in 1499."^^ The tale consists of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory erotic drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe- riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces, containing enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins representing the arts of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con- temporary epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The allegory then thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards love and truth, encountering five girls representing the five senses, a queen symbolizing free will, and final- ly two young women symbolizing reason and volition. After visiting the palace, guided by the latter two women, he is taken to the three palace gardens, which are ultimate expressions of human artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at length, as the descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable importance in the subsequent history, imaginary and practical, of landscape architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees, Logistic said to me: "Poliphilus, you have already seen many singular things, but there are four more no less singular that you must see." Then she led me to the left of the palace, to a beautiful orchard as large in circumference as the entire dwelling where the queen made her residence. Around it, all along the walls, there were parterres planted in cases, intermixing box-trees and cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with trunks and branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated that they could have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with spheres one foot high, and the cypress- es with points twice as high. There were also plants and flowers imitated in glass, in many colors, forms and types, all resembling natural ones. The planks of the cases were, as an enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and painted with beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with gold molding on top and bottom, and the corners were cov- ered with small bevels of golden leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made of glass imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory with white flowers similar to small bells, all in relief and of the same colored glass modeled after nature. These columns rested against squared and ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same material. Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed between two moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed the architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as well as the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered foliage, such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the vaulting. The ground plan and the parterre of the garden were made of compartments composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with plants and flowers of glass with the luster of precious stones. For there was nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant, fresh and fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to some compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements have served as models for both details and major elements throughout the his- tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less delectable than the one which we just showed him." This garden was on the other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass, and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds, just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal, resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures, square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion, signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity, and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or beginning, as is God. Around its circumference are contained these three hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which, by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The helm or rudder which signifies the wise government of the universal through infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to understand a "4° participation of love and charity communicated to us by divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera, residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of nature combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of perfection later to become stereotypical. The island is circular, with crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees. The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate, chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube, sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does, gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall become the standard features of Western landscape architecture: trellises, bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony, calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes, chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers. chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable "source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus (which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an allegory for the "third nature" that characterizes the art of gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*? The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation is like a sparkling dart."^° No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and evocations of each object, and the symbolic interrelations between these objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination. Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek, Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil, Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity, contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational- ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven. Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent, revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in establishing the structure and significance of gardens in general. For not only is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative, dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions. Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions, the "third nature" realized from combining artifice and nature, are instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art include not only the material and spiritual traditions of the period, but also all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence, heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric, static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative, fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change, growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic, syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1 Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans. S. G. C. Middlemore; New York: Harper & Row), PETRARCA, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et desprodiges (Paris: L'Harmattan, 1997), 48. This book is an excellent study of the secret garden, from the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance giardino segreto to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in Introduction to Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia University Press, 1965), 557. 5 Ibid., 560. 6 Cited in ibid., 562. 7 Petrarch, "Ascent," 562. 8 Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson). 9 Ernst Cassirer, The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi (1927; Philadelphia: University of Pennsylvania) Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space (London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le lieu: L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y. Edgerton, The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper & Row, 1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion, 1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow (Cambridge, MA: MIT). 13 Forexample,theVillaLante (Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello, Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most typical and famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris: Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist Garden," in Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt, Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press, 1986), especially 42-58 ("Ovid in the Garden") and 59-72 ("Garden and Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15 Cited in Lionello Puppi,"Nature and Artifice in the Sixteenth-Century Italian Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16 This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great chain of being, see Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New York: Harper & Row, i960). 17 KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans. RalphMannheim(NewYork: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say, the present essay presents only the broadest schematization of these complex philosophical issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in relation to the development of the Italian Renaissance garden, and thus to inspire the reader to further investigations. 18 Cassirer, Individual and Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to aesthetics in the seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20 Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also Paul Oskar Kristeller, Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton University Press, 1980), 89-110, 163-227. 21 ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky, Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky, Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was effected in both direct and indirect manners, much in the manner that psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the relations between theoretical systems and artistic production, where partial readings and misreadings in no way obviate the efficacy of "influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle analysis of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the experience of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242, n.3), astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia Lazzaro-Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante: "Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings inscribed in artworks, rarely how such meanings were read by later visitors." The great value of Hunt's book is that it accomplishes both feats. 26 Cassirer, Individual and Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in Arnold Hauser, The Social History ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951; New York: Vintage Books, n.d.), 129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos, 83-7, 115-9 and Paul Oskar Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance (Stanford, CA: Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni Pico della Mirandola, Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. Elizabeth Livermore Forbes, in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller, and John Herman Randall, Jr., eds.. The Renaissance Philosophy ofMan (Chicago: University of Chicago Press, 1948), 224-5. Juan Luis Vives, Tabula de homine (c. 1518), trans. Nancy Lenkeith, in Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy, 389. Juan Luis Vives, cited in John Hale, The Civilization ofEurope in the Renaissance (New York: Athenaeum, 1994), 510. Lamarche-Vadel, Jardins secrets, 94. On the transformations of epistemology, natural classes, and botanic knowledge, see 79—121 of this work. The locus classicus of the subject remains Michel Foucault, The Order of Things, n.t. (1966; New York: Vintage, 1973). Cited in Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958; New York: Norton, 1968), 2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218. Ibid., 99. Perhaps the most familiar contemporary example of this dictum is Mohammed Alls "float like a butterfly, sting like a bee." The erotic poetics of the Hypnerotomachia Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Wind, Pagan Mysteries, 104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos, 158. Wind, Pagan Mysteries, 21. Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice Roche, Monteverdi (Paris: Le Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity of the author of Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always attributed to Francesco Colonna, a Dominican Friar of the monastery of SS. Giovanni e Paolo in Venice. There is one theory that the book was written by Alberti, which, whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived between the two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was pub- lished, with illustrations, in a mixture of Italian, Latin, and Greek, in Venice by Aldus Manutius in 1499. An abbreviated French translation by Jean Martin appeared in Paris in 1546, published by Kerver under the title Discours du songe de Poliphilr, the English translation, entitled The Strife ofLove in a Dreame, appeared in London in 1592; the contemporary Italian edition of Hypnerotomachia Polophili was edited by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi (Padua, 1964). Translations in the current study are by the author, from the recent French edition (based on the 1546 Jean Martin translation), Le Songe de PoliphiU (Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and transliterated into modern French by Gilles Polizzi. On the influence of this book in France, see Anthony Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in lyth-Century France," Journal ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37; this is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in the Hypnerotomachia Polophili for considerations of the landscape are briefly discussed in a book that is, in its breadth and depth, a model of scholarship on gardens and landscape, Simon Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred A. Knopf 1995), 268-79. For an idiosyncratic and su^estive allegorical read- ing, see Alberto Perez-Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited (Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44 Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45 Ibid., 125. We find here the origins of Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276. 48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel, Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de Poliphile, 325. 51 Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989), 77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and Language in a More- Than- Human World. New York: Pantheon, 1996. Adams, Henry. The Education ofHenry Adams (1907). New York: The Modern Library, 1931. Adams, William Howard. Nature Perfected: Gardens Through History. New York: Abbeville, 1991. Alberti, Leon Battista. On the Art ofBuilding in Ten Books. Trans. 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Dahl’s daughter died from complications of measles – unnaturally so – poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Colombe: l’implicatura conversazionale di Galilei – Aristotele e la stella nuova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo avversario di Galilei.  Non si sa quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.  Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra.  Per conciliare le osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra C. e GALILEI che stima pochissimo il suo avversario, che soprannominato “Pippione”. Vari accenni a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degl’Italiani, Amici e nemici di Galilei, Milano, Bompiani. Aristotelismo. by Drake DIALOGO   DE CECCO DI RONCHITTI  Da Brvzene. IN PERPVO Sir O   De La Stella Nvova. Al Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego de Paua, so Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte, per la medejlma Stella,  centra Arjlotel^ .  ls3 *9 «3 te te te In Padova,  g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v.   H ikSk tk^s skfjh «^EsS*«JbJU (?X:§(s P AL LOSTRIC.   EREBELENDOPÀUO::.   EL SEGNOR Antuogno fquerergo Dennett fimo Calone o de Vjua,  Vedifleo, RebelédoSegnor  Paròn , s'a vee&è on voftro  puouero feruiore,que no fé  me altro , che la boaria, e'1  mefticro de pertegar le cam  pagne, ade-fio, que el la to-  leflfe co* vn Dottore de quiggi da Paua, per  via de desbuta ? no ve pareraela na botta da  ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre  fé conto c'hò fatto con fèquellù, che le mef  fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio dottore . L'è vera , que inchinda da tofatto , ci   A 2 me     nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito,  e fi a g'haea gran piafere desfeguranto la boa  ra, le falce, i biron, la chiocca, e'1 carro,con  tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae  iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil-  le, emilliantabotteadire mona confa , mò  n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella  nuoua, que dà tanta fmcrauegia a tutto el  roeflb mondo ; per conto de dire on la fea, a  ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia j  faellanto, edesbutanto co quanti difea, che  la n'iera in Cielo que fé ben a no ve n'ada-  ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi,  efia vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio  fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a tegnia mcn  te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef  foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg  gi , fé conto cha m'ho mettù el voftro gab-  ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha-  nore. ma fé, pre mala defgratia, el ghe foef-  fé qualche fcagarello(cha no'l crezo) que o-  lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche  a darme alturio,fipiato che l'è voftro. Caro  Paron habbieme per recomadò,cha prieghe  lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da*  ghe vita longa, e fanitè .   Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie cento,  ecinque^.   Seruiore della voftra Segnorra   Cecco di Ronchitti, Quiggi , che Rafona .  Matthio. Nale.   Ootta de chi me fé 5 mo  que feccura , que brufa-  mento e que fio ? a sè> che  no vuolpiouere mi , bon  ctt aqua . Mo no difegi ,  que a le Vegniefìe l'è a man a manfute  le lagune? Penfeue^elfe ven ape inchin  da a slarilafofina . <td pojfon ajpiettar  de belo, que i fromintinafcira. i nafcìra  condife zJldafchio . N A. a dio, a dio,  Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl  sì fora de ti an\ MA. ben ve gnu Na-  ie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'anda-  fé a lambì canto el celtbrio, per que no pio  uè mi , que fin parfefire de Ht timpt?  gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé   rompa % rompa , per le pine ? NA. Ver canto de   quello , l'è ongrétn dire y que tant ciòtte  el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò ba  da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare  el fabbton gnan tanto co harae fatto on  pijfar de rana . <*// evèrtè < que fé l <và  drto così a feron al finimondo mi I p> è e  tutti brusè y le campagne fecebe a muo  noffo \ tanto que a longo andare, nu elbe  Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne  tre. MA. Tirate on può fottofla voga-  ra 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a  fera, da quecrito mo cheU fprociedafo  fccume an ? NA. mo nheto vezju quel  la Stella, chesberlufea la fera \k tn mi-  fi, que laparea nogio de z^ostta) e fi a-  dello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*.  fare, que la fa on [pianare belettfèmcì  no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre-  (co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o  d adejfo ? mo tè ella cafon de Hefmera  uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori  \ dottore da Paua. AIA. Cu in feto ti,  que la no shablne me pi ve&ua ? NA,<*si fen- % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on  certo slibraT^uolo.efiel dì fé a , que la fé  fornente a desfegurare lomè a gì otto  del me fé d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^  zjtolo el l' haea fatto on lettran da Pa-  nai chel contatta , pò afe con fé . MA.  *Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta ,  faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello >  il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi  la noghefuppifta ? -Guari mi a n ho mi  *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe . NA.  Jidopre conto de quello , el me par pure  aria mi , che la fé a nuoua . AIA. qlA no  dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò  de fae Ilare ne ben \fe miga elfoejfeper  gramego , NA. ^4 fé confagòn tonca,  que te nuoua. AIA. Sì, mofeando tan-  to lunz^i el no pò faere &g que lafippia ,  per dire, che la xe ella, que no laga pione  re . NA. ^liedio, lim^i , la n'è gnan  fora a la Luna, per quanto dfea quelli- _  braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù , e' ha O]  fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? NA. Nò, che te Filuonco . <&1A. Lì   Filuo-     Fituorico ? e ha da far e lasoflluorìa col  mefurarc ? No feto , que on z>auattin  no pòfaellar de fibbie ? El he fogna crerc  a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de  t aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a  pagne, e fi a pofjò dire, a rafion 3 quanta  le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA.  El dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9  che ì Smetamaticht ere, que lafippia elta  de bebi ma che i no l'intende . A4 A. mo  per que no l'intendegi? me truognelo, o  me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i Si-   *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele , e  z^enderabele in quato a onpuoco a la hot  taf e mtga elno poeffe gender ar fi, e fior  romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ?  MA. On faellegt de fiere fon tfmet ama  fichi an ? S'i Ftà lomefulmefurare>quc  ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi  le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo-   m raegi ne pi , ne manco tuorlo definirà ?  mo el tne fa ben da rire, con Hefuò sba-   *~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi-  fi confi de Ha fatta in pur afise luoghi de   quel     quel libra^ZjUolo.sZMÀ. Que vnctu mì> ^*jj  cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p " u  s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que  fé lafoejfe sbenderà da nuouo in lo C/c lo,  el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o  qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in  so fc ambio liueluondena, h vefinaqueL  la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco .  Ai A. TV parfeche'l faelle con gifmeta  rnatichi ? tamentre l'è tanto fcapu^ZjUa,  cha no poffot afere, mettamofegura>que  onpuoco de Cielo chiue, e n altro puoco li  uè, s'habbi combino a vno^ el s'acuorz^e-  ra elio on el manche ? quando fé fa le nu  noie, e le piozje, onfevèelfegnale , que  le fé a He tolte per mettrele wfembrefmo  digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie  re, perche el "vuole, che lafappi incende  ra line elltk? Epos'imaghinelo (la ferae  ben da dire al preue ) que tutte le felle  che xè in Cielo fé pofia vere r el ne pos fi-  bule . Eperz^uontena>> chi me tèn, cha no  pvjfa dire* que trè>o quattro, e ari pi [iel-  le de quelle menore , che no fé <vea,fe xe   B amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a <iran~  de? No porae an efifere ,que la fé foejfe  penderà in Papere, e pò , chefempre pi  lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^  refie con/e, per que la ne me firefesfion,  no me ri mudatomi-, bafia > que gnan elo  noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche  quefiofea el neruo de la rafon de Stote-  ne . ^MA. Toncafipiando così me fero  el neruojutto el so Zjenderamento.e fcor  rompimento ander a in broetto. NA. S'i  nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL  la . Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare  in Cielo de le ftekenuoue, el befognerae y  que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor  rotta qualcuna de quelle >che fempre me  xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuor-  do quante : bafagt eparegie\£ fmoghin  manca gnegima, que el lo difettatene .  MA. Pìivh , mo queHa firen%s benfen  l^a penale, chi diambarne ghkndttto* che  Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce  ben on fpianXare , mo no na [iella. E fi  mt a thè wchtndamo chiama [itila > per   que     que la in par e, fé ben la rì e, corri e le altre.  NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì  mi ? bafa.che la riè na [iella purpiamen.  e file altre fi elle no fé xè me ftorrotte,per  que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe-  fogne dt f Atti fuo : mo no de quefìa , che  fipìanto vegnua, l'è anche ti deuere,quc  la vaghe via . E per conio de dire , que  no s'ha me ve&uHelle afeorromperfe^ re  [pundime on può. La terra ( che xè me-  noredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta  in fona botta ? NA. Mo, copeforinfe  la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf  fangi tutti a fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A  cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a può  coel fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe  anche de le [ielle, que xè [ielle. Pure > a  domanderae enti era a queliti dal librai  z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella  no fé fa mèfeorrotta de fatto, che per di  re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab-  li ado, e (jue el Cha ditto Stoterte $ le me  par noellemi . NA. el dife>cjuefefia [lei T „ rf t x  làfoefje m Cielo>tutta la fluori** fnatu- cap ' r *   C 2 tale raleferae na bagia $ E que Statene ten \  que arZjOnz^antofe na Bella in Cielo.no l  porae muouerfe . AIzA* Cancaro, l'ha  bìo torto Bd Bella, a deroinare così la fi-  luorìa de que fioro . s'afoefiè in iggi a fa-  rae e et aria denanz^o al Poe fio mi , e fi a  ghe darae na quarela depujfefsion tmba  t a, e fi a torrae na cedola reale >e per fona  le incontra de ella, per que te casòn, que   f ?&c ni " e ^ Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te  manco male^ che el ghe nepancchiie an  di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA.   ^j; Mo rì altra, con que re fon (difelo) quei  Cielo de fora xelo da manco de gì altri ?  que elvegniraea ejfer da manco fipian-  dofcorrottibele,e naffan doghe de le (leU  lenuoue , e no in gi altri , eh* è pi baffi .  IAA. Cancabaro, da quello a zi altri, el  gtie defenientia, per conto de macre , pt %  che né dal monte deB.ua a on gran de me  gio ; ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^  el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo  nò fi altri , que gì ha afse dcvnaperv-  no>e phfclghe nafajje anche in iggi quàl   che che flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti la  verde defatto f 'o te cottora. NA. Eldi  fé, que per fare el mondo Fptefetto , bo-  gna> che ghefuppì qualconfa incenderà-  bete , e incorrottibele , e fi la no pò e [fere  altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per  que mò cosi el Cielo ? E mi a divenne el  Parafo, che xe defora dal Cielo , xe elio  così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La  ghepar na confa imposfibole^que na biel-  la così gran de tifj^e ma poffa de fatto borir  fuor a in tvna preuifta . MA. E a mi  nò. Quando na Vacca fa on Veello, alt»  hora % che te lomenafìi, te maored'vn  ^Agnello que fé a crefsu inchinda in cao .  per que mo? per que la mare delVeello,  don belpeXzjatto, tè maore, que riè na  Piegora . Fa mo tò conto , che Uà Stella  despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere  gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan  te defletto ala terra, te parfe mò , que  tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe  tè così, a comuò calelajn pè de crefcere,  la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela     e p. 4. qjavhe maghe dagnora pi in su mix, e que % l para]  che la cale, per que la ne <va lun&i.NA.  Pian, che el libraÌQUolo df>que i primi  di, che la fé vele la crejcè on btlpuocofe  l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare $  per que fempre la ferae cala. MA. &4l  l'hora quella dal libraz^z^uolo difea ef  fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que  la prima botta eh a la <vitila me par [egra  denijjema , e que fempre la xè cala , per  muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie  refon no me per du fé ami >e fi afaello,per  che quellu dal libral^uolo va majfafuo  ra del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin  carezza. Orbentena>fìnti an que-  lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente  in lo Cielo, per que {di feto) el befognerae,  che'l ghe foeffe di contragi, e che ino ghe  pò e fere, f piando que tè ria quinta /una  ^t, òfoHantta\ quefegi mi? A1 A Mo  sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere  quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i  feaviui,e fi 1 1 noi fat Ilare de Culo. §A  cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai   do >     •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an chi-  ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f  fo,e del chiarore dei Inferitele dei feuro?  che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a l'inco  tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha  [iella ghe poca cffere,e fi no glfiera , e fi  adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo ?  moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora  quel , che 7 vuole . E pò elio el fa conto  de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar  lega de He re fon ? on fita halo catto , que  onmefuraore vaghe Jfelucato sufìenoel  le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo  cane aro , el gti arz^onz^e , que fé in Cielo  ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo elno  fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el  doenterae tyejfo, e f curo. AIA. Si fé qui  leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo  gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na  botta adire al mèparon.que el difea.che  Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que  a fio muo,el Cielo noporae anar a cerca  <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti in sii,  in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi   a diejfe Io  di C  nico     eap. 7-     a àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe  attorno ? El gh' amanca i sletranique di  pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa na  ^! pe " muoia da molin . penfate mo ti de gi al*  tri con la va a faellare , tutti sa fretta-  re > NA Eldife pò, que la fi ella xe ape  la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no  che pò efserfuovo. ^1 A. .L'ha fatto ben  adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon.  NA. E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quel-  lo, che lecca ci culo (a vuos/idire, el Cie-  lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea  ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el  u Cielo no pò e fi ere de fuogo,per que fan to  così grande el bruferae tutti gì altri le-  minti . MA. <z5fy'lo me vegna e l morbo ,  che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe la  yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na  fa! tua fola no bajìeraela a tmpigiare on  paviaro, e pò anche a brufare quanto le-  vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì  mi. MA. E fi quante fornafexe atmen  do, le no porae brufare on Cecchin , che  foefje d'oro, per que mò ? feto per quei mo   per     per que loro no fé pò brufarc . e così an*  che fé gì altri lemintipoejfe brufarfe, ba-  Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet-  to-, fenXa tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe  va la , quanto de quello 5 mo crito pò ù  fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA.  oA no dt eh e così mi .Uè che'l dottore ci-  ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife  fenz^a metreghe su volto, gnefale. NA.  aPklo finti ti altra , que la ne miga da  manco no. El difè ì que i fmetamatichi  ha de boni ordigni , e de le re fon freme y  ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co-  mito fé ri elo adb elio ? feraelo me fr elo de  la t or dal Bo? aldime mi. fé on fmetama  fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà :  Naie, mi a <vub faerte dire quanto gh 'è  per aire da lì a nogara a l'arare; e fi el  lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo-  uerfe 5 e col l* babbi me furo , e quelite /'-  babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì co'vnfi  lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi  que tè così 5 no che r de reto , che Vvouere  ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi , que   C cade ?     cip. r .     p.l     C^>.     tap.f.     cade ? MA. Perche toncaquandoel me  fura na Bella (per muo de dire ) ogiongi  dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla ,  chel falle de millanta, e de milion de me  giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a  dire, quattro dea, b na fpana,a taferae.  mo de tanto ? l'è maffagnoca. N A. Se-  topo, querefon de i fmetamatichi^el ven  a contare? MA. T>ì mo. NA. Vnaxè  de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer  cene, e que la Stella, così a no la pofsan  vere, per pi de mezjhora. E n altra de  anarghe fottoapiombm , caminantoghe  al ver fa vinti dìt me gì ari. e fi ti dife.que  le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è amo  frare , que la fella fea pi in su de diefe  amegia-y e fan elio di fé, che l'è on belpez*  ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è aguti*-  Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChri-  Bian, que la Bella vaghe pi in su de die-  fe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè  fegnale que le riha da far con elio 5 per-  che tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e  pò dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re*   fori jfo# Ufo fatte (per quanto ì dìfea a Vaua  7^k buoni di) con tra on inasprente di fi-  luorichi de S tot e ne , que althora tegnta  duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die  fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dalli-  braZj^uolo die a lagarle Ilare > que le no  ghe daea fall ilio . NA. orbentena, ghe  ne pi? diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg  gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on brut  to intrigo de Prealajfe , e de <vere , e de  Luna . que fegimt ? p rifate, che quellù,  che le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de  tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A.  £1 die haerla intriga a polla elio, perpa  vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la fera  pò a n altro muo, perche a se ben mt,que  de la Prealajfe el no pò haèr rafon. che  l'è on muo de me furar e per agiere,maffa  feguro. NA. Lagame mo vere sa me rì-  arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9  che no fé pò guardare de meXpfuora a na  lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji , el  nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfima-  mentre ,per que t 'è na confa, (ondale que.   e 2 ma. cap, *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe ne  ditto pareggie in fon groppo . chi è quel  lu, che cherZja de poerfmirare de me%o  via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof  fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio  a imaghinare ? gh' in falò de pi belle ? que  Ha fera lacrima. V altra, a comuo e at-  tenevo miegio el mez^o d*vn criuello j  mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^  iTb" d & te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe  E b uctc & t' ^ a lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin, a  no porae gna desfegurarlo que flejfe ben.  MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9  que no fé pofa cattar el melo^ de le Ftel*  le \ per che gièlun^i ? %A l'altra . in che  dariflo pifremamen in lo mez^o % con na  occhia Jn quel d*ona ballalo d'on gamie*  ro? NA. CancabxrOi aona balla iper  que co a l'effe giti fi a infdhverfò , la fé-  rae giù fra in tutti . M A>E pure elio el  dt fé a l tn con tr agio . NA. Mo elgh'ar-  ZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa  pècchemneyper cattargheel meZj0.MA.  sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca, in     )     t on     t'onboccon. dime onpuotì. a comuòpo*  rtfto fallar pi > a dar in mez^o Confondo  da ttnaz^ZjO , o d*on taglerò ? a dighe de  mofìrarlo. NA. Fotta , a por ae fallar  don belpuocopì in f ti fondo da tinaXr  z^o , che in t el tagiero . A4 A . Efielbon  dottore dal libraz^z^uolo dife a l'incontra,  gio . Va modriOy de fa Trealaffe. NA.  Aio no fé podanto fmirare de mtXof r uo*  ra a le. fi elle , no fé pò [aere on le fìppia  ( dif lo) perche no fé ve elluogade drio*  ghe . esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban  fu ngraile de la me fiala da manie chel  lo f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su  quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn granfa  re . a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e  tr)> inchinda > chafoeffe Ime , e quando  heffè ditto , con far a e a dire 9 nuoue> e e ha  veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el  gabban , a dirae , que l'è fui die fé mi .  no vaia così ? AdoA Mo la no pò efsere  altramen ella , e così anche fi vena far e  in lo CielOifeben quel letr anello non s'in  sa adare . Uè benpìgrofso, che né elto-   raT^Q cap. tf.  «ap  Cip. 6 razzo de Cremona vè$ che ì dtfie> que l'è  ****• s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar  don in la Luna, el noflro vere fé ghe fic-  ca entro (dtfielo) e perz^uontena ho fé pò  fare la prealafiftLJ . <&dA. Chel me fio  che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn  te Belle de fora , chelfiarae on pia/ere ,  fé lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo*  rae fallare, el me par pure , che'l diga ,  que no fé pò vere mela la Luna, negna  mele le He Ile , filanto , che le xe grande %  e'I noflro desfegurameto tira mafifaftret  to , fie ben elfie va pò slargamo . <&14A.  ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela  da che cao te vuofi , l'impegola . che me  fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere tut  ta la Luna , ne gnan tutta na Bella? no  bafla eh a la vegga on puoco , e cha la me  fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò>  te na bagia la que fi a . doh mal drean$  el fie fafiea pò bello , d'haer catto na fpe-  lucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta  mattchi . IMA. Seto que le na confia >  che no gtìì me fio penso ? mo per la ma-  re     cap. 6     re ib. T-  ' re di can, que inchinda on Veelo thàfk  pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a [X.  dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££  riha te gnu tanto in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i  ctì andagamo inanXp ? <^/aA. Sì y di \ 28 ° Fr '  NA. F rello te te fari s fi fcompifso da ri-  fo y Whaisfi fentio vn batibugio , que ghe *•«*•   Xèy de <lA> By Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^ , 1? »»   talea offerire , che la Prealaffe e bona ,  mo i fwetamatichi no la sa vouerare ;  que flaghe ben . <&14A. Elnodie inten-  dere gnan elio zj> y cheldifi^ . Tirate  on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y  che apèfiofofsà ? NA. Sì mi . MA.  *Uito mo quell'albaray che xe lialuon de-  tta vefin a tar&erz_j ? N<tA. Quale?  la grande , la pigola ? MA. Lapec  chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo .  MqA. Orbentena , guarda mo bender-  to $ qual te pare , che fea a bo da man *  de Ho falgaretto , e de queltalbara ì  NA. Staganto così , el me pare mu que  talbara egnirae a ejfere a bb da man .  M$A» Tirate mo da ft altro lo . NA.   ave-     a njegno . M<tA* F remate chine, e ade/  fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el  fato aretto farae elio a bo da man , e l' ai-  bara a bo da fuor a . zsllzA. ^rue te fa  mo a ti 3 fé miga te no <vi de meZjOfuora  el falgaro, ne l'albaraf e que danno te  da, -per che te nopuofivere anche elio de  drìo , de tutti du ? N$A. ^Mo gnente ,  per que afmirofegondogi *vri de le fior-  z^e mi, e no figondo a quello, cha no veg*  go . <&dA. Elfi fa così anche in agiere  <ve , e que Ha xè na forte de Prealajfe . Torna mo chiue on a fon mi . NA <±A  ghe fon <vegnu mi . a^kttA. Cjuardanto  de cima via aflo falgaretto.puotuvere  queltalbara , cha te difia , fi ben la ghe  xè per mie ? N<tA. Lagame mo guarda*  re.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl  mo tanto lunl^, che guardanto de cima  fuor a alfalgaretto, te credlsfi definirà-  re derto a mez^alama.e te t o facuorz^tf  fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot fi  fi pi elto de /li du . N<t/1. $A fi ietta cha  ghepenfe on puOco : %A dirae defatto,   que     que t albata foejfe pi baffa> t*l falgaret  io pi etto mi 5 per que el me parerae co-  sì* anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori  può ri altra con fa. va su fi a nogara,cha  fagiere mi . NA. One vuotufare ?  zZl'IA. vaghe , e Po te fenttnefi . NA.  <td gtiandere , fda che te vttò così .  Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male .  NA. Ta de mi ; mo a mefongifquafo  fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio.  Ai A. G hefìto ancora ben fremo? N A.  Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a  fmtrare quell'albara , che te guardaci  an chi de [otto . NA* E pò ? <&dA.  S mirato a quella dertamen,puotu vere  ftofalgaretto > co te fafìui flpiato de fot  to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu  Xi. così a telta> a dirae, queelfalgaret  tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca lo*  cha te contere de belo . NA. E l gif è  puocafatga a f aitar z^ofo . Al A. S in-  time mò.per que quando te gì eri ab affo,  elfalgaretto tepareapì elto delialbara\  e ftpianto su la nogara , el te parea a   T> l'in-     'tincontragìo j perXuontena àn queHo  xe ri altro muo de Prealaffe^j . que  Prealaffe ven a dire, con far ae a dire ,  defenientiadeguardamento . Fa moto  conto, che fé t'andiesfìsìt quel moravo,  che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì baf  fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor-  niesfipo da IV altro lo,elfalgaretto te ve  gnirae a parere pi elto de l* albata. , e &  bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo  de Prealaffe ^fegondo, che me defchia-  rlna botta el meparon. ttntindito mo?  NA. Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè  on gratto da vacche, a me fmerave-  gìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha  fapio faellay e lome d'ona forte de Prea  laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa  •rae Ho anmafa , fel , ri keffe fatilo con  fé die . Orbentena ?fa mo to conto, que  fé la He Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe  ve sin co èflofalgaretto,a por non, le fisi  le de fora nefarae don bel peXzjOpilim  ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popi-  bolo >que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h   ci     cap. y.     e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de  guardamento ? e pure tutti la *ve in lo  rftèdìerno luògo, api k quelle [ielle, che i  ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe  fita del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo  el tòfaellamento rièbon,perque nepof  Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $  che elio di fé anquellu dal libralz^uolo a  AIA. Nò al so muò de elio , el no fé pò  faere . mo i fmetamatichi chela catta,  beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi ,fe  lome, che the refon da vendere . MA.  Crito mò,chequellu d al libr aiuolo di  rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa  raeben 5 tamentre elporae efjere tanto  depinion , queeltegniffe duro . cinque  in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo , e  chel metta a me conto . NsA. ^A no se  miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l di-  ga (l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m  dtfelo, che in gnegìm luogo ,fe tome , on  el ghe xè fora dertamhì > e apiombw ,na  fepòfare lafcoridaruola del Sole? a thò  purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu   2) 2 brio,     cap . 6.     IfrOTCII,   «ap. 7-     èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna  gi vogi) el fé por a chiarir e,che, per yuan  to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio con  que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La  Luna fé va volz^anto (difelo) e filano  fé pò vere dert amen dome quando la xe  in Z aneto . <&14A. Tornami) adire .  NA. El dife elo , che nofipianto la Ltt  na in Z aneto, no la pò fondere tutto et  Sole . ^MA. c Doh giandujfa , fio può-  uerhomocrhque la Lunafea nafritag  già elio . Con cane arOychefìanto ella reo  da 5 quiggi , che Ha in Zaneto , gtitnpò  "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl  Sì. que vuol dire Grafalta? &WA.  eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé  elio, que l'ina nuuola a muo latte , ve-  sin a la Luna , e que la ne altramen in  Cielo . <£WA. Oò , a tendendo adejjò.  l'è laflrà de %flwa . NA. <*An sì sì, la  fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue  la ni in Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo.  MA. Con cane abaro ghe dijjangi tonca  nù P Hra de Roma, che vuol dire , Hrk     del Par affo, fé la no foefse ti fufof ] NA '.  Cjuarda ti . e sì elfapo delle sbraofarì  contra onFUuorico(eben an divieggi)  che no crea,quelafoeJfe in Cielo , per  che ellodifea Stotene > che la gh'iera .  Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que  te fera, in f agno muo a pò fon benfael  larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha  ve gnomi, pooh, el ghe ne que Ut puoche  ancora . el di fé , che la ftella nuoua la  trema>per que la fé va suentolato,quan  do la va a cerca . ^lA. Ghe'lcritotì?  JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef  fé paregte delle flette, que va a cerca , e  fi no trema mi. e fi el trema tome quelle*  chexe elle, elte>perque a nopofsonfre-  marle de vifta, che paghe ben. e anque  fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd:  Àdò va , che te sì on Rolando . NaA.  Tamentre que, nofapianto queHù, on  la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere co-  muo la flpia incenderà 5 e sì le venaej  fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé a  \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala   el     ni  cap. U     cap. 19.     elle fogna ben > que la fea così. NA.  Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo  dt Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i   loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ? NzA* El dìft ,   que la Beila durerà afte s afte, /e s'im-  batte j, che L Sole no la desfaghe , elio .  At^sL El poca an dire, que la durerà  inchinda , que elio va a romprela 5 in  t* avno rnub , con la (e a anda via, el pa-  ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà  rotta . N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal  drean $ quejìa farae ben de porca ! El   *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno  confa, e que l'è na Bella de quelle bone.  J\d<zÀ. Inchindamb la va ben , quanto  de quello, mofe la tegmffe mo fremo con  Bi ficchi 9 a que ftjfangi ? crila purea  tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel  le puoche con fé . M<t4. Con farae a di   ^; re ? NtA. Con far a a dire^ quei doen*  tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te-  stura a la verite . AisA. Vete> che'l  se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no vito  a comno te agnino \ el ne amposfibolo %   chel cup. li. chel viua , habbìanto tanto e dibrio da  Xoene^j . N^4. T^e me sbertez^à nero ?  dì pìprefto , que el fprenuoUuo è Ho ve  ro in nìi, que a s'haon tegnu a la veri-  te, fé ben elio voi e a archiaparneght^j .  zTkfo/l. T'irà , che f he vento. iVW.  El dife pò anche * que Ha Bella ca7z, \ -  ra via le giottonarì , le rabbie 5 quf /i-  gi mi ? oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle  in perorare , le nuollre carte > mo ano  me fmerauegio difuofprenuoHichi,que  tutto el so libr alinolo me pare onfpre  nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a  indiuinare^ . N^4. El dife ben , che  el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F '  [lampare^ . zsì4<iA. Che l foghe pre-  flo,per que feanto vesjn Li ^Marefèma-,  e l farà bon da qual confa an etto.ftgon  do, che que fio n ha fatto rire adejjò y que  l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt ,  che le&ea diffe , che'l creapurpiamen ,  que el l'haefje fatto flambare per ven-  derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo M$A> Che'l U&re tene* a tfazy   Zjargi,     Lorerc*   cap. f.  6.     sgargi, e fé ghe nauanZjeffe qualchuno,  chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel  caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3  che l farà ben meffo in conerà . N<tA.  Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare  a cena con mi ? a fin dare ontiera ve .  Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe  nega rri afptetta 5 tamentre a fin def  grati . AV/. $A T>io tonca .  MzA. sA 'Dio . IL FINE IIMII     asS a£$5  * 1^/7 >" r» * 1 "- ; <r*  li u TU ■   1 JL ■ ■a     ■ Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library. Colombe.

 

Grice e Colombo: l’implicatura conversazionale dell’idealismo toscano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in  L’origine del linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del pensiero filosofico. Introdurre alla   comprensione e  uso dei linguaggi e degli strumenti specifici della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della società edella storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute     e  salvezza dell’uomo. Il senso della cura e dell’educazione. Una sfida per la ragione e per la fede.Valutazione critica del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in  tre  momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno. C., I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Kierkegaard, La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché completa): ai  fini della prova d’esameè richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la disperazione; J.   p. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma (o altra edizione, purché completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni in aula, ricerche e percorsi personalizzati. METODO DI VALUTAZIONE. valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio, Cap. I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI iov jtw&avtt 1ft$ ovx d(is- 17i  kiztjTos slvca. xcd y«Q lxvy%av ov tcqcoijv sis u6zv o foco- 4 oh <s3 poi* Stallb. ad b. 1. Facit, inquit, Plato Apollodorum inter epulas versantem et convivis narrantem ea, quae hoc libro continentur. Sed neque epulae commemorantur, nec convivae  Apollodori, ut sane mireris, Stallbaumium in re dubia et incerta certum iudicium exhibuisse. Platonis voluntatem declarant verba  p. 173. C., quae primus Sydenh.  corrupit. Eius couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent ceceutiores, ad unum omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio vulgata est: “ovxoa 8rj iovreS apa xovS AoyovS  itepl avt&v lizoiovpE$a y dkxs,oitEp dpxopevoS EtnoVy ovh ape-  AextjxodS d ovv 6 « nai vptv 6i7]yij<5a6$ai , xavxa XPV  7toutv”. Apollodorus nimirum cum  domo relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio habitos ei repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post redeuntem, ut videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere, h. e. inter  eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS AoyovZ  TtEpi avroov ItcoiovpeScx”)   TtvvScivEd Se. Vulgo additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINO in conversione agnoscit, neque vero sententiae ratio exigit, merito omiserunt Belck., Stallb., alii. Praeter codd. optimorum fidem “notheias” suspicionem movet ipsa  sedes “nun” particulae , qua sede  effcitur, ut nescias, ad antecedentia pertineat, an ad sequentia  temporalis particula. Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula  verba convertit: Ich glaube anf  das, wonach ihr ietzt fragt,  nicht unvorbereitet zu sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis, quod praesenti tempori opponatur, otiosam  particulam ietzt censebis rectissime. Nam priori tempore non exegisse viae comites sermonum  [“Sttv avicbv (frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv  xatiduiv fis xotftfa&sv ly.uX.t6B , xal xaLfcav a (ice ry xXy-  6tt, '0 <PaX.ijQtvg , k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor disertis verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum Wolfio:  letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid euim?  Tempore aliquo non praemeditatum Apollodorum fuisse ut per se intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum, ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis, optime instructus.  $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat  Schol. ad h. 1. $d\7jpoy 6ijpoS  AlavriSoS, IB, ov AnoWo&GopoS,  Quia autem, inquit Hiickertus, ad mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de eo, qui in urbem tendebat, uti ex urbe Piraeeum petens xccxapaiyeiv  dicitur, cf. Plat, de rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus, addito itaigcov  participio declaratur. Variae autem doctorum hominum sententiae sunt dubitantium, ubi iocus lateat. Wolfius in festiva (paXypevS vocis pronuntiatione  iocum deprehendisse sibi videtur, Schiitzius de formula judiciali cogitandum censet, quae addito pagi nomine conspicua allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non efficitur nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c, ^ypod^EYTfS  JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad Plat. Gorg. p.451. B. Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’ 6 xoipaS tt/v Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpe-  if)id8?fS, KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat  huius loci interpres in Scbilleri  Nova Thalia T. II., p. 170. #  quem Stallb. laudat: Ile da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida  haec sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, praepositum; scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset ^TroAAodeapoS" ovzoS o  $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit, ut, qui Apollodorus vocandus esset proprie, idem  a7roAAodc*>pot; epitheto, quod hominis opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum igitur est: 6 <Pa\7jpEvS, Eqxrj , ovros, obroA-  A od&pof, commate p6at ovrof posito, ut nominis per iocum dati potestas elficacius eluceat. OvroS  enim in allocutione cum nomine  proprio coniungi solet, ut in Protag. p. 193. D. , quem locum Stallbaumii industriae debeo, scribitur:  onat lyco ttjv tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv , OVTOf,   pi) n vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I  more Homerico nunc disputamus,  r STEpov npoTEpov, Quin statim revertimur ad explicandum, qui in ficto nomine proprio latet.  /isviig; Kayu bntixag niQii^uva. Kal og, 'AitolXo-  dcoQS, S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as Itfpcow, fioviofie-  vos 8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog Igvvovoiav xal Za- E iocnm lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi  rectissime ut cpaXijpiS pronuntiandum censet Astius, non, ut calvitium carpatur Apollodori, quod nullum fuisse pari iure contendimus nos, atque luisse Astius suspicatur, sed ut vana Socraticorum morum imitatio notetur. Consentaneum nimirum est, et verbis probatur ov XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis modum festinasse, corporis habitu pedumque positu e longinquo ( [nopfico -  Sey') conspicuum. Ut igitur Socrates ob incessum (IpivSov in-star fipEvSvedSai dicitur Aristoph.  iN ubb. v* 361, et Syrap. p. 221.  B., ita Apollodorus $aXrfpis appellatur, quae vox eiusdem fere significatus atque fipivSoS, avem aquatilem denotat altissimis pedibus superbam. Sine dubio autem  multo iucuudior erat, quam Astianum illud calvitium, Apollodoro  anoXXo^oapov epitheton, quando quidem ipse Socrates, cui ille aimilliuius videri gestiebat, datum  se donatumque civitati a deo praedicare solebat, cfr. Apol. Socr, p.30. E., iav yap .ipk ano-  XTEivrfZE, or> jup&UoS aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei xal  yshoioTEpov einely, npoSxeLpevov  xy noXei vno tov Zeov x.t.X. ov X E p l fl£V ElS. Ilaec est Stephanianae lectio editionis, quam Stallb. in textum recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS  ediderunt ex auctoritate codicum. Utraque lectio bona eat i utra verior sit, alii videant. Unum hoc certum esse puto: in interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse aut nullam. Futurum tempus in textum  recepi sensu quodam veri ductus, non ratione. Ad idem fortasse recurrit, futurum an praesens tempus probuveris, neque est, uisi pronuntiatio verborum, quae alterutro recepto tempore iminntatur. xal prjv xal £v ayx 0 ^ ^post pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum est e codicibus. De voculae veritate consentiunt viri docti, de eius explicatione  non item. Riickert. xal ErayxoS  esse censet neu 1 i c h sch n, xal  prjY autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio positum, non esse moneo in principio, sed respicere praecedens membrum ov itEpiplvetS, hoc sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam te quaesivi. Quid? Tu non recte explicas, Riickerte , hanc particulam? Et tamen ego cius significatum ium diu quaero. Satis est, exemplum laudasse unum  e multis, quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur. Protag. 310. A., 22. navv plv ovy . xal  XapiY ye siti opan, lav axovi/re.  Et. xal pijv xal rj/ieis daX,  iav XiyyS. Stallb. xal pijv  xal ad notissimum comparandi  genus revocat, quo utrnmque comparationis membrum addito xal augetur, e. g. xal ivayxof  de i&jtovv, c osnep xal yvv de  %7]TG). Dubito, num recte. Ut  exemplo utar Protag. supra laudato, certum est, amici non hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg xal 'AlxifittxSov xal zwv nV.ov tav toti Iv  r a Owditxva auQaysvojiivav jrfpl zav Iqcouxuv 16-  yav , rivis z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo, «xijxo ag  •bolvixos zov 0Mx aov‘ £<pij di xal Os lidivai. cllkcc  yaq ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak'    bis, ita nos tibi, si dicas,  gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam suam  mutasse Stallb. ad Protag. 309. B. , 2. ev Vpotye ido&v ( sc.  SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS  i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi vvv  7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp  ipov ehte, ftorjSaov i pol , xal  ovv xal apxi an baivov £p-  XO/iai f convertit enim rectis-  sime: und duher komme ich aoch  eben erst von ihm. Videtor igi-  tor xal ZvayxoS, xal qpels, xal  apri cett. in hoc genere loquendi  cum gravitate quadam dici , quae  cum affirmatione coniuncta sit.  Prius xal autem in initio posi-  tum particulis pr/v, pev t dr/, ovv ,  xoi ita inservit, ut easdem ia initio enuntiatiouis ponendas, quoniam per se non possunt euapte vi exordium enuntiatorum esse, suffulciat atque quodammodo  in principem locum orationis in -  ducat. Exempla permulta huius  xal expletivi reperiuntur , cfr,  Symp. C. xal p7fy 9 eo 3 Epv~  £>ipaxe, ehteiv x ov 3 ApiSroq>dv7j t  aXXy yh tctj iv vqj 2xgo Xeyeiv  x. r. A. Ibid. p. 199. C. xalpjjv t o o  (piX e UydBoav, xolXgA poi £$o£,a$  xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde  220. D. xal ydp SipoS xoxe rjv y  quo loco cum gravitate caussae  indicium in prima sede enuntiatiouis positum est;< die Ur-  sache vnr, es war damals  Soromer. Contra in verbis 220.  A. beivol ydp avroSi x ei M c »vif. vis epitheti quoniam caussae gravitatem superat, ab initio Setvol  positum est. Cratyl.. B.  itaXaid itapoipia , oti  x d xaXa Isxiv dity $X £t paSelv •  xal 8j} xal xo itepl x tav ovo-  patGDv ov dptxpur xvyxavei ov  pa$ypa. Iam nostri loci verba  convertenda sunt; Und er sagtet Apollodorus, in Wahrheit,  bucIi neulich schon suchte  ich dich. a\\oS ydp xis poi 8trj-  yeixo. H. e. Alius mihi iam fuit  harum rerum narrator, quem Phoenix edocuit, Philippi filius; te quoque rem compertam habere dixit; verum euimvero nihil certi narrare potuit; iam tu igitur narra. Proprie ita disposita singula membra exspectaveris: drAAo? ydp xis poi fterjyeixo —  aXXa ydp ov6lv elxe 6a<pls Xi-  yeiy —   t<pr\ de xal 6h eiSivai —  tfv ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato ordinem enuntiatorum, ut Glauconis audiendi studium et festinationem vividius exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINO:  te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit convertens;  te eniih maxime decet,  amici h. e. Socratis, magistri tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov  tjj evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov , ori II uve a- C  nctoiv Iones eoi ovdev diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav ytyovivai tairtjv; tis, amici tui, sermone»  referas. Ceteram ut snpra  <pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS 2 ah  xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur; non male. Aptius fortasse est f/6o$,  de quo Schol. ad Piat. Phaedon,  a.v. 17 6* 'Eav plv, inquit, #  dvo piprj A oyov, Hsxai £<p?j  oSy xovxiSxiv £<pi] 81 ovxof.  oi Sb Xeyovdxv , ort auro pavor  drjpaivei xo £<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot f aif  f ASrjvatoi t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus e contraria  ratione p. 205. C. oAA* opd>S  7/6?/ scribendum vidit pro oAA*  opcoS 7} 6* ip   oddkv diijyet 6$ai. Ficin.:  Revera, inquam, certi ni-  hil retulisse tibi ille vi-  detur. Cum emphasi dicitur  diijyeid^ai ac non sine acerba  irrisione eius , de qno supra di-  citur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura  Glauco dixisset: oAAo? yap xiS  pot dujytixo t Apollodorus ovSlr  St ijyetxo dacptS satis malitiose  responsurus erat, quod in orat,  obliq. conversum audit: £oix£ 6ot  od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infi-  nitivum praesentis dtr/yetd^ai  censet, malim imperfecti iuter-  pretari. Exempla si requiris in-  finitivi imperf. , cf. p. 176. A.  l<prf — da 'avddt xe 6<pds Ttovrf -  6a6$at xal $6 arx as xdv $eov  xal xaXXa xct vopiZopeva z pi-  ne 6$ oct npds xov notor, quo loco quae momentaneae actiones  eunt, aoristo, durantes imperfecto  tempore descriptae sunt. Adde  p. 174. D. xoiavx* axxa 6<paS  £<prj dia AexSirra? Uva* et q.  seqq. Ceterum addito 6a<p&S ad-  verbio indicatur, Phoenicem nar-  rasse quidem , sed narrationem  non ita instituisse, ut res narrata  penitus ab auditore percipi pos-  set. Ilinc paullo supra dicitur  fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$  b. e. cupiens rem omnem, quomodo gesta ait, accurate de-  scriptam audire. De praepo-  sitione did cum verbo composito  vid. p. 174. A. jpks yap avxov  diifpvyov h. e. heri fugi ipsum  ac vitavi feliciter, p. SIS. C*  aAAa diepijxocvifda), onatS ...,  sondern du setztest es durch,  dafs Phaed. p. 97. C. oot  apa vovS Isxiv 6 diaxodpcov xe  xal navxw alxioS t ubi diaxo -  tipdov est: omnia excepta re nulla  exornans.   iyroye drj . Bekk. in textum  recepit £y& drj annotans, in  quinque codd, iyaye S 1 ) repe-  riri* Videtur igitur vir doctis-  simus codd. auctoritate motus  esse plurimorum, ut lyco di) re-  ciperet. In servanda lectione vul-  gata nobiscum consentit Riicker-  tus, in explicanda non itera. Ph  dij enim, inqoit, quod caute et  cum restrictione affirmat, ut  Phaedr. p. 242. D, Theact. p*  145. D. cum maxime h. 1, aptum  esso censeo. E Ruckerti een-  ijv IqukJ. 3 , togrs xal Ifii xagaytved&ai. Eyeyys fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft , on xoA,-  icov iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov  d’ iya 2 .'oxqutei GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat  ixdattjs rjptQas tldzvai 8 n ctv Xiyy y nQcctry, ovSeneo  173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e utQirQt%uv oxy Tv%oifu,    ‘ 1*1 •   tentia scriptam esse debebat rfyov -  fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt  6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum gra-  vitate quadam , quam vocare in-  dignationem possis, affirmat: Nun  freilich dachte ich, aucb da  seist dabei gewesen.   7Xo5ev — cd rXavxcov ;   Stallb. distinguendum esse docet  a Glaucone, fratre Platonis,  Glaucouem hunc, de quo Apollodorus p. 173. A. ita iudicat,  ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiae studio alienissimum recte coniicias. ixoScv  cum vi negandi ita semper ad-  hibetur, ut ad praecedens verbum  finitum referatur. Dixisset igitur,  explicatius si loqui voluisset,  Apollodorus: TCoStEV r/yst 6v , rjv  6* iyco f eo rXavHcov , atque sic, li. e.  explicatins, Plato locutus est ia  Cratyl. p. 398. fin.: 6v ix^S  elneiv; EPM. it o$ev, do 9 yo&b,  Uxoo; Adde Menex. p. 235. C.  M. vvv fibreoi ol/iai iyoo xov  alpeSsvxa ov itavv evitoprj-  Ceiv — 2. zoZev sc. olet . . .  do ’ya$E ;   iitid e Sr/pr/xev. Scbol.  s. v. *Ay<&<ovoS — xal npoS  lApx&aov xdv fja6iXea gj*£to,  coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile  est, ut Stallb. ad h. 1. annotat,  Agathonis in Macedoniam pere-  grinationem hic tangi. Quoniam  apud Archelaum tyrannum tam  laute vivebatur, ut qui cum eo    essent, lautitiis quasi sepelirentur,  tectius quidem, sed iocosius , ut  solet, Aristoph. in Ranis v. 83.  idem poetae apud Archelaum di-  verticulum notat: *H. UyaSaoy dbxov 'fxtv; d* oaco-  Tancdv p anoixexoci.  'H. 7Coi yfjS 6 xXrjpoov; J. is  fiaxapoov evaoxfxcS.  Errarem quod attinet Glauconis,  qui rEGoSxi celebratum Agathonis  convivium arbitrabatur: facillime  potuit, cum multos iam annos  Agatho abesset, vel obiter facta  temporis computatio meliora do-  cere. Sed non curasse videtur  homo Xpyp<xn£ TIMOS virorum illustrium sive absentiam sive praesentiam, nequo studiose secutus  osse nisi quae divitias manifesto  augerent.   iiei pe\\s it eitoirj pai.  Sensus est: Seit ich aber mit  Socrates verkehre, und es roir  zum Gesetz gemacht habe, jeden  Tag zu wissen, was er irgeud  spricht oder tlint,' sind noch  nicht drei Jahre verlaufen.   OTCXf xvxotpt. Scriptam ex-  stat in aliquot codicibus otcoi t.  Sermo est de eo, qui, quo veniat  errando, nqn curat. Hinc con-  vertenda verba sunt: temere,   ubicunque versarer, ober-  rans. Minus recte, ut videtor,  Ficinus, ad cuius conversionem  Stallbaumiana comparata est : antea vero, quocunqua continge-    i  xa\ olnfitvig rt itoniv, a&luoligos 17 orovovv, ol>x  rjctov y <Sv vvvl, olofuvog Sslv navia. (t/Mov xqut-  thv ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi] /Sxibjct, tqitj ' uXX’ ilxe  (to i, nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj. Kayixt thtov , ore  JlaiSav ovtcov Tftiav Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq ivi-  Ktfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq y y r a hnvUux. &!vtv  bat, oberrans, cfr. Piat. Pbaed.   p. 82. D. toiyapioi rovroiS ptv  — \alpnv clxovres avtois, coi  ovx eiSodiv, 0X7} gpxortat.   aSXicor e pos r\ orovovv.  Schol, ad Gorg. ap. Bekk. p. 847   s, t. a^t]\arovi — aSAiof —  o xdSt6iv dvtjxistoiiivujxopcvoi.  Pro 7jv volgato o codd. auctori-  tate 7/ Platoni restituerunt re-  centiores editores. Eam lectio-  nem scholion Bodl, cod. compro-  bat s. t. 7 / : 'Attlxov roveo, axo  tov ta (Swypypirov • dj/paivt i  81 rd (a rd vxf/pxov ' Iu ydp  axo tov TfV Tiara SiceAvtiiv ‘ico-  yixjjy * "OpTjpoS • rj rore xovpoS  la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet.  Do 7/ et ijv discrimino Herm.  egit ia praef. adS. Oed. T. p. VII*  jt a id cov ovx cov rj pcov it i.  Inverso ordine vulgo haec edi  «olent rtoddeov r)pcov orreov hi*  Recte fortasse. Ceteram ambigue  haec verba dicta sunt, , ac non  «ine magna Socraticae disciplinae laudatione. Nimirum itoudctS vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus cos, qui Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba igitur TCaidojv ovxcov j}pcov hi de  eo tetnpore intelliguntur, quo expers fuit Socraticae disciplinae Apollodorus. Et quoniam tertius annus erat, ex quo Socrati «ese ndiunxerat, tempus convivii definit ita, ut qui his proximis annis tribus convivium Agathonis celebratum neget. Definitione hac non sufficiente neque accurata Apollodorus pergit: ore ry  7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd-  %cov ry vSrtpaUr, rj y rd imvt-  raot l^vev avtuS ts xal ol x°~  pevraL.  ore t y rt pcdxy r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed prima e tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor existeret.  Recte. De tempore, quo prima  tragoedia Agatho victoriam reportavit, vid. Alhen. Deipn. V.  p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y  IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov  6 p\v ydp litt d pxovzoS  Evtprj fiov S ecp ccv ovtcii Arj-  vaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo  temporis indicium perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis inquirant et in historiam  rerum, quod solertissime fecit Fr.  Ritscbl in Comm. de Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis Sax.: frustra eo  utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro scripti sui cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev. Solebant  poetae victoria reportata festum diem parare iis, qui susceptis  chori partibus, ut populo fabula  placeret magis, effecerant. Quo die quoniam diis sacra fiebant ob  victoriam, factam est, ut ad euni significandam Graeci formula uterentur td iitivixia Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw , i<pt], aga naXai,  wg 1 'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog Zkaxgdrrjg ;  Ov (icc xbv Ala, i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’ ’Agi-  &c6di](iog r\v rig, Kvda&rjvcaBvg , Cfuxgog, dwxoSrjros  de l' itagayeyovec 6’ iv ry Ovvovela 2k<axgdxovg tgu-  CTijg wv iv zolg (idhora tav zort, tog i(ioi doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat,  ?/, quam lectionem merito reie-  cerunt editores. Schleiermacberus  7/ part. potestatem non satis asse-  cutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem vox  manet, sive y sive ? f scripseris,  tamen hae formae inter se discrepant vehementer, y posito  omissum cogitatur alterum enun-  tiati membrum a Ttorepov parti-  cula instituendum v. c. notEpov  dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS;  et quoniam in huiusmodi enuntiato bimembri, ubi ab indefiuito ad definitum transitor, loquentia  ludicium simul involvitur, consentaneum est, omisso quidem,  sed subintelligendo membro priori quaestionis alterum vi quadam augeri, quam verisimilitudinem vocari licebit. Igitur y non  tam corrigendi vim habet , ut  Stallb. et Hiickert. iudicare video, quam probabilitatis. Contra quando 7/ exhibetur, prius illud  interrogationis membrum prorsus  evanescit, ut, quoniam neque huc  neque illuc interrogationis momentum declinare possit, inter-  rogatio admodum temperetur. Igitur 7/ particula qui utitor, suum  iudicium ab interrogatione seclu-  dit, et sive negarit sive affirmarit, qui rogatur, ad utrumvis  audiendum paratissimus est. Exemplum ut afferam, fiunt enim leges  linguae luculeutiores exemplis, legitur vulgo in Platonis Menon.  p. 71. B. 3 py oiSa, itais&v,   oitoiov yi xi , el&dyv; y Sonet  6oi olov te eIvcu, oStiS Mkvcovct  py yiyrcStixEi , xonaparcav osxis  isti, tovtov eldivai, eUte xaXoS  7 i. t. A.* Viderunt interpp. scriben-  dum esse y Somei, eorumqne iu-  dicium codd, aucto/itate probatur.  Nihil enim certius est, quam  Socratem ita instituere interro-  gationem, ut simul indicet, Menonem non posse negare rem in-  terrogatam. Ad nostra verba ut  revertar, Glauco, cum Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indi-  cavisset 6upra, y avxoS 2ao  xpaxys dixit admixta probabili-  tatis notione: am Endo doch wohl  Socrates selbst. Iam patet, opinor, cur tanta gravitate, quanta  potuisset, Apollodorus responde-  rit: ov pd xov Jia. Graviora  enim negatione opus est in re-  sponsis, ubi ita instituta prae-  cedens interrogatio est, ut quae vera non sunt, ea vera putare,  qui interrogat, videatur.   Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo legebatur KvdaSyvsvS , quod Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.: KvdaSyvatov. Sfj-  poS ryS riaydioridoS <pvXyS' o  dypoxyS KvSa&yvatevS. Eandem  formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1. laudat Riicker-  tus, Vesp. v. 895 et 902.   tiptxpoS, arvicoSytoS  a ei* Haec epitheta commemorantur eo consilio, ut quibus  ov fiEvtoi alka xai ZkoxQartj y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv  m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i (ofioloyu xa&axtQ Iscei-  vog dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco (tot; sravrog  tj odog V £t’s atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat Asystv  stat dxoveiv.   Orna di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt avtav Aristodemus tanqnam homo So-  cratis amantisaimus indicetur*  Nempe solent ita iudicare impe-  ritiores, ut ab externo habita  corporis ad ingenia concludant*  2 pvxpoS est , quod nos dicimus :  untersetzt. Apud Xenophontem  Aristodemus pixpoS audit M* I.  4. 2. , ibique deos esse negat.  Festis diebus blautis Socrates  usus, est, ut videre licet e p.  174. A. , Aristodemus ut semper  ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, ad-  dito atl edicitur , quod in ahi  ex plurimorum codd. auctoritate  Ruckert. mutavit. Utrum recte  fecerit, nec ne, alii videant.   iv zois pdXisra rc ov  Ture. h. e. Convivarum illorum,  qui Socratem maxime amaverint, acerrimus amator. Latiore significatu verba tuiv rore Schleierra.  accepit* der war bei der Gesellschaft zugegen gewesen und einer  der eifrigsteu Verehrer des So-  crates damaliger Zeit, wie mich  dunkt.   ov yievtot aXXa. xai,  Adhiberi haec dicendi formula  solet, ubi commemoratum est,  quod iam satis videri possit ad  rem, quae paratur. Apprime respondet LATINORUM: nihilo minus  tamen. Interdum xai omittitur,  quo omisso edicitor, ut id, quod  ante commemoratum sit, minus  probari iodicetur aliudque addatur illo multo probabilius, cfr*  Piat» Meuen. p. 86. B, n dw    ptv ovv* ov pkvxoi, gj 2&>Hpa-  teS, aXX’ iyooye ixelvo av r/dLSta,   Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV , Hai   Cxetpaijxijv xcti dxovdcujn. —  Eodem plane modo xai omittitur  in formula dicendi ov fiovov —  dXXitj de qua vide sis, quae an-  notata sunt ad p* 180* A.  ovdiyyr/cco poi. Ut Graeci,  ita nos: erziihltest du mir das  nicbt? quod ita dictum est, ut  explicandum sit: scio te nolle   narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane ratione Stallb* hanc  dicendi figuram explicat: Ilaec   interrogatio , inquit , alacritatem  qtiandam animi et aviditatem  sciendi indicat, fere ut LATINORUM: quin tu mihi — narres?  Alia ratio est Verborum p. 2 12.   D. rtaiStf, $<py t ov tixeipetiSe,  ubi ad lectionem codd. trium  (SxeifsadSe Riickertus annotavit:  Aoristum ut non admittendum,  ita non omni ex parte spernendum  duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum  T i ovv ab inseqncntibus verbis  maiore interpunctione disiunxi,  nam non possunt, ut videtur, in  una cademqne interrogatione ri  ovv ov couiungi. - -  itdvxoot 7 } J 6 o f. parti-  culam, veritus Bekkeri auctoritatem, e textu semovi, quam-  quam Riickerti exemplis edicitur,  ut certum iudicium de eadem  edere dubites. Laudat enim ille  Piat, de Legg. I* p. 625.^ A.  ftposdoxdi ovx av dt}8&> rjpd?  C irtoiov(ie&cc , i vgte, otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx dfiste-  zrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv dirjyytiacfftac , ravra  ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag , otav [Uv twag  % egi <ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov  axovcoy flebis tov 0 ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg  %ccIq(j' otav 6 s aXXovg zivag , aXXag te xal tovg vfie-  tBQovg tovg tav itXovtilcov xal xqtjimxxlGxlxcov, avxog te  a r&oiiat, vpag te tovg ixaigovg l?.eco, on oceG&e n    D Ttoielv ovdev % OLOvvteg. xal icspt re xoXireiaS xd vvv xal  vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv XiyovxaS  re xal axovovxas apa nara  Trjv nopdav rfonjdetiScti. 7tav-  tgX 6 9 rj ye ix KvooGov odds —  oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde  Apol. S. p. 33. D. xi ptj  avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xi-  vds tqjv ixsivcov , itaxipaS xal  adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoS-  T/xovraZ , eiitep vn ipov xi  xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol  olxslot, vvv pEpvijdSaz. TcdvtooS  Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lv-  xavSoi, ovS iyco opta x. x. A* Ce-  terum convertenda verba DOstra  sunt: Wie nun? sagte er, woll-  tcst du mir nicht erzahlen? je- *  dcnfalls ist der Weg in die Stadt  gecignet fiir eine gcgenseitige  Unterhaltung wiihrcnd dea Geliens. Picinus habet: apta quidem via est, quae ducit iu urbem, et ad audiendum pariter et ad  dicendum. xovSXoyovSrtEpl ClvxgSy,  Nota vim articuli , quo absente  ecnsus existeret hic: Sic igitur  inter eundum de his collocuti  eumus. cfr. p. 207* A. xavxa X8  ovv Ttdvta iSldadxi p£ , oxoxs  nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf  nounxo x . A. Addito articulo  sententia haec est: Sic inter eun-  dum, quae verba fecimus, de his    Icag av v[ie lg i[ie yyeiti&e   fecimus, cfr. p. 216« C* aAAa  di pov dxovdzxxe t aoi opoioS xi  iStiv ols iyco eixa6a avxov xal  xrjv Svvapzv , Savpadiav   lx?i h, e. et vim , quae ipsi  est, quam admirabilem habet.   ei ovv Sei — xcqieiv . De  his verbis vide quae annotata  sunt ad p. 172. A. Docet autem  hic locus, qui dilferaut Sei et  Xpi}, de qua differentia verborum  jam a Ruckerto est ad h. 1. 'an-  notatum. dei necessitatem ex-  primit, XP 1 ? voluntatem necessitati inservientem, cfr, Aesch. Or.  c. Tim. p. 29. 6 vopo^ixijS —  aTtadsi^Ev, ovZ XPV 6rjp7jyoptiv  xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa  dijpoo h. e. Manifesto legislator  declaravit, qui velle debeant  coram populo verba facere et  quibus orationem habere non li-  ceat.   v iC8p cpv&S co S xalpv*  Orta est haec dicendi formula  ex vitEp<pvGjf x a ip°° & Xatptof  quod cum non intelligerent , qni  describendis libris occupati essent,  factum est, ut coS saepius omitteretur. Seusus est totius loci :  lam si etiam vobis narran-  dum est, volo equidem, quod  feci nuper , idem nunc facere  lubentissime. Namque aeque nunc  atque alias sive ipse instituam, xccxodaifiova slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ '  iyco [dvtot vfiug ovx olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail yag 6ctv-  tov rs xaxt]yoQUs xal rovg dXl.ovg, xal Soxng fioi  aTE%v wg ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv EaxQccrovg,  ano (Savrov aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv tfjv   vive narratos audiam philosophi-  cos sermones, praeter quod augeri  me scientia puto» impense etiam  laetor»   Xprj paxi^x ix gjv. Stallb.ad  h. 1, a Vulgo XPWonrti&v- Illud  aptius hoc loco recte indicavit  Fischerns. Praecedit enim n\ov-  61gov.» Recte xpVf £0LTt StixtaY receperunt editores non satis recta  de caussa» Licuisse enim con-  tendo Graecia dicere: ol it\ov-  dioi xal XPV paziSxad, ut Latinis  licuit fures ^et malefici dicere , neque dubito , quin lectio  vulgata B. xovS q>i\ov$  xal x ovS itoXtpiovS recipienda  sit» Nostro contra loco, quoniam  non de certo quodam hominum  genere sermo est, h. e. de foene-  ratoribus, sed homines indicantur  quovis modo lucro inhiantes,  XpTJpocTtftiXGov unice verum est.   l6ooS av vpeiZ, Schleierm» convertit: Vielleicht nuo haltet   ihr wieder eurerseits (lafiir, dafs  ich iibel daran bin , und ich  glaube, ihr mogt ganz richtig  glauben, ich aber glaube es nicht  von euch, sondern weifs es.  Oh6Sai> aXtjSf} . o letiSat ( opSd  SoZdctsiv) eldivai,  vocabula Socratica sunt, quibus  Apollodorus uti videtur li. 1», ut  Socratis discipulum se probet. Ceterum laudaro Plauti versus  lubet petitos c Cas. initio:  Clcostr» Face, Chaline, certiorem  me, quid meus me vir velit»  Chal. Ille edepol videre ardentem te extra Portam Metiam,  Clcostr. Credo ecastor velle.  Chal, At pol' ego haud credo,  sed terto scio.  dei o fio io S — it\r)v 2?   X p dtx O v?» Vario modo haec   verba ab interpretibus explicantor. Wolfius Iv pbv yap xoiS  XoyotS dictam esse censuit pro  aX \d yap iv xotS \6yoiS . Frustra.  Astius convertit: unde tandem   nomen pavixoS acceperis, non  perspicio: namque in dmnibus  tuis sermonibus tantum abest, ut  pavixoS sis h, e. nimius et  vehemens in laudando, ut  et te et alios praeter Socratem  cum acerbitate quadam reprehen-  das. Apoll. Et merito pavtxoS a  vobis audio, de me et vobis ita  sentiens. Hanc conversionem nemo  probabit. Nam neque usu qno-  dam loquendi probatur, pavtxoS  inprimis de laudatorum studiis  valere, neque ex kxaipov ver-  bis colligitur satis, pavixov ni-  mium in laudando significare.  Quid dicam de responso Apollo-  dori , quod ex Astii conversione  iit languidissimum? Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog xaXiUs&ai, ovx oida  sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi' tiav roi  T6 xai zolg aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg.   ATIO A. * Si q>lXzccz£, xai dfjXov ys dij , on ovtw  diavoov(iBvog xai xeqi Ifuctrcov xai x£qI vfuav (ictCvo-  (icu xdt xaQaxcaOi  nostro loco meritu. est Ruckertus, qui, cum non posset, quid  kratpoS sibi voluerit his verbis,  intelligere, scilicet e codd. ya-  haxoS pro jxavixo? in textum re-  cepit. gUnde tandem mollis ap-  pellatus sis, equidem non intel-  ligo; in sermonibus enim semper  talem te exhibes : et tibi et aliis  succenses praeter Socratem.» Haec  ut pugnant cum sequentibus, ita  ut ne pugnare videantur, Riickertus , in verbis Gqlvxqj re xai roiS  aWoif dypicdveiS insaniae la-  tentem notionem deprehendit, ad  quam respiciens, quamque augens  in maius per indignationem Apol-  lodorus dixerit: o5 <piXtave , xai  dfjXoy ye 6rj x. r, A. Artificiosa  haec suut, non vera, Neque  Plauti auctoritate nunc movemur, qua uti Riickcrtus potuisset in re sua. Legitur nimirum in Me-  nuechra. Both.   Insanit hic quidem, qui ipse  maledicit sibi. Nam tu quidem berclo certo  nou sanus satis,  Menaechme, qui nunc ipsns  maledicas tibi.  8tallb., quoniam Apollodori inge-  nium ad morositatem proclive  fuerit, etiam pavixoS de ingepii  * tristitia et morositate intelligendum indicat. Deinde supplendum  ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv  avTjjy ante verba iv plv yap  totS XoyoiS ael roiovroS ei. Tot-  ovroS autem interpretator /um-    xof> tristis et morosus. Ut  libere dicam, quid mihi videatur,  Apollodorus et ad tristitiam et  ad hilaritatem propensissimus erat  ita, ut sive tristis sive hilaris  suarum rerum modum ha-  beret nullum. Nimium ia  tristitia Apollodorum icperimus  Pbaed. p, 117. D. in risu atque  in maerore Phaed, p. 59* A. in  vitnperio Symp. p. 178* C.etD.»  et quo animo hominem in ma-  gistri laude fuisse censes, qui praeter Socratem omnes mortales  infelices indicabat? Ia quo indicio ut ro fjLcrvixov eluceret magis, Plato dypiaiveiv verbo usus  est, quo verbo animi summa  commotio exprimitur. Idem cadit in uvccfipvxqGduevoS parti-  cipium, quod quo exquisitius, eo  aptius est ad turbas animi ex-  primendas. Iam patere arbitror,  fxavixoS h. 1. neque de immodica  laudo neque de nimia morositate  dici , sed de laudis vituperiique  immoderatione. Rectissime autem  Stallb, vidit, ante verba iv y\v  yctp roiS A. aliquid supplendum  esse. Solet enim yap particula  ita adhiberi , ut sententia quae-  dam , quum facile e cogitationum  serie supplere possis, omissa in-  dicetur. Stallb. supplendum censet  op^djS 81 doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei /i?} lx rcov A o-  ycov. Totius loci conversio haec  est: Immer bist du derselbe, o  Apollodorus, Immer klagst do  ET. Ovx a£iov xig l r ovtcav, a 'AxoiioSags,  vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov, (itj &iiag xoi-q-  ffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. • AIIOA. r IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidi-  iov d’ UdQZVS v/uv, dff ixeivog diijyeito, xcd lyw xu- . gadofiat dirjyrjdaa&au , 'dich and die andern an, and  scheinst mir ohne weiteres, aufser  Socrates, alie fur ungliickselig za  halten , indem da mit dir selbst  den Anfang maclist. Und woher  da in aller Wclt den Beinamen  da hast, dafs man dich den Toll-  kopf netfnt, das weifs ich nicht,  Ermufstedenn aut deinen Aeufse-  rungeu herstammcn. In diesen  zeigst da dich wirklich so; da  ziirnst dir and den andern, und  zollst allein dem Socrates ein  unmafsiges Lob.   o3 (piXtate — 7tapa •  naico. His verbis, quae de f ia -  vi xoS nomine annotavimus, con-  firmari videntur perpulere. 'Ezcu~  poS nimirum cum non nisi to  jaclyihoS xaXiitiSai commemoras se t, consueta vehementia usus Apollodorus paivopat xal 7ta-  paitaioa dixit. Haec verba optime  transtnlit summus Schleierm. : 0  Liebster, so ist es jaklar, wenn  ich so denke von mir und euch,  dafs ich toll bin and von Sumen.  Inest tamen aliqaid his verbis, quod  male me habet. Nimirum amicas  dixit: E dictis tuis illud cognomen ortum est, aut eius originem  et caussam ignoro. Ad haec verba  nnm quadrare tibi videtor Apollodori responsum? Quid quaeris ?  res acta est scilicet, saevio et  mente captus sum. Si quid vi-  deo, ol pavixoi at exaggerant  res, ita rixari amant, ad utrum-  que nutura ducente. Ad rixas autem se compos^js se Apollodorum  etiam verba amici docent: ovx  a£>iov nepl tovtgdv, 'AtcoXXo-  ScopE, vvv ipi&iv. Quid mul-  tis? Posito post napaitaico signo  interrogandi verba convertenda  sunt: O Liebster, ist es denn   nqn schon so ausgemacht, da fs  ich toll bin und von Sinnen,  wenn ich so denke uber mich  and euch?   toioiSs rivi?, Additur  indefinitum pronomen, ut indi-  cetur, sermones non verbo tenus ab  Apollodoro referri. Recte Stallb.  ferehuinsmodi convertit. Sic  paullo infra p. 174. D. roiavt  arra <5q>dS i(p7j SioXexSev-  ra? Uvau Schleierm.: so ohn-  geflihr ... Adde A. Ad-  yov roiovtov rivo? xatdpxEtv.  p. 180. C. &ai8pov fikv roiov -  rov riva Xoyov £q>rj eItceIv .  MaXXov 8i eius est, qui ipse  se corrigit. Habet Ficinus ; immo  vero a principio eodem ordine,  quo Aristodemus retulit, vobis  ipse nunc recensere conabor, cfr.  p. 188. D. ovra. ) jroAA?/V xal  fiiEyctXrjv , fi.aXXov 8h nd6av  Svva/nv x. t . A. adde p. 193. E.  Vva xal rd>v X oixcov dxov-  dajjiev ti ExaCroS ipely pdXXov  8h rt kxdtspo ? * UydSGor yap  xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. p. 194.  A. si 8h yivoio , ov vvv iyoo  tlpiy yaXXov 81 i'8a>? ov  Stio/iai x t r. A.*Eqsr) yuQ of ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts xal  tag (Skavrag vxoSeSefdvov , a Ixtivog bliydxig biolti,  Mul iQt6%cu avrov, onoi fot ovta xcdbg yByEvrjiiivog.  xai rbv datlv , oti 'Em, delavov dg 'Aya&covog.  yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig , ipofirj^ilg rbv  Zyhov' 6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,. tavta $ij    $q>7) yup ol Scoxpatif,  E nostra cogitandi ratione verba  si spectas, scriptam exspectaveris :  lepr) yap 2cDxpdt£i Ivtvx&v.  Illud genus dicendi ex objectivitate enatum est, qua pro ingenio  suo Graeci utebantur in narratione.  Eo autem efficitur dicendi genere,  ut Socratis loti calceisque ornati  imago oculis obversans lectorum,  ut Apollodoro , ita quaestionem  moveat lectori l oitoi tot ovtgj  xaXoi yeyevTjplvoS. Sexcenties  hoc dicendi genus reperias apud  Graecos scriptores, unum exem-  plum ut laudem, cfr. p. 174. E.  ol phy yap evSvf nalSa riva  SvdoSev ditavzr\6avta ayetv  n. t .A.   taS fiXavt a£. Schol. ha-  bet : v4t o 8r} par a.ol fiXav-  tia, 6av8dXuz l6xvd. Satis no-  tura est, Socratem perraro cal-  ceis usum esse, id quod nostro  loeo colligitur e verbis a ix£i-  voS oXiyaxiS iitoiet. Quod raro  fecit Socrates, ut calceis uteretur,  idem Aristodemus nunquam fe-  cisse perhibetur p. 173. B. *Api-  StoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i  dpixpof, dvvxo Srjt oS a e i. X^^S yap avrov 8 iir  tpvyov . De 8iacp£vy£iv verbi  potestate vide quae annotata sunt  ad p. 7* Ceterum brevius qui-  dem Socrates loquitar, non item  obscurius. Sententiarum ordo  haec est: Iam heriAgatho  me vocavit, sed non im-    petravit a me, utfaoe-  rem, quod juberet. Odiosa  enim erat concitatiorum  hominum turba strepens.  Promisi autem ei hodie  ad coenam,   tavta 8i } ixaXXcon rt-  daprjv. Rostius V. Cl. %d verba  ixaXXoDTtiddprjv , Iva — £g a an-  notat: ornavi me (et nunc orna  tns sura) ut accedam. Vide Stallb.  ad Piat de rep. V. p. 472. C.,  qui laudat Rost. Gramm. §. 122.  not 4. b. Herm. ad Viger. p 850.  Buttra. 126. i. Tavta 8ij  interpretes positum esse censent  pro 8ia tavta 8 t} } de quo usu  loqueudi vid. Matth. Gramm.  pl. §. 470. 7. p. 873* Rectius  opinor, tavta de ornatu intelli-  gitar, ut verba convertenda sint:  Hoc igitur, quem miraris {ovta»  xaXof y£y£vr/p£vo$), ornata or-  navi me et nunc ornatus sum, ut  pulcher ad pulcrum accedam, Si  dictam esset supra ortoi for VJ/-  pepov ovteo xctXoS ysyevTjp^-  voS, unice probaremus iuncturam  hanc: promisi autem ei hodie  ad coenam, atque eius rei gratia  ornavi mo cet.   TtpoS t 6 i$&\eiv dv  livai a Stephani hanc emendationem, inquit Riickertns, li-  brorum lectionis aviivai a Bek-  kero, Dindorho, Astio, Sommero,  Stallbanmio receptam, admodnm  dubitanter retinui. Quod enim  in sequentibus simpl, Uvat po-  9   ixaXAaxiodfitjv, ivu xaXog xaga xakov ia. t?A<la Ov, tj  6’ og, ntUs H £l S XQog t 6 l&iXuv dv livai axhytog Ixl B  Sslnvov} Kciyco, Itpr}, th tov, ori Ovrag, Sxwg dv Ov  xtfav]jg. "Ex ov rolvw, fqpi?, Ivu jc «1 rtjV xagoifilav  Siarp&dgafttv (itra^dXXovrtg , ag aga xal dya&iov liti  Saltas laOiv avtoparoi aya&ot. "0(irjgog (itv ydg xiv-  sitom *st, «t eo non «equitor,  ut etiam h* 1. debeat. Imino si  locus, e quo Socrates cum Arislo-  demo profecturus erat, inferior  fuit quam is, ubi Agatho habitabat, nonne tum primo loco  poni licuit aviivai , sufficiebat  in seqq, simplex verbum?» , Hia  verbis contra eos dispotatum est  rectissime, qui e sequentibus  { a6iv et Urat de dv levat iu-  dicarunt. Atqpe sic Stallb. iu-  dicasse miror annotantem: Codd.  et vett. editiones omnes £$i\eiv  aviivai, quod de Stepbani contectura mutavimus praeeunte Astio  et Bekkcro, JSimirum sequitur  deinde la6iv et livai de ea-  dem re dictum . Caecutiisse  videntur interpretes, ubi scriptor  verborum positu studiose fecit,  nt clare videre potuissent, *Enl  deinvov et ad livai pertinet et  ad axXrjXot) nam ut xaXeiv ini  deinvov recte dicitur, ita axXrj-  tot ini deinvov he ne habet; rursum livai arctius cum dxXrjxot  coniungendum est, et est in hac  coniunctione enuntiati acumen.  Verba convertenda sunt: Konn-  test du dich wohl entschliessen,  obgleich uneingeladen,  doch zu kommen zum Gast-  tnahl. lam concedamus necesse est  Riickerto , aviivai ini deinvov  recte dici, si in altiore loco Aga-  thonis domicilium fuisse constaret,  non recte dici aviivai axXrj-  xot Ruckerti aequitas concedet    nobis, cfr. p. 174.C. axXrjxov  inoirjdev i X 5 d v x a tov Mevi-  Xeoav ini xrjv Soivrjv, ubi rur-  sum indicare licet e posito ver-  borum de scriptoris voluntate.  Adde p. 174. D. iyoo plv  ovx dpoXoyrj6cn axXrjxot  tj x e i v , aXX' vno 6ov xexXr^-  pivot. Ceterum ndot Mystt npdt  x 6 iSiXeiv dv verba respondent  nostratium: Wie steht es bei dir  mit der Lust ... pro Hattest du  wohl Lust .... cfr. p. 176. B.  diopat vpcov dxovdai , nd)S  fet npds td ipfi&dSai niveiv  'AyaS gjv. Iva xal tijv napoipiav pex aftaXXovx et» Socra-  tes haud raro poetarum versus  immutabat, ut mutati contrariam  sententiam funderent. Tangit  liuuc morem Appulei. Flor, p. 6.  ed. I. Bosschae: Nec ista re cum  Plautino milite congruebat, qui  ita ait:  Pluris est oculatus testis unus, quam auriti decem. Itnmo enimvero hunc versum  ille (sc. Socrates) ad examinan-  dum homines converteret:   Pluris est auritus testis unus,  quam oculati decem.  Editores fere omnes e codd plurimorum auctoritate pexaftaXov-  tet receperunt. Praetulit pexa-  paXXovxet Bastius, quod et codd, nonnulli iique melioris notae ex-  hibent. Couveitit Stallb. mutatione corrumpamus , participio in  2 dvvivst ov (iovov duttp&eipcu 9 aXXa scccl vpQldat e!$  tavvfjv rijv rcaqoiplav. noirjdccg rov 'Aytqdpvova  C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa    substantivum converso, quo sub-  stantivo temporum discrimen ve-  latur. Unice rectum est pxxctfiaX-  XovteS. Nam qui mutat, eo ipso, quod mutat, proverbium corrumpit.  Vides igitur, 'eiusdem actionis esse  et 6ia<p$sipe iv et fterapdXXetv,  cuius actionis et obiectum et ef-  fectus h.l. commemorantur. Hoc  autem videtur doctis viris' fraudi  fuisse, ut putarent, de duplice  actione, quae temporis discrimen  in se susciperet, Platonem egisse,  eo £ dpa xal dyaScvv.  Schol. ad hnnc locnm : avtopa-  rot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini dcn-  raS la6iv. xavxtjv 81 X iyovdir  tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$ ott  kfStidovto ro3 Kj/vxi £,lvoi iniCxrj*  KpaxtvoS 81 iv IJvXcda jiEtaX*  Xti%a$ avTtjv ypdtpti ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6 itaXaioS A J-  yot, avxopdxovS aya&ovS Uvai  xoptpdjv ini douxa 3 eaxav .  xal EvnoXiS iv Xpvtitk 3 yivtu  E schol. verbis facile colligitur,  vario modo hoc proverbium im-  mutatum fuisse a Graecis, vid,  Athen. Cal, De  primaria autem proverbii forma, quam Schol. indicat, Schleierm.  haec disputat in den Anmerk. zur  Uebers. Eiu sonderbarer  Gedanke ist es von* dem Scho-  liasten, dass er uns an das zweite  Spriichwort des Athenaeos ver-  weiset, welches von Tapfern und  Feigherzigen handelt (aya$ol SeiXgov), wahrscheinlich in dem  kriegerischen oder feindseligen  Sinn, dass dic Tapfern ungeladen erscheinen und, die Feigherzigen  vertreibend, sich selbst an die     ra scoXffUxa , xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern So-  crates meint aya$o\ dyaSajv  ini Scuraf, und aagt nor acherz-  vreise, sic wollten es durch eias  Umdrehung eiumal verderben, iu-  dem sie niimlich den Agathon und seine Gnate ayc&ovf nann-  ten. .... Der Homerische Fall lrisst sich auf das ayaSot ini  8 e iXoHv gar nicht anwenden, weil, wenn nur eine Anwendung uber-  haupt da sein soli, Agamemnon  rousste ein 8nXoS sein. Sondern  «ras Socrates dem Homer vor-  wirft, ist, dass er auf das Spruch-  wort, ais sei es alter, anspielend  den Menelaus einen ayaSoG nenn». Haec subtilius, quam verius disputata sunt. Primaria proverbii forma ea est, quam Scholiasta laudat, quae quomodo mutata sit et ab Homero et a Platone, iam videamus. Nam etiam ii interpretes, qui Schol. formam ut primariam proverbii agnoscunt, de mutationis et corruptionis ratione  male indicarunt. Legitur apud  Homer. II. /5, 408.  ctvxoparoS di oi ?/A3« floTjv  ayaSoZ MtviXaoS, de quibus  verbis Plato ita videtur iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce non virtute fortem interpretaretur, idqne verbis ayaSov ra jCoXejxixa  ac. ipya opponeret. Assumto deinde Apollinis iudicio, quod legitor II. p f 588., aperte eloquitur!  ignavum ad fortem accessisse  &xX rjxov h. e. invocatum. Proverbii primitiva forma si est,  nt diximus, avxopocxot 8 9 ciya -  3oI8£iAcJt' ini daitai iadtv,  facillime agnoscas licet homcricae hov fia}.9axov alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov xret tOruov-  rog tov 'styafisfivovos axhjxov ixolrjatv IX&ovxu rbv Mt-  veltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov « yeivovog.  poeaeoa superbiam , qaae iisdem  verbis eodemqne usa verborum  ordine sententiae innocentiam ita  pervertit , nt proverbium audiat :  avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi  ini Saltat ladiv* Iam quod  Homerus fecit, idem licere sibi,  ut proverbium corrumperet, Socrates putabat, Neqae tamen pro  SeiXdiv, quod in primitiva pro-  verbii forma legitur, ad Agatho-  nis nomen alludens dyaSdir  scripsit, ut Stallbauraium judi-  cantem video, — r forma enim  proverbii elficeretur haec: avto-  patoi 6* ayaSoi dya^av,  qui verborum ordo non reperitur  nostro loco, neqae xai part.,  ut Riickert. censet, hoins muta-  tionis indicium facit, — pertinet  enim vocula ad totam enuntiatio-  nem, eoius exemplum habes Symp.  p. 193, C, ei Se rotiro ctpt6tov t  dvayxalov xai zcov vvv nap-  orroor ro xovxov iyyvtdtca  dptdxov elvai. Adde p. 206, A.  dtp ovr, iq>rj , xai ov povor  elvai , aXXa xai dei elvat , —  sed Homericum SetXoi in ayaSoi  mutavit, minus, ut videtur, Aga-  thonis nomen (dyaSdiv), quam  Aristodemi laudem (ayaSol ) respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv  dyaSol 'ini Saltat fadtr.  Comprobatur haec explicatio no-  stra perpulere Aristodemi mo-  destissimo responso : IdoDt pivrot  xirdi ryevdod xai iy o> ovx  tiv Xiytit , <w 2oSxpaxet, aXXa  xa%’ "Oprfpov cpavXo t oSv  ini dotpov avSpot Urat SoirrjY  dxXrjto t, Ceterum ad Homericam illam proverbii corruptionem, non ad primariam formam eius Socratem a. Platonem respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est apud Pla-  touem. Homerum enim ex avro-  paxoi 6’ ayaSoi SeiXcov fecisse  consentaneum est: avxopaxot 5*  dyaSdiv SeiXoL nihil mutata  verborum sede, et tamen mntata  sede subiecti. Iam servato, qni  apud Homerum est, verborum or-  dine Plato scripsit:   dyaSwr avxopaxot aya~   fiaXZaxov alxjiTfTijr.  Fortem et strenuum bellatorem  Menelaum fuisse, e multis Homeri  locis colligitur. Semel apud eundem vocatur paXSaxot alxprjr/fS  II. p f v. 588., ad quem locum  Platonem respexisse multi fuere,  qui annotarunt. Utitor autem il-  lis verbis deus Graecis infestus  atque rerum bellicarum minus  peritus, Apollo, non, ut ignaviam  Menelai notaret , sed Hectoris  euimurn nt excitaret et augeret.  Si displicet igitar, quam supra  commemoravimus, malitiosa fiotjY  aya$ot verborum interpretatio,  (licere autem interdum poetarum  versiculos psr iocum falso interpretari, quis negabit}: quibas tamen displiceat, iis dictum esto:  Menelaum paXSctXOY appellari,  ut Agamemnone inferior, non ut'  ignavus ffcisse indicetur Quid,  quod Aristodemus paullo infra dicit p. 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~  yevdco — cpavXot axv ini 6o<pov  dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot,  num revera hominem nequam  2 •   Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]' *I<Stas pivtot xivSwivOu  xal iyd ov% ag 6v Xtynq , a ZdxQare g, aXla xo&’  " OfiijQOV , tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai tooivrjv  D KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev  ox>x b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd-    foisse putas, aot ita moratum, ut  qui ipse tpavXov se esse confi-  teretur? Si quid video, nihil  aliud indicare Aristodemus voluit  addita tpavXoS vocula, quara se  cum Agathonis sapientia comparatum Agathene inferiorem esse.   ovv aytov pe naxo-  Xoyrjdei; Verba difficillima  sunt ad explicandum. Faciendum  igitur est, ut, antequam senten-  tiam qualemcunque nostram ape-  riamus, quid alii de hoc loco  consuerint, videamus. Levissima accentus mutatione Astius scribendam coniecit : dp* ovv aytov  pe ti aitoXoyjfdei. Sed duplex  interrogatio ab hoc loco alienissima videtur. Creuzer. Leet. Piat,  ad Plotin. de pulcritud. p. 5l8.  ay aytov coniecit, quod saepis-  sime scribarum incuria in ayccv  mutatum reperies. Ea coniectura  Stallbaumio probatur, qui verba  convertit: Nam igitur aliqua ra-  tione excusare poteris, quod me  adduxeris? Addit autem, non  quaerere Aristodemum, ecquam  h abiturus sit excusatio-  nem, dum ipsum adducat,  sed num futurum sit, ut  possit excusari aliquo  modo, quum ipsum ad epulas secura duxerit* Non  male. Nihil coniectura opus est.  Ut rectius verba intelligantur, ab  Aristodemi responso exordiendum  est, quod legitor p. 174. B.  ovttoS ( sc. 2x?> ) OTttoS av Cv  neXevys h, e. ibo, manebo, prout  iusseris. Haee eo consilio di-  cuntur, ut Aristodemus, quod in-  vocatus veuisset, a nemine pos-  set, utpote qui vocatus esset a  Socrate, rusticitatis accusari.  Socrates contra, ut. hominem ad  suscipiendum iter dulcedine quadam pelliceret simulque itineris  suscepti excusationem a se amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si  placet, Agathoui , quod Homerus  fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6* dyaSok o  6eiX<uv ln\ daitaS iadiv, idem  te experiri voluisse, atque eius  rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas  venisse avto patov d y a-  3 6 v. Aristodemus autem quum  vereretur, ne q>ax>XoS potius ad  normam Homerici proverbii, quam  dyc&oS ad Agothonem profectu-  rus sit, a Socratica proverbii mu-  tatione adventus excusationem  petitum iri negat, atque iturum  se fastidit, nisi a Socrate vocatus esse dicatur. Iam quo faci-  lius hominis animam obfirmatum  perspicias, aytov scriptum est  non ay aytov in interrogatione,  quam nunc interpretaturi sumus.  Nimirum praesentis temporis participium eam vim habet, ut de  Socratis actione intelligendom simul Aristodemi voluntatem in-  volvat manifesto: ei ayoiS pe.  Sensus est : Wenn i c h mich  von dir fiihren lasse d  wollte. Spreta autem dulcedine illa, quae in Socratica pro-  verbii mutatione continetur, et  vog. £vv te dv , iq)tj y Iq%ou.Ivg3 , tcqo 6 tov fiovXev-   dujlt&u 0 XI iQOVptV. ctiX t&piV.   Toiavx arra (Upccg Itptj dtalex^tvvccg livai. tov  ovv ZkoxQUxrj iatrup it&g stQogtyovzct tov vovv xccra  ti/v o6ov itoQEvsti&cci VTtoteizopevov , xal stEg^aivovtog    qua dicitur ad bonam accedere  invocatus ayaSof, aliam  iam exigit excusationem uon sibi,  quod accesserit invocatus, sed  Socrati, quod se vocaverit* Haec  verborum explicatio sequentibus  verbis perpulere probari videtur. Schleierm. convertit: Wirst da   inich also uuch etwas entschul-  digeu, weun du mich einfiihrst?  Rectior verborum conversio haec  est ; Num ig>tur, si duci me a te  patiar , aliud quid habes , quo  possis to, quod me vocave-  ris, excusare? Quod ad me, ovx  dpo\oyi} 6 a) anArjxoi ?jxttr, aXX  viro 6 ov H&HXrjfJL&voS. — Tl pro  rl aXXo positum reperies haud  *aro upud scriptores Graecos, cfr.  Piat, de rep. I. p. 8S2. C. atXXd  t i oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu  censes Mallem tamen b. 1. legere  olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit.  p. 50. C. cap. XI. fin., ad quem  locum Stallb. laudat Lanib. Dos.  de Ellips, p. 27. ed. Schaef. Ut  unum locum o Latinis scriptoribus laudem, apud Terent, legitor  Heuut. Act. I. 8c. L v. 17«  Nunquam tam mane egredior, neque tam vesperi domum revertor^  quin to in fundo conspicer fo-  dere aut arare ant aliquid fa-  cere denique,   <jvr tl 8 v, seqq. An-   notat Stallb. ad h. 1.2 a Alludit  ad II. X. v* 224.," unde suum  hausit Ruckertus scribens satis  negligenter: Hom. II. x • 224.   Pro Xpo o tov , qua^iFischeri confectura est, libri exhibent ad  unum omnes itpo ddov , 'O tov  antiquitus disiunctim scriptum  cui% seriore tempore coniunctim,  ut lit, ederetur, ad mutationem aapte figura pellexit. Ceterum  Xpo o tov nou debebat Stallb. convertere alter altero me-  lius. Socrates controversiae per-  taesus, et sibi et Aristodemo ex-  cusatione opus esse concedit. 'Sibi,  quod invitaverit, illi, quod audiens  luerit vocauti. Sensbs est: In-  ter eundum tu milii, ego  tibi, quid otrique dicen-  dum sit, prospiciamus.   naxa xijv o 8 o'v iro-  ptvEoSai. Habet Ficinus:  Socratem cogitabundum  lento nimis passu gra-  die ntem exspectasse sae-  pius, tandem iussisse So-  cratem, ut praeiret. Enar-  ratio haec est, non conversio  verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit, mecumj& ^a\  suspicabitur fortasse, Graecira po -3  verbis oliro infuisse, quod O r/J   ce uti orum cura sublatum, magna»? ;& ££  molestias Ficino excitaverit.   i it e 181 } Sh y evs 6 $   Stephanus iyiveto scribendum  coniecit, Wolf. do ellipsi 6 vvi{Stt  verbi cogitavit. Ut irttidr? —  yevidSai, ita panllo infra ei&vf  8 * ovr &>> I 6 etv. Haec structura  virtus admirabilis est Graecae  orationis, qna efticitur h. 1., ut  et de prioris narratoris vivaci- ^   tato, et de alterius narratoris    • >*  ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds yt-  vlo&ai hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xata-  E Xafi flavetv xrjv &vqciv , xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov na-  ftuv. ol (llv yag tvdvg naiSa uva IvSo&cv dzavti/-    fide, aliena, non sun, exhibentis,  lector admoneatur. Exempla huius  structurae plurima iuterpp. ad li I.  laudant v. c. Piat, de rep. X.  p. 617 . D. d (paS ovv , iiteidi/  d<prx£d^ai , ev$vS 6elv ikrai  itpds ttjv Aaxtdiv. p. 619. C.,  p. 620. D , p. 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione  infinitivi imperfecti 'et aoristi al-  ternant ita, ut aoristicum tempus  actiones momentaneas , imperfectum durantes actiones denotet.   ol p$v ydp. lloc legitur in  Bodl. aliisque codd. non paucis.  Inceptae stmeturae potestatem,  de qua modo dictum est ad  ijteidt } — yivkdScti , misere tur-  bant rov plv verba , quae olitn  pro ol yiev edebantm. Facere  autem non potnit Apollodorus, ut,  cum Aristodemum paullo ante lo-  quentem induxisset, nunc desub-  Ito ipse in sc reciperet illius  orationem, id qnod X 6 V piv  scriptura efficitor. Recte igitur  editores ol piv Platoui vindicarunt, quod et Photius praebet in  Lex. s. v. ol. Habet enim: ol  itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr  dZvTuvcoZ di ouroz* dvpTtodiov  ol plv ydp ev S vS itaibd riva  luv ivSor (?) ujTocvtijdetvta.   xal xaxaXapfidvetv.  tToc loco ne quis cum Ruckerto  arbitretur, quod in antecedente  orationis membro obiectum sit,  Sn hoc subiectum esse yiaraXap-  ftdvsiv verbi : aytiv abso1ute  positum eat. Structura verborum  haec est. ?.<prj — ol ditavxj)-  riavTa — «ruida dytiv , h. e :    dixit, puerum, qui obviam venis-  set sibi, ducem fuisse udeurn  locum, ubi ceteri cousedissent, et  £<prj xaTaXapfidveiv t/Stj p. —  Ceterum solebant Graeci verbi  transitivi infinitivo, qui idem  snblectum habeat, atque verbum  fiu tum, e quo peudet, subiectum  nou addere ea fortasse de caussa,  nc dupliciter posito accusativo  (subiecti et obiecti) ambiguitas  oriretur sententiae, atque ut facilius obiectum aguosceretur. cfr.  Enrip. Piioeu. v. SI. TCudiv ittUtoi  TEhiir, ubi non addi potest pro-  nomen personale, quiu ambigui-  tatem sententiae efficiat. Huius  loquendi normae adeo severi ar-  bitri Graeci eraut, ut ne in in-  transitivis quidem verbis, quae e  dicendi verbis penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo  oddi paterentur. Ubi autem pro-  nomen ponendam erat necessario,  ut in Piat. Parra, p. 127. 1).  nominativum posuerunt, nou ac-  cusativum : .at>roV re ETteifeXStir  $<prj o IloSodupoS xal rov  ILxppevlSrfy.   evSvS 6* ovv. Mtv et 6e  particulae ita plerumque adhiberi  soleut, ut duorum verborum, qui-  bus apponantur, mutuum relatio-  nem iudiccnt. Relatio haec esse  liequit nisi inter verba, quae  suapte natura possont alterum ad  alterum referri. Adhibentur itaqne,  ubi nomen nomini, verbum verbo,  particula particulae respondet.  Igitur nostro loco scriptum ex-  spectaveris , quoniam ol vocuU  nominis» proprii locum obtinet    xrMnozioM.  23    ilavxa cfyuv au xaxixuvxa oi aMoi, xai xutakaujia vuw  y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’ ovv tog Iduv tov  ’Jya&a)va , tpctvcu, '^iQiaxuSyfis , elg xa/.ov yxeig,  Zlxeog evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa yX&ig,   ei ulv — xur Si 'AyaSava. De-  Ilex isse autem scriptor a consueto  harum particularum usu videtur,  quod enuntiatio itu conformanda  «rut, ut non solum ol responde-  ret sequenti xdv 'AyaSuvct , sed  «tiam evSvS ad sequens tv$vS  referretur. Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scri-  ptor potuit, revera exprimere non  potuit. Scripsit itaque ol pkv —  U'3 vS 6£. Sed quoniam hac di-  «endi ratione nou sublata quidem  et prorsus deleta , sed turbata  tamen atque imminuta est vis  relationis utriusque ol pty —  roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr  r— tvZvS 6£l ne singula totius  «•nuntiati membra dissoluta vide-  rentur, OVY particulam scriptor  adiecit, quae ut contiouandi par-  t cula est, ita membrorum hiatum  explet commodissime. Simili ra-  tione scriptum reperies Apol.  8ocr. init, ott p\v vpeif , oj  avSpeS ’A$7/vatoi , xexovSaxs  vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh  ol6a * £ y o> 6’ ovv xat avxo$  xnt auioov oXiyov ipaviov £xe-  AxxSopJfy. Qno loco non vptlS  ptr — £yoj 8£ Plato scripsit,  quod inceptae enuntiationis ratio  «tiam o xt ptv — dsivotaxor  8t flagitabat. OvY priori particulae additum reperies Symp.  p. 176. B. £y co plv ovy \£yoo  vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfAe-  *rcJf 1'xo* vxo x ov xoxov   y* a$ 6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS  «roAAoirf, quo loco chiasmi  ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis reperitur, iyoo non ad A iyes  docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj re-  ferendum esse. interdum ovy  particula omittitur in hoo dicendi genere de industria, ut re-  pugnantia quaedam voluutatis ex-  primatur, verboruraque relatio  minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst  Ixc Jy atxovxl ye Sv/igj. E.g.  Piat. Ep. VII. p. $25. A. TtaXiv  61 fi p a 8 v x ep ov plv,El\x8  8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv  xd xoiva >t<x\ noXixixd txiSv-  pla. Adde Soph. Oed. C. v. 521.  i/YEyxoY xax6xax\ (u B,ivot,  ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo,  xovxgjy 6 * avSaipETOv ovStr ,  quo loco Reisig. axojy pav scri-  bendum couiccit, Dubito, unm rect'.  Pessime autem alii docuerunt,  supplendam esse post ukgov ptr  — IxaJy 6k oi/. Ceterum huius  structurae exempla permulta rc-  periuntur, quibus ellectura est, ut  scribae interdum 8 * ovy pone-  rent, ubi y ovy a Platone exhi-  bitum est.   E is xaXov 7/ X EI S , d X G0>  6vy 6et7tY i/ 6y$. Fortasse e Dawesiana illa lege , quae cum  couiunctivo aor. I. vetat oXgjS  couiungi , Bekk. v* tivvSet-   XYt/dEiS coi rexerunt. Frustra.   Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulga-  tum dx coS 6vv8ti7tvrj6ff> mutari,  non quo coniunctivum aoristi  primi soloecum putaverim, quae  fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed quod luturum rei ipsi m a g i s accommodatum  •sso videbAter. Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov ' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va xctAa-  dccifu , oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc IkaxQcctr] 7j(iiv icdig  ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj fisra<5TQEq)6pEvog , — ovdafiov  uqcS UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv , ott xal avtog  Utra UcoTCQatovg ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq Ini   cohortationem Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque indi-  cat, Agathonem persuasum habere,  hoc ab eo factum iri. Nam in  invitandi formulis Qraeci sempcr  post O7CG0S iuferuut futurum  tempus, nunquam coniunctivum  aoristi. — Scripsit autem V,  D. elS xaXov fjxetS* oxqjS 6vr-  &£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac  verborum disjunctione, ut Agatho,  ceteroquiu homo elegantissimus,  parum honeste nunc egisse vi-  deatur. E Stullb. sententia con-  vertenda sunt Agathonis verba:  Schon, dass du gekommen bistj  •peise nun mit! Hoc non tam  est vocare aliquem ad coenum,  quam exprobrare alicui tecte ad-  ventus temeritatem; quasi non  per se intelligatur, eum, qui ad-  venerit, una couvivari. Rectior  explicatio haec est : Du kdmmst  gerade noch zur rechteu Zeit,  um mit uua zu essen: hoo   modo praeposterae invitationis  odiosa commemoratio vitatur fe-  liciter et rectius simul verba explicantur : Hi xaXov rjxeiS. Sci-  das habet: ds xaXov ' evxaipaS.  Recte,   cjS xal Urbanitatem   Agathonia ex his verbis coguoscas licet. Sensus eat: Si alius,  rei gratia huc profectu»  es, in posterum di f fer;  idem enim et ego facere  coactus eram heri, cum  te quaereiem, ad epulas    ut‘lnvitarera, te nusquam  terrarum conspiciens.   ovx olo S t ij 18 eir. Stallb.  addito verbo nullo f\Y edidit,  quae vulgata lectio est , pro rf .  Acute Ruckertus: confirmare V   lectionem videntur etiam libri i»»  qui plane omittunt verbum, quod  fieri non potuisset, nisi v abes-  set, ut interire rf in sequente r  posset. Vide quae annotata sunt  ad p. 9.   dXXa Swxpdtij — &yeiS,  Rogat propterea, quod scit, eum  semper cum Socrate esse, R iickert Vide ad p. 173. B. quae  annotata sunt. Ut illic ex epi-  thetis, ita h. 1. ex Agathonis interrogatione colligere licet, Aristodemum Socrati amicissimum  fuisse,   xal lyv,l<prj fieradt pe-  <pu pevoS, X, t. A. Comma po-  tu i mas post peraCfpetpoperoS ,  delevimus, quod in omnibus edi*  tionibus exstat, post i<prf , quo  deleto sententiae vigorem auctum  habebis, et errorem Aristodemi  descriptum vividius. Sensus est :  uud ich , sagte er sich mndre-  hend, / — sehe nirgends den So-  crates mir folgen. Si qui snnt,  qui post Hqtff interpurfetionem  flagiteut , /iiprjpacToS gratissimi  severi osores , non repugnabimus  quidem: hoc certam est tameu,  nostra interpunctione lepidiorem  Ari»todemi orationem fieri. Ce-  teium lineolam post pe%adtpe<po-    ETMI10EI0N.    25   dst Jtvov. Kctliog y' , %<p?l , nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv   ovzog ; — “Om6&bv ifiov &q n dgyu. alXa ticcuud^a  xal avxbg xov av eti]. — Ov axitpu, H<pr), itai, cpcivai 175  zbv 'Ayaftava , xal tlga^BiS Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’ os,  'AQiazvdrftis , 7ta(j 'Eov&tiaxov xaxaxllvov.    peroS ponendam cnra?imns, nam  per aposiopeain xal iyco verba  posita sunt. Dicturus nimirum'  Aristodemus erat: xal iyoo ijxco  avxoS pera ScaxpdxovS , converso autem ipsi inter loquendum, quoniam Socrates nusquam comparebat, prae stupore lingua hae-  sit* Paullo post animo resumto,  ut orationem interruptam expleret , xal iyco repetit ita : ehtov  ovv , oxi. xal avxoS //era 2co~  xpaxovS rjxoipi h e. : ich   sagte nun, dass ich ja anch  gekouimen ware, ich rait  Socrates* Male Stallb,, quem  Riickertus secutus est, xal  avxoS verba arctius coniun-  genda censet atque convertenda :  dass ich j a e b e n mit dem So-  trates gekommen ware. Ceterum  aikxo-S pexa 2arxpaxovS h. 1.  dicitur, ut sexcenties alias v* c.  in Xeuoph. H* Gr. 2. 2. 17. scriptum legitur: psxaxavxa ypi$Tf  npedfievxtjs is Aaxedatpova  avxoxpdxcapfd exaxoS avxoS.  Numerus ordinalis, quem vocant,  StvxEpoS nou additus est nostro  )oco , quod addito Socratis no-  mine plane otiosus erat atque  inutilis.   xXijSelS vit ixeivov .  Facit Aristodemus, quod facturum  se esse indicaver.it p. 174. D.  ooS iyoj phv ovy opoXoyijdta  dxXrjxoS ijxeiv dXXd vito  do v xexXrj pkv oS.   xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov  dv * aXXa x. r. A. Octo Bekkeri    codd. yi omittunt; qnf qno sunt  melioris notae, co studiosiores  editores in expungenda purticula  fuerunt. Fi particulam Platoni  restituit doctissimus Stallb., quem  Riickertus secutus est, motus  Uterqne constanti usu yi parti-  culae in hac dicendi formula apud  Platonem. Lundat Stallb. ad h.   1. Charmid. p. 156. A. xa-  AcSff ye dv , ipr 8* iyoS , ir otior.   Hipp. M. iuit. xaXcoS ye dv —  voplZoov. Lnchet. p. 192. B. op-\   &<oS ye dv X iyajv. Theaet. p. 181 . ,   D. o p$coS ye XeycjY. Lysid,  p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f  itoiovrxeS , quibus adde si pla-  cet exemplorum congeriem, quam  addidit Riickertus in edit. Symp,  p. 17* Convertenda verba sunt:  Bene quidem, inquit, fa-  ctam a te, sed abigentium  est ille?  xal avtoS. Addito xal iu-  dicatur, magnopere mirari etiam  Agathonem ( aXXd nov edxtr  OVXOS ;") absentiam Socratis, Mi-  nus igitur placet, quod in uno  cod. Paris, legitur aAAa xal  $avpd$a>, neqne videre possum,  cur id in textum receperint Astius  et Reyuders. . Ficinus habet . *  quare ipse qnoque miror,  nt eundem legisse suspiceris <  aXXd xal avxoS SabpaZ co-, quod  cum correxisset , serior manna  xal avxoS ponendo post Sav-  paZa> f factum est fortasse, ut 4  xal remaneret ante $avpd?,ca.   ov dxllf>€l. Futurum cum  Cap. III.  Ka\ 2 fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa , T va xaxa-  xloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv dyyUkovta,    negatione iu interrogationibus ad-  hiberi solet liaud raro pro im-  perativo, Potest adiuncta esse  huic dicendi formulae indignatio-  liis* irae, clementiae notio, prout  verba pronuntiaveris. Servitutem  clementem apnd Agathonem fuisse  servis, verba docent p, 175» B.  itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov -  XrfOSe, iytstdctr ns vuir MV  ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs  iirobj6a et q. sqq. Verba con-  vertenda sunt igitur nostri loci:  Wil 1 s t du nicbt einmal nachseheu,  •agte er , habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren ?   xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii  cprrectio praeclara scriptnrae Vul-  gatae xa\ ifif, quam hodie nemo  explicabilem indicabit. Probatur  his verbis , quod supra annota-  vimus p. 22., ad evitandam  ambiguitatem Graecos per-  sonale pronomen omittere solere  In transitivorum verborum infi-  nitivis, qui e dicendi verbis peu-  deant idemque, atque illa, sub-  lectum habeant. Efficitur autem  hae loquendi norma h, 1. , ut  puer Aristodemum abluisse dica-  tur, non vice versa puerum Ari-  stodemus, quod Graece audiret;  xal leprj axorifieir ?ov Konda.  Puerum li e. servum quod attinet ;  fitallb. toV itaidct videlicet,  inquit, quem antea compellaverat. Riickert. : 6 itaiS est  h. 1. is 6errus , a quo supra  Aristodemum introduci vidimus.  Neuter satis recte h. 1. articuli vim  rnlerprtUtar. 'O raif «t petius servus, cui pedum lavanda-  rum officium mandatum erat.   SVa xax axioix o. Modus optativus cum particulu finali  couiuuctus satis demonstrat, duoruteir non praesentis tempuris,  sed praeteriti infinitivum esse.  Vide ud p/ 7. quae annotata  sunt. Imperfecti participium ha-  bes p. 174. E. &•£oxal  t ur (>£ iva xaXcdtxifji x. r. A. In  vett. editionibus scriptum exstat  ira 7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo lcrri potest. Depravatiouia  fontem felicissime Stallb. inda-  gavit. Cod. nimirum Flor., lit-  tera a apud Stallb. insignitus,  0 7 tov.   habet ty a xaxaxeotxo.  i r x gJ t cor ysixor o»r  npoSvpu). Vitruv. Arcli. libr*  VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit, Graeco dicuntur, quae sunt ante ianuam  vestibula. Addendum est, itpd-  Svpcc non nisi privatarum aedium  vestibula esse, publicarum aedium  vestibula TtponvXaia Graece vo-  cari, Minus apte igitur Schlcieriu.  npdSvpor con vertit : Vorhof,  quo verbo npoTtvXaia indicantur.  Narrationem quod attinet Aristodemi: Socrates inter proficiscen-  dum meditatus, cum prius itiucris,  quam cogitationum fiuem reperis—  •et, ad vestibulum vicinae domus  deverterat.   xapov xaXovvxoi. Ilacc  est vulgata lectio. Codd. non  pauci xal 6ov habent, Eekk. ex  optimorum auctoritate codicum  edidit xen or>j caiot patt«eini«na ot* SmxQcttTjs ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov yutovav  ZQofrvQip tOtrjxe , xaftov xukovvxog ovx i&tte tlsi&vtu.  "Atoxov y' , s<pi], kiyug ' ovxovv nutes uvtov xul (tri  utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv, MijSufica s, ukX iuts uvtov. B    suscepit !n Epliem. Litt. Ienens.  Jul. 1852, N. 1SS. censor Riik-  kert. editionis : a Fragt es sicli, ob  hier g er ad e Red e odor abhan-  £ i g o besscr sei , so ziemt die  Jelztere mehr darum , weil sie  das i 11 den Vorder- und das iu  den Ilintergruud der Uuterhaltung Gebdrige schon abstuiend  die das Gesprach der lJuuptpei*-  soueu unterbrecheude Meldung  des Sclaven glcichsum episodisch  zuriickstcllt. Und gleichwie diese  Form auch iu dem Uebrigeu her-  vortritt , indein 'kein H<pjj ein-  fiilirt , so sprechen fur xa\ ov,  aul' welches wir schon durch innere Griinde hiugewiesen wer-  deu (?) i auch enlscliieden dio  besteu llandschriiten , welcben  llekker mit Ilecht gefolgt ist.  Dcnn auch das Einzige, woran  cin Vertheidiger des xdfiov sich  konute halten wollen, das ovxoS  bei ^LtDxpdcxrfS vertragt sicli auch  mit ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe stehe.w llaec  speciosius sunt, quam verius dis-  putata. Quid, si ipsa pueri  verba scriptor exhibuit, ut, ad  quae omnes convivae aures ar-  rexisse consentaneum est, eadem  jm»e ceteris etiam emineant?  Non dispiciendum est autem,  quid obstet, quominus xa/iov  scribatur, praesertim cum hac  scriptura totius loci vigor augea-  tur incredibiliter. Iluc accedit,  quod Agatbonis verba atOTtov  y\ &<pr} , Xkyttt et q. seqq. ipsis  nuntii verbis apprimo eoaveniant. Verba conrertenda  sunt: Eiu anderer aber von Aga-  thon's Sclaven sei gekommen  und habe berichtet: Socrates der *  steht beiseit am Hofraum des  Nachbarn, und ich rief ilin mehr-  mals, aber er will nicbt heroin-  kommen.   ato*or y, £<PV> XeyttS*  Suut fortasse, qui scribi iubeant  axoitov yk xt, E<prj , XkyuS.  Utrumque geuus dicendi in usu  erat Graecis. Iu formula axo-  xov yk xi y l<pT), XkyuS, XkytiS  verbum transitivum est, ex ecquo  xl pronomen exaptatur, cui aro-  Xoy est additum. Omisso t\  pronomiue atoxov adiectivum  adverbii vices obtinet, XLytii  absolute pouitur ut nostratium  sprechen; exempla si quaeris  huius usus, vide sis Indices. Ea-  dem dicendi formula explicatius  perscripta audiret: axoitov y,  2<p V , Xuyov Xiyetf, Felicissimo  Si hleierm verba convertit : Wun-  dorlicher Bericht! habe Agathon  gesagr.   ovxovv xaXetS aifrov *  xal fu) a(pi/ <$iiS ; Vulgo  male xotXel legitur, paoci r.odd.  etiam soloece exhibent u<pi]6yi  pro aqtijOEiS* Ovxovv vocem  quod attinet, usu loquendi factam est, ut iu interrogatione  non ovxow , qnod ratio exigit,  eed ovxovv scriberetur. Igitur  interrogationi conclusionem addi-  tam habes, quae voluntatem iubentis certissimo describit. Ceterum non possa-   I   fdos y&Q ti tovx' X%u‘ Ivioth dnoOtag , Znoi, 3v rvffl,  itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu. fir) ow nivtite,    aAA’ lare. ’AkX ovxco %VV    mas huius dictionis nisi hac ra-  tione assequi potestatem, ut con-  vertamus: Du rufst ilio aiso  uud lasseat uicht ctwu  von ihm ab. Mi/ particula  quopiam non ea , quae revera  fiunt, sed rei alicuius nonnisi  possibilitatem, veuia sit verbo,  cogitatam negat, additis nicht  etwa verbis commode redditur.  Recte Hermauuus ad Soph. Aiae,  v. 75. /at/ sic positum dubita-  tivdm esse docuit.   l$o? yap xt tovx*  Cave otiosum censeas x\ prono-  men. Priscian. XVIII. p. 1208.  costro loco exemplo utitur, quo demonstret, Atticos scriptores  interdum x\ pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon. Hipp.  M. V* 287. B. , quem locum  Stallb. laudat, eandem enuntia-  tionem reperies verbo immutato  nullo. Facit inprimis ad agno-  scendam xt additi potestatem  Thuc. 1. 132. *ApyiXio? — Xvet  x ds inidxoXa? — vnovof/da? xt  x oiovx ov TtposeitedraXSat x.  r. X % h. e. Argilius cum suspi-  caretur, harum rerum aliquid imperatum esse et q seqq.  Adde Pl. Syrop. p. 191. A.   fX<AY XI TOlOVtOY OpyUYpY , olor   vl dnvxoxopoi. p. 194. E. onoio?  di xi? av roV oav xavra id&pi/-  daro. Gorg. 472 ,C. idxi pbv  ovv ovxoS xt? tpoito $ iXiyxov,  ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi .  Hom. II. 9. . 11. xovxo xl /tot  xaXXidxav M <ppedlv eldexat  tlvat. Verba nostra convertenda  sunt: dat ist «o teiue Art;  okoliIv , il <Joi Soxu, (pavas    ort ot av rv XV  H. e. d«-   • istens interdum, ubicun-  que locorum est, ibi con-  sistere solet. Quando iu-  delinite loquuntur Graeci, cum'  verbo finito quietem significante,  non quietis sed motus uotiouem  coniungere amant. Ut igitur de  certo loco dictum supra est Sdfij-  7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y 7CpO-  St Logo, ita nunc, quoniam certus  locus Aristodemi animo non obversatur, Znoi non Znx/ rectissime  scribitur. Illud meliorum codd.  auctoritnte confirmatur, haec vul-  gata lectio est, quae etiam rvxp  habet pro rvxot. Ali. ratio eat  verborum c, I. p. 173. A, X po  rov Se xeptrpexuv oxy rvxpipt  («c.. xepirpixuv ) ubi posito rv-  XOipi sc. xeptrpexuv, verbo mo-  tum significanti admugitur notio  quietia. Adde Piat. Phaed. p. 113.  B. — ov hcA oi fivotxf s ano-  OxdSparadvacpvSuSiv, ot iy av  rvxarfi rrjs yyS, quo loco ad  Tvxatdtv supplendum est e prae-  cedente verbo finito participium  motum in aliqnem locum sigivJA  ficans ararpv Purus. Aiioch.  p. 365 C. artioxet 61 SioS :n  — ti otfpypopai roSSe rov <pu-  roi xai ruv dyaSur, aetSti/S te  xa l axvPtoS dxoixote xeioo-  pai Orproftevos, eis evids nat  xruSa.la perafiaMuv. de repi  IX. p. 589. A. uste t^xeOSai  oxy dv ixdvuv oxorepor dyp.  Ibid, VI. p. 492. C. qtepopivtjv  nata (Sovv, y av ovro s <pepy.   prj ovv xivelxe, aAA’  iaxe avrd v. Valgo xivffte  exhibetur, quod Grammaticorum   tov 'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg aM.ovg  £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s , Ixudav  t ig v/iiv fifj hpte vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv ,  praeceptis repugnat. Aristodemo*  autem cum supra dixisset aAA*  idxe ccvxov, eadem verba nimo  repetit cuqj vi maiore, quod ser-  vos Agathonis, dicto heri audien-  tes paratos adhuc ad vocandum  Socratem animadvertebat. Ce-  terum e xtrnr verbo facili ne-  gotio Socratis meditabundi ima-  ginem lingere tibi possis. Aft-  reidScn nimirum dicitur, quod  ipsum se non movet. Ad Socra-  tem adhibitum , hominem osten-  dit sine motu dantem atque re-  rum externaruimoblitum, qualem,  descriptum legimus infra p. 220.  C. cfr. p. 218. C. xal eheov  xtrt/daf aVxcrr, quae verba de  eo dicuntor, qui sine motu iacet  atque somno quasi sepnltns. Adde  Pl. de rep. I. p. 829. D. xal  iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS  ravxa, fiovXo piros hi Xkytir  avxor ixirovr xal ditor x.x.X.  Consentaneum est, Cephalum^ fi-  nita oratione, rem, de qua dixis-  set, secum reputantem, sine motu  sedisse, qua propter ixivow  avxor Socrates ait.   a XX ovrct) XPV • v *d. 9 ,, ac annotata sunt p. 12. Addendum  est h. 1., discrimen, quod ad  p.* 178. C. inter XPV et cx ”  stare annotavimus , non dbique  apud Platonem exemplis probari.  Reperiuntur enim loci, obi Sii  pro XPV et vice versa XPV pro  6sl adhibetor. Ne igitur Pro-  dici sophistae instar nimia se-  dulitate usi esse videamur in in-  dagando verborum discrimine:  hoc certissimum est: nusquam  reperiri in una eademque enuntiatione verbnm ntrumqne,  quin alterum necessitatem ex-  primat, alterum inservientem ne-  cessitati voluntatem denotet.'   navtcoS it apaxiSets. *  IlapaxiSedSai dicitur de cibis  et mensis, ut Lat. apponere  monente Stallbaumio in annot.  ad Piat. Pol. p. 854. B. In ali-  quot codd. reperitur xovS aXXovS  idxiaxe ndvxaS xal itapaxi$ixc % *  quod, Thierschio, Reyudeisio,  Ruckerto, probatur. Male. Nihil  enim languidius xovt aXXovf —  ndvxaS verbis } correxerunt autem  olim ita, qui de narxoaS vocis  explicatione desperarent. IJdrxaiS 9  inquit Riickerlos, habet, quod  offendat. Quid enim sibi vult  ly 1. omnino, iiberhaupt?  Cogitatione arctius couiungendum  est izarxwS cum oxi ar fiov-  Xv6$£ f ut respondeat nostratium;  Thut ganz, wie ibr wcllt, setxt  vdlJig vor, V.U3 euch beliebt.   iieeiddv xi s vp.tr pif  iipedxtjxy . Satis colligitur  e lectiouis varietate, doctos homines iam antiquitus do huius  loci explicatione admodum du-  bitavisse. Vix commemorandum  est vpir , quod in aliquot codd.  reperitur pro vpir: gravior va-  rietas est in verbo i<pEdxt}xy.  Pauci sed optimae notae codd.  iq>idtrjxei exhibent, tres atpe-  6xtfX7f, unus itpetdxijxu , alius  itpidtrpiE commendant. Stallb.  convertenda verba censet; quum  nemo vobis praepositus  sit, id quod ego nunquam  feci, In Scliieierm, conversione    30    ijaatqnoz    ovv vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl dtZ-  C xvov, *«l rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag  httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj oepcic; (iiv dunvtlv, rov di  ZcoxQocnj ovx slgdvau xov ovv 'Aya&ava ita/j.uxiq  xilivetv aaaxlii^ttOdM xov ZtoxQtxit] , X di ovx iav.    legitor p. 889.; trogt aof,  was ihr wollt, wenn euch  doch Niemand Befehl er-  thcilt, was ich noch n i e •  mnis g e t h a n habe. Riicker-  tus verba convertit : Apponito  quaecu nque vultis, quam  nemo vobis est praeposi-  tus. Ficinus , cuius maxime  conversio probabilis: Ceterum  vos, o pueri, aliis epulas  afferte, et, quodcunque  lubet, apponite: vobis si  quidem nullus praesidet.  Sed nmn credibile est, herum,  qui revera neminem servis suis  praeposuerit, dixisse: si qui-  dem nemo vobis praesi-  det? Plato scripsit fortasse  iitt i, 'r av, x\S i ' ptv MV t*P E ’ tSrjjxp h. e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit praepo-  situs. Atque ne cui maior videatur huius s'cripturae audacia:  scriptum exstat in omnibus codicibns p. 174. D. itpo odov,  ubi manifestum est, Platonem  vtpo 6 xov exhibuisse. Ceterum  pro ppdtii cum vi ponitur h. 1.  r\S — jJ7j ita, ut r is per euphenismum dicatur. Sententia est:  diros aliquis homo vobis ne sit  praepositus.  vvv ovv vopi£ovteS  seqq. Laborat hic locus ex in-  terpunctione mala, quam ut ce-  teri editores, ita huius libri ia-  terpres celeb. Schleierm. immu-  tatam retinuit: Denkt also, auch  ich wiire von euch tum Gastmahl    geladen, so wie (?) die Andern,  uud bedient uus so. Commate  post xovS aXXovS deleto et posl  ini Selnvcv posito sententia verborum haec est : nunc igitur me  quoque ad coensm vocatum exi-  stimantes , m e et ceteros , voa  ut laudare possimus, curate. Ac  ne cui mira videatur ijti prono-  minis omissio, dicturus Agatho  erat: vvv ovv vofiigovxsS xal  ipk v <p vpavV%KexXrj6$ai ini  Setnvov Sepanewxe sc. ijifc  Sed quonium non tam se, quam  convivas servis commendaturus  erat, ea dicendi ligurii utebatur,  quae omisso ipi pronomine in-  prirois convivas curandos osten-  det et. Haud dissimilis est nostro  loco Piat, Pol. I. p. 329. D. xal iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~  yeiv avx 6 v ixivow xal tutov  x. x. X.£ 61 ovx iav. Bekk. ex  aliquot codd. d intextum recepit,  qua lectione oppositionis ratio  turbatur, vid, Malth. Gramm. pl.  f. 536. p. 1054. annot. Ut  hoc, ita t spernendum est, quod  non recepisse in textam frustra  Bekkerum piguit. Equidem Ru-  ckerti iudicio subscribo, qui in  aunotatione ad h. 1,; Egit, in-  quit, de hoc ignoto nominativo  pron. pers, Buttm. Gr. pl. I.  p. 291. T. II. p. 413. seqq. al-  latis testimoniis grammaticorum,  quibus id quidem edicitur, ut  vix liceat dubitare, quin exstite-  rit ea forma apud Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov nokvv xqovo v, cag da&n , HuccqI-  ipctvtcc , dlka (iah6xa 8(pa$ peOovv dHitvovvtag* xov  ovv 'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov xazaxei[iBvov t (io-  voVy sdtvQ , %(pij q)uvcu> ZaxQccreg , 7tag ips xatdxBuJo,  tvu xal tov fSotpov [ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot D    ptores, Ternra nt recipere  liceat alio loco, ubi codd.  desit auctoritas, non ef-  ficitur. Quare cum in tot  scriptis Platonis ne uno quidem  loco, quod sciam , ullo in codice  haec forma occurrat, haud scio,  an recte inde colligatur, ab hoc  certe scriptore eam prorsus alie-  nam esse. Ad verba izoWaxiS  xeXtvetv annotatum est ia Sym-  posii ediiione Wolfiana Lips.  1828, p. 13.2 TtoXXdxtf xeXevur  xnuss vom bJossen Wollcn ge-  nommen werden , wie das Fol-  gende zeigt. Male, Sensas est:  Agathoa habe wirklich oftcr den  Befehl gegeben , den Socrates  herbei zu scbaifen , er aber habe  es nicht gestottet.   xov ovv’AydS<avct, rvy-  Xceveiv ydp x. r. A. Haud  raro apud Graecos scriptores ea  pars orationis*, quae caussam  continet alicuius rei, ei orationis  parti praefigitur, qua res ipsa  continetur. Huius usus exempla  ai quaeris, adi Mattii. Gramm. pl,  $. 615. p. 1242. Exemplo est  etiam hic Jocus, quo prius commemoratum est, cur Agatho Socratem vocaverit, quam id ipsum  dictum sit, Agathonem ad se  Socratem vocasse. Nollem tamen  huius loquendi usus severior ar-  t biter exstitisset Riickertus,* qui  ad h. 1. haec annotat: c Quod   nemo, cui vehementiorem dederit  natura animum, non, ut ego opi*  nor, experitur, scribendo exprimere omnes verentur, Graeci,  quorum nondum regulis esset adscriptas stilus, licere sibi putabant, nt inchoatae sententiae  aliam insererent mediam , qua  illam vel explicarent vel proba-  rent priusquam totam legisset  audivissetqne, ad quem dirigere-  tur. Quamquam apud Herodotum,  apud quem exsurgens prosa ora-  tio nullodum freno tenetur, fre-  quentior hic usus , quam apud  seriores prosarios scriptores. »  Quem, quaeso, nostratium offen-  det Platonicorum verborum con-  versio haec : • Agathon nun denn zufal liger Weise habe et  allein am letzten Tische seinea  Platz gehabt — hatte gerufen:  Hierher , o Socrates u. s. w . Hdxatov xat OLxtiptv ov 9  pQYOV, Interpunctionem ponen-  dam curavimus post xatocxttps.-  yoy, ut, qui ultimae mensae ac-  cubuisse dicitur, idem significantius* solus fuisse perhibeatur.  Festis diebus pluribus mensis  utebantur Graeci, singulis autem  non nisi ties convivae accumbere  solebant. Hinc nomen tricli-  nium ortum. Iva. xal tov 6o<pov  [aitto pevoS Oov] aito -  A pcv 6ao, Ia paucis sed melioris  notae codd. v, c. in Bodl. omit-  tuntur verba ctittoptvds 6ov ,  quibus negari nequit, orationem  paullo rigidiorem fieri atque in-  comiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig. djjAov yap ott tvpsg auro  KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov EcJXQiaij  xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m ’Aya-  &cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov  lis tw xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav,    tivis divertas relationis inita  positis facile fiet i possit» ut  verba falso construantur: tov   do<pov dntdpEvoS dov ano •  Xavdoo. Omuia bene haberent,  ai scriptum exstaret: tva anxo-  pevoS 6ov tov dotpov ano-  Xavdco, o doi nposidxy x. r. A.  Videlicet Agatho dnxEdSai xivoS  tropico sensu h. e. de sedis vi-  cinitate intelligeret , Socrates  autem verbum premeret pro more  suo satis festive, atque de con-  tactu materiali intelligeret. For-  tasse anxopevoS dov verba e  Socratis responso huc translata  sunt , atque in sede minus apta  posita. Uncis eadem compegi-  mus, ut quibus deletis Agathouis  sententia plane non mntetur, et  flumen orationis minus retarde-  tur. — Verba convertenda sunt:  Hierher, Socrates, zu mir  lege dich nieder, damit  ich zugleich der W e i • -heit froh werde, welche  vor dem Hofr&um ‘der  N a ch b a rs chaf t dir bei-  kam. Iam quo sapientiae lau-  dem in Agathonem converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai  napct xiv a verbo dnrsd^ai ri-  vos , respondit, ut Fiemus qui-  dem verba convertit: Bene se   res nostrae haberent, Agatho a  si sapientia talis esset, ut in va-  cuum hominem ex pleniore ipso  contactu proflueret, quemadmodum «qua ex pleno calice io  vacuum per lanam influens. Si enim sapientia ita se habet,  permolli facio, quod apud te se*  dto, repleri quippe abs tc uber-  rima et praeclara sapientia puto.   oti yap npo anedxyS.  Sensus est; non enim ah eo  investigando abstinuis-  ses prius, quam id repe-  ris se 3 .^ Supplendum igitur  est: y EvpeS avxo , non ut Stall-  baumio visum. est, ei py EvpES  avxo . Negari nequit, interdum  npo praepositionem comt veibis  consociatam temporis ratio-  nem eum indicare, qua aliquid  prius fiat, quam aliud quid  evenerit, cfr. Piat. Gorg. p. 454.   C. onep yap Xiyco y tov k%yS  Ivixa nspaiysGSat tov \6yov  i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva  py ZSiZojptSa vnovoovvxeS  npo apnaZeiv dXX.yX.cov td  Xtyopeya x. r. A. Possis hoc  modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a, $.  noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi  npotaipev   ?}poocov ,   quo loco npoidnxeiv significet  aliquem prius, quam exigat na-  tura, in Orcum demittere, vali-  dum florentemque aetate necare.  Vides, quam bene huic notioni  conveniat Z(p$ipoS epitheton,  quod proprie ad ypcooov refe-  rendum est. Adde II. XI. , 55. f  noXXaS ltp$ipovS xe<paX.aS a£6t  vpoidipeir- Priore versu usos  es,t Luciun. in epigr. 24» Anthol.   Gr, lacobs. T, II, p. 25» medicis :w  $  &SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi (5«? zov IqLov Qtov  lx ttjs irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ ovzcog  fyu xal tj Gotpla, nollou ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E  X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli fjs xal xabjg Go~  tpiag nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri tpavltj ztg av    illudens adeo festive, ut mihi  non obtemperem, quin totum epi-  gramma hic perscribam:   9 Iijtrjp xi i i pol xov lov tplXov  v\6v IrCEjnpEV,  coite pa$elv nap' i pol xccvxa  x d ypapparixd.  c oS Sfc to pijviv aei8e noti  aXy&a pvpi HSrjxev  lyvco , xal xo xpitov xoi68 9  axoXovSov Inoi ,  noXXai 6 * ItpSipovi ipv-  X a S & 'i 6 i n potarfi ev ,  ovnhi piv nipnei npoi pe  paSrjdopevov.  aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv  Xapiij einev, hraipe •  avxap 6 notii nap e pol xavxct  paSeiv dvvarai •  xalyap iyoo noXXai rpvxdi didi  npoYantaj   xal npoi xovt ovdev ypap-  patixov 8iopai .   e ii xov xev ojxepov. Hano  Wolfii coniecturam nonnullis co-  dicibus probatam editores rece-  perunt ad unum omnes excepto  Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov  retinuit, annotans : Platonem non  de homine, sed de hominis  mente cogitasse , ut eli xo x %  ifpGov esset id, quod inanius  est in alterutro nostrum Artificiosior est quam verior haec explicandi ratio, qua nemo non  videt nativam orationis pulcri-  tudinem corrumpi»   8ia xov ipiov fi io v. Horum verborum explicatio recta Geelio debetur, qui haec anno-  tat in Bibi. Crit, Nov. T. H.  p, 274.: a 8ocratcs filum laneum significat» Nam verum hoc eat,  quum duo pocula sibi proximo adiunguntur , quorum alterum  aqua repletum sit, alterum va-  cuum, ac filum laneum made-  factum contiguis horum margi-  nibus ita impouitur, ut pars im-  mergatur aquae, pars in vacuum  fundum immittatur, fore, ut ali-  quid liquoris tanquam per cana-  lem transeat. Hic lusus institui  non potest nisi cum poculis»  Hinc apta eius mentio inter convivas.  Eundem lusum scriptor  noster in animo habuisse videtur  Menon, p. 70. B. J fl Mivcov t npd  xov plv QextaXbl evduxipot  jjtiav iv xoii n E7iXv6i xal i$av-  pagovxo icp * \nnixy xe ?cal  nXovxcp , vvv 81, coi ipol Soxei,  xal ini docpia. — iv$d8e 8e 9  co tplXe Mivooy , xo ivavxioy  nepiidrrjxev • doin e p avxpoS  xts xiji dotplai yiyove ,  xal xiv 8vv evei ixtdov8e  tgov xoncov nap 9 vpai  oixedSai tj 6o<pia.   X 7fv napd 6ol xataxXi -  <$tv. Pro xaxaxXi6ii alio nomino  scriptor usus esset, eoque quidem  a xaxatxeidSai verbo derivato,  si id in liogua Graeca exstitisset»  Comparata enim nostra verba  sunt ad Agathonis adhortationem  nap 9 ipe xataxeido , quae, quo-  niam contrario seusu Socrates   %    l    tYt] xctl , tjg xl 9 ovaQ ovda' t] de <Srj   X auTtQti *£ y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«, rj ye naga dov  viov ovtrog ovtcj GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg iyeveto  TtQtonv Iv (i£.qtxhH tcSv 'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig.  'rfctdTrjs li, a<pq, m ZaxQtnes, 6 'Aya%av. dXXcc ravta  fitv xul dXiyov vcStiqov diadixadofie&a lyio ts xai 6v  xsqi rrjs dcxpiag dixadrtj %Qtxi(itvoi rep Aiovvdta • vvv  17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa xgizov.    ntinc cxliibet, ippiitr/i vocator  putillo infra p. 175« E.   oluat ydp pe itapa dov  — nXtf pcaSy <fed$ ai* Scri-  ptum exspectaveris ex lege gram-  matica, de qua supra dictum est  p. 22. olpai nXijpcD^yded^ai  'itapa. dov. Interdum tamen ad-  ditur personale pronomen oppo-  sitionis gratia , quae nostro loco  manifesta reperitur. Socrates  enim ad Agathonis adhortationem  respiciens, quae p, 175. D. le-  gitur, dicturas erat: ut ego a  tc, non tu a me accipias ad-  inirabileni quandam sapientiae  abundantiam, cfr. Symp. p. 175.  fi. xov ovv *Ayd5a>va icoWiimS  xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz xov  2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx iav, Adde  p. 220. E. fin. avxoS izpoSvpo-  xepoi iyivov xcov dxpaxyydov  iph Xafielv y davxov, qoo  loco avxoS pro davxov scribi  etiam praecedens avtoS non pa-  titor. p. 223. B. xov plv ovv  3 Epv&ipaxov —o *Apidxo-   ftyuoS oixed^ai diciovxaS , e  Ztcvqv Aafieiv xoii xaxadapSeiY  x. r. A.   6oq>laS. Wolfium audi ad hoc  verbum laudantem Sydenh. an-  notationem: Den Ausdruck docpla  braucht Platon sehr oft, und in  »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen , lOTOn die eino  znr pliilosopbischen Sprache ge—  hnrtj und da bedeutet docpla dio  Wissenschaft von der Natur und  den ersten Grundursachen der  Dinge. Io der andern gemeinera  heisst es iede Vortrefllichkeit in  irgend einer besonderen Wisaen-  schaft oder Kunat, irgend eia  vorziigliches Talent, Kenntnisa,  Geschicklichkeit, wie es hier vom  Agathon dem Dichter gesagt  wird. S* Piat. Theag. vom herein  und Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7*   iv papxvdi xcov *EWy-  YcoY.y h, e. coram specta-  toribus. Satis nota est haec  signikcalio iv praepositionis, quae  unde orta sit , facile intelligi-  tur. Ut Latini dicunt in oculis versari, esse in con-  spectu alicuius, ita etiam Grae-  cos arbitror primitus dixisse: iv  oppadi papxvpoov, deinde cogi-  tasse tontumraodo ita, scripsisse  autem iv papxvdiv . Sic reperiea  sexcenties iv orjpoo, iv dixadxai  iv 3 eoiS , alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevi-  mus comma , qnod post docpla?  in omnibus editionibus reperitur,  non ut verba arctius coniungan-  tur nepl trjS docpla? dixadxy  Xpcopevoi diovvdu), sed ut XP°^~  pevoi 8. d. ad praecedens 8ia8i-  xadopeSa pertinere clarius in-   Cap. IV.   Mera zctvra, Sq>t), xaraxhvlvrog tov EaxQaroyg  xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te G<pug  nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu vo-  ptgofiEva, TQtnsGftai XQog tov Ttorov- Tov ovv ITav-  Cuvlav £tpij loyov xoiovrov tivbg xuraQxsiv. Eltv } uv-    dicetar. Tlepl rr/S dotplaf autem  verba explicando xavxa prono-  mini inserviant* Sensas est .*  Hieriiber wollen wir nach einer  kleinen Weile entscheiden, ich  tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd Dionysos soli Ricbter  sein. Continetur his verbis festiva  adhortatio ad bibendam , quod  quo fiat iucundius, rerum seria-  rum, curae Bacchi indicio subii-  ciendae esse censentor»  xai x 66v aXXav ac. d«-  7tV7]6avTG)V , nam ad alterum  participium xaxaxXtvkvxoS haec  verba non referenda sunt. Habet  Ficinus; Post haec, inquit Aristodemus, Socrate simul et aliis  discumbentibus, libare invicem  et degustare vina sacrificantium  ritu.   xal xaXXa x a vopiZo-  fjLBva . Magna est horum ver-  borum difficultas. Sive spectas  structuram , nescias , quid id sit,  ad quod verba referas xal xaXXa  tol vojiiZopEva , sive ad significatum animum advertis, voluntatem scriptoris explicata diffi-  cillimam reperias. Astius scri-  bendum coniecit Marce xa vopi-  gopsva. Censor in Ephem» Lit-  tcr. Ien, Iuli 1832. N. 52. xal  &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva  commendat. Audacias uterque,  ut videtur. Stallb. absolute po-  sita verba ceoset hoc sensu: et  quae alia suat usitata. Non male. Melius Riickertus  participium aCavxaS ad accusa-  tivum utrumque pertinere con-  tendit, nt convivae et hymnum  in deum et quae praeterea  cani soleant, cecinisse di-  cantur. Restat, ut explicemus, quid  sit id , quod praeter hymnum in  deum cecinisse convivae perhi-  bentur. Pro adsiv alind verbum  ponitur in Sympos. Xenoph. II,  1. G oS 6’ dep%peS?j(jav ai xpa -  xtEZai xal idTCeitjavxo xal  in aiavitiar, kpxexai ns h.  x . A. Adde Athen., qui ad no-  strum locum respexit V. 7. p. 214.  &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et  ieaxd x 6 dvjixodiov pexa ydp  xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i  itoirjtiui xal xov Seov xaicovi-  6avx aS xois vopiZojikvoiS yk -  padiv. Colligi ex his locis pot-  est , verba xal xaXXa xa voju-  Zopeva addita esse a scriptore,  ut a8eiv vocis simplicitatem ex-  plerent atque notionem efficerent  itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra  legitur p. 177. A. aXXoiS pkv  Xi6i Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS  tivat X. T, A., ad quae verba  schol. haec annotat: xaiavaS *   tj xovS XEyojikvovS 7taidvaS f   vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa-   3 *   SQtg, <puvcu, riva tQoitov qu<Stu xiofiefra ; iya jisv ovv  Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas £z a vito tov  ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de xal  B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.    ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora  tdv tcov Sediv iatpov * rj nauo- vaS t coi vvv, cJSaS ini evtvxip  xal vlxy, 8id tov gj, iB, ov  xal nauovl^Eiv. Est in hoc  scholio , alienam manam quod  prodat, hoc tara^n certum esse  reor, naiGovigeiv significare et  hymnum in laudem Apol-  linis aliusve dei canere, et  carmen canere ini £vtv~  Xia xal vixy. cfr. Xenoph,  Hell. IV* 7. Bdetder 6 $eof  xal 61 jJ.lv Aaxedaijiovioiy ap-  ZapivGOV toov ano dajiotiaS,  navtsS vjuvrjdoev tov nepl tov  IlodEidco naiava. Alterum ver-  his expressum est adavtaS tov  Seov, alterum in verbis contine-  tur xal taXXa ta vopi^djiEra.  In conviviis igitur primam libatio fiebat poculis , ut Schol.  lluhnk. habet, tribus: ixipvdovto  yap iv avtcdS ( tais dvvov-  diaiS') xpatypeZ tpeiS * xal tov  plv npGDtov Jids 9 OXvjiniov  xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov •  tov 51 Sevtspov 'Hpcooov' tov  61 tpitov 2a)t?jpo£. Libatione  oblata illud facere solebant, quod  naUkJvL2,£iv vocatur. Hoc rite per-  acto vino se invitabant»  tpinedSai npoS tov  notov . Praecedente tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut esset, quo possent momentaneae, quas vocamus,  actiones , a duraturis discerni»  Tphcsd&ai enim npoS notov  ipsam bibendi actionem exprimit,  quae ad multam usque noctem  extenditur. Ceterum articulus additas est, ut certa quaedam  potatio, ad quam convivas poeta  invitaverat , denotetur.   bIev , av8p£S, (parat.  Schol. ad Politic. annotat: eJbv  ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv  tcov ElprjfiivGQVj 6wa<p?) 6'e npos  ta piWovta , rj ava<panrt]jia  ofioiov tov aWa. Utnntur hac voce ii, qui aliis facile aliquid  concedunt, quo facilius possent,  illis pacatis, quid ipsi sentiant, aperire» Iam qui assentituc, is  habeat necesse est, cui assentia-  tur» Igitur dicta alicuius prae-  cedant necesse est elsv voci;  quae quoniam non comparent,  supplenda sunt. Videtnr autem  Agatho dixisse : aWa tpenGQjieSa  vvv npoS tov notov , quae ad-  hortatio Agathonis .facile eruitur  e verbis dcpaS tpinedSai npoS  tov notov. Agathonis dictum  Pausanias cum audisset , bene  hoc quidem, inquit, o viri, hoc  dictum ab Agathone, - sed qua  ratione bibemus suavissime? Ut  nostro loco, ita etiam in Phaedon»  p. 117. A» supplemento quodam  opus est ante eiev. Verba haec  sunt : xal 6 nais iHeASojv xal  dvyvov xpuvor diarptyaS yxev  dyajv tov jiiXXovta dcodeiv td  epappaxov , iv xvXixi epipovta  tEtpijifj&vov. I8z>v 61 d 2?coxpa-  tyS tov avSpcjnov elev f Utprj,  d> f SeXrtdte , dv yap rovrojv  inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet,  hominem cum poculum afferret,  virus a se parati vim laudasse  ita , ut eius haustui celerrimam  mortem adseriberet. Respondit   tlvt tQoTtcp kv c5g QaCta xtvoiusv. 'tov ovv 'AqiGzo-  tpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus , ca FlavGavla , zo  xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs Jto  Oecus- sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es @E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o Bester, das  xnasst da ja wissen. Was muss ich non thua? vide quae annotata sunt  ad p. 204. C. cap. XXIV. init, .   fi a 6 x a itio /ie$ a. Haec   est optimorum codd. lectio, quam  in textum receperunt Bekk. ,  Stallb., alii. Vulgo 7/8i6ra ntoo-  fie$a exhibetur. Bene Riickertus  od h. 1, Futurum, inquibj propter-  ea h. 1. praeferendam est, quod  non, quid debeat neri, Pausanias  rogat, sed quomodo, quod futu-  rum sit , fieri possit commodis-  sime. Indicativum habes etiam  infra p. 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l-  /iaxov , Uc 5? ovv f cpavaij <J  * A7oafiid8r\ , Koiovfiiv ; ovtcof  ovte ti Xeyofiev ini tf/ xvXixt  ovt indSofiev , » a\\* atexv  doSrtep ol 8n}>d)vtES itiofie^a ;  Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta  r 6 ?j diota ivtavSa dTjpalvet,  quae verba laudo, nt facilius in-  telligatur, unde vulgata lectio  rjdidta fluxerit*   lydo fi sv ovv \eyao. Pro-  prie dicendum erat: Xiyco fiev  tjjjIv — olfiet i 6i. De addita  ovv particula , qua Jliv et 66  particularum positara excusatur,  qnaeque minus sibi respondentia  orationis membra, quoad eius  fieri potest, inter se conciliat,  vide quae annotata sunt ad p. 22.   vfi&v tov S noWovS sc.  S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus eo-  dem modo cap. IV* initio neti  t6jv dWoov positum reperies.  Laudat Stallb. ad h. 1. V). Apol*  Socr, p. £5. E. tavra iyco doi    ndSoficn , oj Ml\r}te f olfica 81  ovde aX\ov dySpooitcov ovdiva  ac. iteidedSai Coi. Eutyphr. p. S.  E. a) Wa Cv re vara vovv dya-  viei rr)v 8lxr\v , olfiat 81 xal  ifik tijv i/irjv ac. dycov induat.   7ta padxeva dad ^ai.Belk.,  quem Riickertus secutus est , e  codd. non paucis in textum re-  cepit itapadxevdB,ed^ai. Recte  fortasse, quamquam etiam aoristi  infinitivus habet, quo se commen-  det. Ceterum ne quis forte seri- ,  •bendum censeat itapadxevada-  d$at 8eiv atque cum Riickerto  convertcudum : Hoc recte dicis,   omni modo esso parandam  commoditatem : Aristophanis vo-  luntas hacc est: Das erachtest   du in der That ganz recht fiir  nothwendig , dass man namlich  sich auf allc Wcise das Trinken  angenehm zu machen suche, Ni-  mirum in huiusmodi enuntiatis  verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv,  dB,iovv, vo/ii^etv al. significant:  aequum ceosere , suadere alieni,  necessarium putare, vid. Ilcind*  ad Piat. Prot. p* 346, Stallb.  ad Phaed. p. 95. B« et ad Polit.  VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom.  II. IX. 626. ov yap fiot 8oxiei  j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y  npaviedSat,   xal yap avtoS. Valgo le-  gitur xal yap xal avtoS. Bodl.  uliique codd. non paoci alterum  tcai omittunt, omiserunt Bekk.  Stallb. alii. Ac Stallb. qoidem,  Videtur, iuquit, 7tal additum esse  ab iis, qui nat yap non solum 'AxoviSavra ovv ttvrav £<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfit-  vov, *H xafaos, tpavai , ilyftt. xal t'n hos Siofiai  vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6 t§§&09ca ittvsiv ’Aya-  C 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat. "Egfiaiov  av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai 'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et,  nam etiam significare ignorarent* Non repugnandam est co-  dicum auctoritati, minus tamen  Stallbaumii sententia placet exi-  stimantis xal yap h* 1. esse  nam et. Id nimirum si expri-  mere voluisset Plato, scripsisset,  opinor, tuxi yap iyco el/n, uti  scriptum exstat apud Homerum  lliad.IV, 58. xal yap iyoo  tlfu h. e., denn auch ich biu  eine Gottin. Nostro loco malim  xai putare expletivum , cuius  exemplum infra habes p. 198. C.  xal yap pe ropyiov 6 XoyoS  drepipyyjdxev , ofere x. x. A.  Eodem modo interpretor verba  Pl. Pol. V. p. 468* D. ’JAXct  pijv xal xa$* r/ Oprjpov xolS  xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv  yLcov 0601 ayaSoi . xal yap  "OpilpoS x . r. A., quo loco, quo-  niam praecedit Homeri comme-  moratio, xal yap^OpjjpoS verba  significant: nam Homerus.   fiefi anxi6 pkv Conve-   nit perfecti temporis participium  cum praecedente Pausaniae dicto:  tcolyv ^aAfTrooS* Ex& vito xov  tzotov. Beftanxi6pevodv  verbi significatum explicat Iacobs*  ad Eueni Epigr. XV* v. 6., ubi  legitur : ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi  tgj Savaxo ) . tt Clem. Alex. Paed,  II. p. 1 82. 29. , V7CO p&ijs (5a -   TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY. fia7CTi<>£-  (5$at enim et ii dicuutur, qui  se largius invitarunt vino.* Lu-  cian. a Iacobsio laudatus habet    T. III. p. 8t. 41. xaptjfiapovYTi  xal fteftanti6pivcp loixev . Apud  Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar:  madide madere*   xal Exi IvoV* Ficinus in  conversione exhibet: Probe dici-  tis , atque hoc insuper a vobis  audire desidero. Rectius Schleier-  znach. : Nur von e in em nuter  euch xnochte ich noch horen,  wie er bei Kraften ist zura trin-  ken. Ceterum idveiv hoc loco  idem videtur esse atque tcoXvv  niveiv olvov , quod paullo infra  positum reperitur; respondet igi-  tur nostratium zecheo*   " E ppatov dv eZrj yj piv  — ei vpets — yvv aTcei-  prjxaxe . Ein unverhoflter Ge-  winn wiire es uns , wenn ihr,  die tapfersten Zecher, dieses Mal  das Trinken im Ernst aufgae-  bet. Nescit nimirum Eryximachus,  utrum ioci caussa, au serio Agatho  ante locatus sit. Indicat autem  illatus post optativum cum el  part. coniunctum indicativus , de  obiectira alicuius rei veritate  agi, quam verbis exprimere so-  lemus: im Ernste, wirklich, in  Wahrheit. Exempla si requiris  huius structurae, vide Stallb. ad  Apol. Socr. c. 12, annotationem.  Adde Symp. p. 177* D. el ovv  Zwdoxei xal vpiv , ykvoix dv  i)piv iv A oyoiS IxavtJ Siaxptftif  Apol. S. p. 35. A. ei ovr xjpcHv  ol Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe  tiocpLqi etx8 avdput ei'xe dAAp xal &al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it Lieiv  vvv diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi. StaxQttttj  8’ lt,aiQC3 Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQ-  xetisi avrta qxoxeq av itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei  ovSeig rmv itaQovxcov itQodvnag %%eiv xgog ro itokvv    tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ov-  rat, al6xpoy av sfrf. b, e. Wenn  nun die anter ench , welche fiir  weise, tapfer oder soust tugend-  begabt gehalten werden , wirk-  lich s o sich zeigen sollten , so  ware daa aller Verachtnng werth.   iB,aipw Xoyov, Vulgo  i^cdpoj rov Xoyov legitur. Ar-  ticulum plurimi codd. omittunt,  quem ut minus desideremus,  exempla faciunt Phaedr. p. 242.  B., de Rep, VI. p. 492. E. alia,  et similium locutionum analogia.  Legitor v. c. in Rep. PJat. L.  II. p. 357. A. o oprjv Xoyov  dnrjWdxScLi, quo loco arti-  culas in uno tantummodo Paris,  cod. comparet. Neque seriorum  scriptorum auctoritatem nunc curamus, qui articulum addiderunt;  hoc fecisse constat, qui nostrum  locum imitatus est, Aristidem  Orat. II. Tom. II. p, 269. TlXa-  tcjva 8* lt,aif)oo rov Xoyov  ixecvoS yap apupotepa. Articulum addidit, quem non abesse  posse putaret, xcd omisit, quod  non intelligeret. Kal autem ita  positum est, ut indicium primi-  tivae conformationis verborum  ait: ixavoS xalrovro xal ixava,  pro quibus verbis cum per compendium loquendi dixisset Plato  dp<p6TEj}a , xcd remansit.   dist ££> apx e6 ei avT(p.  Stallb. rectissime : ut satis   habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcun-  que faciamus,  ovSelf rcor xaportcor .  H. e. Nemo eorum, qui hio  adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c. 7.,  quem hucusque nemo videtur  recte interpretatus esse. oXiyov  avr cov anavTES ol icapovisS av  fttXnov UXeyov xepl gjv avrol  inenoripiEtiar. Convertit haec ver-  ba Stallb.: omnes, qui ad-  erant, melius istis de car-  minibus solebant indicare,  quae illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi  repetitum esse pronomen avtol ,  quo graviter significetur poeta»  ipsos de suis ipsorum carminibus  peius iudicasse., quam alios ho-  mines, qui illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis versatus est  WoIUus: a Nam prope dixerim   omnes paene, qui hic adsunt,  istis meiins dicerent Ue iis, quae  isti composuerant; « quamquam  ne hic quidem Platonis voluntatem  agnovit. Non verisimile euiin,  homines fiavavoovS , qui nuuc  arbitri sunt iu iudicio, melius  potuisse de carminibus iudicare,  quam poetas. Sensus est totius  loci: Ich schame mich nnn, ilir  Miinner, ench die Wahrlieit zu  sageu, Dennoch muss es heraus.  Alie, die hier anwesend sind,  wurden fast besser, ais jeue uber  ihre Werke, uber das sprechen,  vas sife irgend selbst gemacht  hiitten (h.e. si qui ex sua qnis-    f    itlvuv qIvov , l'dog av lym tcbqI tov (U&vtixeQftai , olov  D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg. ifiol yccg  di] tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg Icctql-  xijg, ott %ateitbv tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai ovre  ctvxbg bxcqv rivca xoqqqj l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs akkco    qtxt arto aliquid fecissent, vid.  Matth. Gr. pl, {.599. p. 119S.)   idcjS av ifri ~ 7/ xx ov  Av eiijv. Repetita est av  particula in eadem enuutiatione  non negligentia scriptoris, at  olim multi arbitrabantur, nequo  explendae orationis caussa , sed  at loquentia modestia elaceat ma-  gis, qui sperat fore, ut de  ebrietatis natura quae sit, si ve-  rum dixerit, minus fortasse  molestus convivis videatur.  Tari cuuctatiouo et modestia,  quae tum io verborum modesto  significatu, tam ia singularum  orationis partium dispositione  cernitur, Cie. de oificiis loquitur  L. I. c. 1. §. 2. Nam pkilosophaudi scientiam concedens multis, quod est orationis propriam,  apte, distincte ornateque dicere,  quoniam in eo studio aetatem  consumsi , si id mihi assumo,  videor id meo iare quodam  modo vindicare.   ort xaXeirov — 7 / JIES 7 /  idxty . Adiectivom haud ruro neutro genere poni seqoente substantivo, ad quod pertinet, femini masculinive generis , satis  hodie notum est. vid. Matth. Gr.  plen. §, 437. p. 815. Sed non  perinde esse, utrum genus nominis in se suscipiat necne, nd-  iectivum, Rdckertu» ad h. 1. docuit. Puto autem, inquit, nd-  7 4oetiva sabiccti genus tum sequi,  quum res aliqua, qualis sit, quae  que attributa habeat, describatur,    omnino quum do certa re certi  quid pronuntietur} contra neu-  trum locum habere, quoties  vel de certa re, cui generi  adnumeranda sit, praedicetur, vel de re in universum  cogitata aliquid pronuntietur.  Equidem sic statuo! Adiectivum  substantivi genus in se suscipiens  substantivo subiungi ita, ut, qnod singulae alicui rei conve-  niat, significet, contra nentro  genere positum , substantivo  non subiunctum esse, sed ad idem aequiparatnm. cfr, Lach. p. 192.  ovh dpa zi)v ys roiavtyv  xaprepiav drdpiocv opoXoyi)-  otis elvat, bceidfptep ov xccXij  idttv , 7/ avdpia xaXov  idttv . Adde Ilipp. Mai. p. 288.  B. StjXsia imtoS xaXr) ov xa-  A ov; Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf  ov xaXov; xvrpa xaXi) ov  xaXov ;   kxcov elvai , Addito infi-  nitivo hominis alicuius liberrima  voluntas significatur ita, ut simul  coerceri posse atque minui liber-  tas illa indicetur, cfr. Phaedon,  p. 80. E. idv phv xaSapa (sc„  V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai p?/6lv  Tov doopatoS i(peXxov6a dre  ovdtv xoivGjvovda avxai iv rea  fiUp kxovda elvat; utpote  quae nullam suscipiat, quoad  eius fieri potest, quan-  tum in eius potestate est,  cum corpore cdmmercium. Addendam hoc est atque beue te-  nendum , non adhiberi Ixojv   GvfifiovXivScani aXXag te xal XQcuTCaXaivra tzi hi rijg  TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai vTtoXa^itvta (bal-  Sqov tov MvQQivovelov , eyays Ooi sia&a xti&eodca  aXXcog te xai cczz’ av mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’ av  fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj axovSavzag Ovy- E    I   tlvai nisi in iis enuntiationibns,  quae actionem quandam conti-  neant sive revera additaxn, sive  mente supplendam. Idem cudit  iu omnes figuras dicendi, quae  nostrae consimiles sunt, v. c. to  vvv elvai. cfr. Lach. cap, SI*  fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv -  ovdiav SiaXvdGJjuev h. e. wir  vrollcn aber fiir jetzt, d. b. vas  nns fiir jetzt uur zu th uu  iibrig bleibt, nns treuneu,  Finitus nimirum dies erat, noctisque adventas in proximum diem  differri disputationem iubebat;'  quare Socrates aXXct Ttoir/doo,  inquit, gj Avdtpaxe, tama, xal  tf £<0 Ttapd. dl aypiovj iav  Seo* i&4 Xy. Male autem Mutth.  in Gramm. plen. $. 546. p. 1071.  g liuc trahit Piat, Protag. p, 317.  A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa   rovro elvai ov B,vji<pkpojiai ,  neque recte, opinor, Stallb. verba  convertit in Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus,  quantum quidem ad hoo  attinet, non convenit. Kata  tovro eodem prorsus modo h. 1.  positum est, quo in Apol. Socr.  p. 17. B. legitur: el jtev yap  tovto A eyovdiv , opoXoyoiyv  av lycoye ov x at a rovro vs  elvai fitjzcap. Itaque certum  esse reor, Protagorara dicere 1.1. i  mihi vero cum his omnibus hac ratione sophistae  esse non conducit* Explica-  tius paullo infra p. S17* B. eandem sententiam Protagoras pro-  t   fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivav-  xiav aitadav oSov iAh/XvSa,  xal o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai  7ial xaideveiv av$pGJ7tovS* x. r. A.   dXXcoS xe xal xpanta-  X&vxa £xi. Exspectaveris  XpantaXojvxi, Infertur interdum  post dativum casum accusativas  augendae gravitatis caussa. Nam vis quaedam est in anomalia ha-  betque, quod praeter exspectatio-  nem fit, proprium suum acumen.  Ceterum nou poni solet dativo  praecedente accusativus, nisi infi-  nitivus adsit ut nostro loco Ttieiv y  cura qno arctius coniungatur. Si-  militer iu Pl, Criton. p, 51. D,  ofiojS Tcpoayopevopev xgj i£ov-  Oiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v xco  povXojikvcp ,\ . . igeivai Xa-  fiovxa xd avrov aitievai  OTioi av ftovXr/rar. Lex nimi-  rum Attica, quae cum gravitate  h. 1. laudatur — ajti$i Xapojv  xd ddvrov x. X. A. audisse vi-  detur. Symp. p, 188. I). ovroS  (sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8v-  vajuv kxei xal nadav y/dv  evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal  dXXyXoiS dvvapkvovS oj.uA.elv  xal <pi\o elvai x. x. A., ad  quae verba vide annotationem.   lyooys do l el&Sa xel-  $ed$ai. Interpunctionem post  'XefaedSai vulgo positam expun-  gendam curavimus ; verborum  enim dXXojS xe xai ea ratio est,  ut antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant. Eodem %toQtZv mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm itaif-  ovri OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv.   Cap. V.   ’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov , tovto fiiv  deSoxtai, xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg  modo in superioribus comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et  post itielv, ut ne esset ,, quod  obstaret, quominus xpainaXarvxa  participium ad infinitivum prae-  cedentem referatur. Ceterum  recte Stallb. monet, art * av Xi-  yrjS cum gravitate dictum esse  pro iav rl XiyyS.   vvv 8 * av fiovXovxai  xal ol A oixzol, Vulgo post  av legitur ev , idque probant  codd. plcriquc. Pro av noa  paucis in codicibus av reperitur;  tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt.  lia.stius cum intelligeret, ol Aor-  J rol non de iis intelligi posse,  qui assensum suum declarassent  in praecedentibus, neque vero ad  ceteros convivas relatum, com-  mode cum insequentibus verbis  conciliari : xavxa 87} axovSar-  xaS tivyxcoptlv navxas x. r, A.,  scribendum coniecit Spec. erit,  p. 12.: vvv 8’ av iv fiovXevGov-  xai xal ol Xontoi, hoc ut esset :  modo ceteri quoque bene  sibi consulant. Eodem fere  modo Ficinus in coiit. : nunc-   si militer , modo ceteri quoque  consentiant. Tliierscli. in Spcc.  edit. Symp. Piat. p. 8. vvv 8 *  av ftovXotvx * av xal ol X olito i  verbis locnm sanare studnit. Astius  vvv avxa (iovXovxai xal ol  X ontoi exhibuit. Orell. ad Isecr.  de Antidos. maluit p. 324. : vvv  8* el ftovXovrai xal ol Xontoi.  Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel  vvv 8' av et fiovXovxai , quod    Reyndera. In textum recepit.  Riickertus Platonem scripsisse su-  spicatur : xal vvv 8* av , iav  fiovXovxai xal ol Xontoi: Con-  sueri in omnibus tibi obtempe-  rare, quae dicis de arte medica,  et nunc quoque (sc. tibi  pbtemperabo) modo velint  etiam reliqui, Stkllb. verbis  nihil mutatis nisi quod ev post  av positum omitteret, haec ex-  quisita, inquit, brevitate dicta  sunt hoc sensu: uunc vero   rursus idem fiet, quando  quidem etiam ceteri^con-  vivae volunt. Quam exqui-  sitam boc loco Stallb. laudat di-  cendi brevitatem, equidem licen-  tiosam appellare malim atque in-  solentem. Sed pone, verba vvv  8* av jiovXovXat significare  posse nunc vero rursus  idem fiet, quando q ni dem  — volunt, num verisimile est,  Phaedrum dixisse : Soleo tibi credere cum alias, tum potissimum disserenti su-  per rebus e medica arte  depromtis, nunc vero rur-  sum tibi credam? — Nihil  coniectura opus est, ut rectissime  Stallb. censet, neque quicquanx  praeter ev vnlgo post av posi •  tum expungendum. Indicat autem  av praegressae alicuius rei actio-  nisve repetitionem, manifestoque  declarat hoc loon, ftovXovrat  per prolepsin pro itei&ovxai positum esse. Verba convertenda  sunt: Nunc vero rursus etiam ce- Si yrjSiv iivut, ro fi era rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri  tlgeX&ovSav avlyrgtSa %algeiv tav, «vlovaav lavry -rj,  lav /JouAijt at, raig yvvai^l raig tvSov, yyag 8's Sue  Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro ryyegov. xal Si oiav A o-  yav, tl (iovAca&E, l&tXa vy.lv slgyyySaS&ca. &avca  teris (fidem habentibus tibi) li-  bitara est (sc. quaerere potatio-*  uis qu and ara moderationem.) Hoc dictum ut intelligatur, quam bene cum insequentibus verbis conve-  niat : Phaedrus verba vvv 6 * av  fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse  cogitandus est vultu ad con-  vivas converso quasi ro-  gitaturus: Rectene loquor  atque de sententia vestra?   fi 1 } did Nota huno   usum dia praepositionis. Optime  Scliieierip* convertit: Ilier au f  also waren alie iiberein-  gekommen, es bei ihrem  diesmaligen Zusammeu-  sein nichtauf den Rausch  anzulegen. Paullo infra p.176.  E. eodem modo 8ia Xoyav d/ 1-  XijXoiS dvveivai. Apposite  Stallb. laudat Piat, de Legg. I,  p. 640. B. 1.6X1 8£ ys xoiavxrj  <Swov6ia, tbttp tdxai Sia  2r}$ , ovx dSopvfioS. Plura  exempla si quaeris huius dicendi  usus, adi Klattli. Gramm. plen.   $. 580. c. p. 1149. ♦   d XX* bvx a , 7t lv o y x ai  jxpos ijSovrjv. ctXX* ovxa  sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa  accuratius definitur verbis inse-  qoentibus itivovxaS 7tpoS ySovrjv,  Male Stallb. coniungenda censet  ovxa itpoS TfdovTfy. nur so  zum Vergniigen. cfr. Symp.  p. 193- C, oxi ovtodS av rjpav  ro ykvoS evSaipov yivoiro, tl    £xx eX& tiatpev rov £ pa-  ra x. x. X. Adde p. 215. A.  2 coxpaxTj 6* iya htaivetv , cJ  avdpes y ovxcoS ticixtipytia.  Si bIxqy av . Exempla huius  dicendi usus plurima reperiuntur,  quibus possis adnumerare quale  reperitur in Alcib. I. p. 105.  cap. 4. oxi avxov 6£ Sei dt>-  Vadxevsiv £v ry Evpdiry, quo  loco indefinitum avxov praefigi-  tur accuratiori indicio £v xy  Evpany • Ad nostrum locum ut  revertar, Ttpo S' ?}5ovijv apprime  respondet nostratium : nach Wohl-#  gefallen. Probatur haec verbi  notio verbis sequentibus : nlvtiv  o6ov dv txa6xoS ftovXi/xai, bca-  vayxeS 6 e prjdlv elvai.   £tz dv ayxeZ pySlr  tlvai. Solebaiit regem (tftyi-  7C06iapxov') eligere convivae,  qui bibendi leges daret, quibus  convivae ad bibendum coge-  rentur. cfr. Symp. p. 213. E.  apxovza ovv alpovpai zijs no  6egqS y taC dv vpuS IxavaS  Tityre, ipavxov *ro perci rovro  yovpai. Tope ra rovro cum  gravitate dietnm significat: quod  attinet ad id, quod post haec  sequitur. Recte autem annota-  tum est a Riickerto: verba haec  nunquam temporis solam conse-  quentiam denotare, sed ubique  internum aliquem nexura inter  praecedentia et sequentia desi-  gnare. ElSrfyovpai verbum quod  177 bt] itavtuq xcd flovXiaft ai xat xsltvuv airov elgijytL-  6&cu. Elnslv ovv zbv ’Egv!;ltitt%ov , on 'H (ih> ftot  aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v EvqmISov MtXavlitittjV  ov yaQ ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs, ov fitiZa    attinet, Hcsycli. interjpretator elft]-  yeldSai • dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere, censere , aliquid faciendum  esse. Apprime verbo respondere  videtur nostratium : etwas zum  Vorschlag bringen,   x i)v yev — • av Xrj x p iS a  Xaipeiv lav, Tibicinam di-  mitti Eryximachus iubet, ut 8id  Xdycov aXX?jXoiS dvveivai con-  vivae possint. Notari autem h. 1.  Xenophontem, qui in convivio  suo tibicinae locum dedisset, ho-  minum quoruudam liodie satis  explosa opinio fuit, vid, Boeckh,  de simultate, quae Platoni cum  Xenophonte intercessisse dicitur  8, seqq. cfr. Protug. 347. C,  Tiocl ydp 8oxei poi xo 7Cepl  7Coir]decoS diaXtyeCSai opoiuxa-  rov dvai xoiS dvpitodloiS xoi$  xgjv q>avXa>Y TtctL ayopaicDV  dvSrpGJTtGDY. xal ydp ovxoi, 8ia  ro pj) SvrctdSai aXXj}XoiS 8i  iavxcZv tivv&Lvai iv tg5 itoxco  pr}8\ 8id xijs kavxcov (pcovijs  ■holi xoov Xoycov xcoy kavxcov  vito ditaiSsvtiiaS, xipiaS noiovdt  xds avXrjxpidaZ , rcoAAov pi-  OSoiytEvoi aAXorpiav cpcovifY  xijv xqjy avXaiv , 7ia\ 8id xifi  ixeivaov qxxvifi aXXijXoiS dvv-  eidtv. onov 8e xaXol xayaS ol  dvurcoxai xal TCuraihtvpirui  elo \v , ovh dv l SotS ovt avXr r  xpidai ovxe opx*/dxpi8aS ovza  ipaXrpias , «AA* avcovZ avxolS  \xavovS ovxaS dvvtivai dvtv  xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV  xovxcov dia xijs avx&v (pwpS,  A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv  pipet lavxojy xodplooS , nav    7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi hunc locum, quo non Pla-  tonis sententia Socrati adseripta  contineri videtur, sed ipsius So-  cratis iudicium exprimi, ut cla-  rius intelligatur, etiam in minu-  tioribus rebus Platonem ad So-  craticos mores scriptionem suam  accommodavisse.   xait yvyaiZi talZ Ev-  8ov, cfr, Corn. Nep. praef. $. 7. Neque sedet (ac. mulier) nisi in interiore parte  aedium, quae gynaeconi-  tis appellatur. Ceterum ut  paullo supra 8ia pi$TjS, fla nunc  8ta Xdyojv positum est adhae-  rente, ni fallor, notione temporis,  quasi dicere voluerit Eryximachus:  8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv  tj ylpav .   ei p ovXe 0% e , i^iXoo.  Differre inter se videntur haeo  verba eodem modo, quo inter  se differaut verba et XPV*  Nimirum eam voluntatem i$£-  A eiv verbum denotat, quae cou-  silio nititur atque intelligentia ,  PovXedSai contra adhiberi se-  let , ubi aliquis impetu quo-  dam animi fortuito abripitur,  cf. 174). D. avAovday kavtij ,  rj , lav PovXrjxai , xaiS yvvat -  £,Lv h • r, A. h. e.,' oder wenu  sie Lust liat. Adde p. 179.  B. xa\ p?/v vjrEpaito$V7}dx£iv  ye povoi ESlXovdiy ol ipaov-  xeS. Symp. p. 190. A. lito-   pEVETO 8t> Op$6v , GjSTZEp YVYf   uTtorlpcjdf povXjfSeitj h. e. nach  welchcr Seite es ihn hintrieb,  cr Lust liattc. Igitur con-  Mysiv. OaiSpog yuQ sxaetots xqus (t£ aynvaxztSv Xe-  yzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv ruti  &iav vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv ke-  jcoirjjiivovg , ta di 'Eqciu, rijXixovtcj ovu xal xoGovtto    vertenda snnt verUo nostra : Mit  welchen Reden wir non den Tag  hinbringen wollen , bin icb, so  ihr Lust habt, each vorati -  schlagen entschlossen. Prorsus  eoden# modo Syrap. p. 199. A,  a\Xd rd ye aXrj$i} % el fiov X b6$e,  iSiXoj linetv xar ipavrdv.   cpavai drj rtdvra? seqq.  h. e. Es hatten nun alie ja ge-  sagt und sie urollten es and hat-  ten in ihn gedrungeft, er mochte  ihnen die Eroflnung machen.  Coacervatis verborum infinitivis  satis vivide turba describitur'  convivarum strepenti clamore ser-  monum materiam exigentium. Ttard r?}v Ev ptniS ov  MsXav innyv. Versus Euri-  pideus est:   ovx i/ioS 6 pv$oS, aXX’ ipij?   pi/rpo? Ttdpa ,  ad quem alludens Eryximachus  dicit ov ydp ipoS o' pv$o?, aXXd  $ai8pov rovSe. cfr. Alcib. I,  p. 113. C. rd r ov EvpiniSov  apa ZvpftaivEi , co AXxifiiddtj,  dov rade xiv8vv ev ei? , aXX 3 ovx  ipov axrjxoevai, ov8* tya/ eij.il  d ravra Xkycov, aXXd 6v. Adde  Apol. Socr. p. 20. E. xal poi ,  a> avSpe? ’A5?jvaioi , jn) Sopv-  firfirjrE, prj8\ dv dd%Go n vplv  /xkya Xeyeiv, ov ydp ip dv ipcd  rov Xoyov x. r. A. Ad amoven-  dam dictorum invidiam hoc Euripidis versu veteres usos esse saepenumero, et ab interpretibus  passim annotatum est et exempla  docent, quorum ex numero Apol.  Socr. p. 20. E. Nostro loco Eryximachus versum Euripideum    laudat, non quo dicti magnificen-  tiam excuset, aut sententiae in-  solentiam, qoibus invidia auditorum interdum excitotur , sed  suum cuique tribuendi studio.  Initium orationis, inquit,  ad Euripidis Melanippen  accommodandum est, nam  non mcasant, quae dictu-  ras sum, sed Phaedrus,  qui hic assidet, eadem excogitavit.   vpvovS xal Ttai co v a  Tlaidva? codd. nonnulli habent  et scliol. Verba schol. laudata  p. 35. in hunc modum restituenda  sunt fortasse: rraidiv aS' ij   rovS Xeyopkvov? naiavas,  vpvovS Ei? 'JnoXXava htl xara-  navdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv  tcov $£gov iarpdv •] 7} naicova?  00? vvv, cddds ini evrvxia xal  vtxy, 8rd rov &j, i% ov xal  natcoviSjEtv. Verba rj Tlanjova  rdv rcov Seiuv larpov uucis inclusimus, quod aut abaliena raauu  addita sunt, aut casu quodam a  sede sua in alienam translata.   rrjXtxovrtp ovrt xal  ro6ovrcj J Ficinus habet:  tantum talem ve deum, Ast.  verba convertit talem tan-  tum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori et  tam potenti. Exhibet in con-  versione Schleicrm.: dem Eros  aber, eiuem so grossen  und herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ? essa  tam vetustus annotavit. Ad-  dit idem, Eryximachum querelam B &£a, firjSh £W ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv  jttTKnrjxivca (irjdiv iyxco/uov; tl d£ fiovlu uv axi$a6&ai  tovg ZQijGrovs tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd uklav    Phaedri referre, qtil in oratione  sua hoc ipso nomiue vel maximo  honore dignam amorem praedicet,  quod omnium deorum sit vetu-  stissimus. Iloc igitur ei indignum  videri , quod Hercules quidem,  recens donatus immortalitate, lau-  datores repererit, Amor autem,  omnibus ipse prior, suis laudibus  careat.   prjSlv iyxwpi ov. Val-  ckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq.  p. 157. scribendum coniecit prjSk  iyxooptov 9 quam scripturam ut  ardori loquentia apprimo conve-  nientem probaremus , si lyxco-  piov verbum latiore potestate  careret. Complectitur autem iu  se vfivovj xal TtaidSvaS , ut  Ilgen. ad Scolia p. XXXVII*  docuit. Queritur igitur Phaedrus,  quod , cum in ceteros eosdemque  Erote multo inferiores deos poetae  hymnos composuissent et carmina  pro salute et felicitate suscepta,  e tanto eorum numero ne unus  quidem in Erotem carmen con-  scripserit.   sl SI ftov\et av tixlipa-  65ai — dvyyp d <pei v. Fi-  ciuus habet : atqui, si vis, inquit,  o Eryximache, quaerere, inve-  nies profecto Sophistas disertos  soluta oratione Herculem alios-  qne laudasse, quemadmodum pe-  ritissimus Prodicus , quamquam  hoc minus alicui mirum videri  debet, sed etc. Hac conversione  motus Stallb. Platonem scripsisse  censet : EvprjdetS 'HpaxXeovS plv  xai aXXxay — i ivyypdtpeiv (sc.  avt ovS.) Dubito, num recte. Nam illud invenies addita-  mentum est, ut videtur, Ficini,  qui concitatioris hominis verba  apta brevitate reddere desperaret,  Riickert. interpunctione post do-  xpxdxaS deleta et posito post 6x&-  rpadSai commate sensum vetfborum  ait esse; porro optimos so-  phistas. Etenim formula, in-  quit, ei Se ftovXst, cui plerumque non ndditor infinitivus, quem  h. 1. appositum videmus, ita ad-  hiberi solet, ut novum inducat  vel exemplum vel argumentum.  Accusat. rovS <So<px<$xds propter  hanc, quam indicavimus, formulae  vim nou putem obiecti casum  esse ad tixhpatiSau , quamquam  supplendus hic ipse erit ad hunc  infiuit., sed subiecti ad seq. dvy-  ypdtpeiv. Inde patet, usque ad  SvyypacpEiv omnia pendere e  verbis ov Seiyov. — Displicet  haec interpretatio tribus de caus-  sis. Primum tl Se ftovXet nus-  quam reperitur cum infinitivis  verborum coniunctum, ut no-  vum exemplum commemorari  denotet; deinde mireris post  6xtif)a6Sai interpunctionem, qua  efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~  xpidtds non cum dXEiftadSoct con-  jungatur, ad quod verba illa  supplenda sint tamen. Postremo  verba tovS xpijdtovS — dotpxdxds  e praecedente ov Seiyov apta  tortuosam atque hiulcam senten-  tiam efficiunt. Si quid video,  Phaedrus diettirus erat: si 8h   ftovXei av <5xiif>a6$ax rovf XPV~  6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv  xaldXXa>y iizaivovS (sc, avTovf)  xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y> tZs-  xoxahoyaSriv tivyyQacpEiv , 6 pUufStog Tlgodixos —   xai tovto fisv ytrov xai ftavfiad rov — alX kyaye ?jdrj  nvi lvttv%ov (hpttcd ccvdQog Cocpov , Iv (p ivrjdav ateg i   iCEp O fttXtltftOS Tlp6SlX0S?E p G>-  t oS 8h ov , tovz ov 5 a vy  fiadx (Sx axov ; Facit nobis* cum in hac reFiciuus, qui paullo  infra addit in conversione: cui  non gravissimum videa-  tur? — Sed cum nondum ad  finem enuntiationis pervenisset  loquendo Phaedrus , . in mentem  ipsi venit salis quaedam laudatio»  qua minus etiam mira Herculis  aliornmque encomium indicari  debeat. Igitur suppressis verbis  "Epc&ti dfc ov, xovx ov Savfioc  dTGnaxoY , statim pergit; xai  tovto puv ytTOY xai Savfia-  (Stoy , aAA’ fycoys x. r. A._  xovS XP ydTovS. Ironice  hoc dictum esse y ut mox 6 /JeA-  xtdtoS ITpodtxoS , Stallb. docet.  Sohleicrm. verba convertit: und  willst du dicli auch untcr den  edlen Sophisten umsehen, dass  sie auf den Herakles und Andero  in ungebundener Rede Lobschrif-  ten verfertigen, vie der vortrelf-  liche Prodicus. Riickert. ad h. 1.:  XpydToi , inquit, sunt boni,  optimi, die guten. Adhibe-  tur enim haec vox iq derisione.  TovS xpyfaovS 6o<pi6raS nou So-  cratis verba sunt Sophistis in-  festissimi, sed Phaedri, hominis  a studio sophistarum non alieni,  ut laudatio Erotis docet sophia  stica arte composita p. 178. seqq.  Vehementius autem quam iu poe-  tas, Phaedrus in sophistas inve-  hitur, utpote qui, cum siot re-  rum utilium laudatores  strenui, inprimis Erotem lau-  dare debuerint. Sententia est  totius loci ♦ Ist es nicht achreck-    licii, dass andere Gotter von den  Dichtern gefeiert werden, dem  Eros abfcr, dem altesten und segenreichsten Gotte auch vou koi-  nem der vielen Dichter ein L«ed  dargebracht worden ist? Willst  du nuu aber die praktischeu  Sophisten ins Auge fassen : dass  sie uber Hercules uod andere  Lobschriften abfassen , wie der  tuchtigate uuter ihnen, Prodicas  — und das ist weniger noch  xu bewundern, — aber mir kam  sogar eiumal ein Ruch zu Han-  den, in dem der Nutzen des Sal-  zes auf bewundernswerthe Art  erhoben war.   xa\ tovto filv yTTOY  xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod.  Vindob. et Vatican, liber alterum  hoc xai omittunt probantibus  Bastio atque Thierschio. Sed  recte servant illud ceteri codices.  Pertinet autem ad ?/ttoy, ut sen-  sas hic sit: atque hoc minus  etiam mirum est, quam  hoc, quod in librum qu*u-  dam incidi etc. Nec mirum  est 7/ttoy praemitti voculae,  quum t ovcodtY habeat. Quam*  quam non in promtu sunt alia huius  collocationis exempla, Stallb.   Iy cj ivrjdav aA,£f, Apto  comparari iubet Stallb. Isocr.  Helen. Laud. p. 304. tvy fily  yap TovS /5oppv\tovS xa\ xovS  aXaS' xai xd xoiavxa floyXy-  SivTtoY iitaiveiv ovdeis 7too7fore  XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic. Brut*  $. 47. Singularum rerum lau-  dationes vituperationesque cou*  scripsit, quod iudicaret hoc lora*  C titaivov davfiuGiov i'xovres xqos w(fi/.uav • y.at aXXa  Toiavta (5v %va XSoie Sv iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv xoiov-  rcov fiev ittQi noXXrjV GxovStjv itoirjOaG&cu , "Egma Se  Hijdtva Tta av&Q dxav ter otyiyxivca tls ravxrjvl xrjv tjpi-    toris esse propriom, rem angere  posse laudando viluperandoque  rursus affligere. Vid. Wolf,  Prolegg, ad Demostii. Lept. p.  XXXV* Restat, ut indicemus,  cur Prodicus Ceus hoc loco fiii l-  r idxoC audiat. Multam operam  posuisse perhibetur in verborum  discrimine explicando, quae 8iai-  pfdtff rcov ovopdxcov vocator  Prolog, p. 358. A. Iloc studium  acerrime perstringitur Prot. 337.  A., D. et C , laudatur Piat. Lach*  p. 197. §• 26. Haec StalpedtS  quamquam summopere a Prodico  exculta, tamen Phaedro tanti esse  nou potuit, ut fiiXtidrofi Pro-  dicum appellandum esse putaret.  Satis notum est, Prodicum lucri  caussa Epicharmi versum in ore  gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a  viP,£i. 8oS n xal Xapi n. vid,  Axibch. 366. C. Sed ne hoc  quidem satis caussae est, cur  fiiA XidxoS appelletur. Videtur  potius, ut ita piAxiCxoS   de eo valere, qui rerum laudem  non nisi ex earum utilitate ex-  aptat. Prodicus autem ne a diis  quidem rationem utilitatis cohi-  bere solebat, ut videre Jicet e  dicto eius servato apud Sext.  Empir, adv. Mathcm. 9. 18.  i/Aiov xai defajnjr na\ Ttoxa-  povf xal xpTjvaS xat xaSoAov  itdvta r d cocpsXovvxa xov ftiov  rjpwv ol itaAaiol Seov S ivo -  puSctv 8ia X7}v ait avxcOv coepi- Anav f KciSditEp ol AlyiJitxioi  xov NeiAov t xa\ 8id xovxorov  Mtv dpxov Ji/prjxpav vopidSij-  vat xov 8h oivor Jiovvdov nal    x d 8h vSaop Ilodsidcova , to 6h  TXu p n Ilepaidxov xal ehee rcov  evxprjdovxcov ditavxa. Addo  Cic, de N. D* I, 42. m Quid Pro-  dicus Ceus, qui ea, quae pro-  dessent hominum vitae,  deorum ia numero habita esso  dixit , quam tandem religiouem  reliquit?» Iam quod Prodicus fe-  cit, ut iu deorum laudatione  non deos, sed rerum utilitatem  laudaret divino nomine insignitam,  idem fero iu Erotis eocomio a  Phaedro factum. Nou in indolem  inquirit atque iu naturam dei, sed rerum, quarum auctor Eroa  esse perhibetur, utilitatem expo-  nit j quo maiorem illam videt,  eo maiore honore deum exornat  nullo veritatis respectu habito*  Non mirum igitur, si Prodicum  maxime laudandum Phaedrus cen-  suit, ad cuius exemplar ipse laudationem Erotis composuit. Ceterum quod Herculis laudationem  attinet, Riickertum audi ad h. 1.  annotantem: Herculis laudationem  scripserat (sc, Prodicus) in libro,  coi oopai titulus, ex quo notissimam de Hercule in trivio fa-  bulam mqtuatus est Xcnoph*  Mem* II* , 20. Prodici quippe  admirator usque adeo, ut, quum  in Boeotia vinctus esset, quo  tempore ibi sophista versabatur,  vade dato ad audiendum eum o  carcere prodiret auctore PJiilostr.  vit. soph. I, 12.   ro ovv x oiovtov  seqq* Vulgo post -dpvij<5<xi  comma positum reperitur, pun-  ctum post Wyttenbach*   Qttv a^ltog i(twj<Sai — - ukX ornag tffilbftcu toGovtos  S-eos ! Tavxa 8tj poi SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui  ow Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov elgeveyxeZv xal  ^txQiSao&cu , afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov jioi 8oxeZ  Bibi. Crit.^T. I. YoL, ra. p. 10.  oti ante ovxcoS inferciendam cenanit ; Steplianus coniecit a\\’  ovxcaS TjpsAijdSai xodovxoy   Seov. Non mirum, lumines doctos in verborum structura  admodum haesisse , in qua com-  ponenda ipse, qui loquitor, impe-  ditum se atque implicitum sentiebat, Addita ovv particula ma-  nifesto indicatur, verba superiori-  bus annectenda esse; sed quoniam omissa sunt illic, e quibus  haec exaptari potuissent, xovx  vv SavpadxaSxaxoy; factum est,  ut quaedam structurae ambigui-  tas oriretur, et dicenti, et audi-  enti molestissima. Ex hac stru-  cturae difficultate ut se extrica-  ret Eryximachus, dissecto inceptae  structurae filo pro infinitivo in-  dicativum posuit. Hinc bene  habet exclamandi * signum , quod  post &eoS positam est ab interpretibus, minus probem post  vpvijdai, Verba convertenda  sunt: Dass, sage ich, an solche  Dinge viele Miihe verschwendet  wird, den Eros aber Iceiner noch  wiirdig zu feiern versucht hat,  sondern so vernachlassigt wird  ein so segenreicher Gott!   a^icoS v pvrf dat. Wolfiu»  ad verba tc3 6b "Epooxi — ptj-  6bv iyxoopioy annotavit: Man  muss annehmen, und dies scheint  mir das wahrste , dass Platon  vorsatzlich seinen Phaedrus et-  was sagen lasst, das nicht ge-  grundet war. Viro doetissimo  concedimus, Eroti laudatores vix  deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phaedro aliquid imputemus, quod nec cogitavit nec  dixit. Negat tantummodo reper-  tum esse adhuc, qui laudem  deo dignam ediderit, non ne-  gat, prorsus neglectum iacerc atque contemtum a poetis sophistis-  que deum, Iam quid sit laudem  deo dignam edere s. dB,iooS  vpvijdai (roV Seoy), infra paullo  explicabitur.   ipavov elfey eyxetv h,  e.' symbolam dare. Non caret lepore in symposio philosophico haec dictio , de cuins tror  pico usu conferri iubet Stal».  Casaub. ad Theophr. Charact,  c. XV.   xo dpijdai xov Seov. Mi-  nus qusfcrendum h. 1. est , quid  omnino xodpEiv significet et  aB,iooS v/ivelv, quod paullo su-  pra legitur, quam qua significatione  haec verba adhibuerit Phaedrus. Socratem ipsum interpretem sume  p. 198. E. x 6 dk apa (sc. ro  iyxcopia^Eiv') ov xovxo jjy xd  xa\co$ ixaivEHy oxiovv, aAAcz  xo aZs pkytdxa av axt$ i-  v at x ai itpaypaxi xal  co S xdWidx a iav x e y  ovxgdS iav xe prf'   el dfc TfiEvdrj , ovdbv ap yv  izpayjxa x. x. A. Atque eodem  fere modo ipse Eryximachus p.  177. D. Soxei yap poi t inquit,  Xpijyai txadxov ypoSv Adyov  eItzeiv Inaivov *EpooxoS — cJ S  av Svvyxat xaWidx ov. v   rj ptv iy \6yoiS . Wolf*  convertit : eine reichhaltige, weit-   4  tlvui rjuiv toig xuqovOi xoOfiijtiai rov &tov. tl ow  D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’ civ rjfiiv iv koyoig ixavi)  dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca Zy.utirov i^fiwv kbyov  tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av Svvtjrai xak-  kidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog  xaraxuzai xai 1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg  Coi, o3 ’EQv£lntt%£, (favea zbv Eoxqcizi) , ivavzla iprjcpiti-  lauftige Materio zum Reden.  ypiv iv X oyotS idem fero est,  atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sen-  sus est.* Wenn nun auch euch  wirklich so diinkt, so hatten  wir in aasern Reden sattsame  Unterhaltung» De structura huius  enuntiati vide ad p. 176. C.  Minus probabilis Stallb. ratio  explicandi est haec: tl ovv %vv-  - xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv  yevoiro yap av ypiv iv Ao-  yoi$ ixavy biarpifty.   i tz\ btB,ia. Sic Bekk» Stallb*  alii; Riickertns veterum editionum  lectionem imbLB,ia in tettum re-  cepit usu Homerico nixus, quem  Plato haud raro imitatus sit* Vid.  F»uttm. Lexil. p. 173» seqq. For-  tasse recte habet iitibiByia^ ubi  narratur, quo ordine aliquid factum  sit; contra quo ordine aliqnid fieri  debeat, ubi indicator, rectius  ini 6e%id exhibetur, v. c. in  Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai  rovS xtpapia? xaxaxXlvavraS  t inibi%ia Ttpoi ro itvp bta-  nivovrds Tt xai tvcDXovpivovS  H . T. A. De xPV y Cct verbi potestate J es miisse wolleu , vide  annot. ad p. 176. E.   narrjp rov Xoyov . J7a-  nyp vocis insolentiam Stallbaum*  leniri posse arbitratus est addito  exemplo Phaedri p. 257* B*  &aidp6s re xai iyco Avdiav  rov rov Xoyov nazipa alxioo-   pevoS. Fortasse EryxtfBachus  rursus ad Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o javSoS,  aXX* ipffS jirjrpo S napa , at-  que a se quidem profectum ser-  monem negat: patrem eius Phaedram esse contendit* y ra i p anxa. De his  verbis vide Commentat. de Piat»  Symp, Certissimum autem esse  existimo, Platonem his verbis le-  ctoris animum ad futuram So-  cratis orationem tanquam ad caput libelli dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur, cum Socrates ra ipoxixa initizatiSat  dicatur, Aristophanes Bacchi Venerisque cultor nomiuetur, Agatho et Pausanias indicio addito nullo  ad Erotis laudem celebrandam  promti perhibeantur: Schoi. ha-  bet s. v, f Aya$QDVoS .... rpa -  yaSt . ... ini paXaxia . . . zaby .  yv b* ovtoS ... itaiSj 'ASyvaioS  .... naibixa JJavbaviov  rov r pay ixov , x. r. A. Qui  mutuo amore se complectebantur,  iis nihil iucundius contingere po-  tuisse consentaneum est, quam  laudationem Erotis. Non com-  memoratur autem h. 1. Pausaniae  et Agathonis amor mutuus diser-  tis verbis , quod tum temporis  notissimus erat.   ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS.  ovbh fiyv illatam post ovre ap-    t  rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui , og ovdiv gtijyt  alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa , ovts xov Aya&av xal e  ITavUuviag , ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g , a xsqI AwvvGov  xal 'AtpQoSktjv xdoct tj diatQcjli) , ovds allog ovdelg  tovtavl av lya oQa. xal r oi ovx l| iGov ylyvstai  7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’ Idv oi xqogQsv  txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia tvxu    prime respondet Latinorum ne-  que vero etiam, quibus verbis  res quaedam induci solet , quae  maioris momenti est, quam res  paullo ante per simplex neque  commemorata. Igitur cum gravitate Aristophanes totus perhi-  betur cura Baccho et Venere oc-  cupatus esse. De Baccho liquet,  nam res scenica, inquit Stallb.,  Baccho erat sacra, vid. Casaub.  de Satyr. poesi p. 9. ed. llamb.  Venerem autem commemoratam  h. 1. censet Riickertus, quod  plenae sint ve n eris Aristophanis  comoediae. Wolfius ad h. 1. an-  notat : In wiefern er mit der Ve-  nus zu thun gehabt habe, bezieht  sich vielleicht auf einen Um-  stand , der der Gesellschaft be-  kaunt sein konnte, fiir uus aber  verloren gegangen ist, vielleicht  auf die Sitten ' des Dichters.  Aliter nobis videtnr de hoc loco statuendum esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare vi-  dere se audeat dicere? Ilaud raro  Socrates nomina propria facili  quadam litterarum mutatione cor-  rumpere solebat atque ita immu-  tare, nt nomen existeret, quod  aive laudem sive vituperium ex-  primeret. Exemplo est p. 198,  C., quo loco Gorgiae Gorgnsque  nomina inter se conferuntur le-  pidissime. Adhibita accentus  mutatione in ’Ayd$oov et dya~   Scov nominibus ludit p. 174. B.  Quid, si etiam hoc loco in Aristophanis nomine lusit? Significat  9 Api6xo<pd.V7}S cum, qni opti-  mum prodit. Optimam  autem, veteri proverbio, vinum  et venus est, quod Graece audit:  dptdxov diovvdoS xal *A(ppo~  dlXTf .   x ai x oi ovx i B, Id ov —<*AA. Magnopere se torquent  in huius loci explicatione, qui  xal xoi conianctim exhibuerunt.  Ut gravior esset xoi port. affir-  matio, vocula ex scriptoris sen-  tentia initio enuntiationis ponenda  erat. Id quoniam vetant fieri  linguae leges , xai expletivum  praepositum est, do quo p. 6.  diximus. Latine reddenda sunt  verba: Pol non aequa cou-  ditione, qui ultimi con-  sedimus, utimur. Quae se-  quitur aWa particula, ita com-  mode explicatur, nt omissum co-  gitetur, quod facillime suppleri  potest: 7 j/ieiS ovv ovx ipovfiev^  «AA* idv — iBiapxidei  Locus nostro simillimus est Par-  menid. p. 128. C. xai xoi GJSnep  ye ael Adxatvai dxvXaxeS ev  pexaSeiS xe xal IxveveiS td  \£X$ivx a. aXXd npuxov fiev  Ce xovxo Aay$dvet, oxi x. x. A,,  quo loco ante aWd facillimo  suppletur ovx zvpeZ xrjv  afa/Seiav. 4 *  !    aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu lpta[HCc£ha rov "Egona.  Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £ we<p«<Sav t e xal  178 helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a exadros  tfotev , ovre navv 6 'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto  « helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal av l<5o£e fioc  d^ioyvrjfiovevtav sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov xov  loyov.    tffiiv to iS v6tdx 01 $ xa-  x an eipkv o tS. Dictam supra  est p. 175. C. xov ovv 3 'Ayd -  Saova, x vyxdveiv yap kdxotxov  naTaxalpevov , povov * Jevp  cpctvai, oo 2ooxpaxeS f nap  iul xaxaxeido. Sunt igitur ol  vdxaxoi xataxeipevot Socrates  ct Agatho.   xv XV dyaSy. Formula erat,  qua feliciter succlamare Graeci so-  lebant iis, qui aut navem conscendebant, ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud negotium  suscipiebant, cuius incertus even-  tus esset, cfr. Griton. p. 43. D,  dW\ gj Kpitcov , xvxy aya$y.   navxeS dpa £vvk<pa-  6 av. Wyttenb. scribendum con-  iecit dpa pro dpa t qua con-  tectura efficitur, ut omnes uno  ore consensisse dicantur. Hoc  consentaneum est convivas fecisse.  Sed quoniam non sine turba et  clamore hoc fieri poterat •* nt  quietius convivae egisse viderentur, dpa non dpa Plato scripsit.  De hi^ius particulae significatu vide Heisigii annot. ad Oed. Coi.  Enarr. p. CCVIH. Ortum dpa est  ab apeo , soletque adhiberi , ubi  ab argumentorum enarratione ora-  tio ad finem tendit, h. e. ad  conclusionem. Et cum singulos  convivas Socrates nominasset ita,  ut simul, cur ad laudem Erotis    praedicandam parati essent, caus-  sam adderet: ' om nes igitur  consensisse perhibentur. Minus  apte Schleierm. in conversione:  Hierrait nun stimmten dann anch  die Uebrigen alie uberein,   ovre navv 6 *Api6t o & 1 J'  poS. De horam verborum fine^  vide quae dicta sunt in Com-  mentat. de Piat. Sympos. Minut  placet, quod Stallb. attulit ad  ad hunc locum: Caute, inquit,  haec interposuit, ne legentes in  eam inciderent opinionem, ut has  orationes revera habitas , non  ab ipso cuiusque ingenio convenienter fictas esse putarent.   a^topvypovevtcov  elvai. Codd. plerique a£,io -  pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai  00   habet dZtopvrjpovevxov; in Pa-  ris, uno, Vindob. duobus pancis-  que aliis d&iopvijp6v£vta ex-  stat, quod Bekk. in textum re-  cepit, quem Stallb, Riickert. alii  secuti sunt. Videlicet docti viri  negant, a^topvripovevxovS ora-  tores vocari posse , atque non  nisi orationes illo epitheto recte  Insigniri. Aliter nobis de hoc  loco statuendum videtur. Verba  xovxoov vpiv ipoo kxadtoy xov  Xoyov ad praecedentia referan-  tur drv UoB,k poi dZiopvypo-  vevxcov elvai: verba a pa-  \idra nihil habent, quod ipsis    9 I   Cap. VI.   Flgarov (ih> y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^d-  ftivov tv&ivdt xo&tv ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs  xal fravfiaatos Iv av&Qthitoig re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv  xal aXXy , ov% rpiMtd de xatd rtjv yivEdiv. rd 'yuQ Iv  tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov, tlyuov, ij 8’ os' tex/iq- B    respondeat. Igitur dubitari ne-  quit de xai voculae potestate,  Kctl nimirum auget corrigendo  sigoificatque atque potius.  Exempla si requiris huius usus,  vide Stallb. ad Apol. Socr. p. 23.  A. Convertenda autem verba sunt:  Was mir nun am meisten —  oder besser, welche Redner mir  am wichtigsten und merkwiirdig-  sten zu scin schienen, deren Ke-  den will ich euch einzelu dar-  stellen. Proprie dicendum erat  oi E8o£dv poi p <x\i6xa a.B,io-  pvjjpovevxoi elvai , xovxarv ....  Genitivi e praecedente d exapta ta  sunt, quod xai addito quoaiam  paene evanescit, infra positum  habes xovxgov vplv ipdb kxa-  6tov xov Xoyov. Ceterum ex  his verbis iodicnri licet de Apol-  lodori ingenio, qui orationes non  tam ex orationum rationibus,  quam ex auctoritate et celebri-  tate oratorum indicabat. Simili  ratione paullo infra p. 180, C.  non orationum, sed oratorum obli-  tus esse dicitur Apollodorus his  verbis: $al8pov p\v xoiovzov  riva \6yov Z<pij tinuv , pera  $at8pov aAAovS’ tivaf,  (li. e. oratores non orationes,)  elvat, ojy ov jtavv dispvt]-  liovev ev.   icp&xov p\v yap. Phae-  drus demonstrare studet, Erotem  deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum  bohorum, virtutis atque felicitatis  benignissimum auctorem. Vide Comment. de Piat. Sympos. Ce-  terum de Phaedro, Pythoclis fi-  lio, quem Socratis aequalem fuisse  negat Athenaeus XI, p, 505. F.,  et qui in Protag. p. 315. C. in-  ter Calliae convivas memoratur,  rectissime Stallb, m Erat inquit,  homo mollis ac delicatus, <Soq>oS  T a ipGDZixd vid, Phaedr. p. 227*  A, Sectatus autem rhetores Sicu-  los, iuprimis Tisiam et Lysiam,  mirifice sibi placebat in oratione  comenda et calamistris ornanda»  vid. Phaedr, p, 227.» p. 273**  al. Itaque oratio, quam Tlato  hic ab eo habitam facit, habet  nescio quid fucati coloris et or-  namenti, ut facile appareat, ho-  minis ingenium et mores ut ce-  terorum convivatum, q Platone  ad ipsam veritatem esse ex-  pressos.   rd yap iv xoiS iep£6fivr  xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS Ttpetipvtd-  XoiS sequente elrat xc ov Segov.  Non dubium est, quin dixerint  antiquitus Graeci iv xoiS itps-  tipvtdtoiS Tipedftvtarov et iv  raiS nps6pvrdxaiS itpstipvta-  xr\v\ sed usu loquendi factum  paullatim est, ut non solum iv  xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed  qiov de tovtov' yovijg yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre kt-  yovrcu vtc ovdevog ovre ISiutov ovre TCoitjzov, aAA’  'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca (ptjOlv , ' avtdp inerra    etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet ea amplitudine verba £ v  toi? esse voluerunt, ut quae gene-  ris discrimen non suscipiant, quasi  dicas, omnium rerum, quae cogitari possint, antiquissimam, maximum, pulcherrimum.  Exemplum huius structurae est  p. 173. B. napayeyovei 8* iv  ry dvvovdine 2ooxpdrov? ipet-  Crrj? cov iv toi? paXidra tcor  rore. Adde Symp, p. 178. C.  iv xoiS 7tpedftvraro? elvai.   tifiiov, i / 5* o? . In upo Vindob. exstat eido? pro y 8’ d?,  ex qua scriptura, dupliciter po-  sita rifiiov vocis syllaba finali,  rijiiov ovetSo? effinxit Creuzerus  ad Plotin, de Pulcritud. p, 146.  Consentire videtur nobiscum vir  doctissimus, tlpior verbum hoc  loco "admodum frigere, neque  nilo modo praecedentibus dei  epithetis ^avpadro? et piya?  respondere. Exspectaveris potius  superlativum, qui exstat apud  Aristot. Metuph. 1. 3. rifUQora*  rov yap rd Ttpedftvrarov, Non  mutandum est y 8 1 5?, quibus  verbis ipsissima Phaedri verba  premi manifesto indicatur. Phae-  drum nutem dixisse reor: r o yap  iv rot? nptdfivrarov eivat rdr  3coV ov rifuov . Addita nega-  tione et interrogatione instituta  efficitur, ut" orationis vigore vis superlativi compensetur. Ceterum  eo facilius scribae passi sunt ne-  gationem a praecedentis verbi  syllaba finali absorberi, quo mi-  nus iotelligerent , interrogandi  signo forte, ut fit, oblitterato, qui possit non honorifica esse  laus antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV.  Hacc verba si abessent, a nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet. Cui euim non arrideat,  enuntiatorum iunctura haec : rd  yap iv t 61? 7fp£(jpvraxov elvai  rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?,  yovy? 8e,”Eporo? x, r.A. Cave  tamen otiosum additamentum  T exuypiov tovtov verba cen-   seas. Nimirum orationis conti-  nuitatem ita intercidunt h. J.,  ut gravior fiat caussae comme-  moratio; simulque indicant, quoniam oratorum, ut videtur, pro-  pria sunt, Phaedri orationem  verbo tenus referri,# Huius rei,  h. e. accuratissimae repetionis,  iudicium sunt etiam ?/ 8 ds verba,  quae Apollodorus posuit, ut cla-  rius indicetur, iuitium orationis  non nisi Phaedri sententias, Ari-  stodemi, non ipsius Phaedri verbis descriptas ( ap^dpevov iv-  $£v6e itoSiv') contiuere, nunc  autem ita pergi in repetenda  oratioue Phaedri, ut etiam ipsa  eius verba repetantur. Ceterum  perraro xexpypiov 8i, paprv-  piov 8i , similia ponuntur, quia  in subsequentihus yap part. repe-  riatur, v. c. Plat, de Legg. VII.  p. 821. E. r expypiov 8i, iycd  tovtov ovre vio? ovre itaXat  axyxoa depov.   ovx eld\v ovte i.iyov-  taiy II. e. neque sunt revera  parentes Erotis, neque esse a Vat £vpv6xspvo? , Ttdvtcoy e8o? a<5(paX\? aiei f  ’H8’ "EpoS.   &rj(Sl {ietcc ro %aog 6vo rovta yeviti&cu, yrpv re  'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr ( g 8e trjv ttvttiiv liyzi,    quoquam perhibentur. Non esse  revera parentes Erotis, non pro-  bator; non dici a quoquam ita  tantummodo confirmatum liabes,  ut allatis versibus quibusdam,  quid Hesiodus et Parmeuides de  Erotis ortu tradiderint, edoceare.  Notabis igitur, quam Plato car-  pit, levitatem argumentandi.   ovxe i 8 1 cozov . ’l8iarr?]f  latissimi significatus verbum est,  quod plerumque ex opposito ac-  curatius definitur. Igitur non  placet Ficini conversio: Id   autem ex eo c o 11 s t at, q u o d  parentes Erotis a nullo  vel poeta vel alio quo-  vis descripti sunt. Nec  prosarium scriptorem cum Stallb.  interpretari velim Idiooxi]? vocem. Antiquiores enim philosophi, ut  Parmenidis exemplo docemur,  prosa oratione non usi sunt, cfr.  Olympiod. ad Phaedon» p, 65«  E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd -  ro ov) llapjiEvL8?fv f 'EpTttdoxXiot,  *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A.  Consentaneum est autem, philoso-  phos et poetas ibi tangi, non  poetas et prosarios scriptores,  tibi in Erotis originem inquiritur»  Convertit Schleierm.: von irgend  cinem Dichter oder andern  Erzahler» Exempla si quaeris  IduaXTj? vocis ex opposito ex-  plicandae, legitur infra p. 178. D.  ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e*  vreder ein ganzer Staat nocli ein  einxelner Biirger. Prot. p. 322.  *C» ei? Ixooy laxpixijv itoXXoiS  IxctvoS l8icoxatS x* x. A.   tprjdl pexa ro x^oS —    x a i ”E p m r a. Haec verba quo-  niam cum autecedentibus nullo  modo consociari possunt, Ilein-  dorf. , quem Schleierm» secutus  est, post Iloio8oS pronomen re-  lativum o? ponendam ceusuit,  Wolfins <pij6\ 67 scribendum  existimavit. Ileynius, Astins ,  alii, verba glossema censent, quod  iudfcium Riickertus probaret, si  Socratis haec verba essent, non  Phaedri hominis inepti* (?)  Sed ipsum audi Kiickcrtum: In   Phaedri, inquit, oratione nihil  decerno , quae tota tam inepta  ei/, ut ii tollere velis omnia t  quae displiceant , haud scio , an  nullum versiculum sis incolumem  habiturus . (!?) — Plato poeta-  rum versus laudare solet duplici  modo» Aut nudos versus afiert,  aut commemorat aliquid, quod  idem in sequentibus versibus  continetor iisque comprobatur.  Atque huius quidem rationis  exemplum occurrit p, 195. D.  n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe  <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v' xovt  yovv 71 6 8 a S avxij? dita~  Aou? Etv at , XlycoY   Tij? piv$' djraXol TiddeS*  ov ydp iit ov6eoS  niXvatai y aXX’ apa 1 ) ye  xax* dv8poav xpdaxa fiaivei.  Prioris rationis exemplum est  p. 197. C. Nusquam, quantum  scio, poetarum versus laudat ita,  ut prolatis ipsis eorum prosariam  explicationem addat. Fortasse  cum Riickerto foedidam quandam  Phaedri sedulitatem Platonem no-  taturum fuisse contendis. Audio,   / f »   npoitititov pkv * Epcora Itetur pijritSato xavrojv.   C Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv  neque probo tamen. Nam hoc certe negari nequit , Phaedrum  recte loqui potuisse, ut non cre-  dibile sit, eundem hoc loco bal-  butientium instar locutum esse.  Scribendum videtur esse:  dAA’ 'Hdlodof xpturov plv xdoS  tp?j6l yevidSat  avtap Ixeixa   tpj]6l   yai’ ev pv 6t epv oS, nav -  tcov 28oS adqxxMs alsi  rj 8 * "EpoS.   Repetitum tprjdlv est, quo magis  pateret, ab obliqua oratione ad  ipsa poetae verba trausiri. Factum  autem videtur esse casu quodam,  ut tprjdiv a sede sua in eo loco,  quo id codd. exhibent, colloca-  retur, ubi ansam dedit nescio cui  sciolo Hesiodeos versus prosaria  oratione explicandi. De tprjdi  verba ipsa poetae indicante cfr.  p. 177. A. $al8poS yap b«x-  QTore itpoS pe dyctvcottoov Ai-  yet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A.  Adde p, 202. C. Tcal iyco eluor ,  TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Al-  cib. II, p, 142. c. 8. A iyei 8i  xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv  a, <prj6i, xai evxopivoiS  Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov , rcc  di 8eiva xa\ evxopivoiS axa-  A dB,eiv yteXe-vei.   Tlap pevidrjS 81 —  tcov, Haec quoque verba sunt,  qui expungenda censeant. Omisit  ea cum superioribus tprfdl pera  ro xdoi 8vo zovzgo ' yevidSai,  yrjv re xal " Epcora , Stob. in  Kclog, phys. I. p. 154. Verba sanissima esse iam colligere possis e praecedentibus verbis ov8l  idtturov ovre icotrjtov , Quibus  !    commemoratis et poetarum et  philosophorum certe unum exem-  plum laudari debebat ; si Hesiodum solum Phaedrus laudare volebat,  philosophorum mentionem facere  non debebat. Verba sanissima  esse etiam e rectius explicato  TevidecoS verbo patebit. Sic  statuo: Duae sunt in Mythologia  Graecorum Veneres, quarnm altera maior, altera minor aetate,  Atqne minor quidem dea, *Aq>po-  SirrjS nomine insignita , a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea, quam  numen rectius voces , iis tan-  tummodo nota erat, qui omne  studium in coguo&cendis rerum  caussis ponebant, b. e. viris phi-  losophicis, Factum autem vide-  tur philosophorum inter se dissen-  tientium industria, ut plus minus  divinae dignitatis dea maior nata  particeps haberetur, et cum vario  modo spectaretur, ne certo qui-  dem nomine insigniretur. Ti-  vediv eam vocarunt, et $i\lav f  et XaoS ; aeque, qui fons est  magnae confusionis, ab A<ppo8l -  r rjS nomine abstinuerant, quin  maiori illi deae interdum attri-  buerent. Sic Plutarch. Erot, p.  756. F. UtppoSityv posuit pro  Tevedet, sed addita Ipycav voce,  qua nominis mutatio satis excusatur: 8io IIappevl8ijS plv axo-  tpcdvei r ov "Eptura rtuv ’Acppo-  SirrjS ipycov xpetifivrocrov iv  zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoS-  zitirov plv * Epoota h. r. A. ri-  ve 6iv autem Parmenidei versas  subiectum esse, etiam Aristotelis  verbis probatur Mctaph. 1. 4.  xal ydp ovroS (sc. fla p pe -  opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai. XQtaflv-  torros ol tw ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou    viSrfS) xctxadxEvdZoov rrjv tov  navxoS yivediv' npcvxidxov p&v,  tprjdiv f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo  ndvxcov. Notasset enim, si revera abesset, sabiecti absentiam  philosophus. Satis notus autem  Graecismus est» quo dicitur  trjv Ovediv Xiyei * nptoxidxov  x. r. X, pro Akytt * npoSxidxov  ptv rj rivEdiS *Epooxa Segqy  pTjxidctxo ndvxoov. Iam patere  opinor, Hesiodeos versus cum  Parmenidis testimonio optime  convenire. Nam quod Xaos apud  illum est, ttyedis Parmenidi vo -  catur, Igitur nullo modo pro-  banda est ea evplicandi ratio,  qua Phaedrus callide dicitur sub-  iectum versiculi reticuisse, ne  quod testimonium pro sua sen-  tentia afferat, quod idem contra  ipsum testari nimis manifestum  sit. Verendum nimirum erat, ne  quis convivarum, qui Parmenidis  versum memoria teneret, erroris  atque fraudis loquentem accusa-  ret, aut, si non teneret, e ve-  stigio subiectum rogaret. Ceterum  quod terram simul Hesiodus commemorat, (videlicet ut esset, quo  incedere Eros posset), id ei non  officit, qui deorum antiquissi-  mum Erotem probaturus est. Ad-  dere placet Simplicii ad Arist»  Phys. p. 9. revidecaS definitionem. Indicat nimirum, Parme-  nidem habuisse $eg5y alxiav Scri-  povct iv pido» ndvxarv , T] navxct  Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv s.  xrjy xAydovyov Stallb. minus  accommodate interpretatur,   xal *Axov diXe uf o /io-  do y e 2. Suidas habet; *Axov~  diAaoS, Kafia vlof 9 ‘ 'ApyeioS ano KepxdSoS noAeaS , ovdtfi  AvAiSoS nXrjdiov , IdxopixoS  npedftvxaxoi * iypanpe <5£ ye-  veaAoyiaS ix 6iXx oov  ds XoyoS evpelv tov naxipa  avxov opv&avxd riva xonov  xrjS oixiaS avxov . Hinc de Clem,  Alex, testimonio iudicabis, qui  Strqm. VI, p. 629. A. Acusilanm  nihil nisi Theogoniam Hesiodeam in prosam orationem con-  vertisse docet. Phaedrum Acu-  silai auctoritate temere usum esse  contendit Stallb. Habet, inquit,  hominis oratio , ut iam supra  dictum est , nonnihil sophistici  acuminis et tumoris. Aliter nos,  atque fecit Stallb,, de Acusilai  testimonio indicamus. Videtur  Acusilaus Argivus non Hesiodi  solum mythos collegisse atque  in prosam orationem convertisse, sed etiam aliorum poetarum  narrationes addidisse, ut fecisse  constat omnes eos, qui Logogra-  phorum nomine insigniuntur. Iu  tanta autem, quanta erat antiqui-  tatis farrago mythorum, critica  abhibita sedulo caverunt, no  discordia etinter se pugnantia col-  ligerent. Fieri igitur poterat, nt  Acusilaus interdum ab Hesiodo  discreparet; igitur illius testimonio Phaedrus uti potoit satis  commode, cfr. Otfried Mulier ia  den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie p. 13.:  Iudcssen hatten sie (die Logo-  graphen) zugleich die Absicht,  die Mythen zu ordnen und io  Zusammenhang zu briugen, woriu  ihnen auch schon die kyklischeu  und geueslogischen Epiker voran-  gegangen wareo. Bel diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov louv ccya&otUtov&vs  vtco uvzt, ij iQaetijS * Kt tQCKSzi] ncadixu « yag    Ordnen mussten natiirlich oft  Mythen vorgezogen und aufge-  nommen, andere zuriickgestellt  und iibergangen, es mnsstc eiue  gewis.se Kritik geubt werden. —  ovtcj 7t oWaxoSev opo-  Xoy eiTai. Parmenidis Tersum  delere dubitarunt interpretes non  pauci ideo, quod ridiculum e&set,  solo Hesiodi et Acusilai testimonio laudato ita pergi : ovzca   xoXXaxfaty opioXoyEitau Haec  verba num excusabiliora censes  testimoniis allatis tribus? Spe-  ciosius quam verius annotat ad  h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi  er nur drei Gcwahrsmanner on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV , weil  em jeder von diesen das Haupt  einerSekte war, au deren Gruud-  satzen sich eine Menge anderer  bekannten. Quid tandem? Num  ad Phaedri confugiendum est  sophisticum illum tumorem? Non,  placet. Ovtgd seiungendum est a  tfoXXaxb$EY verbo, non arctius  cum eodem coniungendum, quod  interpretes ad unum omnes fecisse video. Ovtcj est, ut alias  saepissime, hac, qua dixi, ra-  tione, hoc modo. Scbleierm,  verba convertit: Von so vielen  Seiten her wird dem Eros zuge-  standen, unter die altesten zu  gehdren» Phaedri haec potius  mens est: Auf diese Weiao  wird noch von vielen an-  dern zugestanden, dass  Eros der alleralteste i st.  Ovtcj vocis sic positae si exempla quaeris, cf. Piat. Menex. p.  240. A., ubi commemorata Per-  sarum regum felicitate haec le-  guntur: ai di yvwpai dedov- i    Xcjpivai a7tocvtcov dv&pujecay  ?]dav • ovtcj noXAd xal pe-  yaXa xal pdxipa ykvij narot-  dEdovXojpkyrf t/v Tf TJtpdcoy  dpxrf t h. e * hac ratione factam  est, ut multae et magnae atque  fortissimae olim nationes Persa- 4,  rum potestati subiicerentur. Adde  Symp. p. 188. D. ovtcj KoXXr t y  nat piydX?jy, paXXov 6£ itdtiav  dvvapiv ix Et HvXXt/PSrjr p\y  6 7CaS "EpojS , quo loco e» sen-  tentiarum nexu patet , ovtcj esse  hac ratione, hoc modo.   itpEdftvTaToSdecjy pe-  yidTcoy ct y a $ gj y ijplv  aftloS IdtlY, Ficini, ut videtur, horum verborum conversione  motus: Cum vero talis sit,  maximorum bonorum no-  bis est caussa, Bastius scri-  bendum coniecit: irpoS dfcrouro»  tmr % peyidtcov h. t. A. Frustra.  Transitur his verbis ab altera  oratiouis parte ad alteram, h. e. ab aetatis ad beneficiorum com-  memorationem. Non omni ex  parte Graecis verbis respondet  conversio Stallb. ; Quemad-  modum autem est deorum  antiquissimus, ita idem  nobis est auctor maximo-  rum bonorum. Est enim, quam ille non reddidit conver-  tendo , species argumentationis  verbis admixta, quam sophistarum  sectatores captare solebant.   ov yap iycoy — noti  ipadxjj tc aiStxd. Riickertna  ad h. 1. annotat: Non accurate haec disposita sunt; quum enim  esiet dicendum: nullum est maius bonum homini,  XQrj ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros rov (Uov toTg t-dlhivGt, Aul cos (hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola re tfinotuv quam A PRIMA IUVENTUTE probus AMATOR, et postea  AMANTI PUER similis, sic  eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico ovxi esset re-  ferendum, Quod fieri non potest, nec voluit cogitari orator. Notandum hoc duxi , sicut alia  multa in hac oratione, quo magis  fiat perspicuum, quam multis ea vitiis laboret in omnibus, quae ad sententias earumque cohaerentiam pertineut. Quod quum  perspectum fuerit , qua cautione  in textu talium locorum casti-  gando utendum sit, plane iotel-  ligetur. Cur de uno eodemqne  homine accipienda sint hoc loco,  non DE DUOBUS HOMINIBUS MUTUO AMORE se amplectentibus, vioS et  ipatitijs verba, equidem caussam  nou video. Ruckerto non rectius  Sdfileierm, verba interpretatas  est: Dean ich meiues Theiles weiss nicht zu ssgen , was ein  grosscres Gut ware fur eiuen  Iiingling, ais gleich ein wohlmein en der Liebhaber oder  dem Liebhaber ein Liebling. Ad xaiStxa repetendum interpretes censent jf/aj/dta. Minus  apte, ut videtur. Nam nihil melius esse iuveni quam probum amatorem, Phaedrus ita profert, ut iureni opus esse indicet homine aliquo, cuius praeceptis et  exemplo melior fiat. Non potest  autem is, qui melior reddendus est, eius, qui meliotem reddit,  h. e. AMATORIS epitheto ornari.  Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad ipadty referendum est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de  structurae molestia querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba non referri non possint: ev$vS vico ovrt , de lectionis veritate non assentimur; sedulo  enim cavendum est, ut nimio  studio servandae alicuius lectionis  ne iniusti simus atque vitia v alicui  imputemus, qui nulla commisit. Ne multis, scripsisse Plato videtur: o v yap iyooy &X& sIxeiy,  oxi pst£ov itixiv dyaSov ev$vf  vico ovxi, Tjipadrrjs xal   ipadtjj, (sc. XPV&&) V ^ou6txei 0  Sententia verborum haec est:  Denn ich kenne kein Gut, das  eiuem gleich von dea friihesten  Iahren an dienlicher ware, ais  ein verstiindiger Liebhaber, und  das diesem ( dem verstaiidigen  Liebhaber} dienlicher ware, ais  ein Liebling.   avSp cotcoiZ rjyzi6$ ail  De jjyEidSai verbi structura vide  sis Indices. Ceterum interpositis  verbis pluribus a verbo, ad quod  pertinet, seiunctum est xoiS piX-  Xovdi xaXdoS fttQo6E62ou , ut  vis maior esset enuntiati. Sen-  sus est: deno was den Menscheu  ein Leitstern sein muss des gan-  zen Lebens , nam licii denen,  welche recht zu lebeu wunschen,  cfr. p» 198. E. ro 81 apa , (gJs’  Hoixey , ov tovto rjv x 6 xa~  XcoS iit ot.iv eiv otiovv x.  T. X. f ad quem locum vid. ann.ad  p. 202. C. tj xoXprj6aiS dv tiva.  pij <pavai xaXov x e xal svdai-  pova $ Eooy elvca ;   tovto ovtE Hvyyivsia  x, t. X. Pro Hvyyiviia Wyt-  tenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui  D ovta jeaAros ovts tifial ovts nlovtog oi W «AAo ovSiv  (o S £qo S . tiya 8's 8rj il tovto ; rijv iarl fisv totg cdaxQocs  al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig tpiXoufilav. ov yuQ Zauv  avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc xal xcda  %Qya QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc,  scribendam coniecit, quod fue-  runt, quibus magnopere placeret*  Stallb. gvyykvEiav gratiam esse contendit et auctoritatem, qua quis propter hominum potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris explicationis gloriolam mihi praereptam vides a Riickerto, qui B,vyykvEiav de ipsis necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime autem de pudore , quo  horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim, Riickertus ait, in se-  quentibus, nec matris nec patris  tantopere, si quid peccet, pudere,  quam eius, quem amet, pariter*  que amatum amatoris. Conferri  iubet praeterea Legg, I. p. 627.  C, nxeo vtgjv jj.Iv xoor itovif-  pdjv {j te olxia xal 7} B,vyyk-  reia avrij 7ta6a ytrcov havtfjS  Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv  te xal <pi\ovZ xal B,vyykvEiav,  Adde Alcib. I. p. 105. cap. V,  xal ov t inixponoS ovte dvy-  ysvijf ovte aAAoS' ovdels Ixa-  voS rtapaSovvai ttjv dvvapiv  x. , T. A. Restat, ut de verbis  dicamus ovtco naAoiS , quae a  viris quibusdam impugnata sunt  ac permutata, Reyndersius nimi-  rum pro ovtcj xa\<jj£ scribendum  censuit ovte xaWoS infarcto ante  IpitoiEiv verbo ovtcjS. Iacobsius  legendum proposuit : ifutottiv   ovtcjS 9 ovte xaXAoS x . r, A.  Ovtcj xaAcjS verba Phaedrus  addidit, ut indicaret, aliquid con-  ferre ad corrigendos mores tara pa-  rentum admonitiones tum honorum divitiarnmque faturam possessionem : sed his maiorem esse atque  validiorem amorem. Igitur mutationi non locus est, neque satis-  facit Stallb, dicens.; quamquam  pulcritudinis mentio in talibus  frequens est, tamen non ita necessaria videtor, ut libris invitis aliquid inferciendum sit y  praesertim quum addantar haec:  ov t aKKo ovSkv, quibus verbis  cetera | quae vulgo bona habentur, significari manifestum  est. Verbis ov x aAAa  ovdkv amicorum favor, gloriolae  dulcedo, alia hoc genus subin-  telligi possunt, pulcritudo non  potest. Patet enim, non nisi de  bonis sermonem esse, quae recto  vitae modo servantur augentur-  qne, cadunt malo. Polcritudo  autem non metuendam est, ne  malefactis imminuatur; igitnr ea  non movetur, qui pulcher est et  malus , malos mores ut corrigat.  Igitur ab hoc loco pulcritudinis  commemoratio alienissima est.  Bene FICINO: haec natem nobis neque genus neque  divitiae neque honores  praestare citius ac me-  lius quam amor possunt.   \kyta 81 81} ti tovto;  Scriptum 'est in aliqnot codicibus: A kyo 81 6jj ti tovto \ quod Bastius recepit. Iniuria.  Sententia enim foret nostro loco  minime conveniens: Num est  aliquid id, quod dico?  & ti al<S%Qov itouov xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito  tov , di avavdQiav (irj iqivvoyitvog , ovt av vito itaxgog  offntivxa ovrag dlyijiScci ovts vnb halpuv ovts vit  ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv. xavtov Ss tovto xal E  xov iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg tQu6tag    aut demto interrogandi signo j  Est autem revera aliquid,  quod dico. Sexcenties apud  Platonem rcperies mediae orationi  interrogationes interseminatas ,  quibus efficitur, ut ad rem, quae  proferatur, lectores attentiores  reddantur. Vid. A st. ad Piat, de  P* 29. Heusd. spec. erit,  p. 87. cfr. Sympos. p. 206. E.  itavv pkv ovv, £<pj / • xi 8 ?) ovv  TTjS yevvtjdeooS; Ceterum Stallb.  haec verba explicat: zi de 8?}  tovto idxiv, o XiycD, Commo-  dior videtur explicatio haec, ut,  cum primitus dicatur A iyco di)  tovto, interposito interrogandi  verbo ti , verba illa immutata  maneant Xiyco 8?) — - ti — tovto.  Ad huius dictionis exemplar verba  Phaedon, p, 73. C. emendanda  sunt: ap ovv xal to8e 0 // 0 A 0 -  yov/iev , dzav ixidn/pr/ itapa -  yiyvr/rai rpoxeo toiovto), ava-  /ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva  Tpoxov tovtov . In codd. ali-  quot bonae notae riva pro tiva  reperitnr. Stallb, scribendum vidit esse Xeyco dfc riva Tpoxov;  Tovtov*, neque tamen ipse sibi  satisfecit. In verbis, ^juae in-  terrogationi praecedunt, cave  credas, Tpoxov verbum ita posi-  tum esse, ut quod in sequente  interrogatione qxplicandum pro-  ponatur. Scripsisset enim Plato,  hoc si, edicere voluisset, A iyco  6h Tpoxov tiva tovtov; Scri-  psisse videtur autem: A iyco 6}  riva rpoxov tovto; sc, t 6 dva~    pvr/dw eivai zo Ixidn/pr/v i tot-  payiyvEdSca.   <prip\ toivvv iy<o . h. e.  Meino Meinuug ist also  nun. Quae brevius ante dicta  erant, ea nunc a Phaedro re-  feruntur explicatius. In sequentibus cum Astio et Riickerto  comma ponendum curavimus post  vxo tov , ut 8i avavSpiav ar-  tius cum pi/ apvvopevoS cou-  iungendum esse indicetur. Verba  ovt av vxo xarpoS o<p$evTct  Ruckerti explicationem £,vyyi~  vtiav praecedentis confirmant.   MV a fivv opev of , Nam  viri fortis esse potabatur iniu-  riam acceptam ulcisci et punire.  Stallb.   zavtov 81 tovto. Du-  plicem structuram haec verba ad-  mittunt. Aut enim absolute posita  cogitari possunt, aut ab in- equente opaopev apta. Prior  explicandi ratio rectior. Sed  audi Stallb. annotantem ad hunc  locum: In his, inquit, tavtdv  Tovto absolute positum est. Cf.  Phileb. p. 37. IX pdov ovx op-  $rjv ptv do£av ipovpev , av  dpSoTrjxa itixXh tovtov 81 7/8 o-  vr/v; ubi Tavrov 8i absolute  accipiendum: pariterque vo-  luptatem. Cratyl. p. 404. E,  tavrov 6h xal xspl tov 'AxoAAgq.  Protagor. p. 344. D. xal yscop-  yov x&tenv &pa ixeXSovdat  dpr/xavov av Seir/ xal laxpdv  zavzd tocvta. Menon, p. 90. D,    «2    ai<fywET«i , otav 6(p&y iv cdtixQV tLVl & v - d ®w  %avrj rtg yivoLto, cagre noXiv yeveg&ai xj axgccxoxeSov  tQaOxav Ti xal nui8ucdv, ovx k'<Sxiv oitag av cc/iavov  olxfcsiav xxjv sccvtdv jj axE^uficvoi xiavxav xdv aia%gdv  xccl xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul (iccxoftivoi y av    ovxovv xoc\ 7txp\ CCVfofySeOOf xal  ruv aWaov ravxa xavxa icoWi /  avoict ItiTiv , ftovXajiivovS x. x.X.  Demosth. Midian. p. 526. extr.  cd. Reisk. faeiS* 6 nXrjyeif  ht&voS vito xov TIo\v$i/\ov  ravto xovxo iStoe dtocXvodye-  roS — ovd’ elSijyays tov IIoXv-  ZijXov. Loquendi genus tum  alibi, tum hoc loco viros doctos  fefellit.   iv aidxpfi ttvt cov. * Ev  a . X. eIvoci est defixum ^sse in  re turpi, versuuken scin im B6-  sen, im Argen seinj hoc dicendi  genus breviloquentia quaedam  est, supplendumque mente ver-  bum est, quod cum iv praepo-  sitione commode consocietur. Pro  iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur Craeev iv al6xp<fi  rivi xtijuevoS , ut iv fiopfiopu)  xeidExoci legitur Pl. Phaed. p. 69.  C« De similibus dicendi formis :  iv olva> £ivai t iv xy x iyyy  elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai.  vide Matth. Gramm. pien. J. 577,  p. 1140.   el ovv p7jx av V Xl * Y&-  voixo . Sensus est: Wenn   es sichnuumachen 1iesse,  dass ein Staat entstunde  oder eine Kriegsgesellenscliaft aus Liebhabern  und Lieblingen, so konn-  ten sie ihren Staat nicht  besser verwaltea, ais  owenn sie sich alles Hiisslicheu enthielten und  ei ner dea an dem zam Best cn aufmunterte. His verbis aliquid iuesse videtur, quod  minus cum sententiae ratione conveuiat. Etenim civitatem non  melius administrari posse, quam  si a turpibus abstineant chrcs, bo-  nis studeant, hoc non tam in  amantes et amasios cadit, quam  in homines universos. Debebat  potius ita loqui Phaedrus: neminem, si civitas existerct aman-  tium , melius civitatem admini-  straturura esse, quam amantes.  Non dubium est, quin vitium  verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis audeat, codicibus tacentibus, fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox tanquam scioli additamentum expungenda esse, qua deleta verba convertenda sint: Wenn nun ein Staat  von Liebenden und Geliebten  entstunde: so konnten dies e  deuselben gar nicht an-»  ders verwaltea, ais so,  dass sie das Hassliche  ver abscheueten und das Gute rait gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam admireris licet MVTVI AMORIS utilitatem. Ut  enim nunc in civitatibus multa  pessime geruutur, turpia laudantur, honesta expelluntur, ita in  civitate cx amantibus composita  Eros efficeret, ut cives ne pos-  sent quidem male aliquid agere,  sed nt optime h. e. malarum rerum fuga, bonarum studio, civi-  tatem administrarent. (itr aXXyXmv o l xovovxoi vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog  &rog BfouZv, itavxag dv&Qcort ovg. bqcjv ydg dvr/g vnb  TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv xa%iv q OTtXa a7tof}(tffl>v r\ t-  xov av dtjrtov Si^acxo rj V7to Ttavrcov xcov aXXcov , xal  7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo * xai (irjv ly • 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITaec  propter antecedens ?/ 6xpar6ize-  8ov adiiciontur, quo effectum  etiam est, ut in praecedentibus  additum habeas xijv tavTGov;  nam verbis his uou opus erat,  si alio loco posuisset aut prorsus  omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov verba  scriptor. Ceterum certam 'quan-  dam txcnpiav Phaedrum in mente habuisse, v. c. sacram Thebano-  rum cohortem, haud credibile est  propterea, quod antecedit el ovv  pi 1X av V tl y yivotto. Significant autem haec verba, poni, aliquid fieri posse, quod revera aut nequeat fieri aut quod adhuc factum non sit   dtS litof Etieeiv. Phaedrus  ne nimius in laudando videatur  esse dicens, paucos facile su-  peraturos esse homines omnes,  cdS titoS eItceiv addit, quibus ver-  bis vis iudicii paullisper immi-  nutur. Pertinent autem non so-  lum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS , ut  Stallb. iudicantam video, sed  etiam ad d X.iyovf, ut alteri  verbo addatur aliquid, alteri de-  matur. Vide quae de £icoS  eiiceiY verbis annotata sunt ad  p. 215. I).  Xiitriv — ait o ftaXoov .  Nam \EiitOTa£,ict turpissima .ha-  bebatur. , Lex Attica, cuius me-  minit Lysias Or. xaxd <Pl\covoS  Compadia? T, V. p. 887. ed.  Rcisk, et Demosth. adv. Neaer.  T. II. p. 1353. roy kiicovxa tijv  td&iv d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe    dxecpctvovdScn prjt eISiIvcu sl$  t d Ispd ra St/poxEXtj. Nec mi-  nor erat infamia eorum, qui arma  turpiter nbiecissent: de qua re  fuse disputavit Klotz. ad Tyrt*  10, 27. cfr. ’de Rep. V. p.  468. B., de Legg. XII. p. 945.  Stallb. Adde Arist. de Morib.  V. 3. TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS , Xal  ra rov dvdpeiov Ipyct icouly,  olov pi} XeiitEiY t i/y rdt,iv ,  /irjSk tpevyELY, pr/61 filxtnv xd  oitXa .1 } vico 7t d yt oo v rcov aA-  Xcjy. IIctYTES ol dXXoi inpri-  mis parentes suut, fratres, amici,  vide ann. ad p. 178. C. tovto  ovtE ZvyyivEia ola te ipnotEiv  ovv oo xaXdoS ovte xipai ovte  nXovxos — eqS ZpvS. — JJpd  xovxov sc. 7t po rov 6<p$fjvai  V7CO iroadixdov.   t e$ v dv at dtv TtoXXdmS,  Schleierm. convertit: und dafiir  wiirde er lieber oftmals sterbeu  wollen. Graeci ut nos : und da-  fiir wiirde cr lieber hundert Mal  todt sein wollen. Videlicet adeo  invisum omnibus est ro oraro-  $vr}dxEiv, ut pro eo Graeci te -  Svavai dixerint, nostrates di-  cant todt sein. Huius tempo-  ris usus ita iuvaluit, ut id adhi-  berent Graeci etiam, ubi proprio  praesens tempus ponendum erat.  Sic Criton. init, legitur: if t d  icXmoY a<pixtai, ov 8 eI aq>t - 4  xopkvov Te$vdvai ps, Vide  Stallb, anaot* ad Apol. Socr, p.    Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij porj&rjOai xivSvvevovu  — oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6 "Epag  Iv&iov xotrjaeio itQog uQitijv , ugtB ofiowv dvai tu  B fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog ift-  jcvivaca Ivioxg tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg  IquOi naQijtt, yiyvofitvov xaQ avtov.    SO. B. Igitur non asseutiendum  Buttmanno ia Gramm. pleo. j,   114. p. 161. «D«* Streben   nach Nachdruck hat deo Perfekt-  begriff ale entechiedener uod ge-  wisscr Jautcnd au dia Stella des  Praesens gebracht.»   xal pt/v iyxaraXixeiv  y e. Non sine magna animi com-  motione haec a Phaedro profe-  runtor, qui vix cogitari nedum  fieri posse contendit, nt AMATOR aut deserat amasinm, aut periclitanti auxilium non ferat. Hac  commotione animi, quam indignationem vocare possis, factum est,  ut aposiopesis orta sit, quam  oculis legentium addita lineoia  indicavimus. Non nliter Astios  in «nuet, ad Convers. Symposii  p. 279.: Der Text ist unver-  derbt; xal yt/v — yt ist ja  auch, d. h. in diesem Zusam-  xnenhange v o 1 i e n d s , und die  ubgebrochene Rede, die mit einem  allgemeinen Satze endet ( OVOllS  ovia xaxoS x. r. X . ) charakte-  risirt treffend deu Phaedros ais  leidenschaftlichen Erotiker , den  der Gedanke, dass der Liebhaber  den Geliebten verlassen und ihm  in der Gefahr nicbt beisteben  solite, empdrt und fast ausser  sich setzt. Ceterum xal pr/Y —  yt particula» Astius, ut modo indicavimus, vo lien da, Schleierm.  gar converterunt. Apta oobis  visa est »d Phaedri exprimendum  ardorem utriuaqua vocis coni unctio, nt verba convertenda sint:   \ olleuds gar den Liebling im  Stiche lasseu , oder ihm nichl  bcispringen in der Noth. — cfr.  Symp, p 196. C. xal fitjv  eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi  “jtprjS avSioxaxai. Alia ratio  est particularum p. 202. B. xal  pi}v, T)V S tyoo, opoXuytirai ye  napa xdvxooy peyaS StoS tivcct,  ad quaa verba vide annot.   xtvSvvevovti »c. av reo.  Nimirum xaiStxd verbum non  nisi unum amasium significat.  Laudat Ruckert. Phaedr. p. 2S9.  A. ovre 657 xpeixxa ovtc ItSov-  ptvov Ixtuv ipadxrjS xat&ixu  aveSexai , rjxxa> 61 xal V7IO-  StiiSxtpov ad dxepydderat.  Phaedr. p. 240. A. • Ixi roiwr  ayapoY , axatSa, aotxov on  xXtitSxov xp°yov xaiStxa ipa-  dxrjs evSatxo av ytvtaSot. Vide  sis de generis mutatione Theaet.  p. 146. B. a\Ad xwy fittpaodcov  xwa xtXevt dos dxoxplredUca.  Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy iSear  xdvv xaXoS, ubi papdxtov  praecedit,   avxo S <%E P gj S. Phaedrus  neminem adeo mala indole cen-  ' set esse, quin ab ipso Erote ad  virtutem propelli possit. Quae-  ritor, quid sibi velit avroS pro-  nomen hoe loco? Fischerns com-  mode explicari censet, si oppo-  sita existimentur praecepta vir-  tutis, leges, educatio atque quae Cap. m   Kai fftjv viriQcoto&vrjaxuv yi fiovoi l&iXovGw ol  tQavreg, ov (lovov ou &vdQsg y dUa xal cd ywaTxeg. praeterea ad virtutem adducere  possint. Hac explicandi ratione  num minas otiosum pronomen  censes $ Stallbaumio visum est  ita frigere, nt corruptam cense-  ret atque in ovxgdZ immutandum;  verba convertit idem : Nemo   adeo malus est, quem AMOR non possit tanto incendere virtutis studio,  ut vel optimo nihil cedat.  Sed ipsi huic sententiae inest,  quod admodum displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem deserere posse Phaedrus praefracte negavit. Eius rei argumeutum  nura credibile est eundem Phaedrum hoc addidisse: Nemo adeo malus est, quem non possit AMOR tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo nihil ce-  dat ? Dicendam potias erat:  neminem adeo malum esse, quem  AMOR non revera incendat. Nihil mutandum est, et omnia  beno habent. Abstractum pro concreto positum est, h. e. , dei  nomen pro re, cui ille praepositus est. Sensus est verborum. Nemo, QVI AMAT, adeo mala in-  dole praeditus est , quin IPSO AMORE suo fortissimus fiat atque  iis simillimas, qui optima indole  gaudent fortissimique sunt non amore, sed natura ad virtutem docente. Annotat Riickertus ad  h. 1.: ttvtoS o"Ep<oS f ipse Amor,  h. e, hoc ipsum , quod  amat, etiamsi sit alio-  quin ignavus. Virum doctiss. in huius loci rectiore explicatione  nobiscum consentire magno cum  gaudio vidimus. Ceterum monemur hoc loco de verbis Alcib. II.  p. 1 88. B. : Ovxovy doxei <5ot  sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti-  65ai y uncos pjj XrjtSet xis avtov  eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov  6 ayaSa ; oi £fol tvxgoGiy  iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y  diSoadiv avxol a xif evxope-  voS xvyxdvei; Frustra Buttra.  ad h. 1. libenter, inquit, care-  rem voce avxoi . Sensus est:  Nonne igitur magna cautione tibi  opus esse videtur, ne forte aliquis bona precari opinatus, maxima mala sibi expetat? diique  ita morati sint, ut qui ipsi, h. e.,  nullis precibus moti, faciles, mit-  tant, quod quis sibi expetat?   o Uqnj "OprjpoS* Laudavit  Fisch. ad h. 1. Hom. II. x. 482.  r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>-  *A5Tjv7j. et II. o , 262. cj $  tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya.  itoipkvt A ocoSy. Iu sequentibus  Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS. .  p. 825. ob praecedens ivioiS  xqjy yptooav scribendum coniecit  toiS ipcodi ita6i i tap£x et *  Frustra, Non enim quaeritur,  utrum omnibus an paucis quibusdam hoc praestet Eros, ut  fortes fiant, sed de ratione agi-  tur, qua ad virtutem AMANTES impellantur. Neque verum est,  omnes AMATORES ad VIRTUTEM [andreia] impelli AMORE etiam ii  amant, qui natura fortissimi sunt,   5     tovtov 6's -mu tj lltXiov dvyarrjQ "JXxtjUne Lxavriv fiaQ-    ut illo Erotis impetu lucile indigeant.   y ty v apev ov rcap avtov.  Omisit haec verba Schleierm. in  conversione: Ia gewisa was Ho-  meros sagt, dass c inige der Hel-  den eiu Gott mit Muth beseelte,  das leistet Eros den Liebenden.  Neque aliter FICINO: hoc AMOR AMANTIBUS efficit. Verba non otiosa sunt, indicant euim, eam vim esse atque potestatem avxov  tov ipdv, ut ignavos virtute  augeat. Pertinent uutem ad praecedens Tovto, a qua voce scri-  ptor eadem seiunxit, ut eorum  vim augeret, vid. ad. p.,178,- C*  d yap Xprf av 5 peon 01S ?}yeb  6Scn navroS xov (iiov xolS  piXXo vtil xaXaiS (iicStie-  6$ai> Adde Pl. Cratyl. p. 423«  fin. el xiS avxo xovto pipeitfSai Svvaito, kxaCxov t^v  ovdiav h. e. venn jemand es  selbst nachabmen konnte, ich  mei ne, die Wesenheit von ie-  dem. Convertenda verba nostra  sunt : Das gewahrt Eros den Liebenden, and zwar unmittelbar aus  sich.   xal pyv vn epan o%vy -  6xeiv ye. De nat pyv — yk  particularum potestate supra dictam est ad p. 64. Solent eaedem adhiberi, ubi commemoratur,  quod aut praeter exspectationem  accidit, aut qnod fidem superat  hominum, aut in rebus summae  gravitatis* Apprime igitur commotiori animo conveniant Phaedri, qui has maluit, quam consequentiae particnlas adhibere,  quarum usum orationis conformatio flagitare videtur. Debebat  nimirum Phaedrus, laudata Erotis  vi, sic pergere proprie; Hinc  £eri solet plerumque, ut soli AMANTES.  clXXcl xal ai yvv atxeS .  Hanc lectionem, quam verissimam  ducimus, Clark, exhibet aliique  codd. non pauci. Satis notum  est, Graecos substantivis duobus,  quae pariter definita atque per  ov povov — a\\d xal , ovx  oti — aXXa xal sim. coniuncta  sunt, aut addere articulum duplicem, aut demere. Sic in Protag. p. 342. D. legitor! eidi  iv zavxaiS xaiS noXediv ov po-  vov avdpef ini naidevdet peya  tppovovvxes, aXXa xal ywatxtS  h. e. ut viri, ita mulieres «...  scribere etiam potuisset Plato  nullo sententiae discrimine ov  povov ol avSpeS — aXXa xal  ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II,  9. 8. ovx^oti povoS 6 Kpixcjv  iv 7/dvxia rjv , aXXa xal ol  qjiXoi avxov. Ad huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens,  cum legeret aXXa xal al yv-  vaixeSy nostrum locum hoc modo  emendandum censuit: ov povov  oi avSpeS, aXXa xal ai yvvai-  xtS , qua coniectura sanissimus  locus corrumpitur manifesto. Sive  addis sive demis in huiusmodi  locutionibus duplicem articulum,  eiusdem dignitatis, pretii, pon-  deris substantiva esse indican-  tur, quae per ov povov , ovx  oxi — aXXa xal coniunguntur. Sed quoniam feminae viris  multo debiliores sunt, Phaedrus, quo gravius vim Erotis extollelet, feminarum nomen pondere  praevalere hic voluit ita, ut non  viri solum, sed quod mirere  magis, feminae quoque dicantur  voluntariam mortem oppetere.  Hoc efficitur addito ai articulo.  Eodem fere modo alteri substan-  tvqiclv inlg rovds tov A oyov etg xovg "EX-    tivo articulas additus est, omis-  sus in altero Alcib. I. p. 104.  B. cap. IV. iav 6* ivSdde pi-  yi6xoS y ? , xal iv xols dXXoiS  n EXX7/6iv * xal ov pdvov iv  "EXX 7 / 61 V , aWa. xal iv x 01 S  fiapfidpoiS , 0601 iv xy avxy  7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas terras barbaros habitare, satis notum erat eo tem-  pore, quo Alcib. I. conscriptus  est. Ut igitur regnandi cupido,  qua Alcibiades teneretur, validius  emineret, praecedentibus iv "EA-  \r\6iv verbis barbarorum nomini  articulum scriptor adiunxit. Sen-  sus est: Wenn da aber in Attica der grdsste warest, meintest  du es auch uuter den iibrigen  Griechen zu werden, und nicht  allein unter Griechen , sondern  was noch viel mehr sagen  will, auch unter deu Barbare»,  rfb viel deren mit uns dasselbe  Festland bewohnen. Adde Aelian.  Var. H. II, 41. p. 181. ed. Abr.  Gronov. KXeigo , cpa6iv , eis  dpiXXav lov6a ov yvvaiBX po-  vaiSy aXXa xai xois dvSpadi  ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/ itiziv  7/v xai ixpdzei itdvxcov h. e.  Kleio, wird erzahlt, konnte aus-  serordeiitlich trinken und wetteiferte hierin nicht blos mitWei-  bern , sondern , was weit mehr  sagen will^ mit Mannern , die  mit ihr dem Zechen ergeben  waren, und ubertraf sie.   xovxov — vitip xovde  xov A oyov, Schleierm. convertit : und dessen giebt una   schon Alkestis». die Tochter des  Pelias, hinlanglichen Beweis fur  diese Wahrheit ... Recte V. D.  verba servavit, quae frustra sunt,  qui expungenda censent. Heind.  ad Protag, p.471* locum sic interpretatur: ut huic dicto   fidem faciam. Heindorfio  Stallbaumius assentitur. Riicker-  tus ad h. 1. Nos sic, inquit, sta-  tuimus, si Socratis haec oratio esset, intolerabile hoc additamentum  nobis appariturum; quam Phaedri  sit, ineptum quidem esse et lan-  guidissimum , attamen consulto  posse a PJatone adiectum esse. Si scriptum exstaret xovxo di  xai 7 } TleXiov Svydxr/p x. r. A.,  sedulo interpretes tantum non  omnes annotarent: inceptae stru  cturae Phaedrum oblitum esse/  liuiusmodi confusionis exempla  plura reperirij Platonem h. J.  satis eleganter non praemeditatae  orationis indicium edidisse. Ao  possit sane commodius rotrro explicari, quam xovxov l sed  etiam xovxov bene habet. Revocandum nimirum hoc dicendi  genus est ad oratorum consuetudinem post apodosin praegres-  sam protasin repetendi. Vide quae annotata sunt ad p, 186.   B. Ut v. c. in Apol. Socr, p. 20.   C. dicitur: ov ydp di/nov   tiovye ovdiv xcov aXX&v  — itepixxoxepov itpaypa-  x ev opiv ov , inetxa xoCavxrj  tpt/pr/ xc xolI XdyoS yiyovEv> e I   xi £ 7cpaxteS aXXoiov  fj oi TtoXXoiy ita nostro looo quidni liceat oratori xovxov  praecedens verbis interpositis plu-  ribus ita repetere, ut simul ac-  curatius definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda sunt:  Hiervon giebt auch des Pelias Tocher, Alkestis, einen hinlanglichen Beweis liber das eben  Gesagte. Ceterum non nisi oratoribus, quorum interdum oratio altius exsurgit, neque vulgaribus prosae dictionis re- 5 •     JLijvasi i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg <xv8qo s ano-  C &uviiv , ovxav ccvta nccrgog te xal firjtQog' ovg ixrfvt)  toOovtov vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia tov "Equxcc, iSgre  anodilgai avtoi/g allotQlovg ovtag tgj viti xal ovognlis tenetur, hoc loquendi genu»  largiendum, a ceteris scriptoribus  prorsus seiungeudum est.   *AXxif6ttf* Schol. ad h. 1. ?}  nepl rrjs * A\xrjdxi8oS vnoSediS  TOUXVTTf T is idttv • 'AxoXXgoy  pxrjdaxo napa xcov Motp&v,  onatS d' v A8ppxoS xeXevxav peX-  Xcjv napadxp tov V7ilp tavxov  1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira idoy  xgj npoxipa) xp6vov &i6Q' xal  St) v AXxijdxiS 7] yvn) xov  x ov ineScoxer kavxt/r , ov8e xe-  pov tcor yoricov SeXpdavioS  vix ep xov naiSoS dnoSavelv.  Stalibaumius laudat Senec. ad  Hei 7. c. 17. Nobilitatur carmi-  nibus omnium, quae se pro con-  ioge vicariam dedit»   eis xovS "EXArjvaS. Vulgo  ad sequentia haec verba trahuntur»  Male. Pertinent ad praecedens  papxvpiav . Ceterum non assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv  dictum putari debet, sed cum vi  pro dativo positum est, ut Latine  reddi possit coram. Nimirum eis praepositio quoniam motum indicat ad finem qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit, uth.l, actionem  simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic inidffpoS elS  Stjpov eum denotat, qui se clarum insiguemque coram populo  fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat  is est, quem clarum populus  existimat atque laude dignum.  Hinc intelliges, h. 1. de actione  Aleestis sermonem esse, quae    dou tam populi laudibus incla-  ruerit , quam voluutaria morte  immortale virtutis testimonium  ipsa populo dederit» Exempla  si quaeris huius usus, e Stallbaumii penu depromam haec  Menex, p 239. A. noAXa 81 xal  xaXd ipya dne<pt)vavxo elS  navxaS drSpainovS xal idiot  xal Srjpodiqt, ad quem locum  vid. Engelh. anuot» ed. p. 260.  Protag. p. 312. A, dv 8± —  ovx dv aidxvvoio eiS rovS "EX-  XrjvaS avxov dotptdxpr nape-  X&v i Gorg» p. 526. C. eis 81  xat navv iXX oytpoS ytyore  xal eis xovS a\XovS "EXXrfvaS  ’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov , quo  loco yiyove cum eiS praeposi-  tione coniunctum est eodem  modo, quo 8id praepositio cum  dvveivat verbo coniungitur p.  176. D, ijpaS 81 8ici Xoyatv  aXXrjXoiS dvreirai pro rjpaS 8 i  8ia Xoyatv Siatpifirjv noieid^ai.  vid. ad p. 43. aunot*   l&eXjj dada povrj . De  ISeXeir potestate verbi dictum  supra est ad p. 44. De re ipsa  cf. Eurip. Alc. v. 15.  narras 8* iXeyZaS xal 8ie£,e A-  Sgdy tpiXovS  naxipa yepaiar 7 } dtp irixxe  prjxtpa,   ovx evpe nXrjr ywaixoS , yriS  7/$eXe   Saveir npd xeivov . »   rp tptXiqe, 8ia w Epoora.  Perperam minuscula littera exhi-  beri solet ipeoxa. Hoc enim AMANTIBUS Eros praebet idque    Bigitizdd bfCjodgFe :  pati povov itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x 6 Zoyov  ovxu xctkov i'So£ sv IpyatSati&ai ov fiovov av&Qcbjtoig,  akku xal Qeois , Se t£ itokkSv nokka xal xaku tQyaCa-  pivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv tdoGav xovxo ytQU g oi quidem ex «e profectam, ut soli  mortalium alter pro altero volun-  tariam mortem oppetant, quod ne-  que %vyy£veicc efficere potest, ut  Admeti exemplo docemur, neque honos et divitiae, quarum summam facultatem regi fuisse, quis  negabit? Restat, ut de <piXiqt dicamus, quae vox non nisi feminis  convenit et amasiis. Epav di-  cuntnr omnes non feminae, sed VIRI, qui amant. Feminae contra, ut alias, ita in amore viris debiliores habitae, et amasii, aetate iuniores, quam AMATORES, tpiXovdt  tantummodo , capi se ac teneri  patiuntur. Sic Antig. Sophocl.  t. 523.   ov x oi Gxxvki&eiY aXXa dvpqn-  Xeiv itpvr •  Amasii qnXlaS si requiris exem-  plum, p. 182, C. legitur oyap  jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap -  /xoSLov <piXla /UficaoS yeropivTj  TtareXvdey avr&v xr\y apxV v *  Adde p. 183. C. xal xu ipav  ■xal x 6 q>lXov$ yiyvedSai xolS  ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav  patet e verbis p. 180. A, Al6x v A oS 61 (pXvapei qxxdxaoY faiX-  A ia UaxpoxXov ipar , 0 * r\y  xaXXicoy x, x. A.   oj$xe artodeiZai avxovt  dXXoxpiavS, Ut ostenderet,  illos n fflio alienos esse et no-  mine tantum cogn atos , h. e, ut  efficeret, ut flHftiderentur tan-  tum esse cogtlJPPfacta comparatione eius umorft, quem ipsa illi  probavisset , et cognatorum, qui  noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare Scolion incerti  auctoris, quod in lacobsii Anthol.  Gr. T. I. p. 90. reperitar et quo iuvenis admonetur, ut non nisi  forti amatori sese tradat:  \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv  [tovS]aya$ovS <p(X.ei, [teUv] 8ei-  iA 6’ dxexov  yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P lSt   xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus, Wolfius,  Astins. Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS praedicatum,  cfr. Apol. Socrat. p. 18. A. 5x-  xadxov plv, yap avxrj aperi},  ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat,  de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj  xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif,  ei 81 fiovXetiZe, &voS ?/xei xa-  xoixiZdperoy. Ib, VIII. p. 829.  D. rovro aTio8i8dvxQov avtois  yepaS. de rep. I. p. 331* U»  ovx dpa ovtoS o poS Idxl  dixaiodvvris x. x. A,   (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x,  r.A. Rursum habes oratoriae di-  ctionis exemplum, quod^ prosae orationis leges h. e. ad  logicen examinatum summopere  displiceat. Scriptum enim exspectaveris: Atque hoc facinus cum patrasset, adeo  pulcrum visum est non solum hominibus. sed etiam  diis, ut, quod alias npu  uisi paucissimis, qui praeclaras res gessissent, tribuerent honoris loco,  idem admiratione' com-  moti facinoris huic concederent, # Sed si sententiae  Otol , ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v , aXX.a zqv Ixti-  0 vr/s aveiUav dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v   xcsgl x ov "Egena Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv.  exprimendae ratio, quae Phaedro  placuit, cum lodicis regulis minas convenit, habet contra, e rhetorica arte rem si iudicas, quo se vehementer commendet audi-  toribus, Cave igitur, hoc loco  quicquam mutandum censeas. Pro  alpyadpEvtoY, quae vulgata lectio  est, codd. melioris notae ipya -  Capkvtov habent, quod a Bek-  kero, Stallbaumio, aliis receptum  est. Recte, Aoristicum enim  tempus perfecto tempore multo  aptius hoc loco.   dWa xrjv ixeivrjS avet-  6av, Vulgo post aAAa legeba-  tur xal, quam voculam ex XXII,  codd. auctoritate recentiores edi-  tores omiserunt. Addidit autem  eandem aliquis olim, ut loco mederetur, quem uos quoque corruptissimum censemus. Quid  enim? Censent dixisse Phaedrum:  X)eos paucas quasdam animas ex  Orco remisisse honoris loco, sed  Alcestidem remisisse cum admirati o affari n oris ? Quid diiferuut  inter onoris loco et eam  admiratione facinoris, re- misisse et remisisse? Neque satisfacit Stallb, ad h. 1,  annotans: Ipondus huic sententia a  addunt verba ay a6$ £vxeS  xp Epyto, ut tota verborum  comprehensio possit explicari sic:  Hoc facinus eius diis adeo  '. probatum est, ut cum non  nisi paucis quibusdam cx  inferis redire concesse-  rint, huic non solam tri-  buerint hoc beneficiam,  sed cum admiratione tan-  tae animi magnitudinis concesserint. E duplice vitio locus laborat, sed facillima  mutatione utramque emendatur.  Alterum vitium in avewai latet,  pro quo dvikvat scribendam est.  Sensas est: Paucas animas passi  sunt dii ex Orco redire, sed  Alcestidem ex Orco remiserunt, Alteram iu dya6$ivreS  participio reperitur, quod, verissime annotante Ruhnkenio ad  Tim. L. V. Pl. p, 9, si nostrum locum excipias, nusquam apud Platonem cum dativo coniunctum reperitur. Scriptum antiquitus erat  aveitiavavayxatiSivTeS, Syllaba  nltima aveitiav verbi cum sequens  av absorbuisset, editum esse vi-  detur: aveldav ayxaCS&vxeS,   ex quo enatum est aveidav aya -  CSlvxeS. Haud absimili ratione  Phaedon, p. 78, A. cum'scripsis-  set Plato 5xt av svxatpdxEpov  dvaXldxoixe, scribarum incuria  exhibitum est dveyxaipoxepov  et dvayxaipdxepov. Serior manus ut uostro loco x, in hac  forma p expunxit , habentqne  Bas. 2. Bodl, Tub: Venet. avay-  xaiQxepov, Ad nostrum locum  ut revertar, sensas est verborum :  Wenigen, die viel Scho-  nes vollbracht hatteu, ge-  statteten dieGotter, um  sic za ehren, das, dass sie  wieder insLeben % zuriick-  k e h r e n konn t e n, a b e r   diese sendjjfepn sie, gezwangen d^Rn ihre herr-  liche That, an das Licht  zuriick. * Avayxa65kvx& con-  firmari videtur schol. verbis!  'HpaxXiovS lni8r}pr]6avxoS Er ?1    OQ<pla di tbv Olayoov ArtXrj aitintpiiav Zrfitiou,  <p<x(S[icc dellzccvteg zrjg yirvaixog, l(p ijv ipav> ccvzijv 61  ov dovztg, o ti iKtXftaKi&dftcn tdoxei , ars av xi^agadbg,    rg GertaXla SiaGcS&rat fiia-  6 ap iv ov xovS jfioviovS $e-  ovs ned depeXofievov xi)v yv~  vaina. Nimirum Phaedrus hunc  mythum pro consilii sui ratione  interpretatus est ita, nt Alcesti-  dis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque al-  teri substitueret*   ov t o nal Seol. Convertit  Schleierm, : So wollen auch die  Uotter den Eifer und die Tiich-  tigkeit in der Liebe vorziiglich  ehren. lloc foret ovt cd nal ol  $£oi, sed nusquam articulus re-  peritur. Sensus est potius: Sic  etiam ipsi dii summo honore  virile studium amantium dignum  censent.   1 Optpia 81 xor Oldy pov.  Stallb. annotat ad h. 1.: Etiam   iu hac narratione de Orpheo  quaedam insunt a vulgari fabula  discrepantia , quae Phaedrus aut  ipse pro consilii sui ratione im-  mutavit aut repetiit ab iis , qui  rem ita memoriae tradideraut,  ut facile omnia possent accoih-  modari praesenti disputationi. ndXitir a T ifioS 6 iv , nam^  ut cum Terentio loquar, quod habuerunt summum, pretium persolveruut illi.   (p u6 fi a 6 el&avT£$ xijS  yvv aixoS. Ovid. Metomorph.  X. 50.   Hanc simul et legem Rhodopeius  accipit heros  Ne flectat retro sua lumina, donec Avernas  Exierit valles, aut irrita doua fu-  tura    Carpitur ucclirus per muta silen-  tia trames,  Ardnus, obscurus, caligine densos opaca Nec procul abfuerunt telluris margine summae.  Hic, ne deficeret, metaens, avi-  dusque videndi  Flexit amans oculos: et protinus  illa relapsa est  Bracliiaque intendens, prendique  et prendele captans  Nil nisi cedentes infelix arripit  auras.   i q> tjv f/nev. Abest a co-  dicibus longe plurimis , c^uod  vulgo legitur hxoov post dtp i/v  positum. Qui factum sit, ut iu  textum irrepserit hoc verbum,  aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$ apa>8 6 S. Ci-  thara non paucarum chordarum instrumentum nativa hormonia-  ram varietate aures audientium permulcere quidem putabatur, sed  animorum robur paullatim infringere atque quasi colli quefacere.  Igitur quod de arte tibicinum  dicitur iu Piat, Gorg. p. 501. E,  xijv ijSovtfV — porov Sidtneiv,  aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv , idem   io citharam cadit. Qua cum usus  esset in Orco Orpheus, Nasone teste Metamorph. 10, 41,  Exsangues flebant animae, nec  Tantalns undam Captavit refugam, stupuitque Ixio-  nis orbis ,  IJec carpsere iecur volucres, urnisquo vacarunt  Belides, ioque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.  1  xcd ov roAfuev Evtxu xov "Egenos djto9vrjOxuv , ogafp  Alxt]<SXig, ulla 6iu[iTi%av&6&(H £<»v tlgiivcu elg "Aidov.  xotyagtoi 8uc xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul InoiTjaav  xov ftavurov avxov vxb yvvaix wv ytvt(S&cu , ov% d>gmg  Tum primam lacrymi* victarum  carmine fama est  fcumenidum maduisse genas , nec  regia coniux  Sustinet oranti , nec qui regit  ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge-  6$at visum esse eum , qui citharae adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse fortis  animi specimen edere atque Zvtxa  x ov "EparcoS mortem oppetere.  Ceteram maiuscula littera Erotis  nomen scribendam curavimus,  nam ut supra p. 179* A. ovziret  ovx av avroS 6 "EpcoS ZvSeov  XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum est, ita non  intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum cadat.   xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se conferunt,  e superiore loco in inferiorem  descendunt, pro eisitvai positum  exspectaveris eundi verbum cum  xata praepositione coniunctum.  Sed miuus h, 1. 1 regionis ratio  habetur, quam versus proficiscun-  tur, qui Orcum appetant, quam  xei, quaeuxn veteres Orcum com-  parare solebant. Petita nimirum  a sepulcris imagine, quae aedes  sunt mortuorum, Zv " 'Aidov sc.  Sopois et eis r Aidov sc. dopovS  dixerunt. Aedium autem notioni  tiSikvai et ZS,ikvai verba ap-  prime conveniunt. Igitur nostro  loco nulla ratioue habita regionis subterraneae tisikvoa dicitur  fis Aidov sc. dopovS. Simili  ratione paullo supra legitur areXrj    ait Zite pip av Aidov sc. 66-  pcov ; contra p. 179. C. Z&  a Atdov dviivai reperitur et dvei-  tiav sc, ZB, n Aidov. Adde Piat,  de rep. I. p. 527. xaxkfiijr  aiS Ileipaid , et paullo in-  fra 7tpoSEv%dpevot — anypey  itpoS zq a6rv.   xoiyapxot dia xavxa.  Haec verba ita posita sunt, ut  sive xotyapxoi sive dia ravra  omiseris, sententiae ratio prorsus  non mutetur. Cave tamen pror-  sus otiosum alterutrum verbum  existimes. Nimirum Graeci ac-  curatiori alicuius rei indicio prae-  mittere amant verbum latioris  significationis, tum orationem ut  expleant grata quadam ubertate  verborum, tum, ut adsit, cui fa-  cilius sequentia annectantur. Verba  convertenda sunt: Dahcr legten   sie ihm denn also wegen dieser  Schwache eine Strafe auf. Idem  dicendi genas paullo infra repe-  ritur p. 184. A. ovrcj df/ vito  xavtijS xrjS xtixiaS , .   xai Zitoirjdav xov $d-  vaxov. Nota vim xov articuli,  de qua supra dictum est ad p. 12.  ovxgj Srj iovxeS dpa xovS Xo-  yovS itepl avxdjv ZitoiovptSa.  Noluit dicere Phaedrus , deos  morte poetam puniisse, sed tan-  tummodo effecisse, ut eo tempore,  quo tempore Orpheo moriendum  esset , poeta a mulieribus inter-  ficeretur. Rectissime Schleierm.:  Deshalb haben sie ihm Strafe  aufgelegt, nnd veranstaltet, dass  sein Tod durch Wtiber cr-    £itif e a£y ^CTu  *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov ItlprjfSav xal elg fiaxagav E  i rijtiovg aitETtEprpccv , ort jtETivtipEvog itaga tijg {irjtgog , cog  ttttofta.voZto aTtoxTELvag "Extoga , (irj %ou]6ag di xovxo  o”xccd’ iX&cov yiiQcuog xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv Elt<5&ai folgte. Addo Symp. p. 195. E.   iv ydp 7 }$e6iy xtjy oixrjdiv  ZSpvxau   ovx <vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y . Hauc brevilo-   quentiam, quam vernaculo ser-  mone assequimur , Schleiermach.  aspernatus est in couversione :   9 Deshalb anch habeo, sie ihra  Strate aofgelegt — nicht ihu, wie  den Achilleus, deo Sohn der The-  tis, geehrt und in der Seligen  Inselu gescbickt. Recte Stallb.  orationem hoo modo explendam  esse censuit : aAA* ovx ixtprjdccY  avtoY £>S7tEp ^zAA^or , dv xal ei f paxapcov vijdovS dnirrepipav,  ori x. r. A. Legitur paullo in-  fra p, 189. C. ipol 8 oxov6iy  avSpooitoi — SvtiLaS dv rtoiEiv  pEyidxaS , ovx coSnep yvy rov -  tqjy ovSey yiyvsxai itepl avxov.  Exempla plura huius structurae  Stallb. collegit ad h. 1., Heind,  ad Gorg. p. 592. A. et ad Frotag.  p. 841. A.   eis paxdpGov vydovf*  De insulis beatorum vide Hesiod.  "Epy. xal 7/. v. 170.   xai xo\ piv valovOiv axrjSia  Svpov UxOYTtS  iv paxapoov vi]6o%6i rtap 'Elxia-   YOY fta^vSivTfY   oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi tjdiat   XCLpTtOY   rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet   SiDpoS apovpa   Multi fuerunt, qui in insulis bea-  torum Achillem versari narrarent.  Aliter Hom. Od. XI, 487., obi  Ulysi felicitatem Pelidae praedicanti respondet Achilles:  pr} 6rj poi Solyccxov ysrtapavSa,  <pai8ip 'O6v0dev,  fioyXotprjv x indpovpos Igov  STfXEVEpEY aXXcp  ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo*  xoZ izohvS eItj  i} itadiv yexve66i xaxacpSipi-  voi6i olv&6<$eiy %  Ad hos versus aetate Phaedri  haud dubie notissimos ille nunc  non respexit, sed aliorum testi-  monia praetulit, quae rem suam  melius probarent.   rtsitvdpivoS 7tapd x rjS  prjXpoS. Haec cum Homero  conveniunt, vel ex eodem potius  depromta sunt^ cfr. II. XVIIl.v.94.  ojxvpopoS 8rj jxaiy xixoS, iddeai.   oj^dyopEveis*  ocvxtxa ydp xoi Actito. peS*  n 'Europa 7tdxpoS hxolpoS.   p?} rtoirjdax 8b xovxo.  Haec est lectio vulgata, quam  ex VIII. codicum auctoritate in  pif artoursivaS Sb xovxoy im-  mutarunt Bekkerus, Astius, Stall-  baumius. Hoc certum est, veri-  similius esse, ad explicandum p?)  noir/daS dk xovxo margini ad-  scriptum, post in textum rece-  ptum esse pr} drcoxXElvaS 8b  Xpvxov f quam vice versa ad hoc  explicandam glossema fuisse pr}  itoirjdaS dfe xovxo. Fidenter igi-  tur vulgatam lectionem in textum  recepimus.   fiprjSr)<$a$ fw ipadxy  Jlax po x\<jp xal Xtpaprj -     180 (SoqQqiSas no tQaOTij TlarQoxkw xal rifiUQTjaces ou! fto-  vov vxEQUxo&aveCv , ulXa [xal] inaxoftavuv titeAevtij-  jtor i. o9ev St] ) ud vxtQayttO&Evug oi frsol St-atpiQotncog    6 aS, Wolfias ad h. 1. annota-  vit: Es kann fioySydaS nicht   vou einer wirklichen Hulfe in der  Schlacht verstandeu werden : deim  da Patroclus umkam , war seiu  Freund noch nicht wieder ira  8chlachtfelde , uud er erfuhr die  Nachricht davon erst durch den  Antilochus. Recte. Kai igitur  ante xipOJpljdaS explicativum est,  cuius exemplum paullo supra reperitur p. 179. D. xoiydpxoi  Sia xavra 8ixyv~ avxcp ineSe-  vav na\ ixoiydctv n. X. A. Adde  p, 179. E. ovx doSxep *Axi AA«x  tov xyS GixtdoS vldv ixipydav  na i eis pandpcov vrjdovS aniittpipav. Nostra verba conver-  tenda sunt: indem er dem   Patroclus beistand, d. h.  ihn rachte. Argutius quam  verius de his verbis Riickcrtus  iudicavit exsulto Phaedrum (ioy-  $EtV verbo usum esse censens.  Quum enim, inquit, non tulisset  opem Achilles , quamvis prope  abesset a certaminis loco , ne  quid probri iude videretur in  ' eum, quem laudaret, redundare,  abducendi erant ab hac cogita-  tioue quantum heri posset audi-  tores , id quod hoc ipso verbo  factum esse puto.   dXXd na\ iitcritoSccvetY»  Vitii aliquid haec verba contra-  xerunt nat addito, quod nullo  modo explicari potest. Titepa-  noSaveiv adhibetur, ubi aliquis  pro aliquo eoque vivente  moritor, ut Alceste mortua esse  dicitur pro Admeto p. 179. C.  &$e\y6a6a povy vitep tov  avxyS dvdp6*i dnoSav ilv .    'ETtaico^aveiv est : mori pro ali-  quo, qui iam mortuu*, est. Fici-  nus verba convertit: nec pro  illo mori solum, sed et  peremto illo interfici. —  Igitur utrnmquc fecit , et mor-  tuus est pro Patroclo super-  stito Achilles, et mortuo illo  morti se dedicavit. Phaedrum  aliud quid dicere voluisse certis-  simum est. Expungendum est  nat, quod uncis includendum  curavimus nimiae audaciae crimen  fugientes. Est autem ov povov • —  aXXd eius , qui alterum mem-  brum orationis, quod per ov juo-  vov commemoratur, negat, al-  terum probat se ipsum corrigendo.  Sensus est: non dicam vitepa -  itoSavetv, sed potius Inarto -  Savelv. Vide p. 11. de ov pev-  roi — aXXd et ov pivxot —  aXXa nat .cfr. Alcib. II. p.  142. A. 61 61 apidxa 6onovv -  xeS avxoov rtpdxxeiv , 6ia 7roA-  Xqjv mvdvvoov iXSuvxeS ncA  yjoficjy , ov pov ov iy xavry  xy Cxpuxyyict , a A A* , iitei eis  xyv tavzajv naryXS ov , varo  xgjv (SvnocpavxGbv rtoXiopnovpe-  vot itoXiopniav ovSiv iXaxx a>  xyS vrto xdov rtoXepiaav 6ie.xe-  Xetiav, vSre n. x. A.   o2e v 6?} na l — iitoielto.  Haec verba si abessent , nemo  opinor desideraret. Nihil enim  coutineut aliud, quam praecedeu-  tium verborum meram repetitio-  nem. Sed de industria haec re-  petiit orator, ut quanti a diis  aestimetur virtus amatoris , durius eluceret» Eadem de caussa,  atque ut exemplo demonstretur,  avtov Irliitjcsccv , oti xov lQaOtr\v ovtbj xbqI itoXXov  ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav ’A%Mtcc JJoxqo-  xAou iquv, fig r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov , aXkce amasiorum quam amatorum vir-  tutem maioris aestimari, paullo infra dicitur p. 180. B. : dia.   xctvxct xcti tov *AxiMict xrjS  'jJbtrjtiTiSoS paWov ixLptjOav,  eis paxccpav vrjtiovS dnonep-  iltavxeS ,   ovtco itepl rtoXAov. Du-  pliciter ovzcj vocula in huius-  modi euuntiatis adhiberi solet,  atque aut praefigi praepositioni  aut eidem postponi. Nou perinde  est, utram sedem occupet. Praepositioni ubi praemittitur, aut  ad praecedens dictum respici significat, quod eandem rem, quae  nunc commemoretur, enarratam  contineat, aut hominum opinio-  nem tangit memoriamve audito-  rum, qui bene/ teneant id, da  quo nunc agatur. Sic nostro loco  ovxcd nepl noXXov explicandum  est: quod amatorem, ut supra  dictum est, tanti fecisset.  Adde Piat, de rep. III. p. 391.  D. fiy toivw , 7 / v 6* £ya), p^re  rade neiSaopeSa , pyx' idjpev  Xiyeir, qjS QrjtievS Uo6ei6wYoS  vlds IletplSovS te JioS (Sppij-  Gav ovzcoS ini deivcis apita-  yaS x. r. A., quo loco ovxaoS  manifesto significat: ut homi-  num opiuio est, ut vulgo  putant. Minus recte igitur  Stallbaumius ad h. 1. annotasse  videtur: ovzcoS ini 6eivds ap-  itayaS h. e. i<p ovxco detrds  apnayds. Non aliter explican-  dus est tovus Xeuoph. Cyrop.  II. 2. 13» fin. opcoS ovzcoS iv  TtoWii dzipia ijpdS ixeiS, ubi  ovzgoS convertendum est: ita,  ut nunc facis, ut facientem te videmus, cet. Contra  praepositioni postposita ovzcoS  vocula proximum verbum ita extollit , ut additamento opus sit,  qno illud accuratius definiatur.AitixvXoS cpXvapei .  Phaedri oratio ad eum finem ten-  dit, ut Achillis allato exemplo  probetur, deos amasii amore ma-  gis delectari, quam amatoris fide.  Factum autem tragicorum fabulis  erat , ut homines illo tempore  Achillem amatorem non  amasioui Patrocli putarent.  Priusquam igitur eo, quo tendebat, Fhacdri oratio pervenire pot-  erat, illa hominum opinio corrigenda erat et emendanda. Hino  verba Aidx^XoS. 6e — "OprjpoS  necessaria ad rem censenda sunt,  /ruslraque fuerunt , qui ea ex-  pungenda censuerunt,Valckenarius  ad Euripidis Rell. p. 13., Wol-  fius, Beckius, alii.   xal iri ayivetoS. Pulcherrimum omnium Achillem  fuisse discas ex Iliad. p , 673.  NipevSy ds xaXXiGzoS avijp vno  "IXiov tjASe  Z(2v aXXcov docvaoov, per dpv-  pova IhjXelcova,  Patroclo iuniorem verba indicaut  Iliad. A, 787.   x ixvov ipoy , yevey p\v vn ap-  te poS idziv 'AxiXXavS,  TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, '  Adde Od. A, 469.   AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos  re Sipas re  rcov dXXcov davadiv, pex apv-  povcz IbjXeloova .  Imberbem adhuc fuisse "nusquam  apud Homerum indicatam repe- M     xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos , Ixtita vtta-  TEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj ovxi (iu-  kiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI  B xbv "Eqara , fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal  ries. Hinc factnra est, opinor,  ut Riickertus lectionem vulgatam  revocaret atque in textum reci-  peret d\ X dpa xai. Colligebatur enim, inquit, magis ex Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque adhuc imberbem) quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile dpa voce caremus, quam  optimae notae libri non agnoscant. Efficitur enim verbis (*>S  <pr\6iv "OfirjpoS, quae cum prae-  cedentibus htEixa vearcepoS itoXv  arctius coniungenda sunt, ut  Phaedrus non nisi de aetate  Achillis poetae testimonio usus  esse videatur, pulcrum autem im-  berbemqne eum vocet ©x artili-  cum statuis indicium capiens.  Hae statuae imberbem, ut constat,  Achillem repraesentabant, barba-  tos heroes ceteros, v. c. Hectorem, Agamemnouem, Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas xal Ixt dyivEiof; ama-  sius non nisi imberbis pulcher  habebatur. Verba convertenda  sunt: Aeschylus aber faseft, wenn er sagt, dass  Achilles der Liebhaber des Patroclus sei. Er war  nicht blos schoner, ais  Patroclus, sondern auch  schoner, ais alie Helden,  und noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Ho-  mer es ausdrucklich bezeugt. %   aWa yap rcu ovxi. Re-  ctissime Stallb. monet, verbis de-  letis Aldxvtos , di — "Owpof,    non aXXa yap , sed xal yap  ponendum fuisse. Indicatur autem  aAAtr yap particulis, Aeschylum  ne ita quidem Homericam narrationem pervertisse , ot Achillis  laudem augeret facinusque eius  clarius redderet. Nam deos lau-  dare quidem et admirari virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et laudare amasios, qui  pro AMATORIBUS mortem voluntariam oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w EpGoxa.  Haud raro accuratiores definitio*-  ues verborum a verbis, quae de-  finiunt, seiunguntur plurimis in-  terpositis verbis augendae gra-  vitatis caussa. Vide quae ad  p. 66. annotata suut. Conver-  tenda verba sunt : Dic Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz  ausserordentlich , ich meine  die, welche der Liebhaber zu  haben pflegt ; cf. Piat. Hipp. M.  p. 294. A. 7/pEiS yap nov ixuro  igrjxovjxev , go n dvxa xa xaXa.  Ttpdypaxa xa\a t itixiv , ooSTtep  c5 jectvxa ta peyaXa itixl px-  yaka> xqo v7C£pix oyr u   $av paZovd i x al dy ar-  tat xal ev itoiov 6iv sc. xav-  r rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor  "Epwxa. Ceterum ayadSai ita a  SavpaZEiv verbo differt, ut admi-  rationem cum laude coniunctam  exprimat. Bene Schleierraacherus  in conversione verba t reddidit •  weit mehr jedocb bewundern  und loben und vcrgelten sit  es dyarttji . Quoniam in sup«~    zr Ninos ion.  77    IV xoiovdiv, orav 6 inwatvog tov iQa<St)]v uyanu i}   OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt. &SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS Ttca-  dixmv ‘ iv&eog yaQ ion. dia xavta xal tov 'AydXia tijs  'AXxrjOndos palXov itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an o-    rioribus de significata verborum  diximus ipav et <pi\tiv , iam  videamus etiam de notione aya -  rtav verbi. Mediae est autem,  quod vocant, significationis ver-  bum, maiorem quam (piXEiv, mi-  norem , quam ipav potestatem  habens. Hinc raro adhibetur,  ubi de vero amore sermo est.  Legitor autem apud Xenoph.  Mem. I, 5. 4. x a S” TtopvaS  dyanoovxa pdXXov t) xovS  kxaipovS. Piat. Dion. 4. p. 175.  itpiXt/daXE CtVXOY <*)$ TCCttEpOC  xal i/ y a 7Cij doct e gjS ev e p -  yijxrjv. Symp. p. 181. C,  ro <pv6ei ipficopEYEdXEpoY xal  vovv paXXov %x ov dyan&vTE?*  Videtur ayaitav verbum circum-  scriptum esse iu Simonidis dicto,  quod legitur Piat. Protag. p. 345*  D. mxvT aS 81 Inalvrjti i xal  tpi\hx> irtwv oSTtS f.pSy /vjSlv  al^xpov. Nostro loco Phaedrus  hoc verbo usus est , quia neque  <pi\eiv neque ipav ad ntruraque  enuntiati membrum h. e. ad AMATOREM et ad amasium referri poterat.   $ siot e pov ydp ipa-  6tyj S itai8txd>v. De neutro  genere StiotEpov verbi vide quae  annotota sunt ad p. 176. D. ott  XaXEito v xoiS dvSpcoiroiS 7/  idxlv. Sententiam quod  attinet, cfr. p. 179. A. ov8e\S  ovxod xaxoS , ovxiva ovx dv  avtoS d "EpoaS ivSeov itoirj6Ete  xpoS dpETtjv , dpoiov slvai   tc5 dpidxcp <pv6ei , quae verba  in amatores tantummodo , non  item in amasios dicuntur. Ce-    terum otium nobis fecit Riickerti  unnotatio ad h. 1. , ed. p. 46. :  Phaedrus sic est ratiocinatus :  qui amat , non suo , sed divino  impulsu agit , est enim ZySeoS;  contra qui amatur, eo caret, Iam  qui alieno et quidem divino im-  pulsu agit , ei facilius est , magna  perpetrare , praesertim amanti ,  qui non potest non subvenire  amdto , quam ei , qui huiusmodi  incitamento caret . Atqui quo  difficilius cuique est praeclare  agere , eo maior virtus est , si fe-  cerit i igitur qui non amat , maiore dignus est admiratione , quam  qui artiat * Sola enim caritate   facit id, quod amatorem ut fa-  ciat , vis divina impellit , —   tov 'AxtXXea xrjs 'AXxi]-  6xi8o$. Interdum ipsas femi-  nas Erotis auxilio gaudere, cap.  VII. initio Phaedrus docuit. Recto  igitur scripsisse nobis videmur  p. 179. C. ovS ixElvtf xo6ovxov  vnepEffdXexo xy ipiXint 8id xov  w Epoora, c oSXE x. X. A. Alcestis  enim et ipsa UvSeoS. Minoris  autem a diis Alcestis habebatur,  quam Achilles , nam illa Erote  ad mortem ducente mortua est,  hic pietate erga Patroclum motus,  mortem oppetiit.   ovxoo Srf HyatyE. Aliquot  codd» habent ovxui 81 ) xal fyooye  Mple. Iu sequentibus ter posi-  tum est xal, ut epitheta Erotis,  quae dei laudem efficiunt, signi-  ficantius extollantur. Comparari  potest cum nostris verbis p. 180.  B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7   jr i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu *EQ(oza %mv xccl ttqe-  C^vtcctov xal r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg aQETrjg  xa l Bvdatjioviag xr rjow av&QaTtotg xal £c5oi xal zeAev-  %r}<Sa(Siv.    xal ayavxcn xal ev iroiovdiv .  Sensas est: Hac igitnr, qua dixi»  ratione equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum  esse ct honoratissimum et ad vir-  tutis felicitatisque assequendam  frugem et viventibus et mortuis  auctorem potentissimum. Sed  ipsa haec verba mirum est, quam  male cum praecedentibus conve-  niant. Etenim Phaedrus cum  dixisset : maioris aestimandam   esse virtutem eorum, qui nullo  Erotis auxilio adiuti fortes se  praebuerint, quam quorum virtus  non nisi divino quodam instinctu  quasi excanduerit, num recte ita  perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi  n Epcoxa $£gov xal npedfvxazov  — xal xvp iGoratov elvai  eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x. A.   roiovroV xiva Xoyov.  Vide ann. ad p. 15. Sequentia  verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phaedrus   wiiren einige andere an der  R e i h e gewesen. Pactum nimi-  rum erat, ut eodem ordine, quo  sederent, convivae placita sua  proferrent, cfr. p. 177. D. 80-  xel poi xPV vat exadxov \6yov  etostr inauror "EpcoxoS ini 8e-  Btiu — apxeir 8\ <Pai8por npco-  T or. Sed non verisimile est, in-  ter Phaedrum Pausaniamque lo-  cum habuisse omnes eos, quorum  orationes ab Aristodemo praeter-  missae sunt, vel quas Apollodo-  rus, quippe memoria non dignas,  oblitus erat. (cfr. p. 178. A.  nav Tcav pkr ovr , a ZxacdxoS  elnev, ovxe navv 6 *Apidxo8ij-    fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o  IxeivoS iXeye, Ttavxa). Igitur  Riickertus in uberiore expositione  convivii p. §61. quaesivi , inquit,  doctus videlicet nihil negligere  zn Eia tonis libris , in quibus  haud raro res gravissimae ad  perspiciendum scriptionis consi-  lium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendae sunt, cur hoc loco  omissionem Aristodemus indicas-  set , ceteris reticuisset . Et olim  quidem mihi risus sum reperisse ,  aliter tum etiam statuens de  ipsis orationibus , in quibus tem-  poris quendam ordinem observari  putabam , quo singulae, quarum  placita proferret, sectae sese excepissent philosophorum . Post,  mutata sententia rursus eo de-  ductus sum , ut nescirem . Com-  mode possis hac ratione hanc  rem tibi explicare, ut Aristode-  mus quidem, qui Symposio inter-  fuit, accurate locos indicaverit,  quibus locis et aliorum et suam  ipsius orationem omiserit, ut  Apollodorus autem satis habuerit  memoriae mandare, quid convivae  dixissent, nou item mente te-  nuerit, quo loco quorum oratio-  nes ab Aristodemo non repete-  rentur. Ut tamen aliqno modo  commemorandarum orationum  paucitatem excusaret , Phaedri  relata oratione alios quosdam  fuisse nniversim narrat, quorum  orationes Aristodemus non retu-  lerit. De sua ipsius memoria  tacet, quamquam panllo supra  p. 178. A. in minatis rebus de-  biliorem confessas. Cap. VIU.    #>«[(5(301' fiiv toiovtuv riva Ivyov hfn) tlxuv, fi Era c  Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca, uv ov nciw die^vtj^i-    tuv ov itavv 8 1 tfivi; fi 6-  vevev. Comparari cum his pot-  est Piat. Lacii, p, 189. C. iav  81 fiitaB,v dXXoi Xoyot yiv cov-  xaiyOv ndvv jiiyvTjycn, ad quem  locum Engelhardtus de oi3 itayv  vocularum potestate disserens h.  e., inquit, plane non recordor.  Sic ov ndvv saepissime} cfr.  Theaet. p. 156. C. , Phaedr. p.  228. E,, ul,, nec non in respon-  sis, v. c. Xeooph. Mem. S. III'  i , 12. Eodem modo latinum  non sane saepe idem siguificat,  quod ov ndvv i. e. plane  noni de quo vide Heindorfium  ad Horat. sat. II. 3. 138., p. S04*  Ov ndvv xi autem non satis,  non sane multum explican-  dum esse videtur, cfr. Locian»  Contempl» I, p. 506. elni pot,  Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ;  ov ndvv xi i. e. non sane mul-  tum. Piat. Eutyphr. init, ovd  avxoS ndvv x i yzyvcodxco, to  EvSveppov, r ov av8pa i. e. ne-  que ipse hominem satis novi. Pronomen indefinitum quod attinet, certum equidem esse reor,  xi in huiusmodi enuntiatis non  ad ov ndvv pertinere, sed ad  verbum finitura. Quis enim ne-  get, ut ad Eutyphronis locum  modo laudatum revertar, Graece  dici yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa ,  ut rectius Platonis verba convertenda sint: ne ipse quidem ma-  gnopere usquam hominem novi.  Luciani verba ov ndvv x t converterim : non sane usquam  sc* reperitur. Rectissime autem  Stallbaumius io annotat, ad verba    ApoL Soc^ p. 41. D. p. 95. ed.:  8id rovxo xal £ph ovSapov  dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal Hyaoye  xoiS xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal  r oiS xaxtjyopoiS ov ndvv X a ^~  natvcd h. e. haud sane, non  magnopere, nicht eben, qua formula nos qooque cum  Elpcoviict loquentes gravius ne-  gare solemus. Haec, quam  Stallbaumius laudat, ov ndvv  vocularum uotio apprime ad no-  strum locum quadrat. Apollodo-  rus nimirum alios quosdam fuisse  narrat, qui Erotis laudationem  edidissent, factum autem esse il-  larum laudatiounm mediocritate,  ut earum non magnopere recordaretur, Earum autem pror-  sus oblitum ne fingere qui-  dem tibi Aristodemum possis,  qui Phaedri, Pausaniae, aliorum  orationes memoriter recitarit.  Restat , ut dicamus de Lachetis  loco supra laudato, qui sane do-  cere videtur, ov ndvv significare  prorsus non. Verba sunt  haec : iycj ptv yap xal iniXav-  Sdvopai 7/6 tj xd noXXa 8ia xrjv  rjXvtlar (Zv dv 8ictvo7j^d> £p£-  6$aij xal av d dv axov6a).  iav 81 ptxat,v aXXoi Xoyot yi - *  vgoyxoci , ov ndvv pipvrjpau  Nonne frigidissimam conversio-  nem censes hanc: Ich pflege   namlich Alters halber immer das  meiste zn vergessen, was ich im  Sinne habe, sie zu fragen , and  so auch , was ich hore (h. e.,  was sie antworten)* Falleq aber  noch qndere Erdrterungen da-  zwischen, so erinnere ich mich   vevev * ovg TtccQELQ tov Jlavdavlov Ao yov dirjyeixo. slitelv  d’ av toVy ot l   Ov fcaktog f 101 6oxtl y o5 <&ai$QE, XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6  nicht eben leicht des Vorigen? Multo nptins lectores censebunt Lysimachi verba converti:  Fallen aber noch andere Erdr-  terungen dazwischen , so ist es  mit mei nem Gedachtniss g a n z-  lich aus. Sed neque Haec con-  versio recta est, neque omni ex  parte Platonis verba recte exhi-  bentur. Maior interpunctio post  axovdco poni solet, pro qua si  comma posueris, optime sibi re-  spondentia verba habebis irti-  Xav^dvopai ra itoWa et ov  itavv fiipytffiat . Lysimachi   sententia haec est: Denn ich vcr-  gesse Alters halber das Meiste  von dem, was ich im Sinne habe  sie zu fragen, und erinnere mich  wicderom nicht an das, was ich  hore, d. h. was sie auf meine  Fragen antworten, besonders wenn  anderweitige Gesprache dazwi-  schen fallen»   tov JJavdaviov Xoyov.  Phaedrum , qui iracrj/p tov A o-  ; yov vocatur p, 177. D. , Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore definitione usus Erotem laudandum proposuerit. Etenim  ut duplicem Aphroditen, ita Erotem duplicem esse, ut Phaedrus,  si recte atque ordine habendarum  orationum materiam edere voluis-  set, anto indicasset, uter Eros  laudandus sit. His praemissis  Pausanias in utriusque dei natu-  ram inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat, contra summis laudibus extollendum Uraniam  existimat. Idem iudicium opti-  marum civitatium legibus, quae sint de AMORE, probari censet. Athenienses enim et Lacedaemonios Erotem per se spectatam ne-  que laudandum censere nequo  contemnendum, sed accurate sem-  per cognoscere studere, virtuti»  an voluptatis studio AMATOR AMASIUM AMET, AMASIUS AMATORI se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et probare et laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania paucissima  sunt, quae scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam e Protag. p.S15. E. colligas. Adde  Xenoph. Symp. c. VIII. §. 32.  Scholiasta, cuius verba laudavi-  mus p. 50., Agathonem amasium  fuisse tradit Pausaniae tra-  gici. Aelian. Var. Hist. II. cap. 21. narrat, Pausaniam una cum Agathone apud Archelaum regem  vixisse : tls *Apx £ Aaou icotk ctcpi-  xovto o te ipadtrjs xoci 6 ipri-  fiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo  vide annot. p. 8. Dixit autem  Aelianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov  eodem dicendi compendio, quo  eif *Ai6 Ov dici solet, quae ra-  tio dicendi Aristophanis aetate  ^ fortasse usitatissima ansam dedit  comico diverticulum illud elu-  dendi Ran, v. 83- Ceterum non  minus, quam Agathonem, Pausa-  niam mollitiei atque luxuriae de-  ditum fuisse, ex eius apud Ar-  chelaum tyrannum diverticulo  coniicere possis*  r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A.  b. e. definitione addita  nulla, tam simpliciter,  sine ulla explicatione accuratiore. Quaeritur, stru-   loyos, ro ecxAag ovra xceQyyyel&ai lyxmfuaguv “Egcora!  fl filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g, xaXug av sl%s. vvv SI —  ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog, 6q&6z£qov Ioti    ctnram verborum quod attinet,  utrum nominativo an accusativo  casu posita haec verba rectius  accipiantur. Ut verba vulgo ex-  hibento?) nihil certius esse reor,  quam nominativum casum unice  probari posse. Efficiunt enim  X 6 anXcoZ ovtcoS verba praece-  dentium verborum appositionem:  Nicht gut scheiut mir, o Phaedrus, die Aufgabe gestellt zu sein,  namlich so schlechthin aufzuge-  1 ben, den Eros zu loben. Neque  probaverim accusativum casum,  qui Riickerto placet» Caussam enim, inquit, proponit, cor non  recte proposita dicendi materia  sit, quatenus cet. Nimirum  hac structurae ratione frigidiorem orationem effici censemus  atque sedatiorem , quam quae  Pausaniae, homini inprimis ipco-  xixfi , conveniat. Fortasse hoc  modo Pausaniae verba scribenda  snnt, ov xaXc jS poi Soxei , gj  $alSp £ , 7tpofi£ft\f/6$cti ijjiiv 6  XoyoS • ro anXoaS ovtoo napr\y-  yiXScci iyxcopia^eiv " Epcoxa !  qua verborum distinctione quan-  topere vi augeatur totum enun-  tiatum, sponte apparet. Habes  enim vituperationem Phaedri  coniunctam illam cum indigna-  tione summa, quam per me licet  etiam irrisionem interpretari: Wie  kann man nur so schlechthin die  Aufgabe stellen, den Eros zu lo-  ben ! Atque, si quid video , haec  natis malitiose a Pausania pro-  feruntur ita , ut ad praecedens  Phaedri dictum comparentur p.  177, C. io ovv xoiovtov phr  itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k pT}8ha ita> av - SpQOItCDV TEToXflTjxlvai tfe XCCV-  Ttfvl xrjv rjpkpav aZlooS vjuvtj -  Coa! Ceterum iu aliquot codd*  non malae notae ovtgo? exhibetur, quam formam h. 1, unice  probamus» Sed fusius de ovrvt  et ovtgdS formis infra disputaturi sumus.   vvv 8h — ov yap l6xiv  sis* Haec verba sunt, qui nno  tenore pronuntianda censeant; v»  c. Engelhardtus ad Apol» Socr*  p. 83* B. p. 221. ita iudicat, nt  nullam prorsus omissionem verborum Graecos sensisse statuat»  Sed neque hoc indicium proba-  verim, neque vero iis accesserim,  qui vvv dh — ov yap verba li-  neola apposita disiungunt, vide-  licet ut esset, quo legen-  tium oculis «aposiopesis*  indicaretur. Aposiopesis enim  non nisi in iis locis reperitur, in  quibus aliquis ita commoto animo  loquitur, nt pauca verbis expri-  mat, cetera legentibus divinanda  relinquat. Non igitur aposiope-  sin agnosces in verbis : Hoc   vidi, neque vero illud, aed  omissionem praecedentis verbi fi-  niti, quod, quoniam facillime e  praecedentibus suppletur, ne nimia abundantia oratio laboret,  lectoribus supplendum relinqui-  tur, Idem in nostrum locum cadit, ubi, cum praecedat xaXcoS  av £?££, facillime post vvv da  suppletur ov xaXcoS $X ei - I an *  quid differat aposiopesis ab  omissione verborum, quam  'ellipsin vocari licet, statim ap-  paret. Aposiopesis reticentia  P •xaotEQOv xgo^QTj&rjvai vxolov det Ixcavuv . lya ovv nu-  » p«(Jof(«t tovto ixavoQ&uOaO&aL , xqutov fiiv "Egara  eorum est, quae aliquis additurus rebatur potius, uter eorum laucrat , sed propter ammi comraodandus esset, quam qualis esset  tionem disertis verbis non ex- is, quem laudari oporteret. R ii Im-  pressit; ellipsis contra elegantem kert.   verborum omissionem indicat, inavopSudatiSat. Hu-  quae in praecedentibus leguntor, ius yerbi potestatem Ficiui conet quorum repetitio foedam quau- versio non satis assequitur: hoc  dam abundantiam dictionis eifi- itaque emendare conabor,  ceret. Ad nostrum locum ut re- Ea nimirum ini praepositionis  vertar, lineolam post vvv 8e cum verbis compositae vis est,  verba ponendam curavimus, ut ut aliquid post aliquid fieri  e praecedentibus verbis aliquid significet, cfr. p. 180. A. oti  supplendum esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS prjxpoS  Simillimus nostro loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo — ixoXprf-  p. 200. E. el fikv ovv iv xols tfev •— ov jiovov vnepanoSa-  SiaXoyoiS xols apxi iyco plv veiv aXXa inanoS av elv,  Itpdvqv elSooS , xooSe 81 p?) quo loco quid differant ano-  elSoxe , Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv ,  Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.  paxaXeiv' vvv 81 — opoicof p. 328. E. vvv 81 nbteidpai *  ydp itavxeS iv ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv,  pe$a, quo loco post vvv Se o 8f/Xov oxt TlponayopaS (ict-  supplendum esse ratio loci docet: 8la>S in ex 8 18 dB,ei , ineiSi}   ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa xavxa it,e8l-   7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS   vai . Haec. verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv  quadam posita sunt, quam etiam xdiv Srpirjyopoiv , xa% dv xal  Latini adamarunt dicentes : prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij  praefari. Simili modo supra IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov  p* 177. D. dicitur: apx £ ^v 8h Ixavcov elneiv * el inave-  4?al8pov n pdixov , neque no- poixo xiva xi, Gjfi tep (iifiXia  strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv ovxe dnoxpiva-  nere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai, aAA*  fendat conversio haec: Phaedrus iav rtS xal dpixpov inepta -  hahe zuerst den Anfang gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep  Nostra verba Schl ei erm ac heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov  convertit: dasi zuvor bestiramt rfx £ 1 xdl anoxeivei, iav prj  werde. Graecis verbis magis re- imXdfirfxai xiS , xal ol fiijxopeS  spondet: dass zuvor vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS ivxes 8o-  stimmt werde. Xixdv xaxaxelvov6i x ov Xoyov.   6 nolo v 8 el in aiv £iv ., Perscripsi totum hunc locum, ut  Nondum licebat oitoxepov dici, lectores e vestigio de Stallbaumii  s quia quot Amores essent, nondum sententia iudicare possent. Jn   erat definitum ; accedit v quod, his, inquit, vereor, ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quae- quod lateat. Quum enim in av t-   i ' i  (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv , insita Inaivioai a^tcag tov  &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv "Egazos    p £ 6% a i sit interrogare aliquid  praeter illa , quae ipsi oratores  dixerunt, haud scio an deinde  parum accurate dicatur In e p cj -  Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim  av EpGDtrj dp, h , e . interrogando denuo attingat,  Quamquam codices veterem lectionem tuentur omnes. -Nihil  mutandum est, et omnia bene  habent. f Enav£pid%ai est ali-  enius rei , de qaa paollo ante  dictam sit, caussam et rationem sciscitari. Enepcoxdv  contra eius est, qni audita qua-  dam oratione alicuius sententiae  sire repetitionem sive enarratio-  nem flagitat. Sensus verborum est:  lefzt aber glaube ich es, Nur  eine Kleinigkeit ht mir noch im  Wege, die Protagoras ^ gewiss  nachtraglich recht gut beseitigen  wird, da er iiber so Vieles mir  Belehruug gab. Wenn freilich  Iemaud iiber denselben Gegen-  stand mit eiuem der gewdhnlichen  lledner sich bespriiche, so mdchte  er leicht solclie Reden horen, sci  es von Pericles oder von irgend  einem andern, der zu reden versteht. Fruge dagegen Iemand  nachtraglich nach Grund und  Ursache irgend eines Satzes , so  haben sie, wie die Biicher, keine  Antwort und bleiben stnmm ; biito  Iemand aber um die Wiederho-  luug nur eines kleinen Satzes, so  sind diese Redner vrie Erz , das  lange klingt und tont, wenn man  es nicht anfasst, und geben ia  solcher Weise (vide ann. p. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco ovxco dpixpa positam est) auf eine kleine Frage  einen unendlichen Sermoo» Ad    nostrum locum ut revertar, verba  convertenda snnt : ich will nun  versuchen, diesen Fehler nach-  traglich zu berichtigen.   npootov 'jtlv " E p coxa.  <p p a 6 cci . Ne quis forte xoci  particulam desideret, qua haeo  verba praecedentibus commodius  annectantur: Sol ent Graeci,  verissime notante Stallbaumio ad  Apol. Socr. p. 22. A., eas sententias, quae aliis sub —  iiciuutur explicationis  causia, ita addere, ut particularum et conjunctio-  num vincula omittant.  Effici autem videtnr hoc asyn-  deto, ut gravitate quadam oratio  augeatur, quae addita xai par-  ticula prorsus evanescat. Hoc di-  cendi genus tam simplex est at-  que omnis expers artis , ut non  mirum, idem iam apud Homerum  reperiri, cf. II. a, 504. seqq.  coS zco y dvxifiioidi pax^dda-  peveo inktddiv  dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v  napa vsvdlv Axaiar.  IJqXeiSqS psv ini xXidiaS xal  vijaS ildaS  rfie, dvv re Mtvoixiu.br) 7ca\ oli  Ixcepoidiv *   9 Atptibr)i 6 * upa vija $or)v  aXabe npoipvddtv ,  is 6* ipirai i-xpivsv x. r. A.   Adde Phaedon, p. 91. B. Xoyi-  B,opai ydp, oo <piXe Ixcfipe. xal  Sioedoa gjS nXeovexTixtiS • tl  pev tvyxdret dXrjSrj ov xa cc  Xiyoo , xaXcoS 6t { xo nei-   dSrjvai* eI bl prjbbr idxi xe-  Xttrxijdavxiy dXX ovv rovxov  yt x ov xpovov avxdv tov itpd  tov Savatov ijxxoY xoiS na-  -6 * .    ’Aq>Qo6ltt]. (tiag (ilv ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt  8q 8vo Igtov, 8vo dvayxrj xal "Eqqhb tlvav. xag 8' ov    povdiv u7j6i} 5 Idopoa. odvpo-  ptVOf.   c tB,loo S tov 5eov. Haec  verba vario modo interpretari li-  cet. Possunt de elegantia lau-  dationis intelligi , de sinceritate  laudatoris» de laudationis veritate  cett. Sed horum nihil Pausanias  in mente habuisse videtur. ’A£UgjS  tovSbov esse: ita deum laudare,  ut nihil omittas eorum, qnae deo  conveniant atque ad praedicandam eius laudem pertineant, ver-  bis indicatur p. 180. E. a 8 ’  ovv huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov  Elireiv.   TtdvTsS ydp tdpEV*  Omne s, inquit, s c i m u s, Aphrodite n' non esse sine Erote.  Sed quod omnes scire dicuntor,  idem fieri interdum potest , ut  scire se opinentur tantummodo,  revera non sciant. Eandem igi-  tur argumentandi sive levitatem  sive audaciam habes hoc loco,  qua Phaedrus in oratione sua  usus est p. 178. B. yovijs ydp  KpcDToS ovt sidlv ovte Xiyov-  xai vit* ovSevoS ovte iSicorov  ovte noirjTov f ad quae verba  vide ann. p. 55. Cur Aphrodite  sine Erote non sit quaerentibus  variae caussae se offerunt, quarum  aut una vera est aut nulla. Eas  nunc recensere eo facilins omit-  tere possumus , quo minas ipse  ^Pausanias de caussis rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat. Ceterum  ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A.  Pausanias dicit, ita Socrates dissimulato ingenii acumine p. 202.   B. neti jnjv, inquit, ?jv 6* iycd 9  opoAoyeirai ye napd ndvxoov  pty/US etvai.   «    ptciS p\v ovv ovdtj S*. Ve-  teres editt. habent TavrrjZ 8\  pia* phr ovdrjS , quod fuerunt,  qui probarent. Sed non dubium  est, verissime notante Stallbau-  tnio, quin id grammatico alieni  debeatur. Bekkerns e codd. non  pancis piaS p\v ovdtjS edidit,  quod sane habet, quo magnopere  se commendet. Tantnm enim  ponderis enuntiationi, quae quasi  fundamentum eat totius disputa-  tionis, infert, qnantnm eidem ap-  prime convenire videtor. Sed  codd. optimorom auctoritas re-  spicienda est, qui coniunetivam  particulam exhibent. Probatur  eadem nobis etiam propter du-  plicem relationem, quae hoc loco  manifesta est, et de qua fusins disputavimus p, 22. et 2$. Pro-  prie dicendum erat: pia? p\y  ovdrjSf sii av ijv^Epwg' Svolv  8^ 8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj xal  EpcoTe slvaiy sed eandem enun-  tiationem etiam hoc modo cogi-  tari Pausanias voluit, E i p\v  pia Tfv , eU dv t/v^EpcoS- insl  <$?/ 8vo idTov , 8vo dvdyxrf  v.a\ "Epare elvai. Duplicem  hanc et nominum et particularum relationem mutuam indicare  Pausanias tantummodo potuit, non  item disertis verbis exprimere*  Indicatur autem ea, pkv vocnla  ad prius nomen apposita, 8s  autem cura posteriore particula  coniuucta ptaS p\y — iitEi dL  Sed hac scribendi ratione repugnantia quaedam exoritur singu-  larum orationis partiam , quae  addita alterutri sive nomini sive  particulae ovv particula mitigatur atque lenitur. Riickertus  ad h, I* ita disputat, ut Pausaniae  6vo Tio &ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l afi^rap,  OvQavov &vyutr]Q, tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv '    Teri) a corruptissima ceuseat atque  non nisi verborum mutatione sa-  nanda. Videtur enim , inquit,  haec ipsa varietas , quod alii  tavTTjS 8 i, alii ovv addide-  runt, argumento esse , antiquius  hic vitium latere , quod variis  modis sarcire stpduerint librarii. Itaque in mentem mihi venit olim,  essetne Platonis manus haec ;  *Aq>po8ixrf % j]S ytiaS plv  ovdTjS, Cui si quando acci-  disset, ut negligens librarius pro  *Aq> poSitjj ?fS scriberet *Acppo~  6 It rj S , Jieri postea non potuit,  quin ~6 abiiceretur, quo facto alias  coniungendi verba rationes iniri  oportebat, quarum ad nos duae  pervenerunt. Perscripsijhaec  verba, ne deesset, quibus nostra  displicerent, quo commodius Pau-  saniae verba explicarent.   7t 65 i 8 * ov 8 vo x oo $ ea.  Vulgo xa $ed; sed miuus usi-  tatum hoc apud Atticos ex prae-  cepto Grammaticorum. Eodem  xnodo reperitur rcJ 68 co in Piat,  Gorg. p. 524. A» Plura huius  loquendi usus exempla Matth.  congessit Gramm. ampl. $. 456.  1. p. 812. Ceterum haec interrogatio ex eo genere est, de quo  diximus ad verba c.VI. p. 60. Xkya  8tf xi xovxo; Mediae orationi  interrogationes immisceri haud  raro, ut vigor orationis structurae  mutatione augeatur, satis notum est. Hoc vigore, quem oratorium vocare licet, Pausanias ita utitur,  ut argumentorum absentiam obtegat, quibus duplex deae numen  probandum erat,   ?} pkv yk itov Ttptd flv-  tkpat, Riickerto yk particula   videtur non argumentationi, sed  expositioni ante dictorum inservire. Frustra. Quod modo annotatum est ad praecedentem in-  terrogationem, optime cum huius  particulae vi, quae est vis argumentationis, convenit. Rectissime  Buttmanni praeceptum ad Dem,  Mid. p. 46. laudavit Stallbaum:  Quum quis uno argumento ,vel  exemplo aliquid probat, potest  hoc ut suiliciens afferre : quod  fit particqla ydp ; potest etiam significare, plura quidem posse  desiderari , sed hoc unum satis  grave esse : quod fit addito yk,  certe, saltem. Restat, ut de  tcov particula dicamus, cuius po-  testatem non satis recte Riicker-  tus interpretatus est. Annotat  nimirum ad h. 1.; Addita part.  itov urbanitatis declaratio est , '  qua speciem exhibet qui dicit '  etiam de re certissima dubitatio-  nis atque ad lectoris assensum  provocationis . ' Non aliter Butt-  mannus de eadem vocula indicat  in Indic, ad Piat, Dial. IV. Be-  rol. MDCCCXXII, Sed quam  hi urbanitatem dicunt, equidem  in Pausaniae oratione arrogantiam  interpretari malim. Nimirum 7tov  vocula e dicendi genere ov xl  Tt ov depromta est, atque iu in-  terrogatione positum significat,  mirari atque indignari eum , qui  interroget, si quis aliter atque ipso  de aliqua re indicaturus sit» IIov  vocula igitur non tam wol con-  vertenda est, quam doch wol,  doch sicher, doch gewiss.  Usu loquendi factum paullatim  est," ut nov particula significet,  notissimum aliquid esse ita , ut  de eo dubitari nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy yv 8% ITavdrjfiov xa-  E Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty hijpqc  jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac , zov di Ovq&vlov. Alcib. I* p. 129. C. 'O di XP°^~  pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ;  — TIgoS A eyeiS ; — "fhSTtEp tixv-  toxojioS xipvei itov tojjeI xai  d/it\y xai aXkoiS opydvoiS.  Adde Criton. p. 44. A. IIuSey  rovro TExpatipg ; — EyoS Coi ipaj.  x\f yttp ttov vCxspaia Sei pe  ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to  tcKoiov h. e. den Tag darauf mus»  ich, wie du weisst, sterben, wenn  das SchifF zuriickgekommen sein  wird,   xai Ov p avia. De Venere  Urania atque Vulgivaga secun-  dum Platonis sententiam dispu-  tarunt Apulei. Apolog, p. 281*  cd. Oudend., Io. Lydus de men-  tibus p. 89. seqq. Alios lauda-  vit Astius ad h. 1. Qudd autem  illa dicitur dprjxcap 7 pro magna  deorum laude haberi solere, quod  alterutro parente careant, docte  demonstravit Wesseling, Obserr.   II, 10, p, 177. seqq. De Venere  Vulgivaga ex Iove et Dione nata  v. interpp. ad Cic. de Nat. Deor.   III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei,  p. 328. seqq. et quos laudat  Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19.  Ceterum vix est, quod moneam,  totum hoc argumentum a Pausania ita tractari , ut fabulas de  Amore et Venere pro consilio  ano mutaverit eique accommodaverit. Stallb.   iit aiv eiv piv ovv det  itavtaS SeovS. Vario modo  sollicitarunt haec verba interpre-  tes. Bastius scribendum couiecit  inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc.  w EpGDxa ). Orsilius ad Isocr. de    Antidos. p.326. iitaiveiv juv —  3cod 5* expungenda censuit. Riickertus Astio assentitur, qui vel superstitionis caussa vel propter  metum verba addita esse iudicat,  videlicet ne Pausanias deos con-  temnere videretur. Stallbaumius,  ne Pausanias sibi contradicere  rideatur, facto inter litaiveiv et  iyxajpidpEiv discrimine verba  convertit ; Omnes deos cum  honoris significatione  commemorate pietatis  est; non autem omnes en-  comio digni haberi pos-  sunt, Hanc verborum interpretationem cave probandam  censeas. Non yerum est enim,  quod Stallbaumius inter hcaiveiv  et iyxwpidpEiv discrimen sta-  tuit, neque idem scriptorum locis probatur, cfr. Piat. Menex.  p. 235. A. yorjxevovdiv T\pdtv  ras ipvxaS xai xrjv ito\iv  iyxoopidpovxeS xaxd itav-  r aS xpoxovS xai xovi texeXev-  TTjxoxaS iv x<p noXipw xai  TovS TtpoyovovS ?}pcjv dnavxaS  tov f ipitpoCSsv xai avxovf  TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS Ijtai-  vovvxss x. r. A., ad quem locum  Engelbardtus verissime annotavit  p. 241. ed.: irtaiv ovvr e$ ni-  hil est nisi repetitio  quaedam praecedentis  iyxcopidP,ovx eS ob enun-  tiati longitudinem ad-  iecta. FICINI conversio, ne verbo tenus quidem facta, audit : laudare quidem deos omnes  decet, sed utriusque AMORIS opera distinguenda  Pausaniae mens haec estx Male   ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' « & ovv txattQog  *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv.   Uda a yag ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phaedra» nihil definitione nccuratiore usus Erotem laudandam  proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo igitur (ovv) nunc  Erotes laudandi sunt, quoniam  omnes dii, ut dii, non possunt  non laudari. Ea laudatio ut recte  fiat atque digne deis, quid utri**  que Eroti datum sit muneris,  iam dicendum est. Pausanias igitur , quod in laudatione Erotis a Phaedro proposita duos  E rotes commemoret, alterum  Ovpdviov , alterum ndvSypov ,  eius rei excusationem petitum  iri putat et a negligentia Phae-  dri, qui Erotem laudandum  propovicrit dei naturam duplicem  non respiciens, et a pietate quam  diis omnibus mortales praestare debeant. Restat, ut de ovv particula dicamus, quae h. 1. dupliciter posita est. Prior part. con-  tinuandae orationi inservit, de  ulterius potestate dictam supra  est p. 22. et p, 84,   o(vt fj i<p avtyS itpat-  ropivy. HpatTopevy parti-  cipium adeo suspectum visum est  hominibus quibnsdum doctis, ut  tanquam inutile additamentum  expungendum censerent. Neque  his assentimur , nec Stallbaumio  credimus, quod annotat ad h. 1.:  Poterat omitti participium, fateor: et omisissent fortasse alii, qui non  haberent Pausaniae in-  genium, Ficinus in convers.parti-  cipium non expressit, cuius tamen  parva in huiosmodi rebus auctoritas. Quid? quod Gellius, verba graeca laudans N. A, XVII, 20.  participium edidit, idem in latina  conversione omisit. Participii vis  haec est: itatict yap itpct%iS  c o6 9 ix*f avty avtrjS  TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit •  aller Handlung verhiilt  es sich so: so fern sie an  und'fiir sich Handlung  ist,ist sie weder gut uocli^  schlecht. Haud raro Graeci  scriptores verbis transitivis utun-  tur ita, ut addito obiecto nullo,  non aliquam actionem denotent,  sed meram verbi notionem ex-  primant. cfr. Symp. p, 184 . B,  av t eu epyetovpevoS eis XPV-  para. — p y nata<p povij 6y  h. e,, wenn er in Beziehung auf  Geldgeschenke oder auf Befdrde-  rungen im Staatsdienste s e i n e  Verachtung niclit zeigt.  Pl. Gorg. p, 489 , D. y olei pe  Xeyeiv, idv CvpqtetoS 6v\ Xepy  6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V av-  SpcoitGQV pySevoS d£,ia>v rtXyv  iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai,  xal ovroi <pd>6 iY t avia tavuc  elvat vojptpa; in his verbis,  cum praegnantem , quam vocant,  g>dvai verbi siguifteationem non  perspicerent, Heindoriius, Butt-  mannus, lleusdius, ad conie-  cturas ingenii confugerunt, xal  ovtoi <poo6iv est: und (wenn)  diese das Wort nelimen,  ihre Stimme erheben. Pro-  tag. 384. D, coSicep ovv dv el   ItvyXOLVOV VltOXGDtyOS cov, <5ov  av xP 7 } yai t tlnep epeXXis /tot  diaXkZetiBai, pelP t ov cp$ty-  yeCSai y itpoS tovS dXXouS,  ubi pei2,ov positum est pro pdA-  181 TOfiivtj ovzs xcdrj ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov ■  ptv, nlvsiv Tj aSuv rj duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, >   avzo xafr’ ccbzb xaXov ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ;  av nqayfiy , tocovtov «jrifJij* xcdas (itv yaq nqaxzb ■  fiivov xal oq&w s xcdbv ylyvszai , prj OQftas de alctyQOv .  ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov nas eOn xaXbi;  ovdi agto<; lyxujiui&<5%at, , aiX b xaXw$ nQOZQtnuv  Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oy-  yov itapexeiv (b. e. tpSiyye -  6Sai) conveniret. Adde Apol. S.  p. 80. D. — idv ipl ditantei-  vrjxe — ovx ijj.1 pel^QD fiXa-  ifrete rj vpaS avzov$ t quo loco  ad utrumque dicendi genus re-  spicitur. Hac significatione verborum praegnanti factum est, ut  multa verba cum genitivo couiungi soleant, ubi quartum casum  exspectaveris cfr. Protag. 851. E*  itorepov ovv , rjv 5* iyc & , tfti  fiovXei ijyepovevEiv (h. e. 7jys-  jj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj iyco  ijydopai ; JixaioS, £<prj f 6v Tjyei-  G$ai' 6v yap xal xaxdpx  xov Xoyov. Ne praeteritum pro  xorcdpXEtf exigas, sensus est; da  bist ia auch der Urheber der  Rede. Menex* p. 237* cap. 6* xijS  8* Evyereiaf icpcoxov vxrjp^e  toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^  6i$ tu T, A. h. e. war die Ur-  sache* Adde e latinis scriptori-  bus, apud quos rarior hic usus,  Plaut. Asia. v. 256. Both. Aeta-  tem ego velim servire (h. e. servus esse), Liburnum ut conveniam  modo.  roiovrov ditiftTj* Tropum  aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse  proverbium erat, ad quem allu-  sit: talem farinam prodire solere , qualis in mola parata sit*  ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla interpunctio reperitur neque in codicibus uequ s  in libris editis ; graviorem posui-  mus nos, qualem sententiarum  ratio exigit. Pausaniae mem  haec est: ut quaevis actio  per se spectata neque tur-  pis est nec pulchra: sola  ratioue agendi cogno-  mentum accipit: ita nitiii  in se habet % Q ipay per  se spectatum, qnod veli  vituperes vel laudes: ex  sola amandi ratione indicatur. Quod sequitur xai non  mera copula est, sed fortiorem  significatum habet, quo apud La-  tinos poni constat adhaerento  consequentiae notione atque  pro atque igitur* Verba con-  vertenda sunt: So verhalt es  sieh auch mit dem hieben,  Und ist also nichtieder  Eros schon und eines b e-  sonderen Lobes wiirdig,  sonderu nur der, welclier auf eiue schone Weise  zur Liebe treibt.   ooS dXySooS Ttav 8 rj jio  Quid sibi velit goS «A?;3o3s' , a  nemine demonstratum video. Si-  gnificat autem , propria potestate  adhiberi, h. e. adieotivum esso  non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte  igitur aliis in locis mihi videor  K t   Cap. IX.    'O (Tsv ovv Ttjg HavSy/iov 'AcpQoStzrjg eos aArj&cog  JtavSrifiog eOzc xul itiegya&tai o xi av xv%y xal ovxog B  lozt/v, ov ot tpavAoi xmv dv&Qtltxcov igatiiv. £ga( H 6s  ol xoiovxoi ngdhov (iiv o&% fjxxov yvitcaxav i} itaiSav,  IWf hxa, eoi/ jcal tQcoGi , zov Gufiuzav puAA ov xj zav    m«inscnla littera UdvSyfioS «eri-  psisae.   iZepyagexat 3 xt  «Y xvxy^ Vett. edd. pro xvXQ  exhibent xvyoi, Male. Ad xvxy  •imple* verbum e praecedentibus  repetendam est, uon compositam i&pya$Qp£YQf, ut visum est Stalibaumio, Sensos est: und  was irgend noter seine Hande  Itomnrt, das henutzt er oh ne  vr e i ter es fur seinen Zweck.  Huius structurae exempla per-  multa reperiuntur. cfr. Phaedon.  P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St}, <J dyaSl,  £av apa xal dol %w8oxy, aixep  Xal £fio\ (ac. doHtl,') Pari modo  affirmativum verbum repetendum  est praecedente verbo negativo  Platon. Gorg. 457. D. — <ft A'  iav Ttepi zov dfupidftnxtjdatdi  xal prf <pfj o exepos x ov Sxe-  (>ov opS/wS Aiyuv fj fit } o'a-  tptaS JC. tpy, Sententiam ipsam  quod attinet cfr. Piat. Pro-  t*g- P- 353. A. xi SI, o! 2aS~  HpccxcS, §ei ?) licis 0xoixei6$ca  T?jy tgm* 7toXXcov Sdfcctv ctv~  Spomtaiv, o'{ oxt av xvxoodi,  xovxo Uyovdiv, Adde Piat, Criton. p, 44, O.   xal ovxoS idxxv, ov x.  X, A. Pausanias si brevius loqui  voluisset, verba audirent xal  tovzov — ipwdtv, Illam oratoriam dicendi figuram etiam in-  fra reperies p. 182. A. ovxot  yap cldiv ol x. x. A,, p. 186.  C. xal xovxo idxxv , fi ovofia  %o iaxpiHov et alias sexcenties.  Ceterum ipdv coniunctum cum  quarta essu verbum transitivum esse, cum genitivo, praegnanti,  quae vocatur, potestate adhiberi,  ut idem sit, atque amatorem esse  alicuius, supra annotatum est  p. 88. Hinc nostra verba con-  vertenda sunt; und das ist der,  welchen die minder Gebildeten  unter den Menschen lieben.  Liebhaber aber «ind solebo  zuerst, nicht minder von Wei-  bern ais von Knaben,   cos av Svvatvxai avotj-  xoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,  annotatio haec est: Tribus par-  tibus ait constare diiferentiam  inter asseclas Amoris coelestia  atque vulgivagi, primum sexu,  qui ametur, deinde parte, quae  ametur, postremo amandi modo.  Itaquo mutavimus lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio  obsecuti, cuius coniecturam fir-  mant codd. aliquot non malae  notae (Paris, et duo Vindobb.) Satis speciosa est, neutiquam ta-  men vera haec verborum interpretatio. Tantum euim abest,  ut temeritate tanquam argumento  Pausanias utatur, quo tpavAovS  il'v%ibv , htuxu m g av Svvavtai' avorjxoxazmv , jrpog ro  ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel ovvteg de xov xa-  AcJg ij [trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av xvfjaGi,  xovxo ngdxxuv, opotcos pev ccya&i>v , opoias Si xovvav-  C riov. laxi yag xal ano xijs &eov vecoxega g xe ov6t]S  nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv rjj yeviaei xal   I •   tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro quam pueros, deinde corpus magis   probet, ut potius allatis argumen- quam animum amant, postremo  tis tribas Pandemi amatores te- natu minores»  mernrios esse doceat intempe- icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai.  raritesque atque eorum, in quos* Ut paullo supra i^epya^ed^at,  cunque inciderint, ineptissimos ita hoc loco dianpaB,ad%ai verbi  corruptores. Nullo enim, inquit, di- latissimo significata turpissimae  scrimine facto etmulierum etpue* rei notio obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire in conversione habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf die Befriedigung sehen,  poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob auf sebdne  gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum per-  fieri maxime potest — uum i ne- pulcre hoc additamento explicatio  p tis simo m od o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi pro-  xisse censes? — quid ineptius in bari videtur. Aetate enim pro amore cogitari potest, quam cor- vectiores cordatique homines haud  pore magis quam animo delectari? facile ab iis corrumpi possunt,  K evocanda lectio vulgata est avorj- quos temerarios libidinososque  ToxarcDYy quam Riickertus quoque amatores esse intelligOnt. Contra,  in textum recepit, minas tamen quorum aetas prudentia caret,  recte verbom interpretatus. Avorj- quo facilius fraudi obnoxia est,  j oraro i enim h» 1. non stuleo cupidius ab illis  tissimi sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai  ris aetatis. Hinc verba ex- 5 eov. Cave Riickerto crcda»  plicabis p. 181. D. xp V v dk xal annotanti ad Jianc locam, da-  vo/iov tdvctt pyj ipay it a i 8 cov t riorem omissionem verborum esse  fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj dirovdi/ o "EpGOS ovtoS , nulla videlicet  arrjAitixero ' x. r. A., ad quae in proximis praecedente Erotis  verba vide annot» Quid? qivH, mentione. Brevior Pausanias esse  quae his verbis praecedunt, no- maluit atque, quae facillime sup-  etram explicationem apertissime pleri possint, eadem -audientibus  probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda relinquere, quam ora-  xe£ , iy aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia verbositate  x eS cis* viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim dt-  niae igitur voluntas haec est: cendum erati eidi ydp xal and   Pandemi amatores non nisi e ge- xovxov rov "EpaxoS , oS idxtv  nere temerariorum hominum sunt; and xi/S Seov x . T» A. Similiter  quorumcunque ipsis potestas est, Pausanias brevitatis studio dixit  eos Amant, non miuus feminas p. 181. C. ol ix tovxov xov    oppetitur.  and x ii s   ahjtaos xal aQQtvog. o 61 tijg OvQccvtag tcqStov ftlv ou  (izxzyovdijg &t]A.sog, a A A’ ctQQBvog ftovov — xal Igxlv  ovtog o tojv italdav Eqco g — 1'sr utk itQEGfivttQcig, yfigcag   CC(lolQOV. 0&BV 6tj iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x XOVtOV   rov “Ego rog Mxvoi, ro <pv6e i iggauBvzdtzgov xal vovv  fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av yvotrj xal tv avry    EpGDToS hnnvoi pro ol ix tov-  TOV TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xav-  TtjS rijS iitiitvoi. Cetcrnm   ne mireris itoXv voculae post  comparativum posituram, ita lo-  quuntur interdum Graeci, ut se-  dis insolentia verborum potestas  augeatur» Exempla huius locu-  tionis non rara • supra reperitur  p. 180. A. xal itt aykvEioS,  hcEira VEooTEpoS 7to\v, <2s <prj-  div "OprjpoS. Adde Piat. Gorg.  p» 488. E. ol yap xpEixxovf  fisAxiovS itoXv xaxa rov dov 4  \ 6 yov. Plura exempla Stallbuu-  mius laudavit ad h. 1. ed. p. 50.   xal ^rfX^os xal a?/3/5e-  YOf, Ilis verbis explicatur, qui  fiat, ut TlarSjJpov asseclae et  femineo et masculo sexu dele-  ctentur. Hoc quamquam disertis  verbis non commemoratum est a  Pausanid, tamen colligere licet  ex iis, quae paullo infra legun-  tur: aW afifisvof povov —   xal idxir ovxos 6 xwv itaiScjv  "EponS — quae verba immerito  tanquam glossema expungenda  censuerunt Wolfius, Schiitzius,  Astios. Sensus est: und dar-  auf beruht das W e s e n der  Knabenlicbe. OvxoS autem  pronomen positum est e generis  haud rara assimilatione prorotiro.   vfipscoS a/ioipov . In his  asyndeton improbantes Astios et  Orellios alter xk inseruit, alter  apoipoS scribendum existimavit.    Frustra. Solent addita eopola  nulla ens partes orationis enu-  merare Graeci , quarum suam  quaeque pondus habet, cf. Symp.  P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS 7/y xiS,  KvSaSijvauis , apixpoS , dv v-  noSijroS dei. p. 175. C. rov ovv  AyaScava, xvy x dvctv ydp ?d X a-  rov xaxaxclperor, yiivov. Ce-  terum vfiptaS d/ioipos Urania  dicitnr ita, ut simj| ,* 0 P a „de-  mon Aphroditen oratio dirigatur,  cuius Swepyos perfidos et cavillatores asseclas reddit, cf. p. 181.  D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS, iv  dtppo6vvy XapoVTtS cjV viov,   xaxayeXddavxes oi x ji   d £ d $ ct i ije \ccX\oy djzo —  xpi X ovx£S x. x. A.   oSev 8xf — trixinvoi.  Haec accuratiori explicationi in-  serviunt praecedentium xal Hdxiv  ovxos o xtiv itaiSov *Epa>s.  quae verba quoniam ita exhibita  snnt, ut pro concreto, quod vo-  cant grammatici, abstractum po-  situm sit, nostro loco concretum  ha^es h. e. masculi generis ama-  tores in abstracti nomiuis locum  substitutos. Cave igitur h. 1.  de inutili praecedentis «licti re-  petitione cogites, "Exixvoi vo-  cem qnod attinet, cfr. Piat. Me-  non.^p. 99. D. cpaipiv civ Seiovs  xe tLvai xal IvSovtiidZetv, inl-  TtvovS ovxaS xal xar£ X opevovS  ix xov Seov. Adde etiam Phae-  dri verba p. 179. Br xal dxe-  XvdiS , S £<pi) ” Opi/pof , pivoS   Ttj muSigatitla tovg tUtxgivcSs vno xovtou tov * 'Egatog  D oQiirjfdvovs. ov yag igmat nalfa iv t «M* ix$Ldav rjdq    i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv  TOV jSfoV, TOVTO 6 "EpGOS T OlS   i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy itap  avxovx   tq cp vdet ififxu/isyidTe-  pov x. r. 'A. cfr. Piat, de rep.  V. p. 455. D. ovdb' dpa idxir ,  c 5 <pi\s, imxtfSevpa tgov noXiv  dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv -  vy) , ov8 * avdpoS 616x1 dvtjp ,  aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai  cpvdtiS iv a/jypoiv xoiv Z&oiv,  xai icdvroov plv pexexsi yvvrj  faixjfdevpdtGrv naxa cpvdiv ,  irarxGJY 6 l ayijp , in\ icadi 6h  adSevidxepw yvvjj avdpoS.  Ceteram came h. 1. Pausanias  dyanwvxeS participium exhibuit,  tie forte aliquis, si ipcovXES di-  xisset, rei iutelligentiam perver-  teret explendae voluptatis notio*  nem simul adiungenx.   nat tiS av yvoiij xal  iv avxy xy icai8 spadxia »  Inest his verbis , quod male me  habet. Nullum in codicibus vestigium est deprationis, igitur  commendanda tantummodo lectoribus , non item in textum inferenda scriptura haeo est: xai  tiS av xai yvotrj iv avxf/ ty  izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud scriptores Graecos  dicendi genere xai T\S xal, xal  Tivef xal , similibus. Unum hu-  ius dictionis exemplum nt com-  memorem, in Piat. Criton. p,4$.  A. legitur; ZvvrjSrjS. JjSrj jaoI  idxtv, <y 2 &lx parces t 6id xo  jr oXXaxiX Sevpa q>oixdv’ xal  ti xai evepyeretxai vk i/iov,  quo loro Stallhnumia rectius  Buttniauuuf edidit evepyexelxat,  ille evepyhrjxca in textum re-    cepit. Sensus est; Er kennt  mich scliou , o Socrates, da ich  oft hierher komme \ dann uud  wann bekommt er aufch etwas  von mir. Ad nostram locum ut  revertar, certissimum esse reor,  Platonem non scripsisse xai far  aruxy xy ica\8epadxla. Satia  enim erat dixisse far* avxy xy  itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy TCcaSepadxla.   elXixpiy dt X k Etymol. M.  p. 298, 56. Sylb.. elXixpivrjS'  6 xaSapoS hqi\ d/Mtfifc kxepov.  icapd xo eXv, 1 } Sep/iadia, xal  xo xpivGOy q iv xy £Xtf xexpi-  /aevoS. Alii aliter hanc vocem  explicare studuerant; nobis, unde  haec vox depromta sit, quaeren-  tibus sponte se obtulit salia  comparatio , quod coquendo purius fit et clarius. Salinatoribus  igitur vox antiquitus propria  fuisse videtur; deinde, ut fit, ia  quotidiauao vitae consuetudinem  ita abiit, ut propria eius signi-  ficatio prorsus evanesceret, cfr*  Symp. p. 211. E* xi 8rjxct , iqrq,  olopeSa , el xoo ykvQixo avxo  xo xaXov 18eiy elXixpivls,  xa$ a pov , a/iixxov , dXXd.  /xi} avaicXecov dapxcov xe av-  $ p coTziv-ojv xal xpGopdxGov xal  aXXyS itoXXi}? <pXvaplaS $vrj-  xrjS , aAA* avxo xo, Seiov xa-  Xov 6vvaixo jaov o$i8hS xa-  xi8e\v ; Adde Piat. Menex. p.  245. cap. 17^ 8ia xo eiXixpi-  vdoS elvca h £X\7/yeS xal dpiy&ls  fiapfidfiGJY. Sunt igitur, Riicker-  tus inquit, ol eiXixpivcaS vico  Xovxov xov "EpooxoS capptjpivoi,  qui pure, sincere, ab hoc Amore  aguntur, nec admistum habent  agxavtcn vovv ”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3 yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ, olfiat, tlalv ol ivrev&tv agxu/iE-   qnicquam de viliore illo et vul-  ga ri.^   ov ydp i p oj 61 it ai8 cov ,  «AA* ineiSav x. x. A. Haec  est librorum omnium lectio,  quam H. Stephaniis primus ita  immutavit, ut aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea  scriptio tum aliis tum Stallbso-  mio adeo probabilis visa est, ut  eam in textum reciperet. Con-  stat autem , aAA* ?/ voculis du-  plicem rationem, quae proprie  non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una euuntiatione coniunctam indicari. Sic  nostro loco dicere possis ov ydp  (npoxepov) ipcodt naidcov 7  iiteidav jjSrj apx&vxai vovv  $6X £lv t dicere possis etiam ov  ydp ipcooi izaldGov, aAA’ (ipu>~  6iv avtoov) insidar 7/67 ap-  X<&vt ai vovv 1 l6x £ iv ’ His enun-  tiatis in unum couflatis dicendi  genus efficitur hoc : ov ydp   ipdodi nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv  X. t. A. Hoc per se spectatum,  cur reprehendas , non habebis.  Nam quod Riickertus ad h. 1,  dubitare se ait, num recte jral-  8tS dici possiut ii, qui iam pu-  bescant, eo quidem argumento  lectores non admodum movebuntur. Quaeritur autem, an Pausa-  nias ita locutus sit. Certi quid  equidem statuere non ausim, ve-  risimile tamen mihi videtor, Pausaniam, cum paullo ante AMATORES nominasset, qui eo delectentur, quod validius natura sit atque intelligentia emineat, nostro loco non nisi oppositionis rationem habuisse , Ttald&v nomen  autem ita posuisse, ut idem sit  atque dvorjxoxdxav , quod p, 1 8 1 .  B. reperitur. Eodem significatu  paullo infra dicit: XPV y ^  vopov elvat jn) ipav naiS 00 v  ( h. e. pueros immaturos ) , ivct  p7) elS dd?jAov iroAAr) freovSt/  dv7]At6xEro. xo ydp xdov n aci-  da) v xiAoS aSr/Aov, ol xeAevtcc  xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum  ellipticam enuntiationem habes,  quam cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior  enuntiatio audit: ov ydp ipcodt  icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp -  Xcovxai vovv l6x £iv y r dxe ipdj-  6iv avxGJV. Sensus est: Sio   sind nicht Liebhaber von noch  unausgebildeten Knaben, sondern  zeigeu sich ihnen erst dann ais  selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn. Schleiermacheri conversio: Dean sic He-  ben nicht Kinder et q. seqq.,  ea -de caussa minus nobis pro-  batur, quod illud nomen de  utroque sexu intelligitur , h, 1,  antem non nisi de masculo sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA* 7/67 vovv {(Sxovxcov,  quia significantius indicatura»  erat, amato ies id agere, ut  ea aetate, qAMASIOSua intelligentia  efflorescere posset , omni studio  excolerent, consilio adiuvarent,  exemplo meliores reddereut. Hinc  apx £ <S$ctt verbum appositum habes temporis momentum significans , quo tempore amasiorum  ingenia excoli possint, atque  7toXAy 6itov8y amatorum, quae<,  p. 181. E. commemoratur, eru-  diri, porro iireiddv finali parti-  cula Pausanias usus est, tardum  maturitatis proventum depingens,  x g 5 yeveidtixeiv. Ne hoc  quidem, inquit Stallb., Pausaniae  roi igav cog tov filov Szavra gvvetfofitvoi xal xoivy  OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig , iv dtpQotivvr/  J.ajiovzig wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’ aliov    ingenio indignam est, quod aeta-  tem illam adolescentium diligen-  tias indicat, qua perveniant ad  maturitatem quandam rationis, et  qua iam liceat veris illis, quos  dicit, amatoribus eorum uti consuetudine, Nimirum pubertas est  {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom. Od.  X. 279. De hoc loco vid. Comm.  de Symp. Platonis.   itape6xEvct6 pivoi ydp,  olpat, Eidiv seqq. Verba  haec Stallbnumius convertit: Nam  qui inde ab hoc tempore amare  incipiunt, ii se ita comparave-  runt, ut velint per totam vitam  cum amasio suo versari, non  quum eum, quippe quem depre-  henderint iuvenem, imperitum et  imprudentem fefellerint ac dece-  perint, cum risu et contcmtu ad  alium aufugere. — Participia igi-  tur ita posita censet Stallbaumius,  ut ad praecedentis participii ex-  plicatiouem sequens fucer® exi-  stimet. Sic iv dfppotivvy A a-  fidvTEf toS viov. quae verba  Orellius in £zr' dtppo6vvy Xa-  fidvttS mutanda censuit , ovx  iB,anati}6avTES verbis explicau-  dis inservire arbitratur. Nostro  arbitratu non dubium est, quin  i^axarrj(javTcS participium ver-  bis supra lectis tcov datpdtcav  fiaXXov v T&jy rpvx&v, iv drppo -  6vvr? XafiovtES o oS viov, intifbc  cjS dv dvvGovtai dvoTjzoTarajv  respondeat. Igitur hoc loco participia propriam ac suam potestatem habent, id quod Orellius  Eix pro iv scribendo indicaturus  erat. Verba convertenda sunt:  Deno entschlossen sind, meino    ich, die, welche das mannliche  Gesclilecht von diesem Alter aa  zu lieben beginnen , die gauze  Lebenszeit mit ihm zusammen zu  sein nud ein gemeinsames Leben  zu fuhren, nicht Betrug an  ihm zu dben, nicht es in  seinem Iugendunverstan-  de zu iiberlisten, nicht  mit Hohn davon zu gehen,  indem sie zu einem andern ab-  springen. Ceterum participia cu mulari solent vinculis nullis col-  ligata, quando loquens inducitur,  qui est animo commotiore, cfr»  Gorg. p. 471. B. favidaS xal  xarapESvdaS avrov re xal tov  viov avrov ’A\i%av6pov , dve-  ifnov avrov , cfredoV r/A ixigjttjv,  i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av 7  vvxrcop i^ayaycjv ani-  6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp. p.  2 1 0 . D . xal fiXiiearv 7tpo$ noXi)  7/677 ro xaXov , prjxin r 6 itap  Ivi — dyanuv x. r, A.   i 71 dXXov dxor p i x° y   T E S. Aliquo modo hoc loquendi  genus vernaculo sermone assequimur quidem, sed repugnante  plerumque dicendi usu. Aliena  enim a nostrae linguae indole  illa facilitas est, quam felicita-  tem vocare possis , qua scripto-  res Graeci complurium actionum  rationes in una enuntiatione con-  iunctas exhibuerunt. Schleicr-  macherus habet in convers.: und  von ihm zu einem cmdern zu  entlaufeu.   XPV v ^ xal vdpov  tlvat x . r.A. De XPVVU 1 verbi  notione supra dictum est p. 12 .  dncrtQiyovtu;. XQ , 1 V vofiov ilvai firj igdv mxiScav,   ivcc fitj tls aSrjkov xolfo) Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e  Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza xaxiag xal ctgctqs   Significat autem: Debere aliqnem  aliquid facere ita, ut, si id omi-  serit , officio suo defuisse censeatur. Imperfecto eiusdem tempo-  ris exprimitur: Debuisse aliquem  aliquid facere, quod revera non  fecerit olTicium suum male exse-  cutus. Iam nostro loco quoniam  non comparet, cui male servati officii crimen imputare possis,  verba hoe modo convertere li-  cet ; Eigentlich hiitte , wenn es nach Fug und Recht gehen solite,  ein Gesetz da^seiu miissen etc.  Ceterum cave av particulam XP*j y  verbo adiungendam censeas. Ea  enim si adderetur, particulae potestas esset , ut, quod olim fieri  oportuisse dictam sit, idem nunc  non opportere fieri indicetur. Sed  oflicii quovis tempore eadem  conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse, quod  idem alio tempore non officium  ait. Alia ratio est Selv verbi,  quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e. cer-  tis quibusdam de caussis ortam,  £8ei dv commode dicere possis  ita, ut cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus  cessisse cogitetur; 18 ei dv  autem significat, olim necessa-  rium fuisse, nunc autem non  amplios necessarium esse. Et  quoniam saepissime contittgit; ut  non amplius necessarium videatur  praesenti hora , quod olim ma-  xime necessarium fait , non mi-  rum est, $8ei av crebro opud  veteres scriptores reperiri ; con-  tra XPV V nusquam, quantum  scio* occurrit apud veteres, coitis rei argumentum est, quam supra commemoravi, officii constantia.   tva ut) eis aSrjXov —  avTj XioxET o. Codices aliquot  dvaMoxoixo exhibent, quae le-  ctio bene haberet hoc loco, si  Pausanias non nisi de possibili-  tate, quam vocant, xov dvaXi -'  tiHEdSca ageret. Indicaturus autem  ille aperte erat, saepe iam fa-  ctum esse, ut AMATORES AMASIOS  frustra ad virtutem propellere  studerent , ut unice rectum censendum sit avtjXLoHETO . Optativi  modi exemplum est Alcib. I. p„  105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl  doi xal itplv xodavxrjS iXxidoS  yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia.  6 5eoS diaXayeoSai , iva prj  fxaTTjv StaXey oiprj v. Opta-  tivo autem modo Socrates hic  utitur, quod revera non expertus  erat, ut in erudiendo Alcibiade  frustra operam consumeret. Adde  Menon, p. 89. B. ouff TjptiS dv  TtapaXaftovxEf ixtivoov djzoepij-  vdvxcDV icpvXaxTopEV Iv dxpo-  tcoXei — ivot pij8 eis avxovS  8lE<p$EipEV, aXX ETtElS)}  dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*j-  Cipoi ylyvoivxo xals itoXtdiv.  Plat. Criton. p. 44. D. ti yap  dxpEXov f cJ KpitcQV, oIoIxe eivat  ol noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~  yd&CSau tv u oloixs i)6av  xal aya$d xd pkytdxa. vid r  Rostii Gramm. §. 122. 12.   to yap x&v 7tai8wv xk-  XoS x. x.'X. Duplici significata  TtaiSajv nomine Pausanias utitur,  ut id aut masculum genus deno-  tet cfr. p. 181. C. xal idxiv   4’vxrj s te jrtot xal 6ca(iaros. ot (uv ovv ccya9ol rov  vopov tovtov avtol avrolg exovteg ri&Evraf x9V v ^    ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS —  oSev 8 rj ini to afifiev tpinov-  tat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut hoc loco. Schleier-  macheriis haec verba convertit:  Denn bei den Kinderji ist der  Ausgang ungewiss, wo es hineus  will, ob zur Schlechtigkeit oder  Tugend der Seele und des Lei-  bes. Ut V. D. convertendum  censuit, h. e. virtutem a vitiosi-  tate disjungendam , non conjungendam cum eadem, ita Graeca  verba scribenda sunt; nullo enim  modo ferri potest, quod in omni-  bus editionibus exstat xccxlaS  xal apErrjS . Constat autem  saepissime xal pro r/ et 7} pro  xal exhiberi in libris, ut non  audacias agere censeri queat, qui  sensu flagitante verborum alteram  vocem in alterius locum substi-  tuat. Scribendum igitur h. 1.  puto esse xaxiaS r/ apEtijs. Ge-  nitivos quod attinet xaxiaS et  apEtrjSy qui e praecedente loci  adverbio pendent, vide Matth.  ampl. $. 324. p. 632.   avtol avtols %xovxeS  tiSEVtai» Media forma Pau-  sanias usus est TtSivat verbi,  quod qui legem scribunt, iidem  illi legi sese subiiciunt. Eodem  modo apud Xenoph. Oecon. 9.  14. scriptum reperitur iv tatS  EvvopovpivaiS noXsdtv ovx ap-  * XEIY SoXEt TOtS XoXltaiS , 7 JY  vopovS xaXovS ypa~  if> cjy t at , quo loco Pausaniae  verba abundantia quadam exhi-  bita esse doceare. Satis erat  dixisSe r ol plv ovv dya$ol  tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tl-  Sevtai. Addidit autem avtol  avtolS 9 ut aequitas illorum ama-    torum clarius eluceret, qui ipsi  nulla necessitate nrgente, sed li-  berrima voluntate {biovtES') il-  lam legem scribant.   tovtovS tovS itavStf-  povS ipadtaS, OvtoS pro-  nomen nominibus praeponi solet  ita, ut significet, de aliqua re  sermonem esse sive landanda sive  turpi, quae alias iam innotuerit*  Igitur et laudis et ignominiae  exprimenda* notioni inservit. Ac  nostro quidem loco non obscu-  ram esse potest, quo significatu  pronomen accipiendum sit, et  recte Stallbaumius annotat, ovtoS  cum contemtu dici. Exempla  huius usus ubivis obvia sunt.  Laudat Stallbaumius Piat. Criton.   p. 45. A. ovx opacS tovtovS  x ovS 6vxog>dvtaS coS EvTeXeiS,  quilus verbis occasionem datam  video, de Sycophantarum nomine  quid mihi videatur, aperiendi. Ad-  modum enim displicet, quod Schol.  annotat, ad Piat, de rep. I. apud  Bekk. Comment. Crit. T. II. p.  397* dvxotpavTTjS XkyEtat d  iffEvSddS ti xtv oS xatTjyopdiv.  XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/-  vaiotS TCpdrtov EvpESivtoS rov  t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto  xgoXvoytcjy iZayeiv ta dvxa,  tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£d-  yovtaS dvxoq>avtcoY xXr]^h'-~  TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr  xarrjyopovvtaS ttvurv tptXane -  X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j -  $ijvai % Duplex schnl. eat ad  Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim  Platonico convenit, alteram haec  habet : Xipov yEvopivov iv r y  9 Attixy tivls Xa$pp taS dvxxS  taS atpiEpcopivaS toiS SeoiS  ixapicovvtOy pera 8h rav:at xui rovtovg tovg navdrjfiovg tgatixag itQogavayxa&iv    to roiovrov , wgittQ xal tc5v   EvSrjviaS ' yevope vtjS xanjyo-  povv TOVZGDV rivis, xcti £xel-  $ev dvxocpctvrai Xiyovzai, Mae  narrationes non dubium est ,  quin fictae sint, qnibus 6vxo-  qxxvr&v nomen explicetur. Per-  cit schol. Aristopli, evpijrai 61  itepl tovto v xcd hvepct Idro-  pia itavv ipvxpd, Sed ipsa illa  schol, explicatio admodum friget,  2vxo<pavTcov nomen a 6axxv-  <pavT7jS descendit, dc qua voce  Pollux habet X. 192. otav drj-   jLiodS&vrjS Eiitrf GaxxvcpdvTaS,  rovS itXixovraS rctiS ywcnBX  XEXpvcpaXovS axovovdiv, Hoc  genus hominum consentaneum  est loquacissimum fuisse et cu-  riosissimum nequitiaque refertis-  simum, atque in omni re tonso-  ribus, obstetricibus, aliis similli-  mum, Factum est autem usa „  loquendi atque, ut in Piat, Cra-  tyl. est p, 421. C. dia — ro  navraxy GrpicpedSai ra ovo -  para, ut nomen 6vxxo<pdvnjS  audiret, ex quo 6vxo<pdvTi\S  enatum, it poSav ay xd2,tiv to  roiovrov . Pauci libri pro  t d roiovrov habpnt rdHv roiov-  roov. Exspectabas, inquit Stall-  baumius, oldyitep idrl tovto, ori  xal ro ov iXEv^Epoav y . it . avtovS  p?) ipav. Sed nihil mutandum.  Annotat Riickertus ad h. 1,: Spe-  ctat pronomen ad snpra lecta  verba pyj ipav itaidoov. Neque  habet duplex accusativus huic  verbo iunctus quicquam , quod  offendat. Alia ratione nobis  hic locus explicandus videtur,  Pausanias nimirum cum praedi-  casset eorum amatorum iustitiam  et aequitatem, qui^ipsi tibi lu-    ite v&igav ywaixav xqos-   beatissime illam legem imponant,  nunc id agit, ut non cogendos  Pandemi amatores censeat, ut  eandem legem sibi scribant, at-  que ab immaturis pueris absti-  neant , sed statim ad rationem  cogendi abit, modumque indicat,  quo modo viles isti amatores ab  immaturis retineri possint. Sen-  tentia igitur verborum haec est:  Die guten Liebhaber legen sich  dieses Gesetz aus eigenem An-  triebe aufj non muss man eigent-  liph auch deo Anhiingern des  Pandemos dieses Gesetz aufdrin-  gen, g an z in der Weise,  wie wir sie nach Kraften nothi—  gen , freigebornen Frauen ihro  Liebe nicbt zu widmeu. Prono-  mina generis neutrius cum arti-  culo coniuncta haud raro sic ad-  hibentur , ut absolute ponantur  atque adverbii vices obtineant,   . Sic in Piat. Phaedone legitur  p. 65. B. olov ro roiovde XeycD,  quo loco to towv6e absoluto  positam est, vehementerque dif-  fert a verbis, quae leguntur  Eutyphr. p. 13. B. olov toiovds  se, Xiyco. Symp, p. 178. E., ad  qnem locum vide annotat, p. 61.,  t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo -  pevov op&fiEV , on x. T. A. ubi  T avrov tovto est : ganz auf die-  sflbe Weise. Adde Piat, de Tep„  X. p. 605. B. t avrdv xal rdv  piprjrixov itotfjrr/v (pyjdopev —  ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem  modo ro roiovrov positum est  nostro loco. De plv ov v — Si  particulis vide aunot. p, 22»  r qoy £Xev$& pcov ywai -  xgjv — prj ipav. Liberae  mulieres ex hominum conspecta  quam heri potuit maxime remo-   7 182 avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a, fiif igav.  ovroi yag tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg , ujtftt  rivas toAj iiav kiytw , co$ aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg.  X iyovai 5a sl$ rovrovg unofiXbiovns , ogwvrig avrdv  rrjv axuigiav xai ddixlav' htd ov Sr/ xov xo6(Uas yi    vehantur, cfr. Symp. p. 176. E.  tals yvvailA raiS IvSov,  ad qnera locum Nepotis praefat.   $. 7. laudavimus p. 44. Mens  Pausaniae hic esse videtor: De-  bete, si heri posset, pueros  immatoros domi manere abscon-  ditos, ut liberae mulieres domi  maneant, hominum adspectum fu-  gientes , ne amatorum prava se-  dulitate corrumpantur.   ovxoi ydp eidiv oi xai  x* t. A. Pronomen sequente ar-  ticulo cum contemtu positum est,  ut supra tovrovS r ovf TtavSif-  pouS. Sic p. 181. B. non sine  adhaerente ignominiae notione  dicitur xai ovtoS idtiv , ov ob  cpavXoi rcov dv^pcditcov ipdodiv,,  Kal vocula hoc modo explicanda  est: Isti enim cum aliorum ma-  lorum, tum etiam auctores illius  rumoris sunt, quoad quidem non-  nulli dicere non dubitant, torpe  • esse amatoribus gratificari. Pro  < Sire TivdSf quae optimorum co-  dicum lectio est, vulgo tuSre rtvd  legitur. Sed singularis numerus  minus aptus hoc loco, non quod  sequitur pluralis numerus Xiyovdi  81 x. r. A. , sed ne forte lateat lectorem, non certi cuiusdam viri,  sed populi rumorem hic tangi.  Ad to oreiSoS Riickertns anno-  tavit: Graeci, quamvis frequen-  tissimus usus sanxisset quodam-  modo hunc amorem , tamen ut  probarent eum , nunquam indu-  xerunt animum, immo turpitudi-  nis nota erat, non quidem amasse    pueros amatoribus , sed pueris  amori eorum satisjecisse . Aliter,  atque Riickerto visum est, super  puerorum amore iudicarunt Grae-  ci. Vide Commentat. de Symp.  Platonis.   avrcov tTjy axaipiav  xai aSixiav. cf. p. 181. D.  i&aKazrjdavreS , iv dtppodvvy  XafiovreS coS viov , xatayeXa-  davtts olxytfedScu iit aXXov  dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS  to 8ianpd£>ct65ai pdvov fiXe-  itovTtS, dpeXovvteS 61 tov xa-  Acuff ?/ firj et q. seqq,   i x el ot) Srjxov — yi .  Haec est optimorum codicum le-  ctio; vulgo male ov Srjitov —  re exhibetur, ri ad verba perti-  net , quibus appositum est, et  conditionem indicat ita, ut ap-  prime Latinorum si quidem  respondeat. 8tjxov voculam quod  attinet, supra de itov particulae  significatu dictum est ad p. 180.  D. Eius significatus vis 8tf ac-  cedente, cui ironica potestas est,  ut in Piat. Menone p. 86. D.  iireiSij 6h dv davxov pkv ov8'  imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXev-  SepoS tjS , maximopere augetur.  Ficiuus verba convertit satis fri-  gide, ut videtnr: nihil autem,  quod n\odeste etlegitime  fit, vituperare decet. Verba  convertenda sunt potius: Dena   es ktnn doch offenbar wol ir-  gend eine Handlung, wenn an-  ders sie mit Maass und Fug un-  xai vofilfiag orwvv Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av Si-  xaiag tptQoi.   Kul 8rj xal 6 xcgl tov tgcoza vvfiog iv fiiv ra is  ctM.cug itoktGt, vorjecu gudiog' anXag yag SquStcu ' o  6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi TtoixUog. iv "HXiSi B    ternommen wird, tiicht mit Recht  getadelt werden. Prorsas eodem  modo dicitor in Apol. Socr. no-  tissimo loco p. 20* C. o v ydp  djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov  nepixxoxepov npaypaxevopivov,  t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal  AoyoS yiyovev x. r. A.., quo  loco interpunctionem post dovye  delendan^ curavimus» Sensus est:  Denn es hatte doch offcnbar wol,  vvenn auders du nichts weiteres  gethan hiittest , ais die andern,  eia solches Gerede und Geschwatz  nicht entstelien kdnnen»   xal 8?) xal . Harum parti-  cularum notionem Sehleiermache-  rus in conversione non reddidit,  neque Ficinus easdem convertendo  expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE et q, seqq. Biickertus ad h. 1. haec annotat -  Particulae coniunctae xal 6r} xai  ibi locum habeut, ubi a genera-  raliore sententia ad specialem  transitur , h. e. , quum id , quod  in universum disputavimus, etiam  de certa aliqua re valere dici-  mus, quo in nexu semper aliquid  conclusionis est. Habet igitur  harum vocum quaevis vim suam  nativam; quarum prima copulat  cum prioribus, altera vel conclusionem indicat, vel rem pro certa  ponit, quam particulae 8rj vim  velim ostensivam appellare, ter-  tia adiungit, fierique subsumtio-  riera docet» — Negari nequit,  xal 8rj xai particulas interdum  ita a scriptoribus adhibitas esse,    ut iis transiri significent ail  ea, quibus, quae antea in universum dispntata essent, proben-  tur. Cave tamen , omuibus in  locis hanc particularum significationem veram habeas. Ac no-  stro quidem Joco Pausanias ad  novam rem , b. e. ad civitatium  leges transit ita, ut, cum cora-  memorusset p 182. A. duplex  de AMORE iudicium Atheniensium,  quorum alii ipsum laudent, alii  vituperent, aliorum civitatium  iudicia annectat, et quomodo in-  ter se differant, exponat. Ad  eum rem commemorandam adi-  tum patefacit 8rj particula, quae  quo magis emineat, initio  enuntiati ponenda erat, atque  eidem xai expletivum , quo suf-  fulciatur, praefigendum, vide  annot, p. 5*  an ydp <2 pitixa i. E  recta ditA&S vocis explicatione  sequentis verbi itoixiAoS recta  explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive alfeuius sim-  plicissimam conditionem, qua ef-  ficitur, ut facile possis et quasi  primo obtutu, quid sit actio sivo  res inspecta, cognoscere. Jlot-  . xi\oS contra de plurimarum re-  rum inprimisque de colorum  compositione valet, quae ita  comparata est, ut nequeas dicere  statim, cuius coloris sit id, quod  noixiXov vocatur. Hinc ad ho-  minem relatum noixiXoS eum  significat, quem non tam ver-  sicolorem, quam varium appella-  fiev yaQ kcc I Iv Boiorolg , xal ov firj docpol Alysiv>  ca tAiJg vEvqfio&itrjtai xalov eo %aQl£E6ftcci Ipatiraig,  xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts itcdcuog d>g al-  ti iQQVy iva , olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»-  rnnt et versipellem Romani. No -  //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao  ex ambiguitate sententiae labo-  rat. Eius ambiguitatis in Athe-  niensium et Lacedaemoniorum  lege Erotica exemplum explica-  tius enarratam habes p. 182*  D. seqq.   iv "IIAiS i plv yap\ seqq.  Triplex apud Graecos de AMORE lex obvaluit. In Elide et in  Rocotia atque in iis civitatibus omnibus, quae eloquentia carebant, obsequi amatoribus pulcrum habebatur. Apud Iones  eosque, qui barbaris subiecti erant, ut philosophicae gymoasticaeque exercitationes, ita obsequium erga AMATORES dedecori  erat. Ambigua lex erat apud  Athenienses et Lacedaemonios,  ambiguumque indicium. Nimirum  ro xapl<Sa<$$ai ipadralS et pul-  crum et turpe habebatur.   vEvopo^irrjrai. Sydenh.  annotat, ad h, 1, laudatus u  Wolfio :• Dies Wort, wie das vor-  hin nnd mehrmals gebrauchte vo-  poS, muss man nicht von einem  geschriebenen Gesetz, von einer  positiven Satzung in ausdriick-  lichen Worten verstehen , son-  dern von Gcwohnheit und Gebrauch , der nach und nach das  Ansehn eines Gesetzes gewiunt.  cfr. p. 183* D. rjyrjdair av  •xaXiv altixtdrov ro roiovrov  ivSaSe v o pi^ed^ai. In Piat.  Cratyl. p. 384. v. 16. Bekk. ov  ydp tpvtiei kxddrca necpvxivat  dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v o-    pep xal rc ov iSitidrtarv   te xal xaAovvtcDV, Ib. p. 388,  Hermogenes interrogatus a So-  crate, quis nominum usum sup-  peditaverit, cum id nescire se  confiteretur, ille ap ovxl , inquit,  d vopoS doxei doi tlvat 6 xol-  padidovS av ia i   Iva prj Ttpaypar  x. r. A. His verbis Pausaniae indicium continetur demonstrantis , qui factum sit , ut cautione  adhibita nulla paederastia in  Boeotia et in Elide pulcra indi-  caretur, Sed ex ambiguitate qua-  dam hoc indicium laborat, de  qua interpretes nihil annotarunt.  Aut enim licere obsequi amatoribns  dicit, ut impetrent amatores,  quod lege prohibente iuvenibus  nunquam persuadere possint, ut  ipsis concedant, aut propterea  legem illam latam censet, ut iu-  venes, quos Boeoti atque Elidenses admonitione non possent, AMORIS vi ad virtutem impellerentur. Utra explicatio rectior  sit, in Commcnt* de Symp. Platonis explicatum habes.   r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «A-  XoSt n oAAaxov. Quid Pau-  sanias dicere voluerit, ut facil-  lime intelligitur , ita difficillima  structurae ratio est, quam nemodum sati3 explicavit. Plerique  interpretes ad coniecturas inge-  nii confugerant, quarum numero  pon minus turbatum te senties,  quam ipsa difficultate Platonici  loci, H. Stephanus scribendum  coniecit rrjs 81 IooviaS jroAAa-  fitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$ di  'I avias xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai , cicJot  vito fiaQfiuQoig olxovGi. rotg yag fiaefidQOi s Sicc rag  TVQawidus aloxQo v tovxo ys, xal % yt <pdo<Soq>la r.al C   ' x°v xal aAAoSz x. r. A.; Thier-  «chias ty 6i luriae, Astius rois  6 h 'iGDviaS conieceruut. Ut elios  silentio praeteream, ingeniose  Riickertns scribendam duxit rijS  * IcarlaS xal aAAoSt #oAAa-  Xov al6xpov vevopidzat , pa-  \i6xcl 6 * o6ql vno fiapfidpois  olxov6iv. Stallbaumius , vide,  inquit , ne genitivas pendeat e  pronomine vdoi vel potius e pro-  nomine demonstrativo ante 0601  intelligendo. Nemo enim olTen-  deret in his TrjS 61 'iooviaS xal  dXXuv noXkuv x^pdjy 0601  vno fiapfidpois oixovdt , napd  t ovroiS ai6xpov vevopidrat.  Quum autem orator post r 7/S 61  'iuvlaS posuisset adverbia <*A~  Ao.9i noXXaxov, addidit statim  aldxpovvevopidTcti, quae sic non  poterant commode alio Joco collocari, atque deinde demum ad  inchoatam structuram , quam in  mente habuit, reverti putandas est. Haec explicatio impeditissimae structnrae et ipsa impeditior est. Riickerti ingeniosa quidem sed audacior coniectnra est, atque cura veritate rei non  satis conveniens. Ceterae coniecturae omnes ita comparatae  sunt, ut intelligere sane non possis, qui factam sit, ut lectio ad sensum facilior in difficiliorem  sit mutata. Ut meam, qualiscunque est, sententiam proferam,'  cum in praecedentibus Pausanias  iv*H\i8i pev yap xal iv Boiu-  totS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv  dixisset, pev particula adhibita,  verba secutura esse indicavit, quae illis verbis opponerentur,  Ilaec oppositio ut validius emineret, ita instituta est, ut altero membro oppositionis ad ulterios  exemplar comparato adhibitoque  chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum proprie dicere debuisset Pausanias iv 61  zy 'ioDviot , ut supra legitur iv  v H\i6i — xal iv BoiuzoiS, di-  xit rif 'luvlat, nomen ad praecedens ov comparans; pro aXXoov  TtoXXuv x<* opuv , quod optime  cum sequente otioi — olxovdiv  conciliaretur , «AAo3t ^roAAa^ov  posuit , ut esset , quod praece-  dentibus dativis cum iv praepo-  sitione coniunctis respouderet.  Iam certam est, genitivum r rjS  *Iuvia5 per se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si ad prius oppositionis membrum respexeris.  xal i} ye tpiXodo epia. Gymnasia philosophorumque scho-  las matres fuisse et altrices pae-  derastiae , a multis vantiquitatis  scriptoribus traditum Cst. Unum  ut laudem, cfr, Cic, Tuse, Q,  IV. 53. Mihi quidem haec in  Graecorum gymnasiis nata consuetudo videtur l in quibus isti  liberi et concessi sunt AMORES. Bene ergo Ennius: Flagitii prin-  cipium est nudare inter cives  corpora , Persecuti autem esse  barbari dicuntur pari vehementia  et filiam et matres , quia elatio-  res animos hominibus ingignerent,  novarumque rerum studio pectora  incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat, <Sv/uplgsi roig Sq-  XOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav ag%ofievcov,  o«(5e tpiltag loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpt-  hi tu re ulla narra xai 6 "Egcog ifinoieiv. igya 6h  tovto Pfia&ov xai oi tv&uSe xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo-    ov y <x p , olfiat. Olfiat  rerbam haud raro modestiae in-  dicium est, indicatque, qui eo utitur se nnimi iudicium pro opinione  haberi velle. Nostro loco non sine  acerba ironia adhibitum est , cu-  ius usus exemplum est Piat, de  rep. I. p. 337. A., ad quem lo-  cum vide Stallbaumii annot.   <p po vrj pax a peydXa —  fc 5 v upxopiroor. Minus  apte Sdileierroacherus convertit:  grosse Einsichten. Amore  efficiuntur potius atque procrean-  tur elatiores animi h. e. grossartige, kiihue Gedanken. cfr. Me-  jaex.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&-  XoS, KvpoS , l\£v$FpGo6aS Tllp-  tiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj  avrov <p povr)fLaTi cepa xai  rot)? diuitoTaS MifiovS idov -  Xoodaxo x. r. A. Pro tgjv ap-  XOpivoov io aliquot codd. repe-  ritur r diS apxopirotS , quo casu  Plato non usus est , ut dupli-  cis dativi vel ambiguitatem vel  simplicitatem vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai verbum  siae dativo positum esse: paullo  infra legitur o 81} paXiOxa cpi-  Xu — 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde,  quem locum lluckertus laudat  Piat, de rep. V. p. 464. D. tjSo-  vdt re xai aX yijBovas ipzoiouv-  taS }$la>v ovxoov idlaS.   o 8 1 } pdXi6x a epiXei,  Adhiberi solet singularis numerus  pronominis relativi, quando ad  plura nomina refertur, quae plurali numero posita sunt. Ultra  pluralem numerum egredi non  licuit , igitur singularis repertus  est generis neutrius, quo prae-  cedentia comprehenderentur,   ra re dXXa narra. Annotat ad haec verba Schleier-  roacherus: Dieses andere al —  les kann doch nur Philosophia  tmd Gymnastik sein , uud fur  diese wenigeu Falle ist der Ausdruck etwas zu reich. Allein,  wo so viele Biicher alie schwei-  gen , und die Nothweudigkeit  nicht sehr dringend ist, da ist  andern vorwitzig. Eine solche  Nothwendigkeit scheint aberwobl vorhunden zu scin. Igitur pro  narra V. O. scribendum censuit  xavxa, quam couiecturam Riik-  kertus vulgatae scripturae praefert. Monet contra Astius : sensum esse verborum: prae ceteris  omnibus maxime amor. Hoc ex-  plicandi genus et Stallbaumio  placet, et nobis probatur. Pausaniae mens haec est: nihil esse, quod non odium moveat tyrannorum, philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin  alia hoc genus: nihil autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo iuprimis  elatiores animi , firmae amicitiae  atque contubernia efficerentur.   xax iXv6 ev avrcov rrjv  dpx V v ' Pausaoiam h, 1. in historia Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Grono-  ytltovog Hq<os xcu tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/  xctttXvOtv avrdv xfjv KQ%i)v. ovuog, ov fiiv al6%Qov  tte&i] xaQi&e&ai £Qct<Staig > naula rdv ftipivav xuxcu,  xdv fitv aQxovxov it Xtovd-ia , rdv Si ciQxofiivav avav- W  8(/ia' ov dg xaXov aitldg Ivouia&rj , Sia xyv rdv 9e- vins rectissime docuit in annotat,  ad Aelian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit, at interfecto  Hipparcho libertas civibus Athe-  niensibus redderetur , ut potias  Hippiae tyrannis durissima secuta  sit. cfr, Thucyd. VI. 54. Neque  hic error solius Pausaniae fuit,  sed Atheniensium fere omninra,  qui ob libertatem restitutam Har-  modium et Aristogitonem summopere colebant. Sic in spolio no-  bilissimo, quod apud Athenaeum  exstat XV. p. 695. B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS  (pOf)lf Ogj   &SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav ,  ore rov xvpavvov xxavlxj/v  ItiovopovS r *A$ tjvaS licoi-  rj6dxrjv. Nihil igitur mutandum , neque  interpretatione xataAveiv verbi  potestas mitiganda est, qua aperte  indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quae opposita esse videntur xaxeAvOev  verbo. Minus placet Schlcier-  macheri conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer  festen Freundschaft gedieliene  Liebe zerstorte ibre Herrschaft.  Converterim equidem potias :  Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and die Neigung des  Harmodius Halt und Festigkeit  gcwonneu hatte, stiirzten sie die  Herrschaft der Tyrannen. Ka-    xeAvdev autem dictam est, non  xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos, sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas aucto-  rem fuisse.   xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol  Siperotf ut sequentia docent, et  tyranni sunt, et ii , qui tyrannis  sublecti sunt. KetdSai, de tabulis  solenne, quibus leges inscribebantur, de more dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque  quasi innatus. rijs i>vxy S apyiav. Sa-  pra dictum habes: tva f oipai,  pr) npaypax ixatit A oya> nei -  pcopevoi TCeiSnv xovS viovS.  Recte igitur apyiav xijS tyvxijS  converteris: Tragheit, Stumpfheit  des Geistes.   'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia  verbis quid respondeat in proximis, non reperies. Igitur Pausaniam inceptae verborum structurae oblitum recte existimave-  ris, ut Stallbaumias censet, qui  Ex hoo loco , inquit, Pausa-  niae ingenium plane cognoscas,  qui plurimis sententiis coacervatis magooque cnm studio collectis deinde inchoatae structurae  adeo obliviscitur, ut videatur ia  alia omnia abiisse, donec ad ex-  tremum in memoriam eorum re-  deat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio  clementiores oratori nou praemeditato largiendum esse ceu-    I   fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav. Iv&ude Sl itokv tovxcav xctk-  Xlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ tlxov, ov {tudiov xata-  voijCui.   Cap. X.   'Ev&vfirj&Evu yccQ, ott Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE-  * ptag Iq&v rov lu%Qa, xal fuxfooxa vav yEwmotatav   semus hoc, at interdata, senten-  tiarum accedente mole, quae me-  ditatione in ordinem non digesta  sit, ab incepta structura oratio  deflectat. Aestu sententiarum  refrigerato Pausanias ad oratio-  nem suam revertit p, 183. C.  rauxy plv ovv otySeirt av xi$  x, T. A. ut eum dicturum fuisse  colligas : <pi\odo<pla$ xd piyidta  xapnotx dv oveldrj, ndyxaXov  6 o£eiev av vopigedSai iv xy8e  xy ndXei xal xd ipdv xal rd  <pi\ov$ yiyvedSai xois ipa-  dxcaS.   rd q>avEp&$ ipdv rov  XdSpa. Aperte amare pulcriua  esse, quam tecte amare nusquam,  si lionc locum exceperis , apud  Platonem commemoratur. Con-  sentaneum, est autem, Athenien-  ses sic consuisse, ut ab improbo  bonus amator facilius discerne-  retur. Convenit cum nostris  verbis, quod infra legitur p. 184.  A, rovrovs 87} ftovXexai o ypi-  tepoS vopos eu xal xaAdoS fiat-  davi^Eiv x, r. A. In sequenti-  bus yervaidraroi iuvenes intel-  liguntnr nobilissimo loco orti ;  aptdxoi sunt, qui optima indole gaudent, aldxlovS autem epithe-  ton de corporis, non item de  animi habitu accipiendum est.  Sententia verborum est; Dicitur  h, e. censetur ( nara Xiytxai  eiusdem h. 1. significationis est    atque vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam tan-  gatur, quod vopoS a Pausania  vocatur, vid. annot* p. 100.), dicitur igitur pulcrius esse aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR AMARE quam maxime fieri potest, nobilissimos atque optima indole praebitos, etiamsi minus for-  mositate excellant. ovx &S tl aidxpdv 7Coi-  O vvxi. Stallbanmius haec verba  arctius cum praecedentibus coniungenda censet, quae hanc in se  . » h   sententiam contineant: xal oxt  7) napaxtXzvdiS rrJ ipdUvxi napdt  itctvx&Y ylyvtxai ok $ av p a -  dxov xi itoiovvxi, Displicet  haec explicatio duabus de caussis } primum aliud quid sensisse  Pausanias perhibetnr, quam qaod verbis expressit, deinde si ponas,  cum ita sensisse, admodum frigent sequentia xal itpoS xo ini -  XEipelv — i^ovdiav 6 vopoS  6 £8 coxe rej ipadxy Savpa-  dxa Ipya ipyaZopevcp iitat -  VEitiSaif de quorum verborum  sensu mox dicetur. ' Verba ovx  <yf xi aidxpov 7Xoiovvxi ad rc3  ipwrxi pertinent, apposita autem  sunt propter napaxeXevdiX  padxtf verborum ambiguitatem.  JJapaxiXsvdiS enim et iis fit,  qui aliquid facere jubentur , et  iis , qui aliquid ut ne faciant,  admonentur. Possit igitur li. 1.  xal agldtav, xav al6%iov g cUrav wGi, xal ori au tj  xagaxblevG ig ta igairu maga jcavtav davfiaGz!] — ov%  ag %i al6%gov itowvvxi — xal eXovti te xculor Soxtl  ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov, xal ngog ro etii^uqhv e  tkuv i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty &av(ia6ta  %gya Igyaifiiiiva tnaivEiG&ai , a ei ng roXfup// tcoleiv  aXti Iruovv diaxav xal povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y 183    re» ipiUvTi xapaxiAevdiS etiam  ita intelligi, at uoa amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne haec verba sic intelligerentar , Pausa-  nias ovx fifr xi aldxpdv noiovvxi  verba apposuit* Sententia totius  loci haec est: Si quis reputat   apud se, — ingentem ab omni-  bus cohortationem fieri amapti  non quasi turpe aliquid  faceret et q. seqq,   xal kXovxi xe xaXov,  K venatione repetuutur verba in  re amatoria usurpari solita; qui  amat , duaxei , si res succedit,  alpel XOV ipcopevov, AMATUS  aXtdxexai. Riickert* N 011 sine caussa iisdem venatoriis verbis  Plato etiam de vero indagando  utitur, cuius usus exempla non  rara sunt. cf. Stallbaumium ad  Piat, Phaedon, p. C6. A. Cete-  rum cum eodem Stallbaumio e  praecedentibus verbis dxi parti-  culam repetere nolumus; etenim  iam his verbis Pausanias ab incepta structura verborum defle-  xisse videtur. xal 7tpoS x 6 iittxei pstv  ZitaiveidSai, Non caret  hic locus difficultate. Stallbaumius verba convertenda censet:  et quod attinet ad studium amasii capiendi etiam laudari licere quamvis AMATOREM mira  lacientem. Quae conversio e duplici vitio laborat, quorum alterum  est in male intellecta 7CpoS praepo-  sitione, de altero paullo iufra di-  cetur. Certissimum hoc est, at-  que xal ante — „ xe — xal  vocula posita probatur, verba  kXovxi xe xaXov 8oxel elvat,  xal p?} kXovxt aldxpoy posita  essp, ut confirmentur praeceden-  tia ovx ri aldxpoy Ttoiovvxi.  Interdum enim Graeci, qnae ad-  dita caussali particula proferenda  sunt, praecedentibus copula ad-  hibita annectunt. Possis igitur  verba convertere: nicht, ais   vena er etwas hassliclies tbate,  denu wer Beute fing, dem wird  Lob zu Theil, dem beutcloseu  folgt Sclimach. Recte igitur post  Savpadxri et post aldxpoy li-  neolas posuisse nobis videmur,  quippe quibus legentium ocu-  lis , quae enuntiationes arctius  coniungendae sint, indicetQr. Iam  non dubium est, quin verba ori  av rj TzapaxtXivdi? rw tpajpxi  napa ndvxQjv Savpecdxij de  studio amasii dicantur, quod in-  fra vocatur xo imxsipEiv kXetv.  Non verisimile igitur, Pansaniam  cum cohortationem amatoris commemorasset h. e. cius , qui cupiendi amasii cupidus est, itu  perrexisse: xal itpd? xd iiti -  Xeiptir kXetv et quod attiuct  ad studium amasii capiendi» Desideratur nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra (ityiata kccqi rott av ovsidrj. tl  yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd rov lafieiv fj ccQxr/v  ag^ai i j tlv akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg ol    yi particula, qua respici indicetur  ad id t de qno iarn sapra dictnra  sit: xai TtpoS ye x 6 Imxetpety  ?(. x. A. Non parvi aestimandum  Astii evpTjftat, quo illud deside-  rium mitigatur: xal npoS x<p   tjnxnpuy kXeiv x. x. A. Cave,  tamen coniecturam aliquam pro-  bes , ubi codd. lectio commode  explicatur. Rectissime autem  Ficinus verba convertit : Ad AMATUM sibi conciliandum; codcmque modo Schleierm icherns:  u m den Versuch z 0 ' m a -  i- heu, ob er i'lin gewinnen  konue. Quod verba attinet  t&ovtitay — 6f.6g.ixf — lucuveraSctij mira Stallbaumiana ex-  plicandi ratio, qua lex permit-  tere dicitur amatori, ut laudetur. Quamquam satis intelligitur quidem, quid sit, quod  dicitur permittere alicui,  ut laudetur, tamen non lau-  dabilem hanc dictionem merito censeas. Non autem id agit h\x  ad augendum amasii capieudi studium, ut, quamvis mira faciat amator, tamen eundem Inudandum censeat,  sed ea sine dedecore facere permittit, quae si  quis alius h. e. non amans  facere auderet, summopere vituperaretur. Posi-  tura igitur participium pro' infinitivo est, infinitivus participii  Jocum obtinet notissimo Graecorum usu, qui iam apud Home-  rum haud infrequens, cfr. II. IX.  540. oS xenia rroAA* Ip6e6xtv  t'5ci)v pro oS itoAAa xaxd ip-  Guv Proprie igitur Pausanias dicturus erat: xal TtpoS  x 6 litixtipcty kXely iZovdlccv 6  YopoS SlSwce xg> lpa6xy $av-  pa<$td Mpya i py agetiS ai xai  ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai lit\  xovtcj . Ad 816coxf e praecedentibus ne l£,6v6iay nomen ad-  dendum censeas, videunnot. p. 89.   [ip i\o 6 oq>iaS] x a plyi~  6ta xapitotx’ dv oyeidtj.  Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS  nomen, quod nullo modo ferri  potest. Idem Bekkerns fecit rectissime. Stallbaumius, ut veritatem illius nominis probaret» verba convertenda censuit; quae  si quis faceret alias, eruditorum maxima acciperet opprobria. Sed agitur  hoc loco non tam de eruditorum  indicio , quam de totius populi  existhnatioue, neque aliud tangit  Pausanias , nisi roV TtEpl XOY  "EpeJta vdpor , ad quem con-  •titiieuduin eruditorum iudicia  aliquid conferunt tantummodo,  non omnem constituunt. Iam  quaeritur, quo modo haec vocula  iu textam irrepserit. Diximus  de haere in Commentat. de Syra-  pos. Platonis, ad quam lectores  ablegamus.  7 / t iv* aX \ tj v &v vapiv.   Uniusmodi zeugmata non rara  sunt apud scriptores Graecos,  quotidiani sermonis indicia, non praemeditatae orationis orna-  menta. Idem dicendi genus ROMANIS in usu fuit, siquidem apud Terent, exstat in Andr. I. 1. 28 « Quod plerique omnes faciunt adu-   ' lesccntuli ;   tQtttiTtti ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd dvTifioXriOug  iv Tcclg dirjdiCt noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg, xal  xoifu/O sig in i frvQtug, xal i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv    Ut animam ad aliquod studium  udiungaut, aut equos Alere, aut canes ad renandum, aut ad philosophos,  Horum ille nihil egregie praeter cetera  Studebat. Idem dicendi genus patillo infra  recurrit: xal xoipr)6etS ini 5v-  pai$, quo loco frustra xotpGopE-  voS Bastius addendum, Riickertus  transponenda verba esse censuerunt. Alia ratio est Piat. Apol. S.  p. 23. D. xccvxa Xlyovdiv, oxi x a  /.UTc&pa xal ra vno jniS , xal  SeqvS /«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo 0  A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus  verbis variae hominum susurra**  tiones ielicissime depinguntur  adiuncta simul temporis, quo  edebantur, diversitate. Ac temporis quidem diversitatem mutatio structurae indicat, fiuitorum  verborum omissiones hominum  opinantium, haesitan-  tium, aliquid aut nihil  scientium sermones depiugunt.  Brevius de eadem re et signifi-  cantius, adde sis lepidius, Socrates  loquitur Apol. S. p. 18, B. ipov  yap ttoAAoi xaxrjyopot ytyo-  radi npo 1 » vpds, xal naXai  itoXXa 7/drj Hxtj xal ovSlv aXe-  A eyovTES7 quibus verbis et  multos iam annos accusatores  exstitisse dicuntor nihilqoe veri dixisse; his tertium additur, quod  verborum sono Socrates assecutas est. Dixit nimirum itaXai -  jcoXXayjSijecrj, quod sonat ut  natJcdXtj , atque vanos accusatorum susurrationes rumoresque  lepidissime describit.    xal o p no vi d j-ivvvte?.  Num iureinrando non nisi amanti  uti licuit? Quid, si quis pecu-  niam ab aliquo sumsit, non debere censendus est ad reddendum  se inreiorando obstringere ? Aut  qui rei publicae administrandae  praeponendus est, eine cives se  iniurato subiicient? Non dubium  est, quin upxovS dpvvvtES de  periurio inteliigendum sit , quod  iu quavis alia re turpissimum, in  amore, e Pausaniae certe senten-  t a, maxime excusabile est. Quaeritur autem , qui possit opxovS  o/.ivuvteS periurare signifi-  care, Pluralis numerus upxovS  indicat, ut videtur, iusiuran-  dum semper in ore gerere, at, quicquid dixeris,  eodem confirmes. Hoc qni  faciunt, iurmuraudi sanctitatem  non magui aestimare solent, eo-  demque haud raro confirmare,  quod est fulsissimnm. Iliuc fa-  ctum, ut upxovf oprvvrfS haud  raro peri uros significet.  xal xoipijdeis ini 3*J-  paiS. Amatores pernoctare so-  lebaut ante fores amasiorum , ut  severitatem eorum misericordia  adhibita/ infringerent. Notum  Nasonis praeceptura est:   Auto fores iaceat; crudelis ianua!  clamet»   xal eXoyt af 5oij-  A eiaS 8 ovXevetr , Vulgo  l$£\ovtdS legitur, quod imme-  rito Astius in iSeXorxai immu-  tandum cenauit, Recentiores edi*  tores ad unum omnes /SeXoi'T£S  probaverunt , quod plurimorum  ”3*. olag ot56’ av dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it pat-  ii thv ovtci tjjv XQcrhv xal vito (pD.av xal vtcd effipav,  t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo kaxdas xal KveAev&epias , tav  de vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep avtcaV ra 6’  fpuvn navta tuita noiovvu %a.Qi s iitedti , xal dtdotai    codicum auctoritate confirmatur,  u Stullbaumio autem ita expli-  catur, quasi positum sit pro  xal iSeXovzl SovAeiaS 8ov~  AevovxaS. Eius videlicet loquendi  normae memor est, de qila diximus  p 106. Praeplacet nobis i%eAov~  xaS, quod arctius cum dovXevetv  iuhnitivo coniunctum notionem  c ilicit iSeAoSovAeUtS, quae infra  commemoratur p* 1S4. C. avtjf  av i/ i5tAo8ovAela ovx ai6xpd  tlvai ov8s xoAaxda. Adde prae-  terea p. i84. B. c Zsnep ini xolS  ipadxaiS fjy dovAtvetv iSeAoYxa  ifYTivovv SovAeiav x. r. A.   ijnt o 8 igoiT o av pj)  7 T pdx r eiv ♦ Impediendi verba  vel cum solo infinitivo exhiberi  soleut, vel addito infinitivo, qui  cum jn} couianctus est, si im-  pediri significant, ne quid  t‘i a t. Contra ubi cautio indi-  canda est, ne fiat, quod iam  saepius factum sit, infinitivus  cum prj et articulo* exhibetur.  Exemplo e$t Thuc. III. 1., quem  Incani Riickerti industriae debeo,  flpyw xo J17J TtpOE^lOVlLXS XWV  OitAojy xd iyyvS rijS 71 u AecoS  Xtthovpytlv.   xal aldyvv o ji iveay vnlp  (xvttv y- lTep\ ovtcHv B ii cicer to  videtur non ad actiones referen-  dum esse, quas aliquis commisit,  sed ad homiuem, a quo sunt pa-  tratae, Habet haec explicatio,  quo so commendet, neque oilicit  eidem pluralis numerus, ad quem  a singulari numero Graeci solent  interdum transire, Praeplacet  tamen nobis ea explicandi ratio,  quam cum ceteris interpretibus  Schleicrtnaclierus recepit. Verba  convertit: indem dieso ihm   Schmeichelci und INiedrigkeit vor-  werfen, ieue ihn zurecht wei-  sen und sich dariiber acharnen  wiirden.   xal Sedoxat t )ico rov  r 6 jio v dvev 6 v e 18 ovS np .  Prorsus eodem modo , quam-  quam verbis paullisper immuta-  tis, p. 182. E. xal — iZovdiav  6 vdpoS 8i8coxe rc3 Ipadxjj  Savjiadra ipya ipya? t opeva)  iitaiveidSai. Iu sequentibus pro  bianpaxxopLvov veteres editt,  codicesque pauci 8ianpaxropiv(p  ex 'libent, quae scriptio quoniam  ad explicandum facilior est, quam  illa, minus est hoc loco probanda.  Possis conferre cum nostris ver-  bis, quae leguntur p. 182* C,   , xal oxi av 1 } napaxiAevdiS rc3  ip&vri napd ndvxoov Savjxa-  c ni} ovx <*jS xi aidxpov noi-   OVYTl.   o 8 e 8 eiYoxaxov x, t. A.  Rarior haec structura, eademque  oratorio dicendi generi apprime  couveiiieus ; vide Matth, Gramm,  ampl. 482, p. 806, Verba  convertenda suntvQ uod autem  gravissimum est, h o p est,  quod cet. Quae sequuntur  verba, &S ye Akyovdiv ol noA-  A ol et ad praecedentia referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg xquvcuv, wg xayxttXbv.  u jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov , Sg yt Xt-  yovGiv oi jtoXXol, on xal opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga  &ec5v ixfidvrt jwv oqxov ' utpQodiGiov yctQ opxov ov  (fdGiv elvcu. ovto xal vi &eol xal o i av&gazoi xaGav    possunt, et ad sequentia; quae-  ritor, utra relatio rectior sit Ruckertus ad h. 1. Verba, in-  quit, gjS yt Atyovdiv ol itoXKol  non ad seqq. referenda sunt,  quasi dicat: quod vulgo dicunt  veniam esse cett., hoc enim ipse  sentit Pausanias pariter atque  vulgus, in eo autem discrepat,  quod vulgus hanc rem gravem,  admirabilem putat esse, qnipJ|  quod caussam ignoret; ipse auten^  gnarus caussae, non admiratur.  Pertinent igitur haec verba ad  adiect. 8tivotaxov\ Quod autem  gravissimum est ex vulgi quidem  sententia, hoc est , quod cet. Re-  ctius quam Ruckertus f fecit ,  Schleiermacherus et Astius de ho-  rum verborum explicatione cen-  suernnt. Verba nimirum ojS yt  Xkyovdiv ol TtoXXol ad sequen-  tia trahenda esse, ipsius Pausaniae verbis , quae insequuntur,  demonstratur. Dicit nimirum  d<ppo8i6iov yap opxov ov <p ce-  ti iv elvccij a quibus verbis, quo-  niam suum indicium Pausanias  secludit, satis apparet, eundem  de impunitate periurii certe du-  bitavisse. Quid, quod Pausanias  p. 183. E. turpis amoris indi-  cium censet, si quis amasium  aetate provectiorem relinquat,  jcoWovS A oyovS xalvno-  dx&<> £1 * xqraidxvvaS,  umn verisimile est, eundem per-  iurii impunitatem credidisse?  Certissimum igitur est verba cjS  yt Aiyovdtv ol zoAAol ad se-    quentia pertinere, quibus ea prae-  posita sunt, ut clarius appareat,  vulgus , non Pausaniam sic iu-  dicare*   ixfidvti t gj v opxoov.  Stnllbaumius FJekkerum secutus  ut exquisitius tov opxov in textum recepit, quae lectio Vindobb*  duorum est ; eadem apud Cyril-  lum adv. Iulian. VI. p. 187. re-  peritur. Sed minus placet nu-  merus singularis, (vid. p. 107.)  et genitivi, quem plurimi codd*  habent, certissimum exemplum  Ruckertus suppeditat de rep. I*  p. 538. E. tov tovtov ixfial-  vovra xoAd^oudir, Vix iutel-  ligitur autem, cur Plato hoc loco  exquisitiorem verborum structu-  ram admiserit, alio loco eandem  probaverit minus.   dcppo8 i diov y a p op-  xov. Schol. habet ad h. U  d(ppo8idtoS opxoS ovx Ipnoi -  vipaS, ikl ttav 6i Hpt&TOt dpvvv-  tgjk itoXAaxis xal intopxovv-  tcov ptpvrfxai 81 tavti/S xal  'IldioSoS Aiyarv,   ’Ex tovS’ opxov £St/xev apti-  vova dvSpcoxoidt,  vod(pi8laov ipyoov ittprl Kvitpi -  8oS.   xal TIA.d.toav iv. Svputodicp. cfr*  Aristaenet. II. 20. p. 105. tov£  8h opxov? avrol (parh p?} itpoS-  Ttikd&iY zois g )dl tgov Secor.  Adde Epigr. Callim. IX. v. 3*  in Anthol* Gr. Iacobsii T. I.   p. 214. C llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o v6(iog (prjdv o  ivftads. rccury [ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov vofii-  & 0 &cu iv ryde rij ndXu xal ro igav xcc i ro xplXovg  ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da naidaycoyovg ini -  CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i diaXs-  yeti&ca xolg igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre-     tofioCev' aXXd Xlycvtiiv aXifiia, ita aggressos est, ut p. 183. D.   rovS iv ipcoxi diceret: eif xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv ovar is aSa- fiXitfuxS» His verbis ioest autem,   4 h * vutgjy. quod minos bene habere videtor.   ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem, 5i purtjcnlam   non addita essent verba coS 6 adhiberi saepenumero , ut ad   vdfioS (pjjolv d ivScide , ncmi- praecedentia orationem recurrero nem esse puto , qui Pausaniae eaqoe quasi resumere indicetur, argumentationem non rideret. sed ita tamen noster locus com-   Colligeret nimirum ille e vulgiJkuratus est, ut foitiorem parti-  de periurio sententia, eoius ve-^Ptulam desiderare videatur. Eau-  ritatem ipse addubitare se osteu- dem in lectione vulgata habes :  dit, d«*os revera summam agendi eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS,   • licentiam AMANTIBUS concessisse. quam recepissem in textum, si Addito autem d)S d vdpoS (ptj6iY plurimorum codicum auctoritas   6 ivSade nihil, quod reprehen- non obstaret. De paedagogis,   das, habebis. Ceterum discas ex qui puerorum et puellarum do-  liis verbis, qua potestate vofioS ctores fuerunt atque doctores,  nomen Pausanias exhibeat. Si- Stallbaumius laudavit Piguorium   gniiicat enim nihil aliud, quam De Servis p. 116. seqq.   rulgi opinionem. ftif ico6i SiaXeyetiSai   xavxy /ilv ovv olrj^eitf x otS i p a6x ais . Ad senten-   av xiS. Si quis igitur reputat tiam quod attinet, nihil est in   apud se, pulcrum haberi xd ipdv bis verbis , quod reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus amasii Dicuntur nimirum patres familias   laudetur, eidemque iurato periurii pueris praeficere, qui prohibeant,   poena apud deos nulla esse ere- no cum amatoribus congrediantur   datur, is dubitare non potest, quin coufabulenturque. Sed si ad   iu hacce civitate pulcherrimum cen- conformationem enuntiationis re-  aeatur et amatorem puerorum esse spicis, duplici dativo offenderis,   et amatpri amasium gratificari, quem Graeci scriptores perraro  iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt, quippe osores acer-  bo vS. Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitae ambiguitatis. Unum nias voluisset, verba audirent exemplum huius rei ut afferam, ineiddv de xiS opii, oxi ine6xy- Plato insolei^iorem verborum   6av ol natepeS — tjyijcaix' dv structuram admittere maluit, quam   x. x. A. Sed ipsam rem h, e, duplici dativo ambiguam oratio-   xo i7tt6xTjvat xovS TtaxipaS x. nem edere atque e nominum s^-   x. A. non intercedente upa verbo millima terminatione laborantem  tayniva y, rjfoiudtTai de xccl eraigoi dveidl£co6iv, euv  xi ogatii roLovro yiyvofievov , xcd rovg 6 veidi£ovtag .av  oi 7tQS0pvtfQ0i (i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg ovx D  OQftug Myovrag, elg de ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av  naXiv td6%i6xov ro tolovtov ivftade vopltecftai.   Td de, oluca , cJd’ ov% ccTthovv iouv , onsg    p. 182. C. OV tivjupfpu TOlS  a pxov 6 1 tppovijpaxa peydXa  iyylyve6$cti zoS v dpxope-  vcov, ad quem locum vide  annotationem p. 102. Nostra  verba quod attiuet , videtur du-  plicem dativum Flato admisisse*  ne nescias, amasios an amatores  confabulandi facultate privare  dicantur amasiorum patres. Quoniam autem amatorum pro-  prium erat, ut loquendi cum  amasiis initium facerent, non  amasiorum, ut cum amatoribus:  optime Orellius pro xaiS ipa -  tirc&S scribendum esse vidit xovS  ipadxds,   z 6 6^, oi/utt,   To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum mentione ad id,  quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera autem  verborum significationem esse  Biickertus censet. Recte. Prin-  cipium, inquit, hic usus duxisse  videtur, ab eiusmodi enuntiatis,  quale hoc nostrum est, ut ro 8i  revera esset illud autem, sub-  iectique vim haberet suo in mem-  bro , quod deinde alterum exci-  peret d<5vv8ixG)X, at h.l., postea  contracta sunt in uuum duo haec  membra, et quidem vel sic, ut  td maneret subjectum, quod ad  rem, de qua sermo esset, respiceret, suumque haberet subsequens praedicatum , vel at subiecti vim plane amitteret. xal ro3 naidaycoycp  r avxa xpoSxezaypera y.  h. e. and dem Fiihrer dies ausdriicklich xur Pflicht gemacht ist  sc. fttf idr xotS Ipcouf.voiS 6ia- }  AiyttiSaci xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum omnes  ixepoi exhibent, quod praeennte  Heiudorfio ad Piat. Pbaedr. p. 210.  plerique editores in ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus ,  quem Riickertas secutus est, ui-  mia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt. Adnumerandus hic  locus iis est, quos summa con-  stantia male exhibuerunt codd.  Vide p 21. annot, ad verba npo  6 xov.   ovx anXovr l6x\v y oizep  seqq. Respicit Pausanias ad verba  cap. VIII. TcaCa ydp' itpa£,iS  gj6* avtt) lq> ccvxijs Ttpat-  TopkvTj ovxe xaXjj ovxe aiCxpd  d\\’ iv ry npa£ei, d>> av  npax^ift xoiovxor dnifir/. Fue-  runt, qui uegutionem ante nr^Aotiv  positam uncis includerent tan-  quam ineptum scribarum additamentum; alii alia ratioue locum sanissimum emendare studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso, quod in codd. aliquot non  comparet, scribendum censuit:  ovx chzXajS idxlr, onep IB, ap-  XyS &\&x2V > ovxe xaAov avtd  xa$*avx6 ovxe aitixpov . — Qoo  minus recte verba intelligerentur,  interpunctio impedimento fuit,  quam post iXix$V * n omnibus  £* aQxrj s IA s%fhj ovts xakov ilvca avxo xa&' atrto  (wtb cdaxQov , dXka xakug fisv ngccrrofievov xukbv,  altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv iorl tcovj]qc 5 re  xal itovrjQhig %uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te xal xa-  E koog. novrjQog d’ itsnv ixtivog 6 IgaOrr/g 6 itavdtjiiog,  o rov (Suficcrog fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal ydg  obSi /luvLjiog iauv , ars ovdi (lovlfio v Igav ngayfia-  rog' ccfia yag tcS rov Gcjjiarog av&Et foyyovti , ovjreji editionibus repertam delevimus. Subiectum enuntiati est ro <pt-  Xelv s . ro x a pfe*i 1$oci ipatizaif,  SensOs est: Gratificar i ama-  tori uoo simplex actio  est, quoad quidem sta-  t i m ab initio actio per se  spectata nec pulcra esse  nec turpis dicta est, sed  pulcre acta pulcra, malo  acta mala est.   cti(S XP&Z p\v ovv * Haec  est codd. plurimorum lectio, quam cum olhn io sequentibus  KOtXov 8s legeretur, in aldxpov  pev ovv immutavit II Stcpha-  nus. Nunc illud codd. consensu  probatur, igitur xaXajS 6e scri-  bendum est etiamsi non in qua-  tuor codd. exstaret. Ceterum  non recte Stallbaumius ad al-  6xp&$ et xaXcjS censet e supe-  rioribus intelligeudum esse Tcpaz-  T6iv . Nimirum iu superioribus  p. 181. B. seqq. Pausanias cum  de ipav actionis ambiguitate lo-  cutus esset, nunc eo orationis finem direxit, ut et de amasii  amore h. e. de tpiXtiv, quid videretur, ediceret. Sensus est:  'Hassliche Liebe nun ist  beim Liebling, wenn er  sich einem Schlechten  auf schlehte Weise e r -  giebt.   ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est p. 181. B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio conteintum qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem articuli repetitio honorifica est p. 187. E. xal ovtoS  itiziv o' xaXoSf 6 OvpdvioG , o  t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS*  Igitur neque honorifica neque  ignominiosa significatio ixeivoS  verbo cum duplici articulo con-  juncto eilicitur, sed extollit tan-  tummodo verba, quibus apponimur, quae verborum sublatio pro  sententiae ratione in bonam aut  in malam partrm accipienda est»  offerat ukotcz a pzv os.  Haec verba ex Homero II. ^,71*  depromta sunt, ut primus Fische-  rus vidit. Reperiuntur eadem haud  raro apud poetas serioris aevi, ut  apud Mare, Argentar. cp. VIII. 1.  opvi , zl fioi cpiXov vvtzov acptfp -  7ca6a$ ; ?}8v 6h II vfifijjS  EidcDXoy xoizjjS (&x £Z dnonza.-  pevov.   Ceterum quam bene Homerica  dictio rei describendae conveniat,  iam vide. AMATORIS am^siique  coniunctio cum ^mimae et corpo-  ris conjunctione comparatur, quae  nisi coniuncta sunt, esse non  possunt. Amator igitur amasium  deserens levitate sua, quae azco- I   i tjQct, ot %tT<u a7CoitT<x[isvoSj itollovq Zoyovg xal vito-  tf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e rov ij&ovg %Qr}6 rov ovrog  egatirrig duc p Lov [ievel , ars iiovifico Gvvray.ug. rov -  rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug pa-  Gavltuv, xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv -  yuv. 8ta recura ovv tolg fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy  roig $£ (pEvyEiv , ayavo&etdjv xcd Patiavl^cov jtoztQav  7toxs iGnv 6 eq&v xcd jrotEQav 6 6QcZtiEvog. alita 6q    ittdyevoG participio expressa.  Umbrae imaginem repraesentat;  amasius ab amatore derelictas  miserrimam conditionem ostendit  quasi corpus sine anima iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o itdrdijfioS ) ist nicht  treuhaft, da er nichts  dauerndes liebt. Denn  mit dem Verwslkon der \  Bliithe des Korpers, die  er Jiebte, schwindet er  fiatternd daron nnd  xnacht viele Worte' nud  viele Versprechungen  z u ni chte .  r ovrovS 6 rj fiov\ st ai  seqq. Verba convertit Schleierm.:  Diese also will unsere  Sitte, dass man wohl and  rccht priif j, nndden einen  gefallig sci, die andern  aber meide. Iisdem fere ver-  bis in convers. Symposii usas  est Scbnlthessius p. 75 Riickertus verborum sensum esse ait:  Velle legem explorare  amatores, facta autem ex-  ploratione pueros aliia  obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris visum  est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao  voluntatem fucilins cognoscamus,  brevi repetitione opus est sententiarum, quae in eius oratione continentur. Athenis nimirum  legimus fuisse de amore legem  ambignam, cfr. p. 182. B. Eius  rei caussam esse, quod quaevis  actio per se spectata et pulcra  esse possit et turpis. Actionem  enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari, cfr,  p. 181» A. Hinc bonum amato-  rem esse , qui bene amet , ma-  lam , qui male, cfr. p 181. A.  fin. Pari modo amasium malum  vocari, qui male se tradat ama-  tori, bonum, qui bene, cfr. p.  183. D. AMATOREM, Pausanias  pergit, ad persequendum amasium omni modo impelli lege Attica,  cfr. p. 182. D., amasium contra ab eius congressu retineri. % cfr*  p. 183. C. Hoc quo consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqae  videlicet, h. e, et amatores et  amasios, lex Attica explorare  studet, atque bonis amatoribus  araasiisque favere, malos pellere.  Huic explicationi Graeca verba  optime respondent excepto uno,-  quod de legis efficacitate dictum  admodum friget, Atacptvyeiv ,  si quid video, depravatum est,  scripsitqae Piato (pvyaSeve iv.   8ict roruta ovv toiS iikv  seqq. Totam hanc enuntiationem  delendam censuerunt Schiitzius  et Astius. Mitto aliorum conie-  cturas commemorare , quibus non  8  vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro aXlGxtG^ai  ta% v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og Srj  Soxti tu xo Xka xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]-  B [turav xal vxo xoXvttxav Svva/iitov aitovai (iIg%qov,  luv rs xaxcos xa6%cov xryfy xai /irj xaQtipyGy, av t  tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i) eis Sucxga^ei , g xohuxas    sonatur, sed corrumpitur locus  sanissimus. Mens Pausaniae haec  est: Um nun die Sinnesart  der Liebenden kennen zu  lcrnen, mnntett das Ge-  setz die Liebhaber znr  Verfolgung derLieblinge,  die Lieblinge zur Fluclit  vor den Liebhabern auf,  und ^ichtet nun and priift,  wes Geistes RinderLieb-  haber uud Lieblinge sind,  ob sie zu den schlechten  oder zu den guten gelid •  ren. Eodem fere modo in con-  versione Ficinus : et hos qui-  dem sequi iubet, illos fu-  gere, diiud icar, s et examinans, quae quis amet  et quae in quovis amen-  tur, Nam ex iis , quae quis  amat, cognoscere possis, utrum bene amet necne,   ovtej 8 rf vxo x avxrjS  xyS aixiaS , Hac igitur, qua  dixi, ratione atque ea de caussa  sc. ut amantium ingeuia accurate  examinentur, vide annotat, p. 72^  xpcoxov p\v xo aXl6x£~  6^ at. Statim capi atque te-  neri amasio dedecori est, quod  intercedente tempore nullo amasius de amatore indicare non potest, fierique potest, ut malo  se tradat.   oS 8rj 8 o x ei. cfr, Meleagri  Epigr, LXII. in Iacobsii Authol,  T. I. p. 20.  EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok  £xixr)xta tptXovda   "HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov  ipeota xpovoS.   xo vxo XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque  potentia in civitate capi,  h. e. si quis invenis diviti viro  et potenti se tradat , non qao  mores probet , sed quia* divitem  eum esse videat atque poteotem;  quod quibus modis heri possit,  in aeqq. statim exponitur} mem-  bra enim, quae seqnuntnr, iuueta  particulis iav xe — av xe, non  nova quaedam continent, quae  ubi locum habeant, torpe sit  amati obsequium, quem sensam  Astii versio exprimit, sed dupli-  cem viam indicant , qua - possit  heri, ut divitiis aut potentia quis  capi se patiatnr, si aut male  tractatos ab amatore praepotente  reformidet, nec audeat fortiter  resistere, immo metu se submittat,  aut beneficiis pellectus non con-  temnat, sed tradat se homini,  qn» pecuniam det, in reboa pu-  blicis gerendis adiuvet, Riik-  kert. De xaxa(ppov?/6y verbi  significatu supra dictum est ad  p. 87.   vxo noXtx txGov 8vyd-  pec ov. h. e. spe magnae in  civitate auctoritatis et  potestatis, vid. Wyttenbach.  ad Plut. de Ser. Num. Vind. p.  58. StaUb. Eodem modo posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap 'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov  OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi 7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV   yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3 ^psziQtp vopcp  oSog, et (iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj jcaidwa. fifrt  yaQ rjpZv vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv — dov -  Xevuv i&tkovra qvtwovv dovkeiav icaidu&olg pfj xoka- C    tam habet p. 178. D. ovxe xi-  pal ovte irkovxoS h. e, neqae  honoram neqae divitiarum futara  possessio, vid. annot. p. 60.   iav te xax&S zadx oav  X. X. A. Expressit haec Phaedrus  p* 178. D. hoc modo* ei xi  alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ yl-  yvoixo 7f 7tCt6XG>V VICO xov 6i  avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad  quae verba vide annot, p. 61.   XMpif xov pijdl 7tE(p v-  xkvai . Recte Stallbaumius:  praeterquam quod ne ori-  tur quidem inde generosa  amicitia. Eadem dictio repe-  ritur Symp. p. 173- C. xgo/jI?  xov ofedSai QotpEktidSai vnep-  <pvooS c oS X a tp°°* Exempla plura  huius dictionis Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. p. 35. B.  fin, : x&P^S & r V s 8o5y*> cJ  dvdpES, ovSl Sinaiov fioi Soxei  elvai x, r. A $ikiav cave  latiore sensu dictam putes $ non  enim valet nisi de amasii erga  amatorem benevolentia, vid. an-  not. p. 69.   ' %6xi yap ijpiY vopoS  seqq. Haec Verba, ut vulgo disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam explicari possunt. Dicere debebat Pausanias : l6xi yap  rjpiv vopoS, Ssicep iitl xoiiS  ipadxalS tjy SovAeveiy — ovtgo  xal uWtjy piav iiovrjY 6ou-  A eiav kxovdiov tivai x. x. A.  Acquiescentem, in anacoluthi*    Stallbaomium video, quae in hu-  ius enuntiationis brevitate satia  molesta est. Displicuit eadem  et aliis , qui vario modo locum  sanare studuerunt. Aliquid vitii  verbis inesse videtur, sed non  mutauda verba sunt pia poY7f 9  de quibus Thierschius egit Spec.  Crit. p. 47. seqq. et Schaeferus  Melett. Cr. p. 19. Plura exempla  attolitStallbRumius ad h. 1. Rectis-  simum est, quod in uno Bekkeri  codice legitur, oSitep pro daSzep\  verba hoc modo disponenda sant:  £ 6 xi yap i}piv vopoS t oSnep  inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv  kSkXoYta ifvnvovY dovXeiaY  itaidixols p?} xoXaxeiav elvat  pr/de £zoYEi 6 t 6 xoY * oyxeo 87 }  xal aXkrj x, x. A. Sensus est:  Lex nimirum nobis est,  quam AMATORUM esse supra diximus: Si quis quo-  libet modo serviat ama-  siis, eam servitutem non  ignominiosam esse, lam  nt amatori, ita amasio  etiam lex est eaqne sola,  quae serviri amatori concedit  quidem, sed non nist ita, ut id  fiat virtutis ergo. Iutelligent  prudentiores, quid homo sibi ve-  lit. Apprime huc pertinet Xe-  noph. Symp. c. VIII. $ 32.   xaixot TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya -  Sgovo? xov TtoiTjxov £pa 6 xijS 9  dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpa-  dia dvyxvXiYdovpEYODv , eZpij-  xev , coS xat dtpaxEvpa cifoa-  8 •  xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco drj xcct alit] pia  povq Sovlda ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog. avri]  di iduv rj xeqI zqv ccQBttjv.    Cap. XI.   NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv , idv ng t&ily uva &£-  QttJtevtLV rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj xcczcc  (iocplav riva ij xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq  au % l&Elodovltla ovx cdo%Qd tlvai o vdb xolaxela.  ficorarov dv ykvotzo in nauSi -  xojv te xal ipadzcov.   i} nata dotpiav riva.  De latiore tiotpicxS significatu,  quae qn\o6ocpia. paullo infra vo-  catur, vide annot. p. 34. Satis  autem erat dixisse: y Maza. 60-  rpitxv riva ij holS* onovv fii-  poS dpEZrjS, Sed haud raro  Graeci iu rebus, quae genere  non differunt, specie di-  screpant coniungendis vtWoS  nomeu -addunt, quod qua ratione  fiut , infra docebitur. Exempla  sunt huius usus Symp. p. 188.  A. civ$pGj7toiS "Hat zotS aAXoiS  ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg. p,  473. C. ZtjXgdtuS qqv nat cvdai-  povt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv  xai z<yv aXXcov gtva) v. Alcib,  I. p. 112. B. xal al paxen ye  xal oi Sdvazot dux zavryv trjv  dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\  to2s aAAoiS Tpco6iv iyivovro.   %v /tftaleiv cis tavto.  Bene Riickertus , duae, inquit,  hae leges in unum quasi locum  conferendae sunt, h. e. cura  agenda est/ ut harum legum utra-  que valeat atque observetur, quo-  ties amatori puer se dedut , ut  ille nihil recuset facere atque  pati, quo dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiae  atque virtutis studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre  possit, contra qui virtutis auctor  sit, ci se tradat, nihilque, quo  gratus illi sit, facere recuset.   ro ipadty itaibrxa x a ~  pitiatiScei. Plerumque solet  duobus nominibus hoc modo iunctis articulus demi, si in uni-  versum de toto genere sermo  est cfr. Piat. Eutyphr. cap. IV.  dvodiov yap etvai zo vi 6 v  itazpi <dovov I xe&iivai. Symp,  p. 1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~  pul6$ai ipa&cy naidixet. Tw  ipcttizy autem, quamquam sensu  nou cassum est, tamen, quoniam  sententiae rationi minus convenit,  prae pauciorum codd. lectione zo  ipa6zy postputandum est. Et-  enim non dispicias , cur suo  quisque amatori amasius re-  ctius dicatur, quam iu univer-  sum amatori amasius grati-  ficari.   otav yap e Is zo avzo   l f Sensus verborum  est: Weun uumlich Liebhaber and Liebling den eincu Zweck  vpr Augen haben, velcher sicli aus der Vercioigung ihrer hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta ^vfificduv elg ruito, xov re  itegl t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi t>)v epdotiotplav r t 1J  xal rijV aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai xaXov yt-  veOftcu xo IgaOrfj xtcadixu xagl<Sa(SQai. otav yag elg  r 6 tcvx o iX&coOiv iguGxrjg xe xal naiSixcc , vo/xov %% cov  ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig xcadixoig vxi/geuav ouovv  Stxulag av v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov Corpov  xe xal aya&ov Sixaiag av ouovv av vnovgyelv , xal 6  (itv dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv dgextjv £i\u-  (iaXXeO&ai, 6 Se Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv e    derseitigen Gesetze ergiebt. Co-  piosius paullo infra p. 1S4. E»  dicitur: rore — rodrmv ZvvioY-  tc av eIs x avtov xgjy ropcav.  Minus recte RiickertusJ Quum  enim conveniunt.   na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y  Bivfi{jdXA.e6$ai. Verba tran-  sitiva, quae vi quadam pronun-  tianda sunt, ut iis seutcntiae  caput contineatur, haud raro ab-  solute ponuntur. Verba conver-  tenda sunt*, indem der eine in  Beziehung auf Weisheit und Tu-  gend Befordcrer zu seiu verraag,  der anderc in Bezieliung auf Bil-  dung und Weisheit Besitzer zu  sein verlangt ... Vide, quae de  absoluto usu verborum supra an-  notata sunt p, 87. Eius usus  ut unum exemplum hic addam,  legitur Symp. p. 175. A. napov  naXovYtos ovn faeXei eisiEYca,  quo loco, quid differat naXe.lv  et naXeiY xivd , edocearis; re-  ctius igitur, quam factum a me  est p. 27., verba convertenda sunt:  und ich rief mehrmols , h. e,  liess mehrmals den Ruf ergehen.   xox e 61 / — eis xavxov-  X gdy YvpGDY. Wenn dann,  sage ich, dicse Gesetze zu einem    Zweck sicli vereinigen. di/  particula positu est , ut filum  orationis interpositis verbis ab-  ruptum rursum anuecteretur. Pror-  sus eodem modo p. 183. D. t.is  61 } xavtd xiS av (IXtipaS, ad  quem locum vid. anuot. p. 110.  Pertinet autem b. 1. tore Stj n.  x. A. ad, praecedens otocv }'dp  eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r. A.  Coniecturis verba frustra sollici-  tarunt Astius et Bastius.   B,v p it i nx Et xo naXoY  elvai . Phavoriuus : 6t>j.iitl-   Ttt E iy XiyErai nal xo tivpftai-  veiy et s. v. 6v/iftE<SeiY : <5tyi-  iriittEiY • opov yEvk6Sai • oi  /uS? "Oprjpov trjY Aefciv nal  inz xi’xypd>Y aTtofiaGEWY ti-  SeadiY. Stallb.   tovxcj. Convertit  Schultbessius : Selbst sicli hier-  i n getauscbt zu finden , briugt  keine Sebande. Schleiermaclic-  rus, cuius verba Riickertus pro-  bat , exhibet in convers. : i n   diesem Falle. Ficinus verba red-  didit; in hoc utique falli turpe  non est. Unice vera Stnllbaumii  interpretatio est: quum sic a f- '  fecti sunt animo. Errat  'autem Ruckeitus, xo ititcutaxu- <3o<piav maci&ca , r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg xavrov  xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai  XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL , aAXofrc de ovda/iov. ini  zovToy xal Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «X-  Xoig nceifi xal i^anarafiiva alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei  185 yecQ «S tQaarjj ag nXovdicp nXovxov evexa xaQiQa^ievog  htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf lccta ) ivcupuvivxog tov    d$ai ad solam amasium perti-  nere censens, non item ad ama-  torem. Etenim quae sequuntur  exempla, quamquam non nisi de  amasio loquuntur, tamen simul  amatoris imagiuem involvant,  qui vel amasium frustratur falso  amore, vel ipse amasii studio falsissimo decipitur. Verba con-  vertenda sunt: Bei solcher   Absicht ist selbst die  Tauschnng deseinenoder  des a"n dem nichtschimpf-  lich. Bei ieder undern  Absicht dagegeu bringt  Lieben undLiebling sein  Sebande, mag nun einer  getauscht werdea oder  nicht.   lB,cntaTi\% elrj xal jxy  Xdftoi. Si quis spe excideret  h. e. si non acciperet. Igitur  xal h. 1 . explicativum est, de  qua vide sis Indices, cfr. Al-  cib. II, p. 143- c. 10. xaxov  apa — idrlv rf tov fieXxidxov  dyvoia xal xo dyvoelvSo fie A-  xidxov. Dc iusequentcava^nrW*'-  TOS Riickertas <K ava<paive6$ai f  inquit, verbum proprie significat  ex inferiore loco emergendo apparere $ hinc subito apparere,  dicitarque haud raro de iis, quae  cum speciem quandam habuissent  antea, falsam illam, subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc subito,  quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. p. 484.  A. oi pty di} <piXodocpoi — xal  ol /ii} dux /laxpov xivoS die-  ZeXSovtoS Xoyov /loyiS it co s  dve<pavTj6av olol eldiv a/i-  i poxepoi . Neque debebat Rii-  ckertus exemplum putare , quo  sententiam suam probet Symp.  p. 213. C. eicSSeiS l€,aCpvi)S  ava<paived$ai onov iyoj di/u/v  r/xidxa de idedSat, quo loco  neutiquam abundat i%al<pv7jS  verbum,   XO y e avxov: quod ipsum  qttinet, quantum quidem  in ipsius potestate est.  Wolfius verba convertit: sei-  nen Charakter, seine Ge-  sinnnug, quod quamquam ferri  potest, tamen propter iusequens  to xa$ avxov etiam aliis  minus probatur.   ovdiv jjxxov aldxpov  h. e, non minus turpe est,  quam si AMATOR revera  dives esset, AMASIUS igitur non deciperetur atque pecuniam acciperet.   xav ei' xiS <»£ dyaSai.  De xav el particularum signifi-  catu disseruit Buttmaunus ad De-  mosth, Mid. p, 33. Nimirum  quoniam non nisi ad modum verbi  alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in fdr- Igadrov xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o  toiovtos xo ye avxov budet%eu , oxi svBxa %gyiia xav  oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi' xovxo Se ov xakov. xaxd  xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m jragvSafUvos  xai oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov  tQaOzov i^aitazri&tlT} , dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B  ov XExxijfiivov ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg    mula xav ei, av particulam ad  alterum post ei verbum perti-  nere, Igitur recte dici Batt-  mannos ait xal, ei xovxo  itoioirjv, ev av itoioirjv et  6oxco jiot xav t ei xovxo  noioirjv , ev itoieiv , Inter-  dum praecedente xav, quod od  apodosin refertur, verbo in apo-  dosi posito av superadditur,  ut recte dicatur Graece tioxm  jxoi , xav, ei tovro itoioirjv,  ev av Ttoieiv . Nostro loco quo-  niam apodosin uon habes, ad  quam av particulam referas, ca-  put enuntiati esse xai ei i£-  ait axrj $ eirj censendum est.  Et quoniam xal el conditionem  exprimit , qua revera fieri  posse significatur illud, quod in  couditione continetis, haud abs  re visum est scriptoribus av  particulae in hoc dicendi genere  additamentum , quo possibilitatis  , notio in verisimilitudinis notio-  nem immutetur, Sensus est: Anf-  dieselbc Weise nun, wenu einer,  indem er einem sich ergiebt, ais  einem guten , um selbst. besser  eu wenlen, getcuscht wird (and  das kann gar leicht ge-  scliehen and ist schon oft  geichehen), s. Gesetzt nun,  es wiirde einer wirklich be-  tfogeu, indem er cett.   6ia rrjv qnXiav xov  l pati tov. Deerat olimroti ar-    ticulus, quem ex octo codicibus  addiderunt interpretes. In an-  notatione Riickertus habet : s u am  caritatem erga amatorem,  Schleiermacherns : d u r c h die  Freuudscliaft 'seines Lieb-  habers. Scbulthessius: durcli  seine Fren,ndschaft. Ama-  sius, qui AMATORI sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id  se fecisse videt, non caritate  erga amatorem deceptus est,  sed malo amdre amatoris.  Verba 6ia xrjv <piMav xov ipa-  tixov prorsus repuguare videntur  iis, quae de (piXiaS notione supra  annotavimus p. 69. Neque tameu  illic non recte iudicare nobis vi-  demur, et commodissime huius  loci verba explicantur. Satis  notum est, viros, quarum igna-  via notunda sit, feminas interdum  appellari. Exemplo est huius  usus notissimam Homeri dictum  'jixatdeS ovx ix* *Axcuol. Nou  minore, ut videtur, cum acerbi-  tate virorum ignavia notatur ad-  dito , quod solis feminis laudi  est. Quis feminas dou laudet  in nendo subtemine diligentes?  at Herculem colo assidentem quis  uon vituperet atque derideat?  tpiXiav Achillis, Patrocli amasii,  summis laudibus eilert Phaedrus  p. 180, B. Alcestidis laudat p.  179. C., nam et amasiis et mu-  lieribus propria <pi\ia\ vide an-  ai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on uQEtijg  y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl tzqo-  %vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itav-  rog ys xaXov dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv  6 tijg OvgcivLag &eov "Eqoq xal OvQaviog xal noXXov  utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv tx^iXetav, dvay-     not. p. 69., nostro loco amatoris  <pi\ia ita commemoratur, ut ma-  lam, effocminatum, turpem amo-  rem siguificet. Similiter feminis  a serioribus praecipue scriptori-  bus ipcoS nomen attribnitur adhaerente ignominiae notione.  Caute igitur Phaedrus, Alcestidis  laudans in amore virtutem , non  8i ipeaxa dixit, quo verbo omnis  laudatio misere periret in licen-  tiae crimen conversa, sed (pi~  "kicLY commemorat, qua pa-  rentes superarit mulier  fortissima 8 ia x6v*EpGJxa*   xal o v x exxTjpiv ov  dpexrjv. Prorsus eodem modo  supra dictum est p. 185. A, i£-  anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~  / iaxa , ad quae verba vide uunot.  Adde p. 185. C; apexijS y £v£-  xa xal xov fieXxiaov yevitiSaz  X. t. A. In sequentibus o/idoS  xdAjJ tj anati} verba conver-  tenda sunt: tamen non igno-  miniosa fraudatio est,  ignominia cum frauda-  tione amasii non coniun-  cta est. Sic p. 184. E. ini  tovto) xal i%aitat?]$jjvai ovdlv  aidxpov.   Soxez yap av xal ov-  toS*. Kai scriptor posuisse cen-  seri potest ita, ut ad praecedens  8oxet yap 6 toiovxos — Im-  8tlB,at x, T. A. respexerit. Ha-  bet tamen haec dictio , quod  mihi quidem admodum displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap  av xal ovz gjS? h. e. videtur  eoim etiam hac conditione i. e.  etiam si hoc ei contigerit, nt ab  amatore deciperetur, quantum in  ipsius potestate est, declarasse  satis et q. seqq.   ndvrcos: ye xaXov ape -  xij$ ivexa h. e. Hac igitur  ratione in universum pul-  crum virtutis ergo ama-  toribus gratificari. In  permultis codd. yi legitur post  dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt Riickerto  excepto, qui eandem in textum recepit. Particulam non exhibent Bodl., Vatie. Vindob., quorum librorum tanta auctoritas  est , ut recipienda particula sit,  si hi eandem exhiberent contra  ceterorum auctoritatem. Ut res  nunc se habet, particula delenda est.   ovroS’ l6tivot ijSOvpa-  v ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa  haud raro significat: hac ra -  tione, qua dixi, ita ovtoS h.  1. convertere possis: Ecce ta-  lis est, qualem descripsi,  Uraniae Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula  littera scribendum curavimus ,  nomen enim revera est, non  adiectivum. Minus apte Schleier-  maclierus verba convertit : Dieses  Ist der Eros der himmlischen  Guttin und scibst himmlisch.  v t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C   ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’ ersgoi navus T ^S Bti-  qus, rijjs ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog ix tov nu-  Qu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii "Egenos OvfifSuklofiai.   TlavOctviov Se navGafiivov — didatSxovSi yag fis  Ida Xtyuv ovtadl ot Oocpot — Igpjj 6 ^QiOzodrjfios    Alia ratio ndvSjjfiof verbi, qnod  supra p. 181. B. ut adiectivum  positam est : d fib' ovv t ljs  Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~  itctv Si] fxo S idziv x.t.X.  Perfacile autem fieri potuit, ut  aliquis cum ovpavioS littera mi-  nuscula scriptum exstaretin codd.,  xat adderet, quo orationem, quam  censeret mutilatam, expleret. In  codd, nullum vestigium deprava-  tionis est, igitur ne uncis quidem voculam inclusimus, nimiae  audaciae crimen fugientes.   tov te ipcovta — xa\  tov' i poS fievov . Post roV   ipco/ievov rursus iutelligas avzdv  avtov. Frustra Bastius et Astius  tov ipcopkvov scribendum putarunt: quod si ab ipso Platone  esset profectam , ordo verborum  hic, opinor, foret: tok ipajvxct  avtov te avtov xal tov ipoo -  pkvov. Nunc sententia liaec  est: Eros Uranius utrumqae, et amatorem et eum, qui amatur, impellit et  cogit, ut omnem coram  ponat in studio virtutis  et sapientiae. Stallb.  Eodem modo verba intellexit  Scbleiermacherus in convers. p.  405. *. indem er den Liebenden  nothiget viel Sorgfalt auf seine  eigene Tugeud zu weuden, und auch den Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia.  Schol. habet:, ix tov avxopa-  toVf ix tov itpoxeipov. Appo-  site Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat Hell. I. 1. 21. A £-  yeiv ta p\y anu tov nctpaxprj-  pof, ta 6h fiov\ev6atp£voi'S*  Non dubiam est autem, quin  additis his verbis Pausauias ex-  cusare voluerit orationem suam,  quam elegantiorcm atque poli-  tiorem edere potuisset , si ad  eam rem aliquid otii datum  fuisset.   Ilavdaviov 8e tfavda-  pkvov. De sophistarum irri-  sione hic agi, qui similes sonos  verborum studiose quaesiverint,  iisque orationem suam exornaverint, conseutiens iudiciom est  interpretum omnium. 9ed non  verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov verbis  ita usum esse, ut ad Pausaniae  orationem non respiceret, in qua  illius studii sophistici nullum vestigium reperitur. Praecellit  autem haec oratio prae ceteris  verbositate, ut non videam equi-  dem , quid obstet, quominus in  hanc verbositatem Tlavdavlov  navdapkvov verba directa esse  censeamus. Fuerunt, ut ipse  Apollodorus indicat sequentibus  verbis, magistri dicendi , qui si-  militudines verborum discipulis  commendarent. Sed commenda-  runt eas ita , ut quibus aliquid  efficeretur, quod modo indicatum  est esse h. 1. iuanis cuiusdam  verbositatis satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij Xiyuv, t v%dv 8e avta uva rj  vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya liaitmra-  xvlav xal ov% olov re elvat Xiyuv , aAA’ tliteiv av-  ii tbv — iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv ’E(>v!;!pa%ov  xcaccxeia&ai — r £l ’EQv%l(ia%s , d mulos d ij itavOai    pcriiim. Non igitur illos dicendi  magistros Apollodorus carpere voluisse censendus est, ad quorum praeceptum ipse verba sua  composuit, sed eos commemoravit tantummodo, ut eorum auctoritate dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut de conver-  sione verborum Tlavdavlov Sl  navdapivov dicamus: Schleier-  mucherus exhibet; Ais nun Pau-  sanias ausgesugt hatte. Schult-  hessius habet: Nachdem ntm   Pausanias pausirt hatte. Astius  verba reddidit: Nachdem Pausanias eudlich geendet, quae couversio Orellio displicet, quod ni-  mis longa oratione Pausanias  usus esse dicatur. Sed ea ipsa  de caussa Astiaua illa conversio  r.obis magnopere placet. Est ta-  men nobis, qnod Graecis verbis  mugis respondeat, quod si durias videbitur atque minus elegans,  non magnopere dolebimus, quippe  exhibituri, quod revera excu-  satione indigeret tg ov dotp&vx  Ais Pausanias nuu ansposaunt  hatte,   ovTGodl oi do <pol . TovS  tiocpouS dicendi magistros esse,  supra indicatum est. vide quae  de docplaS notione annotata sunt   p. $4.   SI avrcp riva —  ii vyya. Scbol, ad h. 1. varias  singultus caussas laudat eiuaque  sanandi modos studiosissime re-  fert, quos hic repetere longum est. Unum hoc ex eius annotatione depromam, quo prndentiores de Aristophanis voluntate  certiores fieri possunt : zo rov  A vypov dvpnzcopa irtiylvezat  tgj dtopaxoo Sta 7t\ij pojdtv  rj xiv od div r) if>v % iv, iviote  xal dia 8rj£,iv Spipe arv  vypo)V xal (pappaxoaS&v zalS  noidztdiv. Pluribus de Aristo-  phanico singultu dicturi sumus in  Commeut. de Symp. Platonis, ad  quam lectores ablegamus,   iv x y xdteo. Haec est lectio codicum plurimorum. Vulgo  iyyvtdzcD legitur, quam lectionem Astius retinendam censuit.  Frustra. Non enim de vicinitate  hic agitor, sed de ordine seden-  tium; quandoquidem Eryxima-  chus praecepit: Zxadrov \6yov  eltceiv hcaivov "EpcjroS ini 8e-  £,id. Saepissime autem ivzoS,  iyyvS , iv x\j xdra> , iyyvrdzco,  similia, commutata reperiuntor in  libris, ut non defuerint, qui etiam  Lachetis loco ditficiliimo p. 187*  $• 13. iyyvzata vocem mutan-  dam censerent. Beue tamen id  habet eo loco. Verba sunt haec:  ov poi Saxeis elSivai , dzi ds  dv iyyvzata 2a)xpdzovS y  A oya>, c Zsnep yivet , xal n\r/—  Qid^y SiaXeyopevoS, quae verba  quoniam nullo modo explicari  possunt, in hunc modum emen-  danda suut: ut; poi SoxeiS eiSi-  rai, ori ds av' iyyvzata 2iu-  xpdzovS ift A oyoj, &snep yv-  vatxl nXrjdid^et SiaXeydpevoS, fis xijg Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg av iyd xav-  Cafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov slntiv, 'Alia xoiqe a  dfitpoTSQa tavxa. iyd fiiv ycig igd iv xd <5(5 fiigsi,  6v 6’ insUlav xavtiy, iv r a ifid' iv a S’ av iyd  liyca, idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi aolvv %go-    xa\ dvdyxij av ro3 x.r.X, Agi-  tnr autem satis lepide de mulieribus , qui severissime in virorum suorum vitam inquirunt, ne-  que prius ab interrogando atque  explorando desistunt, quam omnem  vitam , quomodo gesta sit gera -  turque, cognoverint. Verba con-  vertenda sunt : Du scheinst mir  nicht zu wissen , dass wer dem  Socrates zu Leibe geht ,« der  gleichsam mit einem eifersuch-  tigeo Weibe anbindet, und er  muss , wenn er auch vorher -von  etwas ganz andcrm zu reden^begonnen hat, ohne Aufhdren sich  von ihm im Zirkel herumfiihren  lassen, bis er sich endlich vervrickelt, und gesteht, wie er ietzt  lebt und wie er geiebt hat.   dixaio? el rj navtial pe  x. r. X. De SlxaioS vocis si-  gnificatu supra dictum est p. 6,  Male Ficinus in conver», exhibet:  O Eryximache, tua tunc (nunc?)  iuterest. Ceterum dixaio?  h, 1, Eryximachus dicitur duabus  de caussis. Nam medicus erat,  ut siugultui mederi posset atque  a dextra sedebat, ut ad eum per-  veniret dicendi munus, si Aristophanes, quominus ipse loqueretur, singultu prohiberetur. Quae sequuntur verba, eoo? av iyco  itavdoofiai abundantia quadam laborare videntur, quandoquidem personali prouoraine facillime carueris. Cave tamen id mutandum censeas aut delendum. Dicturus Aristophanes erat; Dicere tnte debes, donec  ego possim. Sed inter dicendum factum est et hic et  alias haud raro, ut, cum stru-  ctura verborum ad verbnm comparata sit, qnod scriptor iu  mente habuisset, pro illo verbo subito aliud poneretur, quod cum incepta structura verborum mions  Cfcuveniret. Optime igitur se ha-  beret scriptura haec: 7/ Xlyetv  vnlp ijiiov 7 Eoo? av iyoo Xiyeiv  dvvoopai, sed non minus bene  dicitur Ego? av iyoo — rfau-  (S oo fica.   idv ftiv 6o i i$iXp —  el /i r/. idv fiiv praecedente  scriptum exspectaveris idv 8i y  ut legitur iu Piat, Protag. p.  848. A. idv fisv fiovXy Exi epoo -  rav , Etoipo? elpi 6ot napi-  Xeiv anoxpivopevo ? • idv  fiovXy, 6v Ipol ndpa6x£y nepl  co v petaS,v inctv6ape$a 6ie -  B,wvxe? , rovroxs’ reWtf iniSel-  vai. Passim annotatura est ab  interpretibus, el interdum poni  idv praecedente, eiusque rei caussam indicare studuit Engelhardtus ad Piat. Menex. p. 237,  ed. non satis, ut videtur, veterum scriptorum voluntatem assecutus: particulae idv , inquit,  inest notio exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod hypothetice ponimus , necne. Si ergo  duae res hypothetice opponuntur ,  iam tufjicit , semel hanc notionem additan¥ esse , et quidem  priori membro , quia id prius po - vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj , vScezi uvaxoyxvlla-  E Oov. d S’ aga itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi zoi-  ovzov, oim xivfacus av zqv (uva , itzagt' xal lav zovzo    nere solemus , quod nostra magis  interest ; superflua haec notio in altero membro est.* Nos sic sta-  tuimus. Ubi idv phy — idv  6e ponitur, duae enuntiationes  hypotheticae sibi aequiparantur,  in quibus , quod fieri ponitur,  idem facile fieri posse certis qui-  busdam de caussis exprimitur.  In aequiparandis enuntiatis veteres te — T £ particulis saepius  utuntur, quam fiiv — - 8£ t igitur  saepius idv TE — idv te repe-  rias, quam idv phv — idv 8£.  Exemplum habes Symp. p. 184. B,  init. Pro altero iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic legitur no-  atro loco idv phv — sl Si, nusquam  cutem £dv te — eX te reperias.  Colligitur inde, el post idv po-  situm non eiusdem potestatis esse  atque iav praecedentem particulam, sed alius, quae cum 8£ adver-  sativo commode consocietur, non  item cum te vocula, de cuius  potestate supra diximus, conveniat.  Ut paucis dicam, iav poni aliquid  signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur certis quibusdam de caussis, el cum adversativa particula  coniunctum exprimit id poni,  quod contra exspectationem revera contigerit. Ad nostrum lo-  cum ut revertamur, dicit Eryxi-  machus : Vide , an tibi ditvtv -   Cz l ixovTi h. e. animum reprimenti aliquod tempus singultus  abeat, (et credo, fore, ut ab-  iturus sit, experientia edoctus)  sin vero minus h. e. wenn  dcrSchlucken aber gegen  ali es Erwarten wirklich  nicht weiclit..cf.Plat*derep,    VII. p. 540. C. pvypeta 5*   avTOlf XOLL Svtiiotf TJ/V Tt6\lV  8ypo6la jtoieiv, idv xal ?} TIv-  $ia B,vvavaipy (neque dubito,  quin id factura sit Pythia) coS  daipodiv’ ei 8h py (&z.£,vvai-  vaipEi h. e. contra exspectatio-  nem non, revera non) eoS’ EvSat-  poCi te xal SeoTZ, Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI  — eI oh pi/ sponte intelligitnr.  cf. Piat. Churmid. c, 14. Heind.  ed. p. 190. eI ovv Coi <pt\ov,  i$£X co Cxoieeiv pera Cov • ti  d£ p ?/, idv. Adde quem Stall—  baumius laudat ad PJat. Piiacd.  p v JB8. ed. Isocrat. Archid. 44.  p. #11. ed. Lang. idv phv yap  iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv vithp  t&v dixalcov — aCtpaXdjS yplv  iZtCTai r,ijv m tl 6h <pofiySyCo-  pe$a tovS xivbvvovs x. T. A,  Ceterum post y Xvy% supplen-  dum censent ev %X £t Minus no-  bis placet hoc explicandi genus;  meliorem explicationem iu con-  versione huius loci dedimus.   v 8 aTt av axo yxvXla-  dov. Schol. habet: dvaxoyx v-  XiuCai t 6 xXvtiai ryr cpdpvy-  ya } d Xiyopsv avayapyapiCat .   oXoo x ivyC aiS dv Tyv  piva ♦ Vulgatum xivyCaiS ,  quod codd. omnes exhibent, et  Athenaeus servat V. 2. p. 187*  iv 8h Tofis xnto&yxaiS tov xap -  tpovS > tva Tyv piva xivy6a$  TtTapy , itapiypt % mutatum in  xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit.  98. p. 542. reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent  Wyttenbachius, Creuz. ad Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn, 3iav~  (Sectu. Ovx av cp&avois liyav , cpavai xov ’A QKScocpavi j'  ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov'  de palent,», Astius , alii, nemo  luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem defendere atque  in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum est  retiuere, quod libri darent, a a t-  que nisi bonum, at. non  absurdum esset. Aliud no-  bis de vulgatae lectionis prae-  stautia iudiciutn est. Kivei v ni-  mirum nou significat solum movere, sed movere ita ali-  quid, ut id se moveat. Sic  iu amore verbum usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis ad nequitias allicitur, Pari modo in pro-  verbiali dictione dicitur pijxiVEiv,  tov ev 'heIjievov videlicet, ne is,  qui moveatur, ubi motum se sen-  serit, moventi molestias paret»  Iam vides xiveiv r?/V f)lva esse,  movere nasum atque -excitare  ita, ut se moveat h. e. ut orian-  tur nxappoi, Bekkerus xvjfdaio  habet, quod apud Stobaeum le-  gitur 1, 1. Sternutatione mota  pelli singultum probatur Mippocr*  Aphor. VI. 13- t; 7to Xvypov £*o-  pivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Au-  ov6i xov Xvypov.   xal eI 7tavv l6xvpa  idxiv . De xal el et eI xai  part. ita disputavit Heind, ad  Platon. Gorg. p, 509. A. , ut  negaret, couditionulis enuntiati  seutentiam mutari, sive xal eI  sive ti xai scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr,  ampl. T, II. p. 1252. Nostra  verba etiam t um, si vel ma-  xime pervicax sit, cessabit Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et el  xal purticularnm discrimine dis-  serit ad Apol. Socr. pag. edit.  196. Ex eius annotatione haec  laudare iuvat: el xai rem aut  ponit, aut indicat fieri posse, ut  ait, ita ut latiue reddendum sit  quamquam, etsi vel quamquam fortasse. Kal eI sem-  per de incerta hypothesi  usurpatur, quam sive ponit ali-  quis sive non ponit, tamen id  fieri oportet, quod in apodosi  ponitor.   ovx av q> 5 av o tG Xiyoov.  Schol. habet: ini ccor eIg 5 T$-  paG ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/-  7 tcj nipas iiei^EvxoS avx\j. Pro-  prie verba significant: Mit dem  Reden kannst du nicht zu frxih  komme^ h. e. quin statim loquere. Haec annotavi, ut liqueret, interrogandi signum ab hac  dicendi formula non abesse non  posse, quod in Phaedone positura  est apud Stallb. p, 100. C.  akXa prjv , l(pr\ o KifirfG, coG  8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG  itepaivav ;   eIkeiv 8\ tov 9 Epv%l-  / iaxov . Eryximachus medicus,  qui nunc dicturas est, Acumeni  medici filius, Hippiae auditor ana  cum Phaedro aliisque fuisse tra-  ditur Piat. Protag. p. 315. C.,  Phaedro AMICUM fuisse discas e  Piat. Phaedr. p. 268. A. , ubi  Socrates cum Phaedro colloquens el xiG , inquit, 7tpoGE A-  $qjv t (3 kraipfp 6ov ’Epv%i-  fjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t &VXQV ! 'Ahqv -  /.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i ccvayxcaov tivca, timSi/ Tlav-  186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas aite-  teXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj.  tb fisv yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xa-    xaXco ? ov x Inavco?. Ex  Eryximachi sententia Pausanias  rectissime disseruit de duplici  Erote atque de utriusque dei na-  tura , minus recte de erotica vi  locutus est, quae vis latius pa-  teat, nec solum in animis mor-  talium, sed etiam ia universa re-  rum natura eillcacissima conspi-  cietur. Respicit autem , Stall-  ba umius ait, Eryximachus haud  dubie ad nobilissimam illam et  inultis, ut videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam philosophorum,  qui statuerunt elementa totius  rerum universitatis inter se pugnantia per concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se  conciliata et in ordinem redacta,  vid. Arist. Metaphys. I. 4. et  quos laudant interpp. ad Aristopli.  Avv. v. 695. seqq.   zcAo? iniSslvai rc3 Ad-  ' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum   officinis depromtura est, qni eam  reliquum corpus sive hominis  sive animalis arte elaborassent,  capite ad postremum elaborato  caput imposuisse dicantur  simul atque opus ad finem  perduxisse. IJaec formula  iam apud Homerum reperitur II.  r, 107. tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re  xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde  Piat. Alcib. I. p. l^D. xov -  Tccv yap Ooi arfJthov xcov    Siaro?/juarGjy x JX o? inite^r/vat  avev i/iov advvaxov. Cratyl.  p. S95. A. xivSvvEvei yap xoi-  ovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav,  olo?, a av dcZeiev avufj 6ia-  7iov£i6$cn xal jtapTEpEtv, riXo?  inniStl? xol? SoZatii di’ a pEtrjv.   oxi < 5 £ ov /iovov &6xlv  seqq. Schleiermacherus conver-  tit: dass er aber nicht a I-  lein iiber die Seelen der  “Menschen w altet in Be-  ziehung auf die schonen,  sondern auch auf vieles  Andere and auch in allen  andern Dingen Quaeri   potest primum, quid sit id, ad  quod, praeter pulcros homines  Eros in animis hominum insitas  pertineat. Deinde si Schleiermacherianae conversionis sensum  Eryximachus exprimere voluisset,  haud dubium esse potest, quin  dicere debuisset ov /iovov idrlv  in\ tat? Tpvxai? xcov av^peo-  Ttcov — ctXXd yioct iv xol? aX~  Xoi? Quoquo modo verba specte*,  distorti quid enuntiationi huic  inesse senties, quod deleto xai  post rtoXXa posito optime removeri potest. Verba nimirum per  chiasmum explicanda censeas, nt  non solum in animis ho-  minum formosae iuven—  tutis, sed etiam aliarum  rerum multarum Eros in  aliis rebus habitare dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjiv-  ya lg tav av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos  «AAa 3Coi-i.cc xal iv tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/  ndvrav %d>uv xcd tols iv ry yy tpvofievois, xal, mg  fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl, xa&toQuxtvaL ycoi  8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg (dyas  xal &av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B    Posses etiam hac ratione verba  emendare: ort ov [IOVOV ini   x aiS ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav  xaz 7 tpos xov? JutXuvS' , a XX a  xal npo? aXXa noXXa xal iv  toiS aXXoiS x. r. X. Haec olim  scripseram. Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene  habent, modo Moi post itoX Xa  positum non und sed aach in-  terpreteris. /   co? Eno? elneiv, vide annot* p. 63- Schol. ' autem haec  verba explicat: gg? maivExai, cbs  iv Xoycp sinetv, addmjue: xovxo  dxVM ar ^ £taz Kapa xois na -  A aioi? xal cJ s e in st v EnoS  xal eo? inoS einetv xal co?  ino? (pavai xal guS’ opavai  inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~  %egoS ixtpcoveixai , olor goS <pa-  vai xal as slneiv. drpial -  vei 81 x 6 avxo . ol 8s <pa(5iv  av xi xov co ? <p aiv ex ai xei-  C$ai i f avxl xov ooS iv A oycp  e in Eiv . Converterim verba :  in den Korpern aller 1 ebenden Wesen und in den  Erzeugnissen der Erde,  und, ich vage es zu be -  haupten, in alleu Dingen,  Adhibentur nimirum verba ilia,  ubi aliquis aliquid dicturus est,  quod fidem hominum superare,  ipse sentit,   go? ftiyaS xal   6x 6 5. Stallbaumius in his, in-    quit, ~co? significat nam, quip-  pe, usu haudquaquom infrequenti.  Male. Praecedenti protasi, cui  apodosin Eryximnchus praemisit,  altera apodosis additur, alterius  potestatemquae amplificat et  auget. Haec verborum structura  ex oratorio genere dicendi de-  promta est. cfr. Apol. Socr. p,  20. C. o t; y ce p 8 rj nov dov-  ye ov8ev xgov a XXgov n e-  ptxx ox e pov np ay /xax ev o-  pivov, ixetra xo6avx?j (pqprj  te xal Xdyo? yiyovtv , e i /ir/  xi Enpaxxs? aXXotov rj  ol noXXoL Compara cum his  verbis Symp. p. 211. E. xi 8i)xa ,  iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo  avxo x 6 xaXov i8slv eIXi -  xptvE?, xa$ a pov , agt-  xx ov, aXXa /n) dvdnXeaov uap -  xgov te avSpoDnivGDV xal XP&-  p areor xal dXXi)? noXXijS epXva-  pia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo  Seiov xaXov Svvaixo  pov oei 81? xaxt8 Etv, Adde  Cicer. Orat, pro Rose. Amer,  e. V, §. 14. Atque ut facilius intelligere possitis,  ludie#*, ca, quae facta sunt, indigniora esse, quam haec sunt,  quae dicimus, vobis exponemus,  quo facilius et huius ho-  minis innocentissimi mi-  serias et illorum audaciam cognoscere possitis et rei publicae calamita- av^gajuva xal xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo  rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v.   'H yag (pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv "Egena  zovzov ex,ei. ro yag vyiig tov tidfiazog xal ro vo-  Covv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov eozi. ro  Se dvopoiov avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev  ovv o eztl za vyieiva egag, akkog 6 e b tjtl ra vo-  OibSei. eCzi Si ) , dgneg agzi JIavOaviag ekeys zoig    tem. Huic loquendi generi non  adnumeranda sunt verba Alcib.  II* p. 138. B. , quae sunt, qui  corrupta censeant ; sed ut clarius  videas, corruptelae indicia ipsis nulla inesse, hoc modo disponenda  sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv avzl-  xa (padiv ev&ad$ai xoAxgj 8ie->  A sdSai rd narpifia rovS vleiS’  l£,6v OVTCk) TC OV TZCtpOYTGDV aVTGJ  xaxoov anozpomjv riva tv£,a~  ti$cu, crepa npoS roiS vitap *  Xov6i xaxypdzo.   xal ini nav o5£o?. Ne  forte ad SavpadxoS supplendum censeas idriv et scribendum xal  cjS ini nav , tria dei epitlieta  sunt: magnus, admirabilis,  late potens. Dicitur cutem  ini nav — xeivet pro ini nav  teIvov — idriv vid. annot. p.  87. Sensus est totius enuntia-  tionis: Dass er aber uicht  blosden See1en der Menschen in Beziehung auf  das Schonc, sonderu auch  i u Beziehung auf vules  indere auch den anaeren  Dingen einwohnt, sowohl  den Leibern der gesamm-  ten Thierwelt ais den  Erderzeugniss e n and, ich  wage es z u sagen, a 11 en  nur vorhandenen Dingen,  glaube ich aus der Medi-    cin, meiner angestamm-  ten Kunst, ersehen zu ha-  ben, dass ^ros s nnd wunderbarund ei n flus s reich  auf alles der Gott ist, so  in mgnschlichen, so in  gottlichen Ange1eg en h eiten. Ut n(#tro loco ab hominibus ad animalia, ab anima-  libus ad mineralia transitur, haec  tria autem verbis comprehendun-  tur : ndvra z d ovra , eodem   modo in Riaedon. p. 70. D. le-  gitur : prj toivvv xar avSpGo-  ncov dxonei povov rovro , aWa  xal nara Zwgdv navrojv xal <pv -  tgov xal BtvWiffidrjv. odanep  ix& yivediv, nept navtcov idea-  fiev , ap ovzojdl yiyvetat  ndvra.   iva xal n p ed fiev gdjjlev .  Explicat Schol. ad h. 1. npe—  dfiEvcopev npozipeopev , peya-  XvYGOpEV. npEdfieveiv riva est  aliquem ut senem venerari, ali-  cui ut seni primum locum attri-  buere. Non iniuria Phaedrus dixit  Symp. p. 178. B. zo yap iv  rols npedfivrarov slvai — [ov]  rifiiov ; Eryximachus autem di-  cit: ut simul primi loci hono-  rem nostrae arti attribuamus.  Kai enim ita explicandum est,  ut proprie verba audire dicantur:  iva xal A eycopsv nepl xovzcdv  xal npEdfie.voDfj.Ev x. z. A. (i\v clyadoig zcdov xaQl&Gftai rtdv kv&qcojt av, roig c  di axolaOtoig alOxgov, ovra xal Iv avroig roig GcS-  ftadi roig fiiv dyadoig exkGtov tov Ga fiarog xai vym-  voig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a  fivo/ta r 6 iatQixov, rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov  r e xai dii dxaQiGrtiv, it iiii.Xu ng nxvixog tivai. tori  yctQ latQixtj , tag Iv xiipaXaia ilmiv, ixiGr^i] rav  rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai xivuOiv,    Itepor re xal avopotov.  Rectissime annotatum est ab Astio  et Stallbaumio, Thierschium fru-  stra scribendum coniecisse PrzpoY  ti xal avopoiov. Nimirum  Zxzpov h. 1, non alind sed  diversum est, quae verbi signi'  ficatio non rara apud Platonem,  cfr. Alcib. I. p. 11 4. B. xorzpoy  81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal  <Svp<pkpovra , y erzpa. Adde  Piat. Protag. p. 833. A. note-  pov — Xvdcopev rcJ v Xoycoy; ro  fy M juoror Ivavtiov zlvai, y  ixetvov , iv cp iXkytro at ep ov  etvai daxppotivvyC do<pia —   : xal irpoS rep trzpov zlvai xal  avopoia x. r. X.   xaXov x a pineti Sai tgoy  txvS pant oo y. Verba rdov ay -  SpconcoY seiuncta snnt ab iis  rerbis, e quibus pendet rolS p\v  ayaSoiS, ut pondere augerentur.  Huius exemplum structurae verba  aunt p. 178. C. o ydp XPV av~  $pG07toiS yytZ6$ai nayroS rov  piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$-  <5e<5$ai x.r.X. Urgendum autem prounntiando est tgjy dySpeoTteoY  ideo , quod, cum Pausanias in hominnm tantummodo animis  dixisset Erotem versari, Eryxixnachus contra etiam in corpo-  ribus habitare deum narret,  indicandum erat atque demonstrandum auditori, quibus modis    ab illius oratione medici oratio ,  diflerret.   xal rovro Idrtv gj uvo-  pa ro larptxdv h. c. und  darin besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo  nennen. Prorsus eodem modo  p. 185. B ovrco nccynoS yz xa-  Xoy apztyS y Zyejicc xapiZe-  6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs  OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd -  YtoS X . T. A.’ Ad ea, quae insequuntur, apte laudatur ub interpp.  Hippocr. De morbo sacro sub Cu.  Xpy — py avZziy r d vov6y-  para , aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv ,  7rpoS<pzpovtaS ry yovCco to' ito-  Xepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epi-  Xoy xal 6vvySZS * vn 6 ptv ydp  T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z- ,  rai f vito 81 rov noXzplov <p$l-  vzi xal apavpovrai .   %6rt ydp larpixy. Hippocr. de flatibus : r d IvavricL   rc oy irarrloav itiriy Irjpara.  larpixy ydp i<Sn xpoCSeCif  xal d(pa{pz(itS‘ dg>aipzOiS plv  rooY v 7f zppaXX oYroyy , 7tpo6$f6iZ  dlroor iXXzin ovrco v' o Ss xdX-  Xidra rovro noizcov apitiroS  lyrpoS. Articulum ne desideres,  omittitur, ubi per se positum  spectatur nomen, cfr. Piat. Lach.  p. 191. c. 18. rovro r oiyvv  alriov iXeyoY , das also  9    130    riAAT&NOZ    xui 6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal  D aioxQov " Egaza , ovzog lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jit-  rajidlkuv noicdv, dgze dvri zov tzigov "Egeor og zov tre-  gov xzrjOtta&cu, xal ot<j [irj bveOuv "Egcog , dii <5’ lyyt-  viafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai ivovra ifcksiv, aya-    meinte icli mit dem Worte altiov.  Alcib. I. p. 133. c. 57* o 87 }  xal xo pijv xaXovjtev : Was   wir auch mit dem Worte xop7j  bezeichnen ; Symp. p. 196* C*  civai ydp opoXoyEitai 6a>-  <pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY  xal iirt^vjiuav , dcun unter der  Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j wird  allgemein yerstaaden Itaque  hoc Eryximachus dicit: Es ist  namlich, was wir * iatpi -  X 7/ » neunen, der Hauptsache n a c h cet*   xal o diaytyvcSdxcov  iv tovtoif. Difficillimam  esse atque gravissimam morborum e symptomatis petitam cognitionem, quam diagnosin medici  vocant, iutelligunt etiam ii, qui  artis medicae imperiti sunt*   xal 6 yi Et a ft aXXeiv  not djv. sc. td i porrixa tcov  (jayiaTCJV j hinc post cJsre sup-  plendum est td tioopata. Caven-  dum est enim, ne quis tov £T£-  pov subiectum esse censeat enuntiationis» Quae sequuntur verba a xai incipientia, praecedentium verborum explicationem eflicinut.  Sensus est : Wer die Nei-  g u « gen der Kdrper so  umaodert, dass sie an-  statt der einen Neigung  die andere erlangen d. h.  wer es verateht, Korpern  eine Neigung einzupflan-  zen, die ihnen nicht ein-  wolint, aber ihnen c i n w o hnen muss, und die einwohnende, die nicht einwohnen darf, heraus zu trei-  ben, iitidtapEvoS i/iTtoiif -  6ai xal ivovta IB,eXeiy. >  Quod de duplici Erote hic dicit  Eryximachus, Socrates de morbo  profert in Piat, de rep. I. p. 333*  E. ap * ovv xal vodov o6tiS 8ei-  yoS <pvXatia65ai xal ptj Xa~  $etv , ovtoS deivotatoS xal  iyutoirj6ai , quem locum inter-  pretes propter xal jutj XaSeiv  verba vario modo sollicitarunt.  AaSeiv, quae vulgata lectio est,  rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv mutaverunt. Non  est autem assentiendum Stallbau-  mio xai ante pnj TtaSetv delenti.  Nodov <pvXd%a6$ai positum  habes propter antecedentia : ap *  ovx o natabat SeivotaroZ iv  pdxy ritE nvxtixy tltE tivl  xal dXXy , ovtoS xai <pvXa-  B,aOSai , quae si non praecederent, pro <pvXd£,a6$ai Socrates  alio verbo usus esset, quod cum  YOtioS nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis  yotiov tpvXdgatiSai non satis  iutelligeret, accuratiorem explica-  tionem verborum statifei addidit,  quae in verbis xal yirj TCo&EtY  continetur. Kai igitur explica-  tivum est, atque hoc est, id  est, significat.   a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6 i.  Ad 8 yfiiovpyoS Stallbaumius i .e.  ttog 'Sv rft] drjiaovQyos. SsT yag Si/ rn SjftuSut mna  iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal Igiiv akfo)-  >.av. ?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio fio),   zixgdv ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig •  ime uj9elg "Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E  inquit, iarpof. Sed /admodum  haec verba languerent, si prae-  cedente superlativo sequeretur  dyaSoS larpof. Eryximachus  ab artis medicae theoria ad pra-  xin transit ita, ut, cum larpt-  xuraror appellasset eum , qui  malum et bonum Erotem in cor-  poribus dignoscere posset, aya -  J3oV drjpiovpyor practicum  medicum vocet, qui medicina  adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus immittere possit.   <pi\a olovr elvai not-  at v xal i par aWijX&v .  Sublatum discrimen vides in Eryxi-  machi oratione, quod intef (piXt~ir t  <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr ex-  stare supra annotavimus p.69 ,quibuscumcf.annot p.lS2. Docemur  autem hoc exemplo, qui Hat, ut vocabulorum significationes vergente  aetate saepius immutatae sint.  Verba nimirum quasi alSaXa  sunt cogitaudi rationis, quae ratio ubi mutatur, corrumpi necesse est atque perverti verborum significationes.   narra rar otavr a. Wol-  fiu* asyndeto offensus xai ante  narra ponendum coniecit. Possumus nos quidem in eiusmodi  dictionibus copula non carere,  qua propter Schleiermachenis ia  conversione und a lies der-  gleichen exhibuit. Verum  non solum Graeci sed etiam  Romaui copulam omisere, quippe    efficatius eo indicantes, verba  narra ra rotavra eiusdem potestatis et iuris esse, atque praecedentia, quae dOvrSercjS enu-  merantur, exempla, cfr. Gorg,  503* E. olor tl fiovhet idatr  rovS ZwypaqjovZf rovS oixodo -  povS f rods* ravnrjyovS , rov£  dXXovS ndrraS SrjpiovpyovS or-  tiva fiovXai avrdUr. Demosth.  Orat, pro corona c. 74. , quem  locum Stallbaumianae industriae  debeo: para ravra dvdrdvroov  olf ?}r impeXlS iph xax&S  notetv , xal ypacpds , tvSvva?,  tlsayytXlaS , narra rotavra  inayovrt&r x. r. A.Verba  mxpur yXvxti a sciolo quodam  addita censent, praesertim quum in nostri loci repetitione non  reperiantur p. 188. A., Astiua  Stallbaumius , Riickertus. Atque  Riickertus quidem, quatuor haec ,  inquit, frigidum, calidum , siccum  et humidum t saepius in corpore esse diversasque eius mutationes  procreare dicuntur : at ntxpoV  et y Xvxv in corpore huntano  quid sibi Velint , non intell igitur.  Accedit , quod injra p, 188. A.  ipse E ryx irn achus repetens huius  loci dicta caetera enumerat , haec  omittit . Cavendum est, ne quia  his assentiatur. Nimirum p. 188.  A., ubi nixpor yXvxal verba non  reponuntur , ne poterant quidem  apte poni, quoniam anui muta-  tionibus, de quibus illic sermo  est, neque cum acerbo neque  cum dulci qnicqunm commercii    XQoyovos 'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv oTSe o i xoiijtcu xal iyu  mi&ouat , 0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba  i['t'Xf)6v Seppry, itmpov yXvxtt,  Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa  nou corporis conditioni describendae, sed explicando inserviunt  praecedente verbo xa ivavxiao-  xctxa. Sensus est totius enun-  tiationis ! Er muss namlich  das Feindlichste ira K d r-  per sich befreunden las-  se n u n d zu gegenseitiger  Neigung umstimmeu kdn-  nen. I c h verstehe ab er  «n ter dem Worte iv av -  xt cjxaxa (ride anno't. p. 129.)  dic reinen Gegensiitze:  kalt und warm, bitter nud  suss, trockan und feucht,  und alles dergleichen*  Ceterum ne quis forte putet  itavxa xa xoiavxa verba rectius  poni , ubi duo exempla aliata  sint, quam ubi tria posita repe-  nantur: legitur in Piat* Gorg.,  quem locum Heiudorfius laudat,  p. 517. D. ixitopi&w, iar plv  xeivy xa doipata yjpcov, dixia  — idv di fnyco, Ipaxia , dxpGo-  paxa , vxoStjpaxa , aXXa , gjv  epxsxai CoSpaxa eis imSvpiav.  Dubito autem, num reperiatur  locus, in quo duobus tantum  exemplis laudatis zdvxa xa  xoiavxa, dXXa t simileve sit po-  situm*   zovxoiS Itci dxtjS e/f seqq.  xovroiS ad tu ivavxtcdxaxa re-  ferendum est, non ad singula xoov  iyavxiooxdxcDV exempla , quae  non nisi ad explicandam vocem  xa ivavxuoTaxa apposita sunt. E p coxa i pno irj d ai xal  6 pov oiav . Supra iam anno-  tatum est ad verba cptXa olov x    iivaixal ipdv dWr/Xcjv, signi»  beatum verborum (ptXelv et €pav t  <piXia et £poj£, similium, in Ery-  ximachi oratione prorsus mutari,  "EpeoS igitur nostro loco nihil  alind siguificat , qn <m rerum  sibi repugnantium concordiam. Huius nominis vim  ipse Eryximachus additis xal  6 povoiav verbis declarat, ubi  xai rursus explicativum est:  Liebe d. h. Einklang. Si  quaeris autem, cur amandi verbis  •> nominibusque Eryximachus uta-  tur, memineris velim, laudandi  Erotis cQUssa orationem ab Ery-  ximacho haberi, atqna eundem  statim ab initio orationis suae  ita censuisse, ut etiam artes ab  Erote regi atque per cum esse  contenderet, cfr. infra p. 187*  C. xi]v 81 opoXoyiav nadi xov -  zoiS, GjS7tEp ix£i rj ieexpim }, lv-  zav$a j/ povdix? } IvxiSrjdiv,  *EpGDxa xal 6 povoiav aXXijXoav  ipxon'/dada.   o?8e ol TtoiTjtai dicitur  propterea, quod adfuerunt Agatho  et Aristophanes : wie die Dic h-  terzunft da behauptet»  Testantur autem poetae, Aescula-  pium medicorum npoyovov esse:  artem medicam euudem constituisse , ut qui res in corpore  contrarias sibi conciliant, non  testantur. Igitur minus apte  verba Schleiermacherus convertit :  Dass diesen Liebe und  Wolwollca unser A h n -  herr Asclepios einzuflos-  sen verstand, dadurch hat  er, wie die Dichter hier  sageu und ich es glaube,  unser e Lunst gegriindet.  ”H te ovv laxQMTj, <og itEQ liya, ituOa dut TOV  9eov tovtov 'xvfiegvutai , agavrag 6'e xai yvfxvaOttxlj    7f' t s ov v lar pixr} , o)S -  71 £ p Xiy cd seqq. Si scriptam  exstaret rj x e ovv latpvkr}, cofnep  Xiyoa, nuda. dia xov $eov tov-  tov xvfiepvaxai xai yvpva-  titiXT] xai yeoDpyia, nihil esset,  quod lectorem olleuderet. Nam  et medica ars, et gymn.<stice di-  cerentur atque agricultura dei ope  gubernari. Accedentibus verbis  coSccvxcdS di, manente Te parti-  cula , dicendi genus eilicitur,  quod certe minus usitatum est.  Non nescimus quidem, xe — di  sibi respondere saepeuumero, sed  tum scriptum exspectamus : i/ xe  ovv iaxpixi] .... xvpepvaxai ,  yvptatixixi) xai yeoipyia  GjSavTGoS. Huc accedit, quod  post xi Graeci scriptores di «on  admittunt nisi in rei, quae prae-  cedentem gravitate superat, com-  memoratione, ut Lutiue conver-  tendum sit: et vero, et vero  etiam. Ea gravitas nostri loci  verbis convenire frustra docet  Stallbaumius ad Piat, de rep. II,  p. 367. C. Cave tamen, quic-  quam mutarum censeas. Ery-  ximachus in^Hae structurae obli-  tus , quasi dixissset ?/ /ikv ovv  principio enuntiationis, coSaiixcoS  di dixit. Vide de piv ovv —  di voculis annot, p. 23. Alia  ratio verborum est Piat, de rep.  III. p. 494. C. iv xe xy xmv  &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai  a\Ao$i, ubi plus ponderis in  altera] enuntiati parte est, quam  in altera , ut ti * — di apprime  respondeat Latinorum cum —  tum. Adde Piat, de rep. VI. p.  489. C. ix di xoivvv tovxqov  xai iv xovxoiS ov fiadiov evdo-  mpelv — TtoXv dfc peyidxy xai    Idxvpoxdxtf dtafioXrf yiyvexat  xy tpi\o6ocpioc x. t, A.   wSitep A iy<a. Praesens  tempus A iyeiv verbi de senten-  tia loquentis valet , praeteritum  ad praecedentia eius verba le-  ctorem revocat cfr. Apol. Socr.  p. 17. B. ovxoi piv ovv, cofnep  iyco Ai^or^ut mihi videtur) y  xi y oidlv aXySl* elpi]xa6iv.  Adde Symp, p. 221. D. ei ^ prf  apa oh iy oj A iyoo diteixa^oi  TiS avxpv .   yv pvatix ix?} xai yecop -  yia . Articulum haud raro  omitti in artium nominibus,  Schaeferus, Ileindorfius, alii do-  cuerunt. Nostro quidem loco eum  omitti eo magis etiam mirum,  quod antecedit fj TE ovv iaxpixi] .  Si quid video, non piomiscue  veteres artium nominibus aut  addiderunt articulum aut dem-  serunt. Addidisse videntur, ubi  de re sermo est, quae omnibus  nota est, vel qbae definitione prae-  missa nunc innotuit. Demseruut  articulum , ubi de re nondum  explicata, aut in universum de  aliqua re dixerunt. Nostro loco  artis medicae definitionem Ery-  ximachus dederat in superioribus,  ut de huius artis natura certio-  res facti auditores intelligerent,  quomodo per Erotem ars medica  dicatur gubernari. Hinc iaxpixi ]  verbum articulo insignitum est  utpote definitum atque notura,  non insignitae sunt yvpvadtixif  et yecopyia , quotam uon ex-  plicatae sunt atque accuratius de--  finitae: Die Arzncikunst nua  wird mei ner Ansiclit nacli  gunz dur ch diesen Gott  187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal navxi xurciSijAog ra xcd  Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza lyei zov-  tois, ogneQ iGcog xal 'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f 1 e i t e t , ani gleiche   Wcise auch das, vas Gy-  mnastike und Georgia g e-  n u n n t wird. Ceteram Syden-  liainium audi laudatum a WolGo;  Per E u d z w e c k der Arz-  lieikuust i s t Gesundheit, und der GymnastikStarke  des Korpers. Ab er in deu  Mitteln, lvodurch b e i d e  K u n s t e ihren Ziveck zu  erreiclien suchen, indem  sie der g u t e u korperli-  cheu Anlage uachgeben,  und der schlechten e n t -  gegen liandeln und sie  verbessern, sind sie ei nan-  de i- ganz aualog. So hat  auch die Eigenschaft des  Bodens Analogie mit dem  Tempcrament des Kdr-  pers und die vershiede*?  lien Gattungen von D ii n -  gung mit deu Nahrungi-  und Anzueimittelu* Eia  guter Boden gewinnt  durch eine homogene B e -  handlung, ein schjechter  wird durch eine entgegenr  gcsetzto Bchandluugsart  bosser, und iindert se i ne  Icatur. Was iibrigens die  M etaphcr von der L i e b e  lietfifit, so brauclit mao  diese in d e r Land wirth-r"  scliaft auch h e u t zu Tage*  Auch wir sagenreinBaum,  einePflanze liebtdiesen, -  1 i e b t j e n Boden.   naxa tavxa £xet xov-  XoiS h. e, arti medicae et iis,  (|uae gymnastice et georgia ap-  pellantur. Pe xaxpc praepositionis significatu vide annot. p. 41.  Paullo infra eodem modo p. 187.  E. xal iv pov6ix\ \j 6t) xal iv  iaxpixy Xal iv xoiS p:AA oiS  itd6i sc. artium nominibus sive  terrestrium sive divinarum.   cjSirep iticoS xal 'Hpa~  x\f ix o S. Heraclitus Ephesius Ut morum asperitate, ita orationis  dura quadam obscuritate insignis, Schol. ad Piat, de rep. VI. habet  'HpdxXeiroS , BaSiurvoS, 9 Ecpe-  OioSy pef'QtA.p<ppGDV yeyovwS xal  v7tepo7txrjS Ttctp oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex brevi-  tate quadam dicendi, tum e ne-  glecta singularum orationis partium iunctura orta est, ut Ari-  stoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur ea ipsa de caussa Heracliti  oratio cum maris fluctuatione  comparata esse, qnae cum innu-  merabiles undas exhibeat, ut sen-  tentiolas illa, neqoe finem neque initium undarum discerni pati-  tur. Lectorem igitur Heracliti,  ne mole seutentianyn quasi fluctu  undarum immergatur ( fl? xd p?}  (tnojtviyfjvai iv avfcS), djjXiov  XoXvpfit/TTfv esse debere Socrates censuit, Ut quqsi brachiis validis,  fi. e. interpunctione posita, con-  tinuum tenorem discerneret ac  disiuugeret verborum, jJtjAioi  XoXvpfirjxai celeberrimi erant  plurimumque natando pollebant,  vide Wachsmuths Alterthumsk.   II. 1. p, 404. , qui laudat piog.  Laert. %y 22. 9, 11, Ipterpun-  ctionem omissam, nop verba ipsa  obscuritatem illam effecisse , ut  clarius appareat, fragmeptum lau-  dabo Heracliti, quod in dissert.  txel tois ys QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P, qn]al,  StawEQo^ov avrb «fap tvficpiQSO&ai, &&*<) ««f/  V iav roiov re x«l fi»» S'e ™AA>7 aAoyt'« «r    de Samo -Thraces nnminibns ex-  plicare studnit Schellingios: iV  to dorpov povvov MyedSai  ovx tiitet xal i&fAtt Z)/ro?  ovopa.   ro i \y yap, <pi]di, Statpe-  p&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid Heraclitus o  CxuzilvoS his verbis exprimere voluerit, et quomodo Kryximachus  eius verba explicaverit. Medicus  nimirum de musica loquens verba  illa laudat ita, ut non nisi de  re musica dicta intelligeret, i. q.  ex additamento perspicitur, quo  Siatpcpd piva explicat p. 187.   B. rov o Sio s xal ftapioS  atque e subiecti mutatione. Ap-  poviav nimirum reo ivi Eryxi-  machus substituit. Heracliti autem  voluntas haec videtur esse: Das  Eins ist in sich selbst entgcgengesetzt Eins , wie die Eiuheit  des Bogens und der Lyra h. e.  das Eins ist nicht absolut Eins,  sondern momeutan zusamraenge-  seut aus Gegensatzeu, wie die  Eine Kraft des Bogens (Schuss)   momentane Verschmelzung ist  xwreier Gegensiitze, oder der  Eine Klang (Accord) der Lyra momentane Verschmelzung mehrerer Uissouanzen. Non recte  autem, ut videtur, 'interpretes to  fV totam rerum univer-  sitatem significare censucruut,  neque recte Simplicii testimonio  ntuutur ad Aristot. Pbys. p. 11»  A. iveSeixwxo Si (sc. HpaxXti-  roS') ti}v iv ty ytvidu ivap-  fioviov piSiv tuiv ivavuurv,  quae senteutia ex enuntiato illo  derivata est, atque eidem, tan-    quam in basi, innititor. Proba-  tur hoc Plutarchi testimonio Do  animi procreat, p. 1026. ^B.  'IIpdxteiToS SixaUvxponov ap-  povhjv xodpov, oxgdS xep Av-  pijS xal ToSov. Erostra autem  in dicto Heracliteo aliquid mu-  tandum censuerunt Astius , Ba-  stius, alii. Ad Hcracliteae dictio-  nis exemplum supra laudatum ut  revertamur, videtur Schellingio  interpunctio ponenda esse post  ovxiSiXei; nobis haec verborum  dispositio placet: ir 10 dotpov  povvov AiyedSai ovx ISitei xal  l$i\n ZtjyoS ovopa. Absolut  Eins ist nur das W e i s e ,  Absoluta unitas nostrae rationi  repugnat, eam repugnantiam ita  expressit Heraclitus, ut diceret:  es will nicht und will  Eins genannt sein der  Name des Zeus. Audi Goe-  thii nobilissima verba, quae si-  milem rationis repugnantiam fe-  licissime describunt -  AVer darf ihn nennen?   Und wer bekenncn:   Ich glaub’ ihn?   Wer empfinden   Und sich unterwindcn   Zu sagen; ich glaub’ ihn rycliU.   yiyovcv V7t d TrjS pOV-  dtxijS tixrV*- Vulgo addi-  tur V dppovia, quod addita-  mentum per se spectatum non_  habet, quo offendat. Saepius  enim subiectum e praecedentibus  repetitur, non tam augendae gra-  vitatis caussa, quam perspicuita-  tis. Sed non agnoscunt nostro  loco XXI. codd. 7/ dppovia verba,  fioviav ipdvca SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n  tlvcu. aX£ 1'aag toSe ipovksto Xiyuv , on ix diacpt-  B gofiivav xgotegov, rov 6 |eog xal ftagtog , 1'xuru  vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg (lovaixrj g xi-  %vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov oj-iog  xal fiagiog agfiovla av ity. rj yag agfiovla evfupavla  lari, Cvfupuvla ds ofioXoyla zig' f>(ioXoyiav ds Ix Sux,-  <pego[isvav , sag av Siacpigavzai, advvarov tlvai' dta-  (ptgoiitvov ds av xal firj ofioXoyovv advvaxov uQuoOai.    igitnr cnm Bekkero, Stallbaamio,  Rukkerto delenda curavimus. De  verbis insequentibus ov yap 8tf  nov vide annot. p, 85 et 98«   rj yap ap povia* Bene  Schleiermacherus in conversione:  Denn Harmonie ist Zu-  sammenstimmuug, Zusam-  mcnstimmang aber Ein-  tracht; Eintracht aber  kann unter entzweitem,  solange es entzweit ist,  nnmoglich s e i n ; und das  entzweitenicht e i n t r a c h-  tige kann wieder unmog-  lich ausammeiutimmen,   dZfnep ye xal 6 fivSpof*  8ensus est verborum : quemad-  modum, ut hoc unum exem-  plum commemorem, rythmns  , . . Indicat igitur yk particula,  plura exempla afferri potuisse,  quibus res probari posset, unum  sufficere, vid. annot, p, 88.   8ievrjvey pkv wy xtpoxe-  pov. Ante 8 levrfveypkvoov omnes  \ fere codices ix praepositionem  habent, quam cum tacide omisis-  sent interpretes, Riickertus solus  exstitit, qui in verborum ordinem  revocaret. Sed dubito, num ali-  quo modo excusari possit. Aut  repugnandum est codicum aucto-  ritati, atque ix e verborum or-    $   \ a    dine tanquam inutile additamen-  tum expellendum, aut scriben-  dum est ojsxep ye xal 6 /5uS-  poS 6 ix tov rorato?? xal fipa*  8 ioS, ix 8 iEV 7 ]ytypkvojv itpoxe-  pov , vtixepov 61 6po\oyrj0dv  toov ykyovev. In sequentibus  codd. non pauci habent "Epasta  xal opovoiav aAA^Aozf , quae  lectio unde orta sit, haud diffi-  cile est ad intelligendum. Ni-  mirum scribae seducti sunt vi-  cino ipnoieiv verbo, ut dativum  pfo genitivo exhiberent, quem  nunc novem tantummodo codd*  exhibent. tyAozf autem, ut  et Riickertus vidit, non satis  commode explicari potest; aut  igitur «AAr/Aiwv scribendum est,  quod in textum recepimus (de  ipnoieiv vid, annot, p. 102.)  aut exhibendum avxoiS y cuius  vocis ne unum quidem in codi-  cibus vestigium apparet.   xal iv pkv ye ctvty ty  6v6x a 6 et x, r. A, Stallbau-  mius ad h. 1. annotat: Jn ipsi*  rationibus musicis , h, a. in har-  monia et rhythmo t nullo negotio  ait cognosci et animadverti posse  X a i p a) x ix d , h. e, quae sint  consona et congruentia : simplices  enim illas esse et quae non pa-  tiantur discrepantiam aut diver- t  s itate m ullam i sed in usu et ex-    r    —a' /    &gitzg ys xal o $v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos  dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov, v6zsg ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c  yovs. rrjv SI ofiokoylav ituOi zovzoig, agxf g IxeI fj  latQLxrj , lvzav%a y (lovtSixrj EvrlftrjGLv, "Egazu xal 6fto-  voiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa' xal lazw av fiovtSixt] nzgl  agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav Imazyfirj. xal Iv fitv  ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal gv&fiov ovdev  Xakenov ra iganixa Siayiyvbi6xuv , ov Se 6 SiTtXovg 'Egag  ivzccv&u ncog ttinv’ ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s dv&gw-  ercitatione musices -plurimum in -  ter esse , quo modo illis utaris ,  atque hic cerni vim duplicis il-  lius Amoris , coelestis et vulgi-  vagi* Mira est sententia , fateor :  sed non sine caussa Eryximacho  tributa* Ineptit enim nunc acer-  rimus iste Heracliti cavillator  adeo , ut propter inanem illam  sophistarum imitationem misere  vapulet . Perperam igitur Schiitzius haec : ovSh 6 $iit\ov S  *E p oo S ivi av$ a irtuf idtiv  delenda iudicavit. Isimirum non  intellexit vir acutissimus homi-  nis ineptias. Non rectius Plato-  nis verba Schleicrmacherus inter-  pretatas est io eonvers. p. 408.  Und in dem Aufstellen des Wol-  lautes und des Zeitmaasses selbst  ist es wol nicht schwer, die Liebesregungen zu erkennen, noch findet sich hierin jener zwcifache Eros. Hoc  si dixisset Eryximachus, merito vituperaretur» at vituperandus est Riickertus ad h. 1, annotans:  Ego nescio, quo hic stupore tenear, cui, ut ineptias videam, plane non contingat. Nihil mutaudum  est, neque quicquam e verborum  ordine expellendum, sed rectiore  explicatione opus est enuntiati,  quam a nemine hucusqde repertam esse miror. Verba nimirum    ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci  yrooS 1 idtiv elliptice posita 'sunt,  atque supplendum e praecedenti-  bus est £tfA£7roV. Mens Eryxi-  machi haec est: In derblos  schematischen Aufstel1ung der Harmonie und  des Rhythmus ist es nicht  schwer, die erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros 'hier irgend Beschwerden. Quae sequuntur, optime cum hac verborum explicatione conveniunt.   a\X' iiteidav 6iy itpoS  rotis 1 ctv$ ptortovS x. r. X.  Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor  den Menschen Wollaut und  Zeitmaass in Anwendung brin-  gen soli; quae si mens fuisset  Eryximachi, scripsisset haud dubie  iv dvSpooitoiS. Ficinus non sa-  tis explicate, sed Schleiermachero  rectius, ut videtur, verba inter-  pretatur: sed tunc demum, cum ad alios rhythmo et harmonia  est utendum. Nobis Eryximachus  de rhythmi' atque harmoniae usu  eo loqui videtur, qui hominum  utilitati inserviat. Rectissime  Matth. Gramm. plen. J. 591- p.  1180. seqq, ita de ifpoS praepo-  sitionis potestate disputat, ut D jrovg xara-/Q^<S^ca Qv&fiai te xal ccq/iovm tj noiovvtu,  o &rj fuloTtouav xcdovtiiv, rj %qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7ie-  jro»;fi£votg ( uiketii re xal fierpoig, 3 bi) ncudeia Ixlq&rj,  Ivrav&cc dt] xal %oAenhv xal dyct&ov SrjfuovQyov dei  ncihv yuQ ijxei 6 aviog loyog, o« rofg n'tv xodfiioig  plerumque dxoftEiv verbi notio-  nem loquentia animo obversari  diceret. Possis igitnr nostro loco  7 t poS TovS avSpodirovS Graece explicare: itpoS ti/V xgjv av-   Spamwv utpiXeiav dxoitovvtfc.   o 81 } peXoit oit a v x a -  Xov 6 iv . His verbis exemplo  usas est Mattii. Grarom. plcn. §.  475. C. p, 891», quo probaret,  pronomina relativa iu explicativis  enuntiatis haud raro ad praece-  dentium nominum genus confor-  mari. Interdum ad sequentis nominis genus effingi pronomen,  notissimum est. Utroque dicendi genere, quorum alterum accuratius, alteram elegantius est, Latini quoque usi sunt Vide sis  Kriiger, de Attractione Lat. Liug.  $. 56. p. 129.   o Si) TtaiSeia  cfr. Piat, de rep. If. p. 376. E.  c. XVII. TiS ovv ?} naiStla ;  T/ x a Xt7t6v evpeiv piXtico ryS  vito tov noXXov xpovov Evpij-  pEvrjS; i.6tt Se 7tov 7 } p\v ini  yv/tvcttitix?/, ij 8 ini  vxf/ povdVHjj. Adde de 7tai- StiaS notione verba Waclismuthii  in libro; Hellenische Alterthuras-  kunde Th. II. Abth, II. p. 4.  Recte ad h. 1. Riickcrtos, Omnis,  inquit , institutio liberalis apud  Graecos duas habebat partes, y v-  /iv adnxijv et povdixijv,  quarum illa ad corpus pertine-  bat, haec ad animi culturam , at-  que in poetarum maxime carmi-    nibus legendis ediscendisque versabatur, addita sonorum modorumque arte . Ceterum ne offen-  das in temporis mutatione, cum  supra o 81 } xaXovgev , nostro  loco o 81 } ixXy&rj dicatur: illud  est: vias man nennt; hoc signi-  ficat: was man gewohnlich nennt  s, Mas man zu nenuen pflegt.   ivT otv 5 a 87 } xotl £aA£-  7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa  8 iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum exspectabam equidem ivxavSa 81 }  xat goAaroV, ut ad verba respiceretur ou<$£ o SiicXovS EpoiS  ivravSa ncoS itirtv. Nam ro  SiayiyvGjdxEiv theoriae, quam  vocant, ut medicae (vid. p. 186.  D. init,} ita poeticae artis cou-  venit. Nostro autem loco non  de theoria poeseos sermo est,  quam Eryximachns tetigit verbis  iv piv ys avty ry dvdraCEi  X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati accommodato, ut  haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum conversio haec: Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum  Nutzen der Men&chen in Anwen-  dung bringt, — da macht der  zwiefache Eros grosse Beschwerde,  und es bedarf eines tuclitigcu  Pruktikers.   naXtr yap yxei 6 avroS  X oyoS, Riickertus ad Pausa-  niae verba liic respici docet,  quibus praecipiatur: iis tantum AMATORIBUS obsequium praestan-  ziov av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro oi  (hjjtm ovze g, Sei xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav  "E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b xaXbg, b Ovquvios, b rijg  OiiQavlag MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag , b IlccuSt]- E  ( tog , ov Sei evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v TtgogqiiQij,    dum esse ab amasiis, qui et ipsi  virtutem colaut, et ad eam co-  lcudam amasios adhorteutur. Hioc  factum, ut Eryximachi contortiorem censeret et obscuram et subineptam orationem. Certis-  simum est autem , praeceptum  medicorum ab Eryxiraacho tangi,  quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS  tols 6oopaoi, rols ply dyaSol?  ixddrov tov dooparoS xal vyut-  roiS xaXov x a ptfe6$ ai *dl  xal tovtq Idxiy y co ovopa tu  laxpixuy , %oiS 61 xaxols xal  YodcoSedty fddxPOY re xal 6ti  dx<xpidT£iv> ei yeXXei ris texyi-  xoS. elvai. Mens Eryxituaclii  haec est- ut illic medicus corpori , ita nunc poeta sive magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM, atque bene moratis, et quo liant meliores , ita prospicere, ut nulla res, cuius laude  corrumpi possent, laudetur,   o trjs Ov parias Mov-r  6t]S "E paS . Haec verba cave   ad praecedens "Ep&ta verbum  referas. Pertinent potius ad ro  Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv,  quae nomina e praegressis facillime eruuntur. Ov%oS autem e  generis haud rara assimilatione,  de ‘qua vide annot. p. 129. positum  est. Sensus est : Gutgearteteliing-  linge zu beriicksichtigen und ihre  naturliche Neigqng zu bewahre»,  darin besteht das Wesen des  Eros der Urania* Vide etiam au-  uot. p. 126.    o' Sfc TloXvpviaS. Poly- ,  hymniam Musam cum Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyxima-  cho nemo non videt. Iam quaeritur, quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem si-  li i fica t; possis igitur ea de caussa  illam comparationem institutam  putare, ut cum AMASIORUM multitudine, quae a Pandemi asseclis  ametur, illa carmiuum multitudo  comparetur. Possis etiam, quae Riickerti sententia est, ita judicare, ut numero abunda ntiora  rarioribus viliora censeas. Neutra explicandi ratio nobis nunc  placet, neque credimus, Polyhy-  mniam nostro loco carminum mul-  titudinem denotare. Agitur de  Jiarmoniae atque rhythmi mota-  tione, quae iusto saepius in car-  minibus admissa TloXvpviaS nomine insignitur. Ut igitur Ilar-  6)jpov asseclae ab uno amusio ad alterum transeunt, non virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quae e  varietate amatorum oritor , ita  poiitae, asseclae llav6i)pov , qui  HoXvpviaS £,vvtpy6$ est, sigui-  ficautur harmoniae atque rhythmi  varietatem captare, aurium, non  animi oblectamenta.   npoScpipEiv oU dv 7tpos~  (pepXJ. Vulgo male olS ar  TtpoSiplpoi. Minus accurate haec  verba Ficinus reddidit ! cui summa  cautione indulgendum est , ut  voluptatem quidem homines hau-  riant , incontinentiam vero devi-  tent, , Sensus est: quem, qui*?    1  twreg av zyv /xev ySovyv avzov xagjtd<S7]zai , dxolu-  clav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/ , tog xtg iv ry yy, triga  xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv im-  ftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv  xagnddao&a*. xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal  iv rotg ctlXoig ndai xal roig dv&gaittiotg xal _ toig  &tiotg, xu\r' ot Sov Jtagdxti, tpvXaxztov ixdztgov xbv’'Egcoxa’  188 ivtazov yug.  bus adhibetur cunque,  magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavi-  tate quidem eius fruatur,  qui eo ntitnr vel poeta,  vel lector, sed turbas  devitet atque ordini* cor-  ruptionem. Harmoniae autem  atque rhythmi commutationes le-  gibus artis poeticae probantur  ita, ut paucis quibusdam in locis,  quibus conducere possint, modice  admittantur v. c. in exprimendis  animi allectibus. Iu sequentibus ad xapjtGjdrjxat pronomen  indefiuitnm subintelligendum est,  qnod et ad poetas et ad lectores  referatur. Ad poetas refertur ita,  ut artis poeticae opera componendo, ad lectores, ut eadem  legeudo sibi cavere moneantur,  ue rhythmorum atqne harmoniae  ordinem concinnitatemque turbent, vel non satis recte agno-  scant. Clarior res fit exemplo,  quod Eryximachus statim addit.  Nimirum artis coqninuriae deli-  cias medicis in universum pro-  bari negat. Interdum tamen li-  cere ait eas delicias hominibus  commendare, quae et delectent  et damni nihil aderant.   xa& o6ov itapeixei.  Convertit haec verba Stallbaumius: quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in annot. ad Piat.  Polit. II. , p. 574. E. 6p 6*  uvx anobtiTaatkov, o6oy y av  bvvapiS irapeixq. Ceterum verba  sunt non pauca, quae omisso subiecto suo transitivam vim  amittunt, atque ut verba imper-  soualiu adhibentur. Quem usum  huius verbi cqm non notum ha-  berent librarii, factam est, ut in  eius scriptura libri non consen-  tirent. Bodl. enim aliique codd,  itapijxEt exhibent. Ceterum con-  ferri iubet Riickertus ad h. 1.  Thucyd. III, 1, TCpoSfioXcA iyl -  yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov ,  onxf icapeixoi. Soph. Philoct.  1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l  TCpoS ta xovd’ hcr\ eE, pot ita-  peixot.   xa\ rj tcov eo p cov tov Ivi-  avxov 6v6x adiS, Schleier-  macherus exhibet in convers. p.  409. Die Anordnung der Iahres—  zeiten und der Witterung. Fici-  nus verba convertit ; Anni tem-  porum constitutio. Neutra 6v-  OxadiS nominis conversio nobis  nunc placet satis ; verbum desi-  deramus potius, qno significantius  exprimatur , de finibus atque de  initiis anni temporum hio agi.  Nimirum consentiunt medici , nihil perniciosius esse corpori hu-  mano animalibusque et plantis,  quam subitas coeli mutationes, Cap. xm.   '/Sarti arcti rj twv wQiav tov Iviaircov OvtSraOig /is-   6tf) laziv IXtUpOtfQUV TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv ICQOg  a IX>;?. a tov xoOfiLov tv%\) "EQcnog 8 vvv St] lyu tk tyov,  za re &EQ(itc xal tu ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal cp-  l toviav xal xqkClv AajSy CwcpQovu, jjjactc yigovTu tvetij-   v. c. si frigus acerbissimum se-  quatur subito aestus ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum  .medicum non tum / de ipsis anui  temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte coniungendis  agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung, Ver-  biudung.   xal dppovLav xal x pa-  ti iv. Vulgo omittitur xal ante  apporiar positum , quo omisso atque commate post vypa deleto  sententia verborum haec evadit :  Si calida et frigida houesto  amore consociantur, porro si sicca  et humida harmoniam et mix-  turam aptam admittunt.*. Haec  quominus probemus, vetant a  rvr 8tf iXeyov verba , quibus  t d re Seppa xal rd ipvxpd xai  £,r}pu xal vypa arctius couiun-  genda esse docemur. Ceterum  ad ea haec comparata sunt,  quae de musica arte supra dicuntur. Ut illic xo dS,v xal  fiapv, tq tax v xal fipadv com-  memorantur, uostro loco habes  rd Seppa xal rd if/vxpa t rd  £rjpa xal rd vypa. Kpatiif  tiojippoov autem in re rhytii mica  evpv^plar gignit, quae eodem  modo iuvenum moribus erudiendis inservit, quo, modo sanitatem generis humani auimalium-  que et plantaram progignit eve-    rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. p. 26*  B. ovxovr ix rovrcov copai re  xal otia xaXd narra rjptv yi-  yove , rcor re dnelpcjv xal  rcbv nepas ixorroav £,vppi-  XSerrar ;   tico cppova. Substantiva haud  raro a verbis, e quibus pen-  deant, seiungi, ut gravitate ex-  hibeantur auctiora* supra indicavimus p. 59. et p. 66. Pari  modo a substantivis adiectiva  disjunguntur, cuius usus noster  locus exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and das Kalte,  Trocknes und Feuchtes gegensei-  tig des geordneten Eros sicli er-  freut, und es einer Harmonia  und einer Mischung, namlich einer  ganz zweckmdssigen , theilhaft  wird ... xal ovSlr ?jdixtjtiev.  Aoristicum tempus praecedente  tempore praesente i/xei ne quem  offendat, habet praeteriti fere  potestatem yxeiv verbum, cfr*  Piat. Crit. p. 43* A. apri 6h  jJxeiS 7f naXai ; kamst da  eben erst oder schou lange? Igi-  tur ijxei epepovta idem fere est  atque ijve^xev. Proprium aotem  aoristicum tempus in rebus, quas  experientia docuit, recteque praecipiunt grammatici , haud raro  giav TE xai vyiuav av&Qcoicoig xai xoig aklotg tcootg  te xai cpvxoig y xcd oijScv xjStxijdEV" oxav Ss o uncc xijg  vPgsiog "Egag byxQaxiexEQog ntgi xag xov Iviavxov agag  B ysvtjrai , 6d(p&EiQS x e xokka xcd •fjdtxrjtlEV. oi! xe yag  koiftoi gidovOi ylyvEO^ca 1% xav xocovxav xcd ak£  uvojioitt 7to?J.a [vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig xai tofcf    aoristum usurpari, ubi indicetur,  aliquid fieri solere. Eodera  modo explicanda verba sunt, quae  paullo infra leguntur; 8 i e cp$ e i-  pe v, 7f8 ixrj6ev . Alia ra-  tio est Piat. Phaedon, p. 84. D.  xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i re  7 jpepa xcd qn\6iv .. etenim ab  aoristico tempore ad praesens  subito transitur, quoniam nunc  non narratur, quid Socrates dixerit, sed ipsa eius verba af-  feruntur: Hoc audito ille   cum subrisisset: Vae, in-  quit, o Sim mi a. Adde Piat,  de rep. VI* p. 508. D. otav  per, ov xataXapnei ab/ $ eia.  re xai ro ov, tls rovto dne-  peior/rai (ac. ?j if> vx/f) evoi\6e  re xai Eyveo avxd xai vovv  If^erv (paLverat . Quo loco quid  anima facere soleat , aoristo, lo-  qucntis de animae conditione iudicium praesente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi exempla  afferam, lioc in universum tenendum est, aoristo et praebente in  eadem enuntiatione positis non  eandem potestatem esse, sed ao-  ristum quod fieri soleat, aut quod  factum * sit indicare , praesens  tempus vel facti veritatem ex-  primere, vel aliquod iudicium loquenti? in se continere.   xai d XX dv 6 pota TtoX*  \u v o pax a 4 Haec verba   Corrtipta esse multi fuerunt,  qui annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus habet: Testes siquidem ex /iis oriri con-  sueverunt, aliique morbi permulti  et vani brutis ac plantis infia -  sci. Igitur legisse eum Stall-  bunmius censet xa\ aXXa noXXa  )xal nocytola vodijpara* Schii-  tzius scribendum couiecit xai  aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do  Antid. p. 330. : ciXX’ dv opoia. Astius aXX * axr opoia , quod  Stallbaumio probari video. Fa-  teor, harum mutationum nullam  mihi placere. Olim scribendum  putabam xai aXX * dvopa noXXci  [ vo6rj pacta .] Ac v 067 ) para qui-  dem etiam nunc persuasum habeo  glossema esse eius, qui, cum  recte intellexisset avopoia t ut  et alii intelligerent, verbi expli-  cationem margini adseripserit*  Memor autem Eryximachus ver-  borum erat p* 186. B. ro 81  dvopotov dvopoloDV huSvpei  xai ipa, ad quae respiciens  avopoia dixit, ut simul ad in  tGDV X OtovTGOV supplendum sit  avopoioov xov iviavx6v (opcSv .   xai tols $tjpiotf' t xai  toiS epVtolS . Eryximachus  cum supra dixisset dv^pcbnoii  xai xoli aXXoiS ZgjoiS re xai  cpxnoiS, humani generis nunc videtur esse oblitus* Verum licet  medicis de re medica loquentibus homines animalibus adnumerare : den thierischen und vegetabilischen Korpern,  xai ipvdifiat» Timaeus  iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa - cpvrolg * xal yag ita%vat xal %aXat,ai xal iQVtiSfiai ix  Tckeovs^lag xal axodplag Jtsgl aXXijXa zwv zolovzuv yi~  yvezca sp&zixcov , av iitufziyfiq adzgav re q)ogag   xal IvLavztiv agag adzgovopta xaXzlzai. %xi roivvv xal  ftvdiai itadai xal olg [lavuxij htidrazel — zavza 69  l6zlv rj negl fteovg ze xal dv^gtbnovg jcgog t&XXiqXovg C    drfS Spodos • itax y V SpodoS   XiovqoStjS. Hesych. ipvdiftrf. vo -  6oS riS aepoS iitiyevopivT} toiS  cpvtotS xa i xapnoiS. Pro yi~  yverai pluralem numerum exhi-  bet Stobaeus, quem numerum  Fischerus et Wolfius reposuerunt. Frustra. Naturae phae-  nomena quoniam verbis impersonalibus exprimi atque describi  solent, substantiva etiam, quae  cum his cohaerent, ut infinitivi, quibus deest subiectum certum,  tractantur. Vide Astii annot. ad  Flat» Polit» p. 400. Adde Matth.  Gramm. plen. $. 303- p. 603*  ojv ire tdnj p.7j xaXetr at. Fuerunt, qui haec verba delenda  censerent; alii eadem coniecturis teutarunt» Primus Astios monuit, meteorologiam et astrolo-giam veteribus astronomiam appellatam, neque meteorologiam  antiquitus ab astronomia disiun-  ctam fuisse» Id factum ideo,  quod astrologorum non solum  erat, sidera observare, sed etiam  tempestatis mutationes, quae si-  derum indicari solent vel ortu  vel obitu , praedicere. Quod autem, Stallbaumius ait, Eryxi-  jnachus hanc defiuitionem astro-  nomiae addit, atque mox etiam  defiuitionem pavrixi}S\ id nemo  inepte aut temere fieri arbitrabitur, qui reputaverit, hominem  sophistarum artibus assuefactum  ridicule captare inanem quandam  doctrinae speciem atque umbram. Aliter nobis videtur de his verbis iudicandum esse. Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut  imdri/prf adrpu>v re {popoiv  xal iviavtcov copcov vocetur.  Hanc definitionem veram esse  Eryximachus negat, astronomiam  inidtTjfirjy ip GJtixoJV ite-  pl adrpav re q>opaS xal  ivi avt air copaS esse contendens.   iri roivvv xal Svdiai  TCadai . Haec est xneliornm  codd. lectio, quorum iu numero  primus est Clarkianus. Probatur ea  lectio fiekkero , Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al SvdLai  aitadai ; minus apte, ut videtur»  Non enim ita de sacrificiis loquitur Eryximachus, ut singula quaeque sacrificia significet intel-  ligcnda esse, sed in universum  sacrificiorum mentionem facit»  Convertenda verba sunt : Ferner  auch alie Arten von Opfern und  das, woriiber die Mantik gesetzt  ist. Memorabilis hic locus est,  quo veterum de religione iudi-  cium continetur. Dupliciter cum  diis agi Graeci censuerunt, eorumque numina aut sacrificiis adhi-  bitis placare studuerunt propter  vitae anteactae scelus , aut pav-  tixg usi sunt, cuius auxilio  de deorum voluntate certiores  fierent, futurainque viam ad ean-  dem dirigerent» Vide Wachsmuthium, qui nostrum locum lau-  davit ia libro; Helleniiche Al** xoivavta — ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpv-  Xaxyv te y.cd TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvE-  Gfrai, tuv fiTj tls toj xoGpla ”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa  tcrtliumslunde P. II. T. II. p. 222. In sequentibus xavxa non solum  ad verba pertinet ols pavxixi }  iitidxaxel , sed cliam ad Svdiai  itadat. Recte igitur Schleiermacherus in conversione: denn  dies insgesammt ist die Ge-  meinschaft der Gotter und Mcn-  schen unter einonder. Ceterum  ut melius intelligas, verba X avxa  6* idxlv i } nepl $eov* xe xal  dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi -  VGQvtac immerito a Schiitzio in  suspicionem vocari : Eryximachi  mens haec est: Ferner sind pun  auch alie Opferungen und das,  wortiber die Mantik gesetzt ist dies zosatmnen aber ist nach  der gewohnlichen Meinung fiir'  den vrecbselseitigen Verkehr zwi-  schen Gottern und Menschen cigentlich nichts anderes, ais  die Bewahrung und Htilung des Eros,  Epi*Epa>xoS tpvXa-  xrjy xe xal tadiY. "EpcjS  hoc loco generaliter positum significat et malos et bonos affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes p. 188. C. fin. a 61 }  nposHxaxxai xfi /tavxixp ini -  Cxoniiv x ovi " EpcoxaS xal la-  rpeveiv. Adde p, 188. D. ubi  6 naS *EpG>$ legitur.  nuda ydp 1 } adi fi eia.  Nihil in his verbis comparet le-  ctionis varietatis. Mallem tamen  abesset articulus, ut de impietate  in universum, non de impietate in certis quibusdam actionibus  Eryximachus loqueretur, cfr, p*  188 . D, fidXXov 61 nddav 6v -  ra/nv fyei x. x. X. Paullo in-  fra nadccv ij/itY eVdaipoviaY.  Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus, qtfam vulgo non  satis accurate interpretantur docti  homines. Annotant enim, Grae-  corum (piXetY atque Latinorum  amare haud raro rebus actioni-  busque ita apponi, ut quibus esse  fierive solere res actionesque  indicentur. Merito autem quae-  ritur, quid differat hic qnXeiv  verbi significatus ab aoristorum  temporum usu, de quo p. 142«  diximus, et quibus itidem so-  lere aliquid fieri significatur. cfr. Eugelliardtus ad Piat.  Menex. p. 240. ed., Stallbaumius ad Plat, de rep. VIII, p. 650.  B., ed. p. 183. Matth. Gramm.  plen. J. 602. 3 > p. 954. Aori-  stum poni adhaerente notione s o-  Iere verbi, ubi de actionibus sermo  ait, quae iam saepius factae sint,  satis notum. $iXeIy contra ad-  hiberi solet de rebus, quae non  tam factae sunt iam saepius,  sed quibus vim quandam inesso  indicatur, qua necessario  fiant. Et quoniam quae necessario fiunt, saepias iam facta esso  possunt, multis in locis perindo  est, utrnm aoristicum tempus, an  tpiXeiY cum praesentis temporia  infinitivo coniunctum posueris»  Sic nostro loco, quoniam pestis  Atticam terram saepius invasit,  Eryximachus etiam dicere pot-  erat: ol xe ydp Xotjiol iyi -  rOYXO ix T(k)Y TOIOVXCDV x.r. A,  Adhibito 9»iAeiV verbo haec eius voluntas est: Nam pestis ea natura est, nt quae facillime ex hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov,  xal 7tEQi yoviag xal t,avtag xal xtTtltvzrjxbtag xal xeqI  foovg. a 6 tj TtQogxiraxtai zy (uxvuxrj inuSxontlv zovg    exoriri possit et qaae seqq. Con-  ferri potest cum hoc <ptXeir verbi  usus iStXeiv et fiovXedSat ver-  borum in rebus inanimatis ; sic  v. c. legitur in Piat. Phaed. p.74. D. ovxovv opoXoyovpEv,  oxar x iS xi idcjy ivroijdy, oxt  fiovXexai plv xovxo, o vvr  iydo opcj , elvai olov dAAo xi   XGQV OVXQDY , Mei 8h XCtl OV  dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A.,  quo loco non dubium est, quin  eadem rerum natura, quam cum  instincta animalium comparari  licet, tangatur, ad quam etiam  cpiXeiv verbum referendum est.   iav fiif x iS seqq. Notabis  hic usum Graecorum in collo-  canda negatione a nostro disce-  dentem. Nos enim, cum non  ipsam sententiam negamus, sed  partem aliquam sententiae, curam  agimus diligentissime, ne negatio-  ni» particulam collocemus ita, ut  cum verbo possit coniungi, recte  facientes, ut opinor. Sic nostro  loco non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed asseritur aliquis X a P^ m  c>ed$ai quidem, at non ta xo-  d/iioo sed fc3 hxepa "Epcoxi. Id  nos sic exprimimus: Wenn Ie-  mand nicht dem gesitteten Eros  folgt, sondern dem andern. Con-  tra Graeci ita amant negandi  particulam cum coniunctiouibus  ei, iav, oitGDS aliis, arte coniungere, nt perspicuitatis illa lego  neglecta breves certe voculas, ante illam ponendas, post eam reii-  ciant. Quod in pronomine indef.  xis maxime fit. cfr. Crat. p. 453*  C. ei jirj xi xaXaS ixe&q dictum  pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell. VI. 4. % ei pij xiS  iaorj avtovopovS xaS noXeiS  elvai. Non negatur ibi ro id v  riva, sed affirmatur xo prj iav.  Pariter ante xal Tbucjrd. VI, 60.  collocat: hceidev avxov cuf XPV  el jxjj xal 6e6paxev x.x.X. pro  ei xal prj didpaxer. Quin etiam  ante ipsam coniunctionem ib. VI.   18. xov yap xpovxovxa ov  jiovoY iitiovxa xis ayvvexai,  a?iAd xal prj oitaS iiteidi itpo -  xazahafifidvei. Riickert.   d XXa xov Zxepov. Vulgo  aAXct nepl xov ixepor, quod ferri  potest nullo modo. Illud in Vin-  dob. 2. et apud Stobaenm repe-  ritur Ecl. phys. p. 24. Memo-  rabile exemplum, quo probatur,  interdum falsum esse, quod codd.  fere omnium consensu exhibetur.   d 6 r) 7tpo Sxlxaxrai.  Schulthessios: Desshalb ist es  eben das Amt der Wahrsagekunst.  Astius habet: qua in caussa.  Schleiermacherus : w o r i n eben  der Wahrsagekunst obliegt. Care *  scribendum censeas, quod olim  mihi in mentem venit: d dij  icpoSxhaxxai xy pavxixy ini-  dxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia -  rpevei >o. d enim est: in welcher  Beziehung s. und in dieser Be-  ziehung liegt es der Mantik ob,  die Neigungen zu betrachten und  Heilung anzuwenden.  xal idxtv av i ) fiiavxixj}*  Spectat av 'ad p. 188. C, xavxct  o idxlv ?} Titpl $eovS te xal  dvSpooTtovS izpoi aAXyXovS xoi -  varia. Definitur autem 7 f yar-  Zixrj nane ita, ut dicatur conci-  10  $  Ega zag xal largtvuv , xal %6nv ccv f\ (mvzzxrj tpMag  I) ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za htiGzuGfrai za xazu  av&ga>7tovg igaztxa , o6u ztivu ngog depiv xal a<St-  jleiav. orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv  8vvu(uv %vM.rjf}8tiv (itv 6 xag "Egcog, 6 81 sr egi  tcc «ya&d atra <Saq>go<3vvr]g xal Sixai oGvvqg caioze-  Aovptvos xal xag xal itagd. &solg, ovzog zrjv   (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv ‘tjixiv tvSaifiovlav  itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg ojuXelv xal  (pllovg uvai xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. — "iGag  E utv ovv xal lya zov * 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov (itvzot, kxav yf    liatrix esse amicitiae inter deo*  et homines eo» qaod sciat, quid  ad procreandam et pietatem et  impietatem habeant in homines  Krotes potestatis. Auctor definitionum p. 4l4. B. habet: par-  XIX}], iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV  OVTOS XOtl ptXXoYTOS Zgjgj $V7]-  tgo. Yerior haec definitio illa,  quam Eryximachus profert, quae  ad duplicis Erotis naturam hominibus inhabitantem comparata est. ovtu 7 Co\\t}y xal pe-  yaAljn' seqq. Convertit Schleier-  xnachcrus : So vielfache and grosse  oder vielmehr alie Kraft besitzt  Eros iiberhaupt... Errat iisdem  paene verbis usus Schulthessius»  Ovtgj seiungendum est a verbis  insequentibus et ad totam enun-  tiationem referendum : Hac ra-  tione multam habet ma-  gna m q u e potestatem Eros»  vide ad p* 58. Sequentia verba  ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS "EpuS  clare docent, Eryximachum, quoad  eius fieri posset, se accommodare  Phaedri proposito voluisse: iyxco -  pia&iv " Epcata . Idem Pausaniam  fecisse annotavimus ad p» 180»  akX (X tt i^sXuiov , Oov £q~    E. htaivnv ptv ovv dei tcolv-  x aS SeovS.   xal aXXrjXot^ dvvapik-  vovS opiXeir, vid, adp.4l.,  ubi dvvaplvovS pro SvvatiScti  rjpaS dictum esse censuimus. Igi-  tur participii accusativam accom-  datum censeas ad ?}pdS prono-  men, quod ad opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem  Buckerto, qui xai ante tolS  xpeitto6iv rfpeov SeoiS expun-  gendum putat. Cohaerent inter  se xal aXXrjXoiS — xal xoiS  xpeitrodtY tjjic&v SeolS , atque  ea cohaerentia horam verborum  ut, emineret magis, dwapevovS  a Platone scriptam est, non 6v-  vapkvoit.   xal iyco. Ut Pausanias, ita  fortasse etiam ego multa intacta  relinquo. Tempore praesente  Eryximachus ntitnr, ut ad audi-  torum sententias oratio compa-  rata sit magis, qui forte cen-  seant, oxi noXXa itapaXeixet  ’Epv%ipaxoS, De insequendum  verborum explicatione liteidq xal  rjjs Xvyyos xatavCai audias Fi-  yov , c S 'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias  iv va %xns lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/  xal rtjs Ivyyos ninavaca.   jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on 180  Kal {iaX htu.v6u.to , oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov  stQOSEvtx&rjvai avry, agts fie &avfia£uv, el r 6 xo-  <S[uov rov amfiaxos htfovfiil rotovrcov s^ocpav xal yuy-  ycch6[iuv, olov xal 6 straQfios ItSti. stavv yay ev9vs  istavGato , htEtZSrj avra rov strayfiov stgosrjvEyxa.   Kal rov 'Eqv^iiuxov , r £l 'ya&E, cpavat, 'JyiGzocpuvEg,  oya tl stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal tpv-  laxa (te rov loyov avayxatfivs yiyvEG&ai rov esavrov, scherum: Particula xal a Stephano ciici non debebat . Nam  Eryximachus ostendit, partes disserendi iam Aristophani susciiendas esse non modo propter ordinis rationem, sed etiam propter ea, quod singultibus non impediretur, quibus sedatis promisisset se verba esse 'de Amore  facturum . Prorsus eodem modo dicitur paullo infra olov xal 6  7trappoS idrtv, ubi xai addito  indicatur manifesto, non solum  sternutationem hic tangi, sed  cetera etiam, quae Eryximachus  praescripsit, remedia singultus,  ov fisvtoi itpiv ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i.   Dixerat Eryximachus p. 185. E.  tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv,  dvaXaftdv n toiovrov, oVfp xi-  vijoaiS av rijv f)iva , nrdpe.  Vides igitur, cur articulum Aristophanes adhibuerit rov ittap-  fiov . h. e. sternutationem  eatn, quam praecepisti. (3sre pe £ avfidd,szv .  Haec est lectio codd, omnium.  Bekkeros, Astius , alii, ia textum    receperunt «stf lp\ SccvftaZetv  ea opinor de caussa, quod prae-  cipi solet, particulas non pati  iuxta se positam encliticara for-  mam pronominum. Huius regulae rationem quoniam neque nos  perspicimus, neque ab aliis satia  explicatam reperimos , codicum  auctoritati, quam mutandi libidini  obedire maluimus. Sententiam  quod attinet, Stallbaoinias ad h.l. ridet , inquit , quae Eryximachus  disputavit supra p. 187. D. et E,  Audi Riickerti annotat, ad h. 1,:  habet etiam Eryximachus, quod  respondeat, non r 6 xod fiiov  illud appetere, verum r d axo—  6fiov hac ratione expellendum esse. Id non facit respondentem Eryximachum , ne urbanitatem violaret i lectori reliquit inveniendum , erant que inventuri f  qui mores hominis nossent, facillime, nec potest latere attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis singultu  quorsum spectet , secum reputa-  verit » Vide Comment. de Sympos.  Platonis,   ijtstdq avrdi . Ia aliquot   10 iav n yeXoiov tixys , ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal  tov ’ AQiOtoipavr] ytXcKSavta tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv-  £l(ia%£ , v-al fiot, t6ta aggr/tu tu fifnjfiLva. aXXa fir/  fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv fisXXovtav  QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag av  xigdos tfij xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa  fir/ xatayiXuGui. BaXav y£, giavai , a ’Agi<Sto<pa-  codd. avnj repentur, quae le-  ctio 'eorum sedulitati debetur,  qui pronomen ad trjv Xvyya re-  ferendum censuerunt, Riickertus  ad h. 1.: Non habet, iuquit, neu-  trum hoc, ad quod reteratur. Nolim avtdj neutrum putare.  Quamquam enim Eryximachus r ijS  A vyyoS nomine usus est, tamen  hoc loco quasi tov Xvy/iov dixisset , pOSUit CtVTGJ. iav ti yiXoiov etayS,  Sensus est: Vide v , quid agas.   Rides sententiam meam, qui ijiso  nunc dicturus es, meque custodem esse iubes orationis tuae,  ai quid ridiculum forte  proferas, cum tamen liceret tibi securo tutoque orationem  habere.   i£,ov 601 iv elprfvy Xi-  ysiv Grammatici in i&ov,  6iov, aliis participiis nominati-  vam absolutam agnoscant. Haec participia, quoquo modo explicaveris, nam certa explicandi ratio  non reperietur in dicendi formis,  quae quotidiano usu loquendi  quasi sancitae cum linguae legi-  bus minus conveniunt, recte cum  nostratium formulis comparantur:  vorausgesetzt, dass; angenommen, dass.   ov ti , ilt} yeXoia efarm.  Stalibanmius ad h. 1. rectissime:  Hoc ov 1 1 , inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sen-  tentia haec est : Noli me   custodire: nam ego vereor de iis, quae nunc dicturus sum, non quidem,  ne ridicula proferam —  hoc enim lucrum foret et  comicae Musae nostrae  consentaneum, sed ne de-  ridenda. Revocandum est ov  Ti — aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov Xiyco oti  aXXa, de qua vide annot. p. 66. Verba convertenda sunt: Gieb  auf mich uur nicht so genau  Aclit, dena ich iiirchte mich,  liber die gestellte Aufgabe spre-  chen zu miissen, nicht etwa, dass  ich durch meiue Worte Laclien  erregto, sondern dass ich Thd-  rigtes vorbringen konnte,   ^ ytXoxa  xaray iXa-  6ra* a Dicitur yeXoia ex mente  Aristophanis, qui narrat de aliis,  quae risum moveant, vel omnioo  res alienas in partem profert ri-  diculam. Qua in rp quum non-  nihil sit artificii positum, tota-  quc comici professio in co ver-  tatur, ut moveat risum audien-  tibus , non timet hoc , immo in  lucro .ponit, si contigerit. At  ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui in-  genii fatuitatem prodit, sunt  enim deridenda. Est igitur verum discrimen, quod hic a poeta  ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi htxpsvfcsaftcu; nXXa TtQogsys tov vovv xcci  ovtGf$ Isye dos dcoOcov loyov. iGas (isvtol> av 86 C  ffOt, U(pTj(JCO as.  Cap. XIV.   Kal \Lrp>> iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov 'jiQUStoyavrj,  SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y y Cv re xal JlavGa-    mologia , at vulgari in usu non  observatam, cai xaxaykXadra  quidem semper sunt deridenda,  cfr, infra p. 198. C. ivEVorjda  tote apa xaxaykXatfxoS c ov.  Apol. p. 28. D. tva pi) iv$a8e  pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl  xopcovidi. Ibid. p. S5. B, xa-  9ykXadxov xrjv noXxv noiovv -  teS ; ysXolov vero est quodcun-  que risum movet, sive consilio  eius, qui facit dicitve, sive im-  prudentia. cfr. iufra p. 199. D.  yeXoiov ipcoxijpa i. c. xaxayk -  Xadxov p. 213. C. ubi Aristophanes yeXoioS dicitur h. e. dedita opera risum excitans.» Haec Iliickerti verba sunt optimo  de discrimine yeXoiof ct xaxa-  ykXadxo? verborum disserentis.  Minus bene V. D. addit: Itaque,  et quum minime sit huius loci  vocum discrimina explicare , ne-  minem esse puto, quin Prodici in  his agnoscat disciplinam, modo  sit memor eorum, qnae de hoc  homine discimus e Protag. p.  337. A., p. 341. A., Crat. p. 384.  B. , Euthyd. p. 277. E» , Lacii,  p. 197. B.Vide Conuncnt. de  Piat. Symposio.   fiaXcov y e — oZei kxcp e v~  B,e6%ai; Suidas Tom. I. p. 414.  ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai  oZei ; itpoS tovS xctxov xi 8pa -  davtaS xol\ olopkvovS lx(psv-  yetv. IIoc proverbium e rc militari petitum est, uh! aliquis  misso in hostes telo tela hostilia vitaturus recedit. Riickertus  proverbium hoc modo reddendam  censet: Ia, nachdem du ab-  gcschloss en, denkst du  davou zu kommen.   av 8 6 B,xi po t. Si videbi-  0 tur h. e. si rationem reddideris,  qnae' satis mihi et sufficiens esse  videbitur.   xal /u}r >elxeiv tov  9 Api6r o cp dvtj. Aristophanem  intelligi comicum poetam, comoediarum lepidissimarum auctorem, extra dubitationem positum  est. Eius oratione recreabuntur,  qui Pausaniae Eryximachique ora-  tiones legerint. Nam et a di-  ctionis elegantia pulcherrima est,  et ad rem si respicis, tanta referta venustato, ut dubitari ne-  queat, quin multam studii in ea conscribenda Plato consumserit.  Orditor autem Aristophanes a  praedicanda Erotis laude , cuius  naturam non cognoscere possit,  nisi qui prius in hnmauam na-  turam inqnisiverit atque in 7ta -  $i}f.ictTa eius. Aliam, atque nunc  sit, olim fuisse narrat, quatenus  quidem non duplex fuerit, sed  triplex antiquissimis temporibus  genus humanum *Av8p6ywov  enim , cuius non nisi nomen re-  liquam sit idque ia igaominia    150    IIAATSINOE    vias tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it avraitatSt  rtjv rov ’ 'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti cdoftav 6-    positam, tertiam genas exstitisse  viribas pollens, felicissima inte-  gritate gaudens atque tanto ani-  morum superbia praeditum, ut  ipsos deos aggrederetur. Iovcra  autem ceterosque deos dia haesisse inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringe-  rent, habuisse. Tandem lori in  mentem venisse Androgyni dis-  sectionem, qua eftecta Androgy-  num periisse, neque remansisse  nisi segmenta hominum, quae  amissae integritatis desiderio ve-  hementissimo agerentur. Huic  desiderio AMOREM nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi partem suam pars repererit, ab eodem  nunquam discedat. Igitur summorum bonorum hominibus auctorem Erotem esse, ntpote qui ad  pristinae integritatis felicitatem homines perducat.  xal /i 7} y 9 co ’Epv Zlfiaxe*   Male ad h. i. Ruckertus : Videntur , inquit, ad Eryximachi verba  respicere xal prjv particulae ,  ut oppositionem contineant . Quum  enim spem faciat Eryximachus ,  fore , ut dimittat Aristophanem,  hic tale quid videtur dicere :  Cupio equidem me dimitti, sed tamen vereor  ut fiat, sam enim aliam  viam a vestra diversam  ingressuras* cfr. Menex. p.  234. cap. 2. init, xal prjv , co  IMevIUeve, TtohXaxv xivSvvevei  X. t. A., quem locum laudo, ut  lectores tutius de Ruckerti ex-  plicatione 7tal pijv vocularum  iudicent. Ut nostro loco, ita ia  Menexeno xal pjjv nihil nisi gra-  vem affirmationem exprimit. Astios habet: ac nimirum,  quod nullo modo probari potest. Unice rectam particularum interpretationem Schleiermacherus exhibet in conversione: Allerdings. KaL expletivum est;  vide annot. p. 6. et p. 38,   elrtitTjv. Bekkerns, quem  secutus est Astius , eliterov edi-  dit. Stallbaamius cum audaciam  eorum non probaret, qui secan-  dam personam dualem nunquam  a tertia diversam fuisse docerent  (Elmsl. ad Arist. Acharn. v. 773»  ad Eurip. Med. v. 104 1., Monk.  ad Eur. Alcest. v. 282. ) , hrc  certum esse annotat: apud sciW  ptores veteris dialecti Atticae se-  cundam personam saepenumero  in — ttjv terminari. Schaeferas,  quem laudat Stallbaamius ad  Schol. Apoll. Rh. p. 146. anno-  tat: prisca graecitas dua-  lpm certe activi in his  temporibus videtor bifariam flexiss e etoy, et ov  et kxr\Y , itrjy , sed poste-  riorum usus temporum,  grammatica subtilius an  argutius exculta, termi-  nationem in oy assignasse  secundae personae, in tjv  tertiae. Secundae personae in  Ttjv terminatio saepius reperitur  apud Platonem, exempla collegit  Stallbaamius ad h. 1. cfr. praeterea Duttm. Oraram, plen. Vol*  II, p. 417. Matth. Gramm. T.I.  $. 195. n. 1. p. 347.   itavt anadt — ovx y 6$ij-  at. Negat Aristophanes, Erotis vim hominibus satis notam  esse, atque aperte indicat, pror-  sus aliter, atque Phaedrus, Pau-i. i   (itvol ys (liyiOz av avtov lega xmttGMvaOtti xul (ta )-  (lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv (ityiorus, ov% agnig vvv    sanias, Eryximachus dixerint, de  deo sese dicturam esse. Idem  paullo supra disertis verbis ex-  pressum est : &AAy yk Tty , in quibus verbis nou urbanitate, ut  Hiickerto videtur, sed ironia At-  tica factum est, ut aAAu verbi  austeritas addita 7ty voce miti-  garetur? ejn weuig anders.  Hac ironia Socrates haud raro  usus est, ut summam rem tan-  quam minutam exilemquc profer-  ret. Exemplo est PJat. Prot. p.  828. E. vvv itkitttdpat, 7tfo/v  (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ij-  Aov , oti tlpooxayopas fiqtSkoS  I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noX-  Aa xavxa i%E$ida%Ev,   ipol ydp 6 oxov div ctv-.  SpooTtoi. Haec est codd. le-  ctio plurimorum, Wolfius e tribus  ol dv^pcJ7COi in textum recepit,  ©e gerere in universum hic ar-   poortoi dictum putari senten-  tiae ratio non patitur, neque  vero cum contemtu homines commemorantur h, 1. Nihil igitur  esse vides , quo possis articuli  defectum explicare. Fortasse  scribendum est dv^pco7toi eodem  modo, ut avSpcDTCoi nunc haud  raro apud Platonem reperitur. cfr,  Symp. p, 206. A. ooS ovSkv ye  aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpco-  jcoi, ad quae verba Stallbaumius  annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum usitata est  in eiasmodi vocabulis, qualia sunt  avjjp, adeAtpos, yvvrj, yij , aliis,  quum de genere posita sunt. Vi-  giuti codd. articulum addunt.  Fortasse et 1». 1., quoniam dege-  nero humano verba non puta-  mus accipi posse, av$p<*)itoi scri-    bendum est. De formae huius  veritate vide Apollonium iu Bekkeri Anecd» gr. II. p. 495. 24.  apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dto-  ptxrjv peraSEtiiv xov J eis xo  a , xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y*  $pGD7TOS aV$pG)7COS 9 OVXCJS XO  ixepov Sdxspov idxiv.   ixel altiSavd fiev ol ys.  Aptissimus hic locus, ad quem  de ItieI vocis natura et potestate,  quid videatur, dicamus. Satis  notum est, atque exemplis ubivis  obviis probatur, etCel nou solum  consequentiae, verum etiam caussae notionem habere. Eius notio-  nis origo est liteita vox , quae  loquendi usu, ut fit, iu breviorem  formam mutata ita adhiberi so-  let, ut temporis notio cum con-  sequentiae caussacve notioue  commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporali-  bus daun et wann factum est  caussale d e n n , et coqditionalo  nv e u n . Sic cap. XIII, initio  ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV  iviavxov 6v6ta6iS jtE6tij idxiv  dpfporkpcov xovtoav x, x. A,,  quo loco eadem ixei vocis po-  testas est, atque iitEixa . Ery-  ximachus nimirum cum dixisset,  in arte musica et in medica du-  plicem Erotem reperiri, ita pergit :  Hernach ist auch die Yerknupfung  der Iahreszeiten voli von diesca  beiden. Non repugnabimus autem  si quis verterit; Denu auch  die Verkniipfung cet. , quoniam  in omnibus artibus et re-  bus duplicem Erotem reperiri  dictam erat, quibus verbis procedentibus efficitur, ut quod po-  stea sequi dicatur, idem illius     152    HAA TS&N02    tovtcov ovdtv ylyveua itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta  D ylyvs<S&ai. €<fn yug &Eav tfnlav^ganotatos , Ixlxovgog  te uv tav avftganmv xal largos tovttov, av la&iv-  tcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla ytvEi eitj.  lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv 8vvay.iv  avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI Se  itgatov vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~  ftrjyazu avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veri-  tatis, comprobet, cfr. Apol. Socr.  p. 26. D. jua At , c5 av8peS  6ixa6ta \ , inel rov p\v t/Xior  XiSov (prj6\v etvai , r i}v 8\ d£-  A rjvrjv yifv. In Alcib. II. p. 143.  C. ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po -  8pa Seirov Elrai ro jtpaypa,  Ssre x, r. A., imi pro litEi8r\  scribendum est; scribae enim  inei vocis significatum non per-  cipientes 6jj addidisse videntor.  Battm. ad h. 1. bteiSij 86 scribendum censuit» Dubito, num  recte. Adde Prot. 334. B. ei 6 f  i$6\oiS hti xovS mopSovS xal  tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv  (sc. TTjY 'H07tp0V) TtOVXCL dnoX-  A v6iv iitel xal r d iXaioy  roiS plv <pvxoiS anadiv Itixi  ituyxccKOV x. r. A. Adde p. 181.  C. d St rfjs OvpccriaS rtpdSxov  f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA*  dfifieroS fiovov — xat idnv  ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS—  in e ix a izpetifivxipaS , vfipEGDS  dpolpov , quo loco iittira con-  sequentiae notionem habere vi-  detor. Dieser aber gehort zur  Urania, welche zuvorderst nicht  Theil hat am Weiblichen, son-  dern bloss am Manolichen —  welche folglich die Aeltere  und ohne Uebermuth ist. Antiquissimis eoim temporibus illis  masculum genas exstitit tantummodo, non item femininam» Adde  p. 180. A. S! r\v xdWiov ov  povov JlaxpoxXov aA\’ apa  xal xoay rjpcdcjv dnavXGtv, xal  iri ayivEiof, ineixa vecotEpoS  Ttohv , <2s (p7]6iv n OpiipoS. Ad  nostram locum nt revertamur,  litei temporalem potestatem ha-  bet, quo simul effectum est, at  sequentes infinitivi e praecedente  finito verbo 8oxov6iv exaptaren-  rentor. Sensus est: Denn mir  scheint, dass die Menschen durch-  aus des Eros Bedeotung nicht ver-  standen haben, hernach, dass sie,  wenn sie dieselbe verstanden  hatten — die grossten Heiligthiimer erbaut haben wiirden...  Simillimus nostro loco est Xe-  nophontis , quem Stallbaumias  laudat, Hell. VII. 1. 38» 7 tpoS  dfe rovroiS xal ro rcor XPV~  lid.XGov7t\i}$oS dXaZoveiar avxcp  doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy  vfivovpbrqv av xpv6rjr itXdxa-  vov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt  tfxtccv napix^y*   fitiy t6r av avrov lepa.  Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo  aus diesen Worten hatten manche  Sammler von Mythologien ler-  nen konnen , dass Amor keine  Gottheit war, die der Volksglaube  zu cincm Gegenstaud der einge-  fiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai yficov cpvOig ov% avtrj rjv Sjiteg vvv,  dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ rgla fjV ta yevrj ta.  TtZv dv&QUXMV , OVI «S**0 vvv 8vo , u$Qtv xal frijlv,  ctXXa xcd tqItov xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E  ov vvv ovofia Xoatov, avto 81 ^tpavuStai. dvdgoyv-  vov yciQ tv tore [ilv ryv xal sidog [xal Svo[ia ] , au-  tpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal frqXeog, vvv 8’  ovx Sotiv aXX’ y iv oveidei ovo[ia xeljxtvov. exeircc    ilern mehr ein Abstractam , das  den Dichtern seinen Platz im  01} rap zu danken hatte. Ceteram  xaxadxev adai aoristicum tempus positam est sequente itottlv  imperfecti infinitivo, at actio  praeteriens, qualis est templorum aedificatio, a sacrorum fe-  rendorum consuetudine discer-  neretur. Vide Engelhardtum ad  Meocx. pag. 234. c. 2. xal  yap tacpf/S xaXrjS xe xal fie-  yaXonpeitovS rvy^ayn, xal  iav rtivrjS xiS uiv xeJLevxrfdp,  xal iitaivov av itvxe, xal  idv <pav\oS j} x. x. A.   ovx vSrtsp' vid. ad p. 179.   E. annotat. Oratio plenior foret  «AA* ovx av litoiow , usitep  vvv , o xi xovrarv ovSlv yl-  y vexat. Nvv autem Tocula non  solum de praeaente tempore intelligenda est, sed etiam de ve-  ritate rei. De verbis insequen-  tibus 6 eov 7 tavTGDV paXidxa yi-  yvedSai, vid. ad p. 131. i%ov  doi iv elpyvy A kyeiv.   litlxov poS x £ &v. Addito  elvat verbi participio epitheti  veritas indicatur, ut convertenda  verba sint: denn er ist unter  den Gdttern des menschenfreund-  lichste and der walirhaftige  llclfer der Menschen and Arzt    der Uebel , deren Heilung dem  Menschengeschlechte zur grossten  Gliickseligkeit gereichen miisste.   vjjieiS 61 xoHvdXXcDV 8i- '  8a6xaXoi i&edSe, Haec  verba vario modo explicari pos-  sunt. Fortasse Aristophanes vulta ad serenitatem composito , tan-  quam summae veritatis rem probaturas satis festive, ut comicum  decet, doctoris formam imitatus  Vobis, inquit, ego, vos ce-  teris praeceptores eritis.   ovx avxrj rjv, rjitep vvv.   Bekkerus, quem secuti sunt Astius  et Reyudersius ex Euscbii Prae-  par. Evang. XII. p. 585. C. i)  avxrj in textum recepit. Fiemus  habet: neque enim, qualis  nunc est, olim erat, sed  longe diversa. Nihil mu-  tandum est. Verba proprie au-  diunt generis assimilatione omissa:  7} ydp Ttakai rjpcov cpvdiS ov  tovto ijv , Zizep vvv, aAA* aA-  A owv xt. Sed minus adamatum  hoc dicendi genus fuit Graecis;  quamquam enira rectius censeri  potest, atque exprimendae sen-  tentiae convenientius, tamen minus elegans est atque durius.  Hinc factum, ut generis assimi-  latione adhibita scriberetur ovx  avtrj — tjxEp — . Diximus de  hoc genere dicendi p. 139. «Aov rjv hiouSt ov tov &v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov,  vojtov y.al kXevqus xvxXa %ov. %HQas Si xtrtaQas  tljE, xui Gxibi tu %6u tuis X e Q^' *«* Xqosuzu Svo    avdpoyvvovydp e v r o-  te y\v rjv xal eido S [xal  ovo/ia.] Ficinus Tcrba con-  vertit: Androgynum quippe tunc  erat et specie et nomine, ex  maris et feminae sexu commix-  tum. Eum secutus est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal war das Mannweib wirk-  lich wie im Namen, so in der  Gestalt vorhatiden. Stallbaumius  od h. 1. deest, inquit, ev in mul-  tis codicibus, itidem apud Sto-  baeum ct Eusebium. Quod vide,  ne omittendum sit. Riickertus  %v verbo servato verba conver-  tit : Androgynum enim tunc unum  erat non minus genus quam no-  men , ex utroque conflatum , vi-  rili et muliebri ; nunc non est  nisi nomen opprobrii caussa inditum, Displicet haec conversio eo nomine, quod repetitionem iuutilem continet praecedentium verborum : crAAoc xal rpixov (sc.  yivoS) itposijv xoivov « 7 / 90 -  xipCDv rovx&v x. t. A. Porro caussam frustra quaesiveris, qui  fiat, ut commemorato in prueee-»  dentibus yevo$ verbo nunc elSoS  idem significet atque yivoS. Po-  stremo male se habet: Tore h. e.  tum temporis unum fuisse et ge-  nus et nomen avdpoyvvov ,  quasi non et Platonis aetate unum  nomen avdpoyvvov fuisset. Ev  voce deleta sententia haec est  verborum: Mannweib war damals  in Beziehung auf Gestalt uud  Numen aus beiden, dem Mann-  Jichen. u. Weiblicheu ausatnmen -  gesetat. Sed rursnm quaeras, nuin  Aristophanis aetate Androgyni    nomen ex ntriusqne generis no-  mine non compositum fuerit?  Si qnid video , ineptum scioli  additamentum est xal ovo/ia ,  quod praecedentibus verbis ov  vvv ovofia A ontov nullo modo  explicari potest. Deleto eo optime  huius loci verba se habent. Ari-  stophanis mens haec est : sed et  tertium genus insuper erat utrios-  que generis et masculi et femi-  nini particeps , cuius nunc no-  men superstes , ipsum t periit*  Videlicet androgynum (ut nunc  nomen, ita) tum temporis nnum  erat etiam eldoS utriusque par-  ticeps generis , masculi femi-  neiqne.   v v v d’ ovx tdxiv aAA* rj  i v 6 v eide t ovo y a xeiy e-  vov. Ietzidagegen istes (das An-  drogynum) niclits auderes, ais ein  schimpflicher Name. Scripsi aAA  pro vulgato aAA*. * Vide Engel-  liardtum ad Piat, Apol. . ed. p.  207. Similiter scribendum est  Gorg. p. 447. A. trAA*, 7/, xo  Xeyoyevov, xaxomv hopxijS rfxo -  pev xal vdxepovjiEV \ Non ubi-  vis autem scribendum <*A A ?/  esse, Phaedonis Jocus docet p. 81.  B. goSte yt/dlv dAXo doxelv  BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo dcojia-  X oeideis x. t. A,, ad quem lo-  cum Stallbaumius rectissime:  Orta est,' inquit, haec locutio ex  coniunctione duarum loqnendx  formularum , , quarum altera op-  positionem altera comparationem  indicat. Hcrmannus disiungendas esso has particulas iocet atque  7J cum altero 7/, quod in me mbro  orationis supplendo comparcat, In' av%ivi xvxXoteqcT, ouoicc itavty xscpceXrjv 8 ' In 190  aiKpoxiaous rovg ngoganoig ivavxloig nEx/ihoig [ilav,  xai coxa xlxxaQa , y.al alSola 8vo, xal talla navxa ug    iungen xal talla navxa ug    iungendura. Nimiram expletiorem  orationem esse, ut v. c. nostram  locum ad Hermanni praeceptum  exornemus: vvy 8 ’ ovx l 6 xiv  d\\’ V & v dvelSei oyopa  xei/isvov r) ovx ol 8 a iv ct  xsixai. Sed falsam esse, Ed.  Haenischius ait in annot. ad Amat.  p.45., hanc explicandi rationem,  hinc maxime apparet, quod, si  yera esset, nemo sic diceret, nisi  qui aut ipse se rem suam pa-  rum compertam habere profiteretur, aut id, quod certo sciret et eloqueretur, ita afiirmaret, ut,  si non verum id esset, se de suo  ipsius indicio desperaturum esse  significaret. — Pro dXX ?/ inter-  dum 7 tX?}v r/ reperitur, neque ra-  rum Tt\f\v olK X ?/, quibus for-  mulis similes sunt formulae no-  stratium ausserals, uls nur,  ausser ais nur. De xsi-  G$at verbi potestate dictum est  ad p. 100. Ut de legibus civi-  tatis , ita de usu loquendi re-  cepto saepissime apud scriptores  reperitur. Ceterum Riickerto non  assentimur, ovopa iv ov sidet  xsiuevov eodem modo dictum  censenti, atque Xafislv iv cpipvy  ^Svpiav y Syriam dotis loco  accipere. Ut Homerico J SsgUv  iv yovvadt xsixai fatura infle-  xibile significatur, ut iv ftop”  popeo xsidSai in Phaedon, p. 69.  B. de aeternitate vitae miserrimae  dicitur, sic ovopa iv oveiSst  xsipsvov usus recepti constan-  tiam exprimit. —   dvdpoyvvov . v. Suid. s.  r* dvdpoyvvoS et Muson. Fragm.  p« 208. ed* Peerlk* Alter habet:    6 xa avdpoS rtoiGov X&l xd  ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol  ys dvkxovxat avdpoyvvoi xal  yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9  onsp s 8 ei (pevysiv iB, anavxoS,  si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav,   Urtsixa. Praecedente irp<a-  tov psv, quod male Ficinus con-  vertit a principio,» htsixa 8 s scri-  ptum exspectaveris. Sexcenties  autem iizsixa reperitur omissa  8 i particula, quoniam htsita tantae gravitatis est, ut ipsum pos-  sit, hoc est, non adhibita dfc par-  ticula , oppositionis pondus su-  stinere. Unum e multis exem-  plum ut laudem, p. 194. E. le-  gitur! iy<d 81 87 } (iovXopai  xtpooxov p\v tlittiv , y XPV M e  elrtEtv , IneiXOL shtsiv . In se-   quentibus Ruckerti annotatione  factum est, ut post xo EiduS  comma poneremus. Riickertus  autem. Me oppositio, inquit, quae  hic adest pristinae integritatis  et insecutae postea dissectionis  admonuit, ut oXov praedicatum  esse censerem, quam interpre-  tationem haud scio an commen-  det etiam vocis locus ante 7/v y  quem vix teneret, si cum sldoS  esset conuectenda. Dicit igitur  hoc: Deinde iutegra erat   hominis figura, rotunda, dor-  sum et latera circa habens (non,*  ut nunc, dorsum, latera et pe-  ctus.}   xEEpaXrfY 8 * — plav. Quis  non Iani meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem uno capite, facie duplici insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito rovtcov &v rig tlxdaniv. litoQtveto 51 6q9ov,  agitSQ vvv, oitoztQaOs fiovXq&ilt] ’ xal ditor e xu%v oq-  (itjGut &siv, iSgittQ ot xvfiiatavrig slg oq&ov tcc Oxalrj  itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg fitXs~  Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to xvxlco o yv da Sia taura pacis dens, nt verba Aristophanis  iu Erotem directa et Iano con-  veniant: l6xi Seoov cpiXotv^pco-  TtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V XGOV  dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy,  cor IocSevxcjv psyidrr/ av ev-  Saipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi  fi?;. Adde p. 191. D. $6xi 6?} —  17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvayco-  yevf, xal inixEipivv 7Xoiijdai  'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr  tpvtiiv x tjv dvSpGDTtivTjv. Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum {aivco verbo cohaerentiam? Romaui bellorum  quam amoris intentiores rixis,  concordiae amantium pacem pacisque conditiones videntur substituisse.   ijtOpEVEXO OpSor,  GjSrXEp rvr. Koti vulgo ante  vpSov positum deest in codd.  non paucis, Bekkerus vocem in  textum recepit, uncis Stallbau»  mitis et Dindorfius incluserunt.  Ficini conversio haec est: Incedebat hoc tunc et rectus, ut nunc, in utram vellet  partem. Kai vocis tuemluc  provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus: Duplex incessus pristinorum hominum narratur,  erectus, quem nunc etiam habent, eo tantum ab hodierno diversus,  quod tum , utram in partem vel-  lent, pariter praecedebant , /z. e,  prorsum et retrorsum , alter ro-  tationi quam meatui similior •  Sequentia igitur verba hoc modo  exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv    oppyjdEie $Etv, ooSTtEp ol 7wfh-  CxdvreS x, X. X., nam in eius  editione comma post Ttai non comparet. Sensos est: Er ging  aber aufrecht, wie jetzt, nach  welober Seite hin er wollte, und,  wenu der eine oder der andere  schneller sich bewegen wollte ete.  Vulgo pro opfiJjdeu legitnr opprf-  Cei pro %eiy verbo IXSeiy, Male.   <k)S7XEp ol XVfildXGOYXES*  Derivatur hoc verbum a xv(bj >  quod idem aotiquitus significasse  perhibetur, atque XEqjaXij. Igi-  tur primaria xvfit6xdv verbi si-  gnificatio videtur esse: capite   insistere, se praecipitem dare,  cfr. Hom. II. 21. 554.   XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS,  , o*l xotra Sivaf   ol xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor  $v$a xcii $vSa.   Erat autem apud Graecos salta-  tionis genus, quo qui utebantur,  caput deorsum, pedes sursum  proiicere solebant, non nisi pe-  dibus solum attacturi. Summa  corporis atque inprimis spinae  mobilitate opus erat saltantibus,  quare Patroclus Kebriouc, Hectoris auriga, iuterfecto, satis  acerbe II. 16* 745. haec profert   <L nbxoi> r\ pdX 9 iXatppoZ dvrjp,  fisla xvfhtixd   et v. 749. <6$ vvv Iv txeSIgj IB,  itctcoov pEta xvptdxd  r) fia xal iv TpdedCi xv(h6xq-  rr/peS iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r 6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov B  t rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs yijs, to Se aiupo-  TSQC3V iitzs%ov vfjs OiXrjvrjs , ori xal rj Gelrjvtj a[i<pore-  QatK yiEzl%u. TtEQirptQrj Se Sr) yv xal avrcc xal rj noQsia  avrav Sia zo rotg yovevOiv ofioia elvai. rjv ovv xrjv Tangit fortasse hoc saltandi ge-  nos Herodotus 6, 129. — 6'bt-  izoxAeiSyS — ixiAevdi oi riva  tpanaZav iSevEtxai * iASovtiyS  8h ryS rpaTtE&jS n patra plv in  avrijs oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~  paria’ pera. 81 a\Aa *Arnxd •  to rpirov t ?/ v xecpaArjv   ipeidaS ini r rjv rpane-  %av roidi 6xiXe6i ix «i-  povopyde. Schol, ad nostrum  locum iusto brevius : xvfiidryp 6  opxydryS xal xvfiidtav to op-  XsiGSai.   eis opSov ra dxiAy n.  Ante eiS in plerisque codd,, qua-  tuor exceptis, xai legitur, quae  depravatio textus est manifesta.  Omiserunt voculam editt. omnes. Orta ea lectio est e mala intel-  ligentia praecedentium verborum,  quae intellexit, quisquis fuit, qui  xai interposuit, hoc modo : ino -  pevsro 81 opSov (3snep vvv ,  xal, sc. (inopsvero) ditare tax t)  opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvfti-  dravrsS ’ xal eis opSov x. r. A. oxtgj tore ovdi. Vulgo  legitor rore oxrcJ x. r, A. Trans-  posuit verba , qui putaret , rore  ad praecedens onore pertinere. Probari posset vulgatus verborum  ordo, si scriptum exstaret: rore  rolS uxtgd piAediv anepEiSope -  voi x.t. A. Sed non addito Ar-  ticulo, ovdiv autem participio  adhibito, cur is ordo verbornm  unice probandus sit, quem cdd,  omnes probarunt, facile iutelli-  gitur.    7/v dk Sia Tavta Tpla  Ta yivy xal toiavra. Ad  certam quandam philosophiam  comicum poetam respexisse, quam-  quam a multis annotatum est,  tamen ut credamus, animum in-  ducere non possumus. Vulgatum  euim hoc erat , et vero etiam  nominum terminatione firmatum,  TfXiov, solem, virili potestate  esse, yyv , tellurem, feminea,  qua propter etiam rerum ma-  ter vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia ad-  vocata nulla, mera vulgi opinione  nixus solis prolem masculum genus vocaret, terrae femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni origine dicamus, quod cur Lunae prolem dixerit, disertis verbis indicatum est; ori xal  ?} dsAyvy dptporipoov perixei.  Atque ipso nomioe deXyvyS haec coniunctio terrae ac solis indi-  cata est. Dorica forma est (?£-  A avaia, quam convertere pos-  sis Glauzerde. Solebant  autem veteres novam quandam  in huiusmodi rebus opinionem  prolaturi, argumentorum loco er  ipsa rerum natura petitorum, alias  res conquirere, quibus illam pro-  barent, Sic Pausanias, ut du-  plicem Erotem esse probaret, ad  duplicis Aphrodites mentionem  confugit, quarum suum utrique  Erotem assignaret,   n epitpepij 8h 8?) yv. Non  gkreisformig,» quod in  Astii et S chleier macheri Itfrvv 8 uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK (itycda  tl%ov, lnt%dqvfiav de zoig &eolg, xal o kiyu "OfitjQos  3 csqI Ecpiccltov xs xal ”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai, xo  C ds tow ovgavov dvafiaGiv im%UQelv noielv , ag Ixi&iy  Gofiivav xoiig tteois. versionibns legimus (adde  etiam Schulthessii conversionem  p. 88. ed. Orellii,) quis enim  circuli formam corpori  tribuat, sed kugclformig.  Riickert. In sequentibus 8ia  to — opoia eivai verba Schleier-  macheros convertit: um ibren Erzeugern ahnlich zu sein. Rectius Ficinus: quia parentum  similia.   xal ta (ppovrfiiaT a pe*  ya\a elxov. Schleiermache-  rus: nnd hatten auch grosse   Gedanken. Minus accurate. Ar-  ticulo enim addito efficitur, ut  sensus sit: und der Hochmuth,  den sie hatten, ging ins Un*  geheuere. vide annot. p. 12. Articulo non addito supra legitur  p. 182. C. ov yap, olpai, dvp-  tpipei toiS apxovdi tppowjpara  peyaXa lyyiyvedSai, quem laudo  locum, ut de nostri loci articulo  facilius certiusque iudicari possit  a lectore. MeyaXa <pporj}para  dicuntur autem habere, qui con-  tra dominos conspirant, cfr. p.  182. C. ov, yap, olfiat, dvpq>e-  pei toiS apxovdi (ppovrjpata  fieydXa lyyiyvedSat tgjv dp-  XoiUvoov ad quem locum ' vide  annot*. p. 102. Comparativum  exspectaveris, non positivum ; ille  tameu in hac formula solennis. o Xkyei "O prj poS. Od.   11. Sl4.   "Oddav iic OvXvjiitto pe*   padav SepEY, avtap £tz   "Oddy   JlrfXiov elv o diq>v\\ov,lv*  ov pavos apfiaxoS etr/.   ooS litiSr] 6 o pkv gjy roiS  SeoiS. Riickertus iungenda haec, inquit, cum Ttepl ixeivGOV , quae  structura propter interiectum  membrum to — tcoieiy , in quo  avxovS subiectum est , aliquid  incommoditatis habet. — Ad  l7Ci$t]6op£vcjv supplendum est  potius avTCDY. Exhibetur autem  genitivus participii cum gjS, ubi  aliquis refert quod aut ex alio-  rum opinione depromtum est, ant quod ab aliis vult cogitari , ut  in Piat. Apol. Socr. p. 30. B.  itpoS lavra , (pocbpr av, cJ av—  8 pes *A%r]vaioi , rj nelSedSs  *Avvxcp rj pjj — oj S ipov ovk  av itoiijdovroS «AAo x,  T. A., h, e. de me ita cogitate,  me nunquam quicquam facturum  esse aliud.   *0 ovy Z evS xal ol a A-  Aot $ 80 i. Omnem hanc narrationem de deorum consultatione  et quid facerent, dubitatione, nt  cupierint quidem punitam humani  generis protervitatem, sed nec severitate uti ausi fuerint, quam  laesa maiestas exigere rideretur,  nec aliud invenerint remedium,  quo et illi poenas darent et suus  honor salvus maneret, donec ad  postremum Iapiter aegre aliquid  excogitaverit, hanc,, inquam, a d  deorum derision em com-  Cap. XV.    'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi 9iol Ijiovltvovto o «  %(M} avtovg 'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag axo-    positam esse neminem poto  non videre. Riickert. Male;  vide Comm. de Piat. Symposio»   oti XPV ctvtovS rtOtij-  6 at. Ne quis pro indicativo optativum reponendum censeat, quod  Astius olim fecit, post infectum, voluit: Graeci ingenii tanta est vivacitas, ut structuras verborum  doas, quarum ntraque suam quan-  dem iucunditatem habet, confun-  derent atque commiscerent, videlicet ne, cum alteram prae-  tulissent alteri , alterius gratias  simul amitterent. Igitur oxi  XPV avtovS rtoii}6ai compositum  est ex oratione obliqua oti XP E ty  avtovS it. et ex oratione recte  ti XPV ocvtovS Xotijtica   xal ojSitep, rovS ylyav -  taS xepavrccHj arreS. Stall-  ' baumius , intellige, inquit, post  yiyavtaS tfq>avi6otv ex proximo  ctqxxvldEiEV , cuius breviloquen-  tiae exempla collegit Wyttenbachius od Selecta Princip. Hi-  ator. p. 364. Riickertns verba  sic inngenda esse censuit : ovte  yap eIxov ortcoS drtoxTEtvcaev  (sc. avtovS) xal ro ylvoS dtpa . -  vldaiEv , XEpavvGotiavtES GDinep  rovS yiyavtaS . Neutra expli-  candi ratio nobis placet. cuV itep  h. 1, non similitudinem indicat, sed  agendi rationem describit, yl-  yavteS autem homines vocantor  illi ipsi, qui e masculo et fenri-  neo genere compositi viribus freti  ac robore, elatiores animos ale-    bant. Sensus est: Sie wuss-  ten iiberhaupt weder ei-  nenRath, dass sie sie tod-  teten, und besonders w i e  sie, nach Erlegung der  Riesen durch den B 1 i t z das  ganze Geschlecht verdiir-  b e n . Disertis verbis ylyavtES commemorantur, ut esset, quod  sequenti ykvoS opponeretur. Quo-  niam autem homines nondum dis-  secti erant, fieri non potuit, quin  caesis hominibus illis totum ge-  nus hominum misere periret, at-  que nemo remaneret, qui deos  veneraretur.   ai tipal yap avtolS —   7/ <p avi$£t o. cfr. Symp. 198.  C. vit ai6xvvr]S oXiyov arto-  dpaS <px^PV v ? KV MX 0V -  Nemo Stallbaumio melius de in-  dicativo huius loci explicando  disseruit. Eius verba haec sunt: *  Aoi istas et imperfectum sine av  particula positum in talibus si-  gnificat certo et haud dubie  aliquid fuisse futurum , pr opter ea  quod habeat obiectivam , quam  dicunt , necessitateniy ut Lat^ fu-  turum erat: accedente autem av  particula etsi paene idem significatur , tamen conditionis et  mudalitatis , quam vocant philo-  sophi , accedit notatio , ab hoc  loco, paene prorsus aliena . Quocirca non tantum XPV V > £5 Et,  npoSijxEV , ut Lat , oportebat ,  decebat , debebam , ita usurpatum  est, sed multa alia verba , irtpri-  m slvaiEV ii%ov xal 'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeav-  reg, to ytvog oxpavLaaitv , al rifial yag avroig xal  rcc tfQcc ra naga rwv av&Qamov rjtpavl&ro — ov& oitag  latv aCilyaivuv. fioytg 8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu, ore  zloxd fioi , %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg av iliv te uv&gaicoi  D xal xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc ycvofuvou    vvv (iiv yag axnovg, £cprj    mis ea, quae natura sua conti-  nent aliquam obiectiuae necessi-  tatis significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi sunt plerumque ita , ut non tam obiectivae ne-  cessitatis, qoam temporis ratio-  nem haberent, quo tempore ali-  quid, quominus fieret, impedi-  tum esset, cfr. Tac. Histor. II.  46. iamquo castra legio-^  dum exscindere parabant, ni Mucianus sextam legionem opposuisset, h. e.  achon waren sie daran, das La-  ger der Legiouen zu veruichten,  hatte niclit zur rechten Zeit  noch Mucianus die sechste Le-  gion entgegen geworfeu. Adde  notissimum Horatii locum Od. II.  17* 28. Me truncus illa-  psus cerebro sustulerat,  nisi Faunus ictum dextra  levasset h. e. Mich hatte  der auf mein Haupt stiirzende  Stamm getodtet, hatte niciit  noch zur rechten Zeit  Faunus durch seine llechte die  Kraft der Wucht gebrocheu.  Temporis hanc notionem quando  assequi volunt Graeci scriptores,  eodem dicendi geuere utuntur  quidem, sed non nisi addita  iv3v$ particula temporali, cfr.  Thucyd. VIII. 86., quem locum  Stallbaumins laudavit iv gj da-  tpidxaxa 'looviav neti 'i&U?/-  dtarenco $i%a exadtov, xal    difovtov evSvS’ eTxov ol ito -  TUfiioi,   doxdj fioi, £<PVt  Quod supra annotavimus p. 159.  ad verba o n XPV olvtovS itoitj-  dai y id iis vehementer displice-  bit, qui omnino duas verborum  structuras confundi atque com-  misceri neguut. Negant autem,  qui non intelligunt structurae  originem. Etenim rem animo  suo ita informant, ut censeant,  scriptores positis dnabus verborum structuris artificiose ex utriusque quibusdam fragmentis tertiam composuisse. Nobis persuasum est, hoc structurae genus  non e scriptorum officina prodiisse, sed e quotidianae vitae  sermone iu scriptorum libros im-  migrasse. Pertinet huc noster  locus, ubi praemisso ott, quod  indicium est orationis obliquae,  ipsa alicuius verba laudantur. Pa-  tet autem, proprie dicendum fu-  isse Aristophani : \iyet, ori do-  mi ol Ixew prjx ay yv r. A.  Factum autem Graeci ingenii fa-  cilitatemne dicas an felicitatem,  ut servato obliquae orationis indicio rectam orationem retinerent,  atque orationis suspensae continuitatem cum rectae orationis  vigore coninngerent. De hac  structura vide etiam Mattii.  Gramm. plen. $. 623. 2. b. p*  1270.    a  «pa fiev &0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia %Q7]diu6TEQoi  Tjfilv dia ro irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia- *  diovvtai O 0 #oi liti dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv  aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av,  %(pr] 9 refiu dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai OxtXovg  doxcoXia^orreg. ravza thtcov Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a,  &g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg zapixsvsiv, ij E  xal ajia n'ev adSeri-  6tepoi idovz ai. Sensas est:  nane eos dividam bifariam, at et debiliores homines sint et utiliores  nobis, quippe nam ero  auctiores. Amant Graeci,  quae de certissimo eventa actionis praecedentis dicantur, ea xal  addito superioribus annectere.  Paullo infra legitur naXiv av  te/ico 8ixa , Sst iq> kvoS no-  psvdovtai x.T.X., ubi bene ha-  beret xai pro gjSte positum ; hoc  tamen scriptor praetulit, quod  reiterata divisio cogitatur tantummodo , non tanqaam actio,  quae hat aliquando certissime,  proponitur.   7tdA.iv av t Zcptf, teji c 3  Sixa. Rursum exemplum habes  verbi, quod casu suo spoliatum  ita exhibetur, ut notio verbi pre-  matur magis, quam vis actionis,  Minus recte Schleiermacherus iu  conversione: So will ich sie,   sprach er, noch einmal zerschneiden. Rectior conversio liaec est:  So wiederhole ich die  Theilung noch einmal.  Atque obiter ut hoc moneam, ut Graeci naXiv av, ita nos  nochmals wiederliolen,  pleonastice loqui solemus.   txdxcoXt ccZoyteS. Schol;  ad h. 1 . a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS  filv tu ini tovS adxovS aAA«-    d$an dXrfXippkvovS , iq>* ovS  in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS  xal ini tcoy Cvf.tnE(pvx6<5i  zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf  61 TiSkadi xal ini tov aAAe-  69 ai to YEvpov (Bekk. legen-  dum censet roV Sr Epov ) took  noddUv avkxovTa^ rj a>S vvv  ini OxkXovS kvoS fiaivovTa. %6ti  61 xal to x^XatYEiv. E Schol.'  ad Aristophan. Plut 1130., ubi  complures ddXGoXtdgEtv verbi  explicationes reperiuntur, male  autem adxcoXia vocatur iopTtj  tov Jiovvdov , nisi fortasse latiore significatu accipiendum est  hopTif verbum, ex huius, in-  quam , Schol. annotatione se-  legi haec : xvpioS ddxciXid-  Zbiy iXEyov to ini tciy ddxoov  aXXEdSai ZvExa tov yk Aco-  ro: noiEtv • iv /ikti& 61 tov  $sdrpov ZtISeyto adxovS ns-  (pvdifpkvovS xal aAijXififikvovS ,  fis ovS ivaXXufiEvoi ivaXiOSai-  vov xaSansp EvftovXoS cpifdi •  xal npoS ys tovto ctdxov elS  fikdov xazaSkvTES , EtsdXXedSa  xal xayxd&Te ini rols xarafi-  fikovdtv . — ddxooXia^Eiv 'eXe-  yov To ivdXXsdSai tois doxols,  ?/ to ini ivds nodos dXXedSat.  Haec satis de significatu adxcj-  Xia&iY verbi. Non dubium est  autem, quin h. 1. doxa>XutP,EiY  uno pede saltare significet»  Ut, cum humanum genus primi-  11    162    II AA TSINOE    wgmo ot tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov 'Aitbkha   ExtktVE T 6 TE TtQO gtOJCOV flETU0TQEtpElV XUt TO TOV ClVyi-  vog ijfiiGv tcqos Ttjv rofiijv, tvu &Etbfiivog rtjv avxov  TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6 av&Qmnog , xal tukka ia6&at  IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV liETEtiTQEqiE , XUt GVVtkxaV    tos nvfiuStav dicatur, post ln\  Svoiv dHeXoiv fiaUiZEiv, futoro  tempore ddxooXiddEtv dicatur.  Uno pede etiam hodie saltari in  Helvetia, Italia, Graecia, satis notum est.   &S 7t ep ol r d da xkpy ov-  tf? nal pkXXoy x eS xapi-  Xeveiv. Lectio vulgata est c oa,  quam merito interpretes recen-  tiores improbarunt. Nimirum legitur in L. V. PJ. Timaei: da  dxpodpvojy eldoS pr/XotS pi-  xpois iptpepis. Colligitur inde, Platonem hoc verbum commemorasse in scriptis. Ilaud facile  autem locum Platonis invenias,  cui vox illa magis conveniat. Interpretantur, qui harum rerum  periti sunt, da sorba (Arlesbeeren , quae condita esse, nt diutias conservarentur, non pauci  sunt, qui tradidere; cftvVarr.  de re rust. I, 69. ( Putant manere) sorba quidam dissecta et  in sole macerata, ut pira, et  sorba per se ubicunque sint  posita, in arido facile manere.  Quae sequuntur verba, spuria censuerunt Sydenhamius, Bastins,  Astius. Frustra. Quamquam enim  prorsus nescimus , cur in ovis  dissecandis crinibus usi sint ve-  teres, hoc certum est: duobus   allatis exemplis Aristophanem et  facilitatem et artificium  dissectionis indicare voluisse: ao  Jexcbt, wie man Arlesbeeren  zum Einmachen spaltet, so fein  und kunstlich, wie man Eier    mit Ilaaren theilt. Eodem modo  explicanda sunt verba Plut. Amat,  p. 770. B. ojSittp cdov avrtdv  Tpify Siaip&tiSai t rjv cpikiav.  Male igitur Rtickertus ad h. 1.  Hoc quidem, inquit, concedimus,  languidiusculam esse alteram com-  parationem, concedimus, fieri potuisse, ut ab alio adderetur; sed  additam esse tantum abest, ut contendamus, ut facetiarum captatori Aristophani recte tributam esse censeamus. Ceterum coniicio equidem, ovornm per  crines dissectionem ludi genus  fuisse; fortasse ex ovorum dissectione per crines facta convivae futura praedicere solebant.   7t p o 5 xr)y xoprjv. Ut in  praecedd. ad xa cJa supplendum  est e proximis xiproyxeZ, ita h. 1.  psxa6xpl<peiy recte repetieris.  Toprf significat proprie 'id, quod  ex aliqua re abscissum est ; no-  stro loco corporis eam partem  denotat, quae dissectionem passa  est. Similiter topi j apud Hom.  II. a , 234. positum repentur:  va\-pa rode dxijnxpov,  To p\y ov%ot e (pvXXa xa\  d £ov?   $>vdei, iiteidr} TCpddxa t o-  pijy iy opeddt XeXoi7tev,  quo loco truncum denotat , ex  quo sceptrum abscissum erat. In  sequentibus pro Trjy avxov xpij-  diy , quod recentiores editores  omnes habent, plurimi codd.  avxov exhibent. Non male , si  3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv xaXov(ik-  vi]v, SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov ank-  Sh xaxce (ii(St]V xrjv yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v xaXovOi.  xal rag (iiv aXXag Qvxldag xag xoXXag igtlLcuve, xcd xa 191  Gzrforj dujp&QOv , ijrcw n xoiovxov ogyavov, olov ol Cxv-    avrov pro avxoSi positum ac-  cipius ; melius tamen illud habet.   xalraAAa ladSai ixe-  A evev. Schleicrmacherus ia  conversione habet ; u n d das  ubrige beiahl er ihm auch  zu hei 1 en. Scriptum quidem  exspectaveris xa\ navxa iadSai  ixiXcvEv ; addita auch particula  insolentia verborum non mitigatur.  Ficinus verba convertit: reliquis  autem mederi iussit. Alia nobis  explicandi ratio placet. xaXXa  a sequente infinitivo seiungendnm  est, iddSai absolute positum est :  und iibrigens befahl er ihm Hei-  lung an. De hoc usu verborum  saepius iam annotavimus , vide  anuot. p. 22. , 27* al. Paullo  \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai  positum, ut non actio, sed notio  verbi exprimatur tva — ittoj-  dpovi) yovv yiyvoiTo xi}$ 6w-  ovdiaS xal dianavoivro h. e.  ut satietas esset amplexandi et  quies.   ln\ xr)v — yadrepa vvv  xaXov pivrjv. Schlciermache-  rus : tiber das, was wir   jetzt deu Bauch nennen.  Non satis accommodate, ut vide-  tur. Cum vi pronnutiandum est  yadripa, ut ne vernaculo qui-  dem sermone articulus recte addi  possit. Structura verborum pri-  maria haec est: ItzI to yadz?'fp  vvv xaXovpsvov , quam structu-  ram ut minus elegantem incom-  tioremque aetas Graecorum ex-  cultior nou tulit.    <3 Sirsp ra dvdnadxa fta-  Xavxia. Poli. V. Si. in recen-  sendo venatorio apparatu xv»  vovxof, inquit, 8ipya podx^ov t  lis o brciSexai ro Sixxvov , rcJ   6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV , (3 Sit E p  xa dvdnadxa ftaXavzia.  Ficinus convertit: tanquam   contracta marsupia. Ar-  ticulo addito effici videtur, ut  sententia sit: in Form von zu-  sammengezogenen Beutcln, -wio  ihr sio ja kennet.   o 6 7 vvv o ptpaXov xa-  A ovdi. Codd. omnes habent  o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi ,  idque editores in ordinem ver-  borum receperunt. Male ; urgenda  est vox ojutpaXof, atque vi qua-  dam pronuntianda, quae vis ad-  dito articulo funditus perit. Si-  militer Sjrmp. p. 180. E. ov 8?}  ndvdtjfiov xaXovpev, de rep.  I. p. 332. C. r) xidiv ovv xi  dito8i8ovda — xixyrj iarpixj)  xaXEixai p. 191. B. o 8?} vvv  yvyaixa xaXovpev. Menon,  p. 81- B. o 8tj artoSvyjdxEiv  xaXovdiv. Alcib. II. p. 140. B,  ovS 8ij xaXovpEv iaxpovS. ib«  p; 187. D. o 8jf pEXonottav  xaXovdiv., Ibid. *L p. 382. D.  yj x idi x i ano8i8ovda —   xixrv payEipixrj xaXtixai. vide  annot. p. 129 et 130.   xi xoiovxov op -  yavov. De indefinito pronomine supra dictum est p. 28. ad  verba £3 o r yap xi xovx £*«.   11 *  IUAT&N02    rotofiOi, xiqI rov xaXccnoda Xeatv ovreg rag tav dxvrmv  QvrlSccg' b Xlyag 6 e xaxlXmi , rag mqI avrrjv n)v yaStega  mu rov ofitpaXov , (m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg.   'Enubi] ovv r; (pviiig Sixa no&Ovv exaGrov   ro t}fu6v ro avrov tvvfai, xai neo^aXXovre.g rag %UQug  xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig, em&vfiovvrsg Ovfirpvvai, ane-  to 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg aXXijg agyiag dea ro (iTjdev  e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore ri ano%avoi    Quibus verbis ut respondere an-  notavimus nostratium J d as  so sfeine Art, ita verba no-  stra convertenda videntur esse:  indeift er etwa ein soK-  chesWerkzeug hatte, wie  die Lederschneider, Creu-  zerus Lect. Piat* p. 525. censet,  ut p. 185. E. dicatur dvaXaftobv  xi roiovtov, ita h. 1* satis esse  l 'x&v n roiovtov. F rastra*  nepl rov xaXditodot  XsaivovtsS. Pes ligneus vide-  tur fuisse, super quem coria ex-  tendebantur, quo facilius et explicarentur et ad pedis formam  adaptarentur. Etym. habet xa-  AoVovV XvplooS o ZvXivoS itovS*  xaXov ydp xd B,vXov. Suid. s.  v. xdXaf xaXov ydp rd B,vXoy %  ig ov xai xctXoTrovS, 6 gvXivoS  itovS. E Pollucis auctoritate, qui  habet X. l4l. rd dxvrord-  pov dxevij — uaXd/tovS, iv rc J  dvpitodicp y Bckkerus, Stallbaumius , alii dederunt xaXditoda,  codd. non pauci xctXo7Co8ec ex-  hibent. Fortasse utra^ue forma  Graecis scriptoribus usitata fuit*  rov itctXaiov itdSovS .  h, e. rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~  SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp xpovoo.  cfr, p* 189* D.   insidi) ovv 7} tpvdiS.  Annotat Riickertus ad h* I. : Offendit Astium nude positum vocabulum , post quod avrdov  vel rjfi&v excidisse putat. Of-  fendit nos quoque $ sed putamus  ipsius Platonis peccatum esse  posse . Etiam Stallbaumius ad  h. 1. avt&v supplendum esse  censet. Aliter nos statuimus de  hoc loco; Articulum exhibuere  veteres scriptores haud raro , ut  ’ indicarent, de re sermonem esse,  quam in praecedentibus iam te-  tigerant. cf. p. 189. D. ?/ ydp  TtdXai ij/tcov <pv6i$ ovx avnj  7jv rjitsp vvv x. r. X. Mens  Aristophanis est; Da non die  urspriingliche Einheit der Kor-  per, vou der oben gesproclien  worden ist, gelosst war cet. Exem*  pia si quaeris huius usus articuli,  vide anuot. p. 12. ,   vito Xipov xai rrjs aX-  Xt}S apyiaS. Vulgo vito rov  Xiuov legitur, quae lectio cur  ferri nequeat , e praegressa annotatione colligitur. Ceterum aX -  AoS 1 rebus apponi, quae genere  non differant, specie dis-  crepent, supra annotatum est  p. 116. Restat, ut dicamus, quo  iure id fiat. Riickertus ad h. 1.  Videtur, inquit, aXXrf alia verti  non posse, neque negare licet  aAAo? non nunquam ita dictum  esse graece, ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de qua  ffi>v yfiteeav, t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ tu  xai avvmkixezo v eize yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian,  o Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’ avSgog' xai ovroig  attiiiXkvvto. ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v xogltexai, ■  xai fuzazt&rjtiiv avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev zeag  yag xai zavza exzog (l%ov, xai lylvvcov xai Izixxov ovx  elg akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg. fiezi&rjxt C  re ovv ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta zovxav    re non est, cor hic pium dicam,  qui nostrum locum, ex hoc numero excipiendum esse censeam.  Nam cxpyla non segnitia est, sed  cessatio, vacatio a re quacunque,  sicut ager dicitur <£pyo$ t dum  cessat a cultura. Jam igitur Ai-  fivv in genere xfjf ctpyiaS esse  apparet, est enim cessatio a capiendo cibo , licuitque dicere,  homines illos, cessantes et a cibo  capiendo et ab omni opere su-  scipiendo emortuos esse. — Ridiculi aliquid inest his verbis;  quis enim ferat cibi capiendi  cum ipyoo comparationem? Deinde  male Ruckertus posteriori nomini  tantam vim tribuit, ut ad id di-  rigeretur prius. "AAAoS semper  ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori nomini  addatur, quod cura eodem  cohaereat, quod ex eodem  genere sit, quod cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror vete-  res, ut ad nostrum locum rever-  tar, vito Aipov xai tov dAAov,  li. e, fame et ceteris, quao  cum ea cohaerent. Acce-  dente autem appositione ad verba  tov dAAov, ne incomtius existeret  atque inelegantius dicendi genus,  tov aAA.ov, apyiaS , admissa ge-  neris assimilatione xrjs dAAi]S,  apyiaS edictum eat. Sic com-    mode explicatur Piat. Gorg. p.  473. C. etyAcoxoS tov xai evbai-  povi?,6fuvoS vito t<Sv icoAixgjv  xai xgov dAA.Gov (sc. ) HevQov.  Alia exempla, quibus nostram  explicandi rationem probare pos-  sis, laudavimus iu aunot, p. 116,   ooSitep ol xixxiy eS. Audi  Wolfti ad h. 1. annot. : Sie thun  dieses vermittelst eines Stacbels,  den das Weibchen aui Hinter-  theile luit, and der eiu Dritttbeil  der Langte des gauzen Thieres  Husmacht. Damit bohren sie in  die E«de, dDnen ihu und lasseu  die Kier in deu Sand fallen, wo  sie vou der Sonne ansgebriitet  werden. cfr. Aelian. H. A. II, 22,  tals acpvaiS o* itijAoG yiveais  id xi' bi aAAi/Acov 61 ov xt-  xxovdiv avbh iniyivovxai x.x.A.   f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf  avxtov elS xo it. OvtgjS iu  multis codd. non comparet, quare  id uncis inclusit Dindorfius, Reyn-  dersius expunxit. Idem Stall-  baumius servandum censet rectis-  sime, Plerumque enim haec vox  ita adhiberi solet , ut ad aliquid  respici significetur, quod in prae-  cedentibus est conteuturo. Spe-  ctat autem nostro loco ovtcoS ad  verba iXEijdaS bl 6 ZsvS, et  convertendam est: hac ratio-  ne» qua dixi, vide annot. p.  i   ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB, dia rov UQQtvos Iv Tqj  ftrjXei, tuvSi tvBxa , iva Iv ry GvfixXoxy afia fiiv ei  avrjQ yvvaixl ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog,    63- et p. 146. Deinde qninqae  melioris notae libri pro avtcov  exhibent avta, quod a Stallbau-  roio, Astio, aliis io verborum or-  dinem receptum est. Audacias  fortasse quam rectius. Avta  verbi avToov correctio est, avxdov  autem scribae alicuius sedulitate e  praegressis olvtgjv ta al8ola eis  to izpoCSev huc translatum est.  llectissime, ut videtur, Ru-  ckertus ad h. 1.: Mihi , inquit ,   Plato videtur scripsisse: fi £T £-  te ovv ovtcoS eis to  itpodSev. Ficinus verba con-  vertit : cum vero ad ante-  riora transposuisset, ut  legisse eum censeas, quod Rii-  ckertus dedit, e( nos unice pro-  bamus. Ceterum verba fisti-  2yxe te ovtGoS eis to itpodSev  repetiit Aristophanes , ut cum  sequentibus artias coniuugerentur:  8ux tovtoov trjv yevediv Iv  aXXyXoiS irtolydev, quae couiunctio per ti — xal particulas  instituta quam vim habeat, nunc  dicendum est. Coniunguntur  duae hae actiones ita, ut eo-  dem fere tempore gestae  esse dicantur: Simul atque   ea ad anteriora transposuit, per  da tyv yevediv effecit. cfr.  Flat. Phaedon. 73. D. , qui lo-  cus huius significatas luculentissimum exemplum est: iyvoo-  dav te trjv Xvpocv xal iv trj  Siavolqt iXaftov to eldoS tov  iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad haec  verba Stallbaumius aoristi , in-  quit, indicant, rem identidem  fieri solitam. Essent ex hoc prae-  cepto verba convertenda: Sie    pflegen die Lyra ru erkennen  und das Bild des Geliebten, dem  die Lyra gehorte, in der Seele  aufzufasseu» Verum tenendum*  est accurate, quod in superioribus Cebes dixit: Reminisci non  solum eius esse, qui aliquid agnoscat, sed qui aliud, ab illo diversum , mente simul complectatur , ut hoc non ex eadem  perceptione animi h. e. e perceptione animi praesente, sed ex  alia eaque priore ( ov y v y Xvpa)  pendeat. Probatur haec sententia imagine amasii, quae AMATORIS animo statim obversetur,  simul atque hic lyram conspexerit, quam amasii esse iam dudura observaverat. Non ingratum lectoribus erit exemplum e  Taciti Hist. petitum I. 76 , quo  doceatar, quomodo illam dicendi normam Romani sint imitati: Primus Othoni fiduciam addidit ex  Illyrico nuntius, iurasse in eum  Dalmatiae ac Pannoniae et Moe-  siae legiones. Idem ex Hispania  allatam : laudatusque per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam est, con-  versam ad Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS.  In his verbis Riickertus haesit  non immerito; Iovem enim fe-  cisse, quae fecisse narratur, nt  nasceretur genas huma-  num, (Astius habet: ct progenies  existeret) quis probet? Schleier-  macherus in conversione exhibuit»  und Nachkommenschaft  entstiind e. Id dicturus vide-  licet erat Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl xal u^qy/v ilpoivt, , itl^apovij yovv yiyvoiro  rrjg GwovOtus, xal diaitavoivzo xal htl rd fpya rps-  Ttoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn drj ovv ix    aliquid vitii verba contraxerunt,  lluckerto scribendum videtur xal  iti yiyvovto to yivoS. Faci-  lior, ut videtor haec coniectura  est : holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari potest,  qui factum sit, ut manus Platonis corrumperetur. Incuria ni-  mirum scribarum syllaba finali  yiyvoiro verbi dupliciter posita  erat: yiyvoiro r 6 yovoS, Quod  cum seriore tempore alii men-  dosum esse intelligerent, ro ye -  voS scribendo locum emendare  atque sanare stndueruut.  a // a 8 9 ei n a l a /3 f>tjv   afifievi. In quatuor codd. Flor,  ct apud Stobaeum afjjiev legitur  pro afifajv, quod plurimi libri  habent. Illud Stallbaumius in  textum recepit ut exquisitius.  Masculinum genas neutro praetulimus propter praecedens et  avijp yvvaixi. Reddidit verba  Schleiermacherus : Wenn aber ein Mann dem andern.,., omissa  xai particula, de cuius significatu  interpretes ad h. 1. nihil anno-  tarunt. Schulthessius habet: zu-  gleich aber , wenn Mann und  Weib sich einten . ... vitio, ut  videtor, typothetarum. Sententia  est totius loci: damit in der   Umarmung, wenrf dem Weibe  ein Mann zu Theii wiirde, sie  der Zeugung sich ergiiben und  Nachkommenschaft entstiinde ,  -wenn aber dem Manne auch (h.  e. wieder) ein Mann, wenigstens  et quae seqq,   7t\ij <$ p ovr} yovv . Postquam dissecta corpora fuerunt,  parte» dimidiae amplexari se adhuc non desierant, immo mutuis  in amplexibus deperibant. Ut igi-  tur plane abstinerent a complexa,  non potuit Iupiter efficere, ni-  mium enim urgebat vis naturae.  Itaque quum totum consequi non  posset, novo instituto, quantum  potuit assequi, molitus est, ut  satietate caperentur coeundi intervallaque facerent. Hinc yovv  cnr positum sit, intelligitur, Riickert,  na\ Siartavoivto. Haec  codicum est lectio. Vulgo 8ux—  vcntcivoivxo , quod unde ortum  sit, facile intelligitur. ^Margini  enim interpres aliquis avoc7tccv~  oivxo .adseripsit, ut 8ia.7t<xvb6%oii  verbi raritatem explicaret. Post  alius nimia sedulitate ductus in  ava   textq posuit 8icc7tavoivxo t ex  quo factum est 8iavanavoivxo.  Ceterum non opus est ad 8iol —  Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute positum est: und  sie Ruhefanden und sich der  Arbcit zuwendeten und Sorgo  triigen fur ibren weiteren Un-  terhalt,   ini rd ipya. Haec verba  de agricultura intelligcnda sunt  noa minus, quam quod supra  legitur p. 191 . B. vno Xipov  xal ttjs aXXr/S dpyiaS. O  ftioS in se res omnes complecti-  tur, quae ad vitam sustentandam  necessariae sunt. De scriptura  imytXolYTo cfr. Thomas M.:  impiXopai xaXXtoy >j inipe-  Xovpai. Adde Buttm. Gramm.  ampl. T. II. P. I- P. 187. : Die   C   DtoOov o "Eqcxs tyywos aXXrjXav xolg ccv&qkmois xcd  rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs, xal Imysigav xoiijacu.  'iv ix dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv txv&gaxivqv.   Cap. XVI.   "ExaG rog ovv rjfiwv iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov , are    Formen des Compositi imjJEX?}-  Copai etc. werden gewohnlich  za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt, welches  eiue ganz gleichbedeutende Ne-  beulbrm von iitiftiXedSca ist,  die aber von den Atticisteo fiir  xninder gut erkliirt wird. Bei-  de Formen sind iudessen in nn-  sern fiucliern so haufig , dass  wenigstens an den einzclnen Stel-  ' len sicli nicht entscheiden lasst,  ob wirklich der Schriftsteller so  geschrieben. Doch ist kein Zwei-  fcl, dass lnifi£\E6$cti das altere  ist, ond die Flexion von faipe-  Xijdopai urspjiinglich dazu ge-  hurt.   wSitEp al Tpijttai. Piscium  genus iprjrtai Graecis notissimum, quandoquidem Callonice in  Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit:  ' fyo$ 6i y <* v > uSitEpeX tprjt-  rav 8ox65   dovrat av ipaxrcfjs xapra/tovdoc  Srjpidv   ad quem locum male Schol. iprjr-  tot, inquit, opYEOv rerprjpEvov  nata ro pidov cJ S oi 6q>ij -  x e S. XeyEi ovv , ori xav dvpfifi  ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftov-  Tiopoci. Rectius Schol. ad no-  strum iocnm annotat: ix$v8iov   n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x  Svo $ Ep parco v 6vyxEi6$ai rrjv  idEav doxovv , o rives davSd-  Taov uaXovdWf oi 6'e fiovyXGod-  <Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti  ravta. Colligitor px bis verbis,  Tfxrjrrav cum in altera corporis  parte os, oculos , nares posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri queat, atque non integra nisi cum altera  couiungatur. Facit igitur nostro  loco ifxrjrrta v mentio ad descri-  bendam figuram androgyni dis-  secti, contra ' ZvpfioXov nomen  nataram et conditionem eins expri-  mit. &vpfioXov nimirum tessera  hospitalitatis est, annuli, astragali, alius cuiusvis rei pars al-  tera, quam hospes hospiti conr  credere solebat, ut alter ad al-  terum veniens haberet, qno agno-  sceretur familiariterque excipere-  tnr. Hoc facto uterqne a fraude  tutus erat. Nam si quis pere-  grinus ficticia hospitalitatis tes-  sera prolata sibi exposceret, quae  non nisi amicis amici praestare  solebant, receptaculum, cibi ac  potus facultatem, alia hoc genus, tessera admota tesserae rem ve-  ram aperiebat.   Zr/ret 8?) ro avtov %xa-  6roS £,v p$ oXov. In aliquot  codicibus 8£ legitur pro 8t}. Il-  lud, minus aptum hoc loco, ut ia  sententia communi; nam d?j apud  nostrum ceterosqne prosae ora-  tionis scriptores haud raro eius-  dem potestatis est, atque r oi  particula apud tragicos poetas,  quamquam etiam huius particulao  frequens est apud illos usus. cfr.  Matth. Gr. plen. $. 627. p. 1281.  " ExatitoS cum Bekkero et Stoll-  tBT{it]iilvog mgxEQ at i’rjrrai , i£ e vos Svo. Srj ad   1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot (iiv ovv r tov dvSgcov  tov xoivov t fiij/xa sltSiv , o di] tore avSgoywov ixa-  Aelto, (piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav  ex tovtov rov yivovg ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £  rpikav&Qoi te xal (ioi%EvtQiat, Ix tovtov tov ytvovg yt~    baumio ex codicum auctoritate  in textu posuimus pro vulgato  2xa6xov, quod Iluckertus frustra  reposuit. Ficinus verba conver-  tit: quaerit autem sui quis-  que dimidium. Nam ut mit-  tam geuus masculinum, quod et  praecedit et insequitur, ut exa-  6xov vix ferri posse videatur:  etiam ambiguitas quaedam exoritur vulgata scriptura admissa, cuius vitandae Graeci studiosissimi  erant. Certum est enim, verba  non hoc modo intelligenda esse:  ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a e i  To ccutov. Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA  egrinis comparantur* qui habent  tesseram hospitalitatis, sed hospitem reperire non possunt, illam  qui agnoscat, ipsosque comiter  excipiat, eaque, quibus opus sit,  ipsis suppeditet,   o 6 t} tore av 8 p 6 yvv ov  ixaXsixo , h. e. quod tum  temporis androgynum vo-  cari diximus. De genere neu-  tro relativi pronomiuis vide an-  notat. p. 138. Ceterum dicendi,  indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis saepissime reticentur ita, ut infinitivi, qui ex  iisdem penderent, id tempus assumant, quo tempore dicendi  verba proterenda erant. Exempla huius usus permulta repe-  riuntur. cfr. Piat. Alcib, I. p.  106, D, ovxovr xavxa povov  ottiSa, a Ttap’ aXXcov £fia$eG t    V ovtqS l&Evpe£ ; nbi oldSa  dictum est pro eldivai XiysiS.  Ibid. p, 111. E. Ti 8* eI pov-  XtjSdrjfUv Eivat jjt} povov noioi  avSponol Eidiv , aXX* onotoi  vytEivol rj voGc&dsiS, apa \xa-  vol jxv rjfj.lv tfCav (pro i-cptjfisv  av Eivat ) 8i8d(jxaXoi ol itoX-  Xoi; Adde Piat. Crit. p. 47. D.  cp eI ftrj axoXovSrjdofiEV , 8ia -  <p$ EpovjJEY ixEtvo xal Xajfiij-  dojJESa , o tg3 Sixaitp fiiXrtov  iyiyvsxo, xcp 81 d8lx(p a-  7tGoXXvr o , Vide praeterea En-  gelhardtura ad Piat. Lachetem  p. 185. ed. p. 28., qui ad lo-  cum modo laudatum verissime  haec annotat: Quamvis disertis  verbis haec sententia nondum  sit dicta, continetur tamen quo-  dammodo in praecedentibus. Post-  quam enim recta exercendi ra-  tione corpus melius reddi, prava  perdi ostendit, sic pergit Socra-  tes : ovxovv xal xaXXa, co Kpl -  zooVf ovtgjZ, Iva prf itavxa 8ii -  Qjfjtv , xal 8 j) xal nEpl rcov  Sixaie&v xal adlxcav x. t. A.,  ubi verbis xal xaXXa TCavxot  omnia complexns iam id sibi  concedi vult Socrates, animam  iniustitia et pravitate perdi;  quare pergere licuit: o tgj jj\v   8ixaicp fieXxiov iyiyvsxo , rc3  ddiHoo anaXXvxo. Eodem  modo , h. e. supplendo dicendi  verbo explicandus versus est Me*  leagri in epigr. XII, 5« T* 1»  p. 6, ed. Iacobsii. yvovzca. odae di zcbv yvvcax&v yvvccixog Z(irj(id sidiv,  ov 7tdvv avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv,  dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag zErpappivca tldi, xai    ?/ taxet xovvop’ %x £t tavxov  povov , ipya 81 xpedd cov,   ubi Ixet positum est pro ixetv  XeyeiS* Malimi tamen ix 01 le-  gere, quod positum esset pro. ?/  taxet tpairjS.   xai bdai av yvvaixeS  — yiyvovtai. Av plerum-  que ita ponitur, ut eadem ali-  cuius actionis reive conditio in-  dicetur, quae in praegressis re-  peritur» Hinc fit, ut av posito  saepissime verba omittantur, qui-  bus conditio illa exprimatur. Expletior oratio haec foret: xai  odai yvvaixeS tov xoivov xpij-  pa eldiv % 6 8tj tote avdpoyv-  rov ixacXetto, tpiXavSpol t* ei-  di xai al noXXoil xgjv jioixsv -  tpicbv ix tovtov tov ytvovS  yeyovadiv. Sed nemo non vi-  det, e nimia verbositate haec  verba laborare ; quapropter av  vocula adhibita, qua ea, quae in  praecedentibus continentur, suppiendaque esse siguificantur, no-  stro loco omissa sunt. Et quoniam  praecedit ix tovtov tov yivovS  yeyovadiv , haud scio, an non  insiticia verba sint ix tovtov  tov yevovS yiyvovtai ; quibus  omissis neque sententiae vigor  minuitur et comtior fit elegan-  tiorque oratio. Sed nihil mutau-  dum contra codicum auctoritatem , qui ad unum omues verba  illa exhibent, EaMem etiam Fi-  cini conversio probat: Rursus  quae cunque mulieres virorum cupidae moechaeque sunt, hac stirpe  nascuntur,   ov navv — ciXXd paX-    Xov. Dictam supra est de ov  navv vocularum significatu io an-  notat. p. 49* Recte ibi contra  Engelhardtum monuisse nobis videmur, ov navv non esse plane non, sed non magnopere, non sane. Exemplorum, quae illic laudavimus, nul-  lum esse puto, quod probandae  huic sententiae magis inserviat,  quam nostrum locum. Addito  nimirum paXXov comparativo  statim intelligitur, Aristophanem  dubitanter loqui, atque illarum  mulierum erga viros amorem non  prorsus negare.  xai al htaip idtptai.  Timaeus p. 123. Itaipidtpiai'  al xaXovpevai xpifiadeS , ubi  Bnhnkenius : tales crissantes, in-  ™it, mulieres, quae aliis nomi-  nibus Lesbiades , tribades, frictrices et subagitatrices vocantur,  in telligi t Clemens Alex. Puedag,  II, p. 264. yvvaixeS avSpi%ov-  teS napd. <pvdiv. Stallb, Te-  tigit nostrum locum Wachsmu-  thius in libro: Hellenische Alter-  thumskunde T, II. Abth. H, p.  48 et 49,   bdoi 8h dflpevoS tpij-  pa. Ut concinnitati singula-  rum partiam orationis cousoleret,  Bastius scribendum coniecit odoi   afifreveS afifaevoS tpijpa el -  dtv. Recte fortasse, neque au-  dacior haec coniectura censenda  est. Factam est enim scribarum incuria haud raro, ut, ubi  scriptor duo verba iuxta posuit,  quae inter se aut plane non differ-  rent aut non multum, alterum at iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc  iis k$qsvos tfirjiia d<St, rcc a§§iva SuoxovGi , xal Tiag  fihv av accidis u<Hv, are Tcicu%ca orna tov aggivog. chartae mandarent, alteram omit-  terent. Hoc modo depravatas est  v* c. locus pulcherrimus Platonis,  Crit. p.45 A et B.; verba haec sunt:  2. apri 81 Tjxet S 7 ) TtakcLi; Kp.  iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo?  ovx evBrvS iitjjyeipaS pe, aXXd  diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd  tov di\ <0 2ojxpattS i ov8*  dv avToS ?/3eAov iv to~  davrp te ay pv it vi at xal  Xi >7ty elvai • aXXa xal  dov naXai $av pa^Go al-  .dSavopevoS, co? t/SegoS  xa$ £V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad h. 1, ed. p»  102. Critonem loquentem : Ne  ipse quidem vellem in  tanta insomnia tantoque  moerore versari, in' quo  revera sum, tibi autem, *  cui tam gravis imminet  calamitas, haec tua quies  non videbatur turbanda  esse. Cur Socratem e somno  non excitaverit Crito, caussam  justissimam habes * placidissima  quies non videbatur turbanda esse. Cur tacide consederit (diyjf 7ta-  paxaSt/dat), ei quaestioni quid  respondeat in Critonis responso,  frustra quaeras. Tantum enim  abest, ut verba; ne ipse qui-  dem vellem in tanta insomnia tantoque moero-  re versari aliquo modo cum  Socratis quaestione illa conciliari  possint, silentiumque excusent,  ut potius ipsa inepti quid ha-  beant atque excusatione indigeant*  Verba Critonis depravata sunt*  atqne eo modo, quo Bastius nostrum Symposii locum emendare studuit, corrigenda. Satis notum  est, summam animi anxietatem  eam esse, quae silentium non  patiatur. Quid multis? Scripsit  Plato: ov pd tov di*, oi*S* av  avTvft avav8o? iSeXor x. t. X.  Haec verba scribarum incuria  in hunc modum depravata sunt:  Ov8 9 dv avroS avavToS , ut scripserunt Symp. p. 174. D. itpo  o8ov pro t tpo o rov ; post alii,  cum dv avroS verba male repe-  tita esse putarent, pro dv av -  ToS avavroS scripserunt dr av -  toS, Sensus est totius loci ; Socr.  Warum wecktest du dann (quae  vox quomodo cum d e n n cogna-  ta sit, dixi p. 151 .) mich nicht  sogleich auf, soudern setztest  dich schweigend ' neben lier?  Krit. Ceim Zeus , o Socrates,  ich selbst vermochte es  bei so grosser Unruhe and  Traner nicht uber mich  2 u bringen (vide, quae de  iSeXsiV verbi potestate dicta  sunt ia annot. p. 44.) ganz-  lich lauti os zu sein; und  doch bewundere ich dich schon  lange, indem ich bemerke, wie  sanft du schlafst. Emendatione  nostra quantum gratiarum Critonis responso accedat, prudentio-  res persentiscent. .1   xal TiajS plv dv itat -  8 e? G)di. Memorabilis hic locas, quo relativa potestate tegjS  positum est. Astius praeter nostrum locum cum nullum in Pla-  tonicis scriptis reperisset, qui  eadem potestate exhiberet tIgoS  vocem usurpatam , egoS scribeudum coniecit. Tego? in textu tpilovOi xovg av$QKg xal %aiQovGi dvyxcttcixtlfiivoi  192 xal avpKtxltyulvot roig dvdQccGt • xal d6iv ovroi (itX-  ttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov , uve dvdQuozaroL  ovrtg tpvOU’ tpaol 6 'e dy rivtg ainovg dvaiOyvvrovg  Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ vit dvatOyvvxlag zovro  dgwOtv, dXX’ vito &<x$Qovg xal dvdQtiag xal ccQQEva-  posuit prudentissime Stallbau-  mius, cuius silentium aliter, at-  que Riickcrtum fecisse video, ego  interpretor. Ipsum Riickcrtum  audit Tacet, inquit, de h. I.  Stallbaumius , sed mallem dixisset, si quid haberet , quo defenderet T iooS relative usurpatum. Si repcritur in veterum libris,  quod contra consuetum dicendi  usum est, codd. autem auctoritute probatur, a mutando abstinendum notauduque est, si eo opus  •it, novitas rei. Nostro loco  T tcoS non idem atque MgoS esse,  quem lateat? sed quo id defendat, quis habeat?   cpiXovtil to v 5 d v 8 p a S  — x ots avS patii v . $iXttv  verbum feminis amasiisque ple-  rumque convenire supra annota-  tum est p* 69. Ceterum prae-  cedente XOvS dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris fortasse pro xoiS avdpatii pronomen avroif, quod cur non posuerit Aristophanes, caussa in  prompta est. Solent enim inter-  dum veteres praecedente aliquo  nomine non pronomen exhibere,  sed ipsum illud nomen repetere,  nt id significantius emineret le-  ctorumque animis maiore cum  gravitate insinuaretur. Igitur nostro loco pueri, quatenus segmenta sunt integrorum VIRORUM, VIROS AMARE dicuntur, atque cum VIRIS lubentissime congredi, ut io universum significetur, PUEROS illos non nisi VIRORUM societate delectari. In sequentibus  pro xai tltiiv ovroi fUXtitiroi  scribendum coniioio na i tltiiv  ovroi oi (iiXntiroi. Articulus fi-  nali syllaba ovroi verbi absorptus  est, ut factum est haud raro. Unum  depravationis huius exemplum ut  laudem, in plerisque codd, male  exhibetur p. 179. B. ov ftovov  ori avSptX, aXXd xal yv-  vaixtS. Alio loco de superlativo vel cum articnlo vel sine  eo exhibendo dicemus, quam  rem nemo Grammaticus, quautum scimus, adhuc satis accurate  tetigit.  ars avSptiotar oS ov-  XtS (pvtitl. Alludit Aristophanes lioc loco ad avSptioX  nominis ambiguitatem. Signifi-  cat enim et fortem ct eum, qui cum VIRIS aliquid habet coniunctiouis, similitudinis, commercii. Neque dubium est, quin ARISTOFANE illam nominis significationem ex hac derivatam esse  censuerit. Verba couvertenda  sunt: Et sunt hi quidem OPTIMI PUERORUM ET IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME ideoque natura fortissimi sunt*   tpatil St} tivsS x. x. A,  Eandem rem Pausanias tetigit p.  182. A. his verbis: ovroi ydp  tltiiv ol xal to ovtidoS ntitoi-  rjxottS , cafr e xivaS roXpav Xt-  ytiv , o)S* altixpov x a P^ etiSai  ipatitouS, Ceterum etiam hoc  xi 'as to fifiotov cnrroig acsxa^o/iivoi. (liyct di te x/iiigiov  xal ydg xckEa&svxsg fiovot ccxopatvovGiv clg xu ito-  hxtxd avdgs g oi xoiovzoi' enstdav de avdgca&aiGi,  mudegaOxovOi xal itgog ydgovg xal itutdoitouag ov B  itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov vu { uov dvay-  xu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv    loco Riickerti sententia de Grae-corom saper PÆDERASTIA iudicio,  quam supra exposuimus iu annotat p. 9 satis reprobatur.  TiveS enim h. 1., ut illic x iva$,  quamquam de populi quodam ru-  more accipiendum est, tamen non  omnium Graecorum constans  de PÆDERASTIA indicium exprimit 3 d fi fi ovS xal dvSpstaG  xal dfifiEvaitiaS» Opponuntur haec tria nomina praecedenti avat 6 xvrtiaS nomini oratorie» ut indicetur» quantum numero superent praecedens nomen haec tria nomina tantum  etiam ei praevalere significatus  potestate. Tantum enim abest ut pudore illi PVERI  careant» ut potius VIRILI sua indole ducti AD VIROS se convertant. Ceterum illa nomina haud multum inter se  differunt siguificatu. 'AfifiercD-  itia enim VIRILEM INDOLEM significat non minus quam dv -  8 peia t cuius indicium est Sctfi-  fiu$ h. e. fiducia audacia; animi  fortitudo Laudat Fischerus E-  tym. M., in quo d fi fiev coniaS no-  tio sic explicatur: afifievcDitds   ix x ov ufifiijv dfifi&voS xal r ov  d)if> oonoS, o tiijpaivti rd itpoSco-  7 ior, dfifisvcojtds 6 afifievoS jtpoS-  coitov 8 x ojy > xaxd dvVExSoxi / y .  yyovv o dvdpelo S xal idxvpdf  xal dvvdpevoS it poS cx$pdv dv-  Tvrax$fiyai. idxi xaxd 6vv-  exSoxy v ano pipovs rd oXov.  xal yap xe\e&%evxeS —avS pES ol xotovtoi, Pi-  cinus verba convertit: Iluius evidens argumentum est , quod cum adoleverint , soli ad civilem  administrat ionem conversi , viri  praestantes evadunt. Nou rectius Schleiermacherus in conversione: dass wenn sie voll kommen ausgebildet sind, solclie  Manner vorziiglich fur die An-  gelegenheiten des Staats gedei-  hen. Unice vera Orellii explicatio verborum est in Scbulthessii  convers. p. 92. : Deutlich eihel-  let dies daraus » dass solchc al-  lein » wenn sie heran wacbseu»  in den Angelegenheiten des Staates sich ais Mauner beweiscn.  Eodem modo verba intelligenda  esse docuit Rtickertus ad h. 1.   vito xov vdpov av ay -  xagortai * Apud Stohacum  Serm. 65. p. 4 10. legitur: *Znap-  riatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ,  ryv ptv npcdxyv dyaptov xfiv  SevXEpav uiptyaplov xyv rpi-  xyv 8 \xaxoyapiov. Utrum apud  Athenienses ayapiov lex exstite-  rit, necne, in incerto est* Vide  Wuch&muthii librum: Hellenische  Altcrthumskunde T. II. Abth. I*  §. 98. p. 266., Meier u. Schom.  Att. Proc. £87. Cuvendum est  autem, ne quis forte nostro ioco probari ceuseat, legem dya -  piov Athenis latam fuisse. Nam  vdfioS ambigua significatione apud  Platonem adhiberi solet, ut et  legem, et morem receptum» ccyafiotg. stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g re  xcd <pt2cga<STt)g yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg aO}ttt^6[icvog.  orctv fitv ovv xai avrtp Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov y/ilttu  xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore xcd 9av(ia0td  C lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti, ovx  i&D.ovttg , ug Enog tbteiv , %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb    consuetudinem, exemplum  significet. Vide annotat, p. 100.   nai8epa6xr}S xe xal <pi-  Xepadxi/S. Non de pueris hic  sermo est, sed de viris, qui in-  tegri viri segraeuta sunt. Me-  rito igitur roirere it ai8 £ patiit/ S  verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuu-  ctionem. Interpretes verba convertunt: Knabenliebhaber und   LiebhabertVeund, ut alterum ver-  bum ad viros, alterum ad ama-  sios pertineat» Sed fac, hanc ARISTOFANE mentem fuisse, quaeritur, cur ordinem verborum inverterit, adraiseritque vdxepov  itpuxepov, quod rectissime etiam  a Riickerto not.itur. Sed quam  hic verborum illorum explicationem exhibuit, eam fateor mihi  neutiquam probari. Eam, inquit,  rationem inii , ut tpiXepaOxj/v  dictum hoc loco putarem amicorum amatorem ad analogiam naiSt patir/fS, quasi non a  cplXeco , sed a (piXoS petita esset  pars prior nominis. Jam idem  est , ac si dicat it a i 8 cov X £  xal cpiXoov i padxi/v. Sen-  sus hic est: Ex hoc genere qui   est , js semper AMATOR est , sive  PUERI sunt , quos AMAT, sire AMICI Quos enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet, postquam adulti sunt, ita ut horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit, Displicet haec explicatio duabus de caussis. PUERI enim,  qui AMANTVR, non minus AMASII sunt quam AMICI AMATORVM. Deinde non dicitur Graece cplXoov  ipadxqS sed posito ipadxijS nomine itaideS s. itaiSixa adiungautor necesse est, coutra cpiXcov ubi ponitur, non ipadxrfv sed  qiiXov adiungi usus loquendi flagitat. Possis itai8epa6x?}s xe  xal qnXepa6tr}s: ita explicare, ut VIRVM inlelligi censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum, et ipse pueros amet. Dubito tamen, num haec significatio cum tptXepadxtj S verbo satis conveniat. Supra annotavimus p»   cpiXeiv adhiberi haud raro,  ubi de actione sermo sit, cui  vis quaedam, qua necessario  fiant, inesse indicetur. Eadem  significatio interdum in iis nomi-  nibus obtinere videtur, quae cum  cpiXeiv verbo composita sunt.  Sic in Alcib. I. p. 122. C nod  dubium est, quin de indole Lacedaemoniorum jfrmo sit, qua  ad labores suscipiendos , ad aemulationem summam et ad honores consequendos ferantur. Verba sunt: ei 8* av iSeXt/tieiS elS  (ScjippodvvTjv xe xa\xo6piu>ri]ict  aitofiXeifiai — xal (piXonoriav  xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS  xaS AaxeSaipoviaiv x. x. A. Eo-  dem modo verba p. 189. D. intelligenda sunt: l6xi yap Secor  tpiXavSpGHioxaroS quae ita de Erote dicuntur, ut deus sua natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba p. 191. Giuy.qov xquvov. xccl ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm  .fiiov ovzol tlOiv , ot ovS’ av %%oitv dmiv , o zi (3ow-  Xovzai 6<pl<5i 7 ta</ ccV.t) Xav ylyvt6&ai. ovdh yctQ av  So^hb tovz’ ilvai r/ zav utpQO&iolav tivvovoia, tog  ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu ‘gvvcov ovz ag  ini fuyaXzjg 6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua-    C. (piXoyvvaixe? , p. 191. E.  qxiXavdpoi, quae de naturali quodam instinctu dicta esse, etiam e  verbis paullo infra positis colligitur: aXXa paXXov npos raS  yvvaixat t et p a ppkv a i el-  tflvy quibus verbis qnXoyvvaixeS  nomen manifesto explicatur. Ad  nostrum locum ut revertar, <pzAe-  padr/jS idem est, atque ipadn}S  tpvdet , quo nomine supra utitur ARISTOFANE B. itat -  depadtovdi xal itpoS yctpovS  xal 7tai8o7ZoitaS ov tc poSexovdt  tov vovv cpvdti Igitur ARISTOFANE mens haec est: Omnino igitur talis puerorum AMATOR est atque naturali quodam insctinctu, quippe integri VIRI segmentum, ad pueros AMANDOS fertur. xal aXXoS it ai. Valet,  quod hic do solis iis dicit, qui  ex integro VIRO dissecti suut, de  ceteris quoque, mulierum et androgynorum segmentis } de quibus quum nolit copiosius dicere,  solis hisce verbis additis ad hos  quoque id pertinere significat,  Riickert .  tpiXia te xal olxeiotiftt  xal i p coti. Exspectabas ordinem nominum inversum, quoniam priori loco positus est itat depadrr/i, ad quem Ipcoi nomen referendum est. Vide annotat. Sed minus veteres in  huiusmodi rebus accurati fuisse  videntur. Ceterum olxeiotqS Ad androgynum referri possit, ad integram feminam cpiXia. Sed dubito, num id recte fint. Tria  potius nomina ARISTOFANE adhibuit amoris, ut esset, quod cum  praecedentibus verbis Sav/iadta  ixTcXrjttovtai conciliaretur, atque  recuperatae integritatis gaudio responderet,   xal ol SiateXovvr ei —  ovtoi e id iv , oi x.t.X. Pi-  cinus verba convertit : jitque hi  sunt , qui per omnem vitam amare pergunt: neque quid potissimum a se vicissim expetant , exprimere possunt. In conversione Schleiermacheri exstat: und die ilir gunzes Leben lang mit einauder verbunden bleiben , diese  sind es, welche auch nicht einmal zu sagen wiissten, was sie  von einander wollen. Non aliter  Schulthessius verba convertit»  Sed admodum languent j si quid  video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy oX verba, Aristophanes hoc potius dicturus  erat: Mirum esse in AMORE hoc, quod AMANTES, cum  veliut per totam vitam  conioncti esse, i id em huius voluntatis ne caussam  quidem habeant satis gravem, quippe nescientes,  quid alter ab altero sibi  fieri velit. Est igitur, quod  fugisse VV. DD. miror, diate-  X ovvtei non praesentis, sed futuri temporis participium. D ztQov y 4>v%r] StjXri idziv, o oi3 Svvarcci tlnuv, aJUa  f lavztvtzai o fiovkezai , xa i ulvizztzcu. xca tl avtoig  iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie imazag 6 ”H<pui<Stos , lyav  zd OQyavcc , Iqolzo ' „TL £o&’ o (SovkiQ&E , o av&gco-  moi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu; n xal tl anoqovv-   gJ ? a pa rov rov Uvexa. Tovtov pronomen generis neutrius ad praecedentia verba tg3k  d<ppo8i<jlcov 6vvov6iot referendum est. Soiet autem neutrum  genus pronominis relativi et demonstrativi jexhiberi, si praecedit v  tota enuntiatio, ad quam prono-  men pertinet, vel si praecedens  nomen e pluribus verbis compo-  situm est, velut nostro loco rj  tgjv cteppo8i6icov 6wov6ict. LATINI eodem modo neutro genere  pronominis interdum utuntur; saepius aliquod nomen latissimi significatus pronomini addunt: quae res* Adde Piat,  de rep, I. p. 329. C. it&S, £q>n,  <J ^otpoxXeiS , fyetS’ itp&S za-  (ppodloia — xai oS, JEiv<pTjfi£t y  to avSpvne' dtipavaizazac  pivzoi avzo diticpvyov x . r. A.,  ad quem locum rectissime Stall-  baumius monet, pronomine singularis numeri etiam contemtum  rerum Venerearum exprimi, ut gd£  dpec tovtov Zvaxa convertendum  sit: dass dieser Armseligkeit halber cet. In sequentibus ovzcoS,  latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni, uti solet, prae-  mittitur. cfr. p. 192. E. ixal av  iv AiSov. Adde Alcib. I. p. 105.  c. 4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva-  6zevtiv iv zf/ Evpojxy. Vide  anuot. p. 43- Censet Riickertus  ad li, 1. ovrooS ix\ payaXijS'  <Sxov8fj$ pro l<p’ ovtcj paydXrjS  tfxovdi/S positum esse. Eam me-  tathesin verborum Graeci admit-   ty * tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis;  num in ovzcoS verbo admiserint, vehementer dubito.   o o v dvvazai sixelv  x. T. X . Vis amoris haec est, ut  amantes impellat ad aliquid, quod  quid sit, ipsi f qui amaut, prorsus ignorant. Quod autem petvravec 1$ai atque alvizzefBai di-  cuntur, hoc est, diviuare atque  caeco quodam animi praesagio  sentire id, quod sibi fieri velint,  idem Margarethae verbis notis-  simis in Faustio Goethii pulcherrime expressum est.   ixidz as o "Hpatdz o f,  rdopyavax.x.X. Si  germina duo salicis aliusve ar-  boris, aut fructus 4uo mali, piri,  pruni, filo adhibito ita colligantur, ut alterius latus cum alterius lateri .firmissime connexum  sit, fieri solet haud raro, ut e  duobus germinibus fructibusve  prodeat unum. Haec res, nostris temporibus PUERIS satis nota, non dubium est, quin et Graecis innotuerit. Ad eandem ARISTOFANE fortasse allusit. Iam iutel-  liges, za opyava verbis cuius  generis instrumenta significantur. Vincula sunt et compages,  quibus adhibitis duo homines ita  colligantur, ut germinum frnctuumve instar firmissime connexi alter ab altero discedere  nequeat atque duo in unum concrescant. Minus apte Riickertus  ad h. 1. Semper mihi , inquit, visus est Elato his, qu-ac de Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito' -J-Aqu ys tovSs Ixi&vpu-  xe, Iv tc 5 avuS ytviG&ca ou (icchti tu txXXyXoig, wgxs  xal vvxra xal rjutQav fii) rxxofainMS&ai alhjkav ; sl  yccQ tovtov ixt&vfieiTE , tQiXa vaag Ovvrjj^ai. xal E  <Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag sva ysyovivav,   £ cano dicentem facit Aristopha-  nem, Homericam fabulam respicere de Martis ac Veneris amoribus , Odyss . VIII , 266. seqq.  maxime propter Mercurii verba }  quibus ille , etiam si ter tantis vinculis constringi debeat,  omnesque deos deasque spectatores haberi, tamen se Veneris  fructum vel hoc pretio emturum fore profitetur .   apa y e xovSs irtiSv-  pstx e. *Apa peponi solet, quando  is, qui interrogat, veram esse opi-  natur, quam rem sciscitatur, cfr.  Piat. Polit. 1 , 328. A. xal o  USeipavToS , Apa ye, rj 8 oS,  ov 8 9 Xdxs , ori XapitaS idxai  rtpoS kdnkpav acp 9 Initoov xjj  5c<y; Nescire revera Socratem  ceterosquo Adimantus suspicatur  r ij£ Xapzd 8 o? celebrationem,  quod abitum parantes conspiciebat. Adde Piat. Crit. p. 44. E. apa  ye pr/ ipov npop-q^et xal rcbv  dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi sup-  plendum est: aliam certe recu-  sationis caussam non reperio*  Alcib. II. p. 138. A. apa. ye  xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof  Tcopevei ; ubi verba quaedam  omissa sunt, ad quae yk parti-  cula referenda est : Coronatum te  certe conspicio sacrificantium ri-  tu. Nostro loco Vulcanus cum  animadvertisset, SxepoY hxkpqo  Xaipeiv B,vv 6 vxa ini peydXTjS  ditov 8 ijS , yk particula usus lianc  cogitationem interrogationi ad-  miscet; Videmini certe velle al-    ter alteri se artissime adiungere. '   dvvr rjZat xal dvptpv-  dai, 'ZwxrpiEiv verbo Plato  supra usus est p. 183* E. o 8h  rov rjSovS xPV^ t0 ^ ovroS ipa -  dtrjs Sia fiiov pkvei axe povl -  pqu dvvxaxeis. Proprium est do  fabri ferrarii arte, qui metalla  colliquefacit, ut ca artissime  couiungat. Vide Ruhukenii an—  not. ad Tim. L. V. Pl. p. 139«  Pro dvptpvdai codd. non pauci  6vp<pv6ijdai exhibent, quorum  in numero sunt Bodleianus, Vaticani duo, alii. Hinc non mi-  reris, dvptpvdrjdai a Reyndersio  atque Riickerto in ordinem verborum receptum esse, praesertim  cum fabri ferrarii opificio verbum apprime conveniat. Nobis  cur unice probetur, quod Bek-  kerus et Slallbauraius dederunt,  dvp<pv(ftxi , ex annotatione im-  dxaS 6 r 'H(pai6toS f Ix&v ta op-  yava verbis subiecta patebit. Sio  in Piat. Epist. VI. p. 323. C. le-  gitur: oipott yap 8ixxi xe xal  al8oi xovS itap 9 fjpdoY ivxev-  $ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt  r 6 XvSlv pkya xvxoi yev ope-  ror, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM  dv dvptpv 6ai xal dvP&tf-  6 at TtaXiv elS njv itpotitidp^  Xovdav tpiXotrjxd xe xal xot-  YGQviaY. Ad nostrum locum Aristoteles videtur respicere De rep*  II, 4.; xaSanep iv toiS ipoo-  rixoiS Idpev XkyoYta roV *Api-  dxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id  12  xal eco$ t av ZijtSy wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg  £rjv, xal httidav dno^avrjtB , IxeZ av iv "Aiiov dvtl  dvslv tvet tlvai XOtvfj TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M TOV -  tov eqccze xal e^ccqxel vpiv , av rovtov TvyrpiE ravta  dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit], ovd’ &XXo ,tt 1 6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vr-  rcor 6vptpvvai xal yeveOBat  ix 5t;o ovtg>v dpcpoxepovS ira,   cjS ira arra. Valgo pro  ovxa igitur brraS , qoae lectio  non nisi tribas Belkeri libris  confirmatur. Non dubium est,  quin brraS in textum irrepserit  scribarum errore, quj, qum paullo  supra legerint &Sxe 8v * ortas,  etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam au-  tem non falsum est c bs ira ur-  raCy tamen ipsa oppositionis ra-  tio , quae inter o oSxe 8v uvxaS  ct cdS ira orta manifesta re-  peritur, singularem numerum exi-  gere videtur.   ixei av iv Aidov — era  elrai. De verbis ixei — iv  Aidov supra dictum est p. 43*  " Era elrai e praecedente <3ffre  particula pendet, quae non opus  est, ut hoc loco repetatur. Quae-  ritur autem, qui possit "HcpcatiToS  ix&v X( * opyara corpora aman-  tium ita coninngerc atque colli-  gare, ut et in Orco manes cod-  iuncti maneant. Explicanda haec  res est e veterum de animorum  post mortem conditione* Man^s  enim quasi umbrae erant ad si-  militudinem hominum mortuorum accuratissime conformatae, qua-  propter apud Homerum haud raro fipoTOJV efScoXa vocantur,  cfr. Odyss. 11. 475. Adde II.  23. 65.   yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS  SeiXoio    itarx* avxcj, piyeSbs te xal  bpuara xaX* elxvta -v  xal tpannjr , xal xola nepi xpot  ei pax a e6xo.   Ex veterum igitur opinione qui  in vita breviorem alterum pe-  dem liubebat, etiam in Orco so-  lebat claudicare, monocolos non  nisi unius oculi lumine gaudere.  Sequitur inde, qui in vita ita  colligati fuerint u Vulcano, ut  in unum corpus concreverint, eosdem etiam in Orco coniunctissi-  mos esse. — Pro arxl Svoir /  quae lectio vulgata est , arxl  Sveir edidimus cum Bekkero et  StallFaumio, Bodleiani codicis auctoritatem secuti. Jvoir prae-  ter Riickertum etiam Matth. ve-  rum habet in Gramm, f. 138.  p. 262. Annotat tamen ille ad  nostrum locum: minime , inquit,  dubium nobis est , quin a Platone usurpata fuerit haec forma ( 'Sveir ) , cuius sat multa vestigia in codd . reliqua .   el tovtov i pax e. Ilaec  brevius dicta sunt; expletior oratio audiret: orAA* opaxe, et tov -  to idxir , ov ipdte .. Sequentibus verbis tavxa axovCaS Io per  dxi ovS * av eis x. r. X. apodo-  sis efficitur ad verba p. 192. E.  init, xal ei ecvToiS ir tqH av -  toj xaxaxeipiroiS exi6tds x. r.  A. Annotant autem interpretes,  Aristophanem avTolS pronominis  in protasi positi non amplius memorem , simularem numerum ia  uv cpavett) povXiftsvos, &XX’ axt%vag olo it’ ccv axtjxo Lvtxi  tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal Ovvzaxtl $ zu   iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al. Tovro yaQ ttfr i zo alziov, ozi r] &Q%aia cpvOi g  f/iuov i]v Kvzrj xal yixtv oXou tov oXov ovv ztj lici-    apodosi posuisse, atque eum pro-  ximo ov8 av efc accommodasse.  - ov8* av eIs. Ov8h sis ita  differt ab av8ets, ut hoc nul-  lum significet, illud, quoniam  interposita av vocula vis nega-  tionis augetor incredibiliter, ne-  minem denotet ne uno qui-  dem excepto. Unum exemplum huius usus ut laudem, Piat. Hiaed.  p. 100. C. cpaivExai ydp pot,  eX tL Itiriv aXXo xaXov nXrjv  aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev  dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi  JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV.  l J iura exempla Stallbanmius congessit in aonot. ad Piat, de  rep. I. p. 353. D.   «AA* 'Atexv&S   verbum apud Platonem saepissime  reperitur, ibique vario modo ex-  plicandum est. Primaria verbi  significatio est, ut etymologia do-  cet, anXadrcji?, aSoXcoS , a qua  reliquae verbi significationes fa-  cili negotio derivantnr. Nara  quae sine artificio dicuntur aguuturve , ea clare a per te que,  certissime, ad<paXco£ 9 lucidissime, tpavspmS , simplicissime, anXcoS j sum -n  matim, naScinat, pronuntiantur. Nosftro loco possis etiam  de tempore voculam dictam intelligere, ut conversio audiat verborum : und ieder wird so-   gleich, oh ne Weiteres das  gehort zu habeu vermeinen, woruach cben er lange schon streb-  te. Scboliasta ad Eutyphronem    habet apud Bekkerum, Comment,  critt. in Platonem T: II p. 325.  atEx y d>S‘ xavreXcoS' ? axXcoj tj  xaStarraZ, IfavpCDS, rj teXIgdS.  ol 81 iv l6(p xgj ovxi, xal aXrj-  $eiqc* ol 81 SrfXovv xo itapa -  xav xal xaSoXov , xax * aXtj -  Ssiav.   oloi x* av axi} xokv cti +  Ad ofozr’ av ex praecedento  ovdfc eU intellige Zxa6xoS. De  rep, II. p. 366. D. xojv ye «A-  Xcov ov8e\s Ixcov 8ixcnoS, aAA*  rxo avavSpiaS — ifriyet xo  aSixEiv, aSwaxcov avxo 8pdv.  Horatii Serm. I. 1, 1,  Qui fit, Maecenas, ut nemo,  quam sibi sortem  Seu ratio dederit, seu fors obiecerit, illa   Contentus vivat, laudet di-  versa sequentes  h. e. sed quisque laudet cet.  Stallb . Comparari potest cum  hoc dicendi genere ea verborum  structura, qua haud raro e praecedente verbo negativo affirma-  tivum repetendum est; eam in-  dicatam reperies iu Indicibus,  Ceterum Riickertus censet non  ZxatixoS sed 6 dxovoaS sub-  intelligendum esse.   tovto yap xo alxiov. FICINUS verba convertit: Huius caussa est, quia prisca  hominum natura haec erat inte-  grique eramus. Eodem modo  Sclileiermacherus : Hie v o n ist  sun dies die Ursache. Neque  12 * 193 dvfita xal tficog u "Eqos ovofia. xal xqo tov, SgJtCQ  liya, tv tjfLiv • wvi Swc rrjv adixltxv diaxtofhjfuv  ixb tov &eov, xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito AaxEdcafiovUov.  defuerunt , qui tovtov pro rot>-  to in verborum ordinem infer-  rent. Si pro yap legeretur Si  particula, ut in Piat. Apol. Socr.  p. 31. C„ ipsi tovtov scribendum censeremus: yap part. genitivam pronominis non admit-  tit. Referenda autem canssalis  particula est ad praecedens idjuv:  Scimus ne unum quidem  eorum, qui haec audirent,  ea recusaturos esse in  caussa enim h/ic est, quod  natura nostra primitus  talis erat integrique eramus. Epeo S ovopa. Erotis nomen maiore cum vi hoc loco  pronuntiandum est; igitur, quo validius emineat, articulo caret.  Exempla si quaeris nominum sine articulo positorum, vide annotat,  p. 129. Fortasse etiam eadem  de caussa in Piat. Gorg. p. 448.  E. lectio vulgata vera est, quam  codd. lectioni posthabuerant in-  terpretes. ov yap azExpivd-  prjv , ori sXrj xaXXidrij. Codd* plerique articulum exhibent 7}  xaXkidTT}. Ceterum hoc loco interrogandi signum in punctum  mutandum censemus, quod iro-  nicae dictioni convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videli-  cet non respondebam eam  xa\ XidTJjv esse. Quae  sequuntur verba , xal Ttpo tov  ev qptv, meram repetitionem sen-  tiae supra probatae continent, ut  uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem perspicuitatis  caussa admisSam ne quis aegrius ferat , <2faep Xiyco verba    addita sunt, de quibus diximus  in annot. p. 133. ad verba 7/ re  ovv laTpiHt), doSiup Xiyco, icada  x. T. X. '   xa$ ait s p 'Apxa&eS vxo  AaitsSa ipor Igov , Ad quam  rem Aristophanes Arcadum Lacedaemonumque laudato exemplo alluserit, notum est atque ab in-  terpretibus satis indicatum. Lau-  dant Xenoph. Hell. V. 2. 7. ix  81 tovtov xa^xfpV^V J&v to  teixoS , SiajxldSrf 8 "k 7} MavTi-  veu TEtpaxv • Aristid, Orat. T.  II. p. 287. ed. Iebb. SiaoxidSTj-  dav Si ye MamvEiS vno Aa-  XESaipovicov rjSrj rijs eipt/vjjS  opoopodpivrjS, Alios Riickertus  laudat ad h, 1. Adde Wachs-  muths HeUeniscbe Alterthnms-  kunde I, 2. p. 420. : Vor alleu  war Mantinea eiutrachtig und  kriiftig. Aber auch gegen diese  Stadt machte Sparta mit em-  poreuder Ge wa 1 1 die Sat/ung  des Friedens geltend; sie wurde  Olymp. 98. 3 , 386 v. Chr , in  Ortschaften aufgelbst, aus denen  sie vor etwa einem Iahrhundert  entstanden war. Constat autem, eo tempore, quo Mantinea a Lacedaemoniis eversa est, plcrosque  convivas symposii, quod et ipsam  celebratum est Olymp. XCVIII*  4. h. e. 386. a Chrt n. , iam  fuisse morfruos, Anachronismum igitur h. 1. Platonem admisisse interpretes annotant simulque Symposium post Olymp.  XCVIII. 4. conscriptum docent. Comparationem ipsam quod attinet, frustra tertium, quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij xoOfiioi tj/isr xgdg rovg  deoiig, vTCag (irj xai av&ig xca xe-   ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg etijla tg xctta yQcccprjV    ca»t, comparationis quaesivi. Vel-  lem annotasset aliquis interpre-  tum , quo iure hominum dissectionem cum Mantineae eversione comparatam putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep ApxdSef  vno AaxtSoupovicav insiticia  putare, nisi praecederet dtooxi -  < iSijfisv verbum, quod aperte ad  haec verba comparatum est. Praetervidit hoc Cornarias, qui di£-  6xi6^Tffi£V scribendum coniecit.  Sed nec hoc nos prohibet , quominus certe depravationis aliquid  verbis, inesse censeamus; vide  Excors., ubi fusius de hoc loco  disputabimus.   <poftoS ovv $6xiv, Vulgo  ivetixiv legitur, quod ne Graecum qoidem censuerim in huiusmodi enuntiatione. Sequentibus  verbis xo6f.no ? icpoS xovS SeovS  ad primaevum hominum genus  respicitur, quod iu ipsos deos impetum fecit. Ex quo genere quoniam , qui nunc vivunt, homines orti sunt, cavendum est, ne forte  natura ad impietatem ducente illis similes sint, eandemque, quam  illi, corporis dissectionem experiantur»   GjSnep ol iv rctiS 6x?j-  XcCtS — IxXEtVTtGDflk V O l.  Annotat Stallbaumius ad h. 1. :  Locus videtur hoc modo expli-  candus esse. Veteres -artifices  vasa, signa, alia, ita caelabant,  ut ea ostenderent figuras extra  prominentes, interdum totas, in-  terdum dimidiatas. Et hae qui-  dem vocabantur itpoSxvica, illae  vero nepupavij et ixtpavij. v.    Salinas, ad Solin. p. 736. Quum  igitur ixxvjc ovv omnino sit caelare adeoque de figuris utriusque generis dici soleat, perspi-  cuitatis caussa additur xaxii ypa-  cpjjv , picturae s. tabulae  pictae modo, quo additamen-  to efficitur, ut cogitandum sit  necessario de xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum  xaxu ypaqnjv explicationem  fateor mihi noli placere, neque  omnino video , quomodo clariua  fiat illis verbis additis , de c rastis sermouem esse. Schleiermacherus verba xaxd ypcupffV  plane non expressit: Dass wir  nicht noch cinmal zer-  spaltet werden und so  herurngehen miissen, wio  die auf den Grabsteineu  ausgeschnittenen,die m i t  ten durch die Nase ge-  spalten sind. Atque fortasse  interpres doctissimus de figuris  cogitavit ab impia incultae ple-  beculae manu violatis. Quis  enim alias unquam de dissectis figurarum naribus in veterum monumentis quicquam audivit ? # Al-  tera explicatio est, qua dicuntur  homines in monumentis non a  facie tota, sed a parte faciei al-  tera efiormati esse atque ideo  dissecti vocari. Si hoc modo  rem animo suo informarunt VV»  DD. : potuisse cuiquam huiusmodi artificia intuenti dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter negamus. Quid enim? Rem quamque ut in operibus caelatis, picturis, aliis, ita  in rerum natura ex altera tan-  Ixrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru rus &vag, yeyo-  votss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’ uvSgu    tummodo parto conspicimus, totam uno obtutu non comprehendimus. Nara cuiquam in mentem venit de dimidiatis vel monte, vel domo, vel alia quavis re cogitare? Ut in rerum natura al-  teram tantummodo rei cuiusvis  partem conspicimus, alteram supplemus meute , ita etiam in artis operibus ex altera parte ef-  fictis , quae uon videmus , mente  supplere solemus. Alia verborum explicatione opus est, atque,  si quid video, litterulae unios  mutatione. Vulgo legitur xccxa-  ypciupijv , quod primus Ruhnke-  nius vidit in annot. ad Timaei  L. V. Pl. p. 175. in xaxa ypa.~  (pyjv mutandum esse. Ortum nobis  illud est ex xocxctjfyatpiiv, scri-  psit autem Plato xccxa fiatprjv .  Haec scriptara quam bene conveniat Aristophanis sententiae,  iam vide. 2x7/\7j est Suida teste  lapis in altum erectas, figura  quadrata, idemque figuris haud  raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum , angulum efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis  xaxa fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^  non aliter intelligi posse, quam  in ipsa duorum luterum compa-  gine positae. Eo loco dissectione  figurae opus erat, ut altera eius  pars iu altero, altera in altero  latere poneretur. Uckermanni,  viri humanissimi industria fa-  ctum est, ut quadri effigies tabulae lapideae incisa apponi posset, qua clarius redderetur lectoribus, quid Aristophaues verbis  xaxa jbcupijv adhibiti* intelligi  voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi btovg, iva B  rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alterae partes  non conspiciuntur quippe positae in statuae lateribus, quae cum  hoc latere cohaerent, sed ab hac  parte statuae non comparent*  Vide autem, quam bene haec  segmenta conveniant cum verbis  supra lectis p. 190. D. idv 6 *  Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv —  ndXtv av x ejxai dixct , gqSx'  i<p hvoS no pevtiovr at  6xi\o vS ddKGoXidZovT eS. Adde dissectarum narium narrationem, quam optime repraesentatam habes jiorum segmentorum effigie; Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v effictarum dubites, ipsi veterum  monumenta sepulcralia vidimus, in quibus huiusmodi dissectiones  admissae erant. Eas admisisse  videntur artifices ea de caussa,  ut fabulae, quam figuris describerent, continuitatem, continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem artifices  plastici sibi licere arbitrati sunt,  figuras ut dissecarent, idem haud  raro poetae in versuum finibus  imitati sunt» Nullus enim dubito,  quin verba , quae et ipsa sunt  figurae artificiosae et quasi imagines rerum, in versuum finibus  recte dissecari possint. 8ianen pi6 fiivot xaxd  tds fitvetS. Ne qnem offen-  dat hoc loco 8iaKE7Epi6fxivot  verbum, depromptum est e comparatione sequente dfertep A Idnai,  Tali enim serra dissecari solebant.  Prorsus eodem modo p. 193. A.  de hominum dissectione dicitur  dtuJxltfStfftfv , quo' loco    CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus. Aitiltott  autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai bctsxpt/i- -  pivai xai dnvyot A lar, xai ol  diaizEnpuSfdvoi d6xpdyaXoi . ol  te *A5i/vaioi Xitinoi xaXovrrat  Teo £JC Ttjs iv TGJ XGOXTjXctTElY -  dwEXovS iepidpaS avzovS aito -  yXovxovS elvat, Stallbaumios  ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot, in-  quit, aCxpdyaXoi quid sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad Medeam v, 610.: ol  t imB,EYOVfiEYoi xi6tv , adxpaya-  A ov xaxocxipvovxES , SaxepoY  jur ocvroi xocxeixov pipoS, $a-  TEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS  vno&E%apkvoiZ, Iva , si 8ioi na-  Xiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy  .irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9  inayofuvoi to fjju6v adxpaya-  X tov, dvaviolvxo Ttjv Zeviav.  EvflovXoS &ov$oir x i not  idxiv azavxa 8iartEitpi<Sptva  7}pi6EQoS , dypifio jS nep ete xa  CvpfioXa. ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin  Aristophanes ad hospitalitatis tes-  seras respexerit, quae A i(5nai vocabautur, verum, ni fallor, ea-  dem tessera etiam modus disse-  ctionis indicatur. Tali enim non  in medio dissecari solere con-  sentaneum est, sed ab imo an-  gulo - ad alteram versus.   [ cjy o"EpcoS 7 } fity ifye-  ft oo y , Vulgo legitur oaS pro  tiov, quod in ordiuem verborum  recipiendum esse primus vidit  H. Stephanus. Eum secuti sunt  Bekherus, Stallbaumius, alii. Riik-  kertus ooS reposuit motus codicum auctoritate, qnortun exiguus  numerus oov exhibeat. Sed no- ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta jtQcmtra'  jtQccttu 6 ’ Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu   yaQ yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy &tta igtVQyGo^iEV   ' «•    lait dicere Aristophanes, facien-  dum esse, ut eo modo, quem  Eros indigitet, pristinae integri-  tatis participes fieri studeamus ;  (alio enim modo eam nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quae  Eros ducat. Necessario autem  b)V ponendum est etiam ideo,  quod x&v 8i t cum ra pkv satis  explicetur praecedentibus, non  eatis explicatum est atque defi-  nitum. Ceterum TjyEjuoov xal  GxpaxyyoS abundanter dictum est  ornatus gratia, quod moneo, ne  quis forte maiorem ipsis vim  tribuat, quam qua Aristophanes  eadem exhibere Voluit,   /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX*  texo). Haec verba prorsus ea-  dem gravitate dicta sunt atque  verba p, 189. D,; iyoa ovv Ttti-  padouai vffiv ElSyyydocdSai  xyv dvvapiv avxov y vjaeiS 8h  - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i  %ded$£. Vide anuot. p, 153.   iZevpy dopkv xe xa\  Ivxev&,6jme% a, Latinis non  licet diversae etrnetarae verba  ita coniungere, ut sequentis nomi-  nis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi naturam.  Neque Graece licet, accurate si  rem spectas, huiusmodi structuras verborum adhibere. Nam  nostro loco re xad particularum  ea vis est atque potestas, ut prio-  ris verbi finiti pondus imminuant,  posterioris adaugeant, quasi si  dixisset Aristophanes IB,ev-  p y d oyxeS ivx£vB,6 p.£% a..  Haud raro etiam nominibus, quae a verbis diversae structurae derivantur, conjungendis, re xa\  particulae solent apponi, v, c.  p. 147. E. icapadxaxyS xe xal  doozyp' In nominibus quidem  harum particularum non constans  usus , ac facile quidem iisdem,  ubi non comparent, caremus, nul-  lum autem apud veteres scripto-  res locum repereris, ubi verba  diversae structurae adiuuctoque  aliquo nomine per simplex noci  coniuncta sint.   XolS y jaex e p oiS avz&Yt  Ingeniosa quidem est, sed mi-  nime probauda Bastii coniectura :  xoiS yfiitojioiS avz65r . Exem-  pla non rara sunt, quae avxoS  pronomen cum possessivo pronomine coniunctum exhibeant.  Idem usus iam apud Homerum  obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7.   avxoov yap dq>£xkpydiv axa-  CSaXiydiY oAovro*  Alia exempla Motth. congessit in  Gramm. plen. §, 466. Verba no-  stra convertenda sunt: unsern eigensten Lieblingen.   o XG)V vvy oXiyoi noi -  OvdiY h. e. quod eorum, qui  nunc vivunt, faciunt pauci.  IToieiy interdum, ut Latinorum  facere , non actionem describit,  sed vitae conditionem, quare  recte Schleiermacherus verba convertit : Was ietzt nur w c -   nigen begegnet. Invaluit  hic 7COIEIV verbi usus ideo, quod vitae conditio talis plerumque esse solet , quales fuerunt actio-  nes praecedentes. ib xal ivttv£6(iB&a rolg xca8t,xo Tg toig ^fwtlpotg av-  rav, S rav vvv 6Uyoi noiovoi, xt£ (ir/ (ioi vno-  i.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog IlavGavluv    xal jirj pol vitoXa ftp .  Haec est Bodleiani aliorumque  nonnullorum lectio, quam receperunt Bekkerus Slallbuumius, alii.  Vulgo legitur xal Jiu} / iov vito -  \ctfiy, quod unice probans Riik-  kertus : Reposuerunt , inquit, dativum casum recentiores editores omnes , Cuius rei necessita-  tem ego nullam me confiteor  videre . Est enim hyperbaton  pov ad roV Xoyov referendum ,  sicut haud raro Graeci prono-  minis casum obliquum in prin-  cipio ponunt sententiae ita t ut 9  regens vocabulum in fine demum  sequatur. Speciosa hac annotatione cave seduci te patiaris. Non  negamus quidem, pronomina alius-  que generis verba interpositis quibusdam voculis ab iis verbis saepissime seiungi, ad quae proprie pertineant, tenendum autem est,  huiustnodi verborum disiunctio-  nem non admitti a scriptoribus,  nisi ita, ut vi quadam augeatur  vel prbnomen vel aliud quivis  verbum a verbis suis disiunctum.  Igitur nostro loco si scribitur  7 ta\ prj fiov vnoXafty 9 EpvB,i-  jtaxoS xcopipScov tov Xoy ov ,  sententia existit naec ; Ac ne  meam suspicetur Eryximachus orationem ridens, me Pausaniam et Agathonern tangere ; sed hoc  neque potuit neque voluit Aristophanes dicere. .Unice verus  dativus casus est, quem ethicum  grammatici vocant; explicatur is  commodissime hac  I Ne mihi accidat 1   ximaclius orationem meam ridens  suspicetur, me Pausanian! atqae    conversione^  )c, s ut Ery-  Agathonem hic tangere. Exem-  pla dativi ethici Matth. congessit  Gramm. pleu. $. 389. p. 713.   XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stull-  baumius ad Piat. Apol, Socr. p.  31. D.: oxi pot Selov r i xal  Saupdvtov yiyvtrctif o hi) xal  iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf-  \?}ToS dypaxfwtTO , Fischeri an-  notationem laudat hanc, ed. p.  61»: ln:iHU>pcjdu.v est ridere,  notare, nt HopooSeiv et 6ia-  xcoftcaSelv idem valent, quod dux- '  dvp&0r, dUCOTtTElY , X^ £v< x% aiy »  v. Poll> IX. 148. Caussa est,  quia in comoedia vetere vitia  hominum describebantur et ho-  mines quasi notabantur. Quid  igitur de Aristophanico Socrate  iudicabis in Nubibus? Num ibi  vitia hominis sanctissimi notan-  tur? Non credo, neque milii sa-  tisfacit Fischeriana xcopooSetY  verbi explicatio. KopcpdEtv non  eius solum est, qui vitia notat,  sed etiam, qui res serias in ridiculam partem ' interpretatur. Quo consilio ct modo id Aristophanes in Nubibus fecerit, alio loco explicabimus. Nostro autem  loco, quoniam Eryximachus medicus censorem se fore minitatus  erat orationis p. 189. B. , Aristophanes vereri se simulat,  ne forte ea , quae hucusque dicta  essent, in ridiculam partem in-  terpretaretur atque in Pausaniam  Agatlionemque orationem directam  explicaret.   Ida $ plv yap — apjtB-  veS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri- y.ctl Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv , yctg xal ovzot rovzav  Cxvy%uvov6cv ovzeg xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$-  $ivtq , Ityu 8e ovv iycoyE xe.&' citavrav xal dvSgiov xal  yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo yevog tvdcdfiov yivoizo,  ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav zcov auzov  exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81  iovzo agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo  rovzov lyyvzdzco dgiGzov ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8i-  xcov zvyeiv xazci vovv avza xscpvxoxcov. ov 8t) tov ac-  U zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv vfivoifisv "Egcoza , og ev  te tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg zo oIxelov stinae felicitatis integritatisque  participes cssc, id satis spinosum Fortasse alterius figura altero procerior erat, ut ne cogitari  quidem potuisset, alterum alte-  rius partem esse. De altera parte  huius enuntiati xai eldiv d/upu-  TSfJOL Ti)v cpvfSiv afifieveS vario  modo interpretes iudicarnnt. Ba-  stius pro dppeve G scribendum coniecit dfjpevoG , Orellius ad  Isocr, p, 330. loco mederi cen»  suit scriptura afifitvoS kvo G,  Stalihaumius ad h. 1. appevtG  idem esse censet atque dfifievoS  bvuS. Videtur appeveG cum  emphasi positum esse, ut supra  p. 192, A. dvdpeG nomen, Moi-  titiein autem utriusque poetae  notat .Aristophanes, atque ad  porum nomina respicit, ut, cum  Fausaniam et Agathoncm summorum bonorum compotes  atque revera viriles dicat,  3 laixSapivovG rcov dyaSav in-  telligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes, sed elumbes,  «nominatos, enervatos. Probatur haec nostra verborum explicatio  verbis sequeutibus : ei txrekidai-  /tev tov £ parta. Tetigimus hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv 7t apo vrcov. Td  vvv napovra sunt, quae in prae-  senti nostra conditione fieri pos-  sunt, nostraque sunt in potestate. Quum enim illud assequi non  possimus, ut plaue coalescat na-  tura nostra, cum altera nostri parte, sicut omnino in rebus Jiumauis, ita bac quoque iu re optimum illud est habendum, quod  ad idealcm illum, in quo olim  fuimus, statum quam proxime ac-  cedat. Riiclcer.t*   naxa vovv avt gj. Iu per-  multis codicibus pro avrcp legi-  tur avtGJf quae lectio ab iis re-  perta est, qui frustra quaererent,  ad quod avr<o referrent. Sub-  tectum cum alias haud raro oroit--  titur, tum boc loco omissum fa-  cillime feras, quod praecedit : xal  rcov 7caidixoov r gov avrov  2xa6r oG rvx°i A. Cete-  rum xara vovv avrco it. appri-  me respondet nostratium; seiuem  Gesclimack entsprechend, 9   eli ro olxeiov &yoov .  Do thyeiv verbi usu absoluto su-  ctymv, xal ilg *<> bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai,  Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g tvtskfiticcv , xazccdzi/aag  ffflag tlg zt/v doyalav q>vGt,v xal luadfievo g f taxuQwvg  xai evSalfiovag xoiijeau   Cap. XVII. Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog i<su xbqi    Effatos , tMolog »; o Oog,  xaficpdr/dyg avzbv , Tva xal  exaozog (qu, (uxkXov 5e r l  ZaxQa rtjg XolxoI.   pra diximus annot. p. 22. Quid  significet x 6 obedor , frustra io  Ficiui conversione quaeras: dum  in suum igniculum quemque conducit. Recte Schleiermacheras  verba convertit: indem er uns zu  dem verwandten hinfuhrt. Ne  qais autem scribendum censeat  eis Xov olxtiov, quo significen-  tur 7tai8ixd xara rovv izetpv-  : xota : AMANTgenus neutrum seri- 1  ptores adhibere in sententiis»  quae in universam proferantur.   l\7ti8aS jieyltiraS Ttap-  iXBtai — xax a6xr\ daS —  rtoiij 6 ctl. Participium xaxa -  0xr^6aS post iXxiSaS p. 7tapi-  Xtxai ponitor, quia/AjrfdaS’ izap-  &X& eiusdem fere significatus est  atque dtixvvpi , SrjXoGD , quae  verba participium adsciscunt.  Vide de hac verborum structura  Mattii. Gramm. plen. 549*  6. p. 1077. De 7C0iij<Scti aori-  sti infinitivo vide Heindorfium  nd Piat. Phaed. p. 48. , Stall-  baumium ad Piat. Phileb. p. 204«  Ceterum eodem verbo Aristopha-  nes usus est in couditionali enun-  tiato xapexexcu , ypcov «rap-    wgjciQ ovv ISeifotjv Gov, /ii/  zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl  lxdzsQ 0 $ • ’Aya%av yccQ xal E    exo/tivar nt efficacior ev«- derct via conditionis.   ovtoS , ttprj, c v ’Epv£i-  M a X e i d d/jo s XdyoSx. r.X.  Respicit Aristophanes ad verba  p. 189. C. xal fti/r, <« ’Epv£l-  fiaxe — &XXr) y£ it; £r va>  Xiysiv i) y 6v te xal Tlav-  OaviaS ilntnjv. — OvtoS hic  SsixttxiuS positam est. at verba  convertenda sint: Ecce talis  est oratio mea. cfr. Mattii.  Gramm. plen, p. 471. 12. p.  875. 'O ifioi autem cnra vi pro-  nuntiandam est. significat enim :  oratio, quam habere de-  bni.   firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv.  vide annotat, p. 185- "ClSxep —  £8e7/$z/v uov verba spectant ad p, .  189. B. aXXa fu/ fis tpvXazts,  tds iycv ipofjoviiai iccpl xoov.  fieXXdvtwv fyi/ST/iSsd^ai x. t. X,  et p. 19S. B. xai ftij fioi vito-  Xcifl’,1 ’Epv£ifiaxoS xcofttaStiv  roV Xoyov, tvS llaviaviav xal  'jiyaScova Xsyu. De verborum  fidXXov 8s significatu vide an-  uot. p. 15.  Alia neldoftal 601, l'<pij tpavai rov ’Eqv%1(iccxov'  nui j mq uoi 6 loyo s Jjdl ag 9 '?#'?• xal el fir) gwjj-   Seiv Zmjxqutu te xal Aya&ave Seivoig ovdi negl ta  egcotixa, na w av icpoftovfiijv , [i/tj anogydadi loyav Sia    xa\ yap poi 6 \6yoS  yj 8 i gdC i fi fi7j,$7j. Spectant haec  verba ad p. 189. C. idcoS p&vTOt  dv 8oB>xf yoi, a<p?}da> de. Eryximachus igitur vel ipsa Aristo-  phanis oratione pacatus vel motus  verbis Iva xal tgov Xoindov  thiOvdoDjxEv , nolle se iam pro-  mittit iuiuriam sibi illatam p.  189. C. ulscisci. ’Efifij/$?j scri-  pturam quod attinet, vulgo ififii-  $7} legitur, quam formam Butt-  roannns in Gramm. plen. p, 121.  iis scriptoribus tribuendam cen-  set, qui non sint attici. Anno-  tat enim: Aus den Werken alte-  rer Sr.hriftsteller ist diese Form  durch die Autoritiit der Hand-  schrifteu ietzt vielfaltig entfernt.  vide Lob. ad Phryn. p. 447.  Bekk, ad Aesch. 2. 34, 124.  ISicht selten steht sie aber auch  grade in den bessern Ilaud-  schriften.   ei pn} %vvy 8 etv Sei -   voiS ovdiv . Rariore usu dvv-  eLSevai rivi ri ponitur hic pro  uliquid de aliquo scire»  Isocr. Archidam. p. 229. dvvei-  Sozef *A$rjvaioiS IxXiicovdi rrjv  %cdpav vitkp x t}$ ru )v uXX.gov —  i\ev$epiaS. Id. Arcopagit. p.  257* dvvoiSa re r otS xXeltixoiS  avrvv ?padra x a ^P ox) 8iv. Piat.  Phaedon, p. 92. D. lyuid^roiS —  Xoyoifv B,vvoi8a ovdiv a\a?,d-  Civ. Stallb. Alia huius stru-*  cturae exempla Matth. laudat in  Gramm. plen. 548. 2. p. 1075.,  quibus adde, quem Riickertus lo-  cum laudat Piat. Protag, p. $48.    B. aXX* rftoi SiaAeyedSco rj  ehcerao, ori ovx iStlei 8 1 aXi-  yedSai , iva r ovraj ptv rocvta  dvveiSdopev,   prj a.7t o p ?/ d co 6 1 . Coniun-  ctivi modi post praeteritum po-  siti exemplum habes p. 174. A.  fio. ravra 8rj ixaXXGoniddfxyv,  fva — i'co , ad quae verba vide  unnot. p. 16. Nostro loco ar-  tificio quodam dicendi et non  timere se significat Eryximachus,  ne non habeant, quippe maxime  erotici, Socrates et Agatho, quod  dicant , et rursus timere propter  ingentem praecedentium senten-  tiarum a convivis prolatarum co-  piam , ne oratione sua uterque  et philosophus et poeta indigeat,  Possis haec verba etiam hoc mo-  do interpretari: nitvv av £<po~  fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vv-  vl f pi) dicoprfOGo6i, ut magis ad  sententiae efficaciam dicatur scri-  ptor orationem direxisse, quam  ad verborum grammaticam con-  formationem. Eam explicationem  verba, quae insequuntur, probare  videntur vvv 8 ’ op&S Safipai,  Sed non dubito equidem , quin  liaec verba etiam cum priori stru-  turae explicatione conciliari pos-  sint.   naXcdS yap avroS yy co-  ndar, Schleiermacherus verba convertit : l)u hast eben deine Sache gut bestanden. Schult-  liessius: da hast deine Rolle   gliick licii nusgespielt. Ruk-  kertus jtaXaS riihmlich con-  vertendum censet. Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai' vvv df ofiag ^aggco.  Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs TjycovL-  Octt , a ’EQvi-![itt%s. d 6s ytvoio ov vvv lyco dui, fial-  lov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal 'Aya&av drtij, iv  conversione exhibet: strenne  et ipse certasti. Aliud quid So-  crates xa\ds verbo adhibi-  to videtur exprimere voluisse,  quod quid sit, e praecedentibus  et insequentibus facillime colli-  gitur. In praecedentibus enim  Eryximachus vereri se dixerat  summopere, ne non habeant  Socrates et Agatho, quod pro-  ferant, quoniam a plerisque iam  multis modis de Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne non  bene uterque locuturus sit. In  sequentibus Socrates non dubium  est, quin verbis ov vvv lyd  elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov Ido-  jicti x, x. A. ordiuem sedentium  significaverit, quo factum sit, nt  sibi de Erote dicturo nihil, quod  proferret, relictum sit. Sequitur  inde, Socratem Eryximacho non  dixisse: bene enim ipse di-  xisti. Hinc verba ita dispo-  nenda esse censebam : xaXds yap t  (sc. SafifSEi?) avxoS ijydvidai,  G) EpvB,lfiax& h. e. Du kannst  ganz guten Muthes seiu: deine   Rede ist vorviber. Sed scripsisset, si hoc voluisset exprimere.  Flato: xaXds ydp , cj ’EpvB>t-  /iaxe‘ avxoS tjyojvidai. Igitur  nunc xaXaS de tempore acci-  piendum esse autumo, ut idem  haec vox significet atque slS xa-  X6v y de quo diximus annotat, p.  24. Socrates hoc dicit: Du hast  gut von Muth reden, (vide  de supplenda enuntiatione qua-  dam ante ydp particulam quae  annotata sunt p. 14.) zu guter  Zeit hast du deine Rede    gehalten, warest du aher wo  ich ietzt bin oder vielmehr wo  ich nach Agathons Rede sein  werde cet. Ceterum iam supra  sedis inopportunitatem notatam  habes a Socrate p. 177. E. xal  r ot ovx Zdov ylyvExai i)filv  xo'iS vdxdxoiS xaxaxuf.ii.voiS •  «AA* idv ol xpodSev ixavcoS  xal xaXcoS tincodiv . , lUapxi-  Gei 1/f.ilv. Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter interpretari, quum medicus ea intelligi voluit. Dicturus enim erat:  nunc non metuo, ne non habeaut  Socrates et Agatho , quod pro-  ferant. Socrates contra ita re-  spondit, qua^i ille dixis,set: Nunc  mihi securo esse licet, ne, quod  proferam, nOn habeam. Sed so-  lent, qui cum acerbitate loquuntur,  interdum non ad sententias re-  spicere, sed singula verba captare  iisque ad suam sententiam coutorsis responsa accommodare.   el ykvoio , ov vvv  lydi e i fit . Eandem fere sen-  tentiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1.  9. Facile omnes cum valemus  recta consilia aegrotis damas»  Tu si hic sis, aliter cen-  seas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S vide an-  notat. p. 62. Recte ea Stullbau-  mius interpretatur: in summa  consilii inopia, in summo  timore versari. Deinde ev  xal fidXa rarior dicendi formu-  la est, pro consuetiore ev fidXa .  Addiderant interdum veteres seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt tcqs, Sgmg lyco vvv.  (PagfictTTHV fiovAei fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov ’Aya-  ftava, iva Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov ngogSo-  xi av neyukr t v i%uv , tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv  fdvt’ av tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi particulam, qua significarent, cum vi maiore et ev et  puXct pronuntiandum esse. Non  mate Riickertos ad h. 1, Ttai  addito effici censet, ut eadem fere cogitatio bis ad animum af-  feratur. Huic dicendi generi apprime respondet nostratium gat  und g e r r» , quibus verbis utun-  tur, qui animi sui sedulitatem  ostensuri sunt.   cpappatteiv fi ovX st jus.  tpappaxrEiv fascinare significat  herbarum adhibito succo, deiude  etiam de aliis remediis valet, in-  primis autem de magniloquen-  tia, qua aliquis ita sui impos  reddi posse credebatur, ut nihil  eorum, quae vellet, neque facere  posset nec dicere. Sic in Piat.  Phaedon, p. 95. B. legitur: IA  ’ya$l t Utpi/ 6 2?cjHpdxr/S^, pi/  piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia-  < ixaviot 7tfpiTpeip?j rov Xdyov  xov plXXovxa XiysdSai. Cete-  rum nihil aliud voluit Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius locus definiretur, quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud« loquendi  difficultas expendi. Igitur notabis, quain manifesto Plato hic carpit, vanitatem Agathonis verba  Socratica in suam virtutem dicoudique artem directu censentis.   ro Siarpov — ev   £ puvvroS ipov. ro  rpov h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli insolentiam ne mireris, adhibitum est t  Platone, recte monente Wolfio ?  ad h. 1. , ut sceuicum poetam  hic loqni lectores ^oneantur. De  gdS cum genitivo participii con-  iuncto vide anuot. p. 158.   EiiiXi) 6 pcav pkvx* av  siijv. Recte monet Riickertus  ad. h, 1., pivTift interdum nnd  adversandi , sed asseverandi po-  testate adhiberi. Eandem signi-  ficationem xai xoi habet, quod  disiunctim scribendum esse supra  monuimus p. 51. Fortasse etiam  pivxoi, ubi asseverandi vi posi-  tum est, scribendum est piv xoi t  neque dubito, quin Graeci, quos  studiosissimos fuisse constat ver-  borum recte pronuntiandorum,  pronuntiando discreverint •ptvx  dv et piv r* av. 'EitiXijtipeov  verbum quod attinet, senum de-  crepitorum constans epitheton  est, »ut et oblivionis atque ridi-  culae stultitiae significationem  habeat» Schleiermacherus in con-  versione exhibet: Sehr vergess-  lich miisste ich dann sein. Eo-  dem modo Ficinus verba reddi-  dit: Nimis, o Agatlion , oblivio-  sus essem. Neutra nobis ItxiXij-  tipGDV . ^ocis explicatio arridet,  seque tamen facile verbum re-  pertum iri concedimus, quod  ilii vocabnlo satis respondeat.   T7/v 6i) v dv $ p tiav —  dv a fiaiv ov x o S n. x. A.  Laudat hunc locum Mutth. in  Gramm. ampl. J. 466. 1. p. 864.,  t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv avctfialv ovtos hd 11  tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal (tttipavrog  ivcivcla toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav-   um kuyovg, xul ovd’ bnagnovv IxTcXaytvzog , vvv o lr r  Stlrjv oe %oQv(irj9>;OtG&ao evExa i/fubv, oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura Innas structurae ex-  empla congesta sunt. e. c. Arist.  Ach.93. ixuoipeii ye xopaB, itaza-  ZaS tov yt 6 ov (ocpSaXpov')  tov n p i 6 (i e cjS . Ceterum du-  bitari nequit, quin Socrates Aga-  tlionis virtutem animositatemque  praedicet ironia consueta usus;  pauli o infra enim ipsum pugnare  secum ostendit, ut, ni Phaedrus  eius pudori succurrisset, hominem  misere turbatum eiusque animum elatiorem prostratum humi cerneres. Hoc ironiae artificium,  quo eximia laudatio acerrimae  notae praemittitur, videlicet ut  elatiores cadant miserius, ex epi-  corum arte depromptum est, qui  heroum solent, quorum caedes  narranda est, ipsi huic narrationi  summam laudationem virtutis, ma-  gnanimitatis , pulcritudiuis prae-  mittere.   x iitt tov oxpift Civ x a .  Schol. ad h. 1. oxpifiavxa , in-/  quit, r 6 Xoytiov , i<p ov ol  xpaycoSol jjyoovi^ovxo’ tivt ?  Se xiXXifiavxa tpidxeXrj (padiv,  i<p’ ov iCtavxai ol vxoxpixal  xai xa ix peteojpov Xeyovdiv.  Adde Fhotii verba : oxpifiaS ’ to  X oytiov , i<p’ cj ol xpaya)8ol  tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6  tpiXo6o<poS Svpitodioo x£XPV rca  T ai ovopaxi. Timaeus haec ha-  bet : oxpipaS' nijypa to lv xa 5  $e axpeo TiSipevov , iq> 9 ov  idxavto ol xa Sr/podia Ac-  yovteS * SvpiXy yap ovSinos  tjv. Hesychios exhibet; fi&Xtwv    tpavat to Xoytiov , £<p* ov   i&xavxo ol tpaycpSol i/ ol, vno-  xpixoLl ix pexeoSpov xal iXe-  yov.   fiXirJ; avxoS ivavxia to -  6ovtcj $ e at pco . 9 EvavtUt >  fiXiittiv de bellatoribus dicitur, qui intrepidi hostem adventantem intuentur. Pro TOdovTCJ  Searptpy quae plurimorum opti-  morumque codicum lectio est,  vulgo rodovxov Scarpov lege-  batur, id quod in hac loquendi  formula usitatum fuisse Stall-  baumius rectissime negat. Iu  sequentibus davxov A oyovS ne  quis articulum desideret, quem,  si in codicibus exstaret , nemo  non probaret: Socrates hoc dicturas est: iudem du im Bpgriif  standest, eigene Compositioueu  bekaunt zu macheu.  T L Sal. Codicum baud exi-  guus numerus ti Se exhibet.  Multis in locis, nbi xt Sai scri-  ptum reperitur, de lectionis ,ve-  ritate dubitari potest. Nostro  loco nihil certius est, quam tl  Sai bene se habere. Miratur  enim, Riickertus inquit, quem  consentire nobiscum gaudemus,  Agatho Socratis orationem, qui  multitudinis se nimio studio te-  neri insimulet; verissimum au-  tem illud est, quod Stallbaumius  ad Fhilebum p. 6. notavit, xi  Sai locum habere, ubi admiratio quaedam esset exprimenda. Quoniam autem admiratio ulicu-   Ti dal, to ZdxQccTBS, tov 'Aya&avcc <puvca, ov tfij itov  fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts xa\ ayvotlv, oti vovv  i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv (poftlQUtcgoi'  C Ov fiivT av xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj , ol  ’Ayudav , xbqI Oov ti iyd aygoixov do^utuv. ciV.’ tv  olScc , uti, ti tiOiv Iv xv%oig, ovg yy oio Cotp ovg, (idXXov    ins re! hand raro cum quadam  indignatione coniuncta est, quae  e rei alicuius insolentia , quam  dtoniav vocant Graeci, enasci-  tur, zl 8aL plerumque ita exhi-  betur, ut rem aliquam veram esse  neget is, qui illis voculis utatur.  Exemplo est Piat. Gorg. p. 461.  B. zi Sal, 2 cox p dzrj S ; ovzoo   xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs 8o-  B,a?>EiS, &S7tEp vvv XtytiS ;   ov 8 y 7COV/.IEOVTG3 seqq.  Haec est codicum lectio, quam  Themistius confirmare videtur  Orat. XXXVI. p. Sil- B. , qui  nostra verba imitatus est: ov   8r} Ttov pe za Siazpa ovzooS  dyandv i/ysid^E, qjSze ayvotlv,  ozi oXlyoi lyuppovES noXXcov  aqjpuvcjv rc5 A kyovzi cpofjtpcJ-  TEpot . H. Stephanus scribendum  coniecit dv 8? ) itov jxe x. r.  A., quam scripturam verissimam  c«nserem, si iu sequeutibus scriptum exstaret: ozi vovv ^xovxi  oAiyoi itoXX&v (popepootEpoi.  Hidiculum enim foret, si Agatho quaereret de re, quae Socratico dicto pro certa iam posita esset. Dixerat nimirum Socrates, fieri  noa posse, ut Agatho paucorum  homiuum praesentiam extimesceret, cum coram ingenti multitudine animatum se ostenderit at-  que intrepidum. Ad quae verba pessime responderetur ab Aga-  thone: Profecto non ita me spe-  ctatornm applausu elatum indi-  cabis, ut qui nesciam, prudenti    paucorum hominum, quam mul-  titudinis iudicia timenda esse  magis. Additis autem verbi*  ipqypovE? et cttppov av nihil  certius est, quam Platonem ov Srj  itov pE scripsisse. De 5 ? / 7tov  verborum siguificatu vide annot.  p. 98. Verba convertenda sunt:  Da wirst micli doch olTeubac  vvohl nicht so vom Lobe der  Zuscliauer eingenommen halten,  dass ich nicht wusste-, dass das  Urtheil weniger Besonneuer weit  melir zu furchten ist, ais der  Uuverstnnd der Mengef   iCEp\ dov ti iyco. Nota  vim pronominum 1 , quorum ordine hoc exprimitur} de te,  viro tanto tamque insigni ego,  homo vilis. Ceterum Ruckertum  audi, annotantem ad h* 1. : aypoi -  xov. fcSic dedi cum edd. rec.  inde a Wolfio, vehementer licet  dubitans de Grammaticorum illo  praecepto, quod inter aypoixoS  et aypoixoS hoc discrimen poni  iubet, ut dypoixoS eam denotet,  qui rusticis moribus sit, aypoixoS t  qui ruri habitet. Timaens :  dypoixoS dxXrjpoS xal anai**  SevzoS, rj 6 iv aypoi xatoixcov*  Esse accentuum discrimen nolumus negare, sed utrum idem  etiam significationis sit, an po-  tius dialectorum aut aetatum,  dubitamus,   « A A a p?} ovx ovrot  ijpels cjfiev Alio loco di-  cturi sumas de usu prj ov ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv noXlav. ulla f ti? oi% ov-  T 01 tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL TtUofjfltV XCil   jjfuv rdv xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig, xk%  itv alOyvvow avrovg , t” ti 16 cos o toto alaygov ov   noiiiv. rj Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,' cpavca. Tov g   Si xollovg ovx av alo%vvoco , t" rt oioco aldygov D    gationura* Nuperrime de iis egit  Bellermannns ia Commeat, de graeca verborum timendi structura, censetque esse apud Graecos eandem et cavendi et timendi verborum structuram, qua,  quicquid molesti instare sibi arbitrentur, praemissa indicent fxrj  particula, cui alteram insuper  addant negationem ov , si quod  exspectent malum , in eo contineri dicant, quod quid non sit  eventurum. Haec sententia cur  nobis non probetur prorsus, alibi  dicemus. Ad nostrum locum ut  revertar, convivas ex ordine tgov  i/Kppovcov esse, Socrates non ne-  gat quidem disertis verbis, sed vereri se tantummodo ait,  ne non aint tales, quales  esse ab Agathone perhibeantur.   si aWotS ivtvxoiS  doepotS. 2o<poiS nomen a  verbo, ad quod pertinet , sejun-  ctum est, ut sensus sit: si aliis  iidnne sapientibus, de qoo  vernorum dispositione saepius  iam diximus ; vide aunot. p. 59*  p. 129* al. Ne autem scriptum  exspectes pro doq>otS verbo do-  cpGOtepoiS rjfiaov: Socrates et se  et ceteros convivas multitudinis  imprudentiae prorsas aequiparat,  ixl quod etiam colligitur V ver-  bis : 7 plv neti ixel napjj-   fXEV TCCti 7Jfl£V T(OV TtoXkwv*  e£ rt tdeoS oloio al -    dxpor ov rtoieiv. Stallbau-  mius ad hunc locum , non est,  inquit, quod ov participium cum  Astio delendum putes, si quidem  sententia haec est: si quid   facere te putares, quum ta-  men turpe esset , sc. tcoteiv . Participium revera in Stallbauxniana textus recensione omissum  miror. Ceterum ponderosior est  eius explicatio ov participii. Si  abesset, nemo, opinor, id desideraret. Addito eo nihil nisi rei  veritas exprimitur, ut verba con-  vertenda sint: si qnid forte  facere te opineris, quod  revera sit turpe.   na\ tov $ a 18 p o v , £ q> 77 ,  VTtoXafiovx a. Supra iam  dictum est, Agathonem, cum non  haberet, quo se posset Socraticis  retibus extricare, pudore suffusum obmutuisse, Phaedrum autem miserrimae eius conditionis  miseritum , atque ut finis esset  silentii ingratissimi, <pt\e   *Aya$GOV et quae sequuntur verba  protulisse» Ut igitur esset, quo  etiam oculis legentium illa Aga-  thonis reticentia indicaretur, post  aidxpov iroieiv lineolam ponendam curavimus*  lav (X7tOKpivv ^co repa-  ret h, e. si pergas respondere. Amant enim Graeci)  ut vim augeant verborum, ipsa  verba ponere pro eorum infinitivis cum aliquo finito verbo   13 noiiiv; — Kal t dv &aid(>ov I tpr} vitolajiovTa timiv,  r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu  dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv yiyveaftta,  lav fiovov h'%y ora diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii.  iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs d caley ofievov,  dvayxalov de fiot eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za  "Egau, xal uTCodt^aG&ae nag’ evds txuGzov vumv tov coniunctis. Diximus de hoc ge-  nere dicendi in aunot. p. 169«  Sic in Piat. Phaedr. p. 230. A.  legitur axap, <J Ixaipe, petaZv  ta)Y Xdyarv 9 ap* ov rode i\v  tu 8/v6pov , i<p’ uitep yyeS  i)fict9 } quo loco ijyeS cum vi  positum est pro ayeiv IflovXov.  Adde Engelhardtum ad Platonis  Lachetem ed. p. 29* Meus autem Phaedri haec est : Cave   Socrati respondere pergas» nam ubi perrexeris»  nihil ipsius intererit,  quomodo ea, de quibus  dicere constituimus, per-  agantur, dummodo ipse  habeat, quocum colloquatur. Magnam fuisse constat  Socrati aviditatem colloquendi,  quae haud raro apud Platonem  descripta reperitur. cfr. Apol.  Socr. p. 38. A. idv x* av Xiyco 9  oxi xal xvyxavei piyi6xov  dyaSov ov avS pedit (p xovxo,  kxdtixtjf ijpipaS itepl dpexijs  xovS XoyovS noieuSSat xal xcov  dXX cov x . r. A. Adde Phaed.  p. 61. E. xi yap av xi9 xal  Ttoiot dXXo iv r&5 pexpi ijXlov  8v6pdov XP° V( ? 8C * V poSoXo-  ydv te xoCl diadxoiteiv nepl  x. r. A. De more Socratico a^-  tem abeundi a proposito atque  alips ab eo abducendi vidp Piat.  Lachetem p. 187* p. 13* ov poy  foxeif eldiyai , Zxt o? av ly. r    yvxaxa ZEooxpaxovS Xy A oya 9  $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii 8ia -  A eyopevoS xal dyayxrj avx<p 9  idv dpa xal itepl aWov  X ov it potepov d p Ztjx a i  SiaXiyedSai , prj i tavetSSrat  vito xovxov nepiayopevov tg j  A oyaj 9 itplv dv ipnitiy eis x d  didovai itepl avxov Xoyov x,  X. A., ad quem locum vide quae  annotata sunt p. 122.   d AAgj> te xal xaX(S. De  his verbis, quae cave falso interpreteris, vide Commeat» DE SYMPOS. PLATONIS,  xal ano SigatiSai itap*  kvo9 kxatixov. Dixerat Ery-  ximachus p. 177. D. Soxel yap  poi XPV V at adtovijpGov  Xoyov eineiv inaivov ” EpcoxoS  ini SeZtd cj 9 dv bvvrjxai xaX-  Xidxovx. x. A., quod dictum cum probassent convivae ad unum omnes, unumquemque Erotis laudatione habenda obstrictum recte censeas. Igitur non mirum,  quod Phaedrus hoc loco anoSe-  XetiSai verbo utitur; id enipi de  debito accipiendo solenne. Cum  vi autem Phaedrus anodeB,ct-  6$ai et paullo infra anoSovS  verba adhibet , ut commoneatur,  Socrates, super alia re non dis-  putandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta sit.  Apposite Stallbaumius ad h* 1.    «t   Zoyov. dnodoiig ovv txdrtQog ra fhu oikag r\8rj dia-  Zeyc69a. AUm v.ahZg kiyug , d <H>cci8qs, tptcva i rov E  'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu Ztyecv' 2axQuzu yut>  xal av&ig tOxat, nolldxi g &ux).tyt(Sft<u.  ’Eyd de < 5 >} (Sovkoficu tcqwtov (iiv einelv, r) %q>]    laudat Piat. Politic, p. 173* B. xa -  \coS xal xa$ ait e p eI xpz&S  ditidcoxaS poi rov Adyov,  ovtcjS ?/8 7} diaXeye6$a).  Ovzcd haud raro ita in veterum  scriptis positum reperiri, ut ali-  quam conditionem in universum  insigniat verbisque insequentibus  accuratius definiatur, supra indicavimus p, 43Contra ubi accurate descriptae actioni postponitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret atque  inutile, si quis iu universum id  describeret, quod accurate descriptum praemiserit, Aliam igi-  tur vim habet, de qua solertis-  sime, uti solet, disseruit Engel-  hardtus ad Piat. Lachetem ed.  p. 52-: Ovrcj, inquit, repe-  tit notionem participii  tanquam cum sequente  actione (h, 1* SiaAeyetiSai)  caussae, conditionis, rationis ineundae similiqne  notione coniunctam, Exempla si quaeris huius stru-  cturae, cf. Piat, Apol, Socr. p,  29. B. xal ei 8ij ra> (Sopare-  pos rov <pait)V slvat , rovrco dv 9  ori ovk el8coS IxavcoS it epi raiv  iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk  sldivai. Piat. Phaed p, 61. D.  xal apa Asycov ravra xaSrjxe  ra 6xiArf ano rijS xAivrj? iitl  Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ou-  rcoS ?j8?] ra Aonta 8iEAEyEZo>    Piat. Protag, p. 314, C. tv* ovv   pi} drsXifS ysvoiro ( sc, d Ao-  yo?) a A Ad dianepavdpEvot ov-  tgjS’ elsioiptv x. r. A. Piat, do  rep. IX. p. 576. E, xaradvvreS  eis diradav (r rjv itoAiv) xal  iSovref ov ra 8o£av anocpai-  veops^a.   xal ovSiv pe xcdAvei  A kysiv. Atytiv h. 1, est oratio-  nem habere atque deum laudare.  Qui paullo ante obmutuerat, cum,  quod respouderet, non haberet,  nunc eifugiQ opportunissimo usus,  recuperata animi audacia, Socrati, inquit, etiam posthac saepe  erit respondendi facultas,   iycd d £ Si} povAopai*  Queritur in ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante %  se dixerint, non Erotem laudaverint, sed homines felices praedicaverint ob bona, quorum ipsis Eros sit auctor. Omne autem  encoraium' pergit esse debere ita  comparatum, ut priori loco eius  natura describatur, cuius encomium exhibendum sit, posteriori  loco bona commemorentur ^quae  ab illo proficiscantur, His^Pae-  missis ad ipsam dei laudationem  abit, tantosque honores in ipsum  confert, ut in Agathonem potis-  simum verba Socratica directa videantur, quae infra leguntur p.  198. D. r d 81 apa , (sc. rdArj-  $i\ AJysiv x*r. A.) toS ioixev ,  13 *  [is ehtuvy Inuret dnuv . doxovGt, yctQ poi narres oi  nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG vpi&fciv, alXa tovg  av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9 av 6 &ebg « 5 -  tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta edoQrjGazo,  195 ovdelg eX prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog Inaivov  neQi navxog > koyco diekfteiv olog oicov cuuog av xvy-    ov tovto f?v ro xa\ goS litui-  veiv oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi -  6xu dvaxi%Evcti r& npd/jxati  xat oJs’ yidX\.i6xa > lav xe y  ovtoai ix oy xu > Idiv re pr).  Nam beatissimum Erotem vocat  omnium deorum et pulcherrimum  et fortissimum» Haec epitheta  tum ut firmentur, tum ut au-  geantur, alia multa accedant,  quae singula enumerare nunc non  labet. Altera pars orationis, in  qua dei dona recensentur, ita  referta est antithetis aliisque ornamentis orationis, ut Gorgiae discipulum invenili ardore ex-  sultantem facile agnoscas. Ut  autem auditores Aguthonis finita  eius oratione hominem summo-  pere admirati esse narrantur p»  198. A», ita universis Atheniensibus ipse GORGIA acceptissimus  erat atque iucutidissimus, ut teste  OlympiocToro, quem Stallbaumius  laudat ad Piat. GORGIA p, 447» B.  eos dies, quibus artem suam pu-  blice ostentabat spectandam, festos (hopxaS) et orationes ipsas  lampades vocarent. Hoc nomen  quam bene conveniat oppositio-  ni bm^jipepissime repetitis, anti-  thetis Captatis, cincinnis orationis delicatulis, patere opinor.  AapitabeS enim faces intelligun-  tur, quae certis quibusdam festis  diebus per nocturna spatia huc  illuc -circumferebantur. Ut hae  faces in Xa/maSovxiu, quae et  ipsa Xajmds vocabatur et \ujx-    itaSoSpojiia, mox hunc, mox il-  lum locum campi illustrare sole-  bant , ita illis orationis artificiis  adhibitis sententiae oratoris splendidae reddebantur atque luce clariores.   X) XP 7 ? P E eliteiv. Sio editores omnes praeter Ruckcrtum,  qui e codicum plurimorum auctoritate gjS XPV ordinem  verborara recepit. Addit idem,  noo minus recte habere gjS quam  y , utramque enim vocem exhi-  beri, ubi quomodo quid fiat  aut fieri debeat, oblique rogetur. — Interest tamen aliquid,  utrum goS an y posueris. Exem-  plo ut clarior res fiat, y XP V M E  ehteiv est, qua ratione di-  cendum sit 5 verbum autem XP 7 ?  non nisi expletivum est, ut qna  ratione ego debeam dicere  nihil aliud siguificet, quam qua  ratione dicendum sit. Contra  cJs’ XP 7 ? M E eliteiv significo t accentu orationis in scqnens post-  ea? verbum transmisso, quo modo  debeam dicere. Pari modo  explicandus est locus Piat. Eu-  tbypbr. p. 4. E. xuxgoS eiSoreS  ro Seiov as $x El T °v oCiov re  itkpi HCti tov dvo6iov . Adde  Polit, p. 304. E. it o\e prj -   rkov htu6roiS oli av itpoe —  XtopeSa icoXejiEiY» Protag. p.  338. D. 7t£ipado/iai avrcp 6eZ—  B,ai y coi iyoj (pypi XP 7 / ya 1 roxr  ditoxpivopevov <x7toxpive6^at 9  Legg, VI. p. 774. A. in srA eiaa   yavti ntgl ov av 6 ).oyog f/. ovta Stj zov "Egavct xal  Tjfxug Slxaiov htcuviGca ngatov avzov ol6g tGtiv,  Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v &t mv tv-  Satjiov av ovxav "Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1-  ntlv, tvdai[iovtGzazov tlvat «vxav, xaUMixov ovta xal  agiGtov.    ti! av ctnoi nepii ya/uav , ai 5  Xp)} ycepslv. Quibas exemplis  male ita usus est Riickertus, ut  probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y usurpari» Agit  autem nostro loco Agatlio cum  vi de ratione dicendi, ut rectius y scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicatu-  rus est; certa enim quaedam  dicendi ratio non praescripta est  ab iis , qui Erotem laudandum  convivis praeceperunt, Eryximachus et Phaedrus. De HitEiza  verbo praecedente npcoxov jxkv   aAAa xovS av% p(ditov$  ev8ai/. toviZEiv Urgendum  est pronuntiando EvSaipovl^eiv  verbum. Sensus est: Alie, dio  vorher gesprochcn haben, scliei-  nen mir nicht den Gott zu lo-  ben, sondern die Menschen den  Gdttern gleich zu stellen.  Sequentem genitivum casum quod  attinet, notum est, verba, quae  affectum animi exprimant, geui-  tivo casu eas res adiunctas ha-  bere haud raro, quae allectus  caussae nominantur. Laudat  BiickertU8 ad h. 1. Thucyd.  VI. 36. xovS ayykXkovxaS  roiavta xa\ itepupopovS vjiiiz  rtoiovvtaS x i)S ptv zoXprfi ov  $avjidel(*>, xfjS 8$ a&i>vE(jiaSy eI  fxrj olovxai £v8y\oi elvai. Piat.  Crit. p.43- B. itoWdxiS dssvSai -  jxovida tov xpoicov. Adde Piat.  Phaed. p. 68. E. ev8aip.uv yctp    yioi avrjp ifpaiveto — • xal tov  xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A.  Alia huius structurae exempla  Matth. congessit in Gramm. am-  pl. §. 368. p. 681. Plerumque  illo casu ponuntur res inanima-  tae. Dubito, num eadem stru-  ctura usi sint scriptores, ubi ho-  mines affectuum auctores nar-  rantur.   olo i oicjv alxioi <uv,  Frequentissimum hoc genus di-  cendi est, quo adhibito et gravio-  rem reddiderunt et ornatiorem  orationem Graeci. Laudat Stall—  baumius Eurip. Alcest. v. 145.  oiaS oloS dpapxavEiS. Soph.  Trach. v. 1047. olaiS oloS qdv  IXavvEzai . Ceterum ut recte  intelligantnr iCepl icavxuS verba,  mens Agathonis haec est: Iu   quavis laudatione dei liomiuisve  unam tantummodo laudandi ratio-  nem esse, ut explicetur, qualis sit  et quorum bonorum auctor is,  qui laudetur.   ovxcj 8y x ov " Epcota  xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj 8)j xal xov y Epcoxa.  Respicit autem Agatho nunc ma-  gis ad laudandi rationem, quam,  qui ante ipsum locuti sunt, ser»  vaverunt, quam ad rem laudan-  dam. Hinc factum, ut advocato  7 ifxacS pronomine xal cum pro-  nomine, non cum Erotis nemiue  coniungeretur.   svdaipo vkdxaxov stvat   avtGJY . Apud Stobaeum Serm. "Eeu de xaXhdzoe ov toiogSe. xgatov fuv vto-  B taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta loyn av-  %og Ttttgex neu, cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov-    LXI. p. S96., quo loco tota Aga-  thouis oratio repetita est, pro  clvt&v legitur avtov. Sed ni-  hil mutandum est. Stallbaumium  audi haec annotantem ad h. 1. :  Sic avtoS saepius post nomen  substantivum vel pronomen per'  redundantiam quandam infertur.  Infra p. 200. A. XotEpov 6 £pa>S  ixeivov — htiSvpEi avtov. Xe-  noph Cyrop. I. 3 • 15. itEipa -  (Sopaci tcp xditn&, ayaSdjy \n-  ItEGOV xpatuStoS gjv ixXEvS,  advppaxElv avt(£. Ibid. I, 4.  5. al. Ceterum Agatho non  minore, quam Pausanias providentia (v. p. 180. E. InaivEiv  jiEY ovv 6 ei xavxas SeovS) hic  agit Omnes enim deos excepto nullo beatos esse praefatur, dein-  de cautione hac praemissa omnium  beatissimum vOcat, si quidem ita  dicere liceat, Erotem.   VECDtat o S Segdy, gj $ai-  6 pe. Ne mireris, cur Phaedrum  alloquatur Agatho, Erotem deum  nutu minimum dicens: Phaedrus  Erotem iv toti xpsdfivtatov  esse dixerat p. 178. B. Igitur  ad eum potissimum oratio diri-  gitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius paullo  infra poeta iyaj 81, inquit,   8pcp TtoXXd S\Xa opoXoycijv  tovto ovx dpoXoyaj , &s"EpeoS  Kpovov xa\ *Ia7tEtov apxcno-  repoS iotiY, aXXct q)Tjpi veota-  tatov avtov sivai x. t. A.   ep ev y gdy cpvyy ro yy —  p a* h. e. summa conten-  tione, quam fieri potest  maxime, fugiens senectutem. Magnopere augetor no-  tionis alicuius gravius , si dua  verba eiusdem radicis iuxta po-  nuntur, ut hoc factum est nostro  loco. Quae sequuntur verba  taxv ov drjXoYoti — itposkp-  XEtai Bastius delenda censuit  motus, ut videtor, (jctoxla senten-  tiae. Recte autem servantur ab  editoribus, quippe Agathonis in-  genio, apprime convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur,  quam scripturam Stallbaumius ex optimorum codd. auctoritate in  df/XoY otl immutavit. Recepi-  mus nos drjXovoti Buttmanni  iudicium probantes, quod in Indicibus continetur ad Platonis  Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari, inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo  otl vocula sequentibus se adap-  tat, scriptura autem continua ad-  hibetur, ubi pars saltem eorum,  quae ex otl pendent, iam praecessit. Snut vero alia etiam exempla, ubi integra, quae ex ort  particula pendet, f)rj6LS prae-  missa est, ut in fine locatum sit  dtfXoYoti. Legitimam autem esse  etiam ad antiquorum mentem  scripturam coutiouam , inde ap-  paret, quod etiam in structura,  quae fit per accusativum cum  iufinitivo, formula illa servatur,  ubi dissolvi nequit v. c. Alcib.  II. B. tov yap $eqy ovx lav  drjXovuti.   ov8 * ivtoS xoXXov xXtj-  dict%EiY+ Libri ad unum  omnes exhibent ov8 ovtoS xoX-  X ov itX}]6id?,EiY , quam lectionem exstiterunt, qui tueri atque  6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv 7tQogEQ%etat. 8  drj nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov xAt]-  Gux&iv. [iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6 yccQ explicare studerent, Apud Sto-  baeura legitur, ovd’ ivtoS, quod  hodie ab omnibus in verborum  ordinem receptum est, atque  Thucydidis loco confirmatur, qui  Astii industriae debetur, II 77.  EvxoS yap itoAXov x™p{°v  xijS rtoAeuS ovx ijv iteAdtiai.  Ad jtoAAoi; autem nostro loco neque x<&ptov, neque, quod Stall-  baumio placet, dia6xrpiaxoS % supplendum est, licet id in huius-  modi formulis haud raro addi-  tum reperiatur docente Lamb.  Bos. de ElJips» p. 103» seqq ;  non video enim, quid obstet,  quominus neutro genere positum  per se multum spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot  codicibus legitur 7tAT}6id£ei f quod  nullo modo probari potest. Pro-  prie dicendum erat o Si) 7ri<pv -  xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd* iv-  xoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed sn-<  pra iara monuimus saepius, Grae-  cos haud raro, quae per caussae  consequentiaeve particulas proferenda essent proprie, copnla ad-  dita praecedenti actioni annectere,  lam cum mens Agathonis sit*:  quam natura' Eros odit, ut  ne eminus quidem accO-  d a t , patere opinor et odium et  fugam senectutis cx Erotis in-  dole atque natura exaptanda  esse, id quod efficitur itAi/did*-  S,eiv scriptura. Ceterum Stall-  baumius ad li. 1. Ad irArfdid&iVt  inquit, intelligas <xv rc5. Id prae-  ceptum cur improbemus, haud  difficile est ad explicandum. 37A;/-  6id&iv absolute positum est,  prorsus ut nostralpLinT Welches    Eros seiner Nator nach hasst ohne  sich die entfernteste Annalieruag  zu gestatten.   / n   •fiExd dfc vicov dei Hvv-  edti re xal idxiv* Et in  his et in praecedentibus verbis  reddendis negligentissimus fuit  Ficinus: eamque (sc. senectutem)  Amor natura odit fu gitque, iuvenibus vero se miscet. Bastius tautologia offensus verborum  ZvvEdxi re xal Idxiv scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi  x b xal dei idxiv , cuius conjecturae ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quaesita similitudine verba convertit:  Mit der Iugend aber gesellt er  sich und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet :  Pagegen naht er sich (?) der  Iugend und weilet bei ihr. Aliud  quid Agathonem nostris verbis  exprimere voluisse certissimum  est. Laudat Stallbaumius ad h»  1. Fjutarchi locum, quem cum  nostris verbis Wyttenbacliiua  comparavit ad Plut. de Ser. Num.  Vind, p. 5G. > dc Is. et Osir. p.  352. A. nap’ avxij xal pex  ctvxijf orta xai Gvvovxa; quo  docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito interdum  augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil sane  confert. Negamus autem, Grae-  cos ita locutos esse , ut prae-  misso composito verbo simplex  verbum adderent, quod cudi  illo eiusdem actionis no-  tionem describeret» Nos  ellipticam enuntiationem essecen- i  4    iV   xcdaiog luyog tv £%h, ag opoiov opola dcl mXd% u.  iyib SI QfalSga jroAAa ulla bpoloyav rovro ov% opo-  Xoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov dgycaurcQvs ttSuv,  C «A A« qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal dii vtov,    semus, quae hoc modo supplenda  est: pera 81 vicov dei Zvredrl  re xal ael veoS i&tlv h. e. ut  semper cum iuventute est,  ita ipse aeterna iuventute gaudet. Ellipseos similli-  mae exemplum infra habes p.  213. C. oiao& et nS aXXoS ye-  AoioS* l6xi re xal fiovXetai sc.  yeXoloS elvoci. Ceterum cum  hac nostri loci explicatione quam  bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo non videt. Ne autem dubites de verborum  structura pera nvoS Zwelvai,  laudat Stallbaumius ad Piat, dc  rep. V. p. 464. A. ovxovv  per a rovro v rov 8 6 y p a-  r of re xal /)?} paroS iq>a-  fxev &vvaxo Xo vSeiv ras re  ?}8ovaS xal rds XvnaS xoivp,  praeter nostrum locum Piat, de  legg. I. p. 639. C. pera xa-  xcov apxovroov dvvovdav.   opoiov opoicj ael ite-  Xd?,ei. Laudat versiculum Schol.  quo et Plato usus est:  ojS ai e l rov 6 poiov a yez  $eoS coS rov 6 poiov >  quibus verbis haec adduntur:  ini rdSv rovi, tponovS napa-  TtXrjtiicov xal dXXtjXoiS ael 6vv-  diayorreov, iB, 'Opijpov Xafiov-  da r rjv dpxr/v. pipvrjrai 8h  avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi  xal iv 2vpno6ioj, xal Mivav -  8poS 2vwcovUt» Satis nota Tul-  lii conversio est huius proverbii  in libello de Senectute 3. pares  cum paribus ( veteri proverbio )  facillime congregantur.  coS^EpcoS Kpovov xal  9 Ianerov ap^atorepof.  Ridet Agatho allatis Crooi Iape-  tique nominibus Phaedri senten-  tiam censentis, omnium deorum  antiquissimum Erotem esse. Quid  enim antiquius cogitari potest  Iapeto , cuius vetustate Suida et  Ilesychio testibus usi sunt vete-  res ini Siativppcf ) , aut Crono,  h. e. ipso tempore, cuius ille  deus esse putabatur? cfr. Moe-r  ris, quem Stallbaumius laudat, p.  200. 'laneroS' dvrlrov yipojv.  xal TiScovos xal KpovoS ini  rejv yepovrojv,   a*H6io8oSxal Ilappe-  vi8i]S, Stallbaumius ad h. 1.  Nomen, inquit, Parmenidis Astius  mutandum censet in 9 Enipevi8ijS  propterea , quod de theogonia  Parmenidea nihil memoriae tra-  ditum est. Quid vero? si Par-  menides in altera carminis parte,  nunc deperdita, vulgi opiniones  de diis eorumque rebus gestis  exposuerit? Quod si veram esse  ponimus — nam pro vero affir-  mare nemo audeat in tanta cer-  torum testimoniorum penuria —  manifestum est, Agatho-  nem prae nimio doctrinae  ostentandae stadio, quid  inter Hesiodi atque Par-  menidis narrationes in-  'teresset, prorsus non vi-  disse adeoqne nane dis-  simillima temere inter se  confundere ac miscere. Viri doctissimi iudicio adstipu-  Iflnlui Kuckertus et Schleierma-  za. Ss ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi &tov$, a 'Hotodos xal IlaQ-  {lividijg UyovGiv , ’Avayxy xal ovx "Eqcotc ytyovivcu,  d ixdvot d7.rj&f] tktyov. ov yccQ av ixxofia 1 ovdh drti/ioi  uX7.y7.uv lylyvovxo xccl ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d "Eqwg    cheras. Equidem sic statuo:  Parmenidis versiculum esse a  Phaedro laudatum p. 179. B.  praeter Phaedrum etiam alii te-  stantur , v» c. Aristot. Metapli.  1. 4.; quo iure auctorem Empedoclem Goeltliugius narret  ad Hesiodi Theog. v. 120., non  reperio. Ipse autem ille Parmenidis versus, quippe theogouiae  alicuius fragmentum, testis est,  theogoniam Parmenidem conscri-  psisse. Utrumque autem et Hesiodi et Parmenidis versum Phaedrus J*  c. ita laudat, ut quibus probetur,  Erotem deorum antiquissimum  esse , atque pareutibus carere.  Recte ad eam rem probandam versus adhibitos esse, neque, quae  virorum doctorum opinio est,  Hesiodum atque Parmenidem inter se pugnare , supra demon-  stare studuimus annotat, p. 57.  Sed tertiunl est , quod allatis  Hesiodi atque Parmenidis versi-  bus Phaedrus videtur probare vo-  luisse. Cogitasse nimirum cen-  sendus est ita: Nisi indicaturi  fuissent Hesiodus atque Parmenides, omnia, qbaccutique gesta  sint usque a principio rernm,  Erotis auxilio gesta esse, Eroti  non primum in theogonia sua lo-  cum concessissent. Hinc verba  Phaedri recte explicabis : itpE-  OftvxaxoS cor pEyidxcov dya-  Sgov rjylv ccLTioS idxiv. Sed  cani ipse sentiret, antiquis temporibus gesta esse, quae cum Erotis natura ncutiquam conciliari possint, ad bonorum descri-  ptionem subito confugisse videtur , quae ex mutuo amore et  amasio et amatori enascantur*  Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit Phaedri artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo que summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et necessitati, quod fatum interpretari li-  cet, adseribit, quaecunque Homerus et Parmenides e Phaedri certo  sententia per Erotem facta esse  dixerunt. Elliptico igitur dicendi  genere usus est Agatho. Exple-  tior oratio audit: xd itaAata  npdypaxa, d 'HdioSos neti Flap-  jjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi ye-  y ov kv cli , *Avdyxy xal ovx  "Epcoxi yEyovkvai.   e i ixsivoi dXrj^rij ZAe-  yo v. Ficinus verba convertit:  Si modo illi vera narrarunt*  Exhibet Schleiermacherus : wenn  iene anders wahr erzahlt haben.  Iisdem fere verbis Schnlthessius  usus est in Symposii conversione,  quam Orellias denuo edidit p.  100. Dixisset opinor Agatho, si  hoc exprimere voluisset, eI ixsi-  voi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i  div. Quis porro ferat hauc sen-  tentiarum coniuuctionem : vetera  illa facinora Necessitati, non Eroti  patrata suut, si vera illi dixe-  runt. Ut paucis fungar, aliud  quid Agatho dicturus erat, quod  quid sit, quoniam tectius locutu* est atque brevius, interpre-  tes non perspexerunt. Sensus  verborudi hic est: veteres   deorum rixas, quas per  Erotem factas narrant  iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt], tognt Q vvv , tfc ov   "Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo s filv ovv edn, ngog Se ra vtca aitaXog. itoii]-  D tov S’ k'ouv Ivdeijg, olog r t v "Opygog itgog x 6 ImSet^cu  9eov «xcdonjra. "Onijgog yag ”Axi]v &eov te cprfiiv  Hesiodus atque Parmenides, dixissent, opinor , si vera dicere voluissent,  Necessitate non Erote fa-  ctas esse. Noluit autem di-  cere Agatho a — Xiy ov 6tv ,  iXeyov av 'Avayxtj xal ovh  * Epcon yeyovivai, ei aAr/Sr/  iXeyov, ne ter posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret at-  que inelegantior. Possis etiam  lianc primitivam verborum conformationem putare: ra di ita -  Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal  Jlappevi&rjS AeyovtSiv (Epcuri  yeyovivai ) , 5 'Avdyxyf xal ovx  E pari yeyovivcu , ( d ixelvoi  IXeyov av ,) ei dXrjSij iXeyov.   i xx opal ovSh 6 e 6 fio i.  Conferri iubet Stallbaumius ad  li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6. avrol  yap ol avSpanoi tvyxdvovdi  voptiefav teS rov 4 ia zcov Sfoov  dpiorov xal 6ixaiozarov , xal  rovrov dpoXoyovdi rov avrov  itaripa dijdcu, on tovS vieiS  xarimvev ovx iv 6 lxtj, xaxel-  vov ye av rov avrov itaripa  ixrepeiv 8i* irepa roiavra;  his adde, quae paullo infra le-  guntur xal itdXepov apa i/yel  6v elvai rd> dvn iv r ois SeotS  itpoS aXX rjXovS xal iffipaS ye  8eivds xal /xaxaS xal dXXa  roiavra itoXXa, ola Xiyerai re  imo rc5v itoirjx&v x . r. A. cfr.  Hesiod. Theog, 164 seqq.   xoiyjro v 6 * idriv iv -  8 B 7) S x, t* A» Huius looi Terb*    Bekkerns et Stallbaumius ita dis-  posuerunt, ut comma ponerent  post "OpijpoS, Efficitur hac in-  terpunctione , nt arctius coniungantur verba itoirjrov tdnv  iv8et}s itpoS ro imdeiZai $eov  ditaXorifra , quae iunctura sane  molesti quid habet atque spinosi. Ficinus verba convertit:  Opus autem est tali quodam poe-  ta , qualis Homerus exstitit , ad  teneram Amoris mollitiem de-  monstrandam . Sed haec verba  non satis respondent Graecis,  Quis, quaeso, probaret dicendi  genus hofc : Ad demonstrandam dei  mollitiem deus poeta eget, qua-  lis Ilomerus fuit? , Omnis haec  orationis difficultas removetur  commate post "OpijpoS deleto,  posito post ivde )/S, quae verbo-  rum dispositio etiam RLickerto  placuit. Seusus est: Tali autem  poeta Eros eget, qualis Homerus  fdit ad divinam mollitiem describendam. Videtur autem se ipsum  poeta tangere, utpote qui mol-  litie atque teneritate in carminibus componendis ne Homero qui-  dem cedat,   tovS yovv ito8aS av -  TrjSaitaXovS elvai • Ad-  didit hnec verba Agatho, ne quis  aut 1 imprudentia aut fraude fa-  ctum opinetur, ut * Attf ditaXij  dicatur, exemplo allato non nisi  pedum mollities probetur* Fru-  stra Orellius ad Isocr. p. 330. verba TovS yovv — ft alvei cen-  suit expungenda esse. Stallbau-  tlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag Kvvtjs axalovg uvta,  Xiycov   Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap iit’ ovSa  niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret.   KttXta OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpai-  mius ad h. 1. : Ista, Inquit, versuum Homericorum recitatio non  indigna est Agathonis ingenio,  quem iam antea vidimus inani quadam se iactare doctrinae  ubertate atque elegantia. Vide  annotat p. 200. Diximus autem  de hoc versuum recitandorum  more annotat, p. 55. Cete-  ram Homerici versus leguntur II.  XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt  atque exquisita elegantia com-  positi, ita Agathonis ingenio ma-  xime conveniont. Pro ov8eoS f  quae plurimorum codicnm lectio est, apud Homerum ovdtt legi-  tur. Illud eorum sedulitati debetur, qui versuum fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus similiter cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime igitur convenit ovSei lectio nostro loco,  ubi mollissimis versibus allatis  Agathonis ingenium describitur.  Similiter cadeutium versuum exemplum, quod apud Persium legitur , acerbissimum efleminatorum poetarum osorem, hic laudare iuvat petitum e Sat. I. v.  98 seqq.  Torva Mimalloneis implerunt cornna bombis   Et raptum vitulo caput ablatura  superbo  Bassaris , et lyucem Maenas flexura corymbis  Evion ingeminat: reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus praecedit:  Quidnam igitur tenerum, et laxa  cervice legendum  et qui sequuntur:  Haec fierent, si testicnli vena  ulla paterni  Viveret in nobis?   Persii iudicium continent, qnod  idem fuit totius antiquitatis, Alio  loco Persius Sat. I, v. 93. dicit  de enervato aliquo poeta:  Claudere sic versum didicit:  Berecyntius Attin  Et qui caeruleum dirimebat Ne-  rea Delphin   TCal 7}flElS   Riickertus ad h. 1. annotat: Bek-  kerus, Dindorfius , Astius, S tali—  baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j li-  cuit enim hoc quidem Agathoni,  ut semet ipse eohortabundus conianctivum poneret ; at non minus licuit, quid facere vellet, in-  dicare: eodem igitur nos argu-  mento utemur. Et coniunetivo  et futuro uti licet in huiusmodi  dictionibus , neque facile digno-  scas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an futurum  scriptor exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices exhibent,  pauciores sed optimae notae li-  bri futurum habent. Inprimia  codex Bodleianus nominandus est,  ex quo rectissime Stallbaumius  XpTjtiobfieSct in ordinem verbo-  rum recepit. vuv , ou ovx ini OxhjQov fiatvei, aXX ini fiaX&axov.   E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a xcxfit]QCq) mgl  ’ 'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in i  xqaviav, a idxuv ov naw /icdaxa , ctkX’ iv xolg pala-  xaxaxoig xav ovxcov xal ficrivu xal olxu. Iv yaQ xj&cdi  xal xpv%aig ftecov xal av&Qanav x rjv oixyaiv idQvua,  xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig xfn>%aLg, cllV xjtlvl av  OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y , antQXitai , y 8’ av fictka-  xov, olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy  iv /laAaxtoxaxoig xcov (laXaxmaxaxv , anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog (iiv  oini xpaviav, a idxtr  ov naw pa\axa. Hoc  loco confirmatam habes, quod  supra de ov naw vocularum  potestate monuimus p. 79. Nam  prorsus non mollia virorum  capita hic intelligi nullo modo  possunt. Sed et rectius expli-  cata haec verba ita comparata  sunt, ut non possis non mirari  inconstantiam Agathonis , qui  modo laudata Homeri in describenda divina mollitie peritia nunc  eundem corrigit atque capita virorum non admodum  mollia censendo auditorum risui poetam exponit.   r xal ovx av k%i}S, Ficinus  i» convertit : neque tamen in  quibuslibet animis. 'E5)}€  significat continua serie; di-  citur igitur non promiscue  in omnibus animis habitare, sed  selectu facto eas tantummodo  .! sibi eligere , quarum mollis sit  ac tenera indoles.   xal 7todl xal itdrtfl*  Fedum mentio fit propter comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes teneros fe-    8tj lau xal anaXaxaxog'  cit poeta. Riickert. Qnao  sequantur verba, iv paXaxcatd-  toiS tq5v paXaxcotdtcDV , ana -  XcJraroVf ipsius Agathonis mol-  litiem describunt, quae si audi-  ret Persius Flaccus, rursus diceret :  Haec fierent, si testiculi vena ulla  . paterni   Viveret in nobis?   vypoS to eidoS ♦ *TypoS  verbum est latissimae significa-  tionis. Primitus videtur li umi-  dus, madidus significasse.  Qnod autem madidum, idem  etiam lubricum est atque haud  raro splendore quodam insigue*  Hinc apud Homerum sexcenties  legitur vypa xiXevSa, quod non  minus de splendore undarum di-  citur, quam de earnm flexibilita-  te; utramque autem notionem  micandi verbo expresserunt  Latini. Qaarn notionem nostro  loco habeat, e dxXrjpoS nomine  colligitor, quod paullo infra po-  situm illi opponitur. Recte Stall-  baumius monet, vypoS saepe de  rebus lubricis, lentis, flexibilibus,  mollibus dici atqae frequenter ngog is Tovroig vygog ro tISog, ov yag av olog r’  rjv Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg ipv%ijs xai  tigudv to ngcotov Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg yv.  dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag jitya ttxjirjgiov y sv-  C%t]fio6vvt] , o St/ duaptQovrag i» nuvrav djiokoyov-  fiivcog "Egag %%u' a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni ngbq  aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa g 8s xaUog y xar’ av&y  SLaira tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei B  "Egag , ov 8’ av tvav&yg te xai tvuStig zoitog y, Iv-    rav&a xai i£ei xal (i&ve a    ad Amorem transferri. Apposite  Riickertus Piat. Theaet. laudat  p. 162, B. /n) SXxeiy itpos xo  yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta  (h. e. aetate provectiorem atque  corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 }  vecoxipoo re xal vypotipcp ovxi  TCaXaUiv .   6 vppixpov 8 i x&l t5 -  y p aS 18 iaS. Acute vidit Astius,  dvppetpoY referendum esse ad  7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim,  quia potest itav xq itEpiitxvddE -  C$ai, recte dvppsxpoS vocatur.  Itaque ne hic quidem audiendus  est Orellius, qui dvppEXpoS pro  (Svjijiixpov legendum putabat. Aristaenet. I. 1. p. 4. ed. Abr.  ov xcd pivxoi dvppsxpa xal xpv -  pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS  vypo<pvcZs avxtjf XvyiZEdSai  ta odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu.  Stallb. Ficinus habet in con-  versione: aptae vero t compositae  jlexibilisque formae , vitio, ut  videtur, typothetarum. Non du-  bium enim est, quin scripserit:  apte vero compositae et quae  •eqq.   o 8rj diatpepovTGoS Pronomina relativa haud  raro praecedentis nominis , ad  quod grammatice referenda sunt,  genus non sequuntur, ut indice-  tur, nomen collectivum, quod  vocant, ipsum illud nomen esse,  atque complures notiones in so  continere , quae genere neutro  pronominis relativi consummentur. cfr. Matth. Gramm. ampl.  $• 439. p. 820., ubi et noster  locos laudatur, sed addita auto  SiaqjepOYXojS vocula xai t quam  ex optimorum codicum auctori-  tate Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem  prorsus delere Y. D. noluit, quod  vim habeat h. 1., quae ad rem  paene necessaria videatur. Etiam  Bekkerus xai expungendum cu-  ravit, neque idem in Ficini con-  versione expressum est: qua   (sc. figurae concinnitate) Amor  omnium maxime procul dubio decoratus est.  ?/ xax * aY$ij 8 ia ix a. Notabis levitatem argumentabdi,  quasi non cogitari possit, ejun,  qui deformis sit, pulcra amare,  turpia fugere. Respexisse vi-  detur Agatho ad proverbium, quo Cap. XEX.   IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov &bov xal tccvru txavcc,  xal l'rc itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg "Egarog (X£t«  similis simili gaudere dicitur. Verum noti probatur tamen eo, quod  probandum erat hoc loco. Se-  quentia verba quod attinet , ov  6* dv ivavStS te xal evo odtjS  roitot y), ivxavSa xal i£ei xal  pavet, cfr. Soph. Antig. v. 781  seqq. "EpooS dvixaxE pdxctv  *EpcoS y o? Iv xxypadi niitTEiS  o? iv paXaxalS napsialS  r e dy id o S ivvvxzv eiS •  Adde Aristaeueti Platonicorum verborum imitationem II. 1. p.  73. Abr. avavSet yap xal  anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpv-  xe TtpoSulavEiv 6 "EpcoS,   nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita, ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret j quae quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui praeter poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat , sed fortasse nonnisi primis  labris degustaverat. Observes praeterea, quam artificiose Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus retulerit et ut similiter caderent, elaboraverit,  S tali b. otid’ afiixei. Prorsus repugnant haec cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quae apud Sophocl. leguntur in Antig v« 191«    dv xal dtxaiav aShtovS  (ppevaS napadnaS ini Xcofict  dv xal zo6e veixoS dvdpcov  B,vvatpov %x £l S rapd£aS.   ov te y a p avtoZ piet  7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘ Haec verba Schleiermacherus convertit : Denn weder widerfahrt ihm  selbst gewaltsam, weon ihm etwas widerfahrt. In Schulthessii conversione exstat: denu er selbst leidet nie Gewalt, es wi- '  derfalire ihm, was da woile. Ficinus verba interpretatur: non enim ipse vi patitur, si quid  patitur. AvxoS pronomen ita  explicandum est, ut oppositum 1 cogitetur verbo cuidam, quod  nunc non comparet, quoniam structuram verborum, quam in  mente habuisse videtur, Agatho  immutavit. Dicturus videlicet  erat : ovxe yap avxoS pia   na<Sx £l > Xl itddxsi' — ov r*  d A A o s oSxiS ovv pia nadxtt  x. x. A. Structurae verborum ita  mutatae, ut cogitatam structuram singula verba sequantnr,  quae cum structura revera posita  uon satis conveniant, exempla  non rara sunt atque a grammaticis ita explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad verba  directa esse dicantor. Verba  pia icadx^i quod attinet, quaeritur, qui fieri possit, ut aliquis  patiatur aliquid, neque tamen plexv experiatur. TlaSoS enim ne cogitari quidem potest nisi  coniuuctum cum vi quadam ex-  ruvTu Aexteov. to fiiv [ityiOrov, ou "Egag ovt’ dSixEi  • oik’ udixEitai ov&’ imo 9eov ovte &eov, ov&’ vn av-    %QUitov ovte av&Qonov. ovte yaQ avrog (Ua nuOyEi,  si' n ita<S%ET m (ila yaQ "EgaTog ov% uxtetcu ' ovte xouiiv  jtoiEi onag yccQ ixav "Equu ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv C    trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl  contradictio est in adiecto, quam  rocant, quam hic admissam esse ab Agathone admodum dobito. Aliud quid poeta videtur expri-  mere voluisse illis verbis , quod  quid sit » e rectius explicatis et  T i 7tadx £t verbis patebit. Supra  monuimus annotat, p. 169. Grae-  cos haud raro , ubi infinitivus  verbi alicuius ponendus esset  proprie cum finito aliquo verbo  couiunctus, omisso hoc verbo in-  finitivum eo tempore collocare,  quo finitum verbum ponendum  erat. Sic legitur Piat. Alcib. I*  p. 106. c. 7. ovxovv Tctvrct  fiovov oldSa, a netp* aWcov  ipaSeZ rj avtoS i%evpeS , quo loco iam supra monuimus, oidSct  positum esse pro eldevat Af-  yeiS, Eodem modo Agatho nostro loco ad fubulas quasdam  respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et r i itauSx El posuit pro et xi itadxsiv A eye-  rai. Hinc sententia verborum  existithaec: Weder er ist es, der  etwas erleidet, wenn man ge-  xneinlich sagt, dass er etwas erleidet, cett. filet autem positum  est , ut eo 7cddx £iy verbi potestas augeotur, ad utrumque  autem negatio praecedens tanquam ad notionem unam refertur.   ov re itoidov Ttoiel. In  paucis quibusdam codicibus, in  Vindob. uno et Paris, uno itoidov  participium non comparet, hinc Bvickertus ad h. 1.: habet, inquit, primo adspectu speciei non-  nihil haec omissio, quid enim  iucundius procedit, quam haec  oratio: ovte avtoS fila Ttddxsi,  ovte itoiei ? neque tam necessa-  ria est h. 1. conditionis additio,  quam altero iu membro; agere  enim Amorem aliquid nemo du-  bitat, utrum patiatur an minas,  incertum. Attamen non puto  n Platone omissam vocem esse,  sed solam duarum similium viciniam hanc lectionem peperisse. De hoc genera corruptionis  vide quae annotavimus. Praeterea codices nonnulli exhibent ovte filet noiGDV noiei,  quod ab iis additum est, qui  bene sentirent, fila nostro loco  e praecedentibus repetendum esse.  Sed ut clarius videas, fila non  Platonis manum esse, posita vox  est in loco ineptissimo, eodemquo  modo se habet, quasi supra scri-  ptnm exstaret ovte yap avroff  Ttddx&f st Ti fila Tta6x E t*   naS yap kxcov. Si dixis-  set poeta b<Gjy dixovrl ye Sv-  jMp, nemo eius verbis offendere-  tur. 'Exgdv nude positum mul-  torum poetarum de saevitia Amo-  ris querentium refutatur exemplo. Moneo haec, ut habeas,  quorsum referas verba Socrati-  ca p. 198. E. to dpa OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS htOLl   veiv ltiovv y aXXci to coS pe-  yidxa dvctTiSlvcti tgj npdypart  xat oo» HaWtdTUp idv te y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot itoAtag padiAijg vopoc  dlxaia tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg hAeI-  tizyg iitxk%u. ilvai yag opoAoyElzae dGJtpgodvjnj r 6 xgp-  r elv ydovav xal lsu9v(uav 9 "EQCozog $6 [lydsutav ydo-  vi]V xqeizzco uvae. eI 6e ytzovg, xqozolvz’ av vtc "Ego-  rog, 6 de xgaz ot. xgarcov dh ydovtdv xal Irtidv/iuav 6  "Egeog diacpEQovrcog av Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys dv~  D dgsiav "Egooze ovde "Agyg dvftlGrarai. ov yag e%el "Egeor a  * 'Agyg , dAA’ "Egeog "Agtj, 'Atpgodlryg, wg Aoyog. xgeizzcov    ovtajf $xovTO£ f iav re fiTf' el  tpevSrj, ovdtv dp * tjy Ttpay -  pa. Nostro loco Erotis aequi-  tas probanda erat, quod quibus  fieret argumentis, verisne au  falsis, non magnopere curaba-  tur. fn sequentibus verbis d 6 *  dv Ixojy e paucissimorum codi-  cum auctoritate tiS ante kxcov  positum servarunt Bckkerus,  Stallbaumius , alii. Riickertus,  quem secuti sumus, voculam ex-  punxit. Qui factum sit, ut in  ordinem verborum irrepserit, per  ae intelligitur.   ol noXeco? /SadiXijS vd-  poi. Haec Bodleiani codicis  lectio est. Florentini quatnor  fiadiXixrjS habent, vulgo ftadi-  X ilS legitur. Bastius conferri iu-  bet Arist. Rhetor. III. 5-  tqdy ndXecov fiadiAelZ vdpovS.  In Piat. Gorg, p. 484. B. dictum  Pindaricum laudatur: vdpoS 6  ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy te  xal dSavdtGJV.   elvai yap opoXoy eit ai  6<o<p p o dv vt) . In Definitio-  num libello 'Platoni vnlgo ad-  •cripto p. 412. A. legitur: do>-  tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$  irepl tds iv avr?j xata <pvdiv  yiyropevccs &m$vpias te xal    ySovaf. eficep/iodrla xal eu-  taB,ia ipvxyS xpds rds xatei  tpvdiv ijdovd? xal Xviraf. Adde  Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~  vrj dpetr}y 6i' ijv npoS taS 7/<5o-  vaS tov dajpatoS ovta>S %X ov-  diVy goS d vopo£ xeXtvei. Ne-  que aliter monente Stallbanmio  ad h. I. da)(ppodvv7]Y definit ipse  Plato, cfr. Phaedon, p. 68. C.  de rep. IV. p. 431» A.   xpat&v i}8oygjv. Fa-  cta conclusione hac nemo non  videt, in dwtppodvvjjy aperte  illudi ab Agathone, homine hu-  ius virtutis, ut videtur, expertis-  simo eodemque Pausaniae amasio, quem non puduit Xenophonte teste Symp. c. VIII. 32.  dnoXoyeldSai vitep tgjk dxpa-  dia dvyxvXivdovpevcDY. Sed non  dubium est, quin ipse Agatho  behe senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus minimo probatum iri. Ut igitor haberet,  quo posset futurae convivarum  reprehensioni sese subtrahere, in  fine orationis suae haec appo-  suit: ovto? — o nap * ipov   XdyoS — tca 3eoj avaxeioSco,  rd p\v Ttaidids ta 81 ditov -  8ijs petplaS — perlxoJY.   xal pyv - — eZs ye . De    *    /   ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov  &U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv  ovv dixcuoOvvrjg xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov  BiQqtca , TtEQt de Oocpiag teliterai. o6ov ovv dvvcctov ,  nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai TtQwtov pav , iv 9 av xai  iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9 Egvlzt[ia%og rqv  iccvxov , Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai dklov E  %oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai , xuv cl[iov6og $  ro xgiv , ov av "Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug-    Kai fiijv — ye voculis vide an-  notat. p. 64. Patet autem, Ho-  mericam narrationem hic taugi,  quae legitur Odyss. VIII. v, 267»  seqq. Ceterum non opus est,  ut ad A<ppo8ixt 7? nomen , quod  fiaullo infra legitur, nomen ap-  pellativum ipaS suppleatur. Dei  enim nomen saepissime appella-  tivum nomen simul exprimit.  Unum exemplum ut laudem, legitur p. 197. B. o$er 6r) xai  xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv tot  itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi -  vov 8t]\ov ori xaAAovf.   it Etp ariov ptf l\\ei-  7 tEiv. AeiitEiv verbum cum iv  praepositione compositum iis verbis adnumerandum est , quae  amissa vi transitiva non actio-  nem aliquam exprimunt, sed ab-  solutam verbi notionem indicant ;  iXXflitElv icitur idem significat  atque iXXEiieoyra elvai . Hinc  accedente indicio rei, quam ali-  quis praetermittit s. negligit, ge-  nitivus casus exhibetur, non accusativus. Vide , quae de hoc genere verborum diximus p. 87»   tv* av xai iy cJ. Tres  Bekkeri codices exhibent 7va ri  xai iyoo. Non male. Sed nihil   videtur mutandum esse. Etenim    av vocula reiterationem signi-  ficat actionis , quae indicata est  p. 186. B. tva xai TtpEoflevoo-  fiey r tjv xtxvrjv ; xai autem  pronomini additur, ut significan-  tius indicetur, aliquem olim  fuisse, qui idem fecerit. Verum  inest tamen nostro loco, quod  attentiorem lectorem merito of-  fendat. Nimirum notum satis  est atque a nobis commemoratum annotat, p. 5., Graecos scriptores comparationis membra ita exhibere, ut nat iu posteriore  comparationis membro ponant,  quando idem in priore positum  sit, contra id illic omittant, si  in priore comparationis membro  non comparuerit, Iam nostro  loco, quoniam &$7tEp vocula duae  actiones indicantur inter se comparari, Platoni scribeudum erat  vel dicendum Agathoni ex prae-  cepto supra laudato : iv av xai  iyoj t?/V r/jiExspav xix v V y Tl ~  ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS  t 7}v kavxov sc. ixiprjdev. Potuit  etiam hoc modo haec enuntia-  tio proferri : tr * av lyco x tjv  rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS-  7Up 9 Epv£i/j.axoS xtjv kavxov.  Exemplum est xai in compara-  tione dupliciter positi Piat. Phae-  don. p. 64. G. tixiipai 8ij , <3  14    ^ - A xv (fla xofi<S%ai , 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S «yafrog lv xecpcc-  lala ituGciV noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ ng i}  flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv, OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV    ’ya$h , <fav apa xarl 601 E,vv -  doxy , a«rtp wai. i/io/. Alia  huius structurae exempla Stall-  baumius laudat nnnot. ad Piat.  Apol. Socr. p. 22. D. Nam  praeter nostrum locum aliud ex-  emplum apud veteres scriptores  reperiatur, quo in priori compa-  rationis membro xai positum, in  altero omissum sit , vehementer  dnbito.i   ita 5 yovv nonjxifS y i-  yvEtat x. X. A. Audi Stallbau-  mium annotantem ad h. 1.: Al-  ludit iudice Valckenario Diatrib.  in Eorip* Fragm. p. 207* ad  versus Steneboae Euripideae :   iroiTjxtjv 8* dpa.  *EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS y  xo npiv . Quae sequuntur verba, aliquid vitii contraxerant, quod facta verborum incisione duplici optime  sanari videtur. Annotat Stallbaumius : Ne quid desideres in  verbis sequentibus, rtuoav noiy-  6iv X7jv xata povtiixyv arcte  connectas cum ctyaSoS. Perperam  enim in vett. editt. post ayaSof  interpungitur. Addit vero xj)v  naxa jiovdixtjv propterea, quod  deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS la-  tiore sensu de cuiusvis generis  procreatione et generatione dicit. Itaque nunc de poesi, quae  in carminibus pangendis cernitur, cogitari cupiens , commemorat  jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet Schleiermacherus in con-  versione: Uml zucrst nun , damit auch ich uusere Konst ehre,  Vtie Eryximachus die seinige, ist    der Gott so knnstreich (dotpoS  o vxgoS') ais Dichter, dass er  uuch andere dazu macht. Iedcr  wenigstens vrird ein Dichter»  war er auch den Musen frerad vorher , den Eros triilt. Was  wir also wohl koonen ais Be-  weis brauchen dafiir, dass Eros  ein trefdicher Kiinstler ist ( [itotij -  X7/S ayaSoS) iedes hervorzubrin-  geu , was zur Konst der Musea  gehort. Ut Schleiermacherus, ita  ceteri interpretes non satis ac-  curate interpretati sunt verba  docpoS noiyxyS et dyaSoS noiy-  xyS , quorum verborum rectio^  explicatio viam aperit totius loci  rectius explicandi. Eryximachus medicos, ad cuins exemplum Agatho suam artem celebraturas  est, de theoretico et de practico medico {xexyixoS, , iaxpixco-  taxoS et dyaSoS SypiovpyoS)  disseruit p. 186. C. et D, ; vide  annotationem p. 131* Puri modo  nuno Agatho de theoretico et de  practico poeta agit ita, ut docpov  itoltjTljv vocet eum, qui poeticae  artis theoriam calleat, dyc&or  Ttonjtyv practicum* poetam no-  minet. Mens Agathonis igitur  haec est : Die Theorie der Dicht-  kunst liat der Gott so iune, dass  cr auch andere iu Dichtern  macht. Ieder wenigstens wird  ein Dichter , den Eros ergreift»  wenn er vorher der Dichtkunst  auch nocli so fremd war. Quae  sequuntur, revocata post ayaSoS  interpunctione vulgata hoc mo-  do scribenda sunt : co 8y TtpETtEt  ypdS papxvplcp XPV O^ai, oxt  tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv xz~    vSida^nc. xccl [ilv di] zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv 197  rtg lvavtt(i}<Stzai ]iij ov%i "Eqotos tivca 0o<plav, y yiyvt-  zat te xai cpvEzai navza tu £wa; aXka zyv rav zr/vuiv  qraXaioo Ttaticcv xohjdiv , rrjv ,  Tiarcc povdixijv. Sensus est:  Dies raag uns zum Beweise die-  nen, dass Eros practischer Dich-  ter ist, wie iiberhaupt in aller  Kunst, so in der, welche sich  auf Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba Platonis satis recte se habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit ordinem verborum hunc : iv xecpa-  A aleo nadav noitfGiv, xata trjv  /iovtiixijv.   a yap riS i} fi rj 7 )  firj ol 8 ev. Praecedentium ver-  borum explicationi favent ix £ltr  et eidevai verba, quorum alte-  rum ad artis- usum, alterum ad  eius theoriam refertur. Idem ia  sequentia verba cadit didovai et  SiSdtixeiv. Ceterum cavendum  est, ne quis ovre dv praecedente  ovte av minus elegans iudicet  aut rei exprimendae non satis  conveniens , ideoque facillima  litterulae unius mutatione scri-  bat ovre av: frequentissima est,  Stallbaumio annotante ad Plat. Apol. Socr. p. 81, E. in huius-  modi dictionibus dv particulae  repetitio. Sic in Apol. Socr. loco  laudato legitur — ndXai av  anoXdoXr) xal jovt’ dv vfidf  cocptXijHTf ovSev ovr* dv ifiav-  rov. Addit Stallbaumius Piat.  Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61 }  tovro ye, do Saoxpdrrff, coS  ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv r<w  xoiovrco itork, ovr* dv ns Xv-  TtT}. Xenoph. Hier. V. 3 . dvsv  yap tijS tzoXeodS ovr* dv 6qjZs-  6 $ at Svvairo, ovr * av evdai-  ftoveiv .xal p.\v 81} tTfv ye. Pi-  cinus in conversione: Quod uti-  que per Amoris sapientiam ani-  malia cuncta gignautur atque  nascantur, quis dubitet? quod  sane negligentius est interprer  tandi genus, quandoquidem xai  ftlv 87 } — yk vocularum potestas delitescit. Fischerus scribendum censuit xa\ ftijv 6?/,  quae nonnullorum codicum hodie ab omnibus editoribus improbata  lectio est. Kal ftkv 8rj — yk  eadem prorsus potestate adhiberi  videtur atque xal firjv — yk, do  quo vide annotat, p. 64. ; utrum-  que enim ita ponitur , ut commemorari significet, quod aut  praeter exspectationem accidit,  aut quod fidem superat hominum,  aut in rebus summae gravitatis.   aXXa ovx — t dfiev. Le-  nis ironia htiic dicendi generi  inest, quae adhiberi solet, ubi  plane fieri nequit, quin nesciant,  quod nescire confitentur, qui ita  loquuntur. De aitofialveiv verbi  tropico usu vide annot. p, 88.  Aoristicum autem tempus positum  est de re, quam experientia docuit,  cfr. annotat, p, 144. Ceterum  Hesycluus, quem Stallbaumius laudat, habet: tpavov' '(pcorei-  vox xal XafLTCpov . Apte Schlei-  crmucherus: in Ruhm und   Glanz . ' %   r o&ixijv ye ft?}v. ri  particula argumentatioui inservit  ita, ut indicetur, alia multa ex-  empla ailerri posse , sed pauca  nunc sufficere. Diximus de hoc  osu yk particulae anuot, p. 85.   14 *   di/f uovpyluv ovx ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$ 61-  6i«5xcdos ylvrjtai, iXA.6yi(ios xal (pavos axe^rj , ov 6’  av "Epa s (irj iyayrjtai, Gxozuvog ; to\ixi { v ya f irjv  xal latpixrjv xal pavtixqv 'AxoXXaiv uvevpev, ixidv-  (ilas xal "Epotos rjyefiovevGavtos , dgte xal ovtos  Ii "Epotos av iitj (la&tjtris, xal MovOtti fiovGixrjs xal  "HtpaiOtos %«A)££ia:s xal 'Adrjva iOtovpyias xal Ztvg  xvfieQvijGEos &edv te xal avdpdxov. < o&ev 61 ] xal  xatsOxEvdadi] tdv de ov tu xpayiiata "Epotos eyye-    et p. 1S6, In seqnentibns ma.  iuscula littera scribendum curavimus Erotis nomen , ut alibi  saepe, nal enim h. 1* explica-  ti vum est, de quo vide anuot»  p. ISO. p. 132. «1, De ijyti-  <53«i , verbi absoluto usu supra  dictum est annot» p. 59.   nal Movtiai ftovdinr,^.  Magnopere in explicanda horum verborum structura interpretes se torserunt. Astius eam ita expe-  dire studuit, ut nominativos ca-  sus ad avevpev referendos censeret et ad pc&rjxijS av ebj,  genitivos autem casus e verbis  imSvplaS nal "EpootoS ijyepo-  vavdavxoS e praecedentibus repetendis exaptaret. Annotat Riickertus ad h. 1. : Simplicissimum  hoc esse videtur, ut proxime  praecedens membrum GdfXB —  fiotSrjTTjs plane negligi in seqq»  dicamus et quasi in’ parenthesi  positam, de reliquis autem sic  statuamus, sensisse Agatliouem, AMOREM illum, quo duce Apolli-  nem dixisset artium inventorem  exstitisse, non esse alius rei,  quam ideae artis , apud mentem  couceptae et spectatae; quum igitur dicendum esset Mov6ai  pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys-    povev6avroS 9 quia povtiinrjS ille  AMOR esset , contrahentem omnia  haec, quae plene posuisset de  Apolline, unum in membrum,  subiectum posuisse, omisisse praedicatum ex superioribus repetendum, suo cum accusativo supplapdo illo ex genitivo, quem  apposuit, quique ab ’'Epa>Ti  aptus est, quod et ipsum supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus mente repe-  tendum censet * EpcotoS av elrj-  xSotv paSrjxai , ut genitivi pov-  6ixi}S , goAxela? cet, a nomine  jia^rftai peodeant. — Et Astii  et Riickerti contortior est expli-  candi ratio. Quam Stallbaumius  laudat, ea proxime ad verum ac-  cedit» Nollem autem, genitivos  jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum pa-  Srftai coniungendos ceosiiisset.  Nihil certius est, quam pov6i -  HfjS ceterosque genitivos ab Ero-  tis nomine regi , quod in verbis  supplendis "EpaxoS av elrj6av  pa% 7 }Tcti continetur. Musica au-  tem ut xoB,vnr} 9 laxpinr}, pccvxi -  Tcrf . inventa est imSvpiaS nal  * EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S f  iaxpintjf, cet.) rjyepovEvtiavxoS.  Ut igitur Apollo, illarum inventor  artium, paSijXrfi vocatur Erotis,  ita Musae , musicae artis inven-    tSTMnomoN.   vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx l'm-  driv "Egeas- n go xov 61 , togjr tg tv cegxfi tinov , jroA-  la xal duva fnois lylyvsto , tog Uyttai , dia rfjv rrjs  'Avceyxrjg pcctidttciV Inudi) 6’ 6 &eo$ ovtog %<pv,   ex rov igccv zav xcdeav navi’ aya&ct yiyove xal C  ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu, <J  6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi-   «jtos fj.tr et rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ai-  nos elvai.    trice», hoc loco diicipulae vo-  cantor "Epatot /jovOixfjS , Vul-  canus discipulus EpGaTOS X a ^-~  xelaS x. r. A.   xa i -ZevS xi ipepvg tSea>S.  Mira lioc loco codicum varietas  repentur, cuius originem caus-  samque frustra quaesivi. Unde-  cim libri Bekkeri exhibent: HV-  fispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS , tres  alii apud eundem HvfiEpvdv xa  habent, in uno xvfitpvwv repentur.   xqdy S ecvv xa itpaypa-  x a. Iutelliguntur rixae illae, quarum iam supra Agatlio mentionem fecit p. 195. C. : xa S\  TtaXaia npaypaxa nepl ScovSf  et quae paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat Stiva   StolS iyiyvEXO. In sequentibus  "EpooxoS iyyevopivov Sijlov art  TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum habes, ut simul appellativi nominis potestatem ob-  tineat. Hinc xff AAouf geni-  tivum explicabis.  aldx Y*P ovh iite-   (St iv *EpoS . In Basii, uno legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus  Paris, paucissimique ulii libri exhibent idtiv ; Porsonius Advers.  p, 58. tvi scribendum coniecit,    qua coniectnra facile caremus.  Ut supra dicitur p, 195. U. ovh  ini dnXrjpov fialvEi aAA Ini  paXSaHoi ), ita quidni hoc loco  dicatur: aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius, qui  collitis verbis p. 201. A. al -  6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf scri-  bendum esse ceusuit aXdxovS  ydp ovh Idxiv "Epcof.   JlpdjxoS avxoS «jv ndX-  \ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila mihi videtur , o  Ehacdre , AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque esse, Legisse igitur videtur npcZzov  pro npoozoS. Illud etiam apud  Stobaeum reperitur, atque WolHo  adeo placuit, ut in ordinem verborum recipiendum duceret. Fru-  stra. Agathonis mens haec est:  Ante natum Erotem pulcrum non  erat; ille omnibus et diis et hominibus pulcritudinis auctor; ipsuna  igitur deum prius, quam omnes,  alios, pulcherrimum et optimum  fuisse necesse est: nam quae   quis ipse nou liabet, alii haud  facile largiatur (vide p, 196.  E. fin.)   iitlpxeta* V 01 k' *•   «ubit me dicere, valetque  IxipXitiSai de ea memoria, quam  no« verbo unwillkuhrlich  ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv, ott, ov-  zog bsziv o xoicSv  elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh yaXrjvrjv,  vrjvepiav dvifjoov xoizrjv , vicvov z’ ivi xijdeu    insignimus. Ceteram nt versas  p. 195. D. ita laudati sunt, ut  sua mollitie, quae cum in ipsorum  verborum placidissimo quasi flumine, tum in finibus similiter cadentibus conspicitur, Agathonis  ingenium ad mollitiem proclire depingant, ita nostri loci versus  non dubium est, quin habeant in  se, quo Agatho notetur. De qua  re nemodum' interpretum quic-  quam annotavit. Notatur autem,  •i quid video, in bis versibus  artificium, quo siugula verba  carundem litterarum repetitione  iuter se comparantur. Sic  pijvrjv ykv iv av $ p QJitoiS  positum ita habes, ut inverso  ordine, quae litterae in verbo  eipijvrjv continentur p et r,  easdem habeas in dv^JScoiCoiS  nomine positas; idem cadit in  sequentia verba iceXdtyst 81 ya -  %l}vijv. Idem artificium in verbis VTjvepiav dvejiGDY conspicitur, sed auctius et clarius,  quod verba sunt eiusdem radicis.  Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3  ivi xr\8ei dicamus, in quibus videmur equidem nobis aliquid vitii deprehendisse. Lectio vulgata ivi jajSei a Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum recepta est , ac Stall-  bauraius quidem ivlxijSei ita ex-  plicat, ut esse dicat iv zols xtj-  dopevoiS, Accuratius opinor verba  ivi XjjSei explicantur zt6lv ivi  xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive  illam explicationem probes, certum hoc est, hominum, maris, ventorumque praecedente men-  tione non bene commemorari  zovS x?]8o/.iivov£ s. zivds iv  xrj8ei 6vraS t et cum eipijvrjv iv  dv$poJ7toiS non aliter intelligi  possit, quam iv xijfiop.lv oiS, hoc  loco iv x?j8ei admodum friget. Ac  ne quis cum Stallbaumio censeat,  non offensurum ess^ queroquam  iu sententiae ratione parum di-  ligenter expressa, qui meminerit,  Agathonem hos versiculos ludere  a Platone iussum esse , ut sibi  ipse quasi illuderet: alio loco de  consilio Platouis dicemus, excusationem autem Stallbaumianam  quod attinet, vide, ne probata  ea, ne manifestissimum qui-  dem in huiuscemodi versiculis  vitium mutando tollere possis.  Quicquid euim vitiosum ibi deprehenditur, poetae, non scribarum negligeritiae vel ignorationi  imputabitur. Magna autem est in codicibus varietas lectionis.  Ero vicvov Z 3 ivi xi/Sei Vindob.  unus habet vicvov ze vtxrj8et .  Quatuor Flor, aliique non pauci  vicvov ze vrfxijSij s. vicvov ze-  vijxi]8ij exhibent. Hinc variae  doctorum hominum coniecturae.  Dindorfius scribendum censuit:   vijve/dav dvipoiS , xoiry  vicvov vrpoj8ij.   quae coniectura verissime mo-  nente Stallbaumio propter zi alie-  no loco positum improbanda est.  Vix commemorandum Bastii commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt,  Ficinus, quem veram Platonis mu-  ovtos ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D  fia nJrjQol, rag TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag  u&tlg £vvi tvai, iv toQTatg , Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~  yvojuvog rjyifiav ’ jrpaorijra [ilv x oql^ov , aygwTTjra  nam habuisse suspicor, versiculos sic convertit: qui pacem lar-  gitur hominibus, qui mari tran-  quillitatem, qui ventis requiem,  cubile viventibus omnium-  que ( Stallbaumius somnum-  que rectissime censuit legendum)  securum. Viventibus autem verbo adhibito animalia,  ut videtur, exprimere voluit, quae  videtur et ipse Agatho in mente  habuisse, sed more poetarum ad-  hibito unius animalis nomine expressisse, ad quod nomen reperien-  dum ultro duxit TteXayovS com-  memoratio. Scripsit enim Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t  Ut autem melius intelligas, quam  facile xtftEi in xijSst mutari po-  tuerit: Hesychius xijtei affert   pro dTEprjdEif iprjpla, dicens  xrjroS esse non solum «Snr-  \ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed  etiam ait o piar . Iam aliquis olim Platonis commentator non  indoctus, cum xjjtEi de fero marino  non intelligi posse opinaretur,  dc ait opia verbum dictum intellexit, atque, ut intelligentiae  faciliori versiculorum consuleret,  xffiEi scripsit. Ut autem praecedentia verba earundem littera-  rum reiteratione inter se compa-  rantur, ita nunc Sioiirjv et xrjTEt  eodem ornatu gaudent.  raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S  fitz* aWijXtoy, His verbis  conventus significantur similes A-  gatlionis convivio. Ilinc uiiuus accurate legitur iu, Schulthessii    conversione p. 105: indem er  manclierlei Vereine und Zusam-  menkiinfte stiftet. Schleiennacherus verba convertit: Und dieser eben entlediget uns dea  Fremdartigen und sattiget uns  mit dem Angehorigen, indem er  nur solclie Vereinigungen uns  unter einander anordnet cet. Non  reddidit V. D. itddaS vocem, quae  et nobis molesta est. Si quid  video , vitium liis verbis iuest,  quae hoc modo emendari videntur: raS toiasSs gvvodovS juet'  d\Xi}Acjy narras ti$e\s B,vv-  ikvai. Ne quis autem hanc scripturam iusto audaciorem censeat,  facile fieri potuit, ut scribarum  aliquis, cum praecederet feminini  generis substantivum, ad id dirigendum censeret itavraS ver-  bum , idque in itatiaS mutaret.  Sensus est: Hic solitudinem a  nobis cohibet, familiaritatis stu-  dio nos implet, quippe huiusce-  modi conventibus omnes inter se  conciliari iubens. Quae sequun-  tur nopi^Go^, i&opiZooy partici-  pia optime a Schleiermachero  conversa sunt : Mildheit dabei  verleihend, Wildheit aber zer-  streuend. Captat enim Agatho  et hoc loco et in sequentibus syl-  labarnm similes sonos.   qn\o 8 <n p oS ev psr siaS  x. r. A. Haec verborum structu-  ra , rarior apud prosae orationis  scriptores, propria est tragicorum  poetarum , vide Matth. Gramm.  ampl. §. 339. p. 647. ubi prae-  ter alia laudantur Soph. Oed. C.  6’ 1!-oqI%cov' (pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit-   vsictg’ iliag dyaSolg , Statos 6oq>oT§, ayaot og Seoig'  iijXatos dfiOiQOts, xtrjtos tVfioiQOig ‘ TQVcprjs, afigo-   TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv, IflSQOV, XO&OV JtaTlJjJ ’ SJU,    677 . drrfve/tos xbcvtwy xafiaj-  rcav, Eurip. Med, 671. ovx  idjuby evvrjs &%vysS yapjjXiov.  Eur. Phocn. 834. axex\oS (poc-  pioov .   fAsca? ayctSotS. Consen-  tiant codices in scriptura! quam FICINO in conver-  sione expressit: propitias , be-  neficus, spectandas sapienti-  bus. Sed nemo non videt, aya -  2uS scriptura probata singaloram  huius enuntiati memborum concinnitatem turbari, qaam studiose ab Agathone quaesitam esse  supra annotavimus. Rursam igitur exemplum habes corruptelae,  quae omnium codicam consensa  tuetur. Apud Stobaeum ayc&o~i$  legitur, quod primas recepit Wol-  fias , quem ceteri editores secuti  sunt. Mollities, de-  liciae. Derivatum nomen est  a #1 /m verbo, calore solvo,  mollio, deliciis frango.  Stallb. Timaeus habet Lex.  V. P1 . x A 1 8 V * ZxXvdif yal  paXocxUx. tiprytai 8 e arro  rov IxkictvSai a6$tvzia xov  Sepjiov, ad quae verba vi-  de annotationem Ruhnkenii p,  176 .   i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy lv  Tioyco x. t . A. Magno iugenii  acumine de his verbis egit Schu-  tsias in Ltct. Platon. Specitn. I.  p. 4. Quam ibi verborum emeodationem profert, quamquam ut  eliis, ita nobis minas probatur, tamen ita egit V. D. , ut non  sine fructu et delectatioue lectorum eius dissertatio repeti videatur. Sententiarum, inquit, iuter  se relatarum oppositionem tur-  batam esse, nullo negotio perspicitur. Primum enim inter nova  et A oyoj prorsus nulla est relatio, quae inter (poficp et noSw  satis clara intercedit , deinde qnorsnm omnino hic iy A oyco  pertineat, aut quam vim habeat,  intelligi vix potest; denique quatuor illi nominativi xvfiepvijrrji,  imfiaTTji , napadrdtrff xai deo-  rijp quomodo ad quatuor dati-  vos iv itovGO, iy <pofiax y iv no *  £ca, iv A oyoj referantur, ut sin-  gula singulis ad sententiam re-  spondeant, haud apparet. Itaque  cum vix credibile ait, Agath^uis  operam in concinnitate senten-  tiarum assectanda positam extrema in parte claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic  turbata esse arbitamur. Ut paucis defungamur, ita nobis Plato videtur scripsisse : iv (poficp, iy  itoScpy iy itovep, iv poyoo, xv-  fispvT/T inifjdxifi , Ttapadra-  rrjS xcci 6cor ijp dpi6roS . Iam  primum totam imaginem e re  nautica petitam esse existimamus.  Nautis eoim saepe timor nau-  fragii, desiderium terrae, 1 a-  bor in difficultate navigandi,  aerumna nauseantibus, fame  periclitantibus , cum tempestati-  bus conllictantibus accidere solet. In timore igitur illo quid  guberuatore, in desiderio t  fitXfjS aya&av , dfieAys xaxcov' iv nova , iv (popa,  iv no&to , iv Aoyta xv^egvi/ttfg , inifiarijs , n«QaOta- e  zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc, gvfindvrav ts %ciav xal  dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal cptSroff. a quid socio itineris et comite ( irtifidry ) , in labore  quid auxiliatore (xapadxdxp) in aerumua quid s os p i t a t o r e  (Gartij pt) optabilius? Haec igitur officia uuum Amorem omnia  praestare amantibus docet. Deinde  hac unius litterae mutatione unius-  que vocabuli transpositione hoc  efficitur, ut 'singula singulis ad amussim respondeant. Ut enim  iv q>of$Gp ad malorum, sic iv arJ-  ad bonorum exspectationem  refertur; ut itovoS molestiam iu  agendo, sic poyoS molestiam in patiendo designat; tandem xu-  fiepv?jtrj3 ad tpuflov, ixifiarijS  ad noSov ( quis enim flagrantis  desiderii sensum melirfs lenire  possit, qnam socias itineris, qoi-  cam colloqueudo horas tardius euntes fallere possis?) itapadtd-  T rjS ad icovoVf similitudine a remigantibus ducta, deniqne 6co-  rr/p ad poyov aptissime refertur.  Haec Schutzii ingeniosa et periucunda explicatio ideo non pro-  banda est, quod codicum lectioni  adversatur, quae et ipsa com-  mode explicari potest. Neque tamen Asthma verborum explicatio placet , quam Stallbaumio  probari video. Censet nimirum  Astius, Xdyov h. 1. bene habere,  quod nouuisi inanes verborum  similitudines Agatho quaesiverit;  ad negamus nos, quamvis o* fxv-  $oS ICqd^tj , o XdyoS djtajXeto  apnd Platonem saepe reperiatnr.  Verba iv ito vgj , iv iv   xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta sunt, affectusqne ama-  torum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS potestate fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO conspecto; tpo-  ftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS sibi  praeripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A J-»  yoS confabulandi cum AMASIO  potestatem quaesitam describit.  Atque A ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros  dicitur, ut qui ilumen orationis  largiatur idque ad optatum finem  dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa  audit, quod cupienti se adiungit,  itapadrdrrjS iv <p 6(i& , quid si-  gnificet, sponte intelligitur, dc u-  x ifp autem iv itovcp nc quis  opiuetur non recte dicr: periret  amans, nisi Eros accederet ani-  mosque ac spem potiundi amasii  adderet»   eu XPV Sittd&ott. Haec,  est codicum plurimorum lectio.  Vulgo dei tnedSai exhibetur.  Recte illud recentiores editores  probarunt. Non enim de ne-  cessitate quadam hic sermo est,  quam propter non possit nou sequi, quisquis est humana condi-  tione natus , sed de lege agitur,  quem quisque ipse sibi imponere  debeat. Vide de 6el et XPV ver-  borum significata auuot. p. 12»  Recte verba Ficinus convertit:  quem profecto sectari debet  praeclarisque hymnis venerari vir  quisque cantilenae illius parti-   %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk itpvjivovvxcc xakag, xalrjg  adi]s jiBxejjovta , ijv i xSet ndvxav &tav te   xal dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij , o jt ag’ ifiov /16-  yog , (o 0c/.l8qb , x aj &eoi dvuxu6&(j , xd jj.lv ■ itat-  8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,  jiixlxav.   Cap. XX.   8 Efot&v tog de xov Ayd&avo g nuvxug l'<pt] 6 ’Aql-   exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg tcuqov xag, wg icqizov-  ceps, qaam Amor ipse concinit,  mentem deorum horainumque per-  mulcens. — KaXijS post xaXojS  positam permulti codices non  habent. Potuit facillime, cum  praecedat xaXdoS, scribarum in-  curia vel addi vel omitti xaXijS,  ln textum id receperunt Bekke-  rus et Stallbanmius,. Astius scri-  bendum censnit xf/S a o8?jS /iexe-  Xovta y Orellius scribere maluit  nati rfjS oodijs /iexExovxa y Rii-  ckertus verbum uncis inclusit*  Sed neque uncis opus est, ne-  que mutatione verbi. — ‘7fv  ^stXyoov pro rjr ddcov SeAysi  positum est, de qua verborum  structura vide Indices.   ta /ilv itaiSiaS. Si quae-  ris, quo consilio haec verba ab Agathone proferautur, vide an-  notat. p. 208.   dv aS o pv firj <3 av. Prorsus  eodem modo in Piat. Protag. p.  334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc  avxov ol TCapovxeS aveS opvfSij-  oav goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nu-  dus optativus, ita nostro loco  genitivus participii opinionem ex-  primit eorum, qui magno cum  clamore exsurrexisse narrantur,  vide annot. p. 158.    fiXlty avxa EiS xov *Epv~  Zipaxov. cfr. p. 198. E.   7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV ^GJTfpdxEl   xe xal ’Ayd3covi dtivols ov6i  TtEp\ xd ipcorixd. , itdvv av  i(poftov/i7jv, /n) aitopi}<5<M)6i Ao'-  ycov 8ta rti noXAd xal itavxo-  Sana eipt/CSai, vvv o/igdS  $a fi ad quae verba Socratis allocutio nunc refertur.   aSs^S TtaXai 8ioS 5«-  'SiEVai. Suid. laudatus a Stall-  baumio habet T. I. p. 48. ddtlS  8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov n £oxi  ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov -  /livcov. JldXai exprimendae  praeteriti temporis notioni ita  inservit, st cum perfecto tem-  pore coniunctum plusquamperfecti  temporis notiouem efficiat, quae  cum praesente tempore aliquam  habeat couiuuctionem : Nuni   frustra metus, quem ha-  beo, fuerat meus? Conve-  nit cum hac notione Ammonii  explicatio 8eoS verbi: AeqS xal  q)6(ioS 8ia<pipet. AioS /itv ydp  i axi ito\i>xpovioS xaxov vico-  voia , cpufioS 6 i i} napavxixa  7CX07}6iS , 8io7tep t Hpo8oxoS iv  xy xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS xe  xal 8eoS. Contra nbi cum praesente tempore naXai coniongi-  .  rmg tov vsavtOxov ilgrjxoTog xal ctvtcS xal r<u &Ba.  Tov ovv 22axQa.Tr) ilntiv (iAhparna tlg tov 'Egv^ifia-  %ov , ’Aga Ool Soxa , (pa vca , a nal ’Axov(tevov , adiig  ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag, « vvv 8rj £Ae-  yov , ilrtstv , ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya 8’  dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai tov Egvli)ia%ov,  HavrLxdg Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv Igel'  to di oi ajioQijOuv , ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B  ' tlntlv tov 22axQurr), ov gula ctxogeiv xal lya xal  aAAog ogugovv, fitAAav Ai\uv gixd xaAov xal nuv to-  tar, perfecti notio efficitur, at  in Piat. Apol. Socr. p. 18. B.  ipov yap itoXXol xaTt/yopoi  yeyovatit itpds vpd$, xal nd-  Xai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv  dXrj^tS XiyovreS , quo loco iza-  Xai XiyovxeS idem est atque ei -  prjxoreS . Noluit autem ipsum  perfecti temporis participium ex-  hibere Plato, ut significantius  et praesenti hora accusatores me-  ras nugas proferre dicantur atque  credularum anicularum inanes su-  surrationes. vide aonot. p. 107 Ceterum schol. ad h. 1. habet:  dSete 8iof M tav rd prj a%ia  tpofiov SeSioxuv. opoiov xovxo  xal to ijtofpoberjs avSpconos.   d vvv 81 } iXeyov . Nvv  8 r} saepissime a librariis confun-  ditur, neque pauci loci exstant,  ubi pro vvv 8 tj scriptum repe-  ritur 6j} vvv , et pro 8 rf vvv  vice versa vvv 8 f\. Utraque  verborum compositio propriam  potestatem habet , ac 8 ?) vvv  quidem in adhortatioue soleune,  atque nostratium also nun  apprime respondet, aut ad rem  praesenti tempore notissimam refertur cfr. p. 191. A. o 8 /} vvv  optpaXov xaXovOiv p. 191* B. I   o St} vvv yvvaixa xaXovpev,  Nvv 81 } autem de tempore ac-  cipiendum est, ut signiheet nunc  igitur. Vide Boechhiuui ad Piat.  Min. p. 90. et Stallbaumium ad  Piat. Phileb. p. 105 seqq.   on 'AydScov $ av pa-  ti t cos ipoi. V ulgo legitur ipei,  quod ferri nequit propter inse-  quentem modum optativum; ac-  cedit huc Bodleiani aliorumque  optimae notae codicum auctoritas,  qui ipoi optativum repraeaen-  taut. In sequentibus dnopijtiai-  pi vulgo edebatur. Recte Bek-  kerus, Stallbaumius , alii , futu-  rum in ordinem verborum rece-  perant. ,   xal Tt&Sj cJ paxdpie .  Kat h. 1. mere expletivam est,  de quo vide annot. p. 6. p. 38.  ai. — MaxapioS nomen quod  attinet, haud raro apud Platouem  ita reperitur, ut blaudae appella-  tioni exprimendae inserviat. Inter-  dum id apud eundem, docente Stall-  baumio ad Piat, de rep. I. p. 335.  E., ad ingenii sapicutiaeque prae-  stantiam refertur, cfr. Piat. Me-  non* p. 70. B. xlvSwsvcj tioi  Soxeiv paxapioS xiS elvai ,  dpextjv yovy f site SiSaxrov,    t  Sccnbv ovto Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla* ovy  ouolcog &avpcc<5Tu; zb de In l zetevzijg zov xaXXovg    fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai ,  eidevat. Adde Piat. Menex. p.  249. D. M. N?) Ai ' , cj 2d-  ■xpaxeS , paxaplav ye A eyeiS  ttjv 'A6na6i(xv , ei yvm) ov6a  toiovtovS A oyovS oia z' l6x\  6vvri%ivai.   xal rtOLvroS artov ovxcj.  Apud Bckkerum legitur pera  xa\ov ovxco xal 7tavxo8ait6v  A. /5» Uterque verborum ordo  codicum non paucorum auctoritate nititur» Equidem non du-  bito, quin ovxco vocem ei verbo  Plato apposuerit, quod maiora  cum vi pronuntiandum est; igi-  tur 7tavxo8a7tuv ovxco in ver-  borum ordinem recepi. Recte  autem Stallbaumius ad verba xal  TtavroSartov ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem quippe quae videatur omnia attigisse et percurrisse,  quae ad laudem Amoris pertineant»   xa\ xa p\v aWa ovx  6 poicoS $ av pa6x a\ Sic  Beltkeriis et Stallbanmius omisso  piv] quod post opoicoS in omni-  bus fere codicibus reperitur.  lliickertus ad li. 1.: Habet sane,  inquit, quod mireris, piv parti-  cula in eodem orationis membro repetita. Attamen hoc ipsum  cautionem imponit critico, cni  nihil magis est mctnendnm, quam  ne librariorum vel grammaticorum' correcturas in textam reci-  piat. Quos quum multa hic  illic correxisse constet ex iis li-  bris , in quibus ipsa correctoris  manus cernitur, quid est magis  consentaneum, quam iis quoque  in locis, ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non agnoscat,  omissionem ab antiquiore critico  institutam in libros receutiores  receptam esse. Quam ob rem,  ut ratio reddi nullo modo possit repetitionis, servandam tamen  particulam equidem existimo. Sed vide, an possit sic defendi, ut prius pev membrorum oppositioni , alterum sententiae inservire dicas; et cetera quidem,  non sunt illa quidem similiter admirauda. — Si  recte Riickertura intellexi , eius  explicandi ratio nullo modo pro-  bari potest; non perspicio enim,  quomodo membrorum oppositio  non item sententiae oppositio esse  possit. Ceterum exempla non-  nulla laudavi supra ( cfr. annot.  p. 21. et p. 216.), quibus pro-  batur, interdum falsum esse, quod  omnium codicum consensu con-  iirmetur. Nostro loco duo Bek-  keri codices piv post opoicoS  positum omittant, ex quorum au-  ctoritate id recte omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum  male post SavpaOxa punctum  ponitur. Schleiermacherus verba  convertit : und wemi auch das  Uebrige wol liiclit alles eben so  bewundcrnswerth gewesen ist;  aber die Schonlieit der Worter  und Redcnsarten am Ende, wel-  cher Horer ist nicht- uber diese  erstaunt? Haec quamquam cum  oratione Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitope-  rium continent prioris partis orationis, praeter consuetudinem Socraticam sunt, de qua vide an-  not. p. 191 Signo interrogandi  post $avpa6xa posito locus sanatur. Sensus est : Et cetera qui-   tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av it-utXcc ytf  axovav; ixu syays Iv Sv[iovjisvog , on avios ov% ol6$   dem nnm non pari modo praestantissima sunt?   to Sh iitl xrjXevti) S rov  ndXXov 5 . Haec verba Riickcrtns ita explicat, utro' de vocu-  las censeat cum sequeDte rov  xdXXovf genitivo arctius cooiun-  geudas esse. Addit idem, genitivum nominis alicuius coniunctiim cnm nominativo articuli  genere neutro positi prorsus non  differre ab ipso nomine, quod  cum suo articulo exhibeatur;  perinde igitur esse, utrum to  rov xaX XovS, an to xdX-  XoS scribatur. Idem praeceptum  Matthiaeus dedit in Gramm.  ampl. 285. p. 574., quod ta- ,  men neutiquam probari potest.  Nominis periphrasis effecta illa  per articulum neutro genere positum semper aliquam nominis  adjuncti conditionem indicat, quae  e verborum contextu facillime  eruitur. Posses igitur nostro  loco, y scriptor ro' 6e tov xaX-  XovS arctius coniungi voluisset,  verba convertere l Vim autem  pulcritudinis et verborum et di-  ctionum cet. Non aliter, quam  Riickertus , verba converterant  Schleiermacberus in conversione  p. 427. et Schulthessius p. 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est,  to 61 irci t eXevTrjS ita positum esse, at, cum praecedentia  verba Ta plv dXXa reliquam ab  initio orationem denotent, hoc  nihil aliud denotet, qqam: verba  posita sub finem orationis» Tov  xaXXovS autem genitivus e verbo  oi^enXdytf pendet, de quo genere  structurae vide annotat, p. 197»  et Matth. Gramm. ampl. $. 868.  p. 681« Sensas est; Quod autem verbaattinet snb finem orationis posita, quis  pulcritudinis verborum  dictionumqne non summa  admiratione tenebatur  audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens , quo Agatbonis  audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum in-  dicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo  est, quod animi commotio maior,  ut subitanea , ita fugitiva est,  non dnrans, ut iam praeterierit  necesse sit eo tempore, quo qnis  eius mentionem facit. Perfectura  tempus infra babes«p» 211. D ,  ad quem locum vide annotat.   T&v ovopaxcov xa\ farf-  p d T os v . * Ptjpctxa sententiae '   sunt, ovopata singula verba»  Hinc Eryximachus non singala  Heracliti verba, sed integram  sententiam vituperans male ver-  bis expressam p. 187. A. dicit J  coSTtep tdcoS xal 'JIpdxXeiTof ftov -  Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}-  padiv ov xaXwS Xeyei. Infra  legitur p. 221. E. Toiavxet icotl  ovo pax a. xal fjTjpara i&<vBev  itepiapnix°vTai x. r. X. Adde  Piat. Apol. Socr. p. 17. H. ov  pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp-   vaioi, xexaXXieTtrfpkvovS ye Ao-  yovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa-  6 i Te xal ovopadiv ovde xe-  xodprjpevovS x. T. A. Piat. Cra-  tyl. p. 899. A. — otov 4il  < piXoS * tovto iv a avzl fiijpa-  r oS ovopa rjpiv yhnjrai, ro te  Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper  x. t. A.   ixel iycoye ivBvpov -  psvoS x. r, A. Pe ixei vocis  C t’ iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v%  a.ia%vvr/g oXlyov dxoSgdg cjj%6fit/v , sl xr/ tl%ov. xal  yuQ f ib Togylov 6 loyog dvE(ii(ivt]6xsv, agtE drejrvag  rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj' i<fojioi\u>]v , fit/ /ioi xiktv-   caussali. potestate atque de eias  origine supra diximus annotat. p.  151. Ad verba, quae sequuntur,  oXlyov dnobpaS qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat; ne  quis scribendum suspicetur oXi-  * yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en ~  tenti a verborum haec est : ego  prae pudore paene aufugeram, siqua potuissem.  Vide praeterea annotationem  p. 159.   et ny elxov. Vulgo legi-  tur 71 oi pro ny» Hoc optimi  plurimique codices praebent* At-  que videtur, Riickertus inquit,  ny etiam verius est; non tam  enim , quem in locum fugeret,  curandum Socrati fuerat, quam  quae fugiendi ratio et via esset,  possetue an non. Utrumque  licet, sententiam si spectas, in ser-  mone familiari, et locum, quem  versus aliquis fugam parat, et  rationem , qua fugi possit , sine  maguo sententiae discrimine commemorare, neque nostratium vitu-  peraretur, qui diceret: ich war  schon halb auf der Fiucht, vrenn  ich nur wusste, wohin aut wenit  ich nur wusste, wie. Sed araatrt '  Graeci, ut supra indicavimus an-  notat. p. 28., verba motum in  aliquem locum significantia cum  quietis notione coniuugere; hinc  non dubium est, praesertim cum  codd. optimi, quorum in nume-  ro Bodieiunus est, ny exhibeant,  quin Plato Ttoi non exhibue-  rit, Ceterum dnodidpatixeiv ver-  bum de servis soleune, qui,    quod hero debent, id non sol-  vunt aufugientes. Debent autem  hero servitium. Apte igitur ano-  6 paS h. 1. Socrates dicit, quod  claucnlum aufugiendo, quam pro-  miserit, non praestiturus esset  Erotis laudationem.   xal ydp pe Topy io v o  XoyoS. Gorgiae Leontini ce-  leberrimi sophistae et dicendi  magistri illius aetatis, cuius omne  artificium in verborum ornatu et  magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide an-  notat, p. 196 ) constabat, id quod  abunde discimus ex Phaedro Pla-  tonis. Duae declamationes, quae  eius nomine feruntur, Helenae en-  comium et Palamedis defensio  quibus de coussis suspectae fidei  habeantur, nescio ; id scio, pro-  prietatem Gorgianae eloquentiae  in iis reperiri. Riickert* cfr.  Pliilostratus de Vit. Sophist. I.  xat 'AyaScov dt 6 rijs tpaya)-  6 iaS noitjzi}s , ov 77 xoipcpSla  Cotpdv re 71 al xaXXienij olde ,  noAXaxov tg5v lapfieicjv yop -  yidZei.   in enbvSrq * Hanc formam  Atticis usitatam cum parum no-  tum habuissent librarii, factum,  est , nt saepe mutarent. Vulgo  legitur InenovSeiv. Bodleianus  codex inenovSet exhibet, cfr.  Matth. Gramm, ampl. J. 198. 4.  p. 360 Buttmanni Gramm. uropl.  T. I. p. 432. Rem extra dubita-  tionem ponit Eustathius ad Ilom.  Odyss. p. 1946. ed Rom., quem  Stallbaumius laudat: napaStdcodi  ydp 'HpaxXeidTjS , ori 'AttihoI tcov 6 'Aya&cov rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp  Xoyca ini rov iftov koyov nipt^ocg ccvtov pe At&ov ty  atpavl-a itomtius. xal ivsvorjOa tote aget xocrayii.a<5rog  coV, 7 jvlxu ifiLV cS [toAoyovv iv rui pigti pE&’ vp& v    tOVS TOlOVtOVt V7tEp6wte\lXOVi   iv rui ijra povcp icepazov6iv f  TfSrj Aiyovzef xal ivero/fxrf   XoA i 7t£7COirfX7f HOLI OVZGD   tprjoi llavaizios ex £ tv ypet-  tpaS Ttapa IlXdzoavi' xal &ov-  xi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov -  zrp *Aztix<j) cfr. Stallbau-   mius ad Piat, de rep. I. p. 329*  B. ubi eadem eiusdem verbi forma in omnibus fere codicibus depravata reperitur.in ijC£7t6v$£iY,  Fopyiov he < p aXtjv 8et-   v o v Kiytiv . Annotant interpretes , ad Homeri Odyss. A.  632. respici, ubi haec leguntur:   ’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i,  'Mt/ poi ropyeujv HEtpaXrjv 6ci-   VOIO TtEXttpQV.   *E% at8ov 7tijitl>£i£v ayavrj Il£p -  de<p6v£ia.   Gorgus adspecto capite mortales  in lapides mutari , veterum opi-  nio erat» Iam vide, quam lepide  Socrates in Gorgiae Gorgusque  nominibus lusit. Tanquam conspecto Gorgus capite, audita Agathonis oratione, ue in lapidem  mutaretur h. e» lapidis instar  avavSoZ sederet, veritum se esse  dicit. Ceterum quod apud Ho-  merum est 8£ivolo neAcopov  nunc satis festive Seivov Aiyeiv  dicitur adhaerente notione mon-  struosae dictiouis.   ini rov ipov A oyov.  AoyoS hoc loco orationem significat, quam Socrates habiturus  est ; igitur verba convertenda  sunt : io faturam orationem meam.    Rependit autem Socrates satis  festive, quae ab Agathone dicta  erant p. 194. A, qtappdxzeiv   fiovA-El /i£, cJ StOXpaztS —  Uva $opvfiri$(Z. — Pro A faov  zy atpcovia consuetius dicendi  genus est p?) — pl dfpaovov noi -  rjCEitv aSTTEp A i$ov, sed multo  lepidius est atque praecedenti  comparationi convenientius Ai$ov  zy dgxovia.  xal iv ev 6 t} 6 a zoze apa  xazayiAadxoS gjv, Aoristicum tempus positum habes  tempore praecedente imperfecto,  ut momentanea actio a durtua  discernatur, de quo significatu  temporum vide annot. p. 36.  xaxayekadxoS nominis siguifi-  catum supra tetigimus annot. p»  148. Ceterum cave zoze cum  iv£vo7fda coniuugendum censeas,  pertinet enim ad sequentia verba  tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum laudare  promiserit. "£lv imperfecti par*  ticipium est : oratio enim recta  audiret: zoze apa xazay iAatfzoS  7)V i/vixa x. z. A. Respicit autem  Socrates ad p. 177. D. ovSeiS doi,  gj *Epv£,lpaxe, — ivavzia  < pielxai . oirze ydp av itov iyoo  (iizoLpaidaipt , o£ ovdiv cptpit  «AAo InidxadSai i) za ipeo-  zixd x . r. A.   iv reo pipet pe$’ vpdSv.  Socrates sibi ridiculus videri  sc simulat, non tam , quod Ero-  tem laudare promiserit , quam  quod iis promiserit, quibus nemo  elegautiorem et pulcriorem Ero-   D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota xctl l(pr\v ilvcti dsivos tu  iCQOtuccc , ovdlv Side os cepa tov npciy fiatos, os edsi  iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas (S(i?]v  detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9  nat tovio (ilv vitdp%eiv , avxdv 81 xovxov tu xaU.i-  <Sza ixktyo(iivovs &s evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv    tis laudationem exhibere possit.  Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv roa  fxipEi vficjv, quo facto   ironiae acerbitas incredibiliter  angetur. Quae sequuntor verba  .xai tcpr\v eivai betvoS xd ipeo»  nxd non satis cum Socratico  dicto p. 179. D. conveniunt. Mo-  destius euim illic Socrates locu-  tus est. Ne mireris igitur, quid  sit, quod vehementius Socrates  hic t se vituperet : omne vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint, coram Socrate, homine maxime erotico,  rerum eroticarum imperitiam suam  pro sapientia vendidisse.   iyd p\v ydp vn* dfte A-  repiaS x. r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse,  qui de Erote verba fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio  Bodleiani codicis lectio est aliorumque plurimorum librorum.  Riickertus non nisi in Bodleiano,  Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\-  tepiaS reperiri annotat. Iloc  certum est, codices permultos  afiefarjpiaS praebere, quae lectio  unde originem duxerit, haud dif-"  ficile est ad explicandum. Li-  brarii enim cura non ad etymo-  logiam respicerent df\eX.TEpia  nominis , sed ad analogiam vo -  cabulorum in ?jpta desinentium,  ad dfieXxrjpia lormam recipien-  dam proclives erant.    KEp\ kxccOxov rov IYt  xcj yidS,oy iv ov. Ficinushaec  verba convertit: Putabam equi-  dem ob ruditatem meam, do  quocunque quod lauda-  tur a nobis, vera oportere re-  ferri; quod si verbis exprimere  voluisset Plato , scripsisset haud  dubie o iyx&judZExai. Schlei-  ermacherus exhibet in conver-  sione; Ich duchte namlich in  meiuer Einfalt, man miisse die  Wahrheit sagen in iedem  Stiick von dem zd preis senden, quam conversionem  verborum nemo facile probaverit*  Kiickertus idem esse contendit  Zxatixov x o iyxa>yiaZ6j.ievov 'at-  que xo ael iyxa>/ucu}6y£vov f sed  exemplis hic loquendi usus pro-  bandas erat, quod V. D. facere  omisit. Vulgo legitur : Ttipi Ixa -  <Sx ov xoov lyxooptctZofiivGDv,  quae lectio Schleiermacliero pla-  cuisse videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni  TCepl bcatixov xov iyxGopiaZo-  flivov explicari posse diffiderent.  Scripsit fortasse Plato : TCepzkxd-  Otov iyxG>yta£o/i£rov h. e. de  omni re, si laudatur; fortas-  se etiam verba xov iyxGDj.uaZo pi-  vov glossema sunt, quo facillime,  si abesset, careremus. Nam cum  praecedat ovbtv eISgjS dpa xov  itpdyyaxoS , cJ? ibtt iyHGoyid-  ?,Elv oxiovVf satis patere opinor,  izepl kxaoxov per se positum  rem laudandam significare. dfj (ieya IqiQovovv m$ tv Iq<ov, wg flStd g ti/v  ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de ccqb, cog Houctv, 01J  tovxo rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog (ii- E  yufxa uvaxitiivtu xa Ttodyuait, xal d>s xedhaxet , iav  xe y ovxag £%ovxa iav xe (irj. ei Se 4>tvSij, ovSiv «p’  tjv XQayfia. XQOv^Qtjdy yaQ, mg foexev, uxiog exuOtog    xal tovto fitv vnap-  XBtv, Bastius paru*n perspe-  cta VTtapxetv verbi potestate 7tal  tovto npdotov pkv rei pkyiStov  fikv vnapx&y scribendum cou-  iecit. Frustra. Rectissime Stall-  baumius xal tovto plv vnap -  inquit, est: et hoc de-  bere orationi subiectum  esse argumentum. Nam  verissime Scbneiderus ad Xe-  noph. Oecon. XXL 11. vnap -  X&iy dicuntur a Platone quae-  c ungue fundamenti loco adesse  debent , ubi quis quid exsequi vo-  luerit,   to SI a, pa, cjsHoihev,  ov tovto 7/r x, t. A. De xo  6 k vocularum significatione vide  annotat, p. 111. Adde Stall-  banmium ad Flat. Apol. S. p.  23. A. " Apa conclnsivae notionis  particula hoc loco ironiae augen-  dae inservit. Praeteritum tem-  pus falsam opinionem aut spem  fuisse indicat, quam aliquis olim  susceperit atque per aliquod tem-  plis veram habuerit. Utuntur  autem hac formula satis cum do-  lore aut acrimonia ii, quos even-  tus docuit, aliter atque antea  putaverint, rem se habere. Eo-  dem modo paullo infra legitur p. 199. A. aAAa ydp iyco ovx  ydij apa tov tpoxov tov inai-  •vov x . T. A. Egit de hoc ge-  nere dicendi Stallbaumius ad Piat.  Phaed. p* 68. B., ibique Home-  rum laudat, Odyss. XVI, v. 418,    'Avtlvo', vfipiv £x gdv * xaxopkj-  Xav&, xal 61 6k tpa6iv  iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ * optjXixtxS  ippev' dpidtov   fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 * ovx  apa toios hjdSa.   Pro irpporfccto interdum in hoc  dicendi genere praesens tempus  reperitur, v. c. in Piat. Gorg.  p. 469- E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj  pkv navtES av pkya Svvaivto ,   IkeI xav ipnpjjdSEirj olxla rod-  tqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do - /   xrjy xal ta yE 'ASrjvaicov vsa-  pia xat rpii/pEiS xal ta nXoia  navta xal ta drjpotiia xal xd  idta. aAA’ ovx apa rovt*  l6ti xd pkya Svva6$ai, to not -  eiv d Soxei avtqj, DiiTert a  praeteriti praesentis temporis usus  ita, ut illo posito evento aliquis  indicet se edoctum esse, rem aliter se habere, atque olim existi-  maverit , praesente autem tempore indicatur, indicare aliquem  ita, ut iudicium eius adhuc uoa  probatum sit eventu.   aAAa to goS pkyitira  avatiSkv ai t& npdypa -  ti. *Avaxi$kvai verbum solenne  est de donis, quae diis ab homi-  nibus consecrantur» Idem etiam eum significatum habet, quo ali-  quis alicui aliquid attribuere di-  citor. Neutra verbi notio ad  nostrum locum satis quadrat.  Nimirum ironia consueta Socra-  tes usus et pietatem d£ia diis   15  ijfiwv xbv "Eqcotu lyxauiateiv dot-ei, oi>% ortas lyxa-  (uaGtxai. 8ia xavxa 8i), olfiat, rtavxa kbyov xivovv-  xcg avati&exs xa "Epazi, xal ycczt avxbv xoiovxov rs  109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai tbg xak-  liOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam et mentientium  impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni verbum, quod  utramque notionem exprimat; nam  quod mihi nunc in mentem ve-  nit, aufhiingen, de fore suspen-  dendo intelligas facilius , quam  de corouis, quibus templorum  parietes exornabant veteres. Sed  pone, vernaculum illud Graecorum verbo dvaxpEfxairvvvai ap-  prime respondere, alteram notionem adde, qua dicimus : i e -  mandem etwasaufhiingen, et expressum habebis avariSi-  vai verbum. In Latina liugua verbum est, quod Graecorum verbo ad unguem respondeat:  imponere alicui aliquid»   iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoi-  xtv. Socrates ex orationibus,  quae hucusque habitae erant,  conclusionem facit ad Eryximachi medici voluntatem p. 177. D» , eiusque verba ita interpre-  tatur, ut non veram Erotis lau-  dationem, sed arbitrariam, hoc  est, vel veram vel falsam lauda-  tionem exegerit. Hinc verba explicabis coS UotxsVf quae ita pro-  feruntur a Socrate, ut ad con-  vivarum orationes respici signi-  ficetur. Sensus est: Deun die  Aufgabe war, wie aus den ge-  haltenen Hedeu crhellt cet.   iy xoo fiiaZeiv 8o%ei t  ovx 0 7tQ3s: iyxooj^iiddETat.  Fiemus baec verba convertit :  Nihil ‘fenim referre, faisaue an    vera sint, cum propositum sit, non quomodo Amor ipse  laudetur, immo ut quisque AMOREM laudare quam  maxime videatur. Indicativo futuri rei veritas indicatur, quae arbitrio opponitur, quo quis Erotem laudandum censent,  Paullo obscurius Socrates loquitar. Verborum sensus hic esso videtur: Convivas non Erotem, sed se ipsos landasse ita, ut suam sententiam de Erote laudando maxime celebraverint»   xavxa Xoyov xivo-vv-  xeS avaxiSe te x &"Ep gdxi.  Ruckertus ad h. 1. XoyoS 9 in-  quit, utrumque significat, oratio-  nem et orationis materiam, xt-  veiv Xoyov , excitare sermonem  vel excitare, de quo dicatur»  Hinc sensus est, nihil, quod dici  possit ullo modoy praetermittitis, quin AMORI tribuatis. IldvTot  Xoyov xiveiv neque de ora-  tione neque de materie orationis  accipiendum est, sed de genere  dicendi ac de modo res animo concipiendi; verba converterim: iedo mogliche Rede- und Be- trachtoqgsweise auwenden. cfr.  Piat, Phileb. p. 15. -E. o 8 l  xpcotov avrov yevodpevoS hxd-  dTOTE XGOV VECJV tfd$ElS ttfS* XlYCt  dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>*  ijSovrjG ivBovdia te xal xavxa  mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat.  Theaet. p. 163. A * tovxov *a-  ptv td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg ye e16o6l xal xctAag y'  £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk ydq  figet rov x qotcov xov BTtctLVOv , ovd’ eidas vfilv c o^oAo-  yijtia otul ainog iv % c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta  ovv viti6%ETO , fi (pgqv ov. drj. ov yitQ    ra ijiivrjdctjJTjv . Piat. de re pub.  V. p. 450. A. o6ov Aoyov ita-  Aiv, QjSXEp apxy$> xivsixe  zepl rijs noAixtlaS. Ad ava-  tLSeze cogitando repetendum cen-  aet Riickertus navia A ayov vel  supplendum avxov , quod ad  jtavxa Aoyov referatur. Frustra,  *Avazi%kvai hoc loco absolate  positum est, ut idem sit atquo  txvd%i6iv itoeltiSat.   t oiovtov xe elv cti xa\  r o 6ovx av ah iov . His ver-  bis indefinite positis et natura  Erotis et utilitas dei vario modo in convivarum orationibus descriptae insigniuntur. Igitur roiov-  tov talem significat, qualis a  convivis diversis modis descriptus  est, lodovicjv talium auctorem  tantorumque, qualium et quantorum auctorem illi Erotem praedicaverunt.   xal xaAas y * $\eix. r.A,  Eadem fere ironia Socrates utitur in Plat. Apol. Socr. p. 20.  C. xai iyco i ov Eutfvov ipa-  xdpitfa, ei aS aArjS&S lx £l  T<xvrr,v xifv xix v V y Ka ' L °vxcjS  cpptXdii 8i8a6xei. lyd yovv  noti avios ixaAAvvo/njv te xa\  JjftpVV OflTfV <XV y eI 7/7tl(jxdp7fY  xavra * «AA* ov ydp initira-  / tat , ($ uvdpES ’A$rjvdioi. Cave  igitur, serio dicta censeas verba  xdi xaAd>S y ’ tx £L tepraf  o Zrt aivoS.   a A A d ydp iydf. Duae co-  gitationes insunt in sequentibus :    Promisi me verba facturum esso  de Erote ; Ignaras eram rectao  laudandi rationis, quam vos se-  cuti estis. Ad olterum cogitatio-  nem yap refertur, ud alteram  aAAd. Huiusmodi cogitatione*  quoniam saepius in nna enuntia-  tione comprehenduntur, aAAd  ydp haud raro coninnctum reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1-  dtuS' Latine expressum audit r Sed  enim ego non noveram buuc modum laudationis, non scieus autem vobis promisi, ut ceteri,  ita et ego ipse dei laudationem. Positum igitur habes ovd’ ei-  do oS pro ovk e16gj£ 86. Effici-  tur autem illa scriptura, ut accentus orationis , proprie in ovh  lidcoS 8i ponendus , in sequens  finitum verbum transeat.   ?} y A arra ovv v it e 6 x £ -  to, 7 ) 8 fe tppTrjv ov. Legitur  apud Euripidem, ad quem Socrates respicit li, 1. , Hippolyt. v.  612.   7 } yAc566 * ojjgSjjqx’, 6t tppi} v  avapox oi  Haud raro in Platonicis scriptis ad hunc versum alluditur, v. c,  Theaet. p. 154, D. EipiitlSeidv  xi HvpjpijdEiai' tf plv ydp  yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv forat,  7 } cppifv ovx avEAeyxxof.  Adde etiam Cicer, de ofif, 111, 29*  108,: Nou enim falsum iurare  periurare est, sed quod ex animi  tui senteutia iuraveris, sicut ver-  bis concipitur more nostro , id  15 *ftt lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag av Swal-  fiijv' ov (iknou akka ta ye dkqdq, el fiovkte&e,    non faceie periariam est. Scite  enim Euripides:   Iuravi lingua, mentem iniuratam  gero.   Ad Socratem nt revertamur, Eu-  ripideis verbis laudatis hoc effi-  cere voluit: Promisisse sese qui-  dem Erotis laudationem, sed non  talem, qualem ediderint, qui ante  6e locuti sint. Aut igitur ta-  cendum sibi esse , quippe pro-  misso suo ad Erotem illa ratio-  ne laudandum non obstrictus, aut  eam laudationem proferendam  esse, qualem, cum promiserit, in  animo habuerit.   , ov ydp kri iyxapiaZa  xovxov tov tporcov. Breviloquentia est : hae enim sen-  tentiae verbis insunt: laudaturus  eram, at non amplias lauda-  turus sum , si huuc in modum  laudatio instituenda est. Riickert.  *EyxoopidS,co absolute positum  est, ut non tam actionem, quam  ipsam verbi notionem cum vi repraesentet : iyxcjpia^cov el/ii.   Hinc facile intelligitnr, quid sibi  velit hi hoc loco.   ov ydp av dvvaiprjv .  ov /jLevxoi . Admodnm dubi-  tant viri docti de horum verbo-  rum iuterpunctione recte ponen-  da » alii punctum post ov f.Uvtoi  ponendum, alii omnem prorsus  interpunctionem post ov fievtoi  delendam censent. Atque sic  Bekkerus verba edidit, quem Riickertus secutus est annotans ad  hunc locum: tftraque verba in-  terpuogendi ratio vera est gram-  matice; sensum si spectes, roi-  rere, quid sibi velit tam fortis    ac vehemens negatio, qualis fa-  tura sit, si ov pkvtoi cum prae-  cedentibus iungatur. Contra si  iungas ov pkvtoi aXAa, multo  lenior erit oratio, sensumque  praebebit hunc: Vestro isto modo AMOREM laudandi consilium plane  abieci, non possim enim, etiamsi  forte velim. Attamen hoc ita  accipi nolo, quasi dicere omnino  recusem, immo vera quidem cet,  Equidem non dubito, quia  Ov pevtoi verba per anadiplosin  rectissime ab Stallbaumio expli-  cata sint, cuius exempla si quae-  ris, adi Stallbaum. edit. Sympos.  p. 97» Quod autem scire se negat Riickertus, quid sibi fortis  negatio velit h. 1., exprimendae veritati enuntiatiouis negativae  inservit, ut verba convertenda  sint : ich konnte es auch nicht,  wirklich nicht,   ei ^fiovXedSe, i$k X oj  xa x 9 ifiavxov . De (5ov Af-  6%at et kSkXeiv verborum signi-  ficatu vide aunot. p. 44. — Ka -  T a praepositionem quod attinet,  vide Piat. Apol. Socr. p. 17. B,  el phv ydp tovro Xiyovtiiv,  opoXoyoiyv av iycoye ov nata.  xovtovS elvai jirjtcop. Piat.  Prot. p, 517- A. iyd 8e tovtoiS  aita6i xaxet tovro elvai ov  Hvp<pepopai t de quo loco supra  diximus p. 41. Adde praeterea an-  notat. p. 134. — n Iva prj yk-  Ao ota o(p\cD . cfr. Apol. Socr. p.  17. C. ov ydp av di/ itov Ttpk - 7Toi, cj dvdpeS, tp8e ry uda  toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A d-  yovS eis vpaS elsdvai , quem  locum eo aptiorem hic censebis, l&tfaa tljteiv xcct’ Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs B  koyovg, ivu (lij yikattu. ocpfao. oga ovv, cj <X>aidQt , {I   > i    qno certius est, Socratem aetate  provectiorem fuisse eo tempore,  quo Agatho ItuyIxuk celebravit,  h. e. 412. a, Cfi. P. Ceterum  ocpXt o cum quadam ironia in ma-  lam partem dicitur, ut supra p.  183. A, a ei xiS toXpoSrj itotetv  aXX oxiovy — nXrjv tovto, za  piyidxa xotpnoiz 9 av oveidrj.  Eodem modo d.7ZQXav£iv verbd  Graeci utuntur, cfy* Piat, dc legg.  p. 910. B. xal itada ovtgdS f\  TtoXiS aitoXavxf xgdv adefi&v  zpoitov riva dixcdcof.   opa ovv , <u $ai8pe t ei  xi xal zotovzov Xdyov  6iei 7tep\ "Epcox os . Stall-  baumius per epexegesin verba  addita censet zdXifSif Xeyopeva  dxoveiv , cuius structurae per-  multa exempla reperiuntur. Unum  exemplum ut laudem, cfr. Piat.  Phaed. p. 103. A. cap. 51. xal  ziS eh te xdov xaporxcov dxov -  6aS — itpoS Secjv, ovx iv roiS  XpodSev r\piv XoyoiS avxo to  ivavxlov xdbv vvvl Xeyouivcov  copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS  zo pei2,ov yiyvedSai xal ix xov  pdZovoS xo tXaxxov, xal axe-  Xv&$ avxTj elvai j/ yivedi? rots  ivavxioiS , ix xoov ivavxi&v;  — Ceterum male rerba dispo-  sita sunt , quandoquidem comma  non post diei ponendum est, quo  loco id posuerunt editores ad  unum omnea, sed post "EpGoroS.  Sensus est: Vide agitur, o  Phaedre, num forte tibi  etiam huiusmodi Erotis  laudatione opua sit, ln e.  vera, non mendaciis cu-  iusvis generis referta.    ovopadi 81 xal Sidet  firf/idxGov roiavtg. *Ovo-  para et fi?jpaxa quo signifi-  catu poni soleant, supra dictum  est annotat, p. 221. Sententiam  quod attiuet, duo suut, quae a  Socrato in orationibus couviva-  rum vituperantur : sententiarum  falsitas, verborum enuntiationum-  que nimius ornatus. Igitur seri'  ptura non opus est uqius codicis Vindob. , quae magnopere  placuit Schaefero (ad Dionys. de  compos, verb. p. 28.), ovopadei  81 xal Sidet fcrjpdruv toiav-  XXf* In sequentibus ditola av  tiS XVXV iiteXSovda additum reperitnr in permultis iisque pptl-  mae notae codicibus di parti-  cula, quae nullo modo ferri potest. Admissa ea sententia verborum existit haec : Vere dicta  pudire, nominibus autem  et positu enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque forte «eae obtu-  lerit loquentl. Fortuitum  b. e. non exquisitum sententiarum verborumque positam facile  probes, verum positum quamquam cum veritate rei conve-  nientem interpretari possis, ta-  men minus probabilem h, 1. in-  dices. Igitur di post ditola  collocatum, quo efficitur, ut zot-  ctvxy ad praecedentia non ad  sequentia verba referatur, atque  ut commemorata posituras veri-  tate simplicitatis notio adiunga-  tur verborum atque dictionum,,  ex ordine verborum semovimus. Idem fecerunt Bekkerus, Stall-  baumiua, alii. Ficinua verba  convertit: Vide itaque , Phaedre } Xi xal toiovtov Xbyov diti 'Egcotog, Talr^si] Xi-   yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai &i<Ssi gtjfiatav roiavry,  inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv QaidQov   tcprj xai rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot 'oi-  ro Sstv ilnsLV, rctvry. "En roivvv, tpavuv, a <I>aldQe,  xaQig fiot Aya&mva a/iwg’ arta Igia&ca, tva , «vo-  C fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya. ’AU«  TUiQiyi-u , tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza  tavra brj rov 2axgdrg hv Lvd&vSe xoftlv aglaGftca.    utrum vobis 'placeat orationem  fiuiusmodi nunc audire , quae de  Amore vera duntaxat enarret,  verborum nominumque , utcunque  accidit, compositione procedens.   Uri roivvv, tpavai, <a  $ai8pe, TtapeS pou Car  ad Phaedrum potissirauih et hoc  loco et sapra Socratis eratio se  convertat, si quaeris, vide p. 197*  D # iyco 8} rjSioos; pkv axovat  ^SooxparovS 8ia\eyojitvov, dvay-  ytaiov 8i poi ImipeXqSijvai rov  iyxcopiov ro5 "Epcon xal amo *  SeZadSai nap* bvoS txutixov  vjigdv rov Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v  elmeiv, ravty. Commode  abesse posset ravtft, quae vox  e praecedente on rg suppleri so-  let alias haud raro. Posita no-  stro loco est, atque in fine qui-  dem totius enuntiati collocata,  ut significantias Phaedri cetero-  rumque convivarum verba red-r  de ren tu r, quae obliqua oratione  liunc exhibentor. Dixerunt au-  tem illi: omjf avtoS olei 8tiv  Xeyeiv, ravry elnk.   ovrcoS rj8 tj Xeyco. vide  annotat, p. 195* Schleiermacheras verba convertit: damit icli  mit ihm eioverstanden a 1 s d n n n  welter rede. Recte } displicet ta*  men vocula w ei ter, qua rectius  carueris. Nam X£yco t ut XoyoS  in praecedentibus sexcenties de  Erotis laude, vide annot. p. 187.,  de laudatione incipienda intelli-  geudum est : Damit ich, wenn ich  mit ihm mich verstandigt habe,  alsdaun den Eros au loben beginne*   iv$£v$e Xo%kv. Vide an-  notat. p. 15. Stndiose id agit  scriptor, ut lectores seraper ad-  moneantur, orationes convivarum  non accurate neque verbo tenus  referri , quod quo consilio fece-  rit, in Comment* de Syrapos. Pla-  tonis indicavimus.   xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$-  TjyijtiatiSai rov Xoyov,  li, e. disputationem exor-  sus esse. Deest , quod mea  culpa potius factum puto , quam  quod onmino nullum sit, sed deest  mihi exemplum verbi ita usur-  pati cum genitivo. Non desunt,  ubi accusativus sequatur, velat  Thcaet. p. 200. E. 6 xaSrjyov-  ptvos rov notapSv. Riickert*  Verba transitiva haud raro ita  adhiberi, ut non tam actio, quam  verbi notio urgeatur , saepius  annotavimus, v. c,p. 22. p» 59. Cap. XXL   Kal ftijv, e» (pile 'Aya&av , xalwg fios tdofcg  xadyyrjtiaB&ai zov Ivyov , Isyav, 3« xqwzov tt£v  6'tot ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6 “Encog , vBzt-  qov Ss tu k'pya avzov. zavzrjv zr;v uQX>i v naw aya-  [itu. Xfh ovv uoi tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla xa-  lag xal peyal07tQS7iu g 6iijl%sg olog ia ti , xal %6i$s D    tizi' jcotSQov iau zowvzog    Hoias usa» ut unum tantummodo  exemplum laudem, legitur p, 178«   C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/-  yeuSSai navxoS x ov filov xcdS  ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai,  quod idem valet, atque o ydp XPV  tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV  elvca navxoS x ov fiiov. Sic no-  «tra verba posita sunt pro xa-  Ao? fioi £doB,aS xaSrjyijxtjs el-  vat x ov Xoyov.   oxt np doro v p\v S eoi.  cfr. Cic v de ofF. I. c, 2. $. 7*  Placet igitur , quoniam omnis dis-  putatio de officio futura est y ante definire , quid sit officium,  quod a Panaetio praetermissum  esse miror * Omnis enim y quae  a ratione suscipitur de aliqua  re institutio , debet a definitione  proficisci , ut in !el ligatur quid  sit id t de quo disputetur * Ad  hanc instituendae disputationi»  legem Socrates etiam in Menone  respiciens p. 77* E. docet: ante  dicendum esse, quid sit id, quod  virtus appelletur, quam possit,  utrum doceri queat necne virtus,  diiudicari.   tavtrjv trjv apxrjv na-  vv aya pax. y Aya<S$ai verbo  utuntur, qui et AMARI et laudari a  se rem aliquam indicaturi aunt.   olog eivcd nvog o Egag    cfr. Piat. Protag. p. 935. D.Vl rtal  1 IititoviHOVy ct ptkv Zycoyl tiov  trjv <pi\o6oq>iav ayajiai , axap  xal vvv inaivdo xal cpiXco x.  t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut amem  laudemque, idem etiam nunc mihi  contingit. Minus probem Stallbaumii annotat, ed. p. 97. Haud  cio, inquit, an alicui scribendum  videatur axap vvv xal btaivdr  xal tpiXdo, quo clarius appareat  ratio oppositionis. Sed nihil mu-  tandum, siquidem xal non cum  vvv, sed cum atdp arcte connectendum, ut significent voculae:  quin etiam .   olof etvai ttvoS o "E-  pcoS lp oo . Repentur hic ver-  borum ordo apud Bekkerum,  Astinm, Stallboumium, qui Bod-  leiani codicis «t Vindobb. doo-  rara auctoritatem seguti sunt.  Eum verborum ordinem Riicker-  tus frustra impugnat, dicens, mi-  nus bene habere subiectum inter  praedicatum et pendentem inde  genitivum insertum. Nam huius  structurae artificium et apud Grae-  cos et apud Romanos acriptores aepennmero reperitur. Suspectum autem fit mutatione sedfe  $pa>S nomen j nam vulgo verba  inverso ordine exhibentor oloS 1 m    f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl {v>itq6s rivos % noxios  iou yiloiov yap av th] xo igatrjua , tl "Epias  bsxlv 1’gag scapos rj [irjtQos — «AA’ to $jctp &v tl cnko  tovto xcatQa jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w-   ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS, Uodecim codices ipcoS nomen prorsus omittunt. Verbum omisimus  nos, quia sive ante J *Epa)S po-  natur, sive eidem postpouatur,  cum sequentibus nullo modo convenire videtur. Etenim si scripsis-  set Plato oloS elvai nvoS ipGoS  6 "EpcoS s. rivos 6 *EpooS HpoaS,  nemini auditori ac ue ipsi qui-  dem Socrati in mentem venire  potuisset patris matrisve cogita-  tio, quae verbis sequentibus con-  tinetur. Iam cum omisisset SpoaS  nomen, ambiguaque potestate posnisset "EpaoS nomen propriam,  ne interrogatio, ut potuit male  intelligi, ita revera male intelli-  geretur, verba statim addidit:  ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$  7} natpos idxtv,   yeXoiov yap etrj to\  £ p oj r ?}/i a, Socrates Erotis  nomine ita posito in praeceden-  tibus, nt non deum sed dei vini  iutelligi vellet, additoque vituperio eius, qui interrogationem  sio interpretaretur, ut de Erote  deo, non de amore sermonem  esse censet, satis acerbe incu-r  rium eorum vituperat, qui dei  nomine adhibito tum deum, tuut  vira eius expressissent non indicantes, utra potestate nomen  proprium accipi voluerint» Ali-  ter Ruckertua de his verbis in-  dicat, cuius verba haec sunt; Id  nihil, inquit, habet ridiculi, ro-  gare, Amorne patrem vel matrem  habeat, id quod infra rogat ipse  p. SOS, A, At ita rogare, ut    praedicatum ponas ZpcoS, ac deinde  genitivi sensum velis esse lionc, quem negat esse, id vero ridi-  culum est. Ridiculum igitur hoc  quoque, si quis, quod recte in-  terrogatum sit, ac ne male accipi possit, addito praedicato ipooS  praecautum, tamen ita accipiat  aut accipere simulet. Pertinet  igitur hoc ad sophistarum captio-  nes fraudesque deridendas, ba-  betque vim hand exiguam ad firmandum io praecedentibus posi-  tum IponS contra libros eos, qui  id omittunt*   ei avto tovto itatkpet  iJpojtGDV . Imperfectam cum  el particula coniuuctum in hu-  jusmodi enuntiatione aliquid sumi  fieri indicat, quod revera nou  fiat ; aoristus addita av particula  actionem exprimit, quae sine du-  bitatione futura esset, si fieret  illud, quod fieri tantummodo sumitur. Paullo aliter Stallbaumius  ad h. 1. : Imperfectum , inquit,   indicat id, quod nunc fieret,  si fieret: aoristus autem signifi-  cat rem ita esse comparatam, ut  e vestigio possit perfici et ab-  aolvi. Avto tovto icatipa mi-  nus recte Stallbaumius censet  idem plane esse, atque natipct  avto tovto, oitep l6tw. Neque  recte Schleiermacherus verba con-  vertit: Wie wenn ich nach ei nem  Vater selbst fragte. Schulthes-  sius eodem fere modo: wie wenn  ich grade vom Vater ftagte.  Avto tovto sequente uomine ar-  ticulo tuo destituto significat, vog, ov; tfaes av 6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$  axoxQlvaO&at , , oti t&ziv visos ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ  ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov 'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ ascevras; OfwkoysiOftut xai E   V  verbum, quod in superioribus commemoratum sit, nunc materiali-  ter, ut verbo hoc utar, usurpari,  «t conversio audiat : Aber gleich-  wie wenn ichdas Wort Ttaxrjp  selbst aufnehmend fragen woll-  te cet. Plura exempla si quae-  ris verborum materialiter posito-  rum, indicata reperies in Indicibus*   tlitet av Stj itov poi, el  iftovXov* Ei ifiovXov po-  situm est b. e. imperfectum tem-  pus fiovXe6$cn verbi, quod po-  nitur velle Agathonem respon-  dere, sed revera non fieri, ut vo-  luntas illa respondendi se osten-  dat proptserea, quod responderi  nequit, ubi interrogatio nulla  proposita est. EhceS av rursus  eodem modo positum est, ut  paullo supra, significatque, Aga-  thonem haud dubie dicturum esse,  si interrogatus a Socrate respondere vellet*   xai 7) pptpp gdS avtGD$ .  !i* e. Stallbaumius inquit, ovx-  ovv xai nepl pjjtpos ooSavtaS  %X £L ? dubito, nam recte. Nam  ut taceam articuli ante prjxpoS  ponendi omissionem, quo carere  non possumus io huiasmodi enun-  tiat io ne, expletior oratio audit  potius: ovxovv xai r\ prjrrjp   vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp.   o poXoy ai6$ai xai tov -  ro* Haec tredecim Bekkeri co-  dicum lectio est, mups apud eun-  dem opoAoysid&a habet, tinus  &>poAoyai6$ rursum unus oi-    yel<$$&   poAoyeidSaz. Editores excepto  Riickerto, qui opoXoyetdSai de-  dit, vulgatum opoXoyijdai in  ordinem verborum receperunt.  Hiickertus ad h. 1* aut opoXo -  yEioScti scribendum esse censet  aut 6fioXoyti6$G). Posterius,  inquit, propterea improbandum,  quia addi debebat, si hoc Piato  dedisset , <pavai vel alius dicendi verbi infinitivus, vpoAo-  yetdSai autem non habet, quod  offendat, modo passivum esse teneas: concessum esse, immo commendationis aliquid ex eo.  habet, quod in sequentibus quo-  que praesentis infinitivus opo-  A oysfa- et infra p* 20 1. A* «w-  poXoyat imperfectum non aori-  stus legitur, — Dedimus opo-  A oyau5%at codicum auctoritate  moti, nou quod praesens tempus magis nobis placeat, quam aoristicum tempus , neque magno-  pere curamus praesentis atque  imperfecti usum in sequentibus,  nam et imperfecti et floristi infinitivus in huiasmodi enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud conces- #  sum esse, quod haud scio, an  cuiquam satis probaturus sit Rii-  ckertus, Alia de caussa in textu  posuisse opoAoyatdSai libnit, vi-  delicet quia proxime ad PJatoaia  manum accedere videtur, atque  viam aperit genuinam lectionem  restituendi* Etenim scripsisse Pla-  tonem arbitramur opoXoyatv nat  tovto , quae scriptura quam fa- tovto. — "En rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca  oUym itltiu, Zvu fiaXXov xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si  yuQ ipotftijv, Ti 6i; ddsbtpbg avxb tovto oxsg %6nv,  ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; — Oavai slvai. — Ovxovv  aStlyov ij ddsAtpijg; — ' OfioXoysiv. JTugdi Si/, cpd-  vai, xal xbv”Egaxct slnslv. o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog  SOO ij xivog ; — Tldw [isv o vv ’i<Sxiv. — Tovxo /ihv xolwv,  slnslv xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp fisg.v>]fitvog    cile potuerit xai, ut fit, incuria  scribarum dupliciter posito in  opoXoyeTtiSai mutari, e verbo  maiusculis litteris perscripto pa-  tebit, Scriptum nimirum olim  exstabat : OMOAOrEINKAI-   KAITOTTOy ex quo factum est  OMOA OrElCQAlKAI TO TTO,   ei yap ipoiprjv, ti 8e;  d8e\<po $ avtu tovto oitep  iZdtiv* Optativo modo con-  inucto cum ei particula iubetur  boc loco Agatho sibi cogitare  ea, quae revera fiunt, tanquam si  fieri possint. Utuntur autem hoc  dicendi genere ii, qui interro-  gare aliquem aliquid cupiunt, ne-  que tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre au-  dent. Nostrates dicere solent:  Denke dir einmal, ich fruge,  quibus verbis interrogationem  ipsam annectunt. Hinc vides,  ipsa interrogatione posita facil-  4 lime abesse posse supplementum,  quo in huiusmodi dicendi genere  opus esse interpretes passim an-  notare solent: ti av tpaitjS ;  Ipsi autem interrogationi, h. e,  non suspensae ex aliis verbis, apprime convenit interrogandi si-  gnnm post ti de; Riickertus edi-  dit ti dk adeXtpoS duabus de  caussis , quas nullius momenti  eise existimo : quod, postquam de matre dictum sit ovxovv ?/ pi\-  trjp cjSavtGoS;' ad ea commodius  adiungi videatur interrogatio ti  de a8e\(p6s ; quid porro frater ,  quam ti de; d8e\g>oS , . . quid  autem ? frater . , « qua novi quid,  non tertium exemplum proferri  videatur, deinde, quod ea distinctio esse videatur librorum  omnium. Alterum nobis argu-  mentum, quo probemus ti 86;  scripturam, hoc est, quod adeA-  (poS arcte cum insequentibus verbis coniungendumest; nam adeA-  <po$ avto tovto oTtep £($tiv no-  bis est: Das Wort a8t\(pu$ in  seiner absolutesten Bedeutung.  Hinc ne comma quidem post  adeXfpoS posuimus , quod in iis  editionibus comparere videmus,  in quibus posito interrogandi  signo, ti de; a sequentibus verbis disiunctnm est. Restat, at  de 8ad vocula dicamus, quae h.  1. et apud Bekkerum et apud  Stallbaumium in di particulae  locum substituta est. Aai non  ponitur, nisi ubi maior animi  commotio indicanda est, ut ad-  miratio, indignatio, ira ; vide an-  notat p. 191* Merito igitur mi-  reris, duumviros criticos eandem  retinuisse in tam quieto disputandi genere, quale hoc loco est  manifestissimum, codex Bod-  leianus exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice, itoregov 6 v Eg uq ixelvov, ov  $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; — Tlavv yt, (pavae. Tlvtegov iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc  bu&vfiEL re xal iga, rj ovx lycov; — Ovx iyav, cos-  to elx og ye, tpavai. — Uxoitet S>), ebttlv tov Zaxgar>] t  avrl tov elxvrog, el dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv ha-  &v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj eici^vuilv , iav iu ) iv~  deis r]. ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi, co Idya&av, B    pauci ; non dubitavimus igitur  iu ordinem rerborum id recipere*  Idem Riickertus fecit.   c pvXagov itotpd davrc 5  fi£ pvrjpiv oS otov. Ilaec  verba hodierni editores plane  non distinguunt interpunctione,  iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns sic : <pv\a5,ov itapd  0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov  *c. itiriv. Sed in hac interpre-  tatione displicet nimis magno  intervallo a tovto pronomine,  quocum cohaeret, divulsum otov  eo magis , quod , si a /iSfivTjfie-  ro$ seiungendum est, sic nude  ac sine ulla vicina voce, quacum  coniungatur, vix ullus bonus  scriptor collocaverit* Addidisset  Plato, si ita verba accepisset,  idriv. Accedit, quod tovto h.  1. vix ad sequens aliquid, immo  ad praecedentem concessionem,  Amorem alicuius umorem esse,  referendum est. Quibus de caus-  sis veterem distinctionem verbo-  rum, qua ante /.leyvipUvof com-  ma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr apud ani-  mum serva ( sc. alicuius esse,)  atque cuius sit, memento. Hanc Riickerti ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut  mclins possent, qui hoc libello  ntuntur, de ca iudicaro. Mihi  non persuasit V. D. Optime    Platonis verba convertit summus  Schleiermacherus : Dieses nun,   habe Socrates gesagt, lialte nocli  bei dir fest in Gedauken, wovou  sie (er) Liebe ist.   iit l$V fXEl OtVTOV. Dc  pronomine repetito vide annotat*  p. 198*   oJs ro' elxoS y £ * Agatho  finem Socraticae institutionis at-  que stragem futnram rerum sua-  rum odoratus, nt haberet, quo  posset rebus perditis salvus elu-»  bi, quae non poterant non concedi, e verisimilitudine dnntaxat  concedenda censuit* Hinc ojS  ro sixoS ys satis astute addit.  Sequentibus docemur, quam male  ei haec res cesserit. Nam aVrl  tov eIhotoS , Socrates inquit,  videamus, eI avdyxrj ovtcjS x.  r. A. Ceterum verba dvx\ T ov  sixoToS brevius quidem dicta  sunt, neque tamen obscurius.  Sensus est: 2xoJt£i Si) —   av tI tov A iyeiv d>5 ro elxof  ys , eI avdyxij ovtco S*. Conver-  tenda verba sunt accentu orationis  in dxoitet verbo posito: Un-  tersuche nun lieber, anstatt  dass du sagst, «wie es den An-  •chein hat,® ob nothwendiger  \Vei&c es sich so verhiilt*   S av/Ltadrdjs 6oxei , cJ   'AyaZtov, wS dvdyxrj tl* «6g dvdyxt] tlvca. <Jol dt noog; Kdftol , cpavai, doxel.  — Kcd ag Xiysig. ciq’ ovv (iovXoit’ av tig fieyag av  fityccg tlvca , ij 1<>%vq6s av la%VQog ; 'ASvvmov Ix  ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov ivdtijg av th)  xovtav o yt av. — 'Alrj&tj Xiyug. — EI yaQ xal  lG%VQog av PovXolto IcJyvQo g tlvca, cpavai t ov ZkoxQuzij,  xal xa%vg av za%vg, xal vyirjg av vyujs — , S  yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu xocavta    v Oii, Non sine ironia quadem,  et quo gravius se opponeret Aga-  thoni in re apertissima gqS to eI-  xoS ys dicenti^ Socrates verbis uti-  tor SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj  x. X. A. Ceterum Stallbaumius  ad h. I, Ne quis, inquit, mire-  tur, tanto intervallo ab  juaoTcoS remotam, alia huius ge*  neris exempla notavimus Piat.  Phned, p. 95. A. Bastius Spec.  Crit. p. 139. $av/iadT<oSi ooS  verborum seiunctione a$eo offensus est, ut de loci veritate  dubitaret. Diximus de coS cum  aliquo adverbio coniuncti stru-  ctura apnotat, p. 12., cuius stru-  cturae originem qui reputaverit  apud se, is mirabitur magis ad-  verbii cum ai? artissimam con-  junctionem, quae epud Platonem  veteresque scriptores Graecos sae-  pissime reperitur. Unum exem-  plum ut laudem coS ab adverbio  suo disiuncti, legitur in Piat.  Theaet. p, 157. D. Savpad Tt£(  (paiyexai cos fynr Xdyov .   ix r&r oa poXoyrj /livar.  Respicit Agatho ad verba ro iiti -  Svpovv iitiSvpelv , 'ov IvdsiS  idriVy ij fi?) iittSvyeiv, iav p?)  ivdelf y. Patet igitur, prae-  senti tempori dpoXoyovpivoov  hio non locum esse, quod vulgo  edebatur.   eI yap xal idxvpos < 3 *  fi ov \oit o . Socrates ad eum  iinem tendit, ut Erotem omni  ornatu privet, quo eum, qui ante  se locuti essent, donaverint. Et  cum iu superioribus esset judica-  tum, Amorem alicuius rei appe-  titum esse, cardinem rei nunc in  eo versari vides, ut, neminem id  appetere posse, quod possideat,  atque vice versa non possidere,  si quis, appetat, quod appetat,  probetur. In qua re ne sophi-  stico quodam artificio circumve-  niretur, Agathoque ad indoctio-  rum hominum sermonem confu-  geret, qui cum alia male, tum et-  iam hoc sibi indulgeant, ut di-  cant iycj vyiaLvoav fiovXopai  xal vyiaivEiv, ipsum hoc dicendi  genus Socrates nunc adit , atque  quid sibi velit, exponit. Singula  verba quod attinet, anuotftt Rii-  ckertus ad h, 1. rectissime: Pro-  tasin ponit auctor, cui deinde  parenthesin subiungit, qua ra-  tionem reddat eorum, quae in  protasi dicta sunt, atque cur  liceat ea ponere, ostendat. In  qua quum plura fuissent dicen-  da, ita ut etiam periodi com-  plures existerent, non potuit  simpliciter reddere protasi apo-  dosin, sed novam instituit: aAA*  Ztav tiS Xiyy } quam deinde se-  quitur apodosis, qua quid tali ho- zovs ovras ta tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C  ancg $x ov(Sl > tTCL&v^iuv. iv’ ovv (irj e^axart]d‘d-   (uv, rovrov tvtxa Xtya. rovtovq yccQ, w 'Ayaftav, d  Ivvodg , £%Uv fiiv exaOrov rovrmv Iv rai naqovri,  avctyxrj , a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17, xai  rovrov ye 6 rj tcov rts av haftvfirjaetsv ; aXX’ orav ng  Xiyy, ori ’Eya vyiuLvcov fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov-    tav fio vXofiai xai xXo vreiv,   mini respondendam sit , demonstratur. Est autem inter utramque protasin hoc discrimen, ut»  in priore ponatnr aliquis hoc dicere simpliciter atque sic, ut  plane non quaeratur, fiatue id  rerera aut fieri possit, necne, in  posteriore autem, postquam demonstratum est, fieri posse, res  pro certa' et vere eveniente perhibeatur.   rovrovS yap, 0 0 'Aya-  $gjv, ei kvvoeiS. Haec est vulgata lectio, quam praeter  Riickertum omnes editores improbarunt. Pauci sed ii optimae  notae codices rovtoiS exhibent»  Utrumque ferri potest atque com-  modissime explicap , sed magis  placet accnsativus casus, ei iv-  YOErS Ruckertus cum nostratium formula comparat: verstehst du wohl? quae formula cum Graeca nihil commune habet, quam verbi finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est: si sapis, wenn  du verstandig sein willst.  .xa\ rovrov y e dij itov  r is av litiSv p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus legitnr, neque quicquam verbis inest, quo offendaris. Sed quaeritur, an non  facillima accentus mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6 r}  nov us av ixi&vjLt?j(Seiev , quo    xai eni9v[ia avriav rovrov,   Scriptura orationis accentus in  ijttSvpijtieiev ponitur, significan-  tiusque indicatur, ne cogitari  quidem posse, ut aliquis, quod  possideat, id possidere cupiat. Ce-  terum Stallbaumius annotat ad  hunc locum : Refertur rovrov ad  praegressum exadrov rovrajv, a  ix.ov6tVy ita ut iu universam in-  tclligendum sit o Rectius,  opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania eorum,  qui et habent atque illud ipsum  habere concupiscunt»   iytA vyiaiveiv (iov\o-  pai jcal vyiaiveiv. Vulgo  Tccci deest ante vyiaiveiv et  ante irXovreiv. Idem Ficinus in  conversione non agnoscit: At  ego, sanus dum sum , volo equidem sanus esse , et dives dum  sum, esse dives. In ordinem  verborum voculam recepit Stall-  baumius Bodleiani codicis aliorumque non paucorum librorum  auctoritate motus. Frustra Rii-  ckertus ad h, 1. : Profecto dubi-  tare, inquit, aliquis possit, an  Platonis manus xai particulam  addiderit. Kat enim ut aliquem  sensum hoc loco habeat, addendi  vim habere Oportet. Iam quod  additur, non potest esse to  vyiaiveiv et ro likovreiv , quis  enim ferat dictum; Ego qui sa- a i%a , £xoijisv av avta, ori Zv> to avdpmxe , n).ov-  D tov xtxTTjtuvos 'Ma vytuuv xcd l(S%vv (iovXu xal ilg  rov ibici ra %qovov rubra xexrij<f&cu ' insl Iv roJ ys   VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB flT], fjJStg. (SXOXEl OVV, OTUV   tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito rixiv naQovrcov, ei ccXXo n  Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru y.cd tig  tov Zituzu xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vp-  tpavai ¥qnj rbv Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt],    nos sum, copio etiam sanus esse?  Immo hoc licet: Ego qui «ura  sanus, etiam cupio ut sim. Quod  igitur additur, To (iovAt6$ai  est. Iam quaeritur, liceatne sic  post illam vocem , cui additur,  xai particulam collocare, — Ad-  dita xai particula optime habet  hoc loco, quo id agitur, ut error  eorum clarius appareat, qui hu-  iusmodi dictione utantur.   aWo ri o/ioAoyol av;  o ti cum vi hoc loco ponitur, cum in praecedentibus iam  eo usus sit scriptor Cxotcei ovv  — ei «AAo ti XfyetS rj tovto.  Non raro autem Graeci r/ cum  suis verbis omiserunt in interrogationibus brevitatis studiosi  atque nolentes, quae facile ab  auditore suppleri possent, eadem  disertis verbis commemorare.  Sic nostro loco expletior oratio  uudiret: «rAAo ti ?} tovto d/*o-  A oyoi av ; Factum deinde est  usu loquendi, ut etiam in eiusmodi interrogationibus aAAo ti  ponerent Graeci, in quibus nihil  cogitari potest, quod cum ?] sup-  plendo suppleretur* *w4AAo ti  igitur, recte annotante Matthiaeo  Gramm. ampl. 487. 9. p.  914, interrogativae particulae  vices obtinuit, ut cum vi ex*  pvimeretur, rem nou aliter se    habere, atque in interrogatione  expressa sit. cfr. Piat. Hipparch.  p. 226. E* <rAAo ti ovv oiyi  <piXoxep8iiS <pi\ov6i to xipdoS;  Piat. Charmid. p, 167. B. aAAo  ti ovv s tavta Tavra av elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide prae-  terea Hensdium Specim. Crit. in  Piat. p. 59«, Stallbaumium ad Eu-  thyphr, p. 104, Paullo infra p.  200. E. aAAo ti S&etv 6 "Epcof   Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV -   tgdv, G)v av iv8nct rtapij avtw ;   ovxovv tovto y * &6x\v  ixeivov ipav. Vulgo post  ovxovv 6 1 / particula additur, quae cum iu plerisque codicibus  non reperiatur, e textu semota  est a EeLkero, Astio, Stallbaumio.  Btickertus, ne parum verecundus  videretur librorum auctoritatis,  uncis 8 7f includendum curavit,  quod nisi codicum auctoritas ob-  staret, in ordinem verborum re-  cepturus fuisset,   u o viteo itoijiov avTtjj  i6tiv ov8h Sanissi-   mam horum verborum distinctio-  nem deleto post Zxett posito poat  &6tiv commate Kiickertus corru-  pit. Negat autem V. D. , to  iis tov hteita xpovov — tu  vvv Ttapovra esse posse tovto  pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov non Ovxovv tovto y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov  avrei Itiriv ovde S%u y ro elg rov Situra %gbvov ravra  tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv itagovra; — Tlaw ye, cpa- E  vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6 hu&v[uov rov  pr] iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog , xcd o /u?)  Syei xal o [it] Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz  arra iti tlv cov 7] hnftvpta rs xal 6 Sgcog Itiri. — Tlaw  y , elituv. *Iftt di]\ tpavat rov 2koxgazr] y dvopoAoyrjtia-  respondeat, tat elvai, sed r»  fiov \s 6$ a i elvai ravra av-  rc o 6co%6fUva. Fugit autem Rii-  ckertum e verbis praecedentibus  fiovXopai ra vvv itapovra xal  cis rov Mneita xpovov xapcivai  nostri loci verba petita esse ita,  ut, quoniam proxime praecedat  fiovXopat verbum, id ipsum e praecedentibus facillime supplendum omitteretur. Conversio verborum haec est: Also bedeutet  dies eben, namlich ( vide annot.  p. 59.) (dass auch fiir die Zu-  kunft der gegenwartige Besitz  crhaltcn werde, das bcgehren,  vas cincm nicht zu Gebote steht  und er nicht liat. Ceterum ut  apud nostrates, ita apud Graecos  pronomen relativum et subiectum  est et oblectum enuntiatiouis,  cuius rei inde petitur excusatio,  quod sive accusativum sive nominativum posueris , forma pronominis eadem manet.   xal ovtoS dpa xal aA-  X.oS it a S o* i 7Ci$ v /x at v rov  p t} kzoipov IkiSv pcl x.  T. A. Ne loquacitatis Socratem  nccoses, qui commemoratis rov  pr) kzoipov verbis insequentes  definitiones reticere debuisset:  hoc agit vir providentissimus, ut  ancoras penitus praecideret, quibus peritura Agathonis navis teneri atque servari possit.,  Sy, (parat tor Sco*  xparrf. Utitur nunc Socrates  ad refutandam Agathonis senten-  tiam hac argumentatione: Quae  cupimus, inquit, ea nondum pos-  sidemus. Amorem autem cum  dixeris pulcritudinis cupiditate  teneri, necesse est, eam ille non  habeat. Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum at-  que bonum idem sit, caret Amor  etiam bono. Stallb»   av opoXoyijdoops^a ra  clprj pev a h. e. repetamus,  quae hucusque dicta sunt  ita, ut eodem modo, at-  que hoc factum est paullo  supra, de iis inter nos  conveniat. Haud raro Graeci  scriptores brevitatis studio verba  ita commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel  adiectivo coniungendo verbum  ponant eiusdem atque adverbium  radicis. Sic paullo infra 202.  A. legitur prj roivvv avdytca^e,  o pi) xaXov idtiv, alCxpdv £t-  vai x. r. A., ad quem locum  vide annotat.   dXXo n l6nv 6 *EpfoS.  De trAAo ri significata atque de  jj particula omissa vide annotat, p. 238.   iit e ira rovratr* His ver-  bis accuratior continetur defini-  fu &a ru dQtjjikia. iikko n ItStiv 6 'Epos xqotov (ihv  SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia rtaQy avta; — Neu,  tpavui. — ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav tcpyO&a  iv tiS koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge  avuiivijGa. oinai yaQ <Se ovrwaL itag dntZv, ou roig  &eolg xatsGxBvuG&r] ra XQuyfiata Si "EQana xakdv’  mlo%Qav yotQ ovx Biy 'Epcog • ov% ovtaxsi mog Hkeytsf  — Ehtov yuQ , cpavai rov 'AyaQavcu  Kut limixdg  ys kiysig, d izaiQB , qtuvai tbv ZaxQazr]. xal tl  tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av tiij  tio eornm, qnorom Amor amor i,  desiderium est. Sensos est : Erst-  lich ist Eros Liebe eu etwas (vi-  de p. 200. A.) uud das ist zwei-  tens das, vroran es ihm gebricht.  Ceteram ne mireris, cum ia supe-  rioribus Socrates simplici verbo  semper usos esset idtiv in eius-  dem sententiae efformatjone, cur  nunc compositum 7tapy exhi-  beat: itapeivai hoc loco non  attributum describit, sed aliquam  Erotis conditionem internam, sine  qua ille ne cogitari quidem pos-  sit: ein Mangel, der ei ne fiedin-  gung ist seines Wesens,   ei dfc povXei* Duplici  modo consilii mutatio apud Pla-  tonem indicatur, aut enim pix A-  Aok di ponitur, de quo supra dixi-  mus annotat, p* 15., aut ei Sl  fiovXei. Multum interest autem,  utrum hac an illa dicendi forma  utaris» MixXXov 6i poni solet,  abi res e loquentis iudicio apta  est, qui vel ipse se corrigit, vel  alium, nt se corrigat aut aliquid  mutet, adhortatur. El dfc fiov-  Au autem non nisi ita usurpa-  tum reperies, nt loquens suum  iudicium ab re prorsus secludat,  omnem alius voluntati liberrimae    subiiciat» Sic nostro loco Socra-  tes, quicquid Agathoni placuerit»  id se facturum profitetur. Con-  tra p. 173* r\6av roivvv rota -  de* paXXov di apxtjS vfiiv  — itEipa.6op.ai StTfyTjdad^at.  Apollodorus mutato consilic re-  ctius se acturum censet, si ab  initio rem narrare studeat.   aidxp^y y&P ovx elrj  v EpajS, Dixerat Agatho p, 197-  B. oSev 6t) xal xaredxevddSrf  tgov $egjv x a 7tpdyjiata ”EpGQ~  roS lyyevofikvov 6rjA.ov ori  xaAXovS. aldXEt yap ovx ht-  edriv "EpcoS. Haec Socrates cum  minus accurate repeteret, verba  addidit ovteodi TtcoS, Ceterum  scriptum exspectaveris: aldxp&v  yap ovx eivai "Epcora* Opta-  tivo posito scriptor aliquid in-  dicare voluisse videtur, quod ad^  missa accusativi cum infinitivo  coni aucti struetnxa prorsus pe-  riret atque evanesceret. Hac  nimirum structura verborum ni-  hil indicat scriptor, quam sen-  tentiam eins, qui priori tempore  locutus sit, nunc referri* Opta-  tivo contra, qui praecedenti ac-  cusativo cum iufinitivo conjun-  cto annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg d’ ov; — 'Slf/Myti. — Ovxovv ofiolu-  yijTca, ov tvdcijs t<5u xal Ifca , rovtov Iguv; —  Nal , ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6 'Egcog B  xaXXog. — ’Avdyxr}, epuvui. — Ti 8 b; to tvStlg xdX-  kov e xal (iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog aget XiyEig 6v  xaXov tlvai ;Ov Sijra. — "Eu ovv onoXoyd g "Ega-  tcc xaXov Eivca, d reditu ovrag — Kal rbv ’Aya-  &ava dittZv, KevSvvevco, to ZXbxQareg, ovdhv sidi -   T t r ~T7~ \ s . . T f T    vai ov tore euzov. n.ca prjy  ’Ayuftov. alXa tiptxQov   lius referri significat , ant si  haec non repetantur revera, tan-  quam talia , qualibus ille usus  esset, referri. Ubi autem ipsa  verba laudantur, aut tanquam ipsa,  consentaneum esse videtnr eum,  qui ita loquatur, illis verbis ma-  lus, quam aliis, pondus tribuere*  Jam si reputamus, Socratem id  agere, ut ostendatur, Erotem pol-  cro bonoque prorsus carere, eam  potissimum Agathonis sententiam  ab eo tangi consentaneum est,  qnae huic consilio maxime offi-  ceret: aldxp &Y Y<*P ovx  ^7t£6riv M EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine,  dass du ohngefahr folgender  JMaassen sprachst : dass die An-  gelegenheiten der Gotter dnrch  den Eros znm Schonen vollkom-  xnen in Ordnung gebracht wor-  den waren, denn des Ilass-  lichen wiire kein Eros.  Eadem prorsus verborum stru-  ctura apud Xenophontem repen-  tur Hell. III. 2, 23. dxoxpiva-  fjiivcov 6e tc3 v * HMdajy, ori ov  7tovj<Seiar xotvra • iittXrjtS aS  y a. p i xoi&v r a S tiqXeiS*  <ppovpav iqnjvav ol upopoi.  Dixerunt autem, ut videtur, Eli-  denses: imXrjidaS yap Uxopev    yt umg, <puvcu, o  thd • rayccfta ov udi C   x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*. 5.  36. o 6e itXndroS ijv XoyoT, cJ?  xara xovS upxovS fiorjSriv dioi.  ov ydp ddixj/tidvTGyv 6(pd>y  ijttdparevotey ol 'Apxadss xal  ol ptr * avrcjy xoiS AaxeSaipo-  yiotS • Praeter hos Jocos alios  nonnullos Riickertns laudavit an-  motat. ad h. 1., quam vide.   ov ivSeijs idri xal pi)  Non opus est, ut ac-  cusativum pronominis relativi re-  petas e praegresso ov genitivo;  verba enim xal p?j ixei posita  sunt usu Graecorum liaud infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?}  IjttV autem absolute positum  est, atque nihil nisi meram verbi  ZxttY notionem negat*   xal prjy xaXco $ ye el-  7teS. Annotat Riickertus ad b.  ]*: Et tamen pulcre quidem di-  xisti. Laudaverant omnes con-  vivae Agathouem, ut qui pulcre  et praeclare dixisset, nec mino-  rem, ut videtur, ipse de se ha-  buerat opinionem. Quare quum  postremo eo sit deductus, ut ni-  hil se scire confiteatur eorum,  quae tum dixerit, haec subiicit  Socrates; quibus quanta sit- iro-  nia, qua et ipsius Ag?thooi« fa-  16    f  y.uMi Soy.EL aoi ilvai; — 'E/ioiyt. — EI ccqci 6 "Eq ® g  rcSv xaJhov IvdsrjS ^OTl, tu di ayn&cc xaXu , xav tuv  riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd, (pctvca, oJ EdxQOlig , 6oi  ova av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra, dg Gv  tiyug. Ov fiiv ovv ty dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs  ’Ayaft av , dvvaGat. civuliyHV Inii Ecoxqutu yc ou-  div %ttkiit6v.    stus et amlitornm vani opplan-  sos perstringantur , etsi nemo  non debet sentire , tamen locum  plane non intellectum video a  Schleiermacliero, qui verterit :  Gur recht m a g s t du daran  wohlhaben. Tmrao vertendam :  Und da hast ia doch tchoo ge-  sprochen. — Socrates acerrimus  haud raro eorum cavillator, qui  fasta maguiloquentiaque vanita-  tem suam obtegere studebant,  mitem iis statim sesc ostendere  solebat, qui errores suos confiterentur. Quod cum praeter exspectationem subito fecisset Aga-  tho, homo alioqnin pollens inge-  nio, xai fxt}v xa\wS ye elzeS  verba Socrates ita exhibuisse  consentaneam est, ut id remissa  omni ironia atque cavillatione  fecerit» Rectissime igitur Scblei-  ermacherus verba cepit, ad quem  Riickertus recurret, quando desierit nat fitjv et tamen interpretari. Vide annotat, p. 6»  rdya$d ov xat x aXd x.  r. A. Habes syllogismum per  inversionem , quo qui utantur,  id agunt, ut alterum membrum  enuntiationis , quod priori loco  positum atque in conclusione re-  petitum est, prae ceteris verbis  extollatur vique augeatur. Ilem  quod attinet, concessa pulcri bo-  nique aequalitate Agatho gravissimam stragem suae orationi ipse    intulit, eiTecitqne, ut ne bonus  quidem Eros esse diceretur. Xam  mireris vel inertiam Agathouis,  qui noluerit, quod argumentis non confirmatum sit, id itnpuguare, vel Socratis negligentiam, qua non argumentis probarit, quod ab Agathone impugnari posset  facillime: bonum idem esse atque pulcrum» Sed monendum  est, Graecos boni pulcrique notionem ita animo conceptam habuisse, ut alteram ab altero seiuuetum non cogitarent. Quod pulcrum, iisdem et bonum fuit, neque bonum iudicatum est ab iis, quod nou et pulcritudine gauderet; Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte Agatho negaret, bonum idem esse atque puierum, adeoque argumentis sententiam confirmare supersedere poterat, ut si addidisset, nimia  sedulitate id factum auditores  existimaturi fuissent.  i y co — do i ovy< dv 8 v •  vaiyLi}v dvxiXkyziv, U-  trumque et non pulcrum et non  bonum Erotem esse, Agatho con-  cessit sed diverso modo. Non  pulcrum, sincere et candide, non  bonum, adhibitis sophistarum ar-  tificiis, ut non rem ita esse con-  cederet, sed suam disputandi im-  becillitatem confiteretur. Igitur  accentus orationis in vocalis €yoo  et doi ponendus est, quns *cri~  Cap. XXII.   I   Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA D  tov "Eqcjtos , ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zho-  tlfiag , ?} tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al  ’J%qvaloig note dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj    ptor, quo validius prae ceteris  verbis eminerent, ipso enuotiati  initio collocavit» Sensus est: Mea imbecillitate, non falsitate sententiae meae factum est, ut ego a te,  homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum  conversio haec est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi) (etiamsi vellero,) contradicere non  possem, sed (vincerer, st contradicerem, igitur) res se habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar bwaipjjV sup-  plendam est, ut in conversione  indicavimus, ei xal fiovXoifitjri  soletque haud raro in enuntiatis  conditionalibus alterum enuntiati  membrum omitti; exemplum hu-  ius omissionis si quaeris, vide  annotat, p, 201. Pro aXXa par-  ticula aliam exspectaveris , quae  non oppositioni, sed conclusioni  indicandae inserviat. Ni fallor,  brevitate quadam dicendi Aga-  tho usus edt , quam commotiori  eius animo apprime convenire arbitror. In loci conversione indicavimus, quomodo verba expleri possint atque a\Xa praepositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$ eip  h. e., Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non  potes disputare: nam con tra Socratem tibi facile est.  Ov f.ibr ovv voculis  Socrates ita utitur, ut indicet,  recte quidem Agathonem negasse,  sed non in re negationem adhi-  buisse, quae revera necanda esset.  Exprimunt igitur ov fikv ovv  voculae lenem correctionem h. e.  rectiorem interpretationem prae-  gressae sententiae, quae aliquid  veri contineat, sed cum veritate  non prorsus conveniat. Das  heisst also, lieberAga-  tho, du Jcannst der Wahrheit nichtentgegen spre-  chen, deun dera Socrates  ist es keine Schwierig-  keit*   xai p£vyei/8y£d~  ($<o. Respicit Socrates ad p.  199. B. Uri xoivvv — n apeS  fioi ’Aya$&iva dpi?cp * artet £p£~  6$ai X. r. A. > ut verba nostra  significent: Ac te quidem,   quem pauca quaedam in-  terroga rp me velle supra  indicavi, nunc mittam.   ,o rror* rjxovdaywai-  xo S MctvtivixijS. Vulgo pav-  ttxr/S legitur; illud pauci sed op-  timae nolae codices commendant. Vulgatae scripturae originem solertissime indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit, Diotima  Mavtixi } ut infra p. 211. D.,  quum proprie deberet Mavtivif *  16 *     avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj drj xcd Ifie r a tga-  t <x« Ididafcev , — ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov , nugaOo-  aude factum est opinor, ut grammatici scriberent / lavxixijS. At  enim solent nomina possessiva  liaud raro occupare locum nominum gentilium, de quo loquendi  genere vide Davis* ad Max. Tyr. \  p, 588* et Fischerum ad Welle-  ri Gramm. T* III. P. I. p. 299*  — Non recte autem addit V.  D. : Neque eatis ad rem accom-  modatum est , quod vu/go lege -  batur , f.tctvziH7}. Quae enim Vio -  tirna de amore disputasse nar-  ratur , ea non vaticinandi arti  debuit y sed ingenii sui praestantiae ac virtutis. Eodem enim  iure cogitare possis pavxiKt) positum eaee, quo scriptum legitur  paulio infra dvaftoXrjv inolyde  tijS vodov, neque necessariam est, ut, cum dicatur orationis  auctor fuisse mulier fatidica, va-  ticinandi arte orationem compo-  sitam censeas. Porro mulieri  eique peregrinae datam esse ora-  tionem hanc, ut convivae ridean-  tur, qui, quum divinioris amoris  vim et naturam plane non ca-  perent, tamen in dei laudibus  celebrandis mirifice cxsultareut,  Stallbaumio non credimus. Quem  enim pudeat a femina melio-  ra doceri , cuius sapientia prae-  claro facinore, h. e. dvaftoXy  TtjS vodov probata sit, et quam  ipsius Socratis, sapieutissimi ho-  minis, magistram fuisse, huius lo-  ci verba testantur. Num Periclem  autipsum Socratem puduit Aspasiae  Milesiae praeceptis edoceri ? Ad-  dit Stallbaumius: Cur Diotimae  potissimum has parte* Plato tri-  buerit, neque Aspasiae aut alii  chidam nobili feminae illius aetatis , id quidem exquiri nullo  modo potest propterea , qnod a  scriptoribus aequalibus aut snp-  paris aetatis de ea nihil memoriae traditum est. Quae autem  seriores scriptores de eadem nar-  rant, ea maximam partem ex hoc  ipso loco hausta, aut temere con-  ficta-esse , exploratum habemos.  Quae quum ita sint, hoc uuum  tenendum putamus, quod , ex hac  oratione discimus , fuisse eam  mulierem prudentia et vaticinandi  arte nobilem, quae quum diutias  Athenis esset aliquando commorata, magnam nacta esset sapientiae famam. Diximus de  Diotima Mantineensi in Comment. de Symp. Platonis, ubi, curStall-  baumii iudicio non adstipulemur,  indicatum reperies.   xal 'AStjv aioiS 7torh  $vdap£voiS repo rov X.o t-  r pL o v . Pestis Atticam terram invasit Peloponnesiaci belli anno  secundo h. e. a» 450. Impetum  in eandem fecisse etiam a, 440»  ex hoc loco colligi possit; cfr»  Thucydidis L» II. c. 47* p*  214. ed. Haaek. xod ovtoov av-  tcjv (sc. tcov Aaxedcujuovlcor)  ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy  *Axxttc\} ij vodoS Ttpcoxov ypBfCtxo  yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xe-  y o/t ev ov xa\ icpotE-   pov it oWaxo 6'E iyxotra.-  d x f/il* a i xal 7tspl Aijpvov nai  iv dXXoiS — Pro $v-   dajiivoiS H. Stephanus scriben-  dum coniecit Svdapevy , videli-  cet ut esset, quo explicetur ra-  tio et modus xrjS avaftoArjS.  Frustra, Suspicari licet , quo  l wa vpXv dtfXfttlv l x tav dfioKoyrjfihov Ifioi xctl  'Ayaftcovt , avtog l%* ificcvtov, oncog av dvvofiat. d'ec modo retere* pestem abigi potaisse crediderint, mutare verba  eo minus licet, quo certius est,  .Platonem ipsum xijs avafioArjS  modum indicare noluisse.   ov ovv ixeivrj £\eyev .  Redorditur abruptum sermonis  filnm ita, ut, quae illustrationis  caussa addidit , ca nunc paucis  comprehendat illata particula ovv.  Nam omitti poterant haec: ov  ovv ixeivjf £A eye Aoyov. Sta11b.   avxoS ix * ijiavx ov. Vul-  go legitur avxoS an* ipavxov ;  illud Bastii coniectura est, quam  praeter Riickertum editores omnes  iu textum receperunt. Riicker-  tus autem avxoS an* ipavxov  ita explicat, ut nolle Socratem  contendat reliqua ex alio elicero  per colloquium, sed quae audie-  rit, ex se ipso proferre ano  jAVTjfiTjS. Sed aligd est an* ip-  avxov, aliod avroS an* ipav-  rov t atque illis verbis concedi-  mus sensum, quemRuckertus ait,  inesse posse, verbis contra avxoS  <x7t* ipavxov nihil aliud expri-  mitur, atque mea sponte,  AvtoS in* ipavxov legitur io  Piat. Alcib. I. p 114. A. el p\v  fiovAei, ipoox&v pe, Ssnep iyco  6 e , ei 61 xal avxoS ini 6av-  tov , \6ycj 8ie&e A£e, quo loco  ex oppositis colligitur, avxoS ini  (jctvxov esse: disputatione  remissa, continua ora-  tione aliquid proferre.  Probatur haec verborum signifi-  catio etiam Piat, Soph, p. 217.  C. itoxepov elcoSaS fjSiov av-  roS ini davxov paxpti A oytp  dteSttvai Aeyajv topro , o av    iv8ei%a6$al xcp ftovAjjSpS , rj  6t* ipcjx?f(jeaov , x. r. A. Igitur  hoc loco cum ceteris editoribus  avxoS in* ipavxov in ordinem  verborum posuimus. Schleier-  maeberns verba convertit: vou  dem ausgehend, woriiber ich mit  Agathon iiberein gekommen bin,  sonst aber ganz fiir mich al-  lein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias: N&chdem ich mit  Agathon iibereingekommen bin, werde ich versnchen, Diotimas  Rede in einer zusamraenhangeu-  den Darstellung euch iviederzu-  geben. Verba autem ona>S av  Svvcduai excusantis sunt oratio-  nem minus elegantem atque in-  cultiorem; quae verba, quoniam  Socratis dictio bona est et recta,  in eorum orationes convehun-  tur, qnae nimia cura elaboratae  sunt atque inutili ornatu conde-  coratae.   &snep dv dirjyrjd co . cfr.  p. 195. A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa  xal ijpds dixaiov inaivedai  npdoxov avxov , olds idxiv, inni-  xa xaS doOeiS.   Eiepa xotavta iAeyov.  n ExepoS vocis significatio prima-  ria est: alter: respicit igitur  ad alterum, qui alteri vel simi-  lis est vel dissimilis. Hinc iit,  nt ixepoS diversum denotet,  cuius notionis exemplum est  Sp mp. p. 186. B. Zxepov xe xal  pcvopoiov i6xiv . Nostro contra  loco, ubi similitudinem inter al-  teram et alterum exstare com-  paratio instituta docuit, ixepoS  verbum fere idem siguificat.  Recte Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av, agntg Gv 8iryyi)&» , 8uX%t tv ainbv  jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo g xal nolo g ng, Inura xa  igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca ditX-  Sftlv , as xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv  yag xi xal lya ngog avrfjv triga toutvta D.tyov,  olccntg vvv ngos (fit ’Ayd9av, as &>1 w *Egas ptyas    &toS, ili) 8t zav xaXav.  koyoig, olgntg iya rovtov, vertit : itidem talia. cfV.   Gorg. 482. A, vo/iige toiwv  xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa  rotavta dxoveiv % Adde Pro-  tag. 3^6. A. Interdum compa-  ratione admissa nnlla exepoS no-  vae rei accessionem denotat , at  in Alcib, II. p, 138. C. tcepot  rtpoS xoiS vnapxovdi xaxijpd -  ro , h. e„ nova mala praesentibus  addidit precando. Ibid. p. 149.  evprjdEiS de xal nap 9 t Opijp<p  &c£pa itapanXijdioc xovxoiS el-  pr/pfra,   p£yaS SeoS, Sydenharaius  dyctSoS $£of scribendum esso  censuit. Nisi fallor, minus est  «pitheton, quo omnia continen-  tur,. quae ab Agathone Eroti at-  tribuuntur, quam 5eoV substan-  tivum urgendum, Quamquam enim  in proximis de epithetorum veritate agitur, tamen de iisdem  iam disputatum est in superioribus, Nunc retractantur eadem, ut facilius ad sententiam  eam aditus pateat, qua deum esse  Erotem Diotima negat. Insequentia verba rectissime Stallbaumius  interpretatus est: KaXcjv, inquit,  pendet ex "Epeo? t quod etiam hio  positum est, ut p. Ip6. D. Adde  praeterea p. 204. D. l<$n /ily  ydp 6tj Toiovroi nal ovtcoS  yeyorwi q "Epca*, $dxt 8k xooy    rjXtyyt di) fit Tourotg rotg  ag ovxt xaXog tii ) xatci   xaXcSy. cfr. annot. p. 209.  Verba convertenda sunt: Dass   Eros ein prosser Gott, und dass  er die Liebe des Schdnen sei.   ovx ev deis . Rii-   ckertus ad haec verba h. e. in-  quit; bona verba, quaeso. Du-  bito, nuru recte. Bona verba  apprime respondet nostratium :  Nur gemacli, nicht za liitzig, iis-  que verbis utuntur, qui iratos,  minitautes, iuiuste accusantes il-  ludunt. Sic Davns in Andr. Ter.  Act. I. Sc, II, v. 33. cum herus  dixisset; ubivis facilius passus  sim, quam in hac re, me delu-  dier, Bona verba, quaeso, re-  spondit. Cui herus rursum; In-  rides, inquit, nil me fallis. Ev-  qxtjpElv verbo respondet Latino-  rum favere linguis, utrum-  que autem dicitur, ut sibi ca-  veat aliquis, no mali ominis verba  pronuntiet. Sic in Piat, de rep.  I. p. 329. C. f cum aliquis So-  phoclem aetate provectiorem iu-  terrogasset Ixt oloS X * el yv-  yaixl dvyyiyvedSat, respondisse  ille fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD-  1 te. Adde Alcib, II. p. 143. C.  *A\x. Evipiput npoS JioS , gj  2o oxpocfEf,, JS, ot; xoi roV A i-  yovxa , gJ UXxifipadtf , goS ovx  dv iS&ots: dot xavxa TtEnpd.-  XSaij Exxprjpeiv det de xeXeveiv,  d\Kd pdXX ov noXv ei xts tei     ' . ETMnOEION. 24 ?   tov 1/J.ov koyov ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig,  k'(fr]v, a z/tortfta ; cda%Qo g uga 6 ’Ega g loxl xcd xa-  xog; Kal i/, Ovx tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet, <" xi av  fijj xakbv y, avuyxatov avxo uvul alaygov, — Md- £oi  h&ca ye. — *// xal dv yy <Soq>ov ctyaDig ; y ovx  yO&yOai , on latt n yuxu.lv <Soq>tae xul aua&lag; —   Ti xovxo ; — To 6 q9cc do|«£av xal civiv tov I^hv  loyov Sovvai ovx oi<J&’, irpy, on ovx e hititix aGftui    ivavxla Xiyoi' iitel (67) ov-  ' toj doi Soxei (jtpoSpa  8 e iv 6 v elvai r 6 7t p a y -   fM)C f &ST 9 OUfifi f>7fTEOV   tlvai ovzcdS elxij x.x.X.   7 / xal av fxrj docpov df.ia-  3 Astios ij , qucd vulso  legitur, servandom duxit, ut quod  ad praecedens tj ^ *• 1,0   tn fortasse censes, referendum  sit. Frustra. Illic male vulgo 7 £  exhibetur, uostro contra loco 7  plena interrogatio est: Num et-  iam censeas . vide annot. p*  10. Ceterum frustra huno locum vitiosum censuerunt viri  docti. Stephanus ori post 1 /  inferciendum censuit , Wolfium  ossentientem habuit. Stallbaumio  e superioribus zi repetendum vi-  detur. Nos deleto post do(pov  commate pleniorem orationem  audire arbitramur: 7) xat av   otoio ’/«/ docpov apaSis ; vide  quae dicta sunt p. 10. Probari  autem vides , quae illic de r/ et  7 / dillercntia disputavimus; num  7 / 0 U 1 cum veritatis specie pro-  fertur, quam reddere latine pos-  sis fortasse. Ea veritatis spe-  cies, ut mutata particula rema-  neret, ad verbum post 7 supplendum dv additum est.  xal dv£v tov ix etv ^o-  yov Sovvai. Stallb. HCCf    deleto, quod ab inepto gramma-  tico additura censet, sententiam  verborum ait haac esse: llccte  indicare ita ut iudiciitui  non possis reddere rationem, nonne putas esse neque scientiam neque inscientiam? Cum eo Sclileierm. consentit verba convertens: Weun  mau richtig vorstellt, ohue iedoch  Ilechenschaft davon gelren zu  lednnen. Stallb. addit praeterea  si xal verum esset, reliqua haud  dubie sic se habereut : xai 0*'X  £xeiv Xoyov Sovvai. Multo deterius Huchertus in explicandis  his verbis versatus est : AoB,a2,eiy  u/jSa xal dvev tov %x £iv  yov Sovvai h. c. : vel ita , ut  non possit, aucli ohne Reclien-  schaft gebeu zu kounen. Qu«  in sententia quum bene habeat  part. xai, nolim eam deleri, quae  Stallbaumii coniecturafuit. Num  fieri posse censes, ut recte opi-  netur aliquis ita , ut rationem  reddere possit? Non credo equi-  dem. Quid igitur sibi vult vel  ita, ut non possit ratio-  nem reddere? Aov,a apprime  respondet Latinorum opinioni ,  8o&a?,eiv igitur opinari est.  Diilert autem opinio a iudicioita x  ut hoc cum ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem habet,  nationem reddere uon potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v eYij ;   ovtt auccxHu' t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v &1  ccfta&lu; taxe 6i 6y nov xolovxov fj uq&i) 56|a, fiexa^v  (pQovrjGtas y.cu duu^dlug. ’A?.7]&fj , xyv 6 ’ eya, Jitytig. B Mtj xoLvw dvdyxage, o fiij xaXov laxiv, alaygov eheu,    False et recte opinari aliquis  potest, ut iudicare eum crederes,  si haberet sententiae suao ratio-  nem. Fieri potest autem inter-  dum, ut aliquis, qui rationem  reddere non possit, tamen inter-  rogatus rationem reddat forte  fortuna repertam, non mente at-  que iutelligentia quaesitam. Iam  agnosce Platouis voluntatem, quae  clarior fit suppleto ad roy  infioitivo \6yov 6ovvai." Sen-  susest: D i e ( zu f a 1 1 i g) ri ch-  tigeMeinung and d i e ( z u-  fcillige) Angabe des Gran-  des, ohne eigentlich ei-  nen Grund augebeu zu  konnen, das weisst du  doch, sagte sie, dassman  diese weder wahrhafte  Wissenschaft, nochganz-  liche hn wissenheit nen-  n en kaun.   d\oyov ydp ^pctypct, h,   e. Denuein Gegenstand, derwirk-  lich ohne Hechenschaft ist, (wenn  gleich dieselbe aus Zufall einmal gegebeu wird) , wie kdnnte  der Wissenschaft sein? Nam qui  recte opinatur aliquid, rationem  interdum reddere postest, sed  quae aliis sufficiat, 1 non sibi, nt-  pote quam mente atque jntelli-  gentia non teneat.   ro yap tov ovroi xvy -  Xdvov, To ov significat id,  quod revera est} id quoniam opponitur ei,, quod esse videatur  tantummodo, revera noo sit, factum est, ut ro ov absolutam  veritatem denotet. Recte igitur  Stallbaumius ad h. ]. ro ov idem  esse monet, atqne ro' aXijSte,  atque ne quis de ideis dictam  accipiat, caveri iubet. To tov  bvroS r vyxctvov autem non tam  eum animi habitam describit, qui  veri compos fiat, quam eius, cui  forte fortuua accidat, ut veri sit  compos»   £drt 61 8r} irov toiov-  tov , Convertit Schleiermache-  rus : Also ist offenhar»   Astius exhibet: Est igitur ni-  mirum. Riickcrtus, qui de ad-  dendo post ToiovTov o v par-  ticipio cogitat : immo est,  qu.um talis sit, vera opi-  nio inter scientiam et inscitiam. — aJ£ particula neque  conclusioni indicandae inservit,  neque est 6)j itov immo. Ne-  scio , cur noluerint interpretes  verba convertere: Es ist aber  doch offeubar wohl cet. ,  quae verba ita dicta sunt, ut  praecedenti ovts - i<$Tiv , —  ovte — $6riv cum vi quadam  opponantur. Ac ne forte, quod  Riickerto acc disse video, t i  ante toiovtov additum deside-  res-, toiovtov nude positum ac-  curatissime alicuius rei notionem  describit, ut prorsus tale ali-  qnid esse dicatur, quale insequen-  tibus verbis esse significatur» Ti  addito pronomine indefinito vis  ilia minuitur, neque prorsas  talo aliquid esse indicatur, qua-  &    (njSs o (irj aya&ov, xaxov'  ixtidi] avros ujiokoyug (irj  (itjdiv tl liakXov oYov dsiv  rivai, aXXa n fiera^v , itprj  iya , ofioXoyuTal ye ttaQa   le sit aliud, sed ita comparatum,  ut fere tale esse aestimetur,  cfr* Piat, de rep. I. p. S40. E,  xoiovxov ovv drj 601 xai iph  VTCuXafte vvv ye drtoxpivcttiSai,  quo loco falsum foret atque Thrasymachi sententiae contrarium roiovro»' n. Adde ib. IX. p.  590. E. Jrj\oi de ye, rjv o  iyoo, xai 6 vopos, oxi xoiovxov  fiovAexai, tcu 6 i xoiS iv x y no-  A ei KvppaxoS gjv.   y,i} xoivvv av ayxaS,e,  Supra diximus annotat, p. 239.  de verbis , quae ex adiectivo  proprie cum elvat verbo aut ex  adverbio cum dicendi verbo con-  iuugendo conformantur. Mrj xoi-  vw avayxage igitur posi-  tum est pro prj xoivvv avay-  xalov elvat A eye. Minus apte  Schleiermacherus verba convertit: Folgere also n i c h t ,  neque recte Astius exhibet: Ne  igitur coutendas. Possis etiam alia ratione avayxa^etv  verbum explicare, quae tamen  nobis minime probatur, ut avay -  xageiv cogendi potestate rebus  adhibeatur, quae cogi ifequeunt,  quasi cogi possent : Zwinge doch  also Dinge nicht, die uicht sclion  sind , hasslich zu sein. Inverso  ordiue Agatho, cum neque tur-  pem neque malum Erotem esse  intelligeret , pulcherrimum opti-  mumque deum esse censuit. Ce-  terum o prj xaAov i<$ xiv idem  fere est, atque d pij xaA.ov el-  vca opoAoyovpev , de quo di-    ovtfo da xai rov "Eqcoto:  rfvcu ayaftbv firjSi xaXov,  av rov aitJxQov xai xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’  ttccvzav [tsyag &ebs rivat.   cendi genere vide, quae annota-  vimus p. 207.   ovxcj dl xai x 6 v "E p gj -  X a. Legitur ia nonnullis libris  6 rf pro de, neque confiteri dubitamus, illud quam hoc nobis multo  magis placere. Sed rectissime  ad h. 1. Riickertus ouXoj d?f, in-  quit, per se non male. Nam  quum a generali sententia nd  certum et deiiuitum aliquod sub-  icctum transimus ita, ut,' <£uod  ia universum valeat, ad hoc  quoque pertinere doceamus, col-  ligimus aliquid et concludimus,  idqne licet conclusiva particula  significare. At non est hoc ita  opus, ut tam exigua librorum au-  ctoritate mutari quid liceat, immo  sufhcit etiam addidisse signum  transitus ab una re ad aliam,  quod fit de particula»   ceAXa xi pexaB,v, %(prj,  xovx oiv . M E<prf si abesset,  nemo desideraret. Cave tamen,  id otiosum censeas. Solet enim  dicendi verbum verbis apponi,  quae ab eo dicta sunt, cuius  oratio refertur. Diximus de hoc  usu dicendi verborum annotat,  p. 56. Hinc non mireris di-  cendi verbum duplex positam  v. c. in Sympos. 177. A.  <PaidpoS ydp kxddxoxe 7 tpoS pe  dyavaxx&v Akyei’ ov deivov,  qjffdlv , eo ’Epv£ipaxe, aAAotS  plv et quae sequuntur Phaedri  ipsa verba. Eodem modo p. 202.  C. legitur xai iyoo ebtov , vcgdS   t   i   Tia v f ii ) eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv-   rcuv; Sv^avrov {liv ovv. — Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog  Sv , B(p)j , w IkixQCCTtg , vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai   C TtCCQGC TOVtOV , 01 (pCCOtV CCVTOV Ovtil &EOV llVCi l \ TL~   Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv, t<prj, <Sv , pice d’ iycu.  rovro, itptjr , XlysiS j Ac ne  forte , L r (p7 ? cet. verborum   inediae oiationi immixtorum sig-  nificatum minus recte a nobis  indicatum censeas, si interdiim alicuius verba non verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla reperiuntur, tenen-  dum est, eum, qui illo genere  dicendi utatur, si revera alicuius  verba non repetierit, tamen eo  nnimo fuisse, ut ipsa verba proferre voluerit idque addito di-  cendi verbo indicaverit.   TGJV f.nj HSo ZGDV , e<pv,  andvroov XeyeiS. Verba ita  disposita sunt, ut ex eorum or-  dine facillime possis Diotimae  voluntatem agnoscere. Nimirum  ( pm dixisset in proxime praecedentibus Socrates: maguum deum  Erotem vocari 7C apd itdvtGov,  Diotima istud jxdvtaiv , inquit,  Citrum de iis intelligenduin est,  qui rei ,non periti sunt, au et-  iam de sapientibus. Urgendum igi-  tur pronuntiando est rtavTcov,  quod quo fieret facilius, ndvTGJV  «nite A iyeiS positum est. Geni-  tivum autem casum Diotima retinuit non tam propter antece-  dentem irapd praepositionem,  quam quod vocabuli, quod aliquis  pronuntiando urget, ea forma re-  peteuda est, quam, qui antea  locutus est, exhibuit. Uiuc ne  iucomtior existeret oratio haec:  rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV  XeyetS x. x. A„ xqvS fitj ecduras    verba eodem casu posita habes,  quo lictvTCDVt ’   S,v fX7Z d vx w psv ovv .  Ovv particulam in responsione  adhibent ii, qui obfirmate ali-  quam rem affirmant, quam sunt  iuterrogati. Eius notionis origo  haec est, quod, qui interrogan-  tur, ut fortius respondeant gra-  viusque affirment, ita statim se  comparant, quasi rem negasset  Ss , qui interroget , atque huiusmodi interrogationem proposuisset; OVH OVV %V).l7cdvtGDV fibV i  Ad haec verba igitur respicien-  tes, iisdemque utentes excepta ne-  gatione, non nisi mutato verborum ordiue respondent : B,vpndv-  rcov pdv ovv. Schleiermacherus verba convertit: Von allen  iusgesammt. Sed neque haec  couversio Graecis verbis satis  respondet, neque scio, an oroui-  no dicendi genus in vernaculo  sermone reperiatur, quo illius via  responsionis commode reddatur.   x al ?/ , fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,,  Stallbaumius inquit, facile ac  uullo negotio rem tibi  explicabo. Aliter uobis de hu-  ius adverbii explicatione statuen-  dum videtur. Eo docemur, qua  potestate dicta sint verba 7tdSs  rovro A lyeiS. Sbcrates nimi-  rum summopere miratus Dioti-  xnae sententiam, qua et ipse Ero-  tem dicatur deum negare, hacc  profert: ndtS rovro A iyeiS li. e. Wie k anu st du das sagen?  Vide de hac verborum potestate Kal iyu airov , Ilag rovro, Srptjv, liytig; Kal rj, 'Pa-  Siag, $<py. Xiye yag fiot , ov itavxag ftiovg cpijg tv-  Saifiovag tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv uva fiy  tpavai xaXuv xs Kal ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli',  ovx i'yay ’ , 'iyyv. — EvScdfiovug Se Sy Xiyug ov xovg  annotat, p. 169. Ad haec Dio-  tiroa: perfacile, inquit, sc. hoc  dicere possum.   xaXov te xal ev Saiji o-  v a. $e&v elvai, Vulgo le-  gitur 3eoV, quae lectio, umle orta sit, neminem latere potest.  Nobis rectissimum videtur SeGoV t  quod Bodlcianus exhibet aliique  libri non pauci, Etenim, si Seov  probaveris, riva prouoraen in-  definitum mirum quantum displi-  ceat : An auderes aliquem ne-  gare pulcrum atque beatum esse?  Ssaiv contra a verbo , ad quod  pertinet, verbis interpositis non-  nullis disiunctum, quanta vi ponatur, ex annotatione patebit p.  59. Sensus est: An aude-   res aliquem bonum bea-  tumquo negare deorum?  Respicit autem Diotima quaestione  hac proposita ad vulgarem de  diis opinionem, quos nemo fuit,  quin felicissimos beatissimosque  praedicaret. Eius .opiniouis et  se , antequam cum Diotima disputaverit, Socrates narrat participem fuisse; hinc graviorem negationem explicabis Ma di ,  ovm iyoayB» Veritum euim se  ostendit, ne negata re deorum  iram odiumque excitaret,   ev 5 a i j.i o v aS 8 8ij Ai-  yei$ x. T. A. Annotat Mattii*  Gramrn. ampl. §, 610. 7. p*  1234. Ilaud raro ov negationem in interrogatione verbo fi-  nito postponi atque verbis prae-    figi iis, quorum canssa tota in-  terrogatio suscepta sit. Praeter  nostrum locum idem laudat Piat,  de rep. IX. p. 590. A. jj 8’ av-  SaSeiec xal 8v6xo\ia ovx urav  X d 'A.eovx6o8eS te xclL o(pc(a8ES  <xv%7jxai; Caussam huius strn-  cturae Riickertns censet esse,  quod incepta sit enuntiatio ita,  ut nulla iuterrogundi voce opus  sit. Licuisse enim dicere evSal-  jiovaS 8l 8tj A iyeis rovs — xe-  xxyffiEYOvS salvo tenore senten-  tiae. Media autem iu senten-  tia loquentem paullulum substi-  tisse, quasi exspectet, ut addat  reliqua interlocutor; quod quum  uon fiat statim, perrexisse ov  xovS xctyaSa. xal xa\d xexx ?/-  fxkvovS ; — Nobis ita statuen-  dum videtur. Cum in praecedentibus id ageret Diotima, ut  dii pnlcri beatique esse concederentur, in sequenti enuntiatio-  ne id verbum iuitio posuit, quod  beatitudinis notionem exprimeret, ratiocinantium videlicet ex-  emplum secuta , qui semper ab  eo verbo enuntiationem ordiri  solent, de quo iu proxime praecedente enuntiatione ab adver-  sario concessum est. Migravit  banc ratiocinandi normam Plato  p. 201. C. t quo loco cum praecederet pulcritudinis notio, Socrates hoc modo perrexit: rnf-  ya%a ov xal xa\u 8oxel 6oi  elvai; Illud verbum autem cum  plerumque penderet e finito ver-  bo, ut nostro loco Ev8<xiiiovaf   D tayafra xal xa?.ci xextyfiivovg ; — Tlavv ye. — 'A).fo'<  /irjv "Egesta ye wfioloyjjxag St' evSnav ttov ayadcov xal  xakav Im&vfitiv avtiov tovttov , tov tvtier/g iotiv. —  ^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog ety o ye  nov xaiav xal aya&wv aftoigog; — OvSafiag, Sg y’  ioixev. — ; 'Ogag ovv , ?<p »; , ori xal Gv "Egcrca ov frtov  vo(it£eig;    XkyeiS, non mirum videri potest,  si id statim assumitur negationi  praepositum.   ov t ov S xdyaSa xal  xaXa. Bodleianus ftalii nonnulli  codices xayaSa xal x d xaXa  exhibent, quam scriptaram Bek-  kerus et Stallbaumius receperunt  in ordinem verborum. Annotat  lliickertus ad h. 1. rectissime :  t dya$d xal xa xaXd res bo-  nae sunt et res pulcrae, quae diversae esse declarnnturj contra  r dyaSa xal xaXa res bonae et  pulcrae. cfr. p. 202, D. 6i’ £v-  Setav zaiv ayaSaiv xal xaX&v et  Trois 6 * av ovv SeoS efy o ye  tgov xaXcov xal ayadcov ayoi-  poS. p. 203. D, iniftovXoS idxi  xols dyaSoiS xal xoiS xaXoiS  x. t. X. Aliam legem in articu-  lo nominibus substantivis prae-  figendo Graeci scriptores secuti  sunt, de qua fusius disputavit  Engeihardtus ad Piat. Menex, p.  237. B. $. 6. p. ed. 252.   ojyo Xoyr/xd ye. Assensus  Socratici vestigium in praecedentibus reperitur nullum. Ero-  tem earum rerum, quae appete-  ret, expertem esse, Agatho con-  cessit p. 201. B. *Ev6er)s ap *  £dxl xal ovx k'xet o " EpcsS xccX-  XoS. — 'Avdyxtj , tpavai.  Iam cura Socrates eadem fere  Diotimae se dixisse dicat p. 201.  B. ( dxedoy yap ti xal iyco    itpoS avtrjv £xepa xotavxa l\t-  yov , oldnEp vvv npds £/il  *Ayd$GDV ) quae Agatho sibi di-  xerit, verisimile est, Socratem,  eadem Diotimae concessisse, quae  Agaibo Socrati. Hinc opoXuyrf-  xa positum explicabis.   ov 6 apeo S, &>S y * Eoixtv.  Socrates Erotam deum non esse'  ita tantummodo concedit, ut e Diotimae ratiocinatione id colligi posse dicat. Piuribus dis-  putavimus de verbis (Ss y* £oi-  xev a Socrate hic adhibitis in  Comm. de Symp. Platonis. Opds ovv, oxt xal tft)  "Epoox a ov $ e 6 v v o pi^eiS;  Stallbaumius laudat ad h. 1. Piat.  Apol. Socr. p. 24. D. xov 61  6rj fieXxiovS noiovvxa tSi eiitk  xal pjjvvdov avxolS xis idxiv.  opiis, oJ MiXexe, ori dtycis xal  ovx £x El $ elicelv; Piat. Menon,  p. 80. E. yavSavGo, olovflov-  X et Xkyeiv , dt Mtvouv * 6paS  xovxov cos ipidnxov Xoyov xa-  xayeiS ; Verissime addit: In his  locis omnibus opaS ita praemitti-  tur reliquis verbis, ut alterum  rei praesentis statum et conditionem ipsum iam perspicere indi-  cet, non sine aliqua admirationis  vel etiam irrisionis significatione.   x i ovv av, £tprjv, eirj 6  "EpmS . *Av particula a modo  verbi, ad quem pertinet, haud  raro seiuncta reperitur. Scriptum Cap. XXIII.   Tt ovv clv , Sq>tjv , drj 6 "Eqcos ; &vt]t6g ; — "HxiOra  ys. — 'AXka r l firjv ; — "Slgneg za xgozega,  iuza£v tivrjxov xal d&avazov. — TL ovv, u Aiotljia ; Aciliiuv (liyag, a Eaxgazig. xal yag itav zb Sai-    autrm exspectaveris ti ovv, Etpyv,  ehf dv 6 "Ep&S. Non perfode  est, ntro loco dv particulam po-  sueris, neque ti ovv dv , £<prjv>  ii?f idem prorsus siguificat atque  ti ovv, iqnjv, eXrj av. Iam videamus, quid inter se hae di-  ctiones differant. Optativus modus aliquid fieri posse indicat  ita, ut non addita sit vel probabilitatis vel dubitationis notio,  "Av particula adiuncta efficitur,  ut, quod fieri posse fodicatur optativo modo, id certis quibusdam  de caussis fieri posse significetur adhaerente notione verisimilitudinis. Iam patere opinor, ti ovv  eXrj o "EpuS eius esse , qui de  Erotis natura incertissimus ne-  sciat prorsus, utrum ait aliquid necne Eros, fieri tamen posse  opinetur, nt sit aliquid, idque  nunc sciscitetur. Contra ti ovv  iXt] av 6 "EpwS eius verba sunt,  qui compertum habet, Erotem  aliquid esse, idque quid sit, iam  quaerit. Ad nostrum locum ut  accedamus , av positum quidem  habes, sed disiuoctum ab optativo modo, quo dicendi genere  scriptor exprimere voluisse videtur aliquid, quod medium esset  inter ti eitf et ti bXtj av . Socra-  tes nimirum Diotimac argumeutatione captus necdum liberatus  a popularis superstitionis vinculis huc illuc vergit plenissimus  dubitationis, atque revera aliquid esse Erotem potat et rnrsnm aliquid esse posse dubitat. Verba  convertenda sunt: Wasware denti  nun also wobl, sagte icb , wenti  er etwas ware, Eros. Eodem  modo explicandus est locas Piat,  de rep. I, p. 333. A. ttpoS ys  vnodrfpdtaiv av, olpai, <paijjS  xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei <pair}$.  Ibid. IV, p. 438. A. quo loco cave, indicium tuum impediri patiaris verbo addito 60 x 01 : *I 6 ooS  yap dv, Xcprj , 60 x 01 ti Xiyeiv  6 tavta Xtyoov. Adde Protag.  p. 312. D. X6co5 dv, i/v 6 * iyoj,  dXrjSij Xtyoipev , ov pivtoi  IxavooS ye,   Gj? 7 tep ta itpotepa , $<prj.  Haec verba convertit Schleiermacherus: Wie oben , sagte sie,  zwischen dem sterblichen and  nnsterblichen. Recte. Sapplendum  autem est ex praegresso ti ovv  dv eXrj tempus praesens X. 6 ti,  nt verba explicatius perscripta  audiant tovto , o l 6 tiv wSitep  ta 7 tpotepa (cfr. p. 202» A. % 6 tt  6) j tcov toiovtov rj opSr)  6 o£a , pEtagv d/taSiaf xal  ppovr/tieoDS ) petant) Svijtov  xal dSavatov.   xal yap 7tav x 6 6 aipo -  viov ♦ b. e. denn die gesammto  Damouenwelt liegt zwischen Gott-  heit and Mensckheit raitten foue*  Ad nostram locum multos fuisse seriores scriptores, qui respice- r    E poviov [isra^v ititi ftsov te xal ftvrj tov. - TLva, rjv 6 i  lydt^ dvvccfuv %%ov; 'Equtjvevov xal 6ia7ioQ%ptvov  •O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal dv&Qciiioig rd Ttccpcc  8ewv , x cov (iiv xag dEifieig xcd ftvtilag, xdjv 61 xag  faixat-Big te xccl d(ioi($ccg xav &v<2l(5v. iv piceo 61 ov    rent, Stallbaumius ad h. 1. anno-  tat. Addit idera: Quid quod a  Proclo in Parmenid. ap. Rentlei.  Epist. ad Millium p. 455. ed.  Lips. haec omnia e doctrina Or-  phicorum repetita esse narran-  tur ? Quae quidem sententia quum  confirmetur quodammodo eo, quod  carminis Orphici fragmentum ap.  Clem. Alcxaudr. Strom. V. p.  724. fere eadem coutiuet, quae  Diotima hoc loco Socratem do-  cuisse narratur; eo minus de hu-  ius narrationis veritate dubita-  mus, quo certius exploratum ha-  bemus, Platpncm non raro ad  Orphicorum doctrinam allusisse  et respexisse.   hpfxrjvevov xa\ 8ia*>   7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap*  dvZpaJrtGOV X. r. A. Satis no-  tum est, Graecos in formulis,  quae ex articulo et nomine aliquo cum praepositione coniuncto compositae sunt, praepositionem haud  raro mutare atque eam poiiere, quae cum verbo enuntiati prin-  cipe conveniat, cfr. Fischerus ad  Platonis Phaed. c. 22. Stallbau-  roius ad Piat. Apol. Socr. p. ed.  63* et 64. Mattii. Gramm. $.  596. a. b. p, 1193* Engelhardtus  ad Piat. Lachet. p. ed. 23. Hu-  iusmodi formulae ubi per se spe-  ctantur, plerumque praepositionem quietem significantem repraesentant, ut nostro loco rd nap*  dv^pconoiS et t d napa  Accedente enuntiati principe verbo, quod motum siguiiicot, illa praepositio aut in praepositionem  motura exprimentem mutatur, aut,  ut id factam est nostro loco,  cum eo casu coniungitnr, qui motum exprimat. Non satis recte  autem napa praepositionem cum  genitivo coniuuctam putant pro-  pter antecedens SianopSuevov,’  non item propter kppj/vevov,  neque satis placet Schleierma-  cheri conversio: zu verdolmet—  schen und zu iiberbringen. Non  rectius apudFicinum legitur: in-  terpretatur et traiicit. Non dubium est, duplicem itineris ra-  tionem indicari illis participiis,  atque kppTjvsvov quidem , quod  cum verbis consociandum est  dv%pG)itoiZ tartapa $Ecby t viam  describit, quae a diis ad homines  ducit, diaitopSpevov autem de  via dicitur, qua proficiscitur,  quicquid ab hominibus nd deos  se confert. AiaitopSpEvov ni-  mirum cum Gharonte cohaeret,  qui itopSrfiEvS a Graecis vocatus est, et qui animas solebat c terra  ad sedes deorum transvehere 5 £p-  pifvevor eiusdem est, &tx\ucEppr/S  radicis, qui deorum iussa homi-  nibus obnuntiabat, non vice versa  ad deos transferebat, quod ipsi ab  hominibus mandatura esset. Significat igitur Mercurii in-  stardeorum iussa obnun-  tiare. Iam patere opinor, non  solum propter StanopS/iEvov,  sed etiam 'propter kpprjvtvov  cum genitivo coniuuctam esse  Kapa praepositionem. Hinc non d/i<poTsgm’ avfinbjQol , i3gre ro xav avto avrq) £w8s-  SeO&cu. Sici rovtov xal rj fiavuxi] xdau %uqu, xal ?/  rav ieQtuv xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal rag  relerag xal rag tnipSag xal rr\v (tavtelav ndoav xal 203  yorpceiav. &eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui , alia Sia placet Stallbaumii annotatio ad  h. 1.: J&eoiS' td it ap* av-   S p cJ it cd v . Non dixit it a p*   dvSpciitoiS et ita pa Se-  olS : nam alteram constructionem  requirebat verbum SianopS-  /f sii ov.   CvpitXif poiy (Ztxe ro  itdc v x. r. A, Ficiuus liabet ia  conversione : In utroqnc medio  constituta (sc. daemonum natura)  totum complet, ut universum se-  cum ipso tali vinculo connectatur. His verbis seduci se passi  sunt Keynderslus) qui td o\ct  dVfUtAl/poi scribendum coniecit,  et Orellius nd Isocr. p. 331*»  ubi (SvpitXripoi ro itdv , dista  avto avroj &vv5c8i<j$ai ma-  num Platonis esse suspicatus est.  Sed nihil mutandum est, neque  quicquam supplendum. Sensus  ?st: indem er aber in der Mitte  sich befindet von beiden , bildet  er die Ausfiilluug, Vermittlung,  s. fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba in terdum ita adhiberi patitur, ut  non actio, sed notio verborum  urgeatur. Vide de hoc usu verborum transitivorum apud Grae-  cos annot. p. 230*   xal i) ftavrim } itd6a  Xoo p ei. Duplici potestate haec verba intelligi possunt, ut aut  de felici successu, qui daemoni-  bus debeatur, aut de spatio viae,  quod eundo superetur, accipiantur, Ficioas verba convertit: Per hanc (sc. daemonum natu-  ram) vaticinium omne procedit  cet., ubi verborum ambiguitatem  servatam habes, neque dubium  videtur, quin eandem et Plato de industria admittere voluerit  ea de caussa, ut de felici  successa et de meatu per medium  inter coelum et terram locum verba accipiantur, SeoS 6 e dvSpfoitM ov  piyvvr ai x. r. A. Articulum omissum habes in utroque huius enuntiati nomine, ut indicetur,  sententiam proferri generalem  quam vocant. Vide Indices s. v.   Artic. Ceteram daemont medium  inter coelum atque terram locum  obtinere dicuntur ita, ut per  eos esse atque meare artes per-  hibeantur omnes eae, quae;  homines cum diis arctius con-  iungant. Haec coniunctio quo-  niam potior est eo, quod ho-  mines deorum iussa exsequuntur, quam quod dii hominum precibus obtemperent, recte ponitur h. 1. ?} SidXsxtoS  SeoiS irpoS dvSpGdrtovS , non  item avSpdmoiS itpoS Seov?,  quod Heusdius in verborum ordinem inferciendum censuit, ut  esset, quorsum referrentur verba  sequentia xal lypijyopodt xal  xaSevSovtiiv. Annotat Stall-  baumius ad h. 1. : Defendi pot-  est lectio vulgata ita, ut verbo- '  rum constructionem dicamus cou-  formatatu esse potius ad sententiam ipsam, quam ad grammati- «   tovvov naOu iativ i } byuliu xal % Sudexrog dsoig itgog  av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov 6 t. xal o  f ilv xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81 cclXo  tl tiotpog coV rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag , fiavav-  6 og. ovtoi dr; oi Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv'  slg 81 tovtqv J<Srl xal 6 "Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>,  tivog Itfrl xal [ir^Qog; Muxqotiqov (iiv, %<pr], d^yr/Oa-    cam subtilitatem ac diligentiam.  Quum enim dicatur opiXslv rivi  et diaXeyeCSai rivi, etiam opi-  A ia xal didXsxroS rivi recte  dici potuit» Et quum antea non  dixisset: 7ta6ct idri SeqI? tj   opiXia xal 7 ) didXExro? avSpcS-  7COi? , sed perspicuitatis caussa  usus esset praepositione TtpoS  addito casu accusativo, nunc ad  legitimam constructionem rever-  tens, neglecta grammatica dili-  gentia, dativum post accusativam  recte inferre potuit. iiuius-  xnodi grammaticae diligentiae ne-  gligentia si ullo loco ferri potest, huic loco apprime convenit,  ubi Socratis sermonem non prae-  meditatum illam, sed ano rov  tiro paro?, ut Graeci dicunt, ha-  bitum refert Apollodorus. Verum  est tamen aliquid in hac verbo-  rum explicatione, quod displi-  ceat. Negligentem esse structu-  rae grammaticae verborum licet  quidem interdum in sermone fa-  miliari, sed ita, ut verisimilitu-  do adsit negligentiae, h. e. ut  verba ita remota sint ab iis,  quorum structuram sequi debeant,  ut eius revera obliti esse,, qui  loquantnr, videantur. Nostro lo-  co verba proxime adiuncta sunt  f verbis, quorum structuram sequi  debent, ut saue intelligi nequeat,  cur dativum maluerit, quam ac-  cusativum scriptor exhibere. Cer-    tissimum est, aliquid exprimere  voluisse' scriptorem structurae  mutatione, quod quid sit, iam  videamus. Si scriptum exstaret  iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~  ra? t interpunctio delenda esset,  quae post avSpGoitov? in omnibus editionibus posita reperitur,  unoque tenore legendum esset  $Eoif rtpof dvSpwitovS iypTjyo-  prjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a prae-  cedentibus verbis seiunguntur  ita, ut verba 7 } opiXia xal 7 }  SiaXexToS $eoi$ rtpo? avSpaS-  Ttov S unam notionem efficiant,  quam cum uno verbo exprimere  non posset’, structura verborum  Plato assecutas est. Verba con-  vertenda sunt: Gottliches be-   ruhrt das Menschliche nicht,  sondern alie gottliche  Offenbarung wird Wa-  chenden und Traumen-  den vermittelst des Da-  ni on is oh en zu Theil.   7 ) xstpov pyla? riva?,  fiavav6oS . Schol. ad Theae-  tetum in Bekkeri Comment. Critt.  T. II. p. 368.: fiavav6ov'‘  ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde  fiavvcp, o ion xapivaj tl £p-  yov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav-  6 ov rov anavSp&ndv xal vtce —  pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov  XEipds zijs vfipi6xixij? f) rsxyt -  0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j 'AtpQoblrr;,  ttotiaino oi &£ot , oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos vios  IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav , XQoqaiTqGovOa, olov  iva%La$ ovaris, mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dv-  Qag. 6 ovv IIoqos fiidvGfrels r.6v vextuqos — oivog yag  ovjto tjv — tls *ov tov Alos xijrtov dscl&tov (Sepugr]-  litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa dia ttjv av-    StjXoi dk tovS’ x 6l Porixv<x£  xal drjpiovpyovS. Diotimae  mens haec est: virum daemoniam  recte appellari eum* qui cogno-  scendi* diis deorumque consiliis  operam navet coniuuctionis illius  gnarus, quae inter deos atque  homines per daemones exstet;  contra j SavavOov vocari , qui  terrestribus rebus intentas deo-  rum consilia minas curet. <   o tf ydp iyiveto. Quae  hucusque narrata sunt a Socrate,  Erotem cx senteutia Diotimae e  daemonum ordine esse, h. c. medium inter deos atque homines,  atque pulcro carere quidem, sed  yehementissimo eius appetita teneri, ea nunc repetuntur in mytho  insequenti , quem vario modo  FILOSOFI interpretati sunt. Hac  narratione mythica certissimum  est, Diotimam s. Socratem non  confirmare voluisse , sed explicate potius atque illustrare tamquam imagine sententiam suam.  Satis notum est autem, Graeco ram iugeqium ita comparatum fuisse, ut facilias iutelligerent,  cupidius arriperent, memoria me-  lius tenerent, quae mythica ali-  qua narratione, quam quae nuda  demonstratione exposita essent.  Pluribus de huius mythi fine diximus in Commeat, de Sympos.  Platonis.    olv oS ydp orjTCco 7/ v .  Adduntur haec, ut tempus indicetur, quo facta sint, quae hic  narrantur. Vinum antiquissimis  temporibus Graecis notum fuisse,  Homerus docet atque Hesiodus.  Hinc iudicabis de rei narratae  vetustate. Ad nostrum locum  respexit Porphyr. A. A. c. 16.  ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS  tov rhirapoS 7tX?]6$tis • ovnto  ydp olvos ?}v.   eis tov tov AioS H7J7COV  e lseX^GJ v. Cave credas me-  ta pho ricam significationem h. 1.  verba habere A 10 S xi}7Cov t  Horti mentionem Diotima fecit  vitae quotidianae usam imitata.  Hortam enim hospitis convivae  bene poti adire solebant atque  loca frigidiora sibi eligere, ubi  hausti vini calorem mitigarent  animosque concitatiores somno  compescerent. Adde Stallbaumii  annotationem verissimam : Quae  de hortis, inquit, lovis hic nar-  rantur, non solius ornatas gratia  adiecta sunt, sed properaodum  necessario commemorari debue-  rant. Qaum eDira Pori atqae  Peniae natura et ingenium tan-  topere discreparent, per se pa-  rum verisimile videri debuit, il-  lum cum hac potuisse habere  consuetudinem. Itaque quo nar-  ratio maiorem nancisceretur si-  militudinem, poeta philosophus   17   C r jjg txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca Ix toti JJoqov, xata-  xXlvEtcd te scccq’ avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto Srj  xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg 'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv o  'Egag, yewtfteis iv roig ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict  tfvOtc iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj xcd r>]s ’A(pQ0SultjS  xaXijg ovdrjg. ktb ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i ov 6  *Egag iv roiauzi/ tv%]/ xu&l6xr t xE. tcqutov filv nivtjg    ini sdn, xcd xoX/.ov Sei  ol itoXXol oiovTcu , txXXcc   Pornm finxit in convivio illo in  Veneris honorem instituto ebrium  factum se in hortum Iovis con-  tulisse, ibi vero Peniaxn, quae  ei struxisset insidias, sine arbitris convenisse. Vides, quam  necessaria sit haec fabulae par-  ticula: nt profecto miranda sit  operosa industria eorum, qui de  istis Iovis hortulis splendida  quaedam commenti sunt mendacia^7 Ci ftovXev ovd a 8ia xyv  avxijs ano piav . ’Eirifiov-  Xevelv verbum sequente infinitivo  eam potestatem habet, nt studium significet cum insidiis coniunctum. Prorsus eodem modo  legitnr in Xenoph. Symp, IV.  52. ald^avopai yap rivaS  i7tifiov\£vovtLXS SiaupSelpai av-  Tov. Adde Piat, de republ. VIII*  p. 566. B. idv di ddvvaxoi ix-  fidWeiv avxov gqoiy t} dito-  xxiivai biafidWoYteS xy rt 6-  A ei, fiiaia) 8ij Savaza iitifiov -  A evovdtv areoxtivvvvai A aSpac.  Plura huius structurae exempla  si quaeris, adi Stallbanmium ad  Piat* Protag. p, 343. C. p.  «d. 119*   8ia rr/Y avtrjS areo -  pia f'. Indicatur his verbis,    anccXog te xcd xcdog, olov  CxXijgog xcd avftiijpog xcd   cur Fenis mater esse cupiens , e  Poro potissimam concipere vo-  luerit. Etenim qaoniam ipsa,  quod futuro filio daret, non habebat, ut minus olim sentiret  puer maternam egestatem, Porum,  deum omnium ditissimum , pa-  trem ei esse voluit. Minus ex-  plicate Schulthcssius in conver-  sione Symposii exhibuit; Nun  sann Penin ihrem Mangel zn  steuetn, anf die List cet*   dio 8 1 ) xal tij S 'A <ppo-  SixyS dxdXovSof . Veneris  comes ac minister Eros dicitur,  quod est pulcri amator, et quod  Venus pulcra est. Minus clara  verba sunt yevvrjSeiS iv xols  ixELvyS yEYE$\ioiSj ad quae verba 8io praecedens spectat prae-  cipue. Nam si quis ipsis alicu-  ius natalitiis oritur, non sequi-  tur inde, eundem comitem esse  atque ministrum illius. Videtur  autem mens Diotimae haec  faisse: Erotem Veneri ortum de-  bere; nam si ad huius natales  celebrandos non convenissent dii,  Peniam nunquam e Poro concepturam fuisse. Igitur factura  esse cura pulcri appetita natu-  rali, tum pietate, nt Eros se  Veneri adinnxerit.  uwxodTjtog xal aoixog, %a[iai7UTrig asl uv xat a6re>m- D  ros, t7cl ftvQaig xal Iv odoig vxai&Qiog xoip.cou.Evog,  t ijv tijg firjTQog <pvOiv £%av , dii Ivdiice. ^vvouog. xara  Si av xov xaxtQu ixlflovXvg late xoig dyu&oig xal  xoig xcdoig, avSgdog av xal Xxtjg xal Ovvxovog, &)f  Qiirxijg Suvog, ad xivag xkbxav [ir^avag, xal cpQoinj-  Ciag tm^viirjxtjg , xal xuQtuog , xpiXcGoxpav 6 ut navxog  xov §lov , Suvog yorjg xal (paQpaxivg xal CotpKSxrjg'  xal ovxb tbg a&avaxog nitpvxBV oilte ag Qvtpbg, E    axe ovv Ilopov xal IIs-  vlaS vloS. Erotis nator», qoa-  iem sibi Socrate* effinxerat, fa-  ctum est, at Porum atque Pe-  ni am parentes putaret. Inverso  nunc ordine a parentum iudolo  ad blii naturam concludit, ut,  quod in illis conspicias, id con-  iunctim in se habeat filius. Pro-  batur igitur et his verbis, et se-  quentibus p, 203. ,C. xard 81  av xov naxepa , quod supra an-  notavimus p. 257., mythicam  hanc narrationem ideo proferri  a Diotima, ut imagine quadam  proposita indoles atque natura  Erotis illustretur. In sequenti-  bus Erotis epithetis xal habes  quater repetitum, quod, ut molestiam quandam parat audienti,  ita epithetorum indicandae multitudini apprime inservit.   ini SvpaiS xal iv o*-  dois’ vn aiSpioS xotpcope- oV o f. Paullo supra de matro  Erotis dicitor, p. 203* P- a<pi-  7MTO — xal r)v nepl xds  paSy quapropter nostris verbis ap-*  positum habes trjv xijs ptjtpoS  (pv&lY 'ixatv , quae verba cave  epitheti loco posita ceuseas $  caussam enim indicant praece-  dentium epithetorum. Ceterum  pro vitafa pioS , quae optimorum    codicum lectio est, vulgo ede-  batur vitateploiS, Male.   av 6 p eioS c ov xal Ixrji .  Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini -  6X7}jj.c*)Y> <aV ivxai>$a. fla-  verat 61 xal ini xov ixapov  xal SpatieaS, Nisi forte aliunde  hoc scholion depromtum est,  sane mireris verba oJs’ ivravSa,  quae rectissime haberent, si post  verba legerentur: Xapfldvexai  xal. Hesychius , 1'ti/S, inquit,  IxajioSy $pa6vS. rj Xtixcop tj  initixi/pav . Cum dvSptioS no-  mine couiunctum legitur KtrfS  etiam Piat. Protag. p. 349. E.  noxepov xovS dvSpelovS Safi-  flaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi; —  Kdtl l'xaf ye t Eqnj , Itp* d ol  xoXXol qjoflovvxat iivat h. e.  xal ixas ye ini xavxa , l<p’ &  x . r. A. Ceterum haud scio, an  non vitii aliquid in his verbis  lateat, quod xal ante tivvrovoS  posito removeatur. Nam ut se-  quitur STjpevxijs 6etvo>, ita for-  tasse melius habeat xal ItrjS  (SvvxovoS , quam xal itifl xal  tfvvxovoSi   xal tppovi} 6ecoS iiei$v»  firftrj i f xal nopipot. Rii-  ckertus ad h, 1. deleto post iiti *   $vpi \xrfi commata: longo , ia*   17 * , aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti rs xal %y,   orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu , itai.iv fis avapia-  CxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ie-  vov a£t vzexqh, c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e  zlovttl. Oocpictg te av xal a[ta9lag Iv fuflw idziv.    quit, liaec cumDindorfio in unum,  ut haec sententia prodeat: Amo-  rem et cupidum esse pru-  dentiae et ad parandam  idoneum. — Astius 7 topt/ioS  esse censet: opibus et co-   piis affluens; Recte 8ni-  das Ttopi/ioS, inquit, 6 dvvdiv  7j htivdiav ££<»k. Quae se-  quuntur verba rpi\otio<pGJV 8ia  rtavzoS tov fjiov , praecedentis  epitheti caussam continent, et ipsa  epitheti vices obtinent. Sensus  est itopipoS vocabuli: der al-  ie s durchsetzt, iiberall  durchkdmmt, dem u11es,  vas er uuternimmt, von Statten geht.   d eiv o S y d rj S n a\ q> a p-  paxevS xal 6o (pKSrjj $ .  Neminem fugiet, quam pruden-  ter philosophus hoc loco vulga-  res de Amore opiniones et fabulas  coniunxerit cum suis ipsius pla-  citis. Stallb,   a\\ct x 6 1 e. ptv — orav  e vir opi} 6ij h, t. A. Ficinus  verba convertit : neque immor-  talis omnino secundum naturam  neque mortalis: sed interdum   eodem die pullulat atque vivit,  quotiens exuberat, interdum de-  ficit cet» Sic interpretes ad  unum omnes Platonis verba ex-  plicaverunt, neque quicquam eos,  quod miror, in iis offendit. Pug-  nant autem hacc verba cum iis,  quae p. 200. A. seqq. de Erotis  natura dicta sunt. 'Docuit illic Socrates s. Diotima: Erotem non esse AMOREM h. e. DESIDERIUM  nisi eius rei, quam ipse nou possideat. Iam quaeritur , qui hoc  loco dici possit 3-aAAn re xal  ?,jj , ozav tv7topr}6xf. Nullus  dubito, quin pro orav evitopt}-  <$rf Plato scripserit orav aito-  prfoTf. Ad sequentia autem rore  dizoSvijtixei e praecedenti-  bus supplendum est '-orav et hro-  pytiVf qaod supplementum quum  aliquis forte, ut fit, margini ad-  scripsisset, scribarum incuria vel  imperitiorum Platonis interpre-  tum industria pro aitopijdp in  ordine verborum tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo fa-  cilius, quo magis in hac re a  ceteris daemonibus diisque differt  Eros. Solent enim Erote excepto omnes , quo maiorem rerum suarum evito picer experiantur, eo magis, ut cum Platone  loquar, efflorescere atque vigere. AMOR contra rerum expetitarum  potitus perit , sed paullo post  rursum emergit .novarum rerum,  quas possidet pater, DESIDERIO reviviscens.  5 1 a r ifv tov it a r pos <pv-  6 iv. Ilaec verba quid -sibi ve-  lint hoc loco, a nemine inter-  prete explicatum reperio. Scri-  ptoris mens haec esse videtor:  Erotem mori , ubi ea sibi com-  paraverit, quorum desiderio an-  tea Eros fuerit. Quoniam antem  Poros, h, e. deos divitiarum at-  que omnium rerum summae ab-     t%u yctQ aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’ Soi   Coipos ytvtOftcu. tori yaQ. ov3’ ti rtg aAAog Goipbg,  ov <piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig ipikoOoipovOiv   ovb’ lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr 6 ion  [ lalizov ] „d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv fnjdi    cndantiae finem non habeat regni  sui , sed aliis alia semper addat,  rerumque facultates in infinitum  augeat, fieri solere, ut Eros, ubi desiderio expleto perierit, novarum reruta desiderio tangatur at-  que reviviscat*   dei vitEKpei. 'VjtExpciv  verbi significatio haec est, ut  exprimatur, abire aliquid atque  evanescerfe ita, ut nescias prorsus,  quomodo id fiat ant quo abeat.  Apprime respondet Graeco verbo  nostratium: es gelit ihm nuter den Hiinden verloren. Schleiermachcrus verba convertit: Was  er sich aber acbafft, geht ihm  immer wieder fort.   «uro' yap tovto id ri  IxttXettov] ajuaSta, Haec  verba non recte sc habere, iam  pridem ab interpretibus annota-  tum est. Sydenhamius a/taSiqt  scribendum coniecit vel «urco  Tovtgj ; illud in cod. Veneto reperitur agnosciturque a Ticino:  JJoc enim habet ignorantia pessimum, quando qui nec pulcher  et bonus est neque sapiens , suf-  ficienter haec habere se censet,  Attius corrigendum vidit: amo  yap tovto idn ^«Acjr ov d/ut-  x ov fit) ovtcl xa\ov naya-  $ov pj/de (ppovtpov Soxtiv au-  ro ixavov, Idem etiam fyet  verbis Platonis inferciendam ceu-  suit vel scribendum apaSiaS pro  apaSla. Annotat Stallbaumius  ad hunc locum: Haec ne cui in    posterum sollicitanda videantur  amo tovto absolute positum est,  ut idem sit, quod 5i amo tov-  to : quae autem sequuntur: ro  pi) bvxa — ixavov, ea per appositiouem, quam vocant grammatici, addita sunt. — Nec Sydenhamii neque Astii verborum  medelae placent, neque satisfacit  verborum explicatio Stallbau-  miana. Concedo quidem, quod  permultis locis probari potest,  «uro' tovto ita dici, ut signifi-  cet 81 * avro tovto, nusquam  autem ita positum reperias , ut  non sequatur particula finalis.  Deinde ne Graece quidem dici  videtur: auro tovto idn ^aAe-  Ttdv apaSlot pro amo tovto  idn xarAftfoV ?/ dpaSia. Differt enim subiecti forma a prae-  dicato suo ita, ut illud articulo  insignitum sit, hoc articulo ca-  reat. Sententiam autem quod  attinet, merito quaeras, cur de  difficultate quadam molestiave  rei maluerit Socrates, qcain de  ipsa re dicere? Si quid video,  XolXe7Cov inutile est otiosumque  scioli alicuius additamentum, quo  enuntiati facilitas admodum im-  peditur. Auget voSiiaS suspi-  cionem sedis mutatio , quando-  quidem in duobus codicibus F>ek-  keri pro £aA«roV dpaSict legitur dpaSia £« A ejcov et dpaSitt  XaXEnov . Igitur uncis inclusimus x«A ETtov , quod neque cum verborum structura satis conveniat, neque, dialecticum acumen  <Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv ixudvfiit  8 (iij oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzae hudttti&eu.  Ttvcg ovv, %cptjv iya, to Acoztfia, o t epiloCoepovvxts,  B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot ttfiu&Hg ; Afjlov Srj , fg np,  Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i fiezal-v zovzav dpi-  q)otsq(ov, tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq dtp tcov xcd-  HCzcov i) Coepta , "Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo xakov,  agzs avuyxalm "Egaza tpilbaoepov uvae, qnXoGoepov •S respicis, quo Socrates hic utitur , sententiarum consecutione  probatur Sensus est verborum :  Dena das eben ist ia, was vir  Amathia nennen (vide annotat, p*  232.) dass einer, der nicht schdn  und gut noch verstandig ist,  •ich selbst geuug zu sein vermeint.   6i/\ov Stf , Icpyjy rovxo  ye 7/677 xat xaidl. Haec  prorsus conveniunt cum nostratium: das kann ja schon eia  *Kind einsehen. Utitur autem  hac formula Diotima, non tam,  quod res ipsa intellecta facillima  ait, sed quod, qui praecedentia  vecte ceperit, is adhibita analogia possit verum reperire. Hinc additam habes: oov av xa\ 6   Epeo?. Saepius enim in praecedentibus praepositis rebus duabus vera neque altera fuit  neque altera , sed tertia quae-  dam, media inter utranique, re-  perta est* Anget autem narratae rei verisimilitudinem Diotimae haec indignatio, quandoquidem et lectores Socraticam inertiam (quam care non simnlatam habeas) non possunt non  mirari. oov av xal 6 ’Epaf,  Vulgo legitur oov av xal o"E-s  poDS ; quod cum nullo pacto hic  ferri posset, Brkkerus e duobus  libris dedit av , quod praeter  Riickertum editores recentiores  in ordinem verborum receperunt,  Biickertus autem annotat ad h*  1 . ; Ne huic quidem , inquit, particulae satis commodus videtur  locus esse. Qua re suspicatus sum , essetne Jorte neutrum verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo  ortum ex oov, inde autem in ctv  mutatum. Quapropter voculam,  ut dubiae fidei , uncis inclusimus. Frustra. Saepissime av particula ponitur in enuntiatis iis,  qnae minus accurate exposita ad  praegressae alicuius enuntiationis  formam effingenda erant. Nostro  igitnr loco quoniam praecedit  ori ol ptxa£,v rovrcjv apepo-  xipoov, av particula indicat, av  av xal 6 "EpaS proprie sic proferendum fuisse: per a&,v cuV xal  6 "EpooS idriv.   <pi\o 6 o(p ov 6k ovxct —  apaSovC. Sequitur hoc ex  iis, quae supra disputata sunt.  Nimirum qui cupit aliquid, is non  potest, quod cupit, idem habe-  re. $i\odoq)OS igitur, quoniam  est appetens sapientiae , sapien-  tiam non habet, neque vero  ignorantiae addictas est; nam qui  ignorat aliquid, is id ipsum, quod  ignorat, non appetit*   de Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K uct&ovg. alrla de  avrco xal tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag docpov  Idn xai evxogov , fiyrgbg de ov docpijg xal dxogov.  i\ ftlv ovv (pvdtg r ov daipovog , co (pile 2?o r/.gcctsg,  ccvxi]. ov de 0v wq&qg "Egeor a elvca , a YavpacSzbv ov - C  dev eituft eg. cirjfojg de, cog ifiol doxec texficagofievj/   *£ cov dv leyeig, ro Igcopevov ''Egeor A elvca, ov ro  Igcov. dea renixu doi, o l^ca, Ttuyxcrf.og lepedvexo o    alrla 81 avt cJ xal r ov-  r cdv i / y iv e 6 iS . Vide quae  supra annotavimus ad verba p.  203. C, p. ed. 259.   ov Se dv cjtj $i]S*Ep ait a  tlvai, Savfiadrov x. r, A.  Frustra in horum verborum explicatione Rtickerti industria ver-  sata est censentis , dv pro uti  roiovtov poni non posse; id  enim Plato si exprimere voluis-  set, non dubium esse, quin scri-  ptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit autem Riickertus: Mihi co-  gitationum seriem iutuenti sic  res se habere videtur, quod mi-  rum esse negatur^ non esse illud  praecedentibus verbis contentum, sed verbis quidem non expressum, humauitatis caussa, ex iis autem,  quae et dixit Agatho et statirn addit Diotima, facillimum ad intelligendum sc. ori icdyxaXoS  oo i i<podr£To, cuius erroris caussa prior error est, quod AMOREM cum AMATO confudit. Certo sic omnia bene videntur cohaerere. Quem autem tu opinatus es AMOREM esse, nhiil tibi mirum accidit (quod pulcherrimum esse putabas.) Opinatus autem es — AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea de caussa videlicet pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est mirum), Nam cet. Semper  meminerint lectores, orationem  hanc tanquam vere habitam co-  ram convivis Agathonis hic proponi, ut interdum aliquid etiam  pronuntiationi singulorum verbo-  rum tribuendum sit, qua assequuntur haud raro loquentes,  quod verbis positis non indicatum  est, "Ov igitur relativum ubi pro-  nuntiando argetur, uti Diotimam  hoc lecisse consentaneum est,  tantum abest, ut pronominis relativi potestatem solam obti-  neat, ut ei rei indicandae inserviat, de qua praecipue agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu orationis  in pronomine relativo posito:  Quod autem talem tantumque deum esse ominabaris. Vide  de hac relativi pronominis significatione Mattii. Gramm, arapl.  §, 480. 3. p. 899. seqq.   Sia x aio x a. doi, oipai,  7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr.  p. 201. E. dxeddv yap ri xal  iyco itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc  HXtyov , oldntp vvv rcpbs iph  9 Ayd$cov , caS etrj 6 "EpcjS pe-  yaS J9coV, eiij Se t&v xaXcov,  r 6 rcS ov tt xaXov xal  afipov. Mirum est, Stallbau-  Eqcos. xai yccQ Etfw ro IguCtov tb Ta bvtt xa-   kov xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv• tro  5s ys igav aU.7jv ISiav zoiavrtjv £%ov , oiccv lym  Svijl&ov, mias inquit, istud dppov, quod  suspicor ia ayaSov esse mutandum. Neque enim DE AMORE  nunc sermo est, sed indicat Diotima in universum, quid illud sit,  quod ab hominibus soleat sum-  mo studio expeti ct desiderari,  videlicet ipsum pulcrumpcr  se spectatum (ro t<o ovxi  xaX ov) ct quod supra dixerat  cum pulcro artissime co ni unctam esse , ipsum per se bonum. Hinc addit deinceps  xal xIXeov xal jxaxapitixdv, Non dubium est, quin verissi-  mum sit appov verbum. Quamquam enim concedi potest, pul-  cro per se spectato melius con-  venire propter aute commemo-  ratam cum bono coniunctionem  dyaSov nomen, quam appov  epitheton : tamen boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur verisimiliusque videatur, quod p. 201* E. legitur,  6 o cratem idem fere de Erotis  indole atque natura Diotimae  dixisse, quod Agatho supra pro-  tulerit. Vidimus autem, poetam  mollitiei teneritatisque laudem  {dnaXoXTjxa') Amori attribuisse,  ut verisimile «it, Diotimam  appov epitheton ita exhibuisse, ut consensisse olim cum Aga-  thone indicaretur Socrates, si-  mulqne Agathonis illa sententia leviter carperetur. Addit  antem Diotima, ne qnis posito  dppov nomine de veri pulcri na-  tura dubitaret , commemorarique  forte indicaret aliud quid, quam    ipsam illam pulcri ideam, tiXeov   et /laxapitirov.   aXXrjv i$£ar x oiavxrjv  ix° v sc. i<Sxiv . Cave dXXoi   xoiovxoS confundas cum £r epoS  xoiovxoS', de quo supra diximus  annot. p. 245. Sensus est verborum: Contra id, quod AMAT,  aliam naturam habet et  i n d,o 1 e m atque talem quidem, qaalem ego descripsi.   ele v 8 i) 9 co xa-   AoS? yap XeyeiS^ Diximus  de elev verbi potestate annotat.  p r 36-, ibiqne annotavimus, hac  voce uti eos , qui facile aliis  aliquid concedant, quo facilius  possent illis pacatis , quid ipsi  sentiant, aperire. Non praetermittendum est autem, elev ver-  bo adhibito ita seraper concessionem fieri , ut nesciae prorsus, utrum persuasum sit necne  •i, qui aliquam rem concedit, de  ipsius huius rei veritate. Hinc  additum habes nostro loco xaXcoS  yap \iyeiS t quibus verbis indi-  catur aperte, Socratem Diotimae  sententiam probare. Recte Fictuus verba convertit: Esto,  ut ais, hospes, praeclare  enim loqueris. Non igitur  audiendus est Stallbaomius do-  cens annotat, ad Piat, Phaed.  p, 117, A. ed. p. 207., caassale  enuntiatum , quod post elev positum reperiatur, non tam ad  $lev pertinere , qnam ad inse-  quentia verba, quibus praeposi-  tum sit. Specie non caret hoc    % •*   Cap. *xrv.   Kdt lym sTnov, Elev Srj , « fa»j’ xcdcog yag  Hyeig. toiovtog <Sv 6 "Eqg>s xlvcc xQstav ijrK xolg    praeceptam , si ad verba respi-  cis. Piat. Phaed. p. 117. A., quorum rectiorem explicationem dedimus annot. p. 36. Restat, ut  dicamas de verbis p. 213* E.  ineidi) St ■yiaxtnXivTj , ih telv *  Ehv Srj , avSpt$ , Soxeixe yap  fioi vrjtpeiv . Rursus enim etiam  in his verbis, ut supra p. 176.  A* , supplemento quodam opus  est, quoniam non comparet,  quorsum Alcibiadis assensionem  referas, habeat autem necesse est,  quiassentitur, dictum aliquod, cui  assentiatur. Neque supplemen-  tum illud diu quaerendum fuit»  Consentaneum est enim, couvi-  rarum aliquos, cum consedisset  Alcibiades, hominem rogitasse:  Nam liabes, qui hilariores esse  possimus te praesente? Ad qnae  ille, ehv Srjt inquit, Soxelts ydp  pot vtj<peiv. Possis etiam ita  rem tibi informare, ut statuas,  Alcibiadem, cum consedisset, vul-  ta subtristi circumspexisse specumque edidisse eius, qui magno  alicuius rei desiderio teneatur. Quod cum animadvertissent convivae, Alcibiadem rogarunt : Num  quid est, quod minus apud nos  tibi placeat? Ad quae ille, id vero, inquit, sit revera, videmini enim mihi nimium vino abstinere.   t OlOVtOS GJV O *£pGOt'   II. Stephanus post toiovxoS inferciendum censuit 6£ particu-  lam, quae res documento esse potest, eum prorsum eandem verborum interpunctionem habuisse, quam nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij nihil nisi  transitum denotare censeret, elev  Sr/, xoiovxoS gjv convertit ; Age  iam, hospita, quum talis  sit. Nos neque H. Stephaui  commentum probamus, neque Riickerti conversionem verborum  laudabilem censemus. Asyndeton  autem quod attiuet, notandus  usus est Graece loquentiuto, quo  post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum est, Si particulam aliamve copulam omiserunt.  Neque ratione caret hic usus lo-  quendi, quandoquidem satis constat , asyndeta gravitate quadam  augeri. Ei gravitati autem in-  primis locus est ibi, ubi aliquis  aliquid facile concedit, ut ant  suam sententiam celerius profer-  re possit, ut pl 213. E., aut ad  novam quaestionem studiosius  abeat, ut hoc fit nostro loco, et  Piat. Phaed. p, 117. A. ehv, $cprj>  & fttXxitixe , 6i) ydp xovxgov  iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ce-  terum gjv participium quod at-  tinet, supra annotavimus ad p»  174. D. dp* ovv dyojv p£ ti  aTtoXoyijdei , participiis ita in-  terdum scriptores Graecos uti,  ut obiectivam veritatem cum sub-  jectivo loqaentis indicio coniun-  ctam exprimant. Nostri igitur  loci sententia est; Si talis est,  et credo talem esse, qua-  lem descrip si st i , natura  Erotis: quam utilitatem  affert hominibus?  av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9 , ?<p;, cJ Z*5x(>a-  DTfg, 7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiov-  rog wxl ovzcsg ysyovag 6 EQag, %0 xl , oh xav xcd&v,  ioc 6v qpyg. ei de ng 'tjixug Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov  10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai Aiotipcc; c ode dh 0a-  yictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ; — Kcd    riva xpelctv Ox £t * cfr.  p. 201. IT dei 67 /, cJ Uyd^ajv,  &67tep 6v 8 17] y i)(5gj , 8ie XSeiv  \ r av7ov icp&xov xis ioXIV O*EpG0S  ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct  itvtov. Quae sequunt u e verba  tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\,  rernacolo sermone expressa au-  diunt: das ist nun der zweite  Punct, den ich dir auseinaoder  zn setzen versuclien will.   0 . 6 x 1 pev yap 81 } x,oiov -  roS n. X. A. Socratica sciendi  aviditas cum tanta esset, ut per-  cepta priori disputationis parte  nimio impetu ad alteram ferretur, id quod asyndeto expressum  est : xoiuvxoS qdv o "EpwS riva  Xpciav xols dvSpanoiSj  Diotima, ut impetum illum paul-  lisper retardet, ac ne inceptus  ordo dispatatiouis turbetur, ve-  retis, verba adhibet: 06xi jxhv  ydp 8t} xoiovxoS u. r, A., qui-  bus cum gravitate positis Socra-  tes admonetur, ut et quietius  cum Diotima agat, et partes disputationis memoria teneat studiose. Tecte autem ipsis ' his  verbis carpitur Agatho , qui cum  in ipso orationis exordio recte  indicasset, quo ordiue Erotis laudatio procedere debeat, ordinem  disputationis male turbavit,   7 (a\ ovxa>$ y ey ov qjS .  Dindorfius , Stallbaumius ovxcoi,  quam Florentinorum librorum lectio uem esse accipimus. Sed  caussam hic, cur ovxcoS' scribatur medio in commate et sensu,  non videmus. Riickert. Iam  supra annotatum est a nobis, non omnino nobis probari praeceptum  eorum, qui omnibus in locis ov-  Tco ante consonam scribi iubeant,  neque ovx&f probent, nisi id  verbo cum vocali incipiente praepositum sit. Satis docemur haud  infrequenti consensu codicum  meliorum, Ovxgj? etiam subse-  quente consona Graecis in usu  fuisse ibi, ubi aut ipsum ovxcoS  not enuntiati particula, in qua  ovxcjS’ collocatum sit, cum vi  quadam proferatur. Hoc in nostrum locum cadere nequit negari,  igitur recte ovxoai servasse nobis videmur, cfr. praeterea Stallbaumius ad Plat. Gorg. p. 516.  C. , p. 522* C. ad Protag, p*  351. B.   el 80 tiS r}pa$ Opoiro.  Omissae apodoseos exemplum  habuimus p. 199. F. el yap  ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS avxd  rovxo oitep l6xiv , 06xi xivoS  aSeXtpoS rj ov ; — $dvai el —  vat f ad quae verba vide anno-  tat. p. 234. Nobis pari modo  praesertim in familiari sermone  loqui licet: Wenn uns aber ie—  mand friige : In wiefern eigentlich ist denn, o Socrates und  Diotima, Eros die Liebe zum  Scbduen ? ich will es aber deut-  licher so ausdrucken : Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai avtcji. ’Al\’ in no&u, iyrj,   ?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv toluvSb' TL i&tui txtivcp, <J  ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw itpijv in i%nv lyco   ItQUS tttVTl]V tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS dxOXQlVUCS&Ul.   'AI /i , itp>] , bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv , dvzl zov xu- E  lov zcj dya&cS %Quynvog, hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6- . das Schone liebt, was liebt dena  der eigentlich?   ori Fer id $ a i a v reo .  Mecum fatebuntur lectores*, se  haud facile responsuros fuisse,  si Diotimae illa quaestio sibi pro-  posita esset, quod Socrates re-  spondit, mirarique licet, Socra-  tem, cum alias fatuitatem quun-  dam simularet, ut et infantem ca  videre posse Diotima censeret,  quae ille non videre se simula-  bat p. 204. D. , tam feliciter ac  subito respondisse. Sed quae-  stio Diotimae revera facillima  est ad expediendum, si ipav  verbi potestatem accurate per-  pendas, et si accentum orationis  non in xi ponas , sed in ipet  verbo. Diximus p. 69. de ipav  et <pi\tiv verborum discrimine,  illud viris hoc feminis atque  amasiis attribuimus. Atque ut  illic annotavimus , (piXelv eorum  tantummodo esse, qui capi se ac  teneri patiantur, ita h. 1. adden-  dum est, ipav non nisi eos di-  ci, qui capere atque tenere concupiscant. Haud multum igitur  differt ipav ab ixiSvpeiv; tan-  tum modo ab eo discrepat, quod,  qui ipav dicitur, h, e. stadio  cupiuudae alicuius rei teneri, is  virili robore gaudere cogitatur  atque viribus, quarum auxilio  possit, quod amet, eo potiri, cfr.  p. 200. E. xal ovro? apa xoii  «AA oS itaS o ixi$vpd>v tov prj  ktoipov ini$vpel xal roO pij    i rapovroS xai o pj/ £*« xal 8  )i?) icJnv avcoS xal ov ivdeyS  icriv , rotavi* arra itiriv, cov  7j lxi$ v pia te xal 6 "EpcoS  iOziv.   a A A* ixi xo$ei, £(pij.  Bodi., Vat., Vindob , Angel. ha-  bent «AA* ixixo$il. ceteri d\X*   _ 7 ... i   iri XO$ti. Hoc praestautius illo  est. Suspicor tamen , quod et  Riickerto in mentem venit, utram-  que lectionem coniungendam esse  Platonemque scripsisse: aAA*^ri  ixixo$Ei f praesertim cum lega-  tur in Piat. Protag. p. 329, D.  rot>r itirtv , o in ixixo$<» f  h. e., das ist es, was ich noch  hinzuwunsche. Paullo infra p»  205. A. xal ovxin x poSvei  ipi<5$ai x. t. A. Ceterum x o-  $£iv s. ixixo$Eiv de rebus in-  animatis dicitur, ut i$i\etv 9  fiov\e6$ai , (fiiXeiv, ut vis quae-  dam describatur rebus illis iu-  habitans, quae cum instinctu ani-  malium comparatur. Diximus de  hoc usa verborum annotat,  p. 144.   < oSxep av ei tiSp.£ta-  fia Aalv. llecte Ficinus parti-  cipium convertit: mutatis vo-  cabulis. Nimirum cum p. 201.  C. concessum esset ab Aguthone, pulcrum idem esse atque bonum,  in pulcri locum substitui iubet  Diotima bonum, ut Socrates, cum  viderit, quid futurum sit ei, qui  bono potitus sit, deinceps dicat,   i   TCQceas, 6 iodv tav dycc&eiv zL Iqu-, — rtvio&ai, r\v  d' iya, aurei. — Kal n ttizcu ixtiveo , « av yivryzai  05 V nycc&cc; — Tovz’ evzoqcotcqov i]v d’ iyio, 'tya dn o-  y.QivaG&ca , ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi yag, leprj , dya-  &cov oi EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi ngogdei  .tQiG&cu, ‘ "Iva xi di pwltzai svSalficav sivai 6 (iovXu-  [ttvog; cilia zU.og do xtl zyziv r/ dnoxQKSig. — 'Alrftrj  liyug, linov lyde. — Tavzijv dij zijv (iovlijdcv y.cd zov quid ei eventurum sit, qui pul-  cri facultate gaudeat. Ceterum  cur hoc loco aofisti participium  probrmus, p. 174. B. nou nisi  praeseutis participium admiseri-  mus, ratio in propatulo est. Il-  lic enim de actione, quae lutura  sit, agitur; hoc loco conditiouale  enuntiatum habes, in quo exem-  plum continetur, quoil noti tan-  quam fiat, proponitur, sed quasi  factum revfera Socratis animo inducitur,  2tnx paxeS, q  t{>VY rcDY dy aS ojy . Haec  est unius Bekkeriani codicis le-  ctio, quam et Bekkerus et Stall-  laumius in textum receperunt;  undecim ' codices apud eundem  habent (jcoKpaxtS i pii o ipcov,  in uno tiatxpctref ipd iptor  comparet. V ulgo 6conpaxeS ipcj  p ipGOY legitur, quod Rticker- r  tus iu textum recepit convertens:   Feriude ac si quis mutatis vocabulis roget ^«ic,  age Socrates, dicam, qui  amat cet. Epeo autem ea de  caussa non spernendum censet,  quod iu familiari sermone sae-  pius dicendi verbum praeter  necessitatem mediis verbis  iuscratur. Sed illud praeter  necessitatem minime nobis  p lucet ; vide annotat, p. 249 neque ipeo ad dicendi genus revocari potest , quale est p. 202*  C. 7 <ou iy<o funoY , n&S rovto ,  i<ptjv , \iyetS ; quae sententia  Ruckerti est. Nara ut ne commemorem quidem, quod Ipeiv  nusquam inseritor hoc modo, sed  (pdvai verbo scriptores semper  utuntur, etiam prima persona  ipeS verbi, quae in tertiam mutanda erat, Riickerti sententiae  officit. Postremo ridiculum fo-  ret , inserto dicendi verbo ipsa  alicuius rerba indicare eo  Joco , ubi praecedentibus oaSlttp  av ei verbis satis demonstratur,  certi alicuius hominis verba non  afferri. Restat, ut dicamus, qui  factum sit, ut in tara multos codices ipeo verbum irrepserit.  Scribarum aliquis cum iutelligeret, bono in pulcri locum sub-  stituto eandem quaestionum se-  riem nunc repeti, quam iu prae-  cedentibus Diotima Socrati pro-  posuisset , atque verba o ipcov  jcov ayaScov xi ipd apprime  respoudere praecedentibus o’ ipdjv  Tcoy xaXcov xi ipd , factum est,  cum alteram quaestionem cum  altera compararet, atque illic  ipoj praepositum reperiret, nt id  verbum vel negligentia vel im-  perita quadam sedulitate iu no-  strum locum transferret.   HXtjdei yap oi evdai-  iQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV tXtt tlVtXl ItUVTOV (IV-  ftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig arca  Kfi , ij nag liyug ; — Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai  navTCJV.TL 8rj ovv, Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag  egav (pttfilv, si 'juq ye itavTf g twv avrav £qg>Oi xal B  ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d' ov; — 0avfiaia i,  f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit] &av(iat;’, Stptj’ cttpe-  Xovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos 6vo(ii£o[iev xo    lioveS . Haec Terba ita conformata sunt, at Etprj non addi-  to ea facillime putare possis uon  Diotimae sed Socrati aduume-  rauda esse. Neque opus est, ut  affirmandi vocabulum supplen-  dum censeas, ad quod yap re-  referatur. Diotimae verba ar-  ctius cum praecedentibus coniungenda sunt, ut perinde esse indicetur, quis dicat, Socratesue an  Diutima, modo veritas dicendo  eruatur. Iluiusmbdi dicendi ge-  neris permulta exempla aperiuntur. cfr. p. 200. B. dp’ ovV  fJovXotz* dv x is pfyas cdv jti-  ya? elvai, ij idxvpoS wv idxy-  poS ;  f A8vvaxoy ht xcdv cJ- s  poXoyjpuvojv. — Ov yap z ov  ivSei)? dv eiij tovtaov o ye &v.  Piat. Gorg. p. 492. E. 2?. ovx  dpa opSoHS Xtyovtai ol pi]8e-  voS deopevoi evSaipove? elvai .  K. ol A i$oi yap dv ovtao ye  TiOLi ol v ex pol evSaipovidxaxoi  elev .   xv a x i de (i ovAet ai. Di-  citur ira xi ilermauno annotaute  ad Viger. p. 849. per ellipsin.  Plene, inquit, in constructione  praesentis temporis iva xl yivrj-  xai , in constructione praeteriti  Hva xi yivoixo. Sclileierma-  macherus verba convertit: Und  hier bedarf es nun keiner wei-  tern Frago mehr , w e s ha1b    docli der gliiclcselig sein will,  der es virili. Haud facile verna-  culam dictionem reperias , quae  Uva xi verbis respondeat. Cete-  rum ut recte huius Idci senten-  tiam percipias, (iov\E6$at et hic,  et paallo infra ftovXl]6i5 nomen  ad significandam eum vim, quae hominibus innata est atque cum oatu-  ra eorum couiunctu, adhibetur : der  Trieb. Vide qnae <1& fiovAeOSai  verbi potestate, atque quomodo  id differat ab iSeAeiv , diximus  p. 44. Igitur xo fiovke6$at  tvdal/tayv ELvai caussam primariam describit studii beatitudinis, ultra quam caussam progredi ne-  mo possit.   xi 6l) ovV. Sententia liaec est: Si omnes homines eiusdem  rei, h. e. beatitudinis sempiternae  AMATORES sunt, mirum videri potest , cur alios amare dicamus,  alios non dicamus. Sed expli-  cator hoc eo, quod a notione  xov ipdv seiungimus partem ali-  quam, qua pariendi et generandi  studium exprimitur, idque xov  ipdv atque xov "EpcoxoS verbis insignimus , aliis nominibus  ad ceteras tov ipdv partes de-  scribendas utimur.   xiv ds q> apev — xov? 8*  ov. Scriptura exspectaveris xov?  ) uev — xov? 6 ov . Positum   tov oXov htitiXtivng ovo/ia rpcorce , ta Ss &XXa aX-  Xots xaTayguixs^a ovofiaGiv.''SlgxEQ rt; ijv d’ lya. —  "SlgittQ tads. oiO^ oti itolrjOig iori n TtoXv. ?; yag   ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg TU OV loVTl OTlpOVV ahtU XatStt  iGtl jioir\Gig , «gr£ xal cd vno xaScag rafg rlyyai g  C igyaoiai xoujtiu g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi itav-  Tig itoitjzaL  'AXiftij Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij, olo&’    autem habes pro TovS jiev, qui-  bus verbis uequa conditio prio-  ris atque posterioris membri in-  dicatur, TivuS, ut lector monea-  tur, pauciores esse, qui amato-  res et amare nominentur,  inulto plures, qui et ipsi amato-  res sint, aliis nomiuibus in-  signiri.   dtp e\oyt e £ ydp d p a. In  permultis codicibus dpa omit-  titur , velut' in Bodleiuuo, Vati-  cano uno, Vindob., aliis. Rectis-  sime Riickertus ad b. 1. : Aeger-  rime, inquit, caream dpa parti-  cula, qua id efficitur, ut senten-  tia haec non . pro certa et ex-  plorata ponatur sic simpliciter,  sed colligi tantum ex aliis vi-  deatur hunc fere in sensum: si  recte ego observavi,   noiqGis s6ri r i 7toXv  h. e. scis id, quod itotydiv voce-  mus , latioris significationis esse  notionem ( ein weitschichtiger  Begriff). Quicquid euim, cura  nihil fuerit antea, post ita mo-  vetur, ut sit aliquid, huic caussam ortus fuisse dicimus noit}6iv.  Apte laudant interpretes ad h„  ]. Piat. Soph. p. 219- B. ritiv  dreep dv prj npoTepdv TiS uv  vtizfpov ds oixuiav dyy, tov /ikv  dyovxa noielv , t 6 dyo-  jaevov 7toiei6$ ai tcov tpapev .  Rodem modo, quae latissimi signi-    ficatus verba sunt, adhibentur a  nobis ita, ut certum quondam,  eamque artioribus finibus circum-  septam -actionem exprimant. Sic  dichten de arte poetica, w i r-  ken de textoria, handeln de  mercatura usurpari quem fugiat?   it oirjtiiS ydp tovto po-  yoy. Ad tovto repetendum est e  superiroibus ro 7(Ep\ r ijv jnovdl -  W/v xai td fihpa. In sequen-  tibus exovteS tovto eodem sup-  plemento opus est, quod ne mi-  nus convenire censeas cum £ xoy -  rtfparticipio — poetae enim non  habent id, quod dicitur ro' 7tepi  tjjv f. iov6iw)v H. r. A., sed eius  periti sunt ita, ut in carminibus  paogeudis eo utantur, — tenen-  dum est: Ix&v verbum haud raro  idem significare atque cogni-  tum habere, ea de caussa,  quod qui aliquid animo percepit  atque ita mente tenet, ut eo  recte uti possit, idem id etiam  habere dici possit commodis-  sime.   ovtgj Toivvv Tiai rtepl  Tov £p G>xa. Haec brevios  sunt dicta, non item obscurius.  Diotimae mens haec est: Quod  de poesi modo dictum est, idem  in amorem cadit. Poesis pro-  prie de omnium rerum caussa  efficiente dicitur, sed usu loquendi  factam est, ut pQcseos nomen ou ov xcdavvTM n oirjrctl, alia alia tyovGiv ovo fiam  aito 6s TtnarjS xijg itoirjGsag %v (toQiov ucpoQia&iv rb  jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa fiixQci x ra xov oAov bvbaaxi  xCQogayoQtvixca. noi^Gig yag tovxo (tovov xaltixca,  xal o t k'%ovx£g xov to x b uoqlov xljg noitjGtag noirycai.  — kiyug, ttpijv.Oura xolvvv xal niQi   xov Squtk ' xo jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov aya- D    noii niii ad eam poi-seoa parti-  culum describendum adhibeatur,  quae in re musica et metrica  versetur. Iam ad verba acceda-  mus to fihv xEtpaXaiov — ipoaS  Ttctvziy quae ad hunc usque diem  interpretum studia misere eluse*  runt. Stallbaumius expungenda  censuit verba o piyidTof te xal   'HoXepoS SponS itavxi. Riickertus  contra se ita semper sensisse  annotat, quoties vel secum hunc  locum tractaverit, vel cum aliis,  miro eum ornatu spoliatum iri,  si vel una hic litterula sublata  aut mutata foret. Recte igitur  Lticiauus ait epigr. V, v. 3. An-  tholog. Iacobsii T. III. p. 22.   * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui SiaxpiSov  idn voTjfia,   aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt  kxepoidt yiXaS,   Ratio verba tractandi, quae Stallbaumio placet, ut audacior, ita  miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam plane non perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam, quae  in eius annotat, ad h. 1. p. ed.  169. leguntur: Quod vos de ve-  stro soletis Amore praedicaro ,  maximum deum esse et callidissimum, qui neminem non deci-  piat y id multo valet magis de  beatae vitae cupiditate, qua omnes omnino homines velint  nolint plane irretiti sunt du -*  cunturque naturali quadam ne-  cessitate non aliter , ac si magi-  cis artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra p. 203- -D. $£tvof  yoyS xal tpappaxEvS xal do-  q>idTtj$ audit. — Diolimae volun-  tas haec est; Loquendi usum ut  in poesi, ita in amore nomine  insigniendo versatura esse, atque  amorem et amare et nomen  amatorum iis tantummodo tri-  buisse, qui amoris particulam unam  sequantur. Summam autem amoris  omnem bonorum cupidinem esse,  atque beatitudinis quidem cupidi-  nem esse maximum doXcpoy)  amorem (iravtl). Vides igitur,  to /xk v xEtpaXaiov et tov sv-  baipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sub-  lecta enuntiati e$e. To XEcpd-  Xaiov autem primariam alienius  rei notionem describit ut in Piat.  Gorg. p. 453. A, hiystS , otl  izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv ?/  fnfxopixi } y xal 7 } 7tpaypaxdot  avxijS aitada xal to xecpdAai-  ov eIS tovxo TEXevxa h. e. Stalh-  baaraio interprete : dicis rheto-  ricam esse persuadendi opificem omnemque eius operam atque  summam ad hos tanquam ad finem suum referri, ut aliis per-  suadere possimus, quod volumus.  Iam nostra verba convertenda  sunt: Der Grundbegriff  &av hiitivula xal tov tvSaipovsiv , 6 lilyctitog re  xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot fiiv ciXbj rgexofiivoi.  ltoX}.a%rj in’ avtov , rj xaxcc xgr^auGfiov tj xaxcc qii-  }.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav , ovt’ igav xaXovv-  T at, ovt IgaGtai , oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai  IcSnovSaxoTig ro tov oXov livocia ia%ov<Uv , agaxd re  xai iQuv xal igccGzaL — KcvSvvevus dh]&rj Xiyuv,  hcpijV lya. — Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos, co$    der Liebe ist iedes Stre-  ben nach dem Guten, and  das Strebcn nacli dem  liochstcn Gute, d. i. nach  Gliickseligkeit, ist die  grosstc Liebe. Restat, ut  dicamus de verbis xal doAepoS  — TtOLVXly quae nou dubium est,  quin corrupta sint. Antiquitus scri-  ptum fuisse suspicor: KAIKOI-  KOCEPflCTIANTI, in qua scriptura tripliciter peccatum est a  librariis. KOI enim, quod haud  fere multum discrepat a KAI ,  omissum videtur ab cq esse, qui  xai dupliciter posituin putaret.  Hinc enata est, cum forte, ut  fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC  duplicaretur, haec scripturae for-  ma: KAI NOCE mCErflC ITAN-  TI i ex qua dictum est, una li-  neola in littera N deleta, ut non  nisi A figura remaneret: xal  Sodtpt HpGDf Tiartl. Ex hoc  autem sciibam aliquem, qui  callidum Erotem sciret, fecisse  verisimile est xal doXepof ipoot  itavxi. Ut autem couiecturam  nostram xal Xoivds^EptoS itavxi  ipsi probemus > praecedentibus  verbis efficitur p. 205. A. rort;-  t 7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov  i p cata tovtov itotepa xoiyoy  oi n . etvai izdvrayv dv^pcjitcov  xal navtaS xayaSa fiovAeoSai  avtolS tivai adi, ?)' tzcjS Ae-    yeiS ; OvtcoS , jjv d * iyco et  quae sequuutur, quibus verbis  accurate examinatis doceberis,  nostro loco xoivvS nomen vix  abesse posse. In Schleierma-  cheri conversione legitur: Soauch  vas die Liebe betrifft, ist im  allgemeinen iedes Begehren des  Guten and der Gliickseligkeit  die grossle und heftigste (?)  Liebe fiir ieden. Iu Schnlthessii conversione edita ab Orellip  p. 123. exstat: Im Allgemeinen niimlich ist iegliches Yerlangen  nach dem Guten und nach  Gliickseligkeit fur iedeu die  grbsste, ihn bestrickende  Liebe* Ficinus verba convertit^  Nam summatim quidem omuis  bonorum felicitatisque appetitio,  maximus et insidiator amor  est cuique.   aXX* ol p\v ot-Wy x. x. A.  UAXd particula adhibita, a rei  commemoratione, qualis revera  est, ad loquendi usum traositur,  quo non res integra suo nomine  vocatur, sed rei alicui parti in-  integrae rei nomen attribuitur,  cfr. p. 204. A. £n. rl 8if ovv,  gJ ^GonpaTtS , ov izdvxaS ipdv  (paptYy eh zep ye itavxeS xcav  avtaiv ipcAoi xal ael } dXXa  xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de indole atque  naturali quodam instinctu dici—    ot av to SfoutSv iumav fyjTuGiv , ovroi IqucSiv ' 6 6’ E  ifiog koyos ovxs ^fiiaeog <pt]6iv ilvcu tov £q(otcc cirts  olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m Itcciqe, ayaQov ov'  ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv axo-  t tftveiS&ca ot «v&qcjxoi , iciv avtoig doxjj r a iavtav  XovtjQa efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona-  £ovtai, tl fit] i'i ng to fiiv aya&ov olxtiov xaXil  mi eavtov, to 61 xaxov akkotQiov. ag ovdiv ys aUo    tor, at p. 191. E. udat Si tdcrv  yvrauaSy ywaixoS d-   (5iv y ov Ttavv ctvxai xols av~  Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv,  d\Axx pctWov itpoS xaS yvval -  xaS xexpajupivai eidlv. —  Pro ol ptv a\Ay vulgo legitur  non male oi ptv aWoi f quae  scriptura quoniam codicum opti-  morum auctoritate improbatur, e  verborum ordine expellenda est.  Minus nos movet Ruckerti ar-  gumentum dicentis, ol piv et  ol Si sibi opposita esse. Quem  enim fugiat, praesertim cum ae-  qualitate quadam careaot, oppo-  sitionis membra interdum ver-  borum numero et conditione non  apprime sibi respondere.   xal Xeyexai jxiv ye,  Miv ye particularum cognove-  ris vim et potestatem, qnando  xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai  ye seorsim utrumque posueris.  Altera particula efficitur, ut Dio-  timne sententia hominum quo-  rundam opinioni opponatur,  qnam Aristophanes protulit, al-  tera vis oppositionis augetur at-  que extollitur.   ovxot ipaititv. Saepias  iam diximus de transitivorum  verborum usu absoluto, cuius ea  natura est, ut casu adiuncto nul-  lo non actio quaedam, sed no-    tio prematur verbi. Positum  igitur hoc loco habes ovxot  ipadiv pro ovxot IpcovxiS  \tidiY, Ceterum Wolfius anno-  tat ad h. l.j Was Aristopha-  nes liber die Trennung derMen-  schen sagte , wendet Socrates  hier zu einer ernsteren Absicht  an. Alles , was iener vorge-  bracht hatte, beruhte anf einem  falschen Gebrauch eines Aus-  drucks, der damals beinaho  spriichwortlich gewesen za seia  scheint, dass Liebhaber ihre aa-  deren Ilalften aufsuchen.   &itel avxcvr ye xal no-  SaS xal xelpaS x. r. A. Do  iitil potestate vocabuli supra di-  ctum est annotat, p. 151. Ce-  terum adhibito pedum manuum-  que exemplo, qnas sibi abscin-  di iubeant, qni illas non bonas  esse cognoverint, Aristophanicao  orationis argumentum concidit*  Fieri enim nequit, ut dissecti  homines tanto ardore, qnantom  Aristophanes descripsit, alteram  sui partem expetant, cnm et ex  altera, cuius ipsis potestas sit,  exscindi patiantur, quaecunque  vel mala sint,, h. e. morbosa  et doloribus afiecta, vel ad usum  parum idonea.   ei / 11 } ei rtf. De ii par-  ticula post ei jujj repetita M&t-  18   206 i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov aynftov. rj dol 80-  xovdr, — Ma At ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. — *Ag ovv>  y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri Xeyeiv, ori ot av&QGMot tov  i fcc&ov igcSac; — 2 Val, Zcprjv. — TL de; ov XQog&et&ov,  iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg egco6i ; — IJpog-  &8TSOV. — r Ag ovVy %<p*h xcu ov (tovov eivai , akka  ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo itQogftexiov» "Edtiv    thiaens egit in Graram. ampl. $.  617. d. p. 1249. , obi laudan-  tur Thucydides I. 17. inpa-  %Sjf di z* ctvteHv ov6\v ipyoY  dZioAoyov , ei fit} ei xi npdt  tteptoiHovS tovS avtdSv kxd-  OtoiS. Piat, de rop. IX. p. 581.  1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyv-  piov Ttoiei. Prorsus eodem modo  Latinis id usu est nisi si.  Ditfert autem el fit } ab ei fit/ el  Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi  exceptionem, quae ad id refertur,  quod sequentibus verbis expres-  sum est; el fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne conditionem quandam subiuugi, ut si nliquid fiat  aut non fiat , exceptionem re-  vera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot,  jj tov dyaSov. Aliquot li-  bri ol dv^pamoi, Sed non opus  articulo, cuius omissio admodum  usitata est in eiusmodi vocabu-  lis, qualia snnt dvt/p , d8eA(pot f  yvvtj t yij , alia, quum de genere  posita sunt. Stallb. De genitivo, qui in verbis continetur  ?/ tov aya&OV Mnttbiaeus dis-  seruit in Gramm. ampl. $. G31»  2. p. 1299., ibiqnc ?/ r ov acya *'  3ou positum esse monet pro  t) tq ayaSov. — Nominativum  incepta verborum structura exi-  git quidem, sed cave, tov aya-    $ov minos recte habere censcaa  aut loqueudi usui parum accom-  modatum. Nam verba, quorum ter-  minatio ad praecedentium verborum structuram conformanda sunt,  loquendi usus iubet , ubi duplex  structura in praecedentibus re-  peritur, ad eorum verborum stru-  cturam accommodari , quae vi  quadam praecipue emineaut. Cum gravitate nutem h. 1. dictum est  ipaidiv , quandoquidem nou de  actione verbum accipiendum est,  sed de efficacia notionis , quae  verbo finito expressa est. Vi-  de de liac verborum transitivorum potestate annotat, p. 59.  Positum igitur est ov ip&idv  arSpooTtoi pro ov ipadrai el-  6iy ar^pooicoi. Ad geuitivum  autem relativi pronominis, cum  deberet proprie ad verba d)S ov~  6iy ye dXXo Idxiv referri , re-  latum censent interpretes i/ tov  Ctya^ov. Recte, Possis fortasse  t/ cum genitivo etiam ad id di-  ceudi genus referre, quo ponitor  haud raro praecedente aliquo  comparativo ?/ cum genitivo, cfr.  Mattii. Gramm, ampl. §. 450.  2. p. 844.   t ) 6 vi 6 oxovdiv sc.dAAov  TtvoS ipadtai eivai i/ rovxov.  Tf vulgo edebatur olim , quod  primns fuit Astios, qui in y mu-  tandum censeret.  aga fcuZAyjldi/v , fqyij, 6 1'gog rov to ayccdov avxw elvai  de L 'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw , liyet-g.   Cap. XXV.   "Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g eOxlv, rj 6’ i}, ruv riva, xqo- B  xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei tj Cxovdrj xcd    ap 9 ovVy rj 8* 7/ 1 ovroaS  anXovv, Vulgo legebatur i/6rj  pro 7} 8* rjt quod Bekkero debetur.  Illud potest ferri quidem, sed hoc  non dubium est, quin sit rectius  atque verius. OvtooS ditkovv est:  non addita accuratiore  definitione, tam simpli-  citer» Non perinde est autem,  utrum praeponatur an postpona-  tnr ov^goS vocabulum verbo, ad  quod pertinet. Ubi postpositum  est eidem, ovtooS ad praeceden-  tia verba respicit signiilcatque .*  hac, qua diximus, ratio-  ne; contra suo verbo praeposi-  tum , quamquam illum signifi-  catum non amittit, tamen notio-  nem aliquam adiungit, quam du-  bitativam interpretari possis»  Eo nimirum animo est, qui ver-  bis ovtgdS aitXovv utitur, ut qui  aibi rem non plane probari indicet. Hinc mireris simplicem  Socratis assensum val, £<p7jv 9  qui documento est, Socratem fa-  tuitatem quandam simulare, de qua supra diximus annotat,   p. 262 .   xal ov jiovov elvai t  exXXd xal ael elvai. Vulgo  ctXXdc oiel elvai legebatur omisso  Hod vocabulo, quod hb iis dele-  tam est, qui putarent, xal  iam in praecedentibus positura esse xal ov povov elvai.  Frias istud nui autem non du-    bium est, quin ad totam enun-  tiationem pertineat, additumque  sit, ut significetur, aliquid, quod  in praecedentibus contineatur, hoo  loco repetendum esse, ut exple-  tior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf  ov xal 7tpo6Seriov a ov povov  elvai y aXXa xal dei elvai .* Di-ximus supra annotat, p» 74. de  ov povov — dXXa xal et oi *  povov aXXa. Hectissime autem  Stallbaumius ad li, 1. ov po-  yov — aXXdj^ inquit, omisso  xal Tion nisi iis dicitur locisy  quibus alterum orationis mem-  brum tantam habet vim et gra-  vitatem, ut quod in priore mem-  bro dictum erat , id corrigatur et  quasi prorsus tollatur .   ore dr) rovrov o $pv)S  idriv. Additur vulgo dei  post ititiv , quam voculam suspicor eidem deberi, qni p. 204-  E. scripsit $epe, cJ ZSoZxparef,  ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide  annotat, p 268. Explicabilem  tamen voculam censuit atque iu  ordinem verborum recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro,  quod Bastio praccunte editores  fere omnes' iu rovrov immuta-  runt, probavit annotans ad h. 1.  Dejendi librorum structura posse  videtur . Quamquam enim quid  vulgari in usu rebusque humanis  amor vocetur , nondum est  probatum , tamen quid esset , 18 *  jj Cvvradiq egas Sv xctXoito ; tl tovto tvy%dvu ov r o  £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v <5s, Bgnjv iya , ut  AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav tcuqu ai  avta tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J, iQu>-  lati yciQ tovto tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal  xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus , tjv 8’ iyco, SsCtat o tl    affatim docuere, quae praecedunt.  Si igitur statuamus huiusmo di hic  Jieri • transitum: quandoquidem  AMOR hoc est sernper (bonorum  sc. sempiternae possessionis appetitio), age iam quid vulgo AMOR appellatur ? quis est , qui reprehendat? At hunc ipsum sensum  verba fundunt , si tovto legitur ♦  Becte tovto lUickertus retinuisse videtur, quamquam minus recte  enuntiationis totius sententiam  explicavit. Non enim comme-  morata erotis natura quaeritur,  quid vulgo amor appelletur, sed  a theoria, quam vocant, erotis  ad praxia transitur ita , ut cui  studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis nomen conveniat,  Diotima sciscitetur. Ceterum  perinde est, utrum dicoxov-  toov avto scripseris , an 8icd-  xovtcov ccvtov y adest enim in  praecedentibus, quorsum utrumque referri possit. Vulgatum  hoc est, illud codices optimi  praebent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est, quod  sane Sigjxeiv commodius ctyn re  aliqua, quam quis persequitur,  quam cum Erotis nomiue con-  sociatur.  rt tovto tvyxaY&i <> v  ro tpyov ; txeiS elrcelr;  Post tpyov interposui signum  interrogandi, quo maiorem habe-  ret oratio vigorem et alacrita-  tem, Qna in re secutus sum au-  ctoritatem Heindorfii ad Piat. Charmid. p.l62.B. nbi haec leguntur :  tl ovv dv elt) nort td rd tav-  rov npdrteiv; txetS dnetv ; In-  fra p. 207. B. rd Sc Sijpla r/S  ahia ovrutS iputnxutS SiariSe-  6$ai ; A tyciv ; S t a 1 1 b.   ov pevr’ dv di, tcppv  lycd, ut dioripa, iSav-  pa^ov irci dotplqi. De al-  tero conditionnlis enuntiatiouis  membro omisso vide quae supra  annotavimus annotat, p. 242.  Ceterum Graeci accuratiores quam  nos Savpapeiv riva irci rivi  dixerunt pro Savpd&iv tl n-  voS. Illius structurae exemplum  est Tlat. Menon, p. 70. B. co  Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol  evSdxipoi rjeav iv rois KAA 77 -  Qi xal iHavpdSovio iip’ In-  mxy re xal nXovrut, vvv St,  cos i pol Soxei, xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum frequentati-  vum est, atque ire et redire  significat, cfr. Plat. Critou. p.  43- A. SvvifiqS t/Sij pol idrty,  ut 2utxpateS, Sia rd no XX a -  XIS Sevpo qtoitdr. Hinc  solenne est de discipuli» scho-  lam frequentantibus. Iam expendas Socraticae modestiae acumen , quo ille etiam alias haud  raro utebatur, ut sententias alio-  rum facilius eliceret. Diotima  autem missis ceteris verbis, quae  ad rem non pertinerent, quasi  nihil aliud, quam ovx olSa iyat-  ye Socrates dixisset, trAA iyut  iput respondit.  xors Xlyeis, xal ov fiav&ava. — 'AIX' lya, y 8’ i}, Oatpi- C  Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w Xaxqcxxes, narres  av&qaxoi xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl» , xal  baiSccr Er rivi j/Atxta ytvcavxca , rlxreiv badvpsi rpiav  rj < jniGig . xixxtiv d"s iv fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h  rcy xaltS. xal ov par Sarto. Inter-  dum Graeci, quae per caussalem  particulam proferenda erant, co-  pula adhibita cum praecedenti-  bus coniunxerunt. Sic hoc loco  pro xai ov pavSava) , quibus  verbis caussa continetur, cur di-  cat Socrates pavxsiaS delxat, o  ti 7tote XlyeiS, ex nostra certo  Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum exspectaveris: ov  yap fjiavSttVGd. Exempla non  rara sunt huius dicendi osus.  Unum ut aderam, in quo vis illa  xal vocabuli praecedentis verbi  significatu tectiore panllisper ob-  scurata est, legitur in Plat. Lachete p. 194. c. 22. 2. jjxovtias,  do AapjS ; A.*Ey<oye* xal ov  (jtpodpa ye pavSdvcj D Xfyei,  quae verba rectissime explicata  suut a Ribbekkio , quem Engel-  hardtus laudat ad Lachct. p. ed.  60. Annectitur , ille inquit, ov  yavSavcj ver iis fycoye axtjxoa  non ut oppositum, sed ut effectus,  Minus id quidem sentitur, quia  negativum enuntiatum sequitur ,  sed inest ei affirmativum • Sav-  paZoo (ov ydp pavSdvGo o ti  Tfyti) Sic nos optime diceremus:  Ia ich habs gehort und wundre  inich , wie er so etwas sagen  kann. Displicet in hac verbo-  rum explicatione uuum hoc, quod  affirmativum verbum negativo enuntiato inessc dicitur. Illud  3 « vfictdjiiv inest potius iji Socratica interi ogatioue i/HOvdaS',    co Aaxqti quae verba 8ocratfcm  protulisse consentaneum est vultu  summam Critiae admirationem  exprimente: Eodemne, quo ego, o Laches, stnporo  atque hominis admira-  tione verba haec audisti?  Cui ille, audivi, inquit, nam  haud aeque, quid sibi ve-  lit, i ntelligo.   tjpdov rj tpvdif, Cum prae-  cedat itdvxeS avSpaoitoi, scri-  ptum exspectabas avxcov rj <pv-  <5iS. Nihil ad hunc locum annotatum reperio ab interpretibus, ut mirer, neminem in verbis rjpdtv  7 ) tpvdiS offendisse. Schlcierma-  cherus verba convertit : Alie Menschen namlich, o Socrates, sprach  sie, sind fruchtbar sowol dem Lei-  be ais der Seele nach, und wenn sie  zu einem gewissen Alter gelangt  sind, so strebt unsero Natur zu  erzeugen. Mitigata est Platonicae  dictionis durities Ficini couversione hac: Omnium, o Socrates,  hominum praegnans et gravidum corpus est, praegnans et anima;  et cum primum ad certam aetatem per venerimus (ysvcjy-  XOLi ), parere 'nostra natura cupit, Illam duritiem, quae mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item excusata, quo-  modo ego excusem , non habeo, nisi fortasse in 6crmone familiari , qualis hoc loco refertur,  dicendi quamlam licentiam at-  'r   'H yag avSgog xal yvvruxbg Svvovala roxog idrlv,  ?<m da tovto &uov to ngdyy,a , xal tovto Iv &vrjrc3  ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ , t/ xvrjdtg xal rj yiv-  vrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai.   D avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip , ro di  xalbv dgjiovcov. Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam concessam esse  credideris.  ?/ ydp avtipdf xal yv-  vaiHoS 6vv ovdia xoxof  Itiriv. His verbis adeo offensi  sunt Astius et Ruckertus, ut de-  lenda censueriut. Hiickertnm  audi annotantem ad h. 1« : Verba  haec qui legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam ha-  beat, non potest is aliter existi-  mare, quam unicum Platoni eum  amorem esse, qui utriusque sexus  mutua consuetudine contineatur ,  Neque enim aut praeter cetera  hunc quoque significat partum esse , requireretur tum xal  semel vel bis positum, aut  primum se hunc amorem tangere  velle indicat, ac deinde de ceteris generibus, immo in sequen-  tibus de universo amore agit ita,  ut nihil in praecedentibus de singulari quodam eius genere dixisse videatur. Atque Plato tan-  tum abest, ut solum illud com-  mercium amorem putet esse , ut  in hoc ipso congruat vel maxime  eius Tatio cum ceterorum Grae-  corum ratione , quod nec solum  existimat , nec potissimum hunc  amorem immo ad vilius hominum  genus eum putat pertinere. Haec  verba licet habeant aliquam speciem veritatis , tamen non ita  nobis persuasit V. D. , ut cum  eodem verba delenda censeamus.  Neque probumus, quae Stallbau-  inio placuit, verborum 'explica-    tionemhanc: Nam nt primum  dicam de viri mulierisque coitu, is nihil aliud est nisi ToxoS,  In quo protecto cernitur divina  quaedam vis, ut hominum genus  propagetur atque nanciscatur im-  mortalitatem. Diotimae mentem verba declarant xvovdi ydp  itdvreS avSpcoitoi xal xara  ro deupa xal xard tt)v  iftvxVYy quibus aperte indica-  tur, disputationem de partu in  duas partes divisum iri, atque  in altera parte de corporis, in  altera de animi partu sermonem  futurum esse. Ac de corporis  quidem partu disserens aliud ex-  emplum laudare non potuit, quam  viri mulierisque conjunctionem,  neque opus erat additis quibns-  dam voculis indicare , etiam al-  terum genus esse toxov , quod  haec indicatio satis manifesta  facta est verbis xal xatd njv  fvxqv.   xal tovto er SvTjTa  orriTu{uffi dSavazov  Ir edriv h. e. xal o Iv  $v7/r<jS orti roJ Zcitp d 3 ri-  xar ov {veOtiv, tovto  iOT iv, 7} XVT/Sif xal ij  y tvY7]<Sl5, Sententiam quod  attinet, cfr. Piat, de legg. IV,  p. 721. C. yap&v SI — Sia-  r 0 T/S>cvTa, a )S iOrir, y to dr-  SpooTtivov ycvoS qiv6et Ttrl  ptxdhjiptv dSavadiaS • ov xal  trttpvxey ImSvpiav idxzry  ttuCar. 46 ydp yevcOZtai xAti  itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv xaXeS jr&o&ie-  ia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal evq>Qaiv6fUvov  dutis Itat xal tlxxu ts xal yiwa * otav ds cdOxQMy  tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov CvtinuQaxca xal ano-  tQhtsxat xal avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov xo  xvytia xalenws qp£$£t. d&ev 6 i] zcp xvouvxi xs xal    vdv , xal jxp dvdovvnoY xeidSai  ter eAevtjjxdxa , xov xoiovxov  idrlv imSvyfa. yivoS ovv  dv^pdmaov itiri • xi %vft<pvh&  x ov navtoS xpovov t o 8ia te -  AovS aura) dvvenetat xal 6w-  erpetcti, xovtw xo5 x poncp d$a-  vaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV  xaxaXiitopevov, xavtdv xal %r  ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS  4 iexetXytpevca. xovrov 8rj ano-  eSxepelv bcdvxa kavtov , ovSe-  nore odior. ix npovoiaS 8*  dxodtepel oS* dv naldcov xal  yvvatxds dpeXy. Adde ibid.  ,VI.^p. 774. A. xal 8r/ xal 3 rd,  fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa, ds  Xpy Xfjt deiyevvovS (pvdsajS  dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS jratS&iv  xaxaAeiitovxi dei r<f> Stco vn-  t/ pexaS JvS’ avtov napadi-  8orai.   Motpa ovv xal ElXei -  3 vt a ?} xaAAovj} x. x. A.  Quia dv8poS xal yvvai-  xd S dvv ov 6 i a est divi-  nam quiddam, divinum  autem non nisi cum pu1cto habet couionctionem;  proptcrca pui erit udo est  qnasi qnaedam obstetrix  et conservatrix (?) vitae.  Stallb. Non mirum, Moipocv  una cum Ilithyia hic commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties cum Morte coniuncta  repentur, tTl numen significetur,  quod fiocm vitae adduxerit, ita  eadem h. 1. propter iuitium vi-    tao laudatur. Convertit verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und geburtshelfende Gdt-  tin also ist die 8chbnhcit der  Erxeugwng.   iAeojv te yiy vexat. Re-  pentur post xe particulam vulgo  8ij additum, quod sane habet, quo  se lectori commendet; verura qao-  niam in codicibus plurimis opti-  misque non comparet, ex or-  dino verborum expellendum fuit.  8iax^lxai verbum, quod paullo infra legitur, summam animi  liilaritatcm indicat, qua prueepr-  dia quodammodo explicantur at ~  qno dilVunduntur. 8ut][ii(j$at  verbo nostratium aus gelassen sein apprime respondet. E coii; trario vernaculum Angst ab  angusto Romanorum derivatum eam animi conditionem describit, qua praecordia contra  huntur atque nimio sanguinis confluxit premuntur. Hinc ex-  plicabis dvdneipdxai verbum,  •quod paullo infra occurrit, et  quod Scbol. explicat: dvdn Elpti-  xai • tfvdtpetpexat.  xal dvelAAtrai. Summa  exstat apud Grammaticos discre-  pantia in scribendis verbi ftMfct*  A td$ai formis. Nostram scripturam, quae et apud Bekke-  rum et Stallbnumium reperi-  tor, Bodkianus exhibet, adde  Vimlobb. tres , Florentinos duos  •liosque non paucos. Vido lltrfui-  kenium «d Tim. L» V, Piat. p.   E fjdrj Citapywvn itoXlrj rj Ttrotydig ylyovs nsgl xo xa-  Xov dia xo psydXijg codivog dnoXvtw xov Inorna. Idti  •yccQ, cJ ZaxQares, ignj, ov zov xaXov 6 tpcog, tSg dv  oXh. — *AXXa rl iirjv; — Tijg yswijdBGig xal tov roxov  Iv r« xaXa. — Elsv> v\v d’ kyej. — JIaw plv ovv ,  &pi]. — Tl drj ovv tijg yswqasag; — "Ort dsiyBvig  Idzt xal d&avazov cog &v7jza rj yewrjdig. dftavaoiag  207 dh dvayxalov itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav «S /toAo-    69. In uno Bekkeri codice aV-  iXXexai legitur, quod Atticum  esse censet Astius ad h. 1. Apud  Phrynichum exstat : dvetXeiv fit-  fiKior 81 * IroS X xaxidzov  «AAa 8ia r qjy duo avdXXEir,  ad quem locum vido annotat.  Jjobeckii p. 29*   «AA* tdxov zd xvypa  X& Xs7C gjS '<pep£i . Notabis  Jioc loco Graecae linguae idio-  tismum, quo verbum finitum est,  quod participio Expressum esse  oportuit, participio expressum est,  quod verbum finitum esse nostra  dicendi consuetudo exigit. Pro-  prie igitur verba scribenda erant:  <*AA ?<?£« z o xvypa xaX£7tu>S  tpipov. Vido Indices»   o&by 8 y t<jj xvovvxt T 8  Hal y8y dTtapycjYTii ap-  yuvxt quid significet, schol. ad  li. !. explicavit: oppcoYXt , op-  yoovxi , zapaxxopivoD , y av~  Sovyzi. XapfldvEroci 81 xal  in i zgjy padS&iv TCinXypoapk-  yody ydXaxtoS. Timaeus habet:  dnapvcSda • zapatxofikvy vito  2A iif>£G)S xal 8eopivy Ixxpi-  Ctooi tiyoS. Coniuncta partici-  pia habes za5 xvovvxt zs xal  fj8y dnapytavxt ita, ut posterius  prioris notionem contineat qui-  dem, sed eandem impense au-  geat. Describit autem dnap - yacv verbum ad philosophiam  translatum eius hominis conditionem , qui ardenti cupiditate  sciendi ductas haud procul a  sciendo se abesse sentit, idque  iam ia eo est, ut consequatur*  Iu sequentibus vulgo legitur  itoXXt) y itolydiS , quae scriptura  nullo modo ferri potest. Feli-  cissime Abreschius io Dilucid.  Thucyd. p. 420. scribendum esso  vidit itoXky ?} ictolydiS. Jlxoly-  6 iS animi commotionem exprimit, qua efficitur, ut aliquis impos  sui reddatur. Hacc nominis notio quam bene cum dnapyntv  verbo conveniat, neminem non  videro arbitror,   8 ia zd peyaXyS — foV  IXOYza h. c. quod sciant ma-  gnis doloribus se liberatum iri,  si phlcro potiantur. Repeten-  dum igitur est ad Ixovxa parti-  cipium avzo.   doS dv oIei. cfr. p, 201. E.  dx^dv yap zi xal iyoo npoS  avxyv izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d "EpooS piyaS SeoC,  ely 81 zcoy xaX&Y. Paullo  ante ne mireris i<py additum  esse in enuntiato, cui oou praecedant alius personae, sed Diotimao verba, vide annotat, p.  249. Verba nostra convertenda  •uot : Es iit nam licii, oSo-    $  ytjiiivav, dbtSQ rov raya&ov £ correo tivat as i 5 sgas  iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix zovrov rov ioyov xal zijg u&a-  vaoiag rov Spara slvat.  Cap. XXVI. Tavta ts ovv navta IdlSaOxs fis , bnvts ftegl riov  tgauxcav Xfryovg jrotoiro, xal aors ijgsro' TL oi'st , u    crate», waren IhreWorte,  die Liebe nicht das Stre-  ben nacb dem Schdnen. Quibas auditis Socrates sciendi  motus aviditate, quo celerius,  cuius rei Eros esset, edoceretur,  verbo eo usus est , quod Dioti-  mam proprie adhibere oportuit:  dWdc, Stallbaumius post ri pyv  supplendum esse censet aAAo, de  cuius verbi haud infrequenti post  T i omissione supra diximus an-  notat, p. 21. Nostro loco mi-  nus hanc aXko verbi omissionem  probaverim j accentus orationis  nou in ri, sed in prjv ponendus  est ; respondent autem Socratis  haec verba apprime nostratium:  •ondern was d e n n f   Elert yy 8 9 iyco. Lineolam posuimus post iyoS, qna in-  dicetur, Socratem nimis impa-  tientem disputationis tardius pro-  cedentis, coucessisse quae audis-  set, inconsiderantius, ut celerius  cetera perciperet. Sed prius-  quam novam suam quaestionem  institueret, Diotima gravitate rem  . rursum affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem accuratius  perpende , neque quod non aatis  perceperis, concedere noli. Di-  ximus de fikv ovv voculis anno-  tat. p. 250.   rt 8y ovv tyt ytvrr} 6eoof; Haud dubium est, quia  aliam quandam quaestionem in  mente habuerit Socrates, cum elev  responderet. Admonitus autem 9t  Diotima, ut consultius rem exa-  minaret, rl St) ovv TtjS yevvy-  goS dixit. Nihil auteih ad xrfi  ysvvjjdeooS genitivum supplen-  dum est. Petitum enim r yS  ytvyjjOscoS verbum esuperioribua  est ita, ut indicetur, hoc potis-  simum in Diotimae enuntiato  praecedente accuratiore expli-  catione indigere. Ceterum 5?/  ovv et ovv 8y ita diilerre ait  Stallbaumius annotat, ad Piat*  Critonem p. ed. 128., ut dif-  ferant vernacula also nun et  n[un also.   wf Svyto) h. e. quantum  eius fieri potest in eo, quod  per se spectatum morti obno-  xium est. Recte igitur Riicker-  tus ad hunc locum, verbis  $vf]T(k) limitationem quandam  inesse censuit. cfr. Matth. Gramm.  ampl. §. S88. a. p. 710*, ubi  Sophoclis laudatur Oed. C. v.  2Q. jxctxpdv yap , oot yipovxi t  npov6rd\yi o8ov . Piat. Soph.  p. 226. C. r ax&ocv, coS ipoi ,  tixhpiv licixdxxzis,   elitEp rov rdyaSov  kcrvza) elvai asl d HpatS  i 6 X i v . Sic Bekkerus et Stall-  2koxQcct£s, vtTttov tlvat xovxov tov iourog xai xijg tiudu-  fiiag; y ovx alo&dru tog dsivwg diaxt&sxai navxa xa &y-  qLu, Insidar yswav im9vity6jj , xai xa ns£a xai xa  B nxyyu, voSovvrd rs navxa *ori igauxws diaxi9i(iBva    tanmius locum emendarunt, qui  vario modo depravatus repentur*  Vulgo legitur elitep tov ctya-  $ou. In Vindob, ono rayaSov  comparet, hinc emendationis il-  lius praestautiam expendas. Sed  etiam, Biickertus inquit, vulgata  lectio, quam plurimi libri tuen-  tur, proba est. Construe : ehtep  Toi) dyaSov EpaS idtiv, quibus  iZyyTftiXGoS addita sunt verba  iavtco tlvat dei. In quibus sup-  plendum est subiectum 6 EpcoS,  quod adest EpcoS , praedicatum  est, nisi forte mavis cum Bekkero, Dindorfio, Astio, Stallbau-  mio inserere 'sine libris articu-  lum, quo fiat, ut subiectum ad-  ait, praedicatum supplendum re-  linquatur.   OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl-   xtxdUv \6yovS noiolxo*  Saepius igitur Diotima de rebus  eroticis cum Socrate disputabat,  id quod etiam colligere licet e  verbis p. 206- B.* ov pAvx* dv  dfe — iSavpafiov iic\ docpu* xal  iipoircov irapd de aind ravra  paSr/dopevoS. Ceterum ne forte  scribendum censeas esse xovS  XoyovS Ttoiotro , vide quae an-  notavimus p. 12. Fingit autem Socrates hoc loco, factum  esse aliquando, ut , cum iu ero-  ticas res disputatio incidisset,  Diotima et alia , et hoc quaesivisset: xl ohi altiov eivat zov-  tov TOV EpCJZoS hol tijS liti-  3t yilaS ; - , v f   V ovH.aidSacvei cu s det-    rc &S x. t. A. Non statim patet,  qui fiat, ut Diotima animalium  mentionem faciat hoc loco* Com-  memorat ea ideo, opinor, ne for-  tasse A oyidpov caussam eroti a Socrates dicat Paullo infra habes : z ovS pkv ydp av^pamovS  oXoiz * dv ziS bt Xoyidpov zav-  xa Ttoielv xa 61 Sjjpia z ii  ahia qvxgdS iputixoaS 6 tariS e-  6$ai; quae verba lmic quaestio-  ni praemisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*.  Sed et haeo cogitationum series  ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS explicatur inse-  queutibus vodovvzd re -jcdvxoc  xai ip&TixcoS SiaziSe/ieva. lit-  cnim magno dolore afficiuntur, ut  indicatum est supra p* 206. E.»  omues, qui procreare gestiunt*  Optime Schleiermacherus verba  convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich die Thifero  befinden* Ceterum vodeiv ver-  bum rectissime annotante Stall-  baumio ad Piat. Phacdr. p. 228.  B. aTtavTvda? rrJ rodovm  7Ctp\ Aoycoy axoi/v , ut Latinorum aegrotare dc vehementiori-  bns cupiditatibus poni solet, quao  homines vclut morbo quodam  afficiunt.   xat Et oi pd idziv vnl-fy  r o v T a> v . Cave post 7tai o  superioribus cjS particulam repetendam censeas, quae etsi possit  suppleri, tamen, qui Graeci in-  genii volubilitatem compertam  hubet , structuram verborum hoc itQtotov filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig, httira n tgl ttj v  rgorprjv to£f ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q tovtov  xal du<(iux£(}&ott, tu da&ivsercna zoig l<J%vQOTceTOig xal  vxepanodvfoxsiv, xal ama roi Xiiiio xciQuzuvuatva [<3sr’J  loco motatam non aegre feret. Neque sine caussa huiusmodi mu-  tationes structurao a scriptori-  bus admittuntur. ."Negari enim  nequit, suspensam orationem, quae  longiuscula sit, languidi quid ha-  bere atque molesti , quod muta-  ta structura felicissime remove-  tor. Deinde inesse senties ipsis  ocrbis, quae ab incepta structura  recedant, gravitatem, quae nostro  loco apprime convenit, ubi amoris  vis atque potestas describitur. Exempla huiusmodi structurae muta-  tionis ubivis obvia sunt. cfr. p.  208. C. Zv$v/nrjSel5 cJs* SeiyojS  SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol  ytvkd^ai xal xXkoS eis tov irceita  Xpovov aSdvatov xata&kdSat  xal vn\p tovtov xivdvvovf te  xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r.  A. Nos eodem modo loqui pos-  sumus: Oder weisst du etwa   nicht , in welchem gewaltsameu  Zustande sich alie Thiere betin-  den, wenn sie zu erzengen stre-  ben, sowohl die ungefliigelten  uls die gelliigelten , nud wie sie  sammtlich krank und von Schn-  suclit geplagt sind zuerst in Be-  ciehung auf die Begattung, dann  wegen der Nahrung des Er-  zeugten, und sie sind bercit,  fur diese zu kampfen, die Schwa-  cheren mit den Starkereu, und  fur sie zti sterben. Ceterum ne  (^nem oilendat pluralis numeras  viil.p rovtaov praecedente sin-  gulari tov ytropkvov , 1 6 ytvo-  ftevov e genere est collectivorum | quae post se positum singularem numerum rarius admittunt.   xal avta t o5 Xipcj ita-  pateivo pexa [cJsV] ixei-  va ixt pkcpeiv. Haec verbA  non dubium esse arbitror, quin  labem contraxerint. Namque qui  totius loci structuram accuifftius  examinaverit, eum non fugiet,  opinor, verba xal avtci rc5 Az-  p<j> 7tapateiv6peva x. r. A. b  praecedente xal Ztoipa Zdtir  pendere. Huius structurae non  intelligentes grammatici, ut loco  mederentur , <juem depravatam  censebant, ufcr textui intulerunt,  quod vocabulum nostro quidem  arbitratu inutilissimum est. Fi-  cinus verba convertit j et j>ro  illis occumbere parata sunt , ac  fame dejicere , modo filios nu-  triant , et aliud quodlibet audacter aggrediuntur. In Schleiermacheri couversione exstat : u m  nur ienes zu ernabren.  Sed coSte particula nunquam ita  adhibetur, ut consilii notionem  exprimat, quin potius necessita-  tem consequcutiae describit et  alicuius rei couditiouem eam,  quae alia propter ante comme-  morata esse nequeat. Hiuc vides, quam male habeat praece-  dente xal avta tep Xipd* na-  pateivofieva verba gjS t Zxel-  va Zxtphpetv. Ridiculum enim  est: animalia Fame ita ex-  tenuari, ut liberos nu-  triant atque educaut. Fer-  ri toSte posr.et hoc loco, si scri-  ptum exstaret (ySt * kxfiva ix  Ixuva IxtQitpuv , xccl aU.o nav noiovvzct ; rovg f ihi  yag uii&Qchjcovg , ecptj , oeoiz’ av rig ix AoyiGfiov ravra  C noetiv • t« de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag Suxti- o&£tf&eu ; *3C £1 S Aeyecv; JSfai iyd av D.tyov , ou ovx  bIScltjv. "II 8’ dite " Aiavoil ovv 8uvog Xotc yivrfiz-  C&cu, ra iQauxa, lav rccvrce f ir/ tvvoijg ; — ’AXXa 8 ea  rccvTtt m, <b Aeozi(iu, oxeg vvv Srj tlt iov, nagee <Je fjxa,   ' J   Tpi<pe6$at, quamquam etiam verbis in hanc modum conforma-  tis inesse senties, quod admo-  dui# displiceat. Hinc factam  est, at &SX£ insiticium censerem,  idque uncis includerem, ne, si ex  ordine verborum reiecissem, au-  dacias egisse censear. Sensas  est : et parata s d*n t ipsa   fame paene enecta illa  nutrire et educare. Quae  sequuntur verba: holi aXXo nav  •noiovvxoL , artius ea cum verbis  avx d tgj Xifi. c3 itapaxetvopeva  coniungenda nihil habent in se  offensionis,   tgS Xipd i. Supra p. 191. B.  legitur: ank5v7\6xov vito Xipov  xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A.,  ad quae verba Stalibaumius, in-  epte', inquit, vulgo vito xov  Xi/iov , Quaeritur, cur illic  damnaverit articulum, hoc loco  ne verbo quidem tetigerit? Mallem etiam hoc loco articulas ab-  esset,- quem certissimnm est a  nemine desideratum iri, si reve-  ra non compareret. o vxgoS i p goxixgoG . Ov-  TcuS h. 1. significat, eo modo,*  quo in superioribus indicatum  sit, nmore affectum esse. Vide  uuuot. p. 58. De interrogationis genere tis alxla , UxeiS ti-  Ttslv ; supra diximus annotat,  p. 276.  xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc Bekkerus et Stalibaumius ex optimis  codicibus receperunt. Merito  Ruckertum mireris , qui , cum  constet , av et av saepissime  commutata esse in libris , tamen  av iu textu posuit. Ut bene,  inquit, haberet av, si sae-  pius sibi exposita narraret Socrates, ut respondere saepius posset  se nescire, ita, quum semel tantum haec disputata perhibeat, av ineptum videtur, av vero eo  aptius, quod in priori-  bus iam suam ignoran-  tiam confessus est* At  superest tamen, ut mi-  nus iiic dicas Platonem  curasse, quod semel tan-  tum haec dicta fingeret,  indeque av posuisse negligentius quam verius»  Qua de caussa probatis  licet av nihil tamen mu-  tare volui. Hoc argumentum fateor mihi prorsus videri  nullum. Est autem, cur rur-  sum se nou habuisse Socrates confiteatur, quod responderet»  Simulat enim, ut saepius iam an-  notavimus, fatuitatem quatidam  animi, qua facilius atque tu-  tius aliorum seuteutias elicere  possit.  yvovg, oxi SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla (ioi Xlyt xal xov-  rav xfjv cdtiav xal xav ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol vvv, %xpi], iu<5xtvug Ixtivov tlvai cpv6ti xov  tgaru , ov xoXkdxig «SftoA oytjxafitv, fiy &av(ia&. tv-  xav&u yag xov avxbv txuva Xoyov y ftvytrj qjvtiig D  fyftti xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal d&avatog.  dvvaxai 81 xavxy (ibvov xrj yivtGti, ou dtl xaxaXti-  Siavoet ovv 8eivo? ito-  te. Haud raro apud Graecos  et Latinos continuandi alinsque  potestatis particulae ita adhiben-  tur in interrogatione, ut indi-  gnationem quaudam interrogantis  exprimant. Mutata interrogatione  in quietius dicendi genus verba  audirent: Lass dir nur nicht ein-  fallen, irgend Erotischer Dilige  kundig zu werdeu, wenn du des-  sen dir nicht bewusst bist. Sic  tlta. reperitur in Piat, Critone  p, 43» B. , quo loco Socrates  postquam iam diu Critonem in  carcerem intrasse audivit, elta,  inquit, n&S ovx evSvS inijyei-  paS pe. Haec verba recte intelligent, qui cum indignatione  dicta arbitrabuntur: Wie kommt  es denn nur nun, dass du mich  nicht sogleich wecktest,   ciWd 8id tavTct. Elli-  ptica et hoc loco, ut plerumque  in responsionibus oratio ita supplenda est, ut addas cogitando:  non puto, aute aWct, quod est  immo convertendum. Videtur au-  tem hoc, quod de responsiouibus  dixi, repetendum esse a summa  Graeci ingenii alacritate et in  cogitando celeritate, qua fiebat,  ut cum mens longe praecurreret  linguam, in dicendo etiam, quae  ullo modo possent , omitterent  vel in unam contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t) etirov •  cfr. p. 206. 11. ov / tivt ’ av  iqnjv iya> , <y Aioxiya , i$av—  jiaZov ini Coepio. xal icpolx gjv  itapd avrd xavra paSTjtio-  pevoS.   el roi vvv, £<py, itt-  dteveiS x. t. A. In omnibus  editionibus legitur xoivvv pro  toz vvv , quod nobis placet.  Apud Ficinum verba conversa  sunt: Si credis, illius natura   amorem esse, cuius saepe iam  diximus, ne mireris, Schleiermacherus exhibet: Wenn du also  glaubst, sprachsie, dass die Liebe  von Natur auf das gehe, worii-  ber wir uns oft schon eiuver—  standen haben , so wundre dich  nur nicht. Socrates rem , quae  in superioribus saepius tractata  est, memoria non teneBs , eandem rogatus a Diotima, obmutuit non habens, quod responderet, Eadem res igitur, quoniam  hic repetitur, Diotima hominis  memoriae, ut videtur, illudens,  Noli mirari, inquit, si nunc  firmiter tenes memoria,  caussam naturalem AMORIS esse eandem, de qua  supra saepius inter nos  convenit,   r) Svtjti} epvCiS Zytti  xatd r o 8vv atov. Vide  annotat, ad verba p. 206, E»   net eicQov vaov dvzl zov italaiov' htu xal Iv to  tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal tlvca zo avzo,  olov Ix naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg    ori aayevis l6xi xal aSava-  zov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS.   ravzx! yovov x-jj yevi-  6ci. Caminate post yovov po-  sito Riickertus sensum verborum  esse ait: liac sola ratione,  per procreationem. — Du-  bito, num recte interpunctionem  adhiberi liceat ibi, ubi scriptor advocata generis assimulatione arctiorem demonstrativi pronominis cum insequente nomino sub-  stantivo coniunctionem admi-  sit, Hoc certum est, verba  proprie audire: tovtoo novor,  ty yevidei, sed ab huiusmodi  dicendi genere utpote incomtiore,  excultior Graecorum actas abhorruisse videtur. Assimilutionis  exemplum est p. 190. E, noti  dweXxGov 7tavraxo5ev zo 6ep-  fiet ini r?jv yadzipa vvv  xaXov pivTfv , ad quae verba  vide annotat, p, 163, Nemini,  autem Riickertus persuadebit,  tavxy h. 1. adverbii vices obtinere, quo ratio describatur,  qua quid possit, quod mortale  sit, immortalitatem adipisci.   inel xal iv gj Sr ix actitor ZGOV %GO GJV X. T. A,  Nam etiam eo tempore,  quo unumquodque animal  vulga* i opinione vivit  atque seraper idem est,  nullam que experiri muta-  tionem partium suarum  putatur, veluti quum quis,  inde a pueritia usque ad  senectutem idem semper  esae dicitor, tantum ab-  est, Qtiumper unum idemque maneat, nt aliis par-  tibus quasi de nuo iuver-  nescat, aliis privetur et  orbetur. Verborum sententiam  per se minime obscuram paullulum impeditam reddit structurae  insolentia . Quum enim pusi  TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent haec: ojigoS ovdinote zd  avzd ix El & avrcJ , a\Xd td  pkv dei vior yiyvtzat, zd  anoAAvdiv , quae referrentur ad  primariam sententiae partem: ab  inchoato orationis tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad eam  accommodaret particulam enuntiati , quae continet exempli rei clarius illustrandae gratia inter-  positi commemorationem. Itaque nihil mutandum censemus Stallb, Haec Stallbaumii explicatio et a difficultate structurae nobis improbatur et a  sententiae incommoditate. Exemplo nimirum Socrates explicaturus est, quo sensu ael elvai dicatur atque dsdvatzov elvai  T7}V Svi/xr/v <pvdiv , ut non ve-  risimile sit, exordium huius  enuntiati esse posse: inel xal  iv g5 ev Sxadzov zgjv P.oocjv  S, i}v xakzLxea xal elvai zo av-  ro . Astius huius rei iutelligens,  scribendum coniecit: iv cj tv   Zxadzov tgov Zcjgdv xa\ei-  zai xal elvai zd avzd , quam  scripturam ipse post improba-  vit. Nobis scribendum videtur  inel xal iv d> ' ev txaoxov  xd)v Zidcjv $f/v xaXtlzai, xa-  A etzai xal elvai fd avzo .  Neque audaciorera censemus hanc  coniectux&m iudicatum iri , cum  yknjtai ' ovrog (ibroi ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iav-  to), ofwog 6 ttvzos xaXilrat, akla vio g ad yiyrofitrog,  xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal Capxa «c«l    satis constet, Verba dupliciter po-  sita haud raro librariorum incuria simpliciter exhibita esse, et  vice versa dupliciter interdum  posita esse , quae simpliciter a  scriptore posita essent. Exem-  pla si quaeris huius rei, vide  quae annotavimus p. 171* et  p. 254. Qoac sequuntur verba  otov ix izcuSaplov 6 avxoS Xe-  ykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime  cum nostra praecedentium ver-  borum scriptura conveniunt.   ovxoS pkvxoi ovSkxo-  x 8 xa. avxtf $X a,v «v-  tcj x. x. A. In Ficini conversione legitor: JZnimvcro eo ipso  in tempore , quo animalium unum-  quodque vivere dicitur , idemque  esse , (ut a pueritia ad senectu-  tem) quamvis idem dicatur , nunquam tamen in se ipso eaedem contine t , sed novum  semper efficitur et vetera exuit.  Sic etiam ceteri interpretes  ovSbtoxs negationem ad verba  trahunt ta avxct V.xoov iv lav-  toj f quae verboroui struendorum  ratio propter insequens aXXot  vtoS asl ytyvopevoS minimo  nobis none probatur. Inepto  enim loco positum habebis hoc,  ai illam explicandi rationem pro-  baveris. Neque defueruut , qui  de verborum transpositione cogitarent hoc loco. Facilior ver-  borum struendorum ratio haec  est, ut ovSiitoxE negatio a'd pri-  marium enuutiati verbum xatei-  xai referatur. Verba autem boc  modo scribenda censemus: ov-  x oS pkvxoi ovd£7roxc , rcr cxvxa  iioav iv avia? , u/ici?5 6 avioS    xaXslxai, aXXa vkoS aeY yvyva-  / ievoS x. x. A. Sensus est : D i e-  s e r iedoch wird nietnals,  w e i 1 er ein unddasselbe  au uitd in’ sich hatto,  gleichermaassen derselbo  geuannt, sondern (er wird in  dem Sinue dersclbe genaunt,)  wreil er sicli immer ver —  iiingt, iudera er das Ver-  altete abwirft. Ut boc lo-  co, ita etiam in Piat. Euthyphr.  p. B. c. 2. opooS in o/idoS mu-  tandum est: xcu ipov yotp xot,  oxocv xi Xkytm iv xy ixxXr/6ict  7tEp\ xcov SeIgov, itpoXeyGor au-  XotS xti pkXXovra , xixxaytAdo-  <xiv gdS’ jiaivoitEvov* xai xot  ov8lv o xi qvh aXrj^es sVpiptet  GOV 7tpOEl7COV. aXX* dpooS (p$o—  vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov -  xuiS. Minus aptum est, quod  vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi  vera dixi, tamen nobis omnibus  vera dicentibus invident. Qain  potius commemorans Euthyphro,  quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat, Socratis exemplo praemisso, communi vera dicentium iufortuuio sc consolator.  Iam ut Diotimae sententia melius perspiciatnr, rem breviter repetam ; Quod supra de hominum AMORE dictum est, idem in  animalia cadit et in omnem naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri possit, semper vigere» atque immoTlalis esse  idque generatione assequitur. Neque hoc ita inteljigeudnm est,  ac si singula quaeque res immortalis esse dicatur: sed ut homo  aliquis a pueritia usque ad se- E 6q za xal al[ia xal %u[ixav zo GiJfia. xal (iij ori xara  to (Scotia , aAA a xal xarcc rrjv ‘tyvxftv ot zqoxoi, za  tj, dofci, htcdvjilai, rjdovai, Xvxai , tpufioi, rovtav  exutSta ovdexoze za avra xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za  (itv ylyvszai, za de axdilvzai. xoiv de xovrnv   azoxdzegov In , on xal at extOzfjiiui (i>) ori at  208 ftw' ylyvovxai , at de axolXvvrai yiiiv, xal ovdexoze  of avzoi icS/iev ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal  f ita txuGrrj ziov eXLGzrjiudv zavzov nu6%u. o yag xa-  i.eizai (leltzav , u>s l^wvOris heri zrjg exiGxrjfirjs' tiftrj  ydg exiGrr^firjs ifcodos, fieXirij Ss xui.LV xaivtjv t/x-  nectatem idem Tocatnr, non nt  qui habeat in se setnper easdem corporis partes, sed quod  eas mutando , inveteratas abiiciendo quasi novus semper existit, ita etiam animalium genus rerumque natura partium renovatione immortalitatem conse-  quuntur.   rd 6h drtoWvS. His ver-  bis, quibus non praecederet rd  p.iv , multi interpretes offensi  aunt. Wolfius rd plv nposXajj,-  fidvoDV vel simile quid adden-  dum censuit , Bastius ad ra de  addi iubet itaXaia. Alii alio  inodo locum, -in quo librariorum peccatum reperisse sibi viderentur, sanare studuerunt.  Stalibaumius aWa vkoS de\ yi~  yvofievoS idem valere censet  quod aX\d rd pkv vkoS ael  yiyvojievoS. Maluerim ita statuere, ut Graecis licuisse contendam quotidianae vitae sermone utentibus interdum omittere,  quae e sequentibus facillime suppleri possint, eque ra fiiv  supplendum esse videtur, sed ra  /ikv aAAa.   xal ptij ori — aXXd xaL  Ne forte ante oAAa' xal requi-    ras prj povov, efficitur povov  omisso sententia haec: At quo  ut mittam ea, quae ad  corpus pertinent, etiam  quae animi sunt, consuetudines, mores, opiniones, cupidines, gaudia, tristitiae, metus, haec omnia nemini eadem manent, sed alia oriuntur,  alia depereunt. Ceterum  apposite ad h. 1. Riickertus :  Noli, inquit, ex his colligere  aliisve similibus iu iis, quae sequantur, Platonem sibi non con-  stare , quod, quum alibi natura ‘  sua immortalem animum dicat  humanum, hic eatenus duntaxat  ei immortalitatem tribuat, qua-  tenus et ipse , quas sui partes  amiserit, assamtis aliis suppleat.  Non ipsum enim animum, naturam divinam, hic iu mente ha-  bet, sed ea tantum in animo,  qualis in hisce terris est, quae  ex coniunctione cum corpore  enata cum eodem intereunt. Ex  quo genere omnia sunt , quae  deinceps recensentur. Quas enim  mox liti(Sripxa£ affert, earum vel  unus pluralis numerus satis est  argumento, non loqui Platonem  tioiovtia dv rl xrjg diuovGxjs (ivrjfiyv (Scissi x yv Irn-  CtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv elvca. xovta  yag xc> XQoitcp xtav x 6 dvytov ov x<5   TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat , , SgxtEQ xo fteiov, dM.cc  xc) xo ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov lyxata- b  Mbtuv y olov avxo yy. xavxy xy ffl%ctv y , co 2Jc6 -  XQctteg , Zcpy , %vyxbv d&avaolag (iEze%eiy xal Gcopa  wa xaM.a itdvxa , aftavaxov Se &M.y. yy ovv &av-  pafey el xo avxov ditofyXaGtyya rpvtiei ndv xi\La' d&a-  vatilag yuQ %ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6 tgcog  67csxau    de ipsa scientia, quae nna est  eademque semper, quamqoe non  potuit animo informare nisi  perennem et immortalem, quin  ipse sui oblivisceretur. Immo  notitiae sunt rerum in sensus cadentium, quae nec affuerunt animo prius , quam vitam hanc in-  grederetur, neque ultra eius ter-  miuos apud eum permanebunt.   itoXv xovxcjv aro -  itaSxEpov Irt. Pro £tt, quae  Bodleiani aliorumque paucorum  codicum lectio est , vulgo i6xiv legitur. Illud Bekkerus et Stall-  baumius in ordinem verborum  receperunt, hoc tuetur Rii-  ckertus. * Eri , inquit, ut vulgato  melius esse concedam , attamen  tam paucorum fide recipere eo  minus ausim, quod quam saepe  liae voces intfr se permutentur  haud sum ignarus. — Utor his  Riickerti verbis, quibus £ti recte  habere probem. Nam si melius  est sententiaeque convenientius,  quod in melioribus codicibus re-  peritur , id verum est haud du-  bie. In ceteros autem pluri-  m osque libros irrepsit id, quod  facillime cum illo permutatur.   6 ydp xaXeltai pe\e-    rav cof i ZiovtirjS id t\ xyS  ixidxy /iy $ . Vide de hoc pla-  cito Piat. Phaed. p. 72. E. xal  prjv , iqyq o KiftyS VTtoXafidrv ,  xal xax* ixelvov ye x ov Ao'-  yov , cJ SwxpaXEff , si dXy^yS  itixiv, ov 6v ettoSaS $a/ia  MyeiVy on ypiv r\ paSydiS  ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x vy- Xctvet ov6ot , xal xata xovrov  avayxy itov rjfiaS iv xpoxipaj  xivl xpovw pEpaSrjxivat a vvv  dvapipvytixopeSct x. t . A.   vSiCEp xo Ssiov, Auctor  Definitionum p. 411. A. J GteoV,  2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS  EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?. ’At-  8iov , xo xctxa ndvxa. xpovov  xal TtporEpov ov xal vvv prf  6iE(p$otpp£vov.   a$ avatov dfc ct\Ay,  Displicent haec Verba ideo po-  tissimum, quod modo indicatum  est, quomodo id, quod immor-  tale est, h. e. ro Seiov, immor-  talitate gaudeat. Hinc factum  est, ut Creuzerus Lect. Piat. p.  528. scribendam couiiceret: aSv  vaxov aAA#. Recte , ut videtur, Riickertus existimat Platonem, si hoc exprimere voluis- 19  Cap. xxvn.   Rui iya uxovaag rov tiryov Iftavuuacc re xal  ihtov' Ehv , rfi’ 8’ lydi , a Ooqxxnatr] Aiotlfiu ' ruvra  C Sg db]&w$ ovuog l%u ; Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi tfo-    set, haud dubie tzAAp 81 dd v-  vaxov scripsisse. Sed de veri-  tate verborum aSdvazov 81 «A-  A r} nobis non convenit curo eodem. Stallbaumius od liunc locum annotat: Haec, inquit, ad-  dita videntor propter verba ex-  trema xal TaAAa itavxa, quae  ne falso intelligerentur, sane ca-  vendum fuit.  Num credibile  censes, quemquam esse posse,  qui cum verba legeret xal 6(n/ta t  in sequentia xal TaXAa ndvxa  male intelligeret atque ro Stiov  admisceret, quo de paullo ante  dictum est? Sed pone fieri posse,  ut aliquis verba illa falso iutelligat: num recte sibi opponi hoc  loco censes Svrjxoy et a$dra-  zov , ubi Svjjxoy adiectivi vices  habet, atque cum insequenti xal  dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius  couiungitur? Huc accedit, quod  ne ipsum quidem aSavarov,  pro quo Selor scriptum exspectaveris, satis recte habere videtur. Scribendum est , si quid  video, $dr ax ov 81 afAA#,  qnae coniectura et a corruptiouis verisimilitudine, cum praecedens  verbum in a desinat, et a sententiae veritate sese commendat.  Ceterum ne mireris accusativum  casum, cum praecedat aSavadlaS  fxtX ix ei: solent interdum Graeci  e praecedentibus, in quibus compositum verbum contiuetor, noa  compositum repetere, sed simplex. Diximus de lioc loquendi  ysu «uuotat. p. 89. eItxov EleVf tjv 6 * lydi.  De dicendi verbo in huiusmodi  enuntiatis dupliciter posito vide  quae annotavimus p. 249. Ehv  verbum quod attiuet, vide annotat. p. 86. et p. 264. liisequetis  interrogatio xavxa d>S aAr/SdiS  ovxqdS lx ei > fatuitatis indicium  esse arbitramur, quam Socrates  cum Diotima de Erote disputaus  constanter simulat. Nimirum quum,  adhibito thv vocabulo quasi ad  alia quaedam quaerenda abiturus,  confestim concessisset, quae a  Diotima dicta essent, rursum ad  eadem redit quaerens : num revera haec ita sese habeant?   gSstjt ep ol zlAeoi 6o<pi-  d xal. Stallbaumius minus re-  cte: Ridet, inquit, sophistas, de  quibuslibet rebus ita disputantes,  ut videri vellent earum verita-  tem prorsus habere perspectam  atque exploratam. Neque Wol-  fianae ed. explicationem proba-  mus Lips. 1828. p. 97 : die bei  ihreu philosophischen Vortriigen  nicht ia dem zweifelnden Tone  des Socrates sprachen , sondern  in dem entscheidrtiden Tone des  Orakels ihre Meinungen fur un-  uinstdssliche Wahrheiten ausgaben. Eadem sententia etiam  Schleiermachero probatur , ut ex  eius conversione huius loci vi-  dere licet: Und sie, wiedie rech-  ten Meister im Wissen pflegen,  sprach, Das sei nuu versicliert,  o Socrates. Quid Socrates ad-   <pi6Tal , Ev IWt, H<pi], cj EdxQtttes' IntL ye xttl  zav uvdQioitav ei i&eAeig tig ttjv <pdon(ilav (i/.i-  ipcu, &av[ia£oig av rrjs uXoyiag hiqi a lya eipryxa,  tl (irj Ivvoeig Iv&vfiij&elg ag deivag Euxxuvtai %otc  rov ovofiaOTol yevee&ai.    bibitis illis verbis efficere volue-  rit, optime e Protagorae loco  cognoscitur p. 328. E. seqq. ’«ft  xai AjtoWoSoopov , a 's xaptv  tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd? pe  tvSe agtixkdSau noXXov ydp  7i oiovpai axyxokrai a dxijxoa  TIpGDTayopov' iyoj pkvydp kvxco  ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx  elvai dy^pconlyjjv iizipiXetav,  y ol ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa,  vvv 8\ itiicet6jicn. nXyv 6pi-  xpov ri poi kpizoSdbv, o 8ijXov t  oti Tlpojxayopa? fiaSlcj? heex-  8i8dB,u , inei8y xai xd noXXa  xavxa iutdidafe. xai ydp el  pkv xi? nepi avx&v xovxgjv  dvyykvoixo oxeoovy xaov 8ypy-  yopcov , xax* ay xai xoiovxov?  Xoyov? dxov6£iev y IJepixXkov?  7} dXXov xivoi Tcjy Ixavcov el-  iteiv * ei 8 e inavlpoixo xivd xi t  S?7tep fiipXla ovdiv ixovdiv  ovx e altoxpiva6$ai ovx e avxo i  ipitSSrai, a XX* lav xi? xai  Cptxpov lite p coxi)6y (vide  annotat, p. 82.) xi xaoy prj-  $£vxgoy, d)?XEp xd x a X-  xela nXyy kvx a paxpdv  yx £ * xai a 7t 0 x eiv e 1 , kav  jiy i rtiXa fiy x ai xi ? , xai  ol pyrope? ovxcj dpixpa  i p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa -  •z ax e tv ovdi xov Xoyov, Ipse autem orationis longitudini Socrates illudit, quod facere so-  lent, qui alicuius vitii alienam,  reprehensionem evitaturi sunt.   ei iSkXeiS — Savpd-  £01? av • II . Stephanus, ut verba usitatiori generi loquendi  adaptaret, iSkXoi? scribendum  coniecit. Frustra. El iSkXei? CxkipaL idem fere est atque el  Cxk^aiS , differt tantummodo ab  illa dicendi forma optativus modus, quod hic cogitati alicuins  possibilitatem, quam vocant, exprimit, quae et ipsa cogitata est,  non ducta e veritate rei. Illa  contra aliquid fieri posse indicat,  iit prorsus ex alius arbitrio psn-  deat, utrum fiat revera necne.  Exempla haud rara sunt el particulae coniunctae cum praesente  tempore iSkXeir s. fiovXe6$aL  verbi , cui adiectus est infinitivus cum optativo et «v.  Legitur paullo infra p. 221. E.  el ydp kSkXet xi? r gjy ZZ&xpd*  xov ? axoveiv Xoycov , 1 pdyuev  dv 7tdvv yeXoloi xo Ttp&xov.  Cum hoc dicendi genere care  commutes exempla ea , quae el  particulam cum praesente alicu-  ius verbi tempore coniunctam  exhibent et optativum av parti-  cula adhaerente $ cfr. A pol. Socr,  p. 25. B. TtoXXr) ydp dv xiS  ev8aipovla efy 7tepi xov? vkov? y  el el? pkv povo? avtov? 6 1 a -  <p 3 elp et . Adde Piat. Symp.  p, 176» C. *Eppaiov av efrj  yptv — el vpel? — vvv dnei-  pyxate , ad quem locum vide  annotat, p. 38. Ceterum x&v  dvBpcj7ca>y in alieno loco positum videtur, quem ne mireris  atque ut Platonis voluntatem  perspicias, Riickertam audi anno-   19 *  nai xAioS eis tov ae\ xpovov aSavatov xaraS&SSiu,  xai vniQ rovrov wvdvvovg ts > uvSwevuv ttoifiol  dii xdvras En iiallov jj vntQ ruv xcdSav, xai tantem ad h. 1. i Qnod hic TGoy  avSpGJrtaw addidit, idque loco  posuit illustrissimo omnium, pro-  pterea factum, quod ia praece-  dentibus de bestiis non minus,  immo magis fere, quam de hominibus disputatum est , quanta  cura esset sobolis tuendae con-  servandaeque. Quae euim de  humano corpore animoque disputata sunt, nonnisi probandae  sententiae inserviebant, non esse  alinm immortalitatis adipiscundae  rationem naturae mortali , quam  per propagationem. Itaque iam  de solis hominibus locuturus recte  lioius rei indicem in fronte posuit.   $ av paZoiS dv xrjt aXo-  yiaS Ttepl x. x. A. Verba FICINO convertit: Etenim si gloriae stadium', quod hominibus inest, considerare volueris, admiraberis ruditatem tuam, quod ea, quae dixi, non satis comprehenderis. Hoc sane  mirum. Schleiermacherus exhibet; Denn wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen willst,  «o miisstest du dich ia uber die  Unvernunft wundern in dem, was  ich schon angefiihrt, wenn du  nicht bedenkst cet. Schulthessios verba reddidit : denn fassest du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins Auge, so kannst du ihre Unvernunft in  Beziehung auf das von mir angedeutete durchaus nicht begrei-  fen, wenn du nicht erwagst cet. Negari nequit, paullo impeditio-  rem verborum structuram esse    atque gravitate quadam inepta  affectam, qua usus esse sophistas consentaneum est, qui ad  ante dictorum explicationem atque enarrationem transirent. Sic  tg oy dv$ poATtcoy , principe enun-  tiationis loco positum, de quo  Riickcrti indicium modo retuli-  mus, quid aliud est, rem si ac-  curate perpendens, quam vanae  gravitatis indicium? Adde el  iSiXeiS verba, wenn du dich  entschliessen, es iiber  dich bringen kaunst (vide  annotat, p. 44.) et parnm defi-  nitura illud : xepl d iyoi eTpij-  xa y nonne haec plena suut so-  phisticae artis? Proprie verba  hoc modo dispouenda suut : eu  — Ixel ye xa \ , el £$i-  XeiS el£ x rc oy av^peonoov  gnXoxiplav pX iipai, Savpdgoi?  dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd  Ce av ix ot rt J s dXoyiat') xov-  xcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da gieb recht acht, o Socrates ; denn auch, wenn du dea  Ehrgeiz der Menschen ins Auge  za fassen gesonnen bist, koou—  test du dich wohl iiber die Un-  grtindlichkeit dessen wundern,  woriiber ich gesprochen habe,  wenn du dir nicht vergegenwar—  tigest, indem du cet.   (»s detvooi Sidxtivr ai %  Haec et sequentia ad eandem dicen-  di normam conformata snnt, qua verba legnnter p. 207. A. r/  ovx aiCSdveiy aoS SeivdoS Sia-  xlSexai Ttctvta xd Sijpia x. r. A.,  ut adeo idem valeat de structura  verborum xal viup xovrov —    (tara dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv * ijtel o Xu  'Adprpov ajto&avEcv ccv, ij   vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de ver-  bis monuimus p. 207. B. xai  Ftoipa idtiv VTtkp xovxov XUL  vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A. Ac  de industria quidem iisdem paene  verbis Diotima usa est eadem-  que mutatione structurae, quo  facilius et illius loci auditor re-  cordaretur, et clarius videret, de  eodem et illo et hoc loco Erote  sermonefti esse.   xai x\ io 9 elS tov d e l  — xat a$ £d$ ai h, e. Immortalem gloriam posteritatis memoriae tradere  conservandam. Nam xaxa-  ti$Ed$at est deponere custodiendum s. servandum  tradere, vide Valcken. ad  Herodot. VI. 73. Stailb. Ceterum neminem latet, hexametrum versum esse verba xai  xXloS — xataSedSai , quae a  praecedentibus atque insequenti-  bus verbis seiungenda curavimus.  Unde hic versus petitos sit,  nescire confitemur, hoc tantummodo comperti habemus, depromtum eum ex carmine esso  alicuius poetae, ad cuius aucto-  ritatem atque testimonium Diotima auditores ablegavit,   xai vitip tovtov xivdv-  y ovS xivdvvEveiv. Dicendi  formulae, in quibus nomen aliquod  cum verbo eiusdem radicis coniunctnm reperitur, ita plerumque ad-  hiberi solent, utrem, de qua sermo  est , quam heri possit maxime,  angeant atque extollant. Jwy-  6vvovS xiy&vyeveiv est igitur  summa atque gravissima  6v , AkxtjOriv vitlg   'Ayilkia IJarQoxkto tnaito-  pericula a^Hire, Igitur cum  Riickerto pro 7 tavta? 9 quod Bek-  kerus et Stallbauraius in ordine verborum posuerunt, codicum  meliorum auctoritatem secuti, vul-  gatum nuvttS recepimus. Nam  TtavtaS xivdvvovS xixSv-  yeveiv inutile additamentum con-  tinet, quo non augeri sed minui  senties rei augendae potestatem,  TldvtES autem etiam eo nomir  ne nobis probatur, quod omnes  haud dubie a Diotirha significantur  laudis atque gloriae studio te-  neri cfr. p. 205. D. xd plv xe-  tpakaioY idxi xtada 7 } xcjv  dyaScox l?tiSvpia xai tov tv-  daifioveiv 6 /.liyidxds te xai  xoivoS HpoyS Ttavti. Adde  p. 208. D. du IA*, olpat, vntp  dpsxi/S aSaxcttov xai xoiav -  xij$ do&rjS evxAsovS 7t dxxeS  itdvta itoiovdtx . Nostrae ver-  borum explicationi Schleierma -  cheri conversio favet : u n d d ie-  serhalb sind alie bereit,  die grdssten Gefaiiren zu  b este lien. In sequentibus  xdxovS itovEiv ovSXixaSovv est :  labores suscipere quam velis gra-  vissimos, ubi ovStivaSovx non  nisi de iis laboribus intclligen-  dum est, qui snnt gravissimi.  Contra minus probem Plot. Apol,  Socr. p. 22. A. &ec &if vpix xtjv  ipijy nXxxvijv ixiSel&ai Gjsrttp  itdvovS xixds noiovvroS, quo  loco pro xixaS scribendum esse  videtur tixds.   "AXxiidxiv vnip *. 'A6p ?/•  tov x.x.X. Exhibentur eadem,  quibus Phaedrus usus est, exem-  4  8 avtiv, TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg rijs  (i aci 1 Atiu$ rov ncddav, (irj olofiivovg  aSavcctov pvypTjv apertis   «£ qI avtav Etisadcu , yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov yt  dtt, Stprj , uAA’ , olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al roi-  twtt ] g So^rjs evxAsovs navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv  E afitivovs tofo, xocSovrcp (idAAov * rov yag d&avdrov  pla ; ut respici indicetur etiam ad  eas orationes , quae ante Socra-  tis atque Agathonis orationes  habitae essent. Sed quoniam  Diotima loquens inducitur , quae  orationes in Agathonis convivio  habitas non audivit , ut casu vi-,  cieatur exemplis illis usa esse,  tertium adiungitur, Codri regis  interfectio. Audi Scholiastam,  qui de Codro haec tradit t — oS  nal V7t\p xijS narpidoS attiSave  t porca) roupde. voXepov roiS  JcopievdiY qyxoS itpoS 3 J5tj-  yaiovS , ixpt}6ev 6 $eo$ totS  JatpievfSiY aiprj6eiv xds ’A5ij*  vaSy ei Ko8pov rov fta6iXia / it}  q>ovev6(M>6f yvovS 8k xovxo 6  Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei  tixevy coS ZvXidtTjv xal Spe-  rtavoY XafioaVj izl rov xdpctxa  rdov 7toXepicjY icpoyei, 8vo Sk  averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy  tov pkv &va 7tardB,aS xarifta^  Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf -  SeiS, otixiS 7 /y t * Xtjyc\S dvi-  $avc , yaraXivcoY Xtjy dpxtfY  Medovxt xri vpetifivxipoa xgoy  T taidcoY v. x. X . Hutus facinoris  memoria superbiise Athenienses  videntur, ut si quis peregrinus  ipsis adulari vellet, rov v pe-  te pov Kodpov diceret. Male  vulgo rov yphepov legitur, quae  lectio prorsus aliena ab hoc loco  est, ubi Diotima , mulier peregrina, loquitur*    vvlp apextjS aSctYcc-  tov . Haec verba cum non sa-  tis apta reperiret Diotima ad  mentem suam exprimendam, alia  addidit, quibus haec explicarentur. Kai igitur explicativum  est, cuius exempla laudata ha-  bes in Judicibus. Verba conver-  tenda sunt: der unsterbli-  chen Tugend balber d. h*  wegen des herrlichen  Ruhms der Tugend. Nou  licere igitur opinor aperi} S no-  men hoc loco virtutis laudem interpretari, quae Riickerti  sententia est, qui frustra annotat: Non magnum discrimen esso  inter dpexijS d^avaxov et 60 -  Ep]S EpxXeovS , sed aliquod ta-  men , quodque maius etiam vi-  deri potuisset Platoni propter al-  terius vocabuli sensum latio-  rem*   d$dv axov pvypr\Y ape-  TtjS. Haec verba, hexametri  versus fragmentum a ceteris ver-  bis seiungenda curavimus» . Hv  vvy rpieiS t x°P €v i ta dictum est,  ut aliquid supplendum sit, quod  his verbis opponatur; futuro  tempore posteriores ha-  bebunt» Paullo iufra etiam verba  eis rov iiteixa XP°vov a prosa  oratione secludenda curavimus,  quod quo iure fecerimus, io pro-  patulo est»  IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg, stata Ouficaa   ovtcg XQog tag yvvalr.ag pallov tQinovzai xui tavtg  tQomy.oi d<Si, Sia stuiSoyoviag u%uvu6lav scca pvrj(iT]y  suci tvdai[iovlav , wg oiovtca, avtoig  iis x oV bcetta xpovov  xcivta xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv ^vfl\v — tloi yaQ £09  ovv, '£<pri, di iv xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov    scal ev 8 axfioviar , c is  olovtai . Cornarius pro coS  oloviat scribendum esse censuit  coS olov xe t quam coniecturara  Iliickcrtus, quamquam in textu  coS olovxat posuit, probare vi-  detur. Nobis non dubium est,  quin Plato co? olovxai scripserit, quo adhibito Uiotima indicatura fuit: eroticos, qui liberis  procreandis immortalitatem sibi  comparare studeant et felicitatem  aeternam , falli posse saepenumero. Non iniuria. Nam moriuntur interdum patribus super-  stitibus liberi, interdum impie-  tate parentes laedunt, ut illi pro  immortalitate exoptatissima magnum malum sibi acquisivisse  videantur.   eidi ydp ovv, rdp ovv  particularum eadem paene signi-  ficatio est atque ydp apa par-  ticulis , quae exempli caussa p.  205. B. reperiuntur: dq>eXovxtS  ydp apa xov ipcotds x i eldoS  oYopd^of.iEY x 6 rot> oXav iirizi-  $ivxeS ovopct Spooxa. Non  promiscue autem his particulis  Graeci scriptores usi sunt. Ubi  demonstratum aliquid est exemplo , ydp dpa poni solet ; ubi  non nisi indicatum est, yap ovy  particulis locns datur. Nostro  loco simpliciter commemorator  in praecedentibus : esse, quixaxa  ipvxijv procreare cupiant, contra B, poeseos exemplum af-  fertur, ad quod, quae deinceps  dicuntur, diriguntur. €eterum  quae post eidi yap ovy leguntur, inceptam verborum structu-  ram nou mutaut, sed prorsus destruunt. Nibil enim reperitur in  sequentibus, quod cum illis ver-  bis consociari possit. Iucepta  sententia verbis absolvitur; x ou*  xoav 6’ av oxaY xiS h.x.A.,  quae verba cum illis nullo modo  couiungi possunt. Sunt autem  huiusmodi figurae dicendi, gratae uegligeutiae indicia, praecipue in familiari sermone haud  infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS xvov-  6 iv. KvovdiV valgo legitur;  aliquot Bekkeri codices xvavdiv  Labent , quod ipsi Bekkero pro-  batur et Dindorfio et Riickerto.  Illud Stallbaumius aliique in textu  posuerunt. Buttmanni indicium in  Gramm. arapl. p. 177., quod ct  Stallbaumius probandum censuit, (  lioc est: Den Gebraucli festzu-  setzen von hvcj und xveco ist  scliwer, da es in den hauligst  vorkommeudcn Forinen nnr eino  Accentverschiedenheit ist, tvie  xvei , xvil u. s. w, Bei Flato  indessen, wo der Accent sonst in  allen Handsclmfteu schwankt nud  Tbeaet, p. 151. B. auch dic  Schreibart xvoYta und Hvqvy- TJ Iv Tols Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai  xveiv. zl ovv XQogrjxu ; qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv  u qeztjv' dv S>j eidi xai oi jcoiijzai xavtes yewf/votpes  xai zav StjfuovQycjv 0601 Xtyovzai bvqezixoI tlvai.  nolit de (leyiGzjj , eqirj, xai xaV.iGzt] trjs tpQovytieas f\    %a, itt an folganden Stellen in  allen Handschriften Theaet. p.  210. A. xvovftev Symp. p. 206.  E. xvovvxij p. 209. C. ixvei ,  wodarch , wie mir scheiut , fiir  diesea Schriftsteller dei: Aus-   scMag gegebeo wird.   itpo Zyxet xai xvijdai  xai xveiv . Ficinas verba  convertit : Hi sane concipiant ea,  quae animae et concepisse  et concipere convenit. In  Schleiermacheri conversione legitur: was der Seele ziemt z u er-»  zeugen and erzengen za  w o 1 1 e n , Schulthessius yerba  reddidit: dena fiirwahr, es giebt  solche, die raelir mit dem Geiste  ais dem Deibe zeugen und  erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum conversionibus,  quo iare boc loco et aoristi et  praesentis temporis infinitivi ponantur eiusdem verbi. Aoristus  autem non nisi notionem exprimit  actionis in universum spectatae j  praesens tempus actionem cum  efficaciae notione coniunctam describit. Sensus est verborum:  quorum procreationem animus et cupere debet et  revera efficere.  ti ovy itflQfjjxet; De interrogationibus medio sermoni  interpositis, quibus ad rem attentiores auditores redderentur,  supra diximus annotat, p. 60.   xq\v' 51 peyiGtr] — xai    yaWiixr) Xv s q>povrj-  GegjS. Haec e Graecismo quodam dicta sunt, ut adiectivo  praemisso sequatur substantivum  nomen com illo proprie per nominativum casum coniungendum, casu genitivo. Vis huius structurae haec est, ut adiectivnm extollatur atque potestate augeatur, , Verba convertenda sunt:  Die grosste und schonste  Erscheinnng der YVeis-  beit,   diaxotfpifdeif. Vulgo 6ia-  Xodfirjdi^, quod ab eo profectum  yidetur atque in textum illatam  esse, qui insequens pronomen  relativum ad praecedens nomen  pertinere censeret.   tovrcov 6 ’ av qxav rts  Xx t. Magna est difficultas  horum verborum, quae vario mo-  do a viris docti» sollicitata sunt.  Quaeritur %£iq£ cov verba atrum  cum praecedente %l}v ipvxqv con-  iungi oporteat necne, deinde  ipsum jllud SeioS miram   quantam displiceat. Quod se-  quitur xai t eo melius carere-  mus. Primus H, Stephanus n)v  Ipvxtfv $eio$ &v coniungendum  Censuit. Contra Stallbamniq*  monet , tyxvficpY rrjy Tpvxrjv  hic dici oppositionis ergo, cum  eorum i& superioribus mentio fa-  cta sit, qui corporis auxilio im-  mortales fieri studeant, SeioS  V>v rrjy i/ivxijv nos etiam eo  pomine improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav itoltav te xal olxy&Eav diaxoa/iyUsig,  y Stj ovoua lott, CatfQodvvy te xal dixatoOvvrj. tov-  r cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV ilwpjv, B  ftuog <3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal yEvvav  ySy Itcl&vueL famil Sn , oi[ica , xal ovrog uspudv to    tvv to dcopa ne cogitari quidem  possit. Heusdius scribendum cen-  suit Tovtcov 8* ctv orctv r iG  ix riov iyxvpcov y rr}v ipvxyv,  tr/v <pv6iv j&cZoS’ qjy x, r. A.,  quibus verbis verborum difficul-  tas non removetur. Kai ante  7/xovdr/S positum Stallbaumio  videtur non copulandi, sed inten-  dendi potestatem habere, neque  ad participium tantummodo, sed  ad totam enuntiationem perti-  nere. Sensum ait totius loci  esse: Horum fgitur si quis  a puero praegnans est ad  animum, quippe divinus,  etiam appropinquante ae-  tate, quae 'pariendo et  generando idonea est,  parere gestit atque ge-  nerare. Alia via II. Stepha-  nus xai explicandum censuit  scribens iitiSvpy* qua coniectu-  ra efficitur , ut apodosis non a  tovtgjv 8 av terbis incipiat,  sed ab insequrnte enuntiatione;  etyTEi 8i/ x. r. A* Probatur haec  explicandi ratio Astio et Rii-  ckerto. Ficinus verba reddidit:  Quisquis ergo virtutum huiusmo-  di natura plenus et gravidus  est ideoque divinus , aetate de-  bita imminente parere iam ge-  nerareque affectat. In Schleierroacheri conversione legitur : fFer  7 iun diese ais ein gottlicher schon  von lugend an in seiner Seele  trdgt , der wird auch , wenn die  Zeit heran kommt , Lust haben  zu befruchten und zu erzeugen.    Nobis xai indicium est , ante  ijxovdr/S aliquid excidisse, quod  quid sit, facilius indicatur, quam  qui factum sit, ut exciderit, cfr. p.  208. E. ol jtkv ovv iyxvfioveS,  icpr/ f xaid 6 capax a ovteS npoS  taS yvy alxaS pdXXov xpk-  Ttovrai xal ravty ipcotixol  tldiv , quibus verbis edocearis,  quid sit id, quod nostro loco  .exciderit. Dicuntur enim, qui  ad corpus praeguantes sunt, ii-  dem ad femineum sexum na-  tura ferri, atque corporis au-  xilio immortalitatem sibi quae-  rere. Qui ad animum praegnan-  tes sunt, num verisimile est, eos  aetate appropinquante tam nude  dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos esse. Nonne dictum  oportuit; eos etiam ad ani-  mam ferri atque animi auxilio immortalitatem sibi quaere-  re? Scribendum igitur conii-  cio : tovtcoy 8 av oxav tiS ix  vtov iyxvpcov y tt/y ‘ibvxrjv,  g ov, xal xara rt/v tf)v -  xf}Y yxovdi/S r jjs yXixLaS tixrciv  TE xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl,  Sensus est: horum, inquam,  si quis est a puero prae-  gnans ad animum, is,  quippe divinus, etiam  animo, si aetas advene-  rit, pariendi atque gene-  randi c upidus est. Verba  autem xara ipvxtfY nou intelle-  xerunt, qui xai copulandi pote-  state positum censerent. Hinc  ea expunxerunt.    298    HA A TS1N02    xcdov iv tp uv ytvvtjautv’ Iv t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^  XOTE ylwijOH. tu TE ovv 6 wuuta tu xuXu (luV.OV Ij  tu cd6xQu uexut,txai ats xvav, xul luv Ivtvxy 4'vxij  xuXy xul ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy uSTta&tui tb  fcwtXUtpotlQOV , xul 3CQ0S tovtov tov aV&Q(07t0V EV&V?  tvxoQU Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI olov xQ’l ^ val    C tov uvSqu tov ayu&ov xul  XuiSeveiv. amo/ievo g yug,   P,rftit St) — to xuAov,  Iv m x. T. A. Primo obtutu  sciiptum exspectarem Spjrei 6//  xaAuv ti, Iv oj av yevvijdeiev. Sed optimo habet TO xa\bv %  Sensus est: Quaerit igitur  etiam hic (ut alius, qui ad  corpus praegnans est) multo  cnm studio pulcrum illud,  quod aptum esset, in quo  procreare at^ue generare  possit,   it a v v 8 rj d 6 Tt d% et cti.  Tum rero plane utrumque, et corpus et animum  pulcrum amplectitur. Ne-  que enim 87 } in his est scilicet, nempe, ut putabat Astius, sed positum est nt in formulis  iv$a 8 r), ivravSa 87 /, rore 8 rf,  atque refertur ad praegressa illa  £dv hvtvjft ipvx y 7ta\y*  8 tali b .   xal Ttepl olov XPV  vat tov av 8 pa. H. Stepha-  nus vitii aliquid in his verbis  odoratus scribendum esse cen-  suit xal nepl tov olov XPV  vat x. T. A. Bekkerns praepositionem nucis inclnsit, Astius etiam  xai vocula adeo odendit, ut eii-  ciendam censeret. Stallbauraius  olov non masculinum, sed neu-  trum genus esse contendens ver-    u BTUtqdsvHV, na i hti%UQ&  oi[iat,, tov mlov nal opi-   /horum sensum hunc esse ait: quale sit, in quo tractan-  do versari debeat is, qui  boni viri nomen et digni-  tatem ohtinere velit.  Riickertus improbata hac explican-  di ratione Bekkeri exemplum secutns itepi praepositionem uncis inclasit. Nostro arbitratu neque delendum aliquid est neque  addendum. Articulum solent qui-  dem haud raro scriptores in hulusmodi enuntiatis addere, sed  necessitas additionis nostro loco  nulla est* Proprie Diotima dictura erat: Ttepl apeti/S xal   olov xfiV tlvai x. r. A., quibus  verbis nihil inest, quo offendaris. Sed noluit ea hoc modo  exhibere, ne parum explicatam  sit, utrum de uno an de duplici  disputationis argumento nunc agatur. Praepositionem igitur repetiit, liberiore dicendi genero  usa, quod in familiari sermone excnsabile censebis. In hoc nimirum dicendi genere aliquyl tribuen-  dum est pronuntiationi verbo-  rum, quatenus consentaneum est,  Diotimam prolatis verbis Ttepl  dpetijS xal Ttepl linguam paul-  lulum repressisse, post verba  olov xprj elvai tov av8pct x.  r. A. ita pronuntiasse, ut auditor  intelligeret, eflicere ea unum ar-  gumentato disputationis, et qaasi  luiv ctvttp, a italai Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv xal  dxdv (isfivypivog, xal r 6 yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~  vrj fiet’ Ixeivovy Sgre tcoXv xowmrlav tfjg rc5v   Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol xoiovxoi ifjxovtii xal cpiHav  fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal d^avatatigcov ncd-  dov XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r oiov-  tovg itaidag paXlov yeyovevai rj tovg av&Qanlvovg , xal D  $lg "0(itjQOV ccTtofitiipag, xal 'Htiiodov xal xovg al-    unam notionem ut praecedens   dperfjs.   xal 7tapa>v xal aitcjY  /i Epvij /x£roS . Neminem fu-  giet, alterum participium, napcov,  superfluum esse. Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim au-?  gendo orationis vigori inservit.  Satis notum est Latinorum nolens, volens; quo iure,  qua iniuria, simii. Paullo  infra legitur, p. 215. C. T a ovY  ixelvov idv re dyaOroS av\  Ti)s avXy. iav te tpavXr) avArj-  tpif , pova xatkxE6%ai noiEi  xal SijAol x. r. A. Huius dictionis vim nou assecutus est Astios,  qui xal expungendum censet,  quod in duobus codicibus ante  to yEvvijSiv omittitur. Eidem  ' Kiickertus adstipolatur. Quid  enim, inquit, sibi vult pul-  cri invenis recordatio dum praesens est? At  procreati in eius pectore  fetus, recte mentionem faciat, cuius facile potest  fieri ut obliviscatur,  certe si voluptati magis  quam virtuti sit deditus.   trfi T dSv naiScov sc. xoi-  vcoviaS. Frustra Bastius scribendum ceusuit tg&v naiSovS -  vgov vel 7 Cai 8 o 67 c 6 paov. Stall-  bauraius xoivcoviav tqjy rtaldoov esse censet coniunctionem  ex liberorum procreatione oriundam, Respici  consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem , quam  saepias Diotima tetigit in praecedentibus, v. c. p. 208. E. ol  plv ovv iyxvpovEf, £<prj, xard  dcopara ovte* icpoS taS yvval -  xaS fiaAXov rphtovrai x. t. A.,  ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem commemorari, quae  procreandorum liberorum caussa  inita post, procreatis liberis, au-  ctior atque firmior evadit.   ola Ixy ov a havtdjv xa~  r aA$iit ovdir. Olo ? et 060 S  haud rjjiro pro on T oiovtoS, oti  T odovtoS poni, exemplis demon-  stravit Mattii. Gramm. ampl. $.  480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone familiari eadem potestate adhiberi interdum, supra annotavimus p. 263.   xal eis “Opijpov djco -  /3 A hf)aS — ZijAujv. Parti-  cipia interdum exhiberi copula  addita nulla, sapra indicavimus  annotat, p. 94. Ibidem, qua po-^  testate participia ddvrSETcHit po-  nantur, explicatum ieperios. Ea  potestas quoniam hoc loco non  exprimitur, admodum nobis dis-  plicet participiorum ratio. Ne-  que tamen Astii medelam ver-  Xovg itoirpcag Tovg aya&ov g fyXiUv , ola ixyova iav-  tljv xataXiMvrSiv, a ixtivoiq a&uvaxov xXiog xal  fivijfujv 'Xttfjiyira.i ama roiamu orna' el 81 flovXsi,  icpij , olovg Avxoiifyog n alSag xarsXixsTO Iv Akxe-  Saifiovi. OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal , ag Img. d-  7 tdv, Trjg 'ElkaSog. ti/«os 8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov  E Sia rtjv Tuv vo(i(OV yivvrjOiv, xal aXkoi aXXo%i xoX-  f.axov uv&Qtg, xal iv "EXXrjOi. xal iv (iag^agoig , %oX-  Xa. xal xaXa axorpyvauevoi iQya, yevvrjtSavrsg Xav-  %qiav aQitrjv' (Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB Sia tovg    Eorum probamus , qui Sr/Xolr)  pro S,r)X(Sv soribendum couiecit.  Stallbaumius verborum structu-  jram ait esse: TtaS av SiUaiTO  t avtd j xoiovtovS itai8aS jj.cc A-  Jtoy ytyoyivoLii r t rovs avSpa)-  nivov* Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal  ' Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj -  T uS xovS ayaSovS, eIs ixelvovS  (tizofiXaipaS , ola Ixyoya kav-  Tgjy xata\Eiitov<$iY' Nemo ne-  gabit, haec Yerba optime se ha-  bere } sed nura eo ordine, quo  PlntQ ea exhibuit, eum sensura  habere possint, quem StalJ-  buumius putat, alia quaestio  est, quam certe addubitare li-  cet. Ruckertus commate post  'JitilodoY posito prius membrum  enuntiati esse censet xal elS  "Ojityjov d7tofi\h{>aS xal 'Hoto-  8ov , alterum xal xovS dXXovS  1 taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v.  Quamquam haec explicandi ratio  admodum nobis placet, tameu  esse aliquid censemus, quod me-  rito vituperetur. Non recte enim  dici arbitramur xal eIs" O pijpov  ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro  xal Eis "Ojirjpov ccTtoftMipaS xal  .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~  (3A.£lJ>a$ comma ponendum cura-  vimu« , quo efficitur, ut cum    admiratione aliquis dicatur  ad Homerum respicere,  atque Hesiodum ceteros-  que poetas bonos cum in-  vidia quadam prosequi»   ei 8 e fiovXei, Hcprj,o?-  ovS Avxov pyoS . Brevius  hic locuta est Diotima quippe  supplenda auditoribus relinquens,  quae facillime suppleri poterant:  ei 8 ftovXei, ZjjXtkiy Avxovp -  yov, otovS nalSaS x. r. A. Ce-  terum assimilatiouem generis, dc  qua supra dictum est annotat, p»  286., hoc loco admissam arbi-  tror. Primitus neutrum genus  relativi Flato in mente habuit,  cui TcalSaS odiungeret appositio-  nem. Post elegantiae studio ge-  nus relativi mutavit , idque ad  sequentis nominis genus direxit»  — Pro xaxeXbzexo vulgo xate~  fehzEzo legitur. Recte illud re-  centiores editores e codicum au-  ctoritate in verborum ordinem  receperunt.   &y xal lepd TtoWd. cfr»  Wachsmuths Hellen. Altertbumsk»   II. 2. p. 155.   xavxa p\v ovv — xdv  6 v pvTj $ elrjS h. e. quae  hucnsqne dicta sunt de  roiovtovs nalSaq , Sia de rovs uv%Qani^ovg ovSe*  vog na.   Cap. XXVIII.   Tavra (ilv ovv ru iganxa ”<Saq , m Xaxgarig,  xav Ou fivtj&ihjs ' tu da relta xai Inontixa, av tve* 210  xct xai Tavra lonv , luv rig og&us fisruj, ovX oid \  tl olo s t’ av tfys- iga fiiv ovv, £<pr ) , iyiS x al ngo*  Qvfiiag ovdcv unoldipa' nuga SI txiaftca , av o!o$  ta ys- dat yag, rov og&ag lovra ini tovro  Erote, cornm tu quoque  mysta iactus es fortasse*  Iam iis, quae Diotima protulit,  t d reXsa xai izontixd oppo-  nuntur, ut facillime intelligatur,  quid sub verbo Tavra intelli-  gendum sit. Nimirum cum illa  verba ipsa arcana significent,  ad quae spectanda, qui mystae  esse cupiant, non admittuntur,  nisi ante quinquennali purifica-  tione, quam xaSapCiv Graeci  vocant s. xaSappov , ad rem  idonei facti sint , tavra ipsam  illam xaSapdiv denotare con-  sentaueum est. Qninque autem  fuerunt, ut Theo Smyrnaeus nar-  rat Mathem. p, 18. initiationis  gradus, quorum primus xaBap~  f.ioS vocatus est, secundus tJ rijS  teXerr/S napaSoCiS, tertius ino-  nreia , quartus avaSetiif xai  Crappareov btiSsCiS, quintus ro'  SaocpiXls xai Seotf Cw8iairoS  evSaipovla. Harum graduum  verisimile est singulum quemque  annum unum sibi exegisse,   ovx ol8* s el olo St* av  eItjS. Hic quoque e mysteriis  similitudo petita est. Haud ra-  ro enim, qui mystae fieri cupe-  rent atque arcana spectare, ^priusquam quinquennium praeterla-  psum esset , impatientes morae  consilium mutabant atque a pro-  posito abhorrebant, cfr. Piat*  Phaed. p, 69. C. eIcI ydp 6tfr  <padv ol Ttepl rat r eXard? y vap-  %rjxoq>6poi plv izoXXol , pax-  Xoi Se re rcavpou Ut autem  melius intelligas , quo iure do-  ctrinam de Erote Diotima cum  mysteriis comparet, pergit So-  crates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl Xard  t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi ij  ol 7tE<piXo6o(pyxoTES Op3(ZS.  gjv 6jj xai Sycaye xara ya ro  dvvaruv ovSlv dniXinov iv  rui pico , dXXa itavrl t porceo  npovSvpijSiiY yevtCSat. eL 6 e  opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl  7fvv6a/i?fv , IxeICe IXSovteZ ro  Caepi S aldupaSa, idv SiuS ISe-  Xy , oXiyov vdrapov, coS i pol  donat. Comparat igitur Diotima  rei iosequentis difficultatem cum  quiuqueunii illius molestia, atque, ut mystae impatientes mo-  rae , ita ne Socrates difficultate  rei ab audiendo deterreatur, vereri se indicat.   TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl. "&71E-   CSat verbum saepissime adhibet  Plato , ubi auditores excitari si-  guifieaturus est, ut attentius au-  rb xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra levui 1x1 x «  xala CtoftarK, xal XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai 6  xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog igav xcel ivzuvda  diant accuratiosquo , quae doceantur, percipiant. Petitum autem hoc verbum est e mysteriis,  ubi ducentibus ad arcana spe-  ctanda iis, qui itept t aS te\e-  r aS erant, mystae sequi iube-  bautur.   p\v v e ov oV“  ra. Hecte Ficiuns verba red-  didit: Oportet eum , qui ad hoc  recto sit tramite progressuras,  statim ab adolescentia pulcra corpora contemplari, et primum  quidem, si modo recte ducatur,  unum corpus amare. Ceterum Sy-  denhamius, quem Wollius laudat,  optime annotat: Der Grund  hiervon ist der, weil das  innere Auge sich zur E m-  pfindung der Schonheit  eben so offnet, ais zur  Erkenntniss der Natur. Unsere Seele fangt im-  m-er bei einem einzelnen  sinnlichen Gegen stande  an, geht da nn zu einem  andern fort, vergleicht  beide, und siehtiniedem  das, was beidegemein ha-  ben, So fiihrt sie fort,  sammelt und vergleicht  mehrere andere Indivi-  duen dieser Gattung, bis  sie in allen diesen Indi-  viduen einerleildee, eine  und ebendieselbe Natur  wahrniinmt, So gelangt  sie endlich zu einem vo11standigen Begriffe dieser  sowohl de ii Arten ais der  Gattung selbst gemein schaf tlichen Natur, iener ewigen und un veriinder-  lichen Idee, die eine und  ebendieselbe in allen ist.  Inseqnentibus singuli gradus per-  censentur, quibus initiari debeat  is, qui ceteram pulcri ideam  concepturus sit. Itaque Diotima,  Stallbaumius inquit annotat, ad  b. 1. , primum ait initiationis  illius gradum esse, quo ad unum  nos applicemus corpus pulcritu-  diiie insigne, ex eoque virtutem  et bonorum sermonum fructum  procreare studeamus. Secundum  esse hunc, ut non unum aliquod  corpus amemns, sed omnia, quae  emineant pulcritudine , corpora  amore complectamur. Tum pro-  grediendum esse ad consectandam  animi pulcritudincm , prae qua  corporis forma omnino conte-  mnenda sit atque id agendum, ut,  quod iu moribus, legibus, insti-  tutis pulcrum sit, id animadver-  tatur atque diligatur. Denique  perveniri ad sapientiae atque  philosophiae studium et amorem,  quo qui incensi sint, eos demum  ait intueri pulcritudinis verae,  constantis atque aeternae divi-  nam formam atque imagiuem.  hv 6 S avtOV dcbpLCtTOS  ipav. Bekkerus e quinque co-  dicibus edidit b>o$ avt&v  yiaroS Ipav , quae scriptura , nt  Stallbaumius atque Ruckertus iam  monuerunt, nullo modo ferri  potest. Pronominis repetitio pri-  mo obtutu molesti quid habere  videtur in verbis iittiTCt ou-  roV x. T. A., re accuratius per-  pensa repetitam videbis, quo va-   ycwav Xoyovg xcdovg' Exuta 6tl avtov xotavoijaui,  ori to v.aXXog zo ixl ougovv Gci/ian ra> Ixl triga B  0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to Ix’    lidias graduum enumeratio emi-  neret, alterque ab aitero signi-  ficantius discerneretur. Et quum  in huiusmodi singularum rerum,  quarum altera ab altera accurate  seiungcnda est, usitata prope sit  verbi finiti repetitio non dubita-  vimus praeclaram Stallbaumii con-  jecturam , quae et a facilitate  commendatur, in ordinem verborum recipere, atque dei pro  de exhibere: ineita dei avtov  Xatavoijdai. Verba autem quod  attiuet: kvoS avtov CcdpazoS  £pav, quoniam praecedentibus adiuuguntur, nontanquam novi gra-  dus significatio iisdem opponun-  tur, avtov pronomen nobis quo-  que admodum displicet, ut Bek-  kero displicuit, ex cuius scriptura  eruimus, quod unice verum esse  videtur: kvoS av toiv dcopazoov  ipav. Av particula, ut supra  indicavimus annotat, p. 209. , e  superioribus aliquid supplendum  esse docet, ut expletior oratio  audiat: rtpajtov /Av dei rov op-  $qqS lovta ini tovto td npdy-  pa ivoS zcdv (jojpdtcjv ipdv.   ori t d y d XX o S — ad e A-  (p 6 v i6tt. AdeXqjov rarius  cum dativo casu coniunctura re-  peritur, quam cum genitivo ; in  caussa hoc esse arbitror, quod  rarius tropico, quem vocant, quam  proprio sensu exhibetur. Substitutum h, 1. est ddeXqjov nomen  in opioiov s. d/ioiotazov verbi  locum ideoque eius casum ad-  scivit. /   to in eldei xaXov. Wyt-  teubachius ad Eunap, Yol, II, p.    247* h. 1. dicit to in* eT8ei xa-  A ov dialectice dici pulcrum in  specie, quae generi oppona-  tur. Gai assentitur Stallbaumius.  Male, si quid video. Est enim  pulcritudo, quae in forma  est atque sensibus perci-  pitur» Hinc etiam ei dei dicSxeiv  dictum vnoSezixdiS. Ruckert.  Schleiermacherus verba reddidit :  und es also, wenn er dem in der  Idee schdnen nachgehen soli,  grosser Uuverstand wiire cet,  Schulthessius ; uud weil doch das  Schdne der Gesummtgattung an-  gestrebt werden miissecet. Recte  Wyttenbachius et Stallbaumius  verba ceperunt. Ficinus habet :   Et si sequi decet, quod in spe-  cie pulcrum, absurdum est cet,   yai eI det diGJXEiv X a AA o S . His verbis tertius  gradus continetur, ut quinque  etiam eroticae initationis gradus  nominentur. Vide annotat, p,  3f)l* Sed haec verba tauquam  alicuius gradus significationem  Flato non attulit, ne nimia, opi-  nor, singulorum membrorum si-  militudine oratio laboraret. Pro-  prie scribendum erat; eneixa dei  avtov Zv te xai tavtov ?}yei-  6$ at to ini niidi toiS dot/tadi  xaXXoS xai dicjxeiv avto ov  in* eldei xaXov. Sed quoniam  hoc gerius dicendi praecedeut| -  enuntiato simillimum est, verens  scriptor, ne nulla varietas esset  orationis , condilionali particula  addita id genus dicendi exhibuit,  qi/od in libris comparet. Quae  uutem sequuntur > tovto 6* £v~    1 tiSst xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re xal r avrov  cjyeiG&ai ro Icci ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8 ’  IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai ctavtav rav xaiwv Gafiarcov  iQaOrrjv , hos 8 e ro GqjoSga rovro %a)JcGai xaracpgo-  vrjGavra xal G/uxgov tjytjGafiBvov ' ftsra da ravta ro  Iv raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov rjyyGaG&ai rov iv  tfii Gajiau, agre xal, av btcuxrjg cov rqv us  VOtjdavttt xara6ri]Vai rursuni  ad verborum praecedentium bt et-  ra det avrov xarctvoij6ai ex-  emplar conformata sunt, quar-  tum gradum eroticae initiationis  exprimentia, ut expletior oratio  audiat : httira 6ei avrov ivvorj->  Cavra xara6ri]Vai x. t. A.   bvos db ro dtpodpa rov-  ro. 'EvoG sc. xaXov tiooparoG.  Sensus est: nimium autem  illum unius corporis amo-  rem, (quo de supra dictum est  p. 210. A. xal TZpcorov pbv —  IvoG av r cov 6copdxcov ipctV  et quem qaotidie videre licet,)  cum contemtu remittere  oportet. Minus apte Rucker-  tus annotat ad b. 1.: quod au-  tem rovro posuit , eo factum f  quia cum > Socrate loquitur Dio -  tima f est enim eadem ilpoove.iA t  quam ubique Socrates usurpat  Platonicus j ut ad amorem pue-  rorum propensiorem se esse si-  mulet. Tantum enim abest, ut  propensiorem Socrates se ostendat Diotimae bis verbis laudatis  ad puerorum amorem , ut potius  cur non sit, et esse nolit, eius rei  rationem indicatam habeas. Prorsus autem rei intelligeutiam Riickertus pervertit, de puerorom fimore hic cogitans, *EvoG ro 15<po -  Spa rovro potius ad utrumque sexum pertinet, atque sive femina sit  sive puer qui ametur, unius amor (die ausschliessliche Liebe ei nes Gegenstandes) vituperatur c Ii Sr e xal dv — xal 6 pi-  xpd v avSoG i XV’ Vulgo iav  additor ante Cpixpov. Annotat  Stallbaumius ad h* 1* : Horum  verborum constructio quam valde  laboret, etiamsi non observave-  rint interpretes, tamen vel mediocri animi attentione neminem  potest latere. Quum enim doGre  Xai referendam sit ad igapxetv  avrqj , apparet eorum verborum,  quae interiecta sunt, rationem  iav bis illato mirifice perturba-  ti. Neque tamen medicina longe  petenda est. Deleto enim altero iav omnia sarta tecta erunt. Nam ita xal tipixpoV positum,  ut Piat. Criton, c. V. extr. et  n xal 6pixpov ypcoV ocpeXoS  7/v et sexcentis aliis locis. Idem  de hoc loco nnper visum esse  Astio non sine animi laetitia video, Sententia igitur haec est: si quis proba sit animi indole et vel tantillum  pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et  ,verisimilior haec coniectura est,  quam Sommeri commentum, qui  cov participium in y immutan-  dum censuit. Pro iav , quod  ante irtietxjjG positum reperitur  inultis in codicibus, vulgo txv  legitur, quod Bekkerus iu oidi—  nem verborum recepit, quem    xnl [lav] 6juxQov av&og lyy , eiagy.nv avrco xal tgttv C  xal xijdiaitca xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv,  omveg jtoiijaovOi fiO.rlovg rovg veovg , Uva avayxaod fi  av &taoua&ui ro iv rolg ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig  xakoi' , xal zovto ISnv , ort jcav ai no avu5 fcvyytvig  tduv , tva to siegl ro Ouaa xa/.ov tiiuxguv n %yrfii]-  rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg ixiOrrjfias    secuti sumus, nt esset, cnr acri-  bae uon intelligentes huius vim  particulae ante tijuxpov idv  inseruerint.   xal t Ixxeiv \6y ovS t oi -  OvzovS x al ?,7/z etv. Verba  xal ZtjzeIv Astius ineptnm glos-  sema habet, neque quiequam post  rixxsiv \6yovs xoiovtovS locum  habere arbitratur, quam xat ix -  T pl<pEir, Quod verbum si com-  pareret in libris, a nemine non  probaretur; sed habet etiam # 7-  teiv , quo sese lectori commen-  det. Stalibaumius ctTjxsiv verbi  patrocinium suscipiens, Diotima,  inquit, hoc dicit: talem amato-  rem uon modo ipsum parere quasi  et ex se procreare , sed etiam  aliunde quaerere et investigare  eiusmodi sermones , qui iuvenes  reddant meliores. Quibus ver-  bis significatur maxima hominis  contentio et stndium, qni niteri  omnibus rpodis prodesse cupiat.  Recte.   oltiVES It Oli} dovtfl. Iland  raro Graeci scriptores futuro tem-  pore utuntur, quo significent,  aliquid haud dubie futurum esse  atque fere necessaria de caussa :  welche die Iiingliuge besser rna-  clien m ii s s e n .   tva dvayxa.6$i/ — ivct  x 6 n spl x. x. A. "iva particulae repetitio hoc loco sutis molesta est. Huiosmodi repetitiones admittuntur quidem a scri-  ptoribus, sed eo fiue, qui a no-  stro loco alienissimus est. Ni-  mirum quando cum gravitate  singulae alicuius rei actionisve  partes enumerandae sunt, haud  raio scriptores voculis npdoxov  pkv — insita s. insita 64  utuntur. Hae partes, ubi per  Runles particulas inferuntur, haud  raro etiam illae voculae omit-  tuntur, atque particula finalis re-  petitur. Vide lud. s. v. Repetitio.  Quam aliena haec dicendi ratio  a nostro loco sit, sponte intelli-  gitur. Hinc Astio assentimur, ivct  posterius expungenti, quod quomodo ia ordinem verboium irrepserit, facillime potest indicari*  J*rnecedit enim idti, quod»' itpsA-  xioxixov dnte interpunctionem  assumsit, cuius vocabuli syllaba  huulis iucuria scribarum dupli-  cata ansam dedit corruptioni.  Totum Jocum Astius sic scribi  iubet: iva avayxa6$EiS av   SsacSaCSai to iv tois Inixr}-  Qsvpatii xal rois vopoiS xa-  Xov xal xovt* i6slv , oxt ndv  avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro  mpl to 6 copa xaXov 6/Jtxpov  . xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus Stallbauraianum argumentum , quo dicitur admissa con-  jectura Astii totius sententiae ratio  perversa esse. Quippe ita, Stati -  20    t    t  ,   uyayuv , f 'vct TSy av ixusrtjfuSv xaiUos , xal fifJxav  D XQos nohv fjdrj r. 6 xaKov , (irjxtri ro xuq evi , montq  olxttrjs, uyaxwv , xutduyiov jkUAos V uv&qwxov uv os    banmius inquit , ea par* enuntiati , quae continet rei longe  gravissimae significationem , par-  ticipio indicatur, altera , quae  rem minoris momenti denotat ,  per verbum finitum exprimitur. De hoc verborum structura vide  ludiccs 8 . v. Participium,   pera 8i x a kn iXTf Ssv -  para — ay ay eiv, Hic ut  taceam tot verbis interpositis denuo novam periodum ab illo detV  in principio posito suspensam,  nonnihil offensionis habere , illud  vix excusare possum , quod sub-  lectum etiam mutavit Plato , atque ab eo, qui ducitur, transiliit ad eum , qui ducis et magistri personam agit. Est enim  plena sententia: Ssi Xov 7/yov-  p£vov dyayeiv avxov x. r. X.  Hoc Riickerti iudicium est, quod  esse suspicor qui probaturi sint. Nobis neque 8« verbi omissio  incommoda est, neque vero sob-  iecti mutatio excusatione indigere videtur. Suut enim verba  magis ad sententiam , quam ad  grammaticam subtilitatem conformata, Atque mirari non possumus, hoc loco pro eo, qui ini-  tiandus sit, eum commemorari,  cui iuvenilium animorum initiation sit commissa, cum idem etiam  in praecedentibus commemoretur*  cfr. p 210. A. 8ei yap , £<prj,  xov opSdfc lovxa btl rovro ro  irpaypa apxtdSai piv veov  ovra levat irci ra xaXa 6(d-  pata r xal npcorov piv , iav  opScoS 7\yr}tai 6 r\yox>-  pevof , kvoS av x. x. A.  prjxixt xo 7tap * ivido S-  f tep oixirrfS dyandov. His  verbis inesse quod minus bene  habeat, statim lectores inteliigent.  Bastius SovXevgov ineptum glos-  sema habet , quod oixkxTjS verbi  explicandi caussa margini olitn  adseriptum post in ordinem ver-  borum irrepserit. In aliquot co-  dicibus pfo ptpte xt xo legitur  pyjxit* ha), uude Bekkerus at-  que Schleiermacherus scribendum  ceusuerunt pTjxezi rw. Astius scribendum couiecit: prjxexi xo  7 tap* ivi, QoSnep olxixifS, dya-  rtGov xaXXof, y avSptanov xi-  voS 7? ijtitTjdsvpaxo $ IvoS, x,  r. A. Vulgo verba hoc modo  interpunguntur : 7£poS noXi) ijSjj  ro xaXuv, prptkxi xo nap - ivi,  ddsnep oIxext}? ayandov naiba-  piovy xdXXoS, t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad h.  1. Nihil, inquit, mutandum videtur praeter interpunctionem,  quam nbi emendaveris in hanc  modum: xal (iXincov npds noXv  7/drj xo xaXdv, pTjxizt xo nap’  ivi , doSitep oixixTjS , ay vendor  itaibapiov xaXXoS x . r. A., haud  scio au omnia satis expedita fu-  tura sint. Nara ad ro nap*  ivi , quod connectendum est cum  dyaitdov, rursum intelligas xa-  Xov, Apto vero additur c Zsnep  oixknfiy quoniam, qui unius tantum admiratur polcritudinem, is  ei tanquam servus quasi emancipatus videtur. Porro nihil habent offensionis, quae deinceps  sequantur: naiSapiov XaXXoS —  iittXTfSEvpaxo » ivoS, quae nemo est, quin videat , apposita esse  *o    \   y imTTjdlvfiaros {vug, dovktvmv (pavXog y xal 0 /jixqq-  koyog , cAA’ tal ro nokv nikayog xecQamiivog rov xa-  koii xcd &taQdov xolkovg xcl uaXovg ivyovg uai (it-    praecedenti ro nap* kvl explica-  tionis gratia, ita ut pro to xa-  X uv nunc dicatur nuiverse xaA-  AoS\ Denique nec participiorum cumnlatio quidquam habet,  quod ab loquendi consuetudine  alienum sit. Nam fiXbroDV npoS  noXv ro xaXov arcte cohaeret  eam pipiETi ro nap * kvl dya-  nckiv f atque indicat modum et  rationem, qua fiat, ut amator non  amplius unius tantnm admiretur  pulcritudiuem, 4ov\evgjv autem  reiereudum est ad q>avXo$ y xal  6p . , ita ut idem sit , quod dia  Tu BovXeveiv* Quocirca sententiam verborum sic fere red-  diderim: post studia illa   ad scientiae genera ad-  ducendus est, ut sapien-  tiae intueatur pulcritu-  dioem, atque eo, quod latissimum puteri campum spectat, non i a m unius,  sicuti servns, admiretur  pnlcritudinem eaque servitute vilis existat et  pusillus, sed ad immen-  sum pulcritudinis.mare  conversus etc. Iloec egregia verborum explicatio est, qua et  codicum lectionem servatam fet  Platonis ingenio haud indignam  gententiam repertam habes. Unum  tantummodo est , quod in hac  verborum explicatione minus nobis placeat, oixBTt}? nomen. Sa-  tis apertam esse reor, Platonem,  si servilem conditionem eius  describere voluerit, qui unios  hominis vel rei udmiratidne atque AMORE captos teneatur, 6 o d-  \oS non oixittjS nomen ad-    hibiturum fuisse. Sic infra p.  219. E. xctTatdefiovXayiEro? re   DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S OvStlf  V7t ovSeyqS d\Xov icfpiya . k,   T. X., cui innumeros alios locos  addere possemus, quibus probure-  tur, ad servilem conditionem de-  scribendam Platonem nusquam o f-  xkxyjS vocabulo nsum esse. Scri-  bendum est autem pro oixixtjS  nomine 6 IxitrfSy quae vocabula  passim confusa esse Iacobsins  monuit annotat, ad Meleagri  epigr. XXXII. v. 2. De Initr/S  vocabulo amatorem unius hominis  describente, vide Excurs.   &it\ to noXv niXayoS  tet pappivoS rov xaXov .  Picinus verba convertit: verum  in profundum pulchritudinis se  pelagus mergat. Stallbaumius exhibet: sed ad immensum pulcritudinis mare conversas. Videtur nemo ioterpretum verbis offensus esse to noXv niXayoS,  qoae sane, praesertim cura praecedat xal ftXbtcov xpuS noXv  ydij to xaXov t nimis ponderose  prolata snnt. Satis erat dixisse  ini to niXayoS rov xaXov  vel ini ro noXv r ov xaXov Utrumque verbum h* 1. adhibe-  tur prorsus eodem modo, quo aX -  AofT cum nomine aliquo coniun-  gitur. Ceterum apte conferri iu-  bet> Stallbaumius Plut. Quaest,  Piat. p. 1001. E. ro piyi-  6rov y ccdtoS iv Svpnodtco Si-  datixoov , rttoS 6si toIs ipoari-  xoir xpydZaij perdyovra rrjv  i>vyt)v ano tcov afoSyrcov xa-  Xdjv ini ra votjrd, napeyyvd  pijrs CooparoS tivoff pyz’ im-  20 •   ‘yaXoitQtxtig rixrij xccl duevotjfuna tv rpiioGotplct atpfto-  vto , eag av ivrav&a QGXS&alg xal avfy&fls xattSij  tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv, fj loti xaXov toiovSt.   E IlHQa 6s ftot, hffj , tov vovv XQogt%uv tSg olov  r t (laXitita.   Cap. XXIX.   "Og yuQ av (lifflt ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya-    tijSev/icttoS fitjr’ btttirijftriSxaX-  Aft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~  A eveiv, aXX* dnoOtdvxa xij$  itepl xavta pixpoAoylaS ini xo  noAv tov xaAov itiAayoS xpi-  7te<$$ai.   $e&)pG)v * — rixrxj xal  8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina*  exhibet ia conversione : abi ipso  iutaita multas praeclaras atque  magnificas rationes intelligen-  tiasque in philosophia abunde  pariat. Attius, dqiSovGQ verbo  oifeusas | acpSova scribendam  eoniecit. Nobis transpositione  verborum opus esse videtur pro-  pterea, quod praecedens 3en>-  pcjy participium sequente ac-  cusativo, qui ad id non per-  tineat, satis inepto loco positam videtor. Supplendum cen-  sent ad $£(u)p(k)V interpretes av-  zo , sed supplemento illo ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal  xaAovS A oyovS xal peyaAo-  npeneiS haud excusabilior reddi-  tur. Scribendum igitur videtur  esse: aAA* btl td noAv neka-  yoS ZExpappeyoS rov xaAov  xal SEwpobv zoAAovS xal xa-  Aovs AdyovS xal 8iocvoi}pata  xixxy iy <piAo6ocpia dq>$ovaa.  Seusus est: sed ut conrsr-  s o s a d 'im m e n sam pulcritudiui.s copiam atque intuens pulcrorum atque praeclarorum lermonnm  immensam materiem (vide annotat, p. 333.) pariens sit  in philosophia ditissima. De verborum transitivorum absoluto usu , quo nostro loco xi~  XTQ dicitur pro tixxoDV y , saepius iara diximus. Vide Indices.  tiva initixrfprfv piav  x oiavtrjv h. c. scientiam  eam, quae est ideae pulcritndinis, ad quam cognoscendam Socratem Diotima adhortatur ut animo attento essa  studeat. Ceterum xazidy miuus  apte Schleiermacherus reddidit:  bis er erblicke; xaxiSel-y est  potius: mit dem Blicke erfassen,  agnoscendique notionem videndi  notioni addit. Sic p. 172. A.  legitur roJv ovv yycopipooy r/J  oxiCSe xatidcSy pe xdfipcj-  &ty ixoAede x. x. A. h. e. : einer  meiner Bekanntcn, der mich von  hiuten sali and erkannte. Paullo  infra p. 210. E npds riAuS ySff  icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S  xaxdip ex ai xi SctvjiaCxov  x. x. A.   piypi iytav£a. Sic libri  meliores omnes pro vulgato //i-  XptS, Quod enim Phrynichtu p.  6., Herodian. Philet. p. 451.,  alii grummatici veteres, pdxp* el  axfn tanquam Atticam probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa , srpog  riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav-  (iciGzov tijv tpvGiv xaXov , tovto txiivo , a £ioxQccceg,  ov 8rj tvcxEv xal o£ ZfixQoo&iv zcavzig novot zjaccv,  ngarov (tiv ccei ov xal ovts yiyvofisvov ovts utzoX!.v(1£- 211  vov, ovts av^avofisvov ovts qp&ivov, ezcaza ov zy (ilv  tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv, rora 6 ' ov’, ovds  arpog (ilv ro xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd' Ev&a    filxpiS antem et axpiS improbant, id verissime dictum esso  testantur Platonis codices meliores omnes, qui tanto consensa  tuntaque constantia ea de ro  consentiunt, ut vix sex septemvo  apud Platonem loci' reperiantur,  obi altera forma communi fir-  metur librorum consensione. Nam  quae Heindorfius ad Piat. Gorg.  p. 137. collegit, ea nunc omnia  ex codicibus emendata suat.  Stallb.   Secj/isv o$ i<pe£ijs re  pcal opS-d)? h. e. die Grado  des Schdnen in seiner 1'olgp und  Richtigkeit. De tl pronomine  indefinito, adiectivis nominibus  vel praefixo vel postposito, Mat-  thiaeus disseruit Gramm. ampl.  §.487. 4. p.911., ubi et no-  ster locus laudatus est.   iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti dicebantur ii,  qui superatis gradibus tandem ad  spectanda arcana admittebantur.  Hinc factam esse videtor, ut ipsa  illa arcana, quorum caussa multi  labores suscipiendi erant, TfiSv  teXcov nomine insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen.  Alterthomsk. I, 1. p. $24. an-  notat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS ist  niclit die des Endes , ais der eintretenden Nichtigkeit voo et-  vas Vorhandenera, des Eintritts  einer Leere statt der friiheren  Fiille, sondern vielmehr, kraft  der Ableitung von tiXXca (zum  Dasein kommen, hervorwachsen,  reifen) der Bcgriff, dass etwas  •ich verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel erreiche, seinen Zweck crfuUe,   rouro ixeivo sc, idrlr.  Diotima nunc de pulcri idea locutura, cuius caussa tota oratio  suscepta est, rouro pronomine  demonstativo recte utitur. Exei-  vo addit, ut significet, eiusdem  pulcri ideae iam prius mentio-  nem factam esse. Hinc rjdav  explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius caussa esse  diximus labores omnes. Ut  Graeci tovto Ixeivo, ita Latini hoc illud adhibent hand raro,  atque interdum satis cum acri-  monia; cfr. Terent. Andr. A. I.  sc. 1. v. 97.   Quae sit, rogo. Sororem aiunt  esse Chrysidis.   Percussit illico animum. Atat  hoc illud est ,   Haec illae lacryinae, haec il-  last misericordia.   it pdotov ael ov xat  o t’tfi x. X. X. Satis notum est,  atque eti«uu vernaculi sermonis      (ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov , <5g rtfil (ilv ov xcekcv,  ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16 xalov]  olov TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov  (Swfia [itte%sL, o vd£ xtg koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi  jtov ov ev iteQa nvl, olov Iv £w<a rj Iv yjj rj Iv  B ovgava > jj l'v xtp aXXtp , alia avxo avxo fit&   ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala Ixei-  vov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav  te xov allav wtl dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te    probatur exemplis, duas res, qua-  rum altera alterius explicatio sit,  copula adhibita haud raro arcta couiungi. Huius usus exempla  si quaeris, ludices adi 8. r. xat  explicativum. Sententiam quod  attinet, cfr. Cic. Orat, c. 8* Has  rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et ait  •emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera nasci,  occidere, fluere, labi, nec diutius  esse uno et eodem statu.  ovdfc npoS plv T 6 xa -  \6v. Haec verba ut vulgo ex-  *” bibentur, articulo gravi iusignito, aliquid iucommodi habent}  quis est enim , qui non censeat,  si ro nocXoy exhibitum est, ar-  ticulum cum nomine subsequente  coniungendum esse? Idem cadit  in verba to aidxpov, quae paullo  infra leguntur. Gravem igitur ia  acutum immutavimus, quem etiam  exigit pausa, quae, si recte baeo  verba recitaveris, post ovSfe TtpoS  plv ro comparebit. Ceterum TtpoS  plr to , npoS TO duplicem  rationem indicant, qua res terre*  strea spectari licet, ideam pulcrl  spectari non licet,   ot>d* av <p avta<$$7j de *•  tat avxo [r o xaXov]. Bek-  kcius, quem Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus,  ut videtur, avT(fi pro avxo edi-  dit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius  inquit, probare uoli. Idtelligitur  enim ipsa puteri species et for-  ma. — Recte; sed mious nobis  placet To xaXov, quod, quam fa-  cile potuerit ab eo , qui avro  recte iutelligeret, in ordinem ver-  borum inferri, statim apparet.  Avxo nutem prorsus eodem modo  positum esse videtur, ut p. 210,   E. TOVTO IXEIVO , OV 6f) £VEHEV   xat ol tyjcpo6$Ev TtavTES no -  voi rfiiav. Uncis igitur inclusi-  mus verba ro' xaXov ,   a XX' avxo xu$* avxo  peS* avtov. Apte Schleier-  macherus verba reddidit : sondern an und fur sich und in sicb  liberali dasselbe seiend.   t a Sb aXXa narra 7cadx et y ptfdiv* Dicuntur  emuia, quae in terris pulcra vo-  cantur, sensibusque subiecta sunt,  non ipsa ideam esse pulcri ,  sed cum ea cohaerere tautum-  modo, ut cum haec oriantur at-  que intereant, illa neque augea-  tur, neque minuatur, neque ulli  ' mutationi obuoxia sit. Haec pi-  zijf ideaS quomodo in-  telligenda sit, a Stallbaumio ex-  plicatum habes annotat, ad h. i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov yiyveidai (it]d's natixuv (itjdtv.  orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6 oq&us naiScgaoniv  Inaviav Insivo to xaXov aQ%i}un xaQoQciv , 0%eSbv civ  ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ Sr) ian ro bgftug c  ini ra iganxa livai $ vn aXXov uyso&a i, ciqxoiibvov  ano ravds tav xaXwv ixeivov tvixa tov xaXov clil  inavdvai , togneg tnavafia&ftolg XQwficvov , uno tvog  ini 6vo, xal uno dviiv Ini narra ra xaXa edficcra,  xal ano tav xalav Oafidzav Ini ra ' xaXa InmjSsv-    Quae bona, pulcra , honesta sunt ,  ea putabat Plato bona , pulcra,  honesta facta esse eo , quod re-  ferrentur ad ipsam bonitatis ,  pulcriludinis atque honestatis  speciem, eiusque quasi partem  aliquam in se continerent.   olor yiyvopevoov re  tcov aXXoov x. r. X. Dc olor  sequente infinitivo vide Matth.  Gramm. atnpl. $. 535. Laudat  Btallbaumius Piat. Apol. Socr c.  18. iyoo rvyxtxfc* tov toiovtoS ,  oloS vTto tov Seov r y itbXei  8e8o6$ai. Adde Piat. Protag.  1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov  t} SixaioOvvy olov Sixaiov li-  rat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov  tibvtovto avto ro itpdypd (pa-  te toiovtov tCKpvxlvat olov  avodiov elvat y olov ouiov ;  ibid. p. 831. A. ovx apa icSzlv  odtorrj $ olov Sixaiov elvat  rcpaypa , ad quem locum Stall-  baumius rectissime, li. c inquit,  toiovtov Ttpdypa , olov dixatov  elvat, — Pro ixtlVOf quae opti-  morum .codicum lectio est, vulgo  exeivoo legitur , quod et Ficinus  tuetur: cetera vero omnia , quae  pulcra sunt , illius participatione  pulcra , ea scilicet conditione ,  ut nascentibus et intereuntibus  alus nihil subtrahatur "illi aut    addatur y neque passionem ul-  lam incurrat . Beue dativus ha-  beret ixeivoo y ai verba abessent  py8h nadxetv pySiv , quibus  additis pleonasmus oriretur hoc  loco non ferendus. Igitur Ixeivo  Unice probandum ducimus.   ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo  legitur ozav 61 St} nf , quod  Biickertus retinuit, quia defendi  posse videatur» Illud Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vin-  dobonens. unius, quam Bekkerus,  Stallbaumius , alii intextum receperunt. Rem hic tangit Diotima, quae iam in superioribus  commemorata est, cfr. p 210. E.,  ut nullo modo ferri possit Se  particula. *dteo tcdvSe autem ad  praecedentia respicit yiyvopk -  voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv , resque describit, qua-  rum natura mortalis cum im-  mortali idea pulcri aliquam com-  munionem habet.   tovto yap 8 y itinv.  His et sequeutibus verbi* ratio  agendi summa lim repetitur, qua  uti «debeat, qui verus AMATOR esse  velit. Eam agendi rationem  cum scala comparat Diotima, qna  ab imis ad suprema ascenditur.  Hinc enaviivat verbum positum  et draPaH poiS nomen. Iu Flo-  (itera, scal ano x av xaXiov Inixtjdev/idxatv in l ta scala  (ia&y(iccta , igr’ av ano xav (ta9t](idxav ts t ixtivo   x 6 (idditfia xtievxytfy , o laziv ovx dlXov y avxov  ixelvov xov scaloti (id&tyia , scal yvoi auro xeXevxmv o  D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj  rj Muvuvixr) | ivij , el' n I q jcov aXXoth , 0mo xov ctv-  &Q<ancp , 9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys,    rentinis aliisque libris non pau-  cis avafiad/iOiS reperitur, quam  scripturam etiam Phrynichi iu-  dicio probatam habes , qui p.  824. fiaSfxoS , inquit, ' IotKov 8ict  *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed  ut vulgatum retinuerimus , Lobeckii annotatione factum ad !•  c. Prorsus igitur asseutimur S tali—  baumio et Biickerto, qui ava -  fiaS/xoiS in textu posuerunt. Ce-  terum ne parum accurate et ini-  tium, a quo exordium facere, et  finem, ad quem teudere debeat  verua amator, descriptum atque  explicatum indices : numeri di-  versitate verborum aico xoav6e  tg ov xaXcov ixtivov i vena xov  XaXov efficitur , ut de Diotiroae  voluntate vix dubitare possis.  Quae enim in terris pulcra habentur, quoniam multa sunt, plu-  rali numero, contra, quoniam una  est eademque semper, idea pulcri  singulari numero descripta est.   $$t’ av — rtXsvTt/dp»  Primus Stallbaumius monuit, no-  strum locum si exceperis, nullam esse Platonis, iu qno &V*  av reperiatar Hinc sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quae codicum nonnullorum auctoritate  augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini, aliique libri m»u  pauci pro £ft av habent xai,  quam voculam u« propter sequentia minus aptam iudices, pro  teXevxiJujf in aliquot codicibus  TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall-  baumius scribendum esse suspi-  catur, xal ano xc5v fiiaSijud-  xoov in * ixetro xo jiaSrjua xt-  Xtvxrjdtt. Sed cum hac scriptu-  ra prorsus nou convenire viden-  tur, quae sequuntur: xal yvoS  avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov ,  quae si velis in xal yvoSdtxat  avxo x, o l6xi xaXov immuta-  re,, monendus es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o scri-  ptnrae varietatem reperiri. Verba  convertit Stallbaumius: atquo  ad extremum cognoscat  ipsam pul critudinis id e -  av, quod praecedente xal —  xtXtvrijdei qui probare potuerit,  non video. Licet igitur ist* av  praeter nostrum locum nusquam  apud Platonem reperiatur, tamen  iu textum recipiendum est. KaL  autim, qaod pro iSx* av in ali-  quot codicibus comparet , ab iis  profectum esse putandum est y  qui ist* av alias apud Platonem  non reperiri intellexissent. Ut  nostro loco £sx* av, ita p. 191.  E. T ioof relative usurpatum ha-  bet, quo offendat; neutrum ex-  ceptis Jouis illis 'apud Platonem  reperitur, utrumque autem ser-  vandum est. quo magis a Plato-  nica dictione alienum < st , co  studiosius. Ceterum xtXevtuv ov xtrccc %qv6iov te xal ia&rjrct xal tovg xakovg xal-  6dg te xal veavicSxovg 56 |ei eoi tlvai , ovg vvv vgav  ixxixfojgca , xal eroiuog el xal 6v xal aU oi xoUol,  ogcovteg ta xacdud xal twovreg ael avtoig, tf ncag  oiov t’ r/V, (itjte ia&ieiv [irjte xlveiv, aU.a fHdo&at  fiuvov xal jiweivac. xl drjra , Irprj , ' olo(it9a , el tat  ytvoLto avto xo xakov ISe Iv elhxQiveg , xa&agov, E    < '.ni tt enatam est tx Epxc<S3ai  tcXtvruvia ini Tt, quod contra-  ctionis genus apud Graecos scriptores irequeiitissimum,   SeGopivaj avto xo xa-  Xov. Recte haec verba a prae-  cedentibus addita interpunctione  seiunguntur, continent enim ac-  curatiorem ivravSa x ov /5iov  verborum explicationem. Sensus  est : Si usquam alias vita  vitalis. eat homini, tum  est, quum ipsum illud pol*  erum in tuetur.   ov naxa XP vtiiov h. e.  non ad aurum, vestimen-  tum, al. comparandum illud iudicabis. Nam nata  praepositio ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat. Apol.  Socr, init. opoXoyohjv av ty <*•  ye ov nata xovxovS elvai (bj-  ta>p. Stallb. Diximus supra  de hoc nata praepositionis si-  gnificatu annotat, p. 4l. Ceterum memorabilis locus est  propter verba TtaiSaS xe nai  veavidxovf. TIaidcov enim no-  men Attico usu loquendi suffi-  ciebat ad pueros iuvenesque significandos. Nemo autem mira-  bitur , veaviCnovS etiam commemorari, qui reputaverit , Diotimam, feminam peregrinam, hic  loqui. Eadem quaeri potest cur  x di yvvalnai taS naXaS non  commemoraverit.  Ot)f VVV O p GJ V ix7t£-  Verba eflectum animi  judicantia aoristo tempore ple-  rumque ponuntur, de quo usu  vide annotationem p. 221. Alia  tempora admittuntur tum , quum  non de re vere facta sermo  est, sed animi commotio inmma  ita tautummodo commemoratur,  ut fieri posse vel solere indicetur. Hoc in nostrum locum cadit, ubi praecedente oparv participio conditio expressa est: quos  ut nunc res* se habet, si  vides, animo percelleris  atque paratus es et to et  alii multi, amasios sem-  per videre semperque cum  iis esse, si unquam id fieri  possit, neque edentes ne-  que bibentes cet. Vides igitur, participia infinitivorum loco,  infinitivos participiorum loco po-  sitos esse, cuius dicendi usus. ex-  empla indicata reperies in Indi-  cibus s. v. Participium.   a\\a $ ea 6 Sai fiovo t  nai B>w eiv ai. Haec verba  grammaticam verborum juncturam  ai spectas, e praecedente na\%tot-  • po$ el nai dv nai aXXoi sroA-  A oi apta sunt; quibuscum, si ad  sententiam respicis, minus ea  cotiveoire senties. Non enim  amatores parati promtique sunt  tolo amasiorum adspectu atque  eorum societate delectari , Sed    ¥     314    I1AAT&N02    afuxrov , «/Urc (irj tivanlmv «JorpxiSi» re avftQaittvtav  xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg Ttoklijg tpXvaQlas rjg,   ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo (xovoudis xazideiv;    aatis est ipsis amasiorum so-  cietas et adspectas. Igitur libe-  riorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias ia  familiari sermone haud raro re-  perias. Eius originem putare  possis participiorum usum opaov-  teS xal HwoyxeS, de quo mo-  do diximus. Nam cum dictum  esset xal ixoipoS el xal 6v xal  aAAoi 7 C 0 XX 0 I — opdSvxtS —  xal B,vv6vxe5 — M 7 h £ i-GSieiv  pi/XE itivEtv f illaque participia  pro opdv ct Zvveivai posita es-  sent, facillime scriptor infinitivis  uti potuit SeadSai et B,wiivai  in dictione, quae praecedentibus  infinitivis itiSUiv et itivEiv op-  ponitur. Ceterum de illorum  verborum absoluto usu vide Iu-  dices.   d\\a py dv ttitXzwY .  Astius aWa abesse cupit. Con-  tentus esset, opinor, ai xal ptj  scriptum esset. At Graeci , ubi  nos dicimus and uiclit, ita ut  praedicatum praedicato opponatur,  pariter xal ovh et aAA* ovh  usurpant. Riickert. cfr. Piat.  Protag. p. 841. D. 7 roAAod ye  6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv ' & IJpo-  Sixe. aXX iyoa ev 016 dxi xal  2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV E\e-  yev onep ypiit ol dWot , ov  to xaxov, aXX o dv py jbdSiov  y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa -•  Tvv yiyvyxai.   xal dWyS noWijs q>\v-  cr p laS 3 v tj x i} S’. I 11 Piat.   Phaedone, quem Stallbaumius lau-  dat annotat, ad h. 1. p. 66. C.  legitur: ipojxoov xal £ict2v-    picov xal epoftcor xal eA8ooXgov  itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ip-  ninXyCtv rjp&S jroAAt/f, ubi O-  lympiodorns : cpXvaplaSxa-  A el 6 TJAdxcov nav to it£pixxdv t  ov povov xo iv \6yois , aA Ad  xal xo iv IpyoiS. Convertit  Schleiermacherus (pAvapiaS no-  men: nnd andern sterblichen FJit-  terkrames. Aliter nobis de huius  vocabuli significatione statuen-  dum videtur. Schol. ad Apoll.  Rhod. 1. 275. habet: cpAv ?,E iv  xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv  xaiopivovS avafidAAsiv xo v-  dop. Duplici igitur significatu  tpAvapla , quod cuui illo verbo  cohaeret, videtur a scriptoribus  adhibitum esse, ut aut rem si-  gnificet, quam aliquis, qui com-  motiore animo est vel vesanus  pvofert , aut nugas denotet res-  que expertes veritatis, quae stre-  pitu vel splendore quodam in-  signitae sint. Priore significatu  ipsum (pAv&iv usurpatum habes  iu Meleagri epigr. 119. 5.   iroAAd 5 ’ 0 TtixpoS  aloxpd xaS 9 ypExipyS i<pAvde  nap^EviyS   'ApxtXoxoZ.   Adde Piat. Apol. Socr. p. 19. C.  xavxa ydp tapdxe xal avxol  iv t?J *Api6xo(pavovS xcopcpdto ; 9  2 cjxpdxy xivd ixtl itEpzpepo-  pevov (pcxdxovxd te dipafia-  xeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Ava-  piav q>\vapovvxa , quo loco  non nugae commemorantur , sed  vesaui hominis deliramenta. Al-  tem significatu positum habes  £q’ oTst, tcprj, tpavXov ptov ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212  x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj fteafievov xal £vvov-  xog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi , icprj , ou ivxav&a aura    Piat, de rep. IX. p. 581. D.   h ctTtvoY xal (pXvapiav.   d AA* auro xo Setov xa-  A d v 6v v air o pov o eidis  H. X. A. Abesse posseut sine  a! Ia sententiae mutatione verba  fitVairo et xariSetv, quia prae-  cedit cf rw yivotxo ISeiv,  Posita autem sunt haud dubie,  atque si ita dicere licet, e prae-  cedentibus repetita, quod prae-  cedentia a nostris verbis interposita aliqua enuntiatione nimis  remota sunt. Sed mireris, si par-  ticulam non item repetitam esse,  cuius abseutiam nemo interpres  aliqua excusatione indigere ceu-  suit. El Platonem revera omi-  sisse certissimum est. Iluiusmo-  di autem omissiones in sermone  familiari haud infrequentes sunt,  ubi et pronuntiatione verborum  et habitu loquentis excusantur.  Ceterum Sydenhamius annotat  ad h. 1. laudatus a Wolfio : So  lange der Mensch in dieser Welt  lebt, und noch die Fesselu des  Korpers an sich tragt , ist er  selbst nach Platons Ideen uicht  fahig, sich zu einem so erha-  benen Anblick in die Geisterwelt  erapor zu schwiugen. xal ix e tvo 8 f} $ e GD/iev ov.  Vulgo legitur xal ixeivo u 6ei  $£QOpkvQV i quae lectio, quam-  quam non prorsus inepta est —  possis eoim de necessitate dictam interpretari, qua, qui via a  Diotima monstrata incedat, divi-  num pulcrum non possit non  videre, — tamen admodum languet frigetqae. In codice Bodle-   t   ia no pro o Sei reperitur oj Sei;  hinc Astius, quem Stallbaumius  secutus est, oj 6ei scribendum  coniecit. Speciosissima fit haeo  coniectura verbis intra positis  opaUvti gj opaxov: sed ut gj  dei scribatur, qnoniam opajvxi  oj opaxov paullo infra legitur, necessitas nulla est. Vulgatum autem o , quam facile oriri  potuerit syllaba finali ixeivo  vocabuli forte, ut fit, duplicata,  facile iutelligitor. Id in cj im-  mutavit, qui iutelligeret , o ad-  modum frigere ; correxit fortasse  etiam, quod in sequentibus le-  git opdovxi oj opaxov . Iam pro  Sei in tribus codicibus , Paris.,  Vatie. , Palat. Vat. , legitur fit/,  quae formae sexcenties commutatae reperiuntur. Hinc Schleier-  macherus scribendum coniecit xal  ixuvo Srj $£GJ/i£vov, verbaquo  convertit: Me in st duwohl,  dass das ein schlechtes  Lcben sei, wenn einer  dorthin sieht und ienes  erblickt und damit um-  geht? Haec coniefctura Bek-  kero adeo placuit, ut in ordi-  nem verborum reciperet. Id et  nos fecimus eius exemplum secuti.  In Ficini conversione legitur:  Jtfum vitant huiusmodi parui fa-  cis ? hominis videlicet ipsius t  qui illuc suspicit , qui tam prae-  clarum spectaculum contuetur ,  qui illi cohaeret . Ex quibus  verbis colligi, potest , Picinum  quoque 6rj t non Sei, legisse.   (    f iova%ov ytvtjOtTiu , Sqcjvti a 6q<xtov to xuXov, zlxzuv  ovx tiSala agetijs , ars ovx tiSm^ov hpaxzofiivco,  akV dky&rj , & re zov dfoftovs iqiamoftiva , zexovzi   £s dgcTtjV ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti ye-  vto9tu xai , eixeg toj di.ho av&Qunav, d&avazn xai  Ixelva ;   B Tavzu Srj, <J Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj (tiv  Aiozifia , 3 linueuat, d’ iyu' Tttnuaatvog di iteiga-  fica xai rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov xzqfiazos    are ovx eiSeSXov Itpa-  srtopev co x. r. A. Prorsus eo-  dem modo Pausanias p. 183- E.  xai ydp ov6h povipoS i6tiv y  axe ovdh porlpov ipcov npdy-  fiatoS. — 6 rov t/SovS   Xprj6Tov dvroS ipatiti}* dia  fiiov pivei, are povipoa 6vv ta-  xeis. Ceteram colligere licet e  nostri loci verbis, quomodo Dio-  tima vel Socrates Orphei my-  tilum sibi explicaverit, cui ex  Orco redeunti <pa6pa ostende-  rant dii. cfr. p, 179. D.   aAA’ d\rj$ij t Saepias iam  monuimus in superioribus, repe-  tendum esse haud raro e praece-  dentibus verbis , in quibas com-  positum verbum contineatur, non  compositam , sed simplex. Vide  annotat, p. 89. et p. 290» Eadem dicendi norm^ etiam in no-  minibus interdum admittitur ea  lege , ut ex praegresso nomine,  quod rei notionem cam epitheti  alicuius notione coninnctam re-  praesentet , sola notio rei repe-  tatur. Cave igitur eldoaXa et  ttXrfSi} sibi opponi censeas hoc  loco, ut somniis falsisque imaginationibus, quae uno verbo cldoo-  Xcov comprehenduntur, verae sc»  imaginationes opponantur. Hinc    explicabis pluralem numerum  aXrj^ij verbi , quem Plato nou  fuisset admissurus , si illam di-  cendi normam adhibere coluisset. Sed alia etiam explicaudi  ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7 singula-  ris numeri accusativum interpre-  tari possis atque e praegressi»  apettjv supplere; futuros esse  iam praevideo, qui illam expli-  candi rationem inclumaturi , ne-  que oisi faciliorem hanc proba-  turi sint. Utraque explicandi  ratio nostro arbitratu vera est;  utra verior sit, dijudicari nequit.  Res ex accentu orationis judicanda est, quo singula verba Diotima exornavit. Si pronuntiando  £i'8cj\a extollitur, prior explicandi  ratio verior est hand dubie; con-  tra posterior rectior erit, si accentum orationis ita posueris, ut  et eid&Xa et apetrjS prae cete-  ris verbis emineant. — Quam-  quam sequitur infra apetrjv aXrj-  $ 1 7 , tamen inconsultius cave indi-  ces atque praepostera cara alte-  rum genas explicationis alteri  praeferas.   tiitep rc 0 dXXoj arSpo')-  7(0) v. Ex huinsmodi locis satia  docemur , Graecos accuratissimos  fuisse verborum pronuntiandorum,   - t'   rf/ uvftganda <pv<su ewcgybv cciidva "Egenos ovx av  rCg gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays (prjfii ygijvai narra  avSga rov "Eguxa npav , xal avrog rigui ra tgatixcc  xal Siaftgovtag aOxto , xal roig «AAotg xagaxilivo-  fiaiy xal rvv rs xal a*l iyxcofiulta tijv Svvag.iv xal  dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor olog t’ tlfil.   Tovrov ovv rov Xoyov , «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu, 0  ibg lyxcofuov tlg Egena vofiioov tlgrjo&ai , d 61, 3  rt xal oxi j x a ‘Q £L G bvofiatav , rovro ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et roo  ctAAcp pronuntiando discreta esse  certissimum est, Pro aVS-ptJ-  Ttoov, quae omnium fere librorum  lectio est, vulgo dvSptdiu * > ede-  batur. Falso. Nara sententiae  gravitati gravior verbi fornia  convenit magis. Ceterum haud  raro huiusmodi enuntiationes,  qualis est Einsp rea aAAea dv-  Sfjcjxcov , Graeci scriptores ad-  hibere solebant, quibus senten-  tiarum prolatarum vim augerent  atque quodammodo amplificarent.  Sic supra reperitar p. 211. D.   ivrotvSct rov /UoVf ElTttp   itov aAXoSi, fiioarov avSpcanea  x. r. A.   lq>r) jt\v — n in ei6 jiai  6 * i y eu' h. c. utilia dixit.  Ita ego credo. Quae se-  quuntur ite7iei<5p&.voS 6 l neipco -  jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv  cum Aristophanis verbis couve-  niunt p. 189. D. iyo» ovv 7tEi~  pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v  .Svvajuv avrov , vjleIs 61 rdiv  aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe.   ry av$ p con eiot q>v6ei.  Saepius iam annotatum est in  superioribus, <pv6iS cum adiecti-  vo aliquo couiunctum nominis  periphrasin efficere, quod eius-    dem est atque adjectivum radi-  cis, Ty dv^peansia tpv6n igitur idem fere sigmificat atque  xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna  gravitate dictum existima ty  avSpaamlx q>v6si , ut huma-  nue naturae debilitas, noa  solum humana natura, periphrasi illa significantius indicari significetur. ei ‘61, o rt xal oity £a/-  petS. Consuetius dicendi genus praecedente sl jiiv est eI 61 jirj,  Quod cave hoc loco ponendum  censeas ; neque perinde est, utrum  eI 6e an eI jtrj legatur. Ex-  hibetur autem ei 6i h. 1. ita, ut  utrum Phaedrus facturus sit, hoo  Socrates sibi placiturum esse promittat, quasi diceret: sive pro  laudatione Erotica orationem  meam acceperis, sive non acceperis, perinde est. Si accipis,  laudationem eam nomina , si  noa accipis, quo libuerit nomine appella. Ceterum conferenda  cum nostro loco verba sunt Piat*  Protag. p. 358. A. site yap yjSO  elre rspTtvuv AiyeiS sire %ap-  tov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~  psiS ra rotavta ovopa^oav —  rovro jiot jcpoS d (1 ovAojioa  dxoxptrixu    t . - Cap. XXX.   Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg fisv txac-  vtlv , zov dh 'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv , on    rovS fi\v drttitretr. Haeo  et sequentia rursus obliqua ora-  tione proferantur , quod ab Ari-  stodemo relata finguntur. Sup-  plendum est igitur etpij 'Apidxd-  677 / 10 ?. t ov 61 *Api6xo<pdvrj x.  r. A. Cum Socrates Aristopha-  nicum mythum tetigisset vel «o-  tasset potius verbis p. 205 E.  ,xa\ Xiyercct pev ye rtf, £<pij,  XoyoS, cJ? ot dv x 6 fjjttdv tctv-  zpjv Zrfxu>6tv , ovxot iftoodiv x.  T. A., nihil certius est, quam Aristopliauem aliquid contra mo-  nere voluisse , quo vel suam de  Erote sententiam tueretur , vel  Socraticae orationis veritatem  impugnaret. Quo . consilio quid  proferre* -potuerit aut voluerit,  prorsas nescimus ; neque ipse  scriptor habuisse videtur, quo  loquentem Aristopliauem indu-  ceret, Cur igitur illam Aristo-  phanis voluntatem commemora-  vit? In huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari licet, qua hic efficitur, ut  tpvrjS verbi notio non solum  verbo posito indicetur, sed re  ipsa vividissime exprimatur. Vi-  des enim, Aristophanem iam indicasse externis quibusdam si-  gnis,, se aliquid contra Socratem  ,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad eius  rverba percipienda: cum subito   .pulsatae fores sonitum ederent,  tibicinae clangor audiretur, tu-  jnultus strepitusque quasi comis-  saturum oriretur.   trjv avXeiov Svpav.    j   Harpocr. s. v. avXeioS — 7  dito xijS 060 v npuixrj Svpa xijS  oixtaS , ad qnem locum Valesii  annot. laudat Bremius ad Lysiam  p. 9.; avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quae aulam clauduut versus viam; aulam autem  si quis permea rat , veuiebat ad  pixavXov Svpav , per quam ex  aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo exibat,  ei primum erat per /xixavXov  Svpav transeundum, tum per  aulam et per avXeiov Svpav la  viam.   Svpav xpox ov pivtj ,  Haec vulgata lectio «st, quam  codicum lectioni Svpav xpovo -  plvjjv potiorem ducimus. Schol.  ad Aristoph. Nubb. v. 133. xis  €($$’ 6 xoipaS xrjv Svpav ; do-  cet : ini jikv xcov ££a)Sev xpov -  ovx gov xonxeiv Xiyovdiv^ ei  6 fc idc o$ev (sc. xpovovdiv ) tyo-  <peiv. Ex his verbis patere opi-  nor , xpoveiv xijv Svpav de  utroque pulsandi genere obva-  luisse, Niiiil igitur habet, quo  displiceat hoc loco xpoveiv ver-  bum. Sed num ideo rectius sit  et verius, quain xpotetv , quod  h. 1 . vulgo legi supra indicavimus, alia quaestio est. Quid, si  verbo insolentiori ( xpoveiv )  pulsandi insolentiam qualis est  comissatorum, scriptor indicare  voluit ? cfr. Meleagri Epigr.  CXXV. v.3.   apti yap idnepioi vvptpaS ini  dixXidtv dxew   Aturo!, xal SaXd/AGov inXa-  tayevvxo Svpa t     31 «    avrov kiyuv 6 2,'<axp«rj?s xeqI tov loyov, xcci  t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov XQOrovpivyV itoXvv fo (pov    ■xacMtildv «as xafucCuiv,  uv. tov ovv 'slyu&uva,   ad qnem locum Iacobsius anno-  tat Comment. Vol, 1. P. 1. p.  140. ixXatayevvto de saltan-  tium ad fores strepitu accipien-  dum , qui proprie xpoxoS. He-  sychitis nXaraytiv idem esse do-  cet, atque xporelv. Igitur nostro  loco tantum abest, ut xpoTovpivyv  minus aptum censeamus, ut po-  tius' verissimum iudicemus atque  rei descriptae apprime conve-  niens. Sensus est verborum I  Pldtzlich sei an die Thiir  angedonnert worden, und  sie habe gedrdhnt, ais  wenn nach11ich e Schwar mer davor waren. Ceterum  Stallbaumio praceunte post ita-  pa6x&y comma delevimus, quod  Bekkerus in textu posuit. Illo  annotat ad h*. 1. a»? xcopa-  6 1 <3 v connccteudum est   cum itoXvv ifjocpov napa -  hoc sensu; vesti-  buli ianuam pulsatam ingentem fecisse strepitum  quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum  excitarent. Recte. Prorsus  conveuit etiam cum h. 1. Schol*  Aristophanis ad Plut. v. 1097. ed.  Bekk. Vol. II. p. 256.: xontEiv;  ■jpotpely xal xXavouir ri}v $v-  pav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap  Xsyerai , oxav eistiroct ris pi\-  Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev  nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS  xijv Svpotv ; ifMxpeir or-  rav iZtpxontv 6s nf au*  x t}r vicaroiyoi xal yx<>v  % ira oltc o xeXy. o rotov-  x os yap VX oS iJj 6 <pos nancti avlytgidog cpcovyv axov-  deg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D   Xeixai, Zxctv 81 vx' dvir  uov xirijxai portj xal ?}*oi'  riva, ix rovrov artor eXi) , o  roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXav-  Oiav A eyexau   xal avXyx pl 8oS tpcovifv  dxov £iv . cfr. Melcagr. Epigr.  LXIV. v. 1.   w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv  (palvovda SeXtfvy  xal NvB , , xal xodpcoy 6vp-  nXavov dpydviov , . . .  ad quem locum Iacobsius: Sivo  tibiam, iuquit, sive facem  iutelligit. IIoc proba-  bilius,, Lectis nostri loci ver-  bis itate animatum seutias, ut  de tibia poetam cogitasse cen-  seas. Ceterum recte Stullbau-  mius eos vituperat, qui <ptay?ir  hoc loco de tibicinae voce iuter-  p retarentur. Certissimum est  enim, tibicinam tibiae souos edi-  disse, quibus se* commendaret  intus sedentibns. Ceterum miro  modo 7tapa<$x£v praecedente,  quod subiecto suq non caret, positum sine subiecto legitur axoVElV-  Facit autem subiecti omissio ad  describendas turbas, quas, qui  ante fores vestibuli starent, excitant ut. Neque r tr£s supplendum  est, uam omnes sonitum tibino  audierunt, neque itetvzaS satis  aptum videtur, qno hic supple-  mento utaris. Sed indefinite di-  citur dxQveiv ita, ut Latinorum  respondeat auditum esse,   ov (SxiipadSei Aoristum,  quem iu dictione r/ OW O v   ytjOco vidimus p» 173» R» ut non  xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y , xalelrs • el (ir/ t  ktysTE, on ov tcivouev , a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal  OV Jtoltl VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv  xy avly OtpodQU lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo-    admittendam , ita non omni ex  parte spernendum ducit Rticker-  tus. De aoristo cum negatione  coniuncto in interrogationibus su-  pra diximus annotat, p 11., ibique eius usum a nostro loco alie-  nissimum indicavimus. Male igi-  tur in aliquot codicibus ov 6xi-  if;a6SE ; Vario autem modo fu-  turo tempore veteres in inter-  rogatione usi sunt, ut indignationem, iram, clementiam expri-  merent. Vide annotat, p. 26.  Hoc loco quo sensu verba di-  cantur ov <5xeif>e6$E f dictu haud  difficile est. Agatho enim audita ante fores turba ut illico  Irent, videreut, vocarent vel remitterent, servis mandat. Verba  igitor convertenda sunt: seht   sogleich nach.   xal iav plv — xaXeixe.  KaXsixs hoc loco absolute posi-  tum est nt p. 175. A. xctpov  xaXovvxoS ovx iSeXei tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco ali-  quid discriminis inter xaXaiv et  xaXalv. Nam in verbis xa/iov  xaXovrxoS verbum illud nihil  aliud significat, quam quod nos  dicimus rufen : ond ais ich rief.  Nostro loco xaXalv invitandi notionem habet, de qua vide an-  notat. p. 17. ad verba axXrfXoS  ini Ssinvov. De iav — eI  prj vide annotat, p. 128. ct 124.  Verba convertenda sunt: Und  solite es etwa einer der  Erennde sein, so ladet  ein, wo nicht, so sprecht,  dass wir nicht trinken cet.    xal ov noXv vdxe pov-.  Servi Agathonis dicto obedien-  tes statim ubiisse cogitandi snnt,  atcjue aula superata xrjv avXttOY  Svpav aperuisse. Quo facto  illico clamor Alcibiadis audie-  batur.   xal pkya fio&vxo?,  [ ip <w r gjv rof]. Vulgo legi-  tur piya (iodjvzoS xal ipGzxajv-  r oS. Copulam e melioribus co-  dicihus interpretes fere omnes  expunxerunt. Sed hac ratione  non ab omni labe hunc lorum  liberatum putaverim. *Epa>xd5v-  X OS enim participium, quomodo  probem, non habeo; quin magna  suspicio adest depravationis , si-  quidem facillime fieri potuit,  ut aliquis, quo fioGovxoS ver-  bum paullo insolentius a Pla-  tone positum explicaret, IpGd-  XgjvxoS margini adseriberet, quod  deinde nimia scribarum seduli-  tate in ordinem verborum receptum est. Haud raro fioav vi-  no gravatis ita attribuitur, nt  addito quodam eorum dicto di-  cendi vel iuterrogandi verbum  non praemittatur. Sic legitur in  Asclcpidae Epigr. XIX. v. 5.  xy 6s xo0ovx’ ifioijtia fiefipey-  * pivoS' axpi xivoS , Z ev ;   Z sv tpiXs , 0iyrj6ov , xavxoS  Ipav ijiaSEf.   quo fidelicet loco non potnit  metri caussa aliquid inferciri,  quod ip6r}6a verbi significatum  illustraret. Ad nostrum locum  ut revertar, sunt alii quoqne vel  faerunt potius, quibus ipurtcov-    ZTMI10ZI0N. 321   tavxog ] , oitov ‘Ayd&av, xcd xe&evovtog dyuv nag  ’Ayafrava. dyuv ovv avxov netoa <5<pdg rijv ts a vXtj-  tglSa vitoXafiovtiav xal aklovg tivcig rav axolovfttov,  xal tmazfjvcu bil rag. dvyccg iotupavcj/xtvoV avxov rot participium displiceret. Certe  dao (iotnvxoS , ipcjtcjvro^ par-  ticipia iuxta posita displicuere iis,  qui xal, quod vulgo legitur, in-  terponendum censuerunt. Quomi-  nus ipcDXGJvxoS participium prorsus expungeremus , recentiorum  editorum auctoritas impedimento  fuit, quorum ne uni quidem de-  pravationis suspicio in mentem  venit. Igitur uncis verbum inclusimus.   oxov 'AyaSav > xal x&-  Xevo vx o S dy e iv n a p* A -  yaStnra, De industria hoo  loco Agathonis nomen repetitum  est. Scia’ quam ob caussam? In-  fantes, quod concupiscunt, id  unum solent variis membrorum  gestibus appetere, neque hilo  unquam ab eo abstrahi» Infanti-  bus ebrii cum aliis nominibus, tum  etiam eo similes, quod rem, quam  desiderant, vario modo proloqui  solent, neque ab ea nominanda  prius absistere, quam ipsam sint  consecuti. Itaque Alcibiades vino  plenus, magno clamore, heus,  inquit, ubi est Agatho, du-  cite ad Agathonem. Cete-  rum cave xeXevovxoS arctius cum  sequente ayhV infinitivo con-  iungendum censeas. Plato enim  rem ita proponit, ut quasi ipsa  Alcibiadis verba tradere videatur.*  oxov *Ayoi S gdV; ayEiV (h. e.  ayere) xap* 'AydSoova. Ke-  XevoVtoG StyEiv igitur non con-  vertendum est : ducliussitad  Agathonem, sed servis im-  peravit! u dncite «d Aga-  thonem**    l   vn o Xaftovda y, vxoXa/i-  pdveiv est sublevare, bra-  chio supposito sustentare  cfr. Piat, de rep. V. p. 453. D*  ubi e codicibus hodie legitur:  ovxovv xal ijtiiv vevGxeov xal  XEipatior dGjgetiSai ix rov  XoyoVf lftoi dsXqjivd xlv * &-  xi^ovxai 7}paS vxoXapsly ar  oi) xtva aXXrjy dxopoy <Storiy  piav. Ruckort.   xal litt6trjy at ixl raS  SvpaS, Haec verba convertit  Schalthessius J und stellten ihn  eu ihnen vor die Saalthiir hin.  Minus apte. Fores enim, quae hic commemorantur, fiiravXoS  $vpa sunt, qua de re supra dictum est adnotat. p» 318. Io  Schleiermacheri conversione legitur: Er sei aber in der Thtir  stehen geblieben. Ut accuratius  reddatur Platonicum ; ix l ra$  SvpaC, verba convertenda sunt i  er habe sich aber ia (s. an)  die Thiir gestellt. Sic haud raro  rectiore verborum conversione  praepositionum casuumque cum illis coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari modd Grammatici Latini praecipiunt, ponendi collodandique verba in praepositionem cum ablativo coniungendam assumere, cetera verba  motum io aliquem locum significantia in praepositionem et accusativum casum requirere* Prioris illius praecepti neque ipsi  tradunt , necjue lectores iutelli-  gont rasionem. Ea optime o  recta collocandi ponendiqne ver-  borum conversione perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst xai fmv , xai taivlag  rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas , xai tinuv • “Av-  fiofg , jraiptrs ' fie&vov ra tivSQct adw Otpodga dt&adt  Ovyndxjjv , tj dn.iay.tv dvadtjOavxtg yovov ‘Aya&ava,  Ponere enim et collocare  non significat, quod nos vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si hacc ipsis  significatio esset, i n praepositio-  nis atque ablativi casus couiun-  ctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti*  g e n. Quae significationes ubi  discipulorum animis inhaerebunt,  haud verendum erit , nc 'quis  nuquam in ponendi collocandi ve verbis in praepositio-  nem cum accusativo casu con-  iungal,   xai raiviat %x° yr01 *  Timaeus s. V. r aiviaS avaSov-  pivoi * toiS vixijtiadi ara -  Srjtiat ratvlaS. Annotat Stallbaumius nd h. 1, : Mos erat, incinit , capita hominum vel publice bene meritorum, veluti victorum, vel amicorum et familiarium laetis diebus ac solcmuitatibus coronis, vittis, taeniis re-  dimiendi et ornandi, vide Ruhn-  kenium ad Tim. Gloss. p. 246 seqq.   "ArdpsS, xaiptte. Alio  loco de hac salutandi formula  dicturi sumus. Huiusmodi for-  mulae ex quotidiana vita petitae  si accuratius spectantur, mirum  quantum faciant ad populi, qui  iis utitur vel usus est, ingenium,  mores, naturam oranemque habitum cognoscendum. Eodem  modo praecipue de bis formulis  Goethios egit io Opp. Tom. 27*  p. 125. Guto Nncht! So konnen  vrir Nordlamler zu jeder Stunde  sagen, wenn wir im Finstcrn  seheiden: der Italianer sagt : fe-  licissima notte! nur einmal, und  ewar, wenn das Licht in das  Zimmer gcbracht wird > indem  Tag und Nacht sich seheiden $  und da heisst es denn ganz etwas auderes : So uniibersetzlich  siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis eum  tiefsten Wort bezieht sich ulles  auf Eigentluimlichkeiten der Na-  tion , es sei nuu in Charakter,  Gesinnung oder Zuslauden.   biSiEdSt 6v J.i7t utrjv. Ilaea  Bodleinui codicis lectio est aliorumque paucorum librorum. Vul-  go 8£Za6$E legitur posito post  7}\$OfXEV puncto pro v. signo in-  terrogandi. Illud recentiores edi-  tores ad unum omnes probant.  Quod ne male se habere censea-  tur: sententia est: Einen Mann,  der schon getiunken hat , miisst  ihr, wenn er mit euch triuken  soli, recht freundlich aufneh-  men, oder cr gcht wieder fort,  wenn er nur den Agathon bc-  krauzt hat, wozu er gekommen  ist. ardpa haud raro poni pro  pronomine personali ipi , tragi-  corum potissimum poetarum le-  ctoribus notissimum. Tragicis  avrjp ote, avSpoS tovSe x. t. A.  pro iyo&i ipov admodum usita-  tum est.   iyco yctp roi. Cum nemo re-  sponderet Alcibiadi, neque ipsum,  ut accederet accubaretque, vocaret,  omnesque tacide hominis erro-  niav admirarentur, illo adven-  tum suum excusaturus loqui per-   }rp’ oitSQ “il9ojitv ; lya yczQ roi , (pdvca , jjQts (i'ew  ov% olvg t’ lytvoatjv dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty  xecpaly lyav rclg xcavlag , iva thto rljg fuiys xtfpalijg  tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov xitpaXyv — iav    git. Heri vocato sibi ab Agn-  thotie, quominus veniret, certa  quaedam impedimenta fuisse. Ve-  nisse se nuuc Agathouem taeniis  ornaturum. Ilisu exorto consi-  vnrum Alcibiades excusationem  suntn quasi fictam derideri pu-  tans vera se loqui affirmat. Post  interrogatione illa satis impatien-  ter atque inclementer repetita  abitum paraturus erat, ni omnes  convivae consurrexissent, atque  ut maneret, ipsum rogassoat. .   iav ei7tco ovt u>dl. Ilaec  non dubito , quin corrrupta sint  ab imperitis librariis. Nam quod  Wolfius ea dixit significare ut  ita dicere liceat, itu ut Al-  cibiades putandus sit ceterorum  convivarum invidiam his verbis  amoliri voluisse, eam interpre-  tatiouem non fert loquendi con-  suetudo, quae postulabat ovtgd6\  tlneiv. Itaque Astius scriben-  dum ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj.  dpa , iav £LitcJ ovioj6i t naxa-  yeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen coniectura vereor, ut omnes  tollantur difficultates. Certe qui-  dem transpositionis audaciam ne-  mo probaverit, qui meminerit, di-  vam criticen ferrum et ignem  odisse. Quid mihi de hoc loco  videatur, iam satis declarare opi-  nor uncos illos, quibus hacc verba  u reliquis seclusimus. Nam quum  grammaticus aliquis ca in mar-  gine aut inter versus adseripsis-  set, quo explicaret proxima illa :  dpa HaxceyE\d6E6$E ueSvoy-  TOS ; postea temere in conteitadi    orationem recepta, et, ut fit,  alieno loco interposita sunt,  8 t p 11 b a u m. Rene quidem Vir  doctissimus de aliorum, quos lau-  dat, vel interpretatione vel emen-  datione egit, sed quam ipse iniit  sanandorum verborum rationem,  ea milii quidem prorsos displicet. Perscripsi nutem totam eius  annotationem,, ut facilius lecto-  res de ea iudicare possent. In  libris nulla varietas est lectionis  praeter quod Vindob, et Plorent,  unus inverso ordine verba ex-  hibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet-  6 t}6gj, qua mutatione doceare sa-  tis , ctiara librarios iuhisce ver-  bis offendisse , eaque transposi-  tione adhibita aliquo modo ex-  plicare studuisse. Risisse convi-  vas verbis indicatur apa naxa-  ye\dtfe(j5i pov cJf f.te$vovxoS j  quam risus caussam Alcibiades  sibi finxerit, supra diximus et  verbis indicatur fiov cJff //ej&tfor-  ToS , h. e. quasi ego ebrie-  tatis caussa meras nugas  narrem. Hinc addit iycJ Sij  Ttdv v/fEtS yeXdxE , ojivti ev  ot8 *, oxi trA?/3j/ X6y&> Veram  risus caussam nemo interpretum  aperuit. Videamus primum huius  loci conversiones. Ficinns habet :  Heri quidem interesse nequivi J  hodie veni vittas ferens , ut a  meo capite sapientissimi pulcher-  rimique caput, si ita praedixero,  circumligarem, an me quasi ebri-  um deridebitis ? In Schulthessii  conversione exstat: Denn gestem  koimte icit micli nicht einl/ndcn J  jetzt aber bin ich da 30 mit Bin-  21 * '  E    tinca — ourool dvadycJa. ctQtt xcttaytAdcSed&i jiov d>s  213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag yeldte, oucag ev o'S\  on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl <5>;tofg  tisico , y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; — Hamas ovv dva&ogv-  pycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat, , xal  xdv 'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov  vnn xdv dv&QCJTtGiv , xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»-  via s tog uvaSydotna, InhtQod&tv x m> drp&cdficav exorna    dcn nmwnnden, damlt icli voti  meinem Haupte her daa Ilaopt  " des nllerweisesten uml schonsten  — wenn ich so sagen darf —  bekrauze. Lacht ihr etwa mei-  ncr, weil ich tranken bin ? Me-  cum iutelligaut lectores, nihil in  laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri, quo, cur convi-  vae riserint, explicetur. Neque  apud Schleiermacherum explicatam illam caussam reperies : Denn  gestern , habe er hinzugefiigt,  war es mir nicht moglich za  kommen ; jetzt aber bin ich da,  aul' dem Haupte die Rander, um  von meinem Haupte das Huopt  dieses weisesten und schonsten  Mnnncs, wenn ich so sagen darf,  eu uimvinden* Wollt ihr mich  auslachen ais truuken? Caussam  putare possis, quod Alcibiades  bene potus ab bibendum veniat,  sobriosque ebrius ad vinum hauriendum excitet. Uoc sane est  aliquid, neque tamen nobis nuno  sufficit. Ridiculum latet iu ver-  bis iav eIltcco ovroodt, quae miro  modo depravata sunt. Verba hoo  modo scribenda sunt : iav elnov ,  ovtcjOI ayad/fdco. Quae cor-  rectio ne audacior censeatur, prO  iav facillima accentus mutatione  acriba aliquis edidit iav, quod  cura alius deinceps legeret iav  elrcov ovroaol avadtjdco, cor-    ruptura habuit rectissime, sed  vitium in verbo sauissimo de-  prehendisse sibi visus, tinov in  ebeoo mutavit* Nimirum cum ad  iostar ebriorum Alcibiades, quod  facturum se esse ostendit, id ge-  stibus expressurus esset, susten-  tari se a tibicina servisque no-  luit, qoo facilius, quod veJIet,  faceret* Igitur iav Etnov dixit  hoc sensu: Dixi iam sae-   pius, mitti me velle libe-  rum a vestris manibus*  Servi autem dicto audientes, cnm  herum misissent , qui itn vino plenus erat , <Zste pjfdl toiS  idioiS itodiv idxadSai (vide  Athen. IV. p. 1 80 ) lactum est, ut  verba proferens ovtcodl ava-  Stfdcj vel concideret vel titubando  ridiculos gestus ederet.   aXXa poi A kytxE av-  toSey. De his verbis iam  supra dictum est annotat, p. 3^3*  AvtuSev autem dupliciter adhi-  beri solet , partim de loco, partim de tempore, ac de tempore  quidem, quoniam loci temporisque ratio haud raro commutatur*  Recte igitur h* I. interpretes  avro^Ev stati m, illico significare annotant*   ini fitjrolf. Spectant haec  verba ad p. 212. R. pB^vovrd  dvdfja tcavv 6<po$pa 6a- i   ov xanSuv rw SaxQiat], cfvUa xa&l&a&cu nuQti tov  Ayd&covu Iv pioio Suxqutovs ts xal Ixilvov • itaQu-  XaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov xu9ifciv. nctQa- B  xa&e^ofuvov 6 s ccvruv denatea&at te tov 'Aytxftcova.  xui dvaSclv. ilnuv ovv tov 'Ayuftava ‘ 'TnoAutre,  aaidtg , 'AUxiftiddijv, Zva ix tqitcov xaraxttjrai. Jlaw  yt, (hceZv tov ’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg i)(tiv oSs tqitos  pvpjiozus ; t£ai app fUTuatQEtpditivov avTov ogav tov    SedSt 6v finoTTiv, tj ait icar   ptv H, X. A. Siguificaut enim:  Sed illico mihi respondete: Vul-  ti • n e mciutroiro sub con-  ditione supra indicata,  an non? Atque no quis se male  intelligat conditionis illius haud  memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B  y ov ; Male Ruckeitus ad h. 1.  Reddunt , inquit, sub ea con-  ditione , quam dixi, At  nullam dixit adhuc \ videtur que  omnino hoc dicendi genus ita  usurpari , ut sequatur conditio ,  non ut praecedat , quae h. 1 . incst interrogationi subiectae Ovji-  7[U(j2e y ov ;   tj;ro‘ xdov avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus Alcibiades ad Agathouein venit. Miro modo autem horum  verborum pluralis numerus convenit cum nostratium loquendi;  usu, quo dicimus: die Lcute,  ministros atque ancillas signifi-  cantes,   ov x axid eiv tov Sco-  xpaxy, Vide de xaxiSeiv  verbi significato annotat, p. 308.  Aute oculos habuit ct vidit Socratem , sed eum non agnovit.   vjcoXvaxr — fvct&nxpi-  x cov xaxaxkyt at. cfr.p. 175.  A. xal E plv F.(py dnoviZEiv  xov nou6a , tva naxaxloixo.    lilio xo inoXvitv , hoc loco r 6  anoriPyeiv omissum est, neque  videntur ullo loco scriptores  utrumqua verbum ndbibuis&e. Unum enim ad utramque uctiouem indicandam satis erat. Ceterum non nisi ea de caussa ira  ix xpiTGor commemorasse vide-  tur Agutho, quam ut Alcibiades  statim eum agnosceret, qui iusta  ipsum tertius sederet. Sed alia  etiam caussa est illius dicti. Ve-  teres euitn non sedebant ad rneu-  sam , sed eidem occumbebant.  Ubi duo convivae mensae accumbebant, illa calceorum solvendo-  rum pedumque lavandorum cura  minus necessaria erat. Poterant  enim ita duo convivae mensae  accnmbere, ut neuter neutrum  pedibus tangeret. Tertio acce-  dente conviva, qui, quorsum pe-  des protenderet, versus unum  convivarum non potuit non pro  tendere , uecessaria erat, ut cal-  cei solverentur pedesque lavaren-  tur, ne forte aliquis convivarum  macularetur.   aAAti xis ypiv xpltoS  u 8 fi. Haec vulgata lectio, quam  in ordinem vcrboium recipere non  dubitavimus ideo, quod Alcibia-  des praecedente Agaliionis iliclo  atqnu praecipuo verbis ix Xpi-  roov commonefactus r p ix o £  JOaxQnrr ] , ISuvta avaXTjdfjGai xa\ thtilv' '£l r Hqa-  xA«g, zovzl zl rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis  <? Ivzav&a xaztxtiGo , tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpal-  vtG&ai qtcov tyd (pfirjv ijxusza Ge HotG&ca. xal rvv  tL Tjxsig ; xal ti av ivzav&a xaztyJ.lv/js , <og ov na qd   nomen priori loco collocare de- diiti. De ovroS pronomine in  buit: tertius iste, quem allocutione liaud infrequente viile   commemoras, qnia est? annotat, p. 4. Quae sequuntur  In Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp eltoSeif i£ai(prJ/S    paucis legitur vpuv ude xpixoS,  quem verborum ordinem Bekkc-  rus, Stallbaumius, alii probarunt.  *- *i2 *H p a x\e i S , xovxlri   ? /v. Alcibiades averro vultu do  eo, quod modo oculis concepe-  rat et quod non videt umplius,  quid vidi ? exclamat. Huius di-  ctionis vim atque imperfecti qui-  dem potestatem non expressit  in conversione Scldeicrmacherns 2  W as ist nun das? quibus verbis prorsas deleri senties excla-  mationis illius vigorem omnem. Cur Herculem nominet Alci-  biades Socratis adspcctu quasi  attooitns, haud facile nesciri pot-  est. Veteres enim eum deum  semper nominare solebunt, cuius  auxilio maxinie indigerent. Herculem scimus fortitudinis atque  roboris deum esse $ robore autem  ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato subitoque  adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl xi  tjy exhibent xovr ehteir, quod  moneo, ut intelligatur, interdum  etiam complurium codicqm consensu, quae falsissima sunt, tueri. -2Sgj xpatijS ovroS tAAo-  X&v otv — xare xeitio.  Magna cum acerbitate participium  praeponitur verbo finito in allo-  cutione; Nempe rursus mi-  hi iuaidiatus hio c 0 n t, e - dva<palv£6$cct x. r. A. satis docent, iu praecedentibus ivxavSa  vocem orationis accentu insigni-  endum esse. Schleiermacherna  adhibito interrogandi signo post  £6£<5$a.i verba convertit : Da   Socrates, liegst du mir auch hier  schon wieder auf der I.nuer, wia  du immer pflegst plotzlich zu er-  scheinen , wo ich atn weuigsten  glaube, dass du sein wirst ? Sed  minusplacet propter interroga-  tiones insequentes imec ratio ex-  plicandi, Alcibiades enim cum non  sine acerbitate Socratis studia  illa convivis aperuisset, non tan-  quam rerum suarum incertus sequentes interrogationes profert,  sed ut vera se dixisse Socratis  responso convivae docerentur. Igitur VVY in verbis xal vvV  xi f/XtiS eam vim habet, ut  quaestio explicatior audiat:. At-  que nunc responde, quid  veneris? Av vocula, qiintri  saepius iam annotavimus supple-  menti alicuius iudicium esse, (vi-  de Indices,) hunc sensum fundit:  Et nunc confitere, Uie  quid consederis cet,   ov itctp a *Api0x o -  (parti. Stallbaumius ad h. 1. inquit, est quippe, nam,  ut mox in verbis cJs' » ipol o xov-  rov HpoaS ov (pavXov itpdy -  pa yeyovtv , et <&S lyco x i/v   'AgiOtotpuvH obi5 ' h ug «AAog ytXoiog Fort re xai  fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau , ojrog nayu tm xcdXlOup  ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti , '& 'Aycc-  n>MV, cpavui , oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov  fpug roi5 af&gusrw ou tpccv Aov HQccyfia yeyovev. an  tovrov parcar — 1 ufifiooSao. No-  bis iuterrogaudi signo, quod post  TtarexXirTjS legitur , transposito  post (iovAerat verba hoc modo  convertenda esso videntur : Uhd  nuu sage, warum setztest du  dicli grado dahin , ais zum Bci-  spiei nicht nebeu Aristophanes,  aocli niclit nebeu irgend eineu  undern, der uitzig ist and witzig  au scio Lust liat ? Ad fiovAerat  supplendum est yeAdioS tlvai.  Vide annotat, p. 200. Ceterum  J Miror t Riickertus inquit, /i. /.  yf.Aol.ov et H(xAAi6tov tibi op-  poni. Attamen vereor, ne sit  audacias , de Aristophanis forma  inde aliquid colligere. Nihil hia  verbis oppositionis iuest. Miratur  autem et indignatur Alcibiades,  quod non apnd alium Socrates  consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum festivitatum, sed dedita opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit.   a A Ad biapT}X ay V^  'JAAit vocabulo magna est vis ironiae; id cave cum praecedente ov negatione cohaerere censeas. Per se enim positum  est , atque veram rei statum  describit. 4tap?}x<xvd(S5ai ver-  bum fortunae notioni oppo-  nitur, qua quis vel hunc vel  illum socium biaosciscitur. Sensus est : Aber naturlich, da hat  deiue Schlauigkeit es so einznleiten gcwusst , dass da nebeu  den Schonsten von allen, die  Lier siud, dicli setzcn masstest. opa, ei poi fatapw  Valgo opa , tf pot inapvvetS le-  gitur; quod quamquam non fal-  sum est a t-rnen band scio, au  «ion rectius sit atque verius, quod  reuentiores editores , si Riickertum exceperis, de H. Stephani confectura dederunt ihtapvveiS. Probatur idem Ficini conversione;  vide, ai quo pacto mihi  succurrere potes. Riickertus autem concedit quidem, ia  huiusmodi dicendi genere fatu-  ram tempus usitatum fuisse Graecis , neque omnino negat, Platonem id tempus h. 1. adhibuisse :  verum necessarium non esse ex-  istimat; cur enim, inquit, non  possit praesens tempus adhiberi,  frustra quaerimus. Latini : vide,  an me defendas. Nos : Sieh zu,  ob du micl) vertlieidigst. Lecta  hac V. D. annotatione mireris,  ipsum apvvetS in texta posaisse  tamen. Nobis autem praesens  tempus in hoc dicendi genere ita  a futuro videtur dillerre, ut illo  adhibito de voluntate agatur eius,  qui alicui opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum illius  actionis respiciatur. Vides igitur, futurum longe gravius esse  in illa dictione, quam praesens  tempus. Illud est: Vide, an  mihi opitulari velis. IIoc  est: Vido, an possis mihi  opitnlirri, h, c. omni vi-  rium contentione mihi  o p i t n 1 a r o.   ov (pctvAov itp&ypa.  txilvov yctQ xov %qovov , dtp' ov xovxov ^qdo^t/v, oi5x-  D In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe diatez&ijvai  xcif.iS ovSivl , i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal tp&ovuv  &av(ia0xa tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd %hqb  ( toyig axi%t uti. oQa ovv, ut/ tl xal vvv ipydot/xai,  ctXXu diaXXa |ov tj/iag, tj, idv lm%EZQy fhtx&G&cu, htd~  pwE, <x>s lyd xr/V \qvzqv /laviav tj xal q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj ho~  mini* haud iove quiddam mihi  exsistit, Schleicrmaeherus : Deno  dieses Menscheu Liebe hat mir  tchoo zu gar uicht wenigem Ver**  druss gereicht. Schulihessius ;  Demi die Liebe dieses Meoschea  ist fur mich kein kleines Leideo.  De hac notione npaypa verbi  etiam in aliis dictionibus vide  lodices s. v. jtp&ypa,   r) Q$%o6\ grj \QTV7t(k) v s  Prorsus eodem modo nos Joqui  solemus. Recte Stallbaumins H.  e., inquit, aut, si id facio,  prae aemulatione et i n t  Y idi&cet. Conferri iubet Rii-  ckcrtns annotat, ad h. i. Piat,  Theaet. p f 173. E. xov%6 ye  6 <po6pa v? ntiyveixo leavzGov 8ia-  q>£peiv avxoS. 2. Nt) dia, gj  • rj ovdsfa y * av <xvx<3  &ietey$xo r   tijr xovtQv paviar re  fca\ <pi\$ patitiav. Schleier-  tnacherus ; denn seine Tollheit  ' nnd veriiebtes Wesen , soloeca  pro und sein v. Wesen. De  tpifapatfxlaS significatu vide an-  notat, p, 174, Mavlay antem  eius esse 1, , qui nimius sit  in amando, annotatio docet ver-  bis subiecta p. 173* D. xal ohq *  $ev itoxl xavxtjv trjv tnwv-  piav iXafttf , ro pavtxoi na-  leuSSai r, A, p, U, Ceteram    vix o'pns est, qt moneamus, fiid-  Ze6%ai verbuin, quod in supe-  rioribus legitur, absolute posi-  tum esse, ut significet; vim  adhibere, >.   jr dw O fi fi 60 6 o3, Ex schol,  Aristoph, ad Plut. v, 122, liate  depromam: o fi fico 8 do itdvv ,  ofifioodd) Xeyexai xo <pofiovpai  £x pexaqjopaS xo ov Zgogoy xgov  8td x ijS ovpaS detxvvvxcov x d  deoS, efoSe yap xavxa <pofirj-  Sevxa 6wayttv % rjv ovpdv tv-  X oS xcov pijpcov. Ridiculum au-  tem ac ne verum quidem est,  quod sequitur: 1 / oxi rc5y <poftov->  pivcov efaSev d dfifios TtpcoxoX  l6po\)v. Aliis iudicandum relin-  quo, nam verum sit, quod apud  eundem scholiastam legitur: xal  xvpicoS pkv i#l xov rdiY a\o-  ycoy dfovS,   d\A* ovx l6xiv. Cogitan-  dum est, Agathonem ad resisten-  dum se parasse; qood cum anim-  adverteret Alcibiades memor for-  tasse proverbii, quo ne Her-  cules quidem duobus aptus esso  dicitur, futuro tempore, ubi rur-  sum peccaverit, etiam buius criminis poenas Socratem Initurum  Osse profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl  T7jv. Iteratio hacc articuli non  caret idonea ratione. Nam verba  aio connectenda sunt; Xtjv xov -  mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton , (f avea rav 'AlxiflidStjv,  Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv elgav^tg as  nfioQC/aofiai' vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat , [istuSog  tcov zaiiH mv , iva avad ifia Steel rrjv rovrov ravrtjvl E  TTjv &av(iaatijv x«palr)v , xal fuj /tot [d[i<piytai , ore ea  /isv avidrjOa , avtdv ds vlxiovtu iv loyoig mxvzaq av-  Vgazovs, ov fidvov ZQuajv , agztQ Ov, «Aii’ «ai, Inuxa    tov xetpaljjv Sav/iadrrjy. cfr,  Mattii, Gramm. $.278, Stallb,  Flora huius structurae exempla  StallbaUroius collegit ad Piat.  Gerg. p. 502. B. : rl 81 7$   tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\ 1 }  t i}S rpaya)8LaS nolrjtiiS. Hero-  dot. VII. 196. o' vavxixds 6 xcov  papfiapoov (SxpaxoS. Thucyd. I.  25. xal 7 } ovx X}xi6xa fi\a-  ipaocr 7j AoipGo67]£ vdtioS, Piat,  de rep. V1JI. p. 565. D. xo iv  'ApxaSia xo x ov dwS xov Av-  xalov lepor. Hoc autem 11011  praetermittendum est, edici hoo  geuere dicendi, ut quicquid ver-  bis contineatur, id gravitate qua-  dam augeatur. Atque nostro qui-  dem loco articuli repetitione sum-  mus Alcibiadis araor indicatur  ita, ut verba cum Latinorum com-  j arari queant; te volo, tc  ipsum, vir admirabilia,  coronare.   avxoy dfc vix&vt a i v  jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum re-  cepit Ruckertus, crvXQV hic non log-  eum habere contendens. Frustra.  Illud Bekkerus atque Stallbaumius  exhibent. Ac Stallbaumius qui-  dem Non dixit, inquit, aw-  tov , sed avxoy propter  oppositionis rationem.  Nobis ita videtur statueudum  esse, nt indicium Alcibiadis de  Socrate etiam tauquam em ipsa    Socratis mente proferri dicamus,  qui ita rem cogitare posse fin-  gitur : ixeivov pbr dviStfCy&v,  i ite dfc riKavxa — ovx dvi-  8rf6ev. Quam sententiam Alci-  biades si e Socratis tantummodo  animo proferre voluisset, dixis-  set opinor: xal fnj poi pifitptf-  tat , oxi tfk piv dvad?}6iupi t  avxov 8h vixcorxa iv Tioyois  icuvxaS avSpGOTtovS — ovx  ava8ij6aipi. Si ex sua tautum-  tnodo sententia eandem rem idem  edicturus fuisset, non avtov, sed  avxov exhibere debuit. Habes  igitur hoc loco coufusionem stru-  cturarum duarum, quae quantum  habeat in se venustatis, eos non  fugiet, qui hunc locum satis ac-  curate examinaverint.   Ineixa ovx av e8i]6 a • Eiteixa in hainsmodi dictionibus  semper ad praecedens participium  refertur, atque proprie praemittitur ei, quod /actiouein,  quae participio continetur, sequi  debeat. Usu loquendi deinde  factum est, ut satis cum ironia  consequentiae notio cum contra-  rio, h. e, cum eo, quod actio-  riem participii nou sequi de-  beat, coniuugeretur. Et cum la-  tior sit participiorum significa-  tio, fieri potest, nt e, c, vt -  xcovxa sit postquam vicit  ac vincit; possis igitur inttta  tamen convertere.    330    nAATaNO£    ovx avcdijOa. Kai ccya avtov laftwna x tav tcaviwv  avadeiv xuv 2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu. InuSq di xa-  xtxkivt] , ibcilv.   Cap. XXXI.   Eltv Srj , 6v$Qeg ' dozftrs y&Q po* rijgxiv o ovx  btiTQtnxlov vtiiv, ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai ycip xav&’  iiy.lv. clcQ%ovza viiy (xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v vytis  ef er 61 /, avSpeS, So~  xeixe ydp. Hiximas de hoc loco annotat, p. 265., quam ride.  Verba quod attinet GjpoXdyTfxat  ydp x av$' ijpiv, cfr. p. 215. A.  a\ Aa poi A iyere ccvxoSet , ini  fiyxotS eIsIgo, tj jiTj ; , 6 v/i 7 tls 6 $E t  ?/ qv ; navxaS ovv dvaSopvfli}-*  Oai xat xeXeveiv eIsieycci x.  T. A. In aequeutibus post ovx  intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id ex optimorum codicum  auctoritate delerunt Bekkerns,  Staltbaumius , alii. Eo addito  sententiae vigorem admodum refrigescere senties atque propemodum evanescere.   d pxovta ovv alpovpai  tifS n 6 6 E ga S. Vide annotat,  p. 43. Adde Wachsmulhs Hel-  len. Alterthumsk. II. 2. p. 28.  et p. 29.» ubi Christius laudatur de magisteriis veterum in pocu-  lis. 1745. Non elegerunt autem,  Stallbuumius inquit, antea convivae regem, qui bibendi leges  ediceret, sed constituerant, ut  suo quisque genio, quantum vellet, iudulgeret.   aXXd <pipE t nat, (pavat,  xdv ipvxxij pet ixEiv ov ^  Schol. ad h. L $vxxi}p, inquit,  OxevoS' IvSac diavlctovtii xci    noti} pia , i) noxrjpiov eiSoS, g*s  E vpinidrjS TrjXiqxa. Timaeus  ed. Ruhukenii p. 278. habet  ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai  nXaxv e Is rjjvxportotiiotv rtapE-  OxevaOpivov , Laudat praeterea  Ruhnkenias Gramm. Ms. :  xxijp* OxevoS , iv (o xdv olvor  Hipvxov t x 6 xoiygjS XeyofiEvov  .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec  vas nominatum fuisse, quod usui  convivarum non ita destinatum  erat, ut ex eo vinum haurirent.  Hinc non mireris , Athenaeum  huius loci respectu habito IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt  xovxgov ovSlv iifijiExpov , aXXd  ttivovdt p\v xodovxov , coSxe  fi7/8k xols IdimS noOlv l6xct6$ai.  dpa ydp — *//A xifitdSrjv o>?  dOxtfpovEi , ol 61 «AA oi xdv  dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt  npocpaOEGoS XafiofiEvoi, in tine p  avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui-  6i/S.   l8ovxa avxov nXiov i}  X. x. A. Alcibiades Agasonem  rogat, ut maius poculum atterrr  iubeat, post, conspecto aliquo vasi,  quod refrigerando vino inservie-  bat, magnitudine eius delectatus  sententiam suam mutat, idque  afferri iubet. Ad verbum xo-  xvXaS Schol. anuotut : rplzov  faavco g jchjzi , l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av , ff zi  lOziv (xxu(iu [itya , iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt,  nai, tpavcti, zdv tlivxzijQa IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214  ij dxza xozvkag yaqovvza. zovzov l(ixkr]6d(iEvov zcgazov  filv avzdv Ixititlv , licaza za EaxgatEi xeXevelv lyyfiv,  xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq , cS avdgeg , zo  C.6q>i6(td (ioi ovSiv ' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGov-  zov IxTtimv ovStv fiakkov (iij jrors (iidvG&rj. Tdv (ilv  ovv ZoxQurrj iy^tavzog rov ttcudog xLvuv ' zov 6’ ‘Eqv-    fiepoS 7/ xoxvXrj trjS xoivwoS.  Yido Wachsmuths Hell. Alter-  thum.sk. II. 1. p. 78. Annotasse  liic suilicit, immensa muguitu-  diue ifkVXTrjpa fuisse.   i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS:  Cum vas implevisset. Astius :  implevisse. Immo implendum curasse. Quae vis est  medii; neque verisimile, ipsum  fecisse Alcibiadem, quod statim  post, ut Socrati fiat , imperantem audimus. Riickert.  Tu 6 6 q>i6 n a jiot ovd iv.  h. c. in Socrate ars mea  inutilis. Ludit Alcibiades ia  dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t  ut videtur, similitudine. Hoc  enim dicturus est : Bibendi magister frustra se exercebit, ut  Socratem ceteris convjvis similem  reddat h. e. ebrium atque Baccho  plenum. Quantum ipsi aliquis  imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam magis ebrius  factus sit. Pro xeXsvfl , quoil  Bekkcrus et Stnllbauinius in textum receperunt Bodleiani codicis  oliorumque pauciorum auctoritatem secuti , vulgo xeXevtiy le-  gitur, quod Riickertus edidit.  Utraque lectio bona est sentontium si spectas, quam Alcibiades  prolaturos erat. Certe non dispiciendum est , cur dicere non  potuerit : quantum ipsi ali-  quis imperaverit cet. Dif-  ficillimum igitur ad diiudicundum,  quid Plato scripserit. Sed tnnta  tamen nobis, qnanta debet, Rodle-  iaui codicis auctoritas fuit, ut non  dubitaremus, praesertim cnmVV.  DD. , Bekkero et Stallbanmio  placuerit, xeXevtj in coutextam  orationem recipere. Sententiam'  quod attinet, cfr. p. 220. A.  iv r* av xaif EvGoxUn? puro*  anoXaveiv oloS t * 7jv , x d x*  aXXa xal iclveiv ovx i$£Xmr,  6 nox 9 dvayxa6%ei7j , ndvtaS  ixpaxei xal o navzGDV 3av-  padxoxaxov , ^cjxpdxr/ v-  ovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev  dv$poo7ta)v.   x ov 6 * 'EpvZipaxor t  II(£s ovv — noiov/iEv. Cur  Eryximachos potissimum hic pro-  deat, statim intelliget, qui loci  meminerit p. 177. B. C. atque  inprimis ibid. D. i/iol yap dt)  tovto ys olpat xcctd8tjXov ye-  yovkvai ix xijS latpixijS, ori  XaXenov xotSdvSp&noiS t) pc-  $rj itizi* xal ovxe ctvxoS iSc-  Xrjdaipt dv itielv , ovxe dX X<p  CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te xai    m   jfyiOKOVj Ilag ovv , g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r] , noiovfiev.  B ofrrog ovr$ rt Aeyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v;  &IA' &xe%vag c3 gneg ol diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv elnelv , *&l 'EQV^tfiaxB , /3 HxlGtb fieXxlOxov na-  xgog xal (SacpQOVBOtatov , %cdpe. Ketl yap 6v , <pdvai  zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa r£ noicopev ,* — w cv <5i)   itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$ dWoov.   Intreme ovv o tt- fiov/Ly, — yfxovdov §rj, dntiv xbv   xpctntaXdvxa Ixi ix xijs rtpo-  xepaictS. Do verbi* Eryximachi  medici h. i. laudatis : tigoS ovv ,  tpdvai, cj 'AXxifiiddtj , xoiov -  ptv uon recto Stallbaumius :  JSt quis , inquit , coniunctivum  requirat , qui est deliberantis:  eodem modo nos : IV i e nun   thun wir, habe Eryx ima -  c/ius gesagt? Eryximachut  cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset p. 176.  B. , ne nuuc ad bibendum coge-  retur, et Alcibiadis immodera-  tione indignatus, quam omnino  pestiferam hominibus supra ceu-  suit, Quid nunc facimus verba  ita profert, ut explicatius andiant:  qua insania nuuc agimur,  tantumque abest Eryximachu», ut,  quid faciendum sit, roget, ut po-  tius praesentia satis acriter re-  prehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev  ixi xy xv X ixi, OvxgjS , at  in praecedeutibus redis, plenum  indignationis atque acrimoniae.  Sensus est: liac igitur ratione,  b. e. hac igitur insania allectis  neque sermo ullus . neque cantus  iuler pocula erit? Ceterum ixd-  6optv ia textu posuimus , quae  Bodleiani codicis lectio est. Val-  go ovte xi adojMY.   xov ovv — yaipE. Alci-  b i a(|ls Eryximaclii admonitione  tactus cum statim, quod respon-  deret, uon haberet, ut non nega-  ret id, cui contradicere non pos-  set, neque probaret, quod pro-  bare nollet, Eryximuche, inquit,  optime fili optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed non  delinitus hac re Eryximachus,  salve tu quoque, respondit, nam  et iu te cadunt omnia ea , quae  super me modo dixisti, sed quid  vis faciamus ? His auditis Alcibiades satis gratiosus omnem rem  ex Eryximachi arbitrio iudican-  dam propinat,   IrfXpoS ydp ctvr} p. Ver-  sas Homericus est petitus ex II,  A. De scriptura insequentium  verborum ini di£>id , vide an-  notationem p. 50. Vulgo enim  etiam li. 1. et paullo infra im-  SiB,ia legitur. Structuram au-  tem quod attinet verbornin xctl   XQVIQV xal OOTGO TOVS dX-  A jOvS , Stallbaumii indicio sub-  scribendam est annotanti V: Ac-  cusativus ponitur, ac si praeces-  sisset dixaiov i<Snv, huquc  'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv, Wo|« XQ^cu Ini  ds|t« exaGtov iv ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv rag c  dvvraro xdkkiGTOv , xal lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot  xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij ovx eiQrjxct; xal  mximaxag , 8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai ZaxQatu  o tl av (iovhj xal Tovtov ro Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g  akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e , rdv 'AktupidStjv,  xakug fitv kiyuq , (ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl vytpovtav  kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1% Igov y. xal afia, a verba sic interpreteris : nai tov-  tov dixaiov itfnv intrdUat   T(b ini 6 e£,kx. Structurae va-  riatio nec per se ingrata est>  et per sententiae rationem pro—  pemodum necessaria. ol p\v ovv aXXoi. Apol-  lodorus , nt ipsius verbis doce-  mur p. 180. C» quoruudam hominum orationes, quas memoria  non teneret, non retulit. Hoo  moneo, ne quis miretur, non  nisi sex orationibus relatis Ery-  ximuchum nunc loqnentem in-  duci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev,   aXXd, gravat, ca *Epv%l-  pax e , t 6 v ! 'AXHifiiadrjv ,  Vefba aXXd — oJ *EpvB,ipax&  — xaX6oS piv XiyeiS dubitan-  ter Unguntur ab Alcibiade pronun-  tiata esse, qui verebatur, ne  hominis ebrii oratio sobriis au-  ditoribus satis displiceret vel  etiam ridicula censeretur. Indi-  cium est huius rei verborum  dispositio, quae ita comparata  est, nt intermixtis gravat et  tdv AXxipidSrjv verbis orationis  initium co modo distraheretur,  quo ab Alcibiade pronuntiatum est.  Simile huius artificii exemplum  reperitu» p. 175. E. vftpt-  dT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt,  6 AyaScov, quae verba Agatho-  Uem ita pronuntiasse consenta-  neum est, ut illudi sibi magno  cura pudore sentiat eumqne pudorem atque confusionem animi iuterrupta voce prodat,  AeSvovTa 6i dvdpa na-  p d vrjgrovTtov X 6 y o v S.  Vario modo sanissimum hunc locum  viri docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum. Astitis  verborum sensum esse contendit:  Aequum non fuerit homineme—  bnum cogere, ut inter sobriorum  hominum sermones habita oratione fiat ridiculus y quam verborum conversionem nemo pro-  babit, Stallbaumius verba hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum sobriorum orationibus haud sane aequum ,  (quod breviter dictum est pro)  ebrium virum provocare , ut ae-  muletur sobriorum orationes, haud  aequum fuerit. Sed ne haec qui-  dem interpretatio satis nobis nunc  placet. Notum est Homericum il-  lud xopai Xapitsddiv opoiai,  quae dicendi brevitas haud rara  apud veteres scriptores. Exemplo  noster locus est, ubi pro pe-  &vovros dvdpos Xoyov dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6» Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ; ?}  oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i) o iisyev ourog ydg,  hxv riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij dv-  &Qcoxcov dU.ov rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^  Ovx evtpijtiijoiig ; (pava t toti Eoxgdxrj. Mu xdv IIo-  ouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv , (iqdht liys xgdq xavxa,    / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi:  Aber die H e d e ei nes trnn-  kcnen M an nes in e i no  R e i h e mit den Reden  niichterner Manner zu  stetlen, mochte wohl nicht  nns dem glcichen h. e. nicht  passe nd se in. Iliickertus eo-  dem fere modo: vereor, no  parum sit aequa conditio,  si homo ebrius cum ora*  tione sua sobriorum cum  orationibus componatur.  Ceteram cum hoc loco conferri  potest Piat. Gorg. p. 455. E.  oltiSat ydp 8rf nov, ori ra yego~  pia ravra xai ra reixy rddv  f A^7]vaicDV xai t} rdov Xiyevcov  xaradxev?) bc r rjS Oepidro-  xXeovS dvpfiovXrjS yeyove , ra  d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X*  ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov y  quo loco consentiens vox esc co-  dicum omnium in verbis ix rdov  dijpiovpydov. Buttmannus et Hein-  dorfias scribendum coniecerunt  ix tijS djjpiovpydov 5 Schaeferus  ed Apoll. Rhod. Tom. II. p. 141.  ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v maluit. Sed nihil opus esse mutatione,  instituta cam Symposii loco com-  paratio docebit. Adde, quae verbo  infra legantur p. 217. D. dve -  navero ov v iv ry ixopevy  ipov xXivy h. e. in lecto,  qui meo lecto proximus erat.   xal aua, cJ paxapts,    xelSet ri di x. r. X. Alcibia-  des verbis prolatis xat dfut pro-  prie dicturns erat : Et simul ne  possem quidem, etiamsi vellem,  Erotem laudaro Socrate praesente. Sed mutr.to consilio ita  perrexit: Num tibi quid quam eorum, quae modo  locutus est, Socrates per-  suasit? Sensit enim homo sa-  gacissimus , verbis contra Socra-  tem directis fidem prorsus defu-  turam esse, nisi illius dictum  aute oppugnatum sit, atque in  mendacii suspicionem vocatam.  Recte igitur Stnllbaamius anno-  tat. ad b. 1. Alcibiadis interro-  gationem ita interpretator, nt  sensum eius este dicat: Noli  quid quam eorum credere,  quae modo dixit Socra-  tes: nam plane contra-  riam verum est. Ceterum ad  verba hic respici consentaneam  est p. 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa, el poi iitapvvEiS. cos i/ioi  d rovrov ipcoS rov dvSpoonov  ov <pavXov npaypa yeyovev.  an* ixeivov yap rov xpdvov ,  aq> ov rovrov ijpddSyv, ovx-  exi i&edti poi ovre npoSfjXe-  ipat ovre SiaXexSffvai xaXdi  ovSevi , i} ovrodl ZrjXorvrtdoy  //£ xai tpSovGov Sav/iadra ip-  ya<$erai jcal X oidopeltai re xai  reo x&f J£ jidyiS anlxEtai x.  r. A. Satis lepide autem iisdem  fere verbis hic utitur Alcibiades, tog lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov JtaQuvtog.   owrca ao In, gravat rov ’EQv£lpa%ov , el fiovlei'  Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg { dxtiv rov ‘AXxt-  (iuxdijv' doxei XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai rei E   kvSqi xal Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog , tpuvcu  zov EcoxQa.tr] , 1 1 h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit    quae Socrates 1.1. exhibuit, <*o-  epi&eral pov tca X^P £ -   ovx ei) epij ptj det$ $ Nega-  tio cum futuro tempore couittn-  cta quam potestatem habeat,  supra dictum est annotat, p.  26. Eveprjpetv verbi significa-  tum quod attinet, explicatum re-  peries annotat, p. 246.   taS’ iyco 0v5* av iva a A-  Xov h. e. nam dc me ita  cogitato, ut qui te praesente prorsas neminem  alium laudaturus sim.   tctoS XiyetSj doxel  Xpr/rat , oJ *Ep v^ipax^i  Supra p. 21B. D. Alcibiades im-  pediebatur, quominus iniuriam,  quam a Socrate sibi illatam pu-  tabat, ulscisceretur j nunc data  ultionis occasione magna cum  animi laetitia atque huius rei nec-  opinatam opportunitatem mira-  tus, Quid ais? inquit, cen-  sen’ me etiam debere hoc  facere? Accentus oratiouis in  Xpijyca verbo ponendus est, quo  facto, quod antea, ut faceret,  non licuerit Alcibiadi, id nune  idem etiam d e b e re facere ju-  dicatur.   iit i rei yeXo tore pa pe  i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo  Rtickertus putat yeXoiotepa compafativuiti explicafi posse, tfel  ut admissa dicendi brevitate di-  ctas sit pro za yeXowzepa 7 }  aXi/SedzepeZj vel ut significet:  ita laudare, nt quo sint quae-  que magis ridicula, ro laudanda  sumas studiosius. Neutra com-  parativi explicatio probari pot-  est. Stallbaumius ad h. 1, , ifi  talibus , inquit , quae sit vis et  significatio comparativi, neminem, opinor , fugiet. Neque sane  difficile est indicatu, quid significer. Primum loci meminisse  iurat p. 189. B„ ubi Aristopha-  nes haec profert: coS' iyco epo -  pov pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov  firjSj/dedSext ov n , p?) yeXolot  eiitea) , rovzo p\v yexp av xip -  60S eii} xal zijs rj perspexi Mov -  OrjS ijtixodptov , «AAa pi) xa~  rayiXadza. Ad quem lo-  cum cum annotatum sit p. 149. >  yeXoia ea significare, quae risum  moveant, xazayiXadza contra  fatuitatem denotare eius , cui  xaxexyiXexdta convenire dican-  tur, dubitari nequit, quin no-  stro loco comparativus yeXoiov  vocabuli nihil aliud exprimat,  quam quod illo loco xazayk -  Xadta vocetur. Ceterum Bek-  kerus edidit: ini rit yeXoio -   X£p(t pe iitctiv&det , quuo scri-  ptura ex errore euata est olim  disseminato : iitaivelv verbi fa-  turum tempus noa iitaivedco sed  iitaivedopcei audire.  tmavidng ; rj x l jron}<Jj(-g ; — TuXrj&rj Igm. aXX’ 5p«,  tl magiris. — ’AXXu fitvroi , qxtvca , x& ye aXrj&rj n ag-  fajfU x«l xeXeva Xlyuv. Ovx Sv ip&avoifu , tlnslv  rov 'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol molt]6ov‘ idv tt  fu) dXrj&es Xkyar , /.ata^v h tiXafiov , av fiovXtj , xal  215 tlju , uri zovto tl’Svdofiai. extnv yag tlvai ovbtv fev-  eofiau idv (itvroi dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo lilXofttV   ov yag tl §ud iov xryv Otjv     xaXrjSij ipc J, Vide de his  Verbis Comment. de Platonis Sym-  posio. Quae sequuntur verba,  aXX' opa, el izapb/f , ludibrii  caussa addita suut, quasi rogari  oporteat virum eum , qui per  omnem vitam veritatis amorem  profitebatur, utrum vera dici ve-  lit necue. Monemur autem hoc  loco de verbis Piat. Apol. Socr.  p. 17* C. ; xal piv tot nat  rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot >  xovro vpc ov diopai xal napie -  pai. Phavorinus napisoBai rov -  to , inquit, Soxel rov napai -  xtldSai dvvapiv £*«*'. Timaeus  L. V. Pl. p. 207. napisiACti'  napaitovpai , ad quem locum  Ruhokenius: Huius rarissimae, inquit, notionis ratio nondum, quod  aciam, explicata pendet ex indole  mediorum. Ut irjpi et itphjpt  est mitto, %Epat et itpiepat  mitti mihi volo, i. e. cu-  pio, peto, sic napirjpi ad-  mitto, napiepat ad me ad-  mitti volo significat, h. e,  precor, deprecor. Speciosa quidem est, sed, quoniam  usu ioquendi non probatur, neutiquam probabilis rtapiepat verbi  explicatio. Neque Socratis in-  genio , qui , ut virum sapientem  decet, fortiter atque viriliter iu-  dicibus' respondit, rogandi ver-  bum duplex positum satis Con-    venire videtur. Significant po-  tias verba xovto vpcov diopeti  nat xapiepat : hoc vos rogo  mihique indulgeo.   ovx av q>5.dv oipu De  signo interrogandi post haec ver-  ba non admittendo, atque de  huius dictionis significatu supra  diximus annotat, p, 125. Quae sequuntur verba, xal pivxoi ov -  TOJdl noir/dov, aliquid vitii con-  traxerant, quod miror a nemi-  ne interprete deprehensam esse.  Schleiermacherus verba conver-  tit: nnd da thue so, quod  ita dicitur, ut, dum Alcibia-  des dicat, si qaid forte minus  recte dixisset, Socrates iubeatur  id corrigere, lloc modo etiam  ceteri interpretes verba acceperunt. Sed duo sunt, quae displi-  ceant. MSVXOI CUm OVTGOdl  noirfdov vix videtur commode  ooniungi posse. Deinde 6v pro-  nomine haud careas in enuntia-  tione, qua quid Socrati faciendam  sit, praecipitur. Facillime unius  litterae mutatione locus sanatur.  Scribendum est xal pivxoi ot$-  x cedi noitjddov idv x i pij aXrj-  Xiyco , pera%v iniXaftov  x. x. A. Sensus est: Et si hac,  qua dixi, ratione acturas,  falsi quid forte dixero,  interpellu, si placet, 1 o-  rlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. —  ZcoxQuxy 6’ iyu htcuvtiv , oj ardqtg, oiitag iTtiyu-  qt]dco , 8t’ dxov av. ovxog jiev ovv ’i6ag olyasxcu tirl  rcc ytXotaxtQa , taxat, 8’ y tlxcov xov aAi;&ovg tvty.a , ov  xov ytkolov.   Cap. XXXII.   yaq 8rj ofiototcnov avxov tlvat xotg UstJLijvotg  qoentem atque falsa nar-  rantem redargue.   kxav y<*p elvoti, Dc in-  finitivo in huiusmodi dictionibus  vide annotat, p. 40. Sensus est:  quantum ex me pendet,  mendacium non dicam.   ov yap xi j) adiov. Cave  pronomen indelinitum cum fa(i-  dzov aTCte counecteudum cen-  seas. Pertinet id ad negationem  atque ov tt apprime respondet  nostratium: denn es ist gar  nicht etwa leicht. Quae se-  quuntur verba cjd* ix^YXi du-  plici modo explicari possunt. Aut  enim ad Socratem referuntur aut  ad Alcibiadem» Ad Socratem relata Alcibiadem ita animatum  ostendunt, ut qui diflicillimum  esse putet, Socratici ingenii mi-  ras virtutes coram Socrate so-  brio expedite atque ordine quasi  in digitis enumprare. Jl 18 ' %x ov ~  roS", quod fortasse sunt, qui desiderent, prorsas alium sensum  funderet, atqoe axonictS Socraticae inserviret veritati describendae ; esset enim idem cj 8 $x ov ~  XoS atque xtjv 6i}v axoniav gqS  £££ 1 ?. Sed possunt etiam coS  1-XOYXi verba ad Alcibiadem re-  ferri,' ut homini ebrio Alcibia-  des dilficillimum esse censeat Socratis axoTtlav expedite atque  ordine referre. Quamquam eadem via est sententiae, hoc an illud  explicandi genus magis proba-  veris, tamen cum recentiorihus  interpretibus de Alcibiade verba  coS" Ixoyxi dicta accipiam.   ovx gdS — St* £ 1x6 v cov.  Addita verba habes 61 * elxovoDVy  quibus quod praecedit ovxcdS vo-  cabulum accuratius defluitur. Vide  annotat, p. 43. , ubi et hic locas laudatus est. Ad sequentia  oltjdexat iizl x a yeXoioxepa  Stailbaumius supplendum censet:  me ipsum laudaturum esse.  Non recte. Meliora docent sequentia verba H6xai 8* 1} e  XOJV XOV aXl]^OVS LVETiCL X.  x. A. , ut igitur ad illa verba  suppleudum sit: 81* eixov cov  pe imxEip&Y htaweiY. For-  tasse etiam plaue nihil supplen-  dum est , siquidem cogitari pot-  est, Alcibiadem iici xa yeXoio-  xepet verba quodammodo ex sen-  tentia Socratis repetiisse. Verba  igitur convertere possis: Er wird  wahrschcinlich bei sicli denken  )t inl xa ye\owxepa lc : des Bild-  lichen bediene ich roich indess  nur der Wahrheit wegen , nicht  um zu verhdhnen.   xoiS 2 ei\l]v olS rou-  xoiS xots iY x 01S k p /t o -  y\v<peioiS xaSTjpeYoiS.  Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\ Jio-  22    B tovtoiq tolg Iv tolg tQUoylvcftiotg xadypivotg y ovg  rtvag lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol Ovgiyyag y avkovg  l%ovtag'’ di ftgadfi dtOL%&tvr£g tpaivovtat tvdofrtv vtyak-    vvdov xopfvral napa ro rftA-  Aofivttv y u l6xt 6xojitxeiv  Atyopevoi [jtapd xovS TtotovS].  Adde Schol. ad Aristoph. Nobb.  v. 223. xi pe xaAeiS , g) '<p>}~  pepe. — gj avSpcDire. iXiyeto  6i d Stoxpdrr/ff xrjv uifuv 2et-  Arjvcp itapeptpodveiv. 6 1 po S xs  y dtp tux \ (paAaxpd $ i)V. xe-  pieSyxev ovv ctvxcp olov xov  napo. JJtvddpop SetXtfvov cpco-  v)}Yx. x. A. Patet autem o uostro loco, nam nusquam  «lias rem commemoratam reperias statuarios capsulas, quibus  artificia reconderent , ad Sileno-  lum formam effinxisse, eorumque  sedentium quidem, nt latius  intus spatium artificiorum recon-  dendorum daretur. Hae capsulae  felicissime cum Socrate compa-  rantur etiam eo , quod externo  cultu minus conspicuae erant at-  que negligentius elaboratae Athe-  naeus L. I. c. 15. C. statuam  Thebis exstitisse narrans Cleo-  nis cantoris haec addit : vito   xovxov xov dvSptavxa, oxe  AAiZardpoS x cis QtjfiaS xaxe-  (Sxanxsy <ptfC\ noAeparv, <pev-  yovxa xtva xpv6iov eis x 6 ipa-  xiov xotXov ov ivSitiSai • xal  6vvoixt2,oplvr}? xffS itoAeaS ixa-  veASorxa evpeiv ro' xP v< *i° v  pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil  habet haec narratio, qnod aliquo  modo possit cum nostri loci verbis comparari. Hoc tantummodo  ex ea discimus , magna religione  illis temporibus homines artium  operibus pepercisse.   o? 6ixa8e 8ioix$£y*£f.  H. Stephauus 6ixa6e verbo offen-    sus , quod nusquam alias apud  Platouera reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit, quae correctio  fuerunt quibus admodum placeret. Recte receiitiores editore!  8ixa8e reposuerunt. Verba converterant Ficinas : qui si bifa-  riam dividantur y reperiuntur in-  tus imaginem habere deorum.  Schleiermacherus; ia dei, en man  uber, wenn man die eine Halfte  wegnimmt , Bildsaulen von Gdt-  tern erblickt. Schulthessius ;.  Schiebt man sie auseinander, so  erblickt man inwendig Gotterbilder. Rem intellecta facilli-  mam fecerunt interpretes difficiliorem. Res sic se habet: In  contrariis Silenorum lateribus duo-  bus duo foramina erant, quae  epistomio quodam claudi pote-  rant. Iam si qnis artificia intus  j^econdita spectare vellet, non  opus erat, ut singulae partes  Sileui solverentur. Ex altero  enim Sileni latere, ex utro ali-  quis vellet, per alterum foramen  spectatio erat , ex altero lateris  parte per alteram, quod in cg  erat, foramen lux incidebat. Sen-  sus est verborum: Di ese zei-  gen, da sie auf beiden  Seiten nach deu Durch-  schnittspuncten hin OefT-  nungen haben, in ibrem  Innem die Gestalten von  Oottern. Ceterum non sino  magna vi ultimo enuntiati loco  positum hahes $£G)v ‘nomen ,  nt significantius indicetur, res  summae gravitatis vili atque pae-  ne ridiculo tegumento h. e. So-  cratici cojpoiis turpitudine ob-  \i    I   ftam fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov rtp  2.'ax vQip, ra Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog  tl tovtois, a Ewxqox fg , ovd’ avrog dij xov d(upLCj}ri-   vnlutas esse. Nostrum locum  imitatus est Iulianus Orat. VI.  p. 184. A., sed memoriter atque  mitius accurate, ut carendum  sit, no quis ad eius exemplar  Platonis verba emendare studeat:  <pypl yap dy njr xwtxrjv  <piAooo<piav opoioxdxyv eivai  xolS 2 eiAtjyoiS xolS iv xolS  EppoyAvqjeioiS naSypEVoiZ, ovS-  xivaS ipyaZovxai ol dypiovp-  yoi 6vpivyaS rj ariAoris Exov-  xas , o? 61? dioix^Evxes Evdov  tpaivovxai dydApaxa ExovxeS  SecZv.   xai tptfpt — xcri 2 ar ri-  pa) , tcj Map6vot. MapcriaS,  Schol. inqnit, otriArjtl /ff, ’OAvp-  itov vloS, oS xoris ariAoris *A$y-  vaS /jnpddt/S dia xd iva6xy-  povEiv avxoiS drtAoptvoS rjpt -  (Siv 3 AitoAAcovt itspl pov6txijS t  xal y xxy$y , xal itoivyv di-  dcoxe x 6 dlppa dapetS. Docemur hac Schol. narratione, Marsyam formam faciei minus curas-  se, utpote qui tibiis canendo ex-  celluerit , quas , quoniam faciem  deturpant , repudiavit Minerva,  cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo  (Hyagni) Marsyas cnm in arti-  ficio patrissaret tibicinii , Phryx  cetera et barbaros, vultu ferino,  trux, h spidus, illutibarbus, spi-  nis et pilis obsitus fertur pro  nefas cum Apolline certavisse.  Thersites cum decoro , agrestis  cum erudito, bellua cnm deo. Ceterum quid Marsyae mytho ve-  teres exprimere voluerint, statim  intelligitor. Musica nimirum orte  hominum ferocitas deliuilu morumque asperitas- deposita est,  sicut pellis Mursyae spinis atquo  pilis obsita, quam Musarum in-  dicio Satyrus deposuit,   orid 9 ari ro ? dy itov dp-  <pt6fiijxi/dais. Ilaec est le-  ctio vulgata , quum duorum au-  ctoritate codicum- in dpqjiCfty-  Tr/tiElS immutarant interpretes»  Ac potuit quidem Plato' ita scri-  bere, non scripsit revera. Ete-  nim quae certissimu sunt atque 11 *  luce clariora Alcibiadi, ea idem  quasi dubia ex Socratis mento  aptat, non ut incertus esse rei,  sed ut simulare tantummodo videatur irooiae caussa aliquam  dubitationem. Unius optativi ex-  emplum , quo satis acerbe ali-  quis aliquid, quod compertam  habet atque perspectum, tamquam  dubium ex alius mente aptat,  apud Meleagrum reperitur Epigr.  LXIII.   "Eyv&v, ori p* EA a$£S. r i Seori?-,  ori yap pe AeA yBaS.  "Eyv&v * prjxixt vvv opvw  irdvx* EpaSov.   Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy  6v itaAiv, povy vitvoiS  t oApyf xal vvv, Vvv Ext  tpydl povy.   Aliud exeipplum a Reisigio lau-  datum reperies in Commentat. de  vi et usu av particulae p. 131. *  Theocr. Idyll. XVII. v. 60.   <prjs poi navxa douev * xax&  6 * v6x epov orid * dAa doiyS>   quae verba a puella pronuntiari  Reisigius censet, quae amatori  22 o     1    3-WI    T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g , fina rovzo axovs.  'rfiguirr/s et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg  nKQtto[icn. all’ ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog  C Ixtivov ' o fitv ye dt ogycivav exijlu rov g av^ganors  tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei, xai En vvvl og ccv r a    Dinlta pollicito hyperb<pl i cum  fere aliquid et incredi-  bile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis , Reisigius in-  quit, si uv vel xe adderes y vah ,  quantum periret Veneris . Lasciva  puella , quod ipsa minime cre-  dit , loquitur , nec vult videri  serio se credere , sed tentat dis-  simulare tanfum : qua ironia eo  fit amabilior , et auget amoris  flammam. Tale fere quiddam  est in nostratium more , ubi di-  cimus; am Ende : v eluti , am   Ende giebst du mir gar nidus. SimiMus Reisigianum exemplum Platonis verbis est, quam  quod supra laudavimus exemplum  Meleagri , quamquam id accura-  tius examinatum eadem dicendi  ratione gaudero iutelliges.   v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Haec  verba Schleiermaclierus reddidit :   . Rist du ubermiithig, oder niclit?  Sed magnopere displicet, quam  V, D. secutus est, verborum in-  terpunctio , neque verisimile est,  eum, qui testes adhibere possit,  quibus rei prolatae veritatem  probet, sic locutum esse: vfipi-  6ti)S el y y ov ; Sententiam ver-  borum quod attiuet, prorsus eodem modo Socrates vfipuStyS vo-  catur ab Agathone p. 175. E.:  TppitiztjS el, £<py , gj Scjxpa-  teS 9 d *Ayd$(ov. 'TfipiOx&v  autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita tor-  quent atque volvunt, ut aliam    vel speciem vel notionem potestatemque repraesentet, eatnque  quidem contrariam ei, quae pri-  mitus ipsi inest. Sic et vfipi-  S,eiv verbum de Homerica pio-  verbii corruptione adhibitum le-  gitur p. 174. B. "OpypoS jttv  yap mvSvvevEi ov puvov Sta -  <p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat f.ls  ravryv tyv napoiplav, ad quae  verba vide annotat, p. 19. Ut  autem Sileni in artificum oirici-  nis sedentes aliud in se habmt,  aliud externa forma ostendunt,  quod illi maxime contrarium est,  ita Socrates haud raro cogita-  tiones suas obtegens aliud quid,  quam quod sentiret, verbis -ex-  primere solebat. Hinc institu-  tae comparationis et, Socratis ct  Silenorum expendas veritatem.   i av yd p fii } o poXoyy  Tdp particulae potestatem recte  intclligcut , qui interrogationis  praecedentis significatum cogno-  verint. * II ov ; enim verba ita  proteruntur ab Alcibiade, nt rem  a Socrate negari posse negaret  quasi diceret: Rem negare   non potes. Paullo aliter Stall-  baumius de yap particula disse-  ruit annotat, ad h. 1. : Particula  yap t inquit , referenda est ad  sententiam ex reliqua oratione  facile supplendam : el fikv ovv.  — Utra rectior sit atque na-  turae Joci accommodatior expli-  catio , lectores ipsi videant.   crAA* ovx avXyzy S- t Re-    Ixtlvov ttvXjj. a yag "OXvfixog ij vXei, MuqOvov liyco,  rtivtov didcct-avTos. r a ovi) ixtlvov , iav re dya&og  avXtjrrjs ciiiky , edv re qiavXrj avXtjrglg, ( wva xccci-  j reti&at itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal reXeroJv  dtofiivo v$ 6 ut to &tla etvau oi> d’ ixtlvov roOovrov    ctissime H. Stephanus , quod ia  editt. valg. omittitur, post av-  Xvrtjs signum interrogandi po-  suit. AAAa autem e licto So-  cratis responso repetitum est, qui  vfipi6xijv quidem se esse con-  fiteatur, avAtftfjv se esse non  concedat : vfiptuTJ/S y* tipl,   Oj IA* ovx avAtjxrfc,   xal ixi vvvl oS ctv x u  ixtlvov avAy. Docemur his  verbis, Olympi harmonias etiam  Platonis aetate superfuisse, qui-  bus tantum veneris attribuitur,  ut sane pulcherrimas fuisse inde  couiicias. Phrygias harmonias  fuisse ivSovdiafyiov procrean-  tes Boeckhius docet ad Piat,  Minocm p. 26.   M apCvov Mycoj xov-  i ov 8 i5a£, av x uS. Consentit  Schol, «d Aristoph. Eqq. v. 9.  &vvavAux. ZwavAla xaXtixai ,  otav 6vo avXi/Tixl to avro Ai-.  ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS povCi-   xoS Tfv , Mapdvov pa$7)rifi.  iypcnjxt Sk avXrjrtxovS xal  $p?/vyxixovf vopovS. Yopoi 8e  7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S vpvot  x. x. A.   iav te aya$uS — aJ-  A i/rpis. Etiam tibicinarum cur  hic mentionem faciat Alcibiades,  si quis quaerat , nihil ab inter-  pretibus annotatum reperict. lloc  certissimum , neminem olferisu-  rum esse iu verbis iav xt uya-  5uS avXt/xj/S avAf/y iav te ipav-    Ao?. Ut nunc verba se habent,  de artis dexteritate dicta acci-  pere possis , ut non nisi viri in  arte tibiciuaria boni dicantur,  mulieres autem artis expertes ti-  bicinariae non nisi mediocritatem  quandam teuere. Sed hanc non  fuisse scriptoris voluntatem, no-  bis quidem persuasissimum est.  Alcibiades proprie dicturus erat :  iav xs avAr/r ?/? , iav re av -  A ijxpiS y iav re ayaSuZ ns,  iav xt tpavAoS , sed brevitatis  studio oppositionem ita instituit, ut non substantiva solam  sed etiam adiectiva sibi oppo-  nantur. Ceterum vide annotat,  p. 299. ubi huuc locum landa-  virnus.   pova xaxexz6S at  xal d ij Aoi. Frustra haec verba emendare studuit Orellius ad  Isocratem p. 333* Scribendum  enim coniccit puvovS xarix^d^c ri  7ruit2 xal xtfAtt. Haec correctio  cum alia de caussa, tum co nomine nobis improbatur, quod  harmoniarum Phrygiarum vim  admirabilem minuit atque urctioribus finibus iucludit. JMovvt  plane eiusdem potestatis est at-  que (tvxd , eamque illarum har-  moniarum praestantiam descri-  bit, quae sua vi emergit , neque  ullo artiiicum adminiculo indi-  get , quo emineat magis elfica-  ciorque evadat. Recte inde col-  ligas, simplicissimas illas har-  monias luisse.  (torov SittcpiQt ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg loyoig rav-  D tov rovro noieig. r/fiug yovv orav fitv rov ullov dxovco-  I uev Ityovrog xcd itavv dya&ov grjtOQog cA kovg Xoyovg,  ovdlv ftfAft , ag £'xog tlxtlv , ovoivl' inuSuv 5e fiov avev 6 py a v ody , rptXol?  Xoyoi?, Comma posuimus post  opyaycoYt quo tautologia verbo-  rum facillime vitatur* IFiAol  Xoyoi enim h. 1. ajipositum est,  ut clarius indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav   TavTuv rovro notel?. Ceterum  notandum est, alteram etiam  significationem Alcibiadem tecte  indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?,  WiXoi? enim idem fere sonat  atque diXXoi? , ut satis lepido  ad Socraticam illam ironiam al-  ludatur, qua virum sapientissi-  mum usum esse acerbissima nemo  nescit.   ov 6% v jiiXei 9 oa? in o?  eineiv , ovSevl. De vario  ordine, quo Graeci gJs - ino? el~  Ttnv verbis usi sunt, vide annotat. p. 127. Significatum quod  attinet huius dicendi figurae, an-  notationem adi p. 63- Latiore  autem significutu serioribus tem-  poribus, ut videtur, hanc formu-  lam adhibebant Graeci, angu-  stiore, quem ipsa verba expri-  munt, antiquioribus. Nam si quis  autiquitus verbo aliquo usus es-  set, quod rei describendae minus  convenire intelligeret, ut id intelligere videietur, verbique ve-  niam peteret, illam diceudi figuram adhibuit. Perinde autem  erat, utrum Q)? ino? eineiv di-  ceret, an &S eineiv Itio?, Utro-  que enim verborum ordine uti  licuit in dictione , quae nihil  aliud significabat, quam quod ipsa  verba exprimebant. Serioribos  temporibus loquendi usu factum    est, ut scriptores eadem dicendi  formula adhibita veniam peterent  uou unius verbi minus accurate  usurpati, sed complurium, ueque  verborum solum, sed etiam seu-  tentiarum. Iam quo magis np-  tio , quam usus loquendi alicui  formulae indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo debiliora verba fiant necesse est,  nt quasi torpore quodam tenean-  tur, qui ordinis mutationem non  facile admittat. Exemplo pro-  verbia snnt, quorum verba sin-  gula eodem ordine plernmque re-  citantur, Exemplo etiam formula  est d>? Ino? ehteiv, quae simul-  atque latiore significatu adhi-  beri coepit , liberiore verborum  ordine gaudere desiit.   xdv navv q>avXo? %f o  A eycov. Potuisset etiam h. 1,,  si oppositionem adhibere voluis-  set, Alcibiades dicere xdv ndw  aya$o? o} xav ndvv <pavXo?  6 Xiycov , de quo dicendi ge-  nere supra diximus annotat, p.  299., et cuius exemplum paullo  sapra legitur, p. 215. C. Idv re  dyaSo? avXrjr?}? avXy , idv re  (pcwXrj avXrjTpi?. Quod moneo,  ut recte varba explicata credas  209. C. dnropevo? yap, oipai,  rev xaXov xal opiX&v av roJ,  d ndXat ixvei, rixrei nui ysv-  Vijc, xal n aped v xal anco v  pejivjfpivo?, xal r 6 x, r. A,   idv re yvvrj — - xare-  XopeSa. Omnes Socraticis  dictis percelli ait Alcibiades at-  que teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj zb5v GiSv k&y av, akkov kiyovzog, xav tzuvv  q>avkog y 6 ktyav, la v te ywtj dy.ovtj lav tt arrjff i dv  t» ftuijaxuw , lx7Ujtkrjy(itvoi i<5fihv xal xaTE%6(i.Eda. lyety  ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov xofuSy du£uv (u&velv, eimina sit, quae ea audiat) sive vir,  sive adolescens. Haec dicta quoniam comparantor cum Olympi  harmoniis , quae addito artificio  nullo , ipsa per se animos audientiam capiant, merito verba  mireris illic addita: xal SrjXot  xovS xcov Sedov te xal xeXcxcjv  beopivovS 8ui x 6 2 Eia elvai .  Neque placet, quod Riickertus  annotat ad haec verba : Non  omnes hac harmonia ad  divinum furorem excitati  sunt; qui autem essent,  cos ad divina mysteria  percipienda factos esse  hoc ipsum declarat* Nolo  pluribus huius sententiae axoniav y quae manifestissima est,  perstringere ; persuasum autem  habeo, verba Platonica vitio ali-  quo laborare. Pro 8i]Xoi xovS  xt ov $egjv scribendum esse vi-  detor: SrjXoi SvijtovS xav Segov,  quae scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim intelligitur.  Quid enim aptius est, quam mortales una commemorari, ubi sermo est de arctiore cum diis per initiationes coniunctione? Neque carent verba corruptionis verisimilitudine. Primae enim ONHTOTC vocis litterae quam facile in OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum, quod proxime praecedit, in OI exeat, fieri  facillime potuit, ut ulterunl OI  absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est , qui Platonem scripsisse arbitrati sunt,  quod hodie in omnibus editioni-  bus legitur: 6?jXoi r ovS.    Eyooy' ovv, cJ av6peS.  Iiaec vulgata lectio est. Iu tri-  bus Bekkeri codicibus paucisqur  aliis iyco yovv comparet, quod  haud scio, an non probandum  sit. Nam si io priore alicuius  enuntiationis parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia posteriore enuntiationis membro loquens inducitur, non est adiun-  ctus , iyoj 6* ovv vel lywy'  ovv poui solet, utrumque pio  oppositionis vel exceptionis ra-  tione, quam scriptor indicare vo-  luit. Contra ubi in priore par-  ticula enuntiationis alicuius ali-  qui commemorati suat , quibus  adiunctus est, qui ia altera par-  ticula loquitur, uou lycoy ovv  sed ly<6 yovv locum habet. Iloc  Bekkerus probat Comment. Cril.  in Piat. p. 357. , idem A&tio  placuit atque Riickerto. Stallbaumins in altera Symposii edi-  tione lycoy* ovv reposuit.   el /i)} HpeXXov xopi8y  66 B, E tv. Schol. ad h. 1. wo-  pi8q , inquit, xvplooS pev xo  impeXuS, o$ev xal opEoxopoS  xal yEpovxoxopoS * i 6 o 8 v v a-  jx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p a  xal xeX£a)S t xopi8y dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum  sensus est verborum huius loci:  Ego certe, o viri, nisi viderer prae nimia ebrie-  tate meras nugas narrare,  dicerem vobis loramento  interposito, quae mala  in me ab huius orationibus pervenerunt et quae     rtov vftocag av vfilv olcc Srj nticov&a avzog vito zmv zov-  tov J.vyav xal ndayco Ixi xal vvvl. ozav ydg axovo), itokv  E fioi (idllov tj tcov xoQvfiavzicovrav ij tb xagdla irtjda  xal ddxgva lx%tizai vi tb zav l.oyuv zav zovzov. oga  de xal akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag. Ilegi-  xbeovg de axovcov xal akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev  tjyovfirjv beyeiv , zoiovzov d ’ ovdev ixaGyov , ovdi zt-  tiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’ rjyavaxzei ag dvdgano-    perveniant etiam nunc.  Annotat Riickertas: Non dicerem tantum, uti nunc dico , sed iusiurandum adderem. Satis nobis  liaec explicatio displicet. Quasi  si quia mira narret ebrias, addito iuramento ebrior esse,  indicetur. E hcov ojjodaS av   nihil aliud siguificat quam: dicerem dictu mque iura-  naento interposito confirmarem, Ut autem rectius  Alcibiadis verba intelligas r homo  ebrius, quae perpessus sit, ea  ita mira esse sentit, ut a ne-  mine facile credantur* Igitur ne  vino prorsus immersus indicetur,  ai illa retulisset atque eorum Veritatem affirmasset , rem silentio  praeterire apud se constituit.  Post autem non tam mutato consilio, sed quod res ita ferebat  atque loquacitatis, quam vini vis  indidit, libidine ductus, quicqui^l  perpessus sit, aperuit tamen.   V * &v no pv fi av x i oov~  tcov. Annotat Schol. ad h. l.j  iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv  ippctv)}' opxovpivcov , ano tgoy  K opvfidvxcov , oi xal x potpeiS  xcu (pvXccxsS xal 8i8ddxaXoi  xov 4ioS eivat pv$oXoyovvTai,  TiveS 8 e rovS avxovs roiS Kov -  ptjtiiv etvai tpadiv. elvai 8e  xal x ijf ‘PeaS vnadovZ , ano xgjv xov JioS Saxpvcov yeys~  vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol ptv  3*, ol 81 i Xkyovdiv. Timaeus  habet xopvfiavxtav' 7tapepj.iai-  v£6$at xal ivSovtiiadxiHuS xi~  YEtdSai. IldSoS autem rcov xo -  pvfiavticovxcov vocabatur xopv-  fiavriadfioS, Quo morbo qui  correpti erant, tibiarum cantum  audire sibi videbantur ad salta-  tionem excitantem, neque tem-  perare sibi poterant, quin salta-  rent. Vides igitur, quam apta  hoc loco sit xciov xopvfiavxicjv-  xcov commemoratio , cum Socrates cum Marsya tibiis canendi  peritissime comparetur, cfr. Piat.  ‘Crit. p. 54. D, xavta, ai (piX&  ttaipE [ Kpixcov ] , ev ?b3z, oxi  iyco Saxei) axovEiv , &)Szep ol  xopvfiayriGivTES tcov avX&v <$o~  xovdiv axovEiv. Adde Piat.  Phaedr. p.227. B. dzavtijdas 8h  rd v o 6o v vx i zspl Xoycov  dxorfv, iScov phv, 18 odv 7/<537/,  ori eB,ei xov dvyxopvfiavxicovTa  x. x. X.   ev jtlv xjyovfirfv Ac-  yetv. Piaeterito tempore Alci-  biades bic utitur, quod Pericles  eo tempore iam obmortuus erat,  quo Agathonis ixivixia cele-  brata sunt. Ceterum ipsa verba  docent ev pbv rjyovpijv Xeyeiv,  quam necessaria lormala coS EizoS    'irillgteed   /\r «•' •         Sadwg dtaxEiplvov. cxXX’ vito tovtovX rov MciqOvov  stoXXaxig drj ovta Ster idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj fiica- 212  rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc , o Uiaxga reg,  oix Iqels cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9 Ipav-  rq> , ori , ei l%i). oipv TtaQeyew tu ara , ovx av xaQ-  tSQTj<faipi> cMa tuita av itdG%oipt . dvayxd&i yaQ pe  opoXoysiv , ori vtoXkov tvde^s av avtdg En Ipavtov  fikv dpeXc5 > tu 6 9 'Afojvuiav itQaztco. fila ovv, agitEQ    elneiv verbis sit p. 215, D.  ijpeis yovv otav pev rov aA-  Xov dxovtopev Xiyovzos xal  navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’  A 6yovS t ov8ev pe\ei — ovSevl.  — De pov pronomine nomini  sao praelixo , quo dativi com-  modi , quem vocant, vel incom-  modi notio exprimitur, vide Qutt-  manni annotat, in Indic, ad Piat,  Dial, IV. BeroI, 1822.   •$X oyrt Satis   usitata haec dicendi ratio tragicis poetis , quam rov evtprjpelv  ergo adhibebant miserrimam vi-  tae conditionem indicaturi. Sen-  sus est: Ut mihi miserrime  viventi vita non amplias  vitalis videretnr.   ovh ar xapr epij C atpi.  Conscios mihi sum, Alcibiades  ait, me etiam nnnc, si vellem  aures praebere illi , eius illece-  bris non restiturum esse , sed  eadem, quae antea, experturum  h. e. dySpano8co8d)S diaxEi-  CeCSat.   dvayxd^ei yap pe opo-  A o y eiv x. r. A. Argumentum  his verbis expressum habes eius  libelli , qui Alcibiades primos  inscribitur. Eum libellum ne-  gant hodie viri docti a Platone  conscriptum esse. Ac lieri po-  tuit facillime, ut aliquis Plato-    nis amator, qui haec verba le-  gisset, de hoc argumento ad Platonicorum dialogorum exemplar  dialogum conscribere apud so  constitueret. Quae autem verba in-  fra leguntur p. 216. B. ?}rrrfpiva>  ti)S npijs rijs vito ,rojv jroA-  Xgjv, comparari possunt cum Al-  cibiade I. p. 1S5. fin. ftovXol -  prjv dv Ce xal 8iaxeX/:Cai' o’/3-  ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet ani-  CrcSv , aAAa rr}v rfjs no\ ecoS  fiuprjv, pi) ipov re xal Cov  xpan/Cy.   fiiot ovv , cosnep ano  z&v Setpijvcav x. r. A.  Abreschius Lect. Aristaen. p. 147.  cum fiict commode explicari posse  diffideret, fivcov scribendum con-  iecit : (Uvoav ovv dsnep ano  r&v Seipijvoov iniCxopevot ra  tora oixopat tpEvycov . Recte  Stallbaumius hauc correctionem  improbat etiam ea de canssa,  quod illa odmissa verborum iun-  ctura existeret legibus elegautiae  orationis coutraria. Quis enim,  Stallbaumius iuquit, ferat ita lo-  quentem : Obstruens aures,  tanquam ab Sirenum canta cohibens aures, fugio  virnra. — hia cum olxopai  tpevycov Stallbaumius coniungen-  dum censuit, quae verborum iun-  ctnra nullo modo probari potest. ano uSv Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura , ofyofiat qjtv-  •yav, iva (irj axrtov xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQa-  B Oa. ntnov&a ds ngog rovrov fiovov av&gconav , o ovx  av rig oiot.ro Iv Ipol Ivtlvat , ro alojfvveo&ai ovnv-  ovv. iya da rovrov /rovov alo^vvoficu. | vvoiAa yttQ    Satis notum est exemplisque per*  multis probatur, oixopat tpev -  ycov eam fugiendi rationem de-  scribere, quae celerrima sit at-  que subitanea. Iam cum hac il-  lius dicendi formulae notione  quomodo (5i(t conciliari possit,  equidem non video* Nam quae  fihp aliquis facit, h. e. ut apud  Homerum legitur btriv aexovzl  ye is cunctanter agit at-   que animo minus obfirmato. Du-  bitari nequit, quin / Via ad liti -  CxoptVoS referendam sit, ut Al-  cibiades vix ac ne vix quidem a  Socrate quasi a Sirenum cantu  dicatur aures cohibere posse , eo  facto autem in celerrimam fugam  ee couiicere. Ceterum' ad Hom.  Odyss. hoo loco respicitur M. v.  59. et sqq.   iva ni) avxov xa$rj ut-  ros itapa tov rw xazayri-  pdooj. Summam laudem hia  et praecedentibus verbis conti-  neri Socraticae facundiae, nemo  non videt. Eam enim Socrati-  cae orationis vim esse Alcibia-  des contendit, ut omnes ea au-  dita per omne vitae tempus eius  auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab ho-  mine proficiscebatur, de quo Ne-  pos in Vita Alcib. haec tradit:  disertus (fuit), ut in pri-  mis dicendo valeret, quod  tanta erat commendatio  oris atque orationis, ut  nemo ei posset dicendo resistere. His, adde verba    illa, quibus Pericle Socrates dicitur plus in dicendo valuisse.  Periclem autem peritissimum di-  cendi fuisse accipimus, cfr* Cio,  de Orut. III. , 54* In eius  labris veteres comici,  etiam cum illi maledice-  rent, leporem habitasse  dixerunt, tantamque in  eo vim fnisse, ut iu eo-  rum mentibus, qui audis-  sent, quasi aculeos quos-  dam relinqueret.   o ovx av xi$ otoixo iv  Ipol iveivoti. Probatam ha-  bes bis verbis levitatem Alcibia-  dis supeibiainque eam, quam scri-  ptores Veteres passim tradunt*  Ceterum cave eodem significatu  dici censeas iv rivi ivttvai et  elvai Zivi. Conferri possunt  hae dicendi formulae cum Latinorum : alicui inesse vel in  aliquo inesse et esse ali-  cui. Ut elvai zivi ita Latino-  rum esse alicui adhiberi solet, cuhi alicui aliquid esse dici-  tur non addita, quae inter possi-  dentem et rem, quae possidea-  tur, intercedat, ratione. Evtivat  contra iv rivi et Latinorum in  aliquo inesse de eo plerum-  que dicitur, cui aliquid est, quod  cum ipsius naturu , ingenio , in-  dole artissime sit coniunctom.  Platonis verba Schleiermacherus  reddidit : w os einer nickt in mir  suchen solite. Haec nostratium  dicendi formula apprime respon- tfiuvTtp avullyuv fih> ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv  u ovtog xsXevh , £xh8ccv 8's &sc£l& cj , tijg   Tifiijs t% vtio zav tzqVjSv. dQajzsrsva ovv avtov xal  qisvya , xal ozav Z8a , alGyyvouai za wfiokoytj^iva.  xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv C  det Platoni* sententiae, sed verbi  ivetvat iv tivi nativam vim  non exprimit. Ea ut emineat  magis, verba sic reddiderim: Was  einer wohl nicht leicht meinem  Wesea eigentliiimlich glauben  mochte.   xij 5 ttftijs xrj s v it 6 xgjv  7t o X Xco v. Nequis forte scribendum censeat trjS aito xeov 7toX~  A cor, ut honor signiiicctur, qui  a populo proliciscatur : amant Graeci substantivorum passivam,  quam vocaut, notionem ab activa  discernere atque, ut exemplo utar  XifiijS vocabulo, accurate disiuu-  gere honorem , qui ab aliquo in  uliquein confertur, ab honore, quo  aliquis aliquem dignatur. Ti/S xi-  ji)}S igitur idem significare atque  tov XifiadSat addita vjto praepositione indicatur. Sed liberior  etiam huius praepositiouis usus  est. Haud raro enim cum verbia  neutris coniungitur, quae verba  possuut aliquo modo, quoniam  per se spectata neque actionem  indicant , neque itaSoS aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Haec nomina enim utrumque significare  possunt et actionem et itaSoS,  ut recte dicautur per se spectata neque hanc neque illam   uificarc. Sed ita ditfert vn 6  praepositiouis usus in nominibus  substantivis et in neutris verbis,  ut illis addita notionem, quae  ipsis inest, extollat, cum his coniuncta notionem novam quasi pa-  riat, quae notio no utris verbis  proprie non inest. cfr, Hora, II.  p. 319.   iv$a xtv avxe TpdoeS dpifi-  (piXoov vtc *Ax<xtG>v  " IXiov eiSavEfiTjticcv avaXxei-  Xfit Sajievxs? Adde II. p. S36.  cridooS pkv vvv ySe y dp?ft-  qjiXoav vn *Axai(vv  "IXiov eteavafiijvoa, avaXxei-  y6i SafievxaS.   His locis , quibus alia addi pos-  sunt innumerabilia, edoceare, li-  beriore vno praepositionis usu  elfici dicendi brevitatem , quae  sane gratissima est et venustis-  sima. Ad nostrum locum ut  revertar, statim intelligitur, quid  Alcibiades confiteri cogatur a So-  crate, et cuius rei pudor illum  hoc conspecto subeat. Nimirum  qui rtoXXov ivdei/S convinci-  tur esse (vide p. 216. A.), is  se percolere debet, non admi-  nistrare civitatem , quod fecit  Alcibiades populi aura dele-  ctatus.   ij 8 £o)S dv i8 oipt h. e.  rfSoifi7\v dv avtov ISqjv. Vides  igitur, magis ad adverbium, quam  ad optativum modum IStiv ver-  bi av particulam pertinere. Id  probatur etiam eo, quod omisso  adverbio dictio existeret pror-  sns non ferenda: xal izoXXaxiS  ptv i&oifi dv avtov pp ovxa avftQQMtois' tl 6* av rovto yivoito, sv old\ on itokv  fiel^ov clv «%9olgif]v , cj^tb ovx b%g) S xi XQrjGttpa t  Tovtcp r (3 dvftQcina. xcd vito piv di] xav ccvArjfidtav  itat lyco occa dAAoi itoXAot xoiavxa it BTtov&aOiv vnu  tov 8 b rov 2 <xxvqov.    iv dvSpcditoiS. Nulla enim ad-  est caussarum cohaerentia , per  quam fieri possit , ut Alcibiades  Socratem inter vivos non vide-  ret. Adest, ubi gavisurum se  esse Alcibiades dicit, si non vi-  deret Socratem inter vivos. Ita-  que quid de Platonicis verbis  rfdicjS UV VSoifii statuendum sit,  iam vide. Brevitatis studio t/SkcoS  i8oif.it ita positum est, ut duo  liaec verba unam notionem efiiciant, quacum av particula com-  mode consocietur. Simul sup-  plendum aliquid relinquitur,  quod quid sit, ex ipsis jjSkcDS  av iSojfii verbis elicitur. Oratio enim expletior audit r tjSkcoS dv  i'8oiftlj tl idotfit. Similis ver-  borum structura in Piat. Lachete  occurrit p. 182. c. V. fin. Aa-  XtjtoS 8’, tl n napa xavxct  Akyei, ndv avxoS ijdkool cotov-  CaifUy quae verba explicatius  enarrata audiunt : ndv avxol ?}-  6kcoS dnovdatju , tl dxovuaifii  AaxrjxoS, tl r i Ttapd Tama Af-  yti. Satis autem docet haec enar-  ratio verborum, quae tl duplici-  ter atque diversa potestate (wcnn,  ob) posito satis ingrata est, quantum orationi admiss? illa verbo-  rum structura suavissimae brevi-  tatis accedat.   no Ai) pti2,ov dv dx$oi*  fiijv. Pro fitigov scriptum ex-  spectaveris fiacAAov. Iliickertus  nd h. 1. : ut piyotj inquit, verbis  iuuctum est valde, v. c, Hom.   II. /i. 2u.    A.oS 81 roi ayytXol et/u  oS avtvSev £aj v, fit}' a   7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu  et v. 333.   gjS icpccc. *Apytioi 81 ftty  iaxov K t r. A.   sic etiam fiei^ov magis, ve-  hementius. Dictum pro fiti-  Zov dv &x$oS txoifu , — Fru-  stra rationem quaeras, cur a-  pud Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur  nostro loco fitigov dv dx$oi-  ftrjv non tam positum sit pro  fitigov dv dx^oifiijVy quam po-  tius idem atque illud significet.  In caussa hoc esse reor, quod  Graeci haud raro verba co signi-  ficatu adhibebant, quem satis in-  epto nomine, vocant Grammatici  praegnantem. MkyaK w)-  8txea igitur non tam est : v ai 1 d o  providet saluti tuae, quam  magnam tui curnm agit.  Eodem modo 9 Apyttot fiky  Iaxov explicandum est : Sie   schrieen gross h. e. sie erboben  grosses Geschrei. Plura huius  usus exempla laudata reperies  anuotat. p. 87,   coite ovx ott XPV -   dcofiai. Pro xPVoMfiai libri  omnes XplfeOfLat exhibent, quam  lectionem lluchertus, nimis rcli^  giose, ut solet, in textum recepit. Sed quid facias in contexta oratione scriptura, quam  ipse, qui eam recepit, explica-  Cap. XXXIII. "AXkct de epov axovGccre,  tyto aixatiu avrov , xal ryv    oSg 3 (loiog re tCziv otg  dvvcc[uv io s %avpc(Oiav    bilem atqne rei describendae ac-  commodatam negat ? Certum quidem est, scriptores haud raro formula dicendi nsos esse gjSts  ovh Hxv oti xPV^o^ioctj cuius  exempla Stallbaumius laudavit ad  Piat. Gorg* p. edit. 85 ( . , sed  haud perinde est, coniunctivo an  futuro utaris. Ac nostro quidem  loco si xPV<S°M<xi scribitur, ne-  scire se praesenti hora  Alcibiades confitetur»  quid cum Socrate faciat,  facturum autem aliquid  sese esse uua promittit*  Quae sententia quam inepta sit  atque ab huius loci .sensu aliena,  nemo non videt. Contra con-  iunctivo adhibito penitus nesciri  ab Alcibiade, quid in universum  dc Socrate consilii capiendam  sit, quaeve eligenda ratio homi-  nem tractandi, exprimitur. Quae  sententia, quoniam aptissima est  huic loco , quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem codicibn non recipiatur, XPV^°M°^  autem ineptae sententiae lectio  non reiiciatur, caussam equidem  non reperio.   neti vito j.tlr 8 y tcov av-  \y p dz w — V7C 6 tot j Se  tov Sazv pov. Av Xypaxa  Socraticos sermones significare,  Satyrum Socratem, nemo mirabitur , qui Socratis cum Marsya comparationem legerit. Ordinem  verborum quod attinet, proprie  dicendum erat xai V7cd ply Si }  tgov otvArjpdrcov tov tov tov  2£aTi>pov. Sed de industria Al-  cibiades hacc verba verbis com-  pluribus interpositis seiunxit, ut  maiore vi afficiantur verba rovSe  tov Scnvpov . Vide de hac   seiunctione verborum annotat, p.  59., p. 129. , al. Ceterum imo  praepositionem non sine vi re-  petitam habes. Nam cnm ea   eius potestas sit, nt cum Ttd -  $ovS notione plerumque couiun-  gatur, ideoque ipsa quasi colore  imbuta sit notionis illius: dupliciter posita haec praepositio  non quidem 7td$oS duplex ex-  primit, sed ndSov ST vehementiam,- qualis descripta est p. 215*  E. noXv pot paXkov y td>v xo-  pvfiavTicdyrcjv y re xapSia ny-  Sqi xal Sdxpva ixxeltat.  aWa 5 & i pov ctxov-  6 at e. Vulgo aAAa Sy legitur;  praeterea codices nou pauci pov  pro ipov exhibent. Riickertns  inde di pov edidit annotaus ad  h. 1. Nobis, inquit, nulla in  pronomine vis esse visa est ,  propter quam codicum lectionem mutaremus. Itaque Si pov dedimus : — Miror, Biickcrtum ita  iudicare potuisse. Etenim qnao  hucusque narrata sunt ab Alcibiade, ea, siquidem homini fi-  des habenda est, et aliis acciderunt* Ea igitur satu nota esse  Alcibiades contendit, adeoqne ni-  hil facere ad Socratis indolem  accurate cognoscendam, nt prae- i%H. tv yag la ts, ori ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u'  D dXXu tyco drjZadn , tjielxsQ vgaxs yag, on  ter Re neminem censeat ipsam cognitam perspectamque habere.  Quod igitur none Alcibiades probaturus est, id se tautummodo  expertum' docet atque se esse  unum, ex quo audiri possit vera  Socraticae indolis atque naturae  descriptio. Nihil igitur certius  est, quam ipov scribendum esse,  non fiov. Et quoniam mala mo-  do commemorata etiam alii per-  pessi sunt, haud dubiam est,  quin nova quaedam relaturus Al-  cibiades dXXct dixerit, non aX.-  Xci ; ea autem mala, quoniam  malis supra commemoratis oppo-  nuntur necessario, etiam di recte  habet, non 8t}, Nobis quidem  de scripturae veritate aXXa 6k  ipov y vel aXAct 8* ipov, quod  Bekkerus habet, ita persuasum est,  ut etiamsi omnium codicum de-  esset auctoritas, verissimam censeremus. Sed adminiculo suo non eget scriptura illa. Florentiui  enim codices aliique libri pauci  quidem sed non mulae notae eam  repraesentant.   ev yap idxe. Qui ad ver-  ha p. 208. C. xal r/, u>S7tep ol  xeXeoi dotpidxcA , Ey tdSi , iqrrj  sophisticum orationis colorem,  quem Plato verbis cu Sittp ol do-  <pidxctl indigitavit , in verbis ev  id$i deprehensisse sibi visi sunt,  Wolfius, Astius, Schleiermache-  rus , ii in verbis ev Idxe nihil,  quo Sophisticam artem odoratos  esse coniicias, annotarunt. Con-  cedimus quidem, heri potuisse,  ut sophistae 1 insto saepius illa  dicendi formula uterentur, sed  non ideo sophista sit vel sophi-  sticam artem imitetur, qui hanc formulam exhibet in oratione,  praesertim cum id facit, ut fecit  Diotima . semel,   d XXd iyta dyXcodco , $-  neinep ij p&a prjv. Cum em-  phasi verba pronuntianda sunt  dXXa iycj 8yXGD6co sc. oloS  id nv atque inprirais iyoS pronomen, quod ue exhibuisset quidem Plato, si in praecedentibus scripsisset aXXa de pov axov-  daxe , Ceterum supra annotavimus ad verba p. 2 15. D. iycj  yovv , co ctvdpeS , ei p>) ipeX-  Xov xopidy 8o£,eiv peSvetv, ei-  Ttov opodaS d v vpiv olat 8?)  jciitovScL X. T. A* , Alcibiadem noluisse primum, quid ipse per-  pessus sit atque adhuc patiatur  Socrate auctore malorum, enarrare, post consilium mutasse loquendi lubidine abreptum. Ea consilii mutatio ne forte artiheiosior  videatur atque minus ex humanae naturae indole petita: omnium  rerum difficillimum esse solet initium. Eo superato gaudium cor subit, quia superareris atque ani-  mus olterius progrediendi. Post  ne infectum relinquatur, iu quo  aliquid operae consumseris, totum  opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima memoria  versuum e Goethii Fausto peti-  torum , quos cnm Platonis ver-  bis iiteiitep ijpBtdprjv comparare  possis :   Das Mogliche soli der Ent-  schluss   Beherzt sogleicb am Schopfe  fasseu   Er will cs dann nicht  fahren lasse n   Und wirket w ei ter, tveil  er must. HaxQatyjs (gauxtog diaxtirai rav xctXi 5v xai «eI x&ql  rovrovg EOzl xai butiickipam. , xai av ayvotl mxUz a xai    i/jmrixojf Sidxeirat  roov xa\djv. Annotat Rucker-  tos ad h. 1.: Genitivus tgdv xa-  \65v pendet ex ipooTtxdjS e more  Graecorum vocibus derivatis eundent casum addendi , quem ver-  bum secum habet . Eodem modo  de hoc structurae genere Mat-  thiaeus disseruit Gramm. ampl.   540- p. 648. Possis etiam  ita tibi rem explicare, ut ipeo-  xixvS SidxEttiSai unam notio-  nem if^xv verbi efficere censeas  atque eius structuram assumere.  Ceterum nemo non videt, ipeo-  TixcoS StaxEitiSai multo gra-  viore significatu esse, quam ipav  verbum. Apprime enim Latinorum  perdite amare respondet, qua  formula dicendi inprimis comici  Latini usi sunt. Mirari autem licet  Graecae illius et huius formulae  diversitatem. Nam quod Latini  adverbio, Graeci verbo expresse-  runt, quod Graecis adverbio, La-  tinis verbo indicatum est,   xai av ayvoel itavxa  xai ovdhv o 16 e v , coS 1 6  uXVM a a vx o v. Vulgo haec verba ita edebantur, ut nulla  post avrov interpunctione po-  sita verba r 6 6xi)f*ct avrov   ad subsequentia traherentur. Qui-  buscum ut aliquo modo conve-  nirent, H. Stephaniis scribendum  coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov  ov deiXffYGoSeS, Haec scriptura  Fischero probata est et Bastio  et Wolfio; recentioribus interpretibus merito ea displicuit»  Longum est, omnes ingenii coniectnras repetere, quibus hunc  locum docti viri sollicitaruut.  Stallbaumius omnes loci difficul-  tates sublatas putat recepta, quam  Bekkerus et Schleiermache rus post  avrov posuerunt, interpunctione.  Videlicet, vir doctissimus ait,  csf xo <$XVl l0C carro v significat;  quemadmodum eius forma  et habitus est h. e, queoadmodum ipsa eius forma  et habitus prodit. Eadem  Riickerti sententia est, quae cur  nobis non placeat, paullo infra  dicetur. Priusquam enim singula verba adeamus , totius loci  sententia paullo accuratius examinanda est. Omnis Alcibiadis  oratio in duas partes dividitur:  altera res continet convivis satis  notas, sed quae ad cognoscendum Socratis ingenium haud mul-  tum faciunt, in altera commemorantor, quae ex Alcibiade so-  lum audiri possunt fefr. p. 216.  C. «?AA a 81 ipov axovdars) e®  quibus solis ad Socratici inge-  nii indolem cognoscendam audi-  tores ducuntur. Ac de poste-  riore illa orationis parte infra  dicetur ; prioris initium verba  sunt opaxe yap. Quae verba  praecedentibus opponuntur ; tv  yap fdtE, oxt ov8e\s vpdov rov-  x ov y ty y ai 6x Et. Tangi igi-  tur videtur opdxE verbo incogi-  tantia convivarum, qui, quod  oculis cernant, id credant, cum  non debuissent credere, contra  quod debuissent, nou videaut.  Iam ad particula, quae in ver-  bis repentur xai av ayvoEiy  indicatur et haec et subsequen-  tia verba eadem conditione, quam  praecedentia, poni, ut expletior  oratio audiat: xai o par e , oxt  ayvoE i x. r. A. de qua vi av  particulae vide annotat. Nura cum hac orationis confm-  (XvSlv ocdsv , log to (>XW a ocvtov. tovto ov Gcifoivcj*  6sg; Gqjodga ye. tovto yag ovrog negLpapAyTcxi,   cogiteg 6 tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev 6s avorfitig  n otiijg , ofetfte , ysuti , iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu , aacpgodi J-  mationc satis convenire censes verba cjS to <SXVl ia clvtov ,  quemadmodum ipsa eius  forma et habitas prodit?  Sed hoc ut mittam , turpi vultu  protervoque Socratem fuisse acci-  pimus , fatuo a nemine scriptore  traditum est. Neque cura turpi-  tudine atque protervitate vultus  fatuitatem coniunctam esse necesse est. Recte autem inspectis  Platonicis locis , ubi inscientium  Socrates et vero etiam fatuitatem  quandam animi ostendit ( cfr.  annotat, p. 290.)» doceberis, ver-  bis atque libera rei confessione,  non forma et habitu vultus cor-  porisque id fieri. Nemo igitur  oculis cernere potnit , sed auri-  bus tactum percipere inscitiam  Socratis, ut male xal av (opd-  Tf)gd$ to 6XVM a ccvtov  verba coniungi censeas. Verba  autem ayvoei TCavia xal ovSev  oldev etsi aliquo modo defendi  possunt, tameu habere, quod of-  fendat, prudeus lector intelliget*  Deleta autem litterula una et  tautologia nobis quidem ingra-  tissima removetur, et commodiore  sensu coS To 6xtyM a ocvtov verba  afficiuntur. 'Scribendum nimirum  esse censeo : xal av ayvoei   navTa xal ovSh oldev , cJs" to  ( 5XVM a ocvtov. Iam sensus est  totius loci: Oculis vestris  videte (atque credite), Socratem iuvenes pu1cros perdite amare semperque iis se adiungere  eorumque summa admiratione teneri, et rursas  omuia nescire, ac ne scire  quidem, qui ipsi sit habitus externus h, e. ne curare quidem corporis cultum et vestitum. Olim coS  to 6XW& avrov convertendum  censebam: wie cr sich das  Ansehen^giebt, quae conversio optime conveniret cum  opdre verbo. Sed Alcibiades  hoc loco narraturus, qqge in Socrate oculis cernantur, cum pulcrorum iuvenum studium comme-  morasset, quod revera simulabat  Socrates, et inscitiam, quam interdum vel gloriabatur, incuriam  corporis, quapi immunditiem vocare possis, nullo modo silentio  transire potuit. Satis notum enim  fuit, Socratem raro lavasse, rarius  capillos compsisse atque omniuo  ceteram corporis curam adeo neglexisse, ut v. c. Aristodemus  cum lotum conspexisset atque  calceatum Socratem, insolentiam  rei meratus ex eo quaereret:  quonam iret ovteo xaXoS ye-  yevrj pivoS . Vide Sympos. p. 174. A. Ceterum dxt/poc vocabulum de cultu corporis atquo  de vestitu significando Graecis  in usu fuisse, satis docere pos-  sunt Plauti verba Amphitr. Prol.  V* 116.:  Nunc ne hunc ornatum vos  xneum admiremiui  Quod ego huc processi sic cum  servili djjqpa   Veterem atque antiquam rem novam ad vos perferam:  Propterea ornatus in novum in-  cessi modum. v>;g; iGxe , oxi ovx’ , tl rtg xaAos loxi, jitXti avxaJ ovSev,  kU.u xatacpgovtZ xoOovxov , o6ov ovd’ av tlg olrj&tit], e  ovx’ tl xi s irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd xijirjv iyav  xuv vito itkrfiovg jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa    Sequentia verba rovto ov (Sei-  Xtjvc38eS ambigua potestate di-  cuntur, ut iis ad alteram partem  orationis paratum aditum habeas, qua verum de Socratis ingenio iudicium continetur. ^SsiXrfVco-  8eS enim de externa figura ita  dicitur, ut Socratis vultum indicet similem fuisse Silenis; et ad  cetera, quae praecedunt, verba  tractum Socratem similem Silo—  norum perhibeat. Iam iudicare  possis de verbis (Sqpodpa ye, quibus titramque 6ei\ijvaoe5 voca-  buli relationem Alcibiades sibi  probari indicat. Sed alteram  tantummodo verbis sequentibus  exprimit hoc agens, opinor, ut  subita novae rei commemoratione,  ud quam rem audiendam animi  convivarum minime parati essent,  acutissimi iudicii admirationem  et gloriam certius atque celerius  assequeretur.   rovto ydp — 7tepifl&-  pXijrat, rdp particula du-  plici relatione hoc loco posita  est , ut et ad rovto GeiXtjvg)-  8eS pertineat et, ad notaudum  convivarum errorem, qui Socratem talem esse putaverint, qualem oculis viderint, ad verba referatur p. 216. C. ev yap fore,  Zri ov8elS v/uav rovtov yi-  yvojtixeu Sensus est: Namque  miram hanc Silenorumque  protervitati atque im-  munditiei consimilem for-  mam ille induit Sileno-  rum instar, in artificum  officinis sedentium, qui    intus reconditas statuas  deorum pelle x sua conte-  gunt.   7to6rj^ f oVe6$e t ye/tei.  Haud raro mediis interrogationibus verborum interponuntur secundae personae singularis atque  pluralis numeri, quibus provocantur, qui rogantor, ut ipsi uua  rem interrogatam iudicent, atque quid ipsis videatur, aperiant.  Hic dicendi usus Graecis haud  infrequens, neqae a nostratium  more alienus est. Duo autem  snnt, quae verbis hoc modo interpositis efficiuntur: gravitas au-  getur interrogatae rei, et alacritas interrogationis amplificatur. Compluria huius structurae ex-  empla apud Graecos scriptores  Stallbaumius attulit ad h. 1.,  Ruckertus ad Piat. Symp. p.  202. B.   d A. A a nat aqxpovEi  oX. r. A. Haec proYsus conve-  niant cum Diotiinae praecepto  laudato a Socrate p. 210. B.  &vo? ro CcpoSpa rovto^ar-  Xdtjoti xauxppuvijdavra xa\  tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quae insequuntur verba ovd av tiS  scribae alicuius imperitia in ot;-  dfl? dv mutata sunt, quam lectio-  nem unus exhibet codex Bek-  keri. Alibi notavimus ovSs tls  significare prorsus nomo,  de quo significatu  sub v. ou6£ ei?. Haec verba  etiam ibi exhibere amant scripto-  res, ubi allectatam orationis gra-  vitatem rejvacsenUut. Possis ea   23  ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t« xal qpag ovdlv tlvat,  tlgavEvi^uvog Se xal icai^av nonna w filov itQog tovg  av&ganovg duratei. tSxovSaOavzog de avzov xal avo i-  Z&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e tu ivzog dyalfiaza' a te'  lyto ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza titia xal  SI 7 jjpvtfa «&>» xal ndyxala xal tiavfiudza , Sgzt nouy    h. 1. convertere: nemo gen-  tium. Verba convertit Stall-  baumius: quantopere nemo  quis quam crediderit.   xal i/fiaS ovSlr elvat,  Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS  scribendum censuit XlpaS. Non  recte t neque placet verborum  conversio Stallbaumiana : atque  nos, qui talia appetamus»  nullo in numero haben-  dos censet. Verba convertenda sunt potius : atque nos,   qui talia possideamus, flocci  pendit. Loquitur enim Alcibiades , homo ditissimos atque o-  xnoium rerum honore, quas mul-  titudo admiratur, abundans. Qui  cum se contemtum a Socrate  vidisset (cfr. p. 219. A. seqq.),  insuetae rei experientia motus  verba proTert xal rjpaS ovSkv  elvat. Sed ne ingenuitatem Al-,  cibiadis forte non agnoscas, ani-  mique nobilitatem, TjpaS ovdlv  tlvcn verborum magis etiam, quam  nos fecimus supra , lenienda est  interpretatione asperitas. Signi-  ficare igitur contendimus: omnes, qui talia possideamus iisque gloriemur, floc-  ci pendit.   tlpovevopevoS Si xal  7t algor, cfr. Cic. de Orat. 2.  Urbana etiam dissimulatio est,  cum aliter sentias ac loquaris.  In hoc genere Fannius in annalibus suis hunc Aemiliaoum fuisse et cum Graeco verbo appel-  lat eYpojya , sed uti ferunt, qui  melius haec norunt, Socratem  opinor in hac tlpoveia dissi-  mulautiaque longe lepore et hu-  manitate omnibus praestitisse.  Adde Cic. de off, I. c. SO : de Grae-  cis autem dulcem et facetum fe-  stivique sermonis atque io omni  oratione simulatorem, quem rf-  poora Graeci nominaverunt, Socratem accepimus, v   ta £vt of dyaXpata.  Respicit Alcibiades ad Silenos in  artificum officinis sedentes, quos  idem dixit p. 215. B. 8tj (aSe  8totx$ivraS ostendere ayaXpa-  xa J&ecav. Hinc explicatur fa-  cillime, qui fiat, ut cum drtov-  Sctuai verbo avoix$yvai verbum coniungatur. Sileni eaim  cum aperiuntur, fraus detecta est  Silenique nihil nisi capsulae esse  reperiuntur rerum divinarum.  Recte Ruhnkenitis ad. Timaei L.  V. Pl. ayaXpa proprie dici mo-  net quodeunque grata sui  specie oculos delectet.  Recte igitur Stallbanmins anno-  tat : ra ivtoS ay aXfiat a  intelligi species illas vir-  tutis in animo Socratis  conspicuas. Praeter alios,  qui Platonis locum imitati siut,  scriptores, idem Ciceronem laudat Legg. I. 22. Qui se ipse  norit, aliquid se sentiet  habere divinum mgenium-    xiov elvai Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS- yyov[itvos  de avrov ionovSaxivai iit l r y Ifiy aga Sgficuov yyy-  adfnjv tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov &avfiaUTov, cjg vxdg-  %ov [tot %ttQiaa[iiv<j Etoxgdrct nave’ ccxovGai, oGa-  n cg ovrog fjdct. itpgovovv yccg drj ini ty i aga &av-  (idoiov ocJoi/. zavxa ovv diavoy&als, ngo tov ovx    que i n N s e sunm sicut si-  mulacrum aliquod dedi-  catum putabit.   nai jioi ido£ev. In aliquot  codicibus pro pol legitur Ipoi,  quod Bekkerus in ordinem ver-  borum recepit* Iniuria , ut vi-  detur. Ey g> pronomen in prae-  cedeutibus verbis necessaria de  caussa positum esse, videlicet ut  aliis, qui forte dyaXpaxat io  Socrate latentia spectaverint, Al-  cibiades se opponeret, extra du-  bitationem positum est. Sed ideo  non necessarium est , ut et in  sequentibus verbis pari gravitate pronomen exornetur. Plane alio  verbo accentus orationis ponen-  dus est , quem si tenaciter in  pronomine posueris atque ipoi  scripseris, vide, ne sensus effi-  ciatur ab huius loci natura alie-  nissimus. Diceret enim Alcibia-  des holi ipoi i6o&£Y non alio sensu, ac si opinaretur, esse posse  illorum dyaXpdxoov spectatores,  quibus ea non divina, aurea, pulcherrima et summa admiratione  digna videantur.   <2sta itoirjr kov — o tt  xaXevoi 2ajxpdtrjS h. e.,  ut illico Socrati me eman-  cipatum censerem, neque  quid ego, sed quid ille vellet, faciendum puta-  rem. Pro xehevot vulgo xe-  tevst legitur. Illud ex optimis  codicibus recentiorum editorum  consensa receptam est.  Zppaior fiyrjtfd prjv el-  V au De Zppdtov vocis signi-  ficatu vide annotat. p. 88. Ce-  terum Schol. Bodl. , quem Kuk-  kertus laudat, haec habet : ip-  paiov ru dnposdowfxor nipdoS  ano xcov ir xalS oSoi X anap-  X&r t aS ol odoinopot xare-  65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS odols  ZSoS ijv ISpvoSai tov * Eppijv ,  itap o xa\ ivodioS \iyexai.  Quod sequentia attinet noti evrv -  Xrjpct ipov SavpadTov, ud haec  verba Riickertas, Duplicem , in-  quit, video pronominis expli-  candi rationem y vel ut in ipov  vim inesse dicas , quod Alcibiades sibi hoc, non aliis contigisse  gaudeat j Socratis ut amorem ex-  citaret: eximiam meam fortunam; vel ut pronomen possessivum pro dativo usurpatum interpreteris : eximia mihi hoc  fortuna contigisse . Qua-  rum utram praeferam , nescio.  Neutra nobis placet. EvTV£ipACt  ipov eodem modo dictum est,  quo nos dicere solemus: meiu  gutes Gluck.   v   itppov ovr yap St/. Pro  Sij vulgo r/drj legebatur. Illud  fiekkero debetur, qui id ex optimis codicibus restituit. De ironica 6rj particulae potestate vide  Indices sub v. 6i/. Rem quod  attinet, iuprimis conferendus est  locus Piat. Alcib. 1, p. 104. A.  xa yap vndpxovxd tSoi peyaAxt  23 * EiaQcog ccvtv axol.ovftov fiovog fisz’ avtov ylyvEG&ai,  tote dzozk^zav tov axbkovftov fibvog (SwEytyvof tyv.   B Ssi yap zgog vpag zuma r afai&ij eItcelv. alia ZQog-  e%ete tov vovv' neti tl ipEvSofiai, ZwxQccTEg , l£tisy%s-  CWEyLyvo^rjv yap, avdgtg, pbvog povco , xal (pjirjV  avTLxet diakli;E<f&at, avtov poi, cczeq dv Igatityg zai-  ducolg iv igrjpla diaXz%%Elri , xcd tyaiQOV. tovtov 6’  oi3 pdl.cc lylyvETo ovdiv , alti uszeq zlvjftzi , Scate-    ri vai , gq$T£ jiijSevoS SettiSaif  ano tov dcopazos dp&apsva xs-  Aevtgovtci eis xrjv iftvxrfy ' olei  ydp 8 i/ elvat npootov per xaX-  kitixoS te xal pkyi6xoi* xal  xovxo fic v 8 ?} navxl drjXov  iSalv, uxi ov ipevSy.   07 *x eImSgoS dv ev cixo-  XovSov povos per* aw-  xov y. Haec verba ne falso in-  terpreteris) Alcibiudemqae forte  statuas solum Socratem ita convenisse, nt semper tertius adesset: Athenienses ditiores domo  non exibant, quin servam sccum  ducerent, qui, si quid opus esset  in via, id curaret. Hinc factum  est, ut Alcibiades quoque tum ad  alios, tum ad Socratem nunquam solus accederet , sed semper pedisseqnunt una adduceret.   ansp.dv — SiaXsxS  Opinabatur Alcibiades , Socratem  talia sibi dicturum esse, qualia  soleat , ubi solus sit cum amasio, umator dicere, atque vehe-  menter gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis p,  217. A. 6 j? vndpxov poi x<*pi-  tiapkvco 2coxpdz£i it dive axov -  dat, udanep ovxoS y8et. Sole-  bant enim amasii amatoribus gratificaturi obsequii praemia sibi  expetere, neque se dare, nisi,  quicqnid expetiexint, consecuti    t   essent. Cfr. Piat. Menon, p. 76.  B. , ubi haec leguntur:   M. aXX f insi8dv uot <Sv  tovt 9 tinyS, oo 2rixpa-  teS , ipdS 6oi.   2. xdv xaxaxExaXvppkvoS nS  yvotr/, oJ Mevgjv, StaXeyo -  pkvov 6ov , oti xaXoS ei,  xal ipadxal 6oi hi eldiv .  M. tl 8?} ;   2. oti ovdlv aXX* rj inirar-  teiS iv roiS XoyoiS' unsp  noiovdiv ol t pv<p<5vTES, UTE  tvpavvEvuviES , ccdS dv iv  g opa &)6iv.   aXX* c SfnEp eIgjSei, 8ia-  \£X$£ } iS [av] poi — ctm-  c ov. Annotat Stallbaumins ad h. 1. :  Pertinet, inquit, dv particula ad  universam sententiam ideoque  connectenda est cora verbo prin-  cipe enuntiati coxeto , ita ut in-  dicet actionem saepius repetitam:  solebat identidem disce-  dere, de quo loquendi genere  optime disseruit Rostius Gramm.   120. 5. c. p. 460. Itaque non  est quod cum Astio corrigamus  arra poi , aut cum  uno cod. Yiudob. dv deleamus.  — Perscripsi integram viri do-  ctissimi annotationem studioseque legendam Symposii lectori-  bus commendo. Nobis quid do sr.    35?    jrfolg [ av ] fwi 6vvt]{iiQtv<Sag (yycro (\xiav. (itra  ruvra GvyyvfivafcGdcu trgovxaj.ov/ujv avzov xai G wt- c  yi>y,va£6[t>]v , Sg x t ivrav&a mouvcov. Gvvcyv(ivatcro  ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis ovSsvog nuQovzog.  xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/ dh  ovSccfiij ravTij tjvvtov , ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei  ctr6pt xaza ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ  iy/.iyiiQr[xr}, akka iaziov IjSt] , ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quaeris,  hoc est: Contra Alcibiadis vo-  luntatem contendimus esse istud :  solebat identidem disce-  dere, quem haud verisimile est,  cum, quod speraret, saepius non  evenisset , quoties cura Socrate  congrederetur, toties exspectasse  avtixa SiaXeZedSai avrov x.  t. A. Etenim quem saepius spes frustrata est , is sensim sensimque ei diffidere solet atque lae-  tissimam , quam antea habuit,  exspectationem ex animo removere. Igitur si saepius rem il-  lam factam accipias, vereor, ut  etiam xai ixaipov verba satis  bene habeant. Verborum ordi-  nem quod attinet, dv particulam  eo loco positum habes, quo mi-  nime exspectaveris, Iam cum necessarium non sit, ut res ab Al-  cibiade narrata saepius facta esse  cogitetur, eius autem repetitio  cum singulis ALCEBIADE verbis no  conveniat quidem satis, nihil ve-  riti codicum auctoritatem, quos  in falsissimis interdum consen-  tire vidimus, av particulam un-  cinis includendam curavimus.   tivyyvfivacledS at itpo v-  HaXov pijv avrov . Vide  quae annotavimus ad verba xai  7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’.  Rem quod attinet, semel fastam esse contendimus. Nam quod  paullo infra legitnr TtpoZfitu.-  A ais ito7(\axiS ovdevoS napov-  roS , ita intelligendum est, ut,  dum GYMNASTICA cxerceicnt So-  crates atque Alcibiades, saepius  non aff uisse docearis, qui una se  exercerent aut luctantes specta-  rent.   xai ti deiXiyBiv, IJac  formula dicendi uti solent, qui  sunt animo commotiore, remque  sibi injucundissimam quam fieri  potest paucissimis verbis enarrare cupiunt. Accentus autem  orationis in Xkysiv verbo po-  nendus est, quod praegnanti si-  gnificatu positum idem fere de-  notat atque doXtxov xataxtl -  VBiv tdv A oyov. Quae sequun-  tur verba ovdlv yap poi : nXiov  rjy , recte Stallbaumius interpre-  tatur: nihil enim pro ficicbam.   xa\ ovx — iit e tSijit e p  lyx£X&ipVxy. Haec prorsus  conveniunt cum verbis supra le-  ctis p. 216 0 aAXa iym 6y-  XadcJ, izeinep i/pbdptjr, ad quae  verba vide auuotut. p. S50.   aXXd idt iov IjSrj ti idti  to itpayya. Solent haud raro  Graeci scriptores commemorato  eo , quod faciendum sit, addito-  que, quod non faciendum sit,    358    nAATSINOS    xcriLovfiai Stj ccvtov ftQog zo GvvSukvhv , dzc^yag tog-  itCQ ipadzrjg itaidixoig ImflovtevQV. xat fioi ovSe  D zovzo za%v vnfjxovGtv , ofiag S ’ ovv %Qova indaftrj.  ixudrj da atplxtzo to xquzov , Semv/jGag andvai  Ifiavltzo. xal tote fiav ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov.  av&ig da ijctflovAtvGctg , httiSt] idcdiixvyxu , SisXsyo-  fitjv 7 to(i$o) ztZv vvxzav , xcii IzEiStj tfiovhEzo ajrta-    quasi , quid faciendum sit , non  commemoraverint, id verbis paul-  lisper immutatis atque aXXa par-  ticula adhibita oppositionis augendae gratia repetere. Idem  igitur significant verba £8o£ii pot  iniSexkoy elvai rw avdpl xat a  to xapzepoy et IdxkoY i)8tj t L  idn to itpaypa, Exemplum est  huius structurae p. 210. O. pexa  Sk toL imrrfdsvpocxa hei xaS  iiet6xt}paS ayayeiv , %ya i6y  ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai  fiXkncov itpos txoXv i/Stj  to xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory — d A A.* liti to  txoXtj itkXayoS xexpap-  pkvoS x. T, X . Wyttenbachius  Bibi. Crit. V. I. P. I.p. 50.  scribendum coniccit aXX Itiov  hti to itpaypa, quafc scri-  ptura eo nomine nobis improba-  tur, quod cuiu praecedentibus  verbis, quibuscum convenire de-  bet, poi iitiSerkoy eirat   rcJ dvdpl xaxa rd xaprepov ,  multo minus, quam aXXa IdxkoY  t/St}, tI idn to itpdypa f conso-  ciutur. Idtkoy verbum quod at-  tinet, ub Idtiv derivatum esseceo-  seut iulcrpretes , ut seusus sit;  videndum est, exploran-  dum est. Vide Butttnuiini  Grarnm. ampl. T. II. p. 116*  Nobis «b tidkycn semper deri-  vandum cs»e videtur, neque tamen  sciendum e * t recte converti.    sed faciendum est, nt sciam.  Vide annotat, p. 207«, p. 169. al.   vSitep ipadxijS  7 t aid txojs kitiPovXevcov.  cfr. p. 213. C. xal xov 2co-  xpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai , opa,  et pot InapwiiS' ce? ipdl o  TOVT0V ipcoS xov av^pooitov  ov (pavXoy Ttpaypct ykyover x.   T. X. t quae verba nostris expii-  cautur. Xpoyco , quod sequitur est: multo tempore prae-  terlapso.   rd TTpdoxov, dsinvifdaS.  Olim posita ante T o TtpdxTOY di-  stinctione haec verba cum se-  quentibus iungebantur . Quod ita  recte fieret , si semel venisset  Socrates atque tum initio quidem  abire post coenam voluisset , post-  ea vero a proposito destitisset .  Quum autem tum revera disces-  serit , fuit utique ita distinguen-  dum, ut Jactum est inde a Bek-  kero, llitckert.   It 6 (i f> 00 TQOV Y v X T 00 V h. C.  in multum usque noctem*  cfr. Piat. Protag. p. 310. C. xai  Ixi per iyextlprjda evSvS napd  dh levat, 'intixd poi Xiav nop-  facd £8o£e zdoy vvxxuv elvai,  ad quem locum Stallbuumius lau-  dat p, ed. 24.1 Aeschinem adv.  Ctcsiph. $. 122. for} 6h 7tO{5()u  rijS r)pkpa$ ovdrjS* Ceterum ne  vcu, <Sxt]m6(iEvos , ou otiis tirj, XQOSTjv&yxaGa avtov  fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj ixo/iivy ijiov xMvy , iv  yitfQ IStinvu , xai ovSslg iv ta olxrjfiau tiklog xa9-  tjijSsv rj ijfis ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E   xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv Xtytiv tb 8 ’ iv-  ttv&ev ovx av nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov  ( iiv , tb Xsyofievov , otvog avsv ts acudcov xai fisxa    pluralem numerum mireris, vv-  hteS non noctes sunt, sed horae  nocturnae, de quo significatu  vvxxeS yocis vide Stullbaumii  annotat, ad Piat. Phileb. p. 158.  Quod sequitur xai inEtdi) ifiov-  Xexo dnikvat, eodem modo, ut  praecedens amkvai ifiovkEto non  convertendum est: abire vo-  lebat, sed velle se abire  dixit. Vide annotat, p. 169.  et p. 207. , * t   dxrjnx optv of , ori  eXrj. Timaeus habet L. V. Pl.  ^MjittOfiEvoS. npoq>adi^6pevoS.  Kecte. Etenim qui ipse non habet  in se, quo aliquid probet aut ex-  cuset , eum niti oportet in re  extrinsecus petita , h. e, npo-  tpadet rivi-   iv ty lx» /tcvy l)iOv  xXivjf. De horum verboram  significata supra dictum est an-  notatione p. 838. ct 334. Prae-  ter locos illic commemoratos con-  fer etiam R. Kubnerum ad CICERONE, TUSC. DISP., ubi laudantur Pind. Olymp.  I. init. prjd' 'OXvpniaS aya-  ya (pkpxepov avdddopev ibique  Boeckhii annotat, p. 104. , Cic.  T. D. I. 1. $. 2. : quae tam ex-  cellens in omni genere virtus  In ullis fuit, ut sit cum maiori-  bus nostris comparanda ?  xaXtiS aif A kyetv. Scriptum exspecta-    veris primo obtutu naXdjS av  Hx<n ojSte npoS ovuvovv Ac-  xxkov elvai, Kai pro gjSxb po-  sito vario modo verba explicari  possunt. Facillima explicandi ra-  tio videtur ea , qua post xai ,  Eivat verbi optativus subintelli-  gitur. Optativum autem sty recte  omitti posse contendimus tura,  quum antecedit, ut hoc loco, alius  verbi optativus modus , ex quo  ille facillime eruitur. Explica-  tius igitur enarrata verba au-  dinnt: pkxpt pev ovv 8r) Ssvpo  tov Xuyov xaXdtS dv %x ot C°  iX eyov) xai eltj npoS ovxtvovv  Xkyeiv . itp&xov filv, — olvoi  avev x £ naid&v xai pexa  ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus  proverbium : olvoS xai aXjfSeia,  ad quod hic respicit Alcibiades,  Cfr. Athenaeus II. p. 37. E,  $i\6xopo$ 8k tprjdLV, oxi ol ni-  yovxeS ov pdvov havxovS kpipa-  vlB,ov6tv ol xivkS eldiv , aXXa  xai xgjv dXXoav txadxov dva-  xaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayov-  xes. oSev Oivof xai d\?}$eia  Xkyexai . Idem II. p. 38. B. Anr  tiphanis versus laudat hos:  Kpvtyai, $eidia,  anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,   nX?}v Svoiv   olvov xe nivoav eis ipoora t*   kpitEdQJV. 1   itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V l<Sai ZaxQutovs %ov  vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot tpalvezui. apcporspa fiTjvvEi ydp dito tc2v   (3\EUpd.TGDV   7ca\ to5v A oyaov rav$\ g)$te  tovs dpvovpivovS  fia\l($TGL roVTOVS XatCKpaVEiS  avrovs iroieiv . Schoh praeter notissimum oivo S  Tioci aXrjSsia, quod dici ait £n\  t<uy iv fteSj/ x t}v ciXt/Seiav Ac-  yovrcov, alterum proverbium lau-  dat : ro £v ry xapSine rov v?j-  q>ovroS ini ry yXd>66y rov pt-  &VOYTOS, Illud proverbium nostro loco ita laudatur, ut verba  addita sint dvtv re naldcov xal  pexa Ttotidooy , quod additamen-  tum vera crux fuit interpretum  omnium, Ficinus habet: Vinum  «t cum pueritia et sine pueritia  est veridicum. In conversione Schleiermacheri legitur : Bis hier-  her nnn kdnnte man die Sacho  noch unbedeiiklich iedermann er-  sahlen ; das folgeude aber wiir—  det ihr wohl nicht von mir  Jioren, tvcnn nicht zuerst nach  dem Spriichwort der Wein  mit o d e r ohoe Kinder die  Wahrheit redete. Prorsus eo-  dem modo Schulthessius verba  reddidit hoc tantum a Schleier-  tnacheri discrepans conversione,  quod naidoov nomen Knaben  convertit. Stallbauniius verbo-  rum sensura esse ait: vinum  efficit, ut verum dicatur,  sive PUERI epuli s intersint, sive noa intersint;  h. e, virium non pueros tan-  tum, sed alios omnes n d  verum proloquendum s u-  C1 tnt. Aliter nobis videtur de  limus loci explicatione statueu-  dum'esse. Accurate tenendum  quae hio narret Alcibiades, ea ita proferri f ut errores exponantur auditoribus, in quos ille  olim inciderit, et quibus prae-  senti tempore non amplius ob-  noxius sit; Colligitur hoc cum  ex «diis locis, tum e verbis p,  217. A. yyovpevoS 8'e av rov  £<jnov8axivai fnl ry £py d/pa  Bppaiov ?}yrj6dp?/v elvat x. r.  A. fieri autem solet haud raro,  ut aliquis, quem dirus error olim  vexabat, ubi ab eo 'liberatum se  sentit, ipse in errorem illum quo-  dammodo illudat. Neque pugnat hoc cum aestimatione ea, quam, qui  nunc vivant, significantius quam  rectius, egoismum vocant. Nam  qui erravit, errorem autem agnovit atque correxit, is magna cura  hilaritate animi alium, atque fuerit antea, se nunc esse intelligit. In errorem igitar illudens aliquis, cui olim obnoxius fuit, non  tara in se illudit, quippe ab errore  liberato, quam alteri illi, qni errore  devinctus fuerit atque qaasi ob-  caecatus. Non mireris igitur,  Alcibiadem ipsum sibi illudentem  induci verbis p. 217. A. Itppo-  voyv yap 8 rj ini ry copae 5av-  padtov u6ov y neque mirum, eundem etiam verbis olvoS av ev  re 7t ai 8 cov x al pera itai -  8 cjv tjv uXrjSpS gravius in se  invehere. Respicit enim ad er-  rorem illum Alcibiades, quo ex-  istimabat, fore, ut servo remisso,  quem secum habere solebat, So-  crates opportunitate loci gavisus  ad AMATORUM modum secum col-  loqueretur. cfr. p. 217. A. ravra  ovv SiavojjSets, xpd rov ovx  eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos  pet avrov yiyvEdSai , tore  unant pnw %av dxoXovSov po-  ht bl to rov 8q%&tvtog vito rov cos sea9og v&\£i  t%u. (patii yaQ itov rcvcc rovzo itu&ovza vix iftiktw    voS Cweyiyv6f.n]v. — tivveyi-  yvoprjv yap , — jiovoS juovWfXal  difirpr avxlxa StaAl^euSai av-  xov ficn aizEp ctv ipatinjt nai-  dixoiS iv iprjpia diaXexSeirj,  nat Hxaipov. Ad hanc igitur  rem respicieus, cumque errorem  tatis lepide taugeus, Nunquam,  inquit, hoc ex mc audituri  essetis (j&v — vxovtiart) si  proverbio illo vinum,  quod neque praesentiam  neque absentiam servorum curat, non esset veridicam.   litEixa a<p av l6ui —  epalv erat. Cum praecedat eI  pi} Trpwzov pev — r\v , scriptum exspectaveris btElxa —  aStxov /tot itpaivero. Cavendum est autem, ue quis loquentis scribentisvc uegligentiae imputet, quod augendi sententiae  yigoris caussa commissum est, ut  incepta verborum structura re-  linqueretur. IlpGJTov plv — iVrcz-  xcl hoc loco Lat. vim habet: c u m  — tum potissimum, istud  potissimum autem mutatione  structurae efficitur. Ceterum  dtpavidai verbum minus «apte  8ch)eiermacheras reddidit: ver-  bergen, neque rectius Scholt-  hessius: verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti verbo  expressurus erat. Facinus illud  nemini nisi Alcibiadi atque So-  crati notum, neque verisimile erat, Socratem quidem cuiqnnm eius narrationem facturum esse. Intolligit igituf Alcibiades, rei memoriam prorsus perituram esse, nisi ipse  eam divulget. Iam dcpavtunn  verbum quid significet, inteliiges. Est enim , quod nos dicimus, etwas der Kenntniss der  Welt giiuzlich s entziehen. Ad  V7CEprj(potvov Uuckcrtus ; vnepij-  <pctvov , inquit, voci h* 1. grata  quaedam ambiguitas est ab ea-  que persona , quam hic Alcibia-  des agit, minime aliena. Homo  enim , qui sentiret quidem veri-  tatis vim, quae ad morum honestatem spectat, at uon agno-  sceret, ne se cogeretur accusare,  nonne Socratis hoc facinus po-  terat pro superbissimo habere?  immo debebat, qui tantam suam  pulcritadinem tam foede contemaisset. Ne multis hanc sen-  tentiam perstringam, quae meo quidem iadicio falsissima est, ct  qua prorsus pervertitur scripto-  ris consilium, verba laudare suf-  ficit p. 217. A. i<pp6vovy ydp  tir) ini xjj &poL Savjiddwv  odov.   iri 6'e r 6 rov drjxSir-  XoS x. x. A. Triplex caussa  est, cur Alcibiades cum convivis  impertiendum censet, quibus modis Socrati sit insidiatus. Vini  hausti vim veridicam iu supe-  rioribus commemoratam habes atque augendae Socraticae laudis  studium. Tertio loco viperae  morsus commemoratur, quo ct sd  laborasse Alcibiades narrat. Nescimus quidem , quid facere soleant atque loqui , quos Vipera  momordit. Non dubium est au-  tem, quin Alcibiades eos iusuniu  quadam corripi significet, qua  circumacti et agant et loquantur,  quod sanis hominibus non possit  non mirum videri. Et qneniam  ipsum se gravioris viperae morsu 218 Uyuv olov r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig , wg f. tovois yva-  Oofitvo Jg ze xal OvyyvatSoutvois , el itixv izoXfia &quv  rs xul Xiyuv vito rijs odvvtje • ly® ovv Stdtjyu,tvos ts  vito ttXyuvoziqov xcii ro aXyuvozczzov wv av ttg  Sij%9sli] — z rjv xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o zt Sei avzo  vvouaOta xXtjyels zs xal S>ix&tls vad zmv Iv (fiXoColaesuro indicat, vehementiore in-  sania se circumactum describit,  qua fecerit atque locutus sit,  quod paullo infra exposituro ha-  bes. Morbo igitur, cui obnoxius  fuerit, facta et dicta excusatum  iri sperat convivis, quippe qui  eosdem illius morbi dolores per-  pessi sint. Qui si non perpessi  essent, nunquam se commissurum fuisse, ut ipsis illorum narrationem exponeret,   iyoS ovv SeSijy pivoS" x.  r. X. Stallbaumium audi egregie  de horum verborum structura disserentem : Anacoluthia, inquit,   prorsus egregia et rei ipsi accommodato, quippe quae loquentia impetum animique commotionem , qua de illo dolore loqui-  tur, plane exprimat et veluti  imagine aliqua repraesentet.   vxo dXyetvor ipov xal  ro dXystror arov, Suspecta  nobis est xai vocula, quae quam-  quam explicari potest, tamen, quod  vehemeutissimae orationis impe-  tum paullo impeditiorem reddit,  huic loco minus convenire iudicamus. Amant autem veteres  commotius loquendi genus edituri  copula addita nulla verba iuxta  ponere, qualia sunt vno aXyei -  vozepov ro dXyeivozazoY. In-  terposuit, si quid video, >caL, qui  desiderabat, quorsum praecedens  re referret. Dicturus autem Al-  cibiades erat: iya o&v 6e6rfy-    pevos re xal nenXtiyplroS vno  dXyeivozepov ro dXyeiYOtazov  X. r. X.j sed mutata inter lo-  quendum voluntate xal nenXijy-  pevoS vetba reticuit, atque iis  sequentibus exhibuit nXrjyeis re  xal An fortasse rectio-   rem verborum juncturam censes  esse : iyco ovv bedrjypevoS re —  xal — nXi/yeis re xal 8rjx$ets ?  Non crfdo equidem, ideoque, ut  quid rectius esset, interpunctione  rectiore legeutium oculis indica-  tum sit, post ovopadai comma  ponendum curavimus,   * xi] y xapdiav y a p — -  ovo patiat. Sensus est: Die  Worte des Socrates erregen ei-  nen unerklarbaren , heftigen  Schmcrz : man weiss nicht, ob  mati korperlich oder geistig oder  wie sonst leidet: gewiss ist nur  das Geftihl der Verletzung und  der Zerrissenheit,   o*l ^ovrat x. r. X.*Exov-  rat verbum ne careret casu suo,  Rostius V. D. comma delendum  censuit post dyptcozepov , idque  post aqwovS ponendum curavit.  Quo facto vide, ne orav XdfiooY-  tat verba' admodum frigeant.  Neque necessarium esse contendimus, ut Ex £( 5$ at verbum, ubi  firmiter inhaerere signifi-  cat, rem , cui inhaerere aliquid  dicitur, semper adiunctam ha-  beat. Graeci eodem modo at-  que nos : Welcheschreck-  (pia Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s aygiditEgov , vlov Iwyjs  (ii] acpvov s oxav Adfiavtcu, xal itoioiiai i)gdv te xal  Hyuv ortovv — xal ogcSv av QcdSgovs, ’Jya9covas,  ’EQv£iud%ovg , JlavGavlas , 'jQiazodrjuov? te xal ’Aqi- u  crocpuvag' EaxQar rj fil avrov r t SeI xal Xiyuv, xal  oooi aAAoi ; xavces yag XEXOWavqxcnS xrjg qwloOocpov    lichcr ais Nattern haften,  w e d n sie einmal orst an  einem iugendlichen Her-  z e n Anhalt gefunden ha-  be n .   xaVApidxoqxxv aS. Vulgo  'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod.  Bodl. habet, idque cum Gramma-  tici praecepto convenit in Bek-  heri Anecdot. III. p. 1131^1  81 xal xovxo yirudxEiy, Zti ol  \ Axxixol iiti xd)V Eis 7/? , eis  ovs i*oVr cor x ?}v yEvixrjy ,  xal iic\ xqdv xcqjct x 6 E$oS  8ia x ov a icoiovdi tfjr alxia-  Tixrjv xooy nXrj^vyxixcoy , olor  6 Ar\yLOd^brt\S , x ov drjpod^i-  vovS , xovS drjpiodSiyaS , o  ’Aptdxo<pdvrfS , xov *Apidxotpa -  yot;? , xovS *Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus eodem  modo plurali numero poni cen-  set Engelhardtus ad Piat. Menes',  p. ed. 204., quo nostrates haud  raro de singulis viris loquentes  plurali numero utantur. Hoc  recto quidem annotatum , sed  inde nou iuteliigitur , qui fa-  ctum sit , ut et Graeci et no-  strates singulorum hominum no-  mina plurali numero exhibeant.  Neque tamen diu quaerenda est  huius dicendi usus caussa. Brevitatis enim studio ut Graeci, ita  nos pro: indem ich Manuar sehe,  wie Agathon , Eryximachu» cet.  dicimus omisso verbo, quod plurali numero positum est, atque  ipso illo uumero ad nomina propria translato : indem Ich Aga-  thone, cet., sehe,   Scoxpdxrj 8% avtovXiysiY. Ne mireris, cur So-  cratem hic commemoret Alcibia-  des, nbi non nisi eorum mentio  erat facienda , qui eodem modo  atque Alcibiades Socratici ser-  monis aculeis laesi sunt : Alci-  biades hoc agit, ut ostendat, se  nou nisi cum iis mala, quae perpessus sit, impertire, qui ipsi  iis obnoxii fuerint. Iam cum re-  censeret omnes, quos sibi socios  putaret morbi illius , Socratem  forte conspiciens, quid istunc,  inquit, commemorem, morbi auctorem? Ceterum versus laudare  iuvat petitos ex epigrammate Meleagri, quibus Diopysii alicuius  amator non nisi eos alloquitur,  qui ipsi amoris flammam sense-  rint ; Meleagr. Epigr, XVIII,   "WvXpOTtOtai 6vSEpCOXES , vdoi   <p\oya x r/y cpik6%ai8a  of3are, xov mxpov yevda-  . flEVOl flijLlXOS ,   Ipvxpoy vdcop yiipaif ifryxpoy ,  xaxoS t ctpxi xccxEidrjS  lx zioroS xy ‘MV aepl  xpaSiy .   Quibas auditis omnes, qui non  auiant, hominis insaniam ride-  bunt videlicet frigidam sibi circa  praecordia circumfundi iubentia.   tijS <pi\o6oipov pavias  XE xal ftaxxdaS. Haec verba  fiavlag te mu (iety.ydag' Sio ftdvtES uxov6e<S9e. avy-  yvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi xat roig vvv  Xeyo[tivoig. ot da olxircu , xcil il' r tg «AAos toti /ti-fiq-  P.og te ) icti dyQoixog , avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv  fatl&tif&t.   Cap. XXXIV.   'EheiSi] yaQ ovv , io kvSqeq, o ts kvyv og  C xei , xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi XQtjvai fit/div  xomU.Eiv noog avzov , akV tAao^aowg eixeiv d f wi    praecedentibus explicantur p. 218.   A. nXrfyeis re xal fo/jfSeis' vito  rav iv <pi\o6o(pioL Xoycov,   ol SI ohikx cli x. r. A. Cum  in superioribos dixisset Alcibia-  des p. 217. E , vinum veridicum  esse sive servi narrationi inter-  sint , sive non intersint, nunc  rursum servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi quidem audiant, Num forte sibi contradicere censes hominem ebrium ?  Non credo , # quamquam contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit Alcibiadi quoque, quod Ovidius ait:  Nitimur in vetitum semper cu-  pimusque negata,  atque ut magis pateat, vinum  etiam servis praesentibus veridi-  cum esse, servos, quos tibi finge  arrectis auribus adstitisse cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad audiendnm alacriores reddit atque paratiores.  IIoc efficitur etiam eo, quod ad  versum Orphicum Alcibiades re-  spexit : cpSeyZopai ols SifiiS   fori • S vpotS S* iitiSetiSt (tiftrj-  Aoi, qua re animadversa quan-  tam omvuiuin ctuses luis .e ex-    spectationem futurae narratio-  nis ?   yijSlv TtOtxiXXElY itpoS  avtov. Vide annotat, p. 99.,  tibi de icoixiXoS nominis significatu dictum est. Possis itotxiX-  A elv li. 1, explicare : non ob-  scure, quod Stallbaumio pro-  bator, sed ambigue loqui,  quaudoquidem varii coloris oratio ita comparata est, ut quem  colorem habeat, nescias, et quou-  iam huiusmodi oratio comploret colores, qui cum significa-  tionibus comparantur, repraesen-  tat, complures significationes ha-  bere h. e. ambiguam esse recte  dixeris. Facile autem iotelligi  potest, qui colorem cum Significatione orationis veteres com-  paraverint. Ad consuetudinem  enim respexerunt AMANTIUM, qui  floribus arte consertis sibique invicem missis exprimere solebant,'  quod claris verbis indicar* me-  tus prohibuit aut pudor. Non  obscure anlem floribus missis,  sed ambigue, quid vellent, ex-  primebant, vel nihil omnino, ut  videtur, exprimebant, sed e mo-  do atque ratione, qua, cui mise-  runt, is flores exciperet, missos-   'm    idoxn. xal UTtcrv xivyGag avzov. UtixQaz tg, xcc% tv-  dn$ ; — Ov drjza, ?; d’ os- — Olo&cc ovv a (101 6 tSo-  Kica ; — Ti (laluSza ; i'ipy. — £v ijiol doxus , >}v d’  iyto , ifiov igaOrris a^tog ytyovivai (lovog , . xal (ioi  (palvu oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd> 81 ovxaoi i/to'  mxvv dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo  XaglfcO&ai xal tl' xi alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto  y xav (pllav xav Ifiav. ifiol (ilv yccg ovdtv lou, xge- D  GjivxeQov xov a>s oxi fiilx usxov ifis yivLo&ai, zovxov  8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0 vSivu xvquozcqov ilvui Gov.  iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy %uql£6[ie-    qae interpretaretur , voluntatem  eius explorare solebant»   xal einov xivf/das av-  xov. De xiveiv verbi sicnifi-  cata vide annotat, p. 29. , ubi  etiam hic locus laudatus est.   xi paXidx a ; Itpr/. Ma -  Xtdxa interrogationi additum ef-  ficit, ut is, qui interroget, cu-  riositatem prodat sciendi,  quid sit id, quod modo audive-  rit , aut quo sensu dicatur, cfr.  riat, Menon, p. 80. D. 2. 7tcf  vovpyoS e 1 , cS Mlvcjv t xal 6-  X iyov iZTjTtdxrjtiaS pe. M. xi  pdXidxa , c3 2ooxpaxt5 ;   xai poi tpaivei oxvelv  pvT/dSijv ai icpds pe. cfr*  Alcibiad. I. init. 2. nai KXei -  viovy olpaL <Se SavpaZeiv , oxi  7rp(Zxo's ipadx?js dov yevope~  voG y xcjy aAAcov nexccvplvcDVy  povoS ovx ctnaXXdxxopai , xal  oxi ol plv dXXot 8t o^Aot» iye-  vovxo 6ot SiaXeyopevoi , iyaa  xodovuov ixcov ov8l irpoZ~  einov.   iy co 81 ovxcodl  7t:dvv avo?/ xov . Praeclare  Stallbaumius ad h. I. : Quae inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl &X 60 j ea de more  advvSixcoS adduntur. Quam loquendi rationem , quum nou te-  nerent grammatici , pro  scripserunt , quod in vett.   editt. migravit.   6v8iv Idxt xpedfl vxe-  p ov . Mihi nihil antiquius est, proprie : nihil,  cui malim primi loci honorem concedere, quam huic.  Vide annotat, p. 128.   xovxov 8’ olpal pot  dvXXi/itxopa x. x. X. Sensus  est : neminem esse rcor,  qui mihi integrae huius  reiadiutor te sit potior.  In oinuibus fere codicibus pov  legitur pro poi , quod Stallbaumio unice probatur propter structuram dvXXtxpfiavEiv verbi*  Coniongitur enitn plerumque cum  genitivo rei atque cum dativo personae. Hiickertus dativum  pronomidis cum elvai verbo cohaerere censet. Dativus pronominis commodi potius, quem vocant, dativas est, atque recte ad  totum verborum complexum re-  fertur. Apposite Stallbaumius  vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg , rj %agi^6pBvog tovg  tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag pdXcc  tlgovtxmg xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl  {pile ’AXxifhadr] 9 xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9  E bixeq abj&ij tvy%avsc qvxcl a A iysig xegi epov, xal  t ig i(tv* iv ipol dvvaptg , <5V qg dv dv ytvoio dfislvav,  dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i xal vijg xaga  dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv avto  xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog  dvxl xiXXovg y ovx oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ , iXX    laadat Xenoph. Memor. II. 2. 12*  ira — ctyaSov doi yiyvrjxca  dvAXt/nz&p* i   dprjxavov te xdWoC o-  p gStjS a y . Locus admodum  salebrosus, quem sine novorum  codicum accessione nunquam ita  restitutum iri puto, ut, quid Plato  scripserit, legere tibi videare. Ia  Bodleiano cod. aliisque perpaucis  pro re legitur roi, Aid. Bas. alii  non pauci rl exhibent, quod Bek-  kerus recepit colo post a/uivGov  posito. Aliam rationem Schleier-  macherus iniit, qui dpijxavdv  te cet. verba cum praecedenti-  bus 8i’ rjS dv dv ykvoio ajxei-  vgdv connectenda censet hoc sen-  su: — wenn das wahr ist, was  da von mir sagst , und es eine  Eigenschaft in mir giebt, durch  welche da besser werdea konn-  test, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir erblick-  test, die deine Wohlgestalt um  gar vieles ubertrifft. Stallbau-  mius veterem lectionem, h. e. zl 9  retinendam ceoset eamque distinctionem singularum orationis par-  tium edidit, ut verba dpTjxavov  te cet. e praegresso ehtep aptentur. Sententiam verborum hanc esse ait: videris profecto  non contemnendas esse,  si quidem vera sunt, quae  dicis de me, hoc est, si in  me vis quaedam inest,  quae te reddat meliorem  atque cernere in me potes et conspicere immensam p ul cr i C ud i ne m tuaque formositate multo  praestantiorem. Recta Stali-  bauraium via incedere mihi qui-  dem persuasissimum est, sed est  tamen, quod me male habeat;  av particula cum ei potest quidem coniungi , uti docueruut ,  quos /itallbaumius laudat, Schae-  ferus Melett. Critt. p. 50., Ap-  parat. ad Demosth. III. p. 155.,  Schneiderus in Addoud. ad Xe-  noph. Politic. p. 472., Heindor-  fius ad Protag. p. 535., Herman-  nus ad Vig. p. 830., sed admo-  dum dubitari potest, num ea hoc  loco Plato usus sit, ubi verba  praecedunt 6i' tfS dv dv yi-  voio apeivov. Quis enim non  videt, av particulam, quae in his  verbis comparet, facillime ad no-  stra verba transferri potuisse ?   avtl 6 6 $tjS aXr}$ eiav  HtzXcovh. e., Stallbaumius in-  avr\ tioJ-rjg aAqfteiccv xuAcov xx aoftai iiti%siQBig , xal 210  tg) ovrt %qv 6sa xaAxetav dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’ , cS   fiaXCiQLE , ttflBLVOV tiXOTCEL, (ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv G)V.   ij rot rrjg diavoiag oipig aq%ttai o£i fiAixsiv, oxav tj  tixiv dppaziQV tijg dx^iijg Aqyuv liuxsLQy* <5v di xov-  rav Hxi Jto$QCO. Kayco axo v<Sag> Tct fiiv tcccq* Ipov,  i(prjv, tttvz 9 Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag Bifnjxai tj cog dia-  voovfuxi ' 6v di avxog ovxgj (IovAevov , o n OoL xs  &qi(5xov xal ifiol rjyBt. *Ak A f y £cprj y xovxo ys sv AiyEig.   Iv yCCQ TG) IsUOVU ZQOVCp POVAEVOIIEVOL TCQa^OyLBV o Sv    qnit, arx\ xaAdav, a 8oxd xa *  A a elvai , xxadSai imxeipels xa -  A*r, a l6xiv aJs aArfScoS. In  proximis alludit ad Ilom. II, «?.  t. 234.   m Ev$r* avte FXavxcj KpoviSjjS  (ppira* i&iAexo ZevS  ds npoS Tvdeidtfv 4i o/u/Sea  xevx** upsifie   Xpvdea x a Axei&v 9 hxaxopfiot  ivveapoicov.   r\xot x ijs dtavoiaS oif>iS  X» X. A. Errant interpretes, qni  potant, verbum reperiri verna-  culum, quod xoi vocabulo re-  spondeat. Neque probem , quae  Stailbanmii sententia est, ailir-  mandi vim et significationem ha-  bere xoi vocabulum in sententiis  communibus. Significat potius,  sententiam, cni additum sit, communem esse, eamque ideo et alias et  nunc valere. Rectissime Schleiermacherus spretis vocabulis, quae  xoi particulae respondere arbi-  trati sunt interpretes , j a , j a  doch, aliis, verba reddidit: Das  Auge des Geistes f ii n g t  erst an scharf zu sehen,  wenn das leibliche von  seiner Schiirfe schon v e r-  lieren willj minus apte, quae sequuntur, hoc modo annectit:  und davon tiist du noch welt entfernt. Fines enim sententiae  communis hoc additamento sub-  latos habes atqne omnem seuten-  tiam cum reliqua oratione male  commixtam. Recte in contexte  oratione colo praemisso scribitur  6v 81 xovxaov hi xoffyao. Re-  stat, ut verbo commemorem Rtik-  kerti opinionem censentis , xoi  h. 1, argumentationi inservire,  cuius loco etiam ydp particulam  poni licuerit. Qua ratione Rtikjcertns vehementer errat, si Pro-  methei verba in Aesch. Prom*  Vinct. r. 700. explicanda censet,  A iy\ ixdidadxs' xois vodovdl  xoi yAvxv (   ro' Aotuov akyoS npovZeni-  (SradSat xopcoS.  cZ>v ovdlv a AA«? efpq-  xa ix. X . A. cfr, p. 218. C. :UdoiU yoi xpijvat itoi-   xiAAeir xpos avxov, aAA' iAev-  SipcoS eindv a poi idonei. Sensus est: Dixi, quae dixi,   neque quicquam eorum  aliter, atque sentio, edi-  ctum est.   6v 8 i avxoS ovtoo ftov -  Aevov. Verba convertit Fici-*  B tpalvrjxai vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv aU.uv  uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc axovOas re x«l tlmav,  y.al dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov Ojirjv. xal  dvciGxdg ye , ovdh Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi,  K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov xovxo — xal yug ijv    nus : tu autem ita dei i b e-  ra, ut et tibi et mihi m e-  lius fore censes. AvxoS  vocabulum reddere omisit, iu qua  positus est acceutns orationis.  Alcibiades enim cum dixisset,  quid sibi videretur, ne ulterius  progrederetur atque nimiae auda-  ciae crimeu fugiens : tu autem,  inquit, quasi meam senten-  tiam non aperuissem, ad  meam voluntatem pror-  sus non respiciens, ipse  te cum delibera.   axov6aS re xal e Iit id v.  Exspectaveris fortasse inversum  ordinem participiorum, quem re-  vera in conversione exhibuit  Schleiermacherus ; Nach dieser  E ede und Antwort. Felicius rem  expediit Schulthessius; Das war  die Antwort auf meiue Ucde.   xal atpels &S7tep fiiXy,   ' Inteilige x ovS Xoyovf. Solent  enim ^ verba Stallbaumii sunt,  quae vel acute vel acerbe in ali-  quem dicuntur, cum telis com-  parari. Similiter Latini dicunt  verba iacnlari, vibrare,  torquere. — cfr. Piat. Pro-  tag. p. 34-2. E. ei ydp iScXei  xiS Aaxedaipovi&v tc.l cpavXo-  rccTcp tivyyevEtiSai, x d y\v no\-  Arr iv xols XoyoiS evprjdEi av-  rov (paivvptvov , terra:, oitov  av rvxv tdSr A eyojiircoV, kvk-  fiaXe pijfia dt,iov Xoyov fipaxu  xal dvvedxpappkvo v ooSizep 8ei-  voS axortusi/js ; Similis Grae-    corum Latinorumque dicendi usui  formula est, qua nostrates ntnn-  tur de bullis paparum: deuBann-  strahl schleudern. Ceterum pauciorum codicum lectio est pkXij,  vulgo fitXet legitur, quod emen-  dandum esse Abreschius Lect.  Aristaen. p. 207. primus vidit.   d p <pti 6 aS rd Ipdxiov  xo i p avxov xovxo. Libro-  rum plurimorum lectio est X ov-  xov j vulgo xovxo, quod et Fi-  ciuus habet iu conversione: sur-  gensque ue verbum quidetn ulte-  rius loqui permisi: et hunc amictum, quem videtis,  circumdans (erat enim liiems )  snb strato huius pallio veteri recubui. Vulgatam lectiouem reieccrunt editores, quod non veri-  simile esset, Alcibiadem eodem  pallio usum esse, quod aliquot  annis ante gestasset. Sed vide,  ue praepostera haec sit xovxo  vocabuli interpretatio. De eo-  dem quidem pallio verba acci-  pienda sunt Piat. Protag. p. 335.  D. xal Itpa xavxa elncov avi-  6xdpt)v cd? dniGQY. xal poo  dvioxapivov iTuXapfitxvixai 6  KaXXiaS xi}S x&ipoS xy 6et,nx t  xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo zuv  zplficovoS zovzovl, xal thcev w  verba nostri loci non item. Tovio  enim nihil aliud significare vi-  detur, qunm Alcibiadem tum trni-  poiris simili pallio indutum lu-  isse, atque quo nunc utatur.  Quiil igitur proh.bet, quominus  yU/lUV — VICO TOV TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt,  TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu dcafiovico wg txb/9ag  xai &av(ia<STtp , xartxdfuiv tijv vv/.vce okt/v. sml ov&s C  ravta w Zoixgareg , Igdg ori lpivSofiai. 7 iou)okv-  rog de brj Tuvtce i/iov ovrog toGovtov TCtgityLvtTo^   censeamus, pallio suo, quali  hibertio tempore uti consuesceret, iudutum Alcibiadem Socraticum te-  gumentum subiisse? Tov-  tov autem lectionem ideo improbamus, quod dubitari nequit,  quin alius verbi participio usu-  rus fuisset Alcibiades, si expri-  mere voluisset, se Socrati in  lectulo iacenti pallium superim-  posuisse, Sin forte statuas, Al-  cibiadem eodem pallio, quo ipse  esset indutus, etiam Socratem  involvisse, repugnantem ordinem  verborum habebis, quatenus qui-  dem scriptum esse deberet: vito  tov Tpiftoova xaraxXivels tov  rovrovt, a/uputia? r o ipatiov  ro ipavzov tovzov x. r. A.   vito tov Tpifiaova. Schol.  ad h. 1. Tplficjv , inquit, idrl  (StoXij TiS foveto Grpitla cj$  ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/td-  tiov itaXatov xai zezpip/iivov.  Hoc scholion iam Fischerus im-  pugnavit annotat, ad h. 1. rectissime, Non est autem dubium,  quin recta sit Stallbaumiana rpi-  fSoov vocabuli interpretatio: pal-  lium longo usu detritum,  quale solebant gestare  philosophi. Hinc iocum expeudus Aristophanicum in Nubb.  v. 175. ed. Reisig. atque risum  auditorum , qui cum audissent,  Socratem nocturno tempore lunae  vias atque cursum ore hiante spe-  ctantem a stellione maculatum esse,  iiuuc etiytra pallio illo detrito privatum docerentur, quod ille in-  ter docendam deposuerat. Ver-  sus Aristopliauici adhuc non sa-  tis emendati, ut videtur, ab in-  terpretibus hoc modo scribendi  snnt :   M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov  ovx tjv hCntpaZ .   2. elev • zl qvv npos xa\<piz   inaXapydaTO ;   M. xaxd xijs rpait&tyS xara-  nadaS Xenxijv t ecppctv  xdutftaS ofteXidxov , eira  diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpa-  tiov vipdXezo.   Quoniam autem sentit Strepsia- *  des, a discipulo aliquo pallium  ablatum esse, pa^TjTUVy inquit,  h. e. discipulus esse cupio So-  craticus, ut eodem modo aliquid  furari discam,   xa\ o v 8 £ T a.v x a, do 2 co-  xpctx£& Bekkerus post zavza  posuit au, quam voculam vulgo  edi solitam Stallbaumius ex plu-  rimorum codicum ' auctoritate ta-  cite expunxit. Eam reposuit in  texta Ruckertus. Iuiuria. Nam  si scriptum exstaret : xai ovx  ipels av , gJ 2boxpaxa $ , ozi  zavza ifievSopat, illa particula  vix csrcre possemus. Oude zavza  autem cum legatur, ov6i voca-  bulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur.   todovtov itepieyiv et o.   Ia his rodoviov dictum est 8ai-  xzixuS et per quandam exclama-   24  ts xa\ xaTS<pQ 0 VT]as xid xaxtyikaae xijg l(t!jg agas  xu\ vfigioe' xaljteg ixsivo ye $(ir]v xi elvat , a SvSqis  Sr/MOtai' dixocaxal yag laxe xrjg Eaxgaxovg vxsgr t -  tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg , fid &eag , ovSlv  £ xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxga-  xovg ij tl (iexcc nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflv-  regov.    tionem , ut sigpificet: mirum  quantum me vicit. S t a 1 1 b.  Dubito, nura huias structurae ex-  empla reperiantur apud scripto-  res. Ut nobis videtur, aliam  verborum structuram camque le-  gitimam quidem Alcibiades in  mente habuit, qua altera quaedam enuntiati pars per «oSfce par-  ticulam praecedentibus annexa ef-  fectam tov iCeptysvid^at de-  scriberet. Fortasse ita dicturas  erat : noiydavxoS 8 'k x avtct ipot 1  ovxoS rodovrov leepieylvexo ,  <3 sxe xal xaxatppovydai xal xa-  xaytXdoai xrjS if.njs &paS xal  % 'fipidai. Amat autem interdum  oratio concitatior legitimae ora-  tionis vincula spernere, atque  prout in buccam venerint, verba  verbis adiungere, id quod no-  stro loco factum est.   xalitep ixeivo <ppyv n  ttvai. cfr. p. 217. A. ig>pd-  vovv yap 8rj ixl xy upa $av-  paOtov odor, quibus verbis opti-  me expositam babes , quid sit,  quod nostro loco adhibitum est  rl slvai . Discas autem ex  huius loci sententia repetita,  quanti olim Alcibiades formosi-  tatem suam uestimaverit, Cete-  Tum ne mireris , Ixetvo vocis  neutrum genus positum esse, non  femininum : exeivyr nihil aliud  denotaret, quam xyv cjpav> ixei-  vo coptra paullo latioris signi-    ficatas est atque cum emphasi ad  verba refertur : # ipy wpat.   f)v8lr itepixt ot£pov,  Colon ponendum curavimus post  itepixxdxepov, quo vigorem ora-  tiouis incredibiliter augeri sen-  ties, atque quoniam fortiora sunt,  quae sunt breviora, sententiae  vim maguo opere corroborari.  Scitote etiim, Alcibiades inquit, nihil praeterea. Quae  sequuntur verba, praecedentibus  verbis explicationis caussa addita, de more adwdtXGjS an-  nectuntur.   y el pexa icatpoS. Ne-  pos ad hunc locum respiciens,  Vit. Alcibiad. c. 2, In e ante,  iuquit, adolescentia amatus est a multis more Graecorum, in eis a Socrate,  de quo mentionem facit  Flato in Symposio. Nsm-  que eum induxit comme-  morantem, se pernoctasse  cum Socrate, neque ali-  ter ab eo sarrexisse, ac  filicfs a parente debuerit.  y aSeXipov it ped fivri-  pov. Ne mireris, hoc loco ira-  trem natu maiorem commemo-  rari, cum possit sola fratris no-  tio ad rem sufficiens videri :  npedftvxipov non ideo additum  est, ut significetur, quod de fra- Cap. XXXV. To St] (lixa rovr o riva o&is&e fie Siavoiav £%uv,  ^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v rovrov  tptioiv re xai eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct  dv&Qejncf) roLOVtu , oZ » eyw ovx av afirjv note Iv-  rv%elv tlg <pqom]0lv xai elg xaQrtQMV ; wg re ovff’ oza>g    tre natu maiore valeat, id non  item de fratre natu minore va-  lere , sed ad Socratis aetatem  Alcibiades respiciens , cum cum  patre atque fatre natu maiore  comparat.   riva ofedS- £ jie 6ia-   voiav De interroga-   tionibus mediae orationi inter-  positis saepius iara diximus. Vide  annotat, p. 60. Paullo supra eo-  dem modo p. 216. D. legitur  SvSoSev 8k aroLxStkk TCoOrjS ot-  e6$e ykfiEi f a avtfJES Ovpno-  tat, 6<*)<ppo6vv?]S ; Efficitur autem his dicendi formulis, ut at-  tentiores ad rem auditores red-  dantur, aut, quod in nostrum locum cadit , ut rei narratae vis  amplificetur.   xrjv xovtov (pvdiv. Verba  convertit Schleiermaclierus : und  doch aucb an des Manues Natur  — mich erfreute. Dubito, num  vernaculum nomen Graeco nomini  satis respondeat. Solent Graeci commemorato nomine aliquo, quod  totam aliquam rem in se conti-  neret, per xi — Ticd — nat eas  eius partes annectere, quae in-  primis extollendae sint atque ur-  gendae. Igitur verba convertenda censuerim : da icb mich  verachtet glaubte, und doch des  JY1 annes ganzem Wesen besonders  seiuer besouuenheit und Charakterfestigkeit mit aller Liebe zu-  gethan bin.   olo) i yco ovh av gj p r) v  nox\ iv xvxeiy. Proprie verba hoc ordine proferenda erant:  olco iyco cjprjv ovh av nox E  ivxvXElV , quod moneo, ut facilius iutclligas, quorsum av par-  ticula referenda sit. Amant au-  tem Graeci verbum dinitum , o  quo alia quaedam verba apta sunt, mediis illis verbis inter-  ponere haud raro, quo ordine  verborum vis enuntiati magnopere  augetur. Ceterum ut eximiam  laudem Socratis, ita non parvam  aequalium vituperationem his verbis contineri senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv.  Prorsus eodem modo ovv in su-  spensa oratione reperitur in PJat,  Protag. p. 322. G. ipeara ovv  *EpyfjS Aia, xlva ovv xponov  doitf SbtTfv nal aioc 5 av$pco~  7l0iS. Noli, Stallbaumius inquit  annotat, ad b. 1., Ovv sollicitare,  quod Stephanus vacare iudicabat.  Indicat enim ratiocinationem lo-  quentis, qui quasi secum con-  silia pectore agitans inducitur.  Quippe ea est virtus linguae Grae-  cae, ut multa, quae alii populi  nonnisi oratione recta possunt  enuntiare, ea etiam oratione ob-  liqua exprimere valeat. Quod  quid sibi velit, hoc uno exem- 24 *  m   ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai uaoan(jTjd'th]V Ttjg tovrov  <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V avrov tvxvgow.   E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov rcrparog i]v  Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug , «a te difiijv avrov fluvio  ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>], xaraSiSov^a-  (dvos ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog    p!o satia patet. Recta enim ora-  tione dici aic debebat ; irroS ovv  opylgGjjjai nat ctnuOzrpTj^co rijS  rovrav dvvovtiaS ; quomodo  igitur ei irascar ei usque  consuetudine mc absti-  neam? Quae convertens Alci-  biades in suspensam orationem  eleganter retinet voculam igi-  tur, quae animi consilia agitan-  tis gravius indicium facit,   ov6’ ony itpoSayctyol-  fl 7J V ac V TOV Evito p ovv .  TlpoSctyeiv riva sensim sensimqne aliquem sibi assuefacere, lente aliquem  sibi conciliare praeten-  tis quibnsdam illecebris  significat. Hinc iudicabis de  <x7C0(Srepri^Eii]v verbi significatu,  quod illi oppositum est» Ceterum opyiZoifiTjv verbum primo  obtutu habet, quo ollendaris,  quandoquidem haud verisimile est,  Alcibiadem ob repulsam a So-  crate acceptam eidem non iratum  fuisse. Fortas sq o pyrgo iprjv xa\  dno6rep7f$eirjv positum accipere  possis pro dpyiZoptvos ano-  dzepijSelrjv y nt sensus sit totius  loci : »o dass ich weder weiss,  wie ich mich in hochster Auf-  wallung seiuer ganz erledigen,  noch wie ich mich seiner allge-  mach bemaclitigen soli. His adde,  quae supra leguntnr p. 216. B.  ^paicEttvco ovv avrov xal <psv-  yco et quae sequuntur.    ev ydp ori xpy)pa-  di re. Vulgo ye legitur pro re,  quod e septem codicum aucto-  ritate, quorum in numero Bod-  leianus est, Bekkerns, Stallbau-  xnius, alii iu ordinem vetborum  receperunt. Riickertus ye vul-  gatum reposuit annotans : Non   haec est sententia: Et pecunia  eum capi non posse mlellige -  banij et quo solo cet., iramo po-  tius haec: quomodo eum mihi  conciliarem , non videbam , Probe  enim sciebam , pecunia quidem  eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum captum iri pu-  taveram , id ejju gerat . Vereor equidem, ut praecedente  Xpr/padi ye non w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius  scripturae nullum iu codicibus  vestigium comparet.   arpGoroS rjv navraxy  7f dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern  Telamonis lilium invulnerabilem  fuisse , compluribus locis narra-  tur. Vide Nitsch. mythol. YVor-  terb. Ortam puto inde fabulam,  quod in Iliade Aiux non vulne-  ratur; pugu&Ds licet fortissime cum  fortiss.inis. Riickert. Ad re-  ctiorem verborum interpretatio-  nem navraxy verbum spoute du-  cere videtur, quo) verbo de scuto  immenso monemur, quod gerens  Aiax ab omni telo tutus erat,   8 tau i<p evy i //£. Haec  paucorum librorum lectio est ,    i r iun 0110 a t . 373    rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi ctncivta Ttgovytyovu,  xnl f utcI T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav lyivvto  Xvivrj } cal (JvvtffiTovfisv txd.   Ugcoxov /ih' ouv xou; itovoig ov fiorov fuoiT ittQtijv,  tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav. ojcote yovv avayxcc-  O&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg, 2Jo  '« quam editores immerito reiecisse  videntur. Plurimi 8iene<pevyei pe  exhibent, quod Stallbaumius, unus  Siatetpevyei pe , quod Bekkerua  iu textam recepit. Nolo, quod  dedi, tanqaam certum atque ex-  tra omnem dubitationem positum  lectoribus commendare , dedi tamen, quod Alcibiadis animo ap-  prime convenire videbatur. Ille  enim rem actam neque quicquam  spei sibi relictum esse docens  haec ait: Experientia do-   ctas sum, eam pecunia  inalto minas commoveri  posse, quum Aiacem, scuto immenso tectam i‘erro  vulnerari, et qua re sola  eum capi putabam, eam  eludeus elapsus est,   tavtd te ydp poi. Nemo  interpretum de ydp particula  quicquam annotavit, quae quo  iure h. I, posita sit , non statim  intclligitur. Schleiermacliems in  conversione eam prorsus non  reddidit: Dies nun war alles frii-  licr gesebehen cet. Dubitari au-  tem nequit, qnin verbis, ad quae  relationem habet , praemissa sit,  de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp. Consuetior ver-*-  horum ordo foret, opinor: Jial  pera tavta — tavtd te ydp poi  uTtavta npovyeyovai — <5tpa-  teia ijfiiv eis Tloridaiav iyi-  veto n. r, A. Potidaeam urbem  quod attinet fttqno bellum, quem    contra incolas eius gesserunt  Atheniensis, andi Riickertum an-  notantem ad hunc locum: Potidaea Corinthiorum colonia in Pal-  lene paeninsula ad sinum Ther-  maeum postquam Atheuiensiuin  dominationem pertulit cum cete-  ris illius orae civitatibus ali-  quamdiu, defecit 01. 86. 2. a*  Chr, 435. belloque pressa per  quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. 37. 3- a Clir,  430. In horum igitur aliquem  amiuin incidunt, quae hic ab  Alcibiade narrantur.   o jr <5 r e yovv ar ay xct •  6 3 e i?j per. Rursum locum ha-  bes, in quo edendo novorum codicum auxilium maxime desideratur. Quam edidi, Stallbaumianae editionis lectio est, quae me-  liorum codicum auctoritate nititur. Sed cum vulgo legatur  ondtav yovv avayxatiSefo/pev,  quis audeat, praesertim cum exempla reperiantur apud bouos  scriptores onotav cum optativo coniuncti, vide Mattii. Giamm.  ampl, $. 521. Aun. I. p. 1007.,  quis aipl eat, inquam , utra lectio  verior sit, cum aliqua certe veritatis specie dijudicare ? Tovv  in codicibus melioribus, quorum  auctoritate nititur 6 itote lectio,  omittitur. Quod, quoniam vix  abesse potest , si receperis , co  ipso oitote lectionis auctoritatem  infringes. Optime autem yovv  ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv r  av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv , td %  akl.a , xcd nlvtiv ovx t&tkav , unor’ avuyxuGfrtlti, n dv-  rag IxQ&t ei, xal i 6’ ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart]  (itfrvovra ovSslg noinot’ icogaxtv civftQoiJtav. rovrov  fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og i'<fe<S&ai. ngog  6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig — 0uvol ydg av-    Stallbnmnius explicat: Confir-   mat yovv , inquit, ut Latinorum  i certe quideui, antecedentia  cum aliqua restrictione, hoc est  ita, ut indicet, hoc certe, quod  nunc commemoretur, veritatem  s eorum, quae antea dicta sint, sa-  tis testari ; sed nlia etiam posse  afferri^ quae tamen nunc reti-  cenda esse videantur.   dn o\ e i cp % k v x sS 7tOV,  Astius drtoArfipSiifxeS scribendum  coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia ordinem verborum receptum est. Sed codices  miro consensu ditoAEi<p$ivxE$  exhibent, quod, quoniam explicari posse arbitramur, in textu  retinuimus. Rectum quid esset,  Heusdius vidit, qui scribendum  coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ;  sed mutatione nulla opus estj e  sequente enim afStxetv infinitivo  6ltov genitivus facillime ad dito-  AtupSiv T£$ suppletur, FICINO  habet ; et si quo in loco,  ut accideresolet i u bello,  ccfro meatus deficeret*   iv r* av tais ev G>xiaiS.  Ad haec quoque verba recte referuntur, quae praecedunt; ola  6q ini dxpaxeiats, h. e. pro varia fortuna belli. Militum  enim ea fortuna, ut nunc omnium  rerum felicissima copia abundent,  nunc no habeant quidem, quae    ad sustentandam vitam necessa-  ria suat. Huiu? rei fortunam  nemo Socrate melius perferre  potuit.   navxaS in patet. Rarior  structora est npatEiv verbi cum  quarto casu ea de caussa , quod  Graeci hoc verbum saepius prae-  gnanti, quem vocant, quam pro-  prio significatu adhibere sole-  bant, Kpaxelv ttvoS enim idem  fere est atque npaxovvxa elvai  XtvoS, victorem esse ali-  cuius, de quo significata vide  annotat, p. 87. KpcciEiv xivd  contra proprio significatu adhi-  bitum prorsus dicitur ut LATINORVM vincere ali que ni.   ov 8 eIs nd nox e hd pa-  ne v. Codicum auctoritate motus , in quorum numero Bodleiauus est, Bekkerus kapdxei in  textum recepit, quae lectio item  Riickerto probatur. Non placet.  Non enim haec est mens Alci-  biadis , Socratem tum temporis  a nemine 'visum esse vino gra-  vatum , sed nunquam gravari vi-  no dicitur in universum , eius-  que rei luculentissimum indicium  mox convivas habituros esse Al-  cibiades promittit,   Seivot yap avxoSi x ei ~  p dives. XEipwveS articulo suo  privatum latiore significatu acci-  piendum est, ut verba, couver-   <S   zo&> yup&veg — ftav padia elgydteto xtx te $ AAa , xai fs  itote ovtog Tiayov oTov Suvmutov , xal xavtav y ovx  1'iiivtov EvSo&ev, >] , d tis ittoi , i)p<piEOpivav xe  &av(icc6xa Sij ooct xal vxoSsSepivGni xai IvEikiypEvcov  xovg xoSag Eig xikovg xal uQvaxlSag , ovtog 6 Iv  xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv totovrov, olov xeq xal  XQortQOV eIoj&ei <poQUv , awnoSrycog Se Sia tov xqv-    tcnda sint : denn W i n t e r in  dortigcr Gegeud sind fiirchter-  lich.   ra te aXXa, xai itote.  Haec dicendi brevitas etiam paul-  lo supra in verbis conspicitur tu  re dXX a, xal itlveiv ovx  Xgov, quae explicatius audire  Stallbaumius docet annotat. ad  lu 1. t a re aXXa, xal 8t} xab  rovto , ori nireir — itavta S  ixpdtei. Alias breviloquentiae  exemplum in sequentibus verbis  continetur xai itote ovtoS na-  yov olov 8 eiv ot dt ov , ubi.  explicatius verba enarrata sonant:  *xai note ortos itayov toiov-  roUy oluS biti 8eivbtatoS , de  quo loquendi genere vide Mattii.  •Oranira. ampl. §. 473- Ann. 2.  p. 885. Ceterum vulgo legitur  ortoS tov nayov. Bodlciani cod,  aliorumque paucorum auctorita-  tem secuti Bckkerus , Stallbau-  inius alii articulum e textu re-  iecerunt. Utramque lectionem  commode explicari posse , nemo  dubitabit, atque sententiam si  spectas, perinde tere esse cense-  mus , utrum addatur an omitta-  tur articulus. In huiusmodi locis codicum auctoritas cum ma-  xime valere debet. Igitur et nos  articulum omisimus, quem Rii-  ckertus in textu reposuerat.   t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6 o -$ev «c. e tabernaculis, quorum notio facillimo mento suppletur. "Ev8oSev Scliieicrmache-  rus convertit hinaus. Recte  quidem e nostra loquendi consuetudine; aliam Graecorum fuis-  se, H.v8o$ev vocabuli notio do-  cet, Etenim Graeci quicquid scripserunt dixeruntve , eius quasi  imagiaem quandam ante oculos  habuerunt prius, quam scribe-  rent loquerenturve. Dicturus igi-  tur Alcibiades : neminem militum  e tabernaculis exiisse , rdm ita  proponit, ut imaginem ante oculos habuisse coniicias militum o  tabernaculis exeuntium. Hinc  HvSoSev vocabulum Explicabis,  Convenit cum nostro loquendi  usu, quod legitur p. 174. E. ol  y\v ydp evSvS n<n8d uva IV-  8o$ev dnavti\6avta dytiv x.  r. X. Innumerabiles autem loci  opud scriptores Graecos reperiuntur , quibus illa ingenii indoles probatur. Cfr. praeterea an ->notat, ad verba TLxpr\ ydp ofc  ScoxpatTf . p. 16.   , eis niXovS xal apru-  ni 8 a S. Schol. ad h. 1. nlXoS  Ipdtior IB» ipiov ntXrjdecoS yi-  voperoVy eis vetav xal *«/*<»“  VGor afxwav . dpvccxideS 8e  apvGov HotSia. Suidas, apva-  xlS t inquit, ro' tov apvoS xqd-  8tov , to pefd xvv ipicov 8eppa r.   dra/.AOv quov Ijcoqbvsxo tj ol akkoi vitoSstisfiivoL oi   dl tiTQCCTUJTCCl VTttfikeitOV CCVtOV UQ XCCZCC(pQaVOVVTCC   c (Stpiuv. xai ravta plv drj tccvzcc.   Cap. XXXVI.   Olov A’ av tu 8 ’ ipeUs xal ixX r/ xapTEpoS avi/p    Nostrum locum frustra, ut vide-  tur, Valckenarius ad Herod. III»  p. 199. 95. Musonium imitatum  esse censuit apud Stob. I. p. 17.  51., cuius verba laudare invat  tamen : ov8a/icuS xaXov ovte  iuS/fusdi noAXai? xaTadxinEiv  TO dGOpa ovts TOLlviaiS XOCXEl-  Xeiv ovre x f tpttS te xal no8aZ  nepiSidEt niXoov rj v<padpaTGyv  tivgjv paXaxvvsiv. Quod sequitur, ovtos 8* LATINORVM respon-  det: hic, inquam, quo verbo  pronomini addito, ut 8i particula,  vis augetur pronominis et filum  orationis verbis interpositis compluribus dissectum rediutegratur.   V7Z £ fi\E7t OV CtVTOV (Di   xotr atp pov ovyt a d<pav .  Limis oculis eum intuebafitur, quum eos suae  ipsorum mollitiei pude-  ret, odeo que Socratis p a-  tieutiam et fortitudinem  moleste ferrent, quippe  quem ipsos despicere opi-  narentur. Ceterum Socratem  algoris ct caloris fuisse patientissimum testatur etiam Xenophon Memorab. I. 2. 1. ct I. 6.  2. al. Stallb* Conferri Rii-  ckertus iubet annotatione ad h. 1»  Piat. Criton. p. 53< B. xal odoi -  7CEp XljdoVTOLl TtoV aVTGDV TCU-  Xeoov f vuopkbfrovTai Ce 8 ia~  tpSopta yyov/uvoi r uv vegov,   olov 8* a v 1 6 8 3 l’ p £ £ e   X. t. A. Versus Homericus est,  culus initium Alcibiades immutavit, ut versus cum cetera ora-  tione melius consociaretur. Legi-  tur autem in Odyss, IV. v. 245.   dk A* olov to 8 * lpz£,E xal  irXrf xapTEpoS dvrjp   SrjftGj ivi TpoSaov , uBi nu-  &X € T£ nt/par ’ Axaioi .   ixei ini drpar e laS,  Solent Graeci, quando cum gra-  vitate aliquam actionem descri-  pturi sunt, huic praemittere vo-  cabulum, quod actionis rationem  in universam indicaret, post actionem ipsam accuratius defi-  nitam exhibere. Sic legitur p»  177. E. ndyrcfS /tt/ 8id piSr/S  nou/dad^ai Ti/v iv tgj napdvn  dvvovdlav . dXX ovra>, nivov-  taS TtpoS ?}6ov)jv, ad quae ver-  ba vide annotat, p. 43. Idem  valet de locis, quorum mentio-  nem graviorem ita faciunt scri-  ptores, ut praemisso verbo, quod  iu universum locum aliquem si-  gnificat, accuratiorem loci de-  scriptionem exhibeant. Sic igitnr  hoc loco ixsl — ini drpaTtiaS  legitur, quo docearis, ad Poti-  dneam gestum esse, quod nuuc  Alcibiades narraturus sit.   £vvv 07 } d ctS — e\6t )/ xci  2,7/TCk jv, Socrates aliquid cum  animo suo reputans a primo maue  narratur meditabundus constitisse, atque re non feliciter pro-  ccdeute , quasi defatigationem   exe! norh Eithjt (StQcctslag , fil-iov axovdca' £wvcy<5ag  yccQ avtofh Sa&bv n e[6x)]xei 6xojtcov , xai insi-  di} ov xqov%(6qsi avtcS , oyx aviti , (Md efotijxti  %7)t&v . xai rjdy f\v iiEtirjuPQla , xai av&QCMiot, ycfta-  vovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco tksyEV , oti Zco-  xganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis sentiret nullam, in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis mentunem fa-  cit etiam Apollodorus , qui cum  Agatho servos iussisset Socratem  vocare p. 175. B. laxe avxov,  inquit, £3of yap n xovx* £*«.  ivloxe aitodxcis o7roi dv xvxv  %6 xmiev. Quae addit verba ijtiei  81 ccvxlxa , &s iycjpat, non ita#  accipienda sunt, quasi Apollodorus revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui  enim Heri potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates meditationum  Unem reperturus sit ? Neque ne-  sciebat, quippe doctus experien-  tia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum multum temporis meditando consu-  mere. Nihil igitur aliud voluit  ij£,ei 8i avxixcc , ck* iycfypae ver-  bis efficere, quam Socraticae meditationi consulere, ne forte servorum acclamatione turbaretur.   icccl i} 8 r\ — y6$ av ovxo.  Non verterim cum Stallhoumio:  und schon war es Miltug , ais  mau es er st merkte ; corrumpitur enim, ut ego existimo, vera  sententia addita voce erst, quae  in Graecis non repentur; iromo  »*nd schon war es Mittag, und  die Leute fingens on zu merken  (malim: und den Leuten fiel es  auf ); non enim quautum tem-  poris ante praeterierit , quam sentirent homines, Alcibiades significat, sed quam diu steterit,  et quid acciderit, quod partim  loco movere Socratem debuerit,  partim rei augeat miraculum.  Idem verba significant, ac si  narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen perseverabat;  iam sentiebant homines; at non  discessit. Hanc Riickerti annotationem, cum idem indicare intellexissem, atque quod ipse seraper de huius loci explicatione  statuendam censerem, viri doctissimi assensu gavisus , integram recepi.   Zajxp axi]? l&> IgdSiv ov  q> p ov x l % a v xi $ d x tj x e . Haec tanquam ipsa verba laudari  censemus hominum Socratis axo-  Tclctv mirantium. Hoc colligere  possis e structura verborum, quum si forte ad firmaudam sententiam  nostram facere negas, ei certe  non repugnare concedes. Hoc sa-  tis nunc nobis. Suhest enim gravius aliquod argumentum , quo  ipsa hominum illorum verba laudari probemus, tppovxi^GJV par-  ticipium. De quo quoniam pau!-  lo fusius dicendum est , longio-  rem autem explicationem plagellae huius angustiae non capiunt,  in Comment. de Piat. Symposio  disseremus.   xeXe vx g 3 vxeS 8k xtves  Xt ov 'i&YGor. Consentaneum  est, non Athenienses, quibus mas  «78   6i uves «w 'Javtav , htuSt) ttiniga Suxvrfiavtts,  D nal yctQ &{qo s rore yi rjv , yctutvvia i£evtyxu[itvoi  tlfia (itv iv Z(p i)v%Ei uct&ijvSov , a(ia 8s ItpviatTov  avzov, st xal njv vvxza t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc fitXQi  eas lytvixo xal tjkioe dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv    ille Socraticus notissimus erat,  nunc observatum ivisse e taber-  naculis atque sub dio lectulos  stravisse; sed Ionum, qui una  cum Atheniensibus Potidaeam obsidebant, aliqui narrantur, cum  ex Atticis militibus de more illo  audissent, nt oculis viderent,  quod fando audissent, sub dio  pernoctasse.  xal ydp SipoS tote y$  T/r. Annotatione p. SI* indicavimus, solere haud raro scriptores Graecos partem orationis eam,  quae caussam alicuius rei conti-  neat, parti orationis rem ipsam  describente praefigere. Exemplum  est huius loquendi usus p. 175*  C. xov ovv 'AyaSojya, rvyxd-  veir ydp £6x aToy .xaxaHtipe-  vov , jiovov * devp , £<pt/ (pa-  rat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed  huuc locum cum nostri loci con-  formatione non recte conferri,  vel obiter instituta comparatio  docebit. Quaeritur, quo pacto  xal ydp StpoS tote ye i}v explicandum sit. Tacent interpre-  tes, quo silentio non nihil uni-  mus commovetur mens. Num  verba tam plaua sunt, ut explicatione non indigeaut? Schleier-  macherus in conversione exhibet;  Eudlich ais es Abend war und  n an gespeiset hatte , trngeii  einige Ionier, denn da-  ma Is war es Sommer, ihre  Schla fdecken hinaus, theils  um im Kulilen zu schlafen cet.,  qua couversione mitigatam habes mutato verborum ordine difficultatem loci, non item explicatam,  SchuUhessius vertendo; es war  eben Sommer, explicaudi genus  admisit, quod sane levissimum est.  Dillicultatem enim vdp particu-  lae ita, ut ydp reddere omittas,  noa expediveris. Scriptum autem  exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS   xal, SepoS ydp tote ye ip',  4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed  cave non rectum ceuseas verbo-  rum ordioem, quem libri exhi-  bent. Participia §EWVi]($avT£Z ,  l&tYEyxdpEVOi, de more advv-  6 etcjS posita suut, in verbis au-  tem xal ydp StpoS tote y£ ?/v,  caussae indicium prae ceteris verbis scriptor, eminere voluit, idqirt)  ideo in principe loco enuntiati  posuit, h. e. in initio. Cuius lo-  ci quoniam suapte vi non potest  caussalis particula sustinere gravitatem, xal explicativum prae-  positum est, quo illa eodem  modo susteutatur atque Latino-  rum enim, addito e t (etenim)  fortius iit, atque principi enuu-  tiati loco idoneum. Vide de xal  expletivo annotat p. 6. cfr. prae-  terea p. 219. B. ap<pt?<SaS ro  IpecTiov ro ipavtov tovto xal ydp 7/v x £l M ( & v r » A .  Contra ubi verbum aliquod in  enuiitiatione parcuthetica conti-  netur, quod significatus gravitate  ceteris verbis autecedit, id prin-  cipe loco poni solet. Sic legitur  p. 220. A.Seivoi ydp av TuSt —  rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI (iovktfi&e Iv retis f*«-  %aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat. ort  yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi  evQomjyot, ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog,  rs tgafuvov ovx i&tkav azohntlv , a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS  /udxttiS. Bene Stallbmiroius  orationem hoc modo explendam  censet j ei 61' (3ovA.e6$e axov-  Cai , oloS iv x ais puxaii V v %  ifjui xal x ov$* vpiv. Nollem  tamen per aposiopesiu verba ex-  plicanda esse dixisset. Certum  esse reor , tl particulam aposio-  pesin nunquam admittere» con-  ditionalis enim enuntiatio ex ordi e temperatiorum dictionum est»  quae cum aposiopeseos vehemen-  tia non conveniunt. Possis etiam  verba ad praecedentia referre p.  220. C. xal xavxa plv Si/xavccr  oiov 6 ’ av x 68* £pt£,e xal izXrj  XQtptepoS dvrjp ixel noxa iitl  OTpaxtiaS , aB,iov attovdai. Quae  verba cum Alcibiades hoc modo edixisse sibi videretnr: ei (iov-  A e6$e dxoveiv , olor 8* av  xo8 * UpeB,e xal £rA?/ xapxepos  avtjp 9 nunc ita perrexit: ei 6fe  fiov XetiSe (sc. dxoveiv , olov 6*  av x 68 * Bpe&e xal ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh) iv xal?  paxaiS, (sc. ipa xal tov$’  vplv. y   oxe yap fj fiaxv V v - Hia  pugna. Ponit euim rem pro  certa otnnibusque nota. Narrat,  quorum hic meminit Alcibiades,  Plutarclt. Alcib. p 194. C. F., sed  ita , ut aut omnem materiem ex  hoc loco hauriat, aut studiose cum  in narrando respiciat. Riickert,   i B, ys i po i xal xdp i-  6 X e ia. Ex praepositio hoc loco temporali potestate posita est,  quod moneo contra Riickertum,  qui annotat ad h. 1. : Secundum quam. Caussam euim  pugna praebuit, cor darentur Alcibiadi virtutis praemia. — Sed  bene monitos lectores velim, ne  ix quovis loco temporali potestate  poni posse opinentur. Ponitur  tum tantummodo, quum tempo-  ris indicio simul adhaeret notio  quaedam, quae ix praepositioni  propria est. Minus accurate  Schlciermacherus : hei welchem   ( Gefecht ) mir die Heerftihrer  deu Preis zuerkanuten ; non rectius Schulthessius : dena in der  Schlacht, wo mir cet.Restat  ut de xal vocula dicamus, quam  u nemine interprete explicatam  video. Supplemento aliquo opus  est, quo advocato, quid xal si-  gnificet, statim intelligetur: ure  yap i/ paxv rjv , y avry, i£  r/S i/ioi xal xdpuS^ua ISoOav.  denn ais ieue Schlacht wnr, die-  sclbe, ais die, nach wclcher die  Heerfuhrer mir deo Preis zuer-  kannten.   x ex pat fiiv ov ovx i$i-  A cdv. Vulgo haec verba inverso  ordiue exhibentur) codices plu-  rimi atque optimi texpcofiivov  ovx iSiXtov. Vehementer errant,  qui uter verboi*um ordo rectior  sit, e sententiae ratione dignosci  posse arbitrantur. Nam uterque,  quo se commendet lectori, habet.  Sola igitur meliorum codicum au n a at a no r   xai T a ZnXa xai avtov l[it. xai tyul /xh’ , w £(6xgrt-  Tfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac zagtOzt ia tovg  Ozgazrjyovs , xai zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks igsig  (In t luvSojiai ' dkXd ydg tmv tizgazr/ywv xgog z<> i/wv  iit ioifia dzojV.ixuvzeJv xai (iov/.vulvcjv ifiol dtdovca  ctoritas respicienda est, quorara  lectionem Bekkrrus, Stallbaumius  alii in textam receperunt.  a A Ad tivv 8 ikC a> Ce xai  t it onAa xai avTov i fi i.  Priori loco xd oicAa commemorautur ea dc caussa , quam ex-  positam habes annotat, p. 63.  De verbrs cum 8ia praepositione  confundit annotat, adip. 7* Verba converterim; und er braclite  WaflVn und Menschen, beides,  retteod hiudurch. Ceterum iucst  aliquid his verbis, quod si ab-  esset, omnes uno ore Graecis-  mum laudarent atque locis ex  Homero inprimis petitis confir-  marent. Nullum in codicibus vestigium depravationis, nihil igi-  tur mutandum, praesertim cum  negari nequeat, non minus Graece  dici, quod nunc legitur, quam  quod milii in mentem venit dAAa  CvvSikCcoCe xai xd uxAct xai  avtov.   xai rore. Annotat Stallbaumius ad h. 1. Ne quis, inquit,  in his haereat, xai «d universam sententiam, non ad solum xoxe  referendum est, at respondeat  proximo xai in verbis xai tovxd  ys pot ovte fitjjipei. Verita-  tem huitu sententiae Ruckertus  agnoscit; nobis aliter de expli-  candis ual tore verbis statuen-  dum videtur. Meus Alcibiadis  haec « st . Non solam praesenti  tempore se ita iudicare, ut Socratem dignissimum censeat ptaemiorum Hlornm, sed etiam tum  temporis ita se censuisse atque  tussisse quidem, nt duces Socratem pruefniis illis dignentur.  Quae sequuntur verba pepibei at-  que ovn ipet* ijxi Tpf.v6opai  nostrum explicationem confirmant.  Mkptpei enim ad praesens Alci-  biadis iudicium referendam est,  qno Socrate negatur praemio-  rum illorum aliquis dignior esse,  verba autem ovx ipEiS oxi ijjEv-  Sopai recte ad verba retuleris  ixkAevov Coi SiSovat rapior eia  x ovS CrpaujyovS.   itpoS T 6 ipov dZi&pa.  cfr. PJat. Alcib. I. p. 104* B.  Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavi-  xcDtdxov yivovS Iv xy Ceovtov  itoAei ovCy pcyiCty xaSv 'EA^-  ArfvidcDV' xai ivxavSa itpoS  narpoS xk Coi (piAovS xai B,vy-  yeveis tcAeICxovS elvai xai dpi -  6x ov£, ot , et xi 8kot, vmjpexoiev  av Coi . xovtoov 81 Totif xpoS  fitfxpoS ov8\v xdpovS ot56* iAax-  rovS ' Zvpitdvxarv 81 mv elnov  ptiZoi) otei Coi Svvapiv vitap-  TlepixAka xov AavShtnov,  or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk  Coi, oS ov povov iv xy8e  xy icoAei dvvaxai itpaxxeiv o n  av fiovArjxaiy aA A* iv naCy xy  'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv  noAAolS xai peyaAoiS ykveCiv,  Mutre nsus est Alcibiades Dino-  mache, Megaclis filia celeberrima, patre Clinia, cuius virtus  in pugaa ad Artemisium pugnata     zTMnozroN.    881   xdgtGxHa, avxo g noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv  tui /.ajitiv jj GavTuv. Ixi xoivw , <J avdgtg , cchov  9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj , oxe ano /JgMov qnyf/ ave- £21  Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag nagaytvofievog innov .  l'zarv , ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv iaxtdaouivav f    inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in Piat. Alcibi&d. I.  init. Alcibiadem allnquens dicit:  ' 11 7tcti KXetriov, Vide, quae  de dicendi formulis rtaxpoSev et  nal? xivo? docet Wachsinnthiua  in libro: Hellen. Alteithumsk. L  I. p. 320. Beil. 10.   i ph Xafielv i} tiavxov.   Nihil certius est, quam Platonem   aveo? scripsisse vel ovx av-  ToS , uUi oppositionis rationem  habiturus fuisset, quae quanto-  pere angeatur tiCtVTo? scriptura  nemo est, quiu videat. Alio loco de  hac structura oppositionis augen-  dae caussa admissa locuti sumus.  Vide Indices s. v, Accus. prou.   - uf£ ano J //Aio v tpvyy  ct r exGjpei. *Avaxeepeiy proprie  est : in locum altiorem se con-  ferre, iuprimisque de piscatori-  bus obvuluit, qui undis ora su-  perantibus celerrimu iiiga altiora  loca petierunt. Hinc ad rem militarem tranr.lutum verbum lugam  militum describit, qui e peregrina terra, tanquam undas mare,  hostes evomente quasi iu altio-  rem atque tutiorem locum, in patriam terram fugif^es se confe-  runt. Deinde, quMnam, qui na-  ves relinqniiut atque mare, cum  patriam terram petituri sunt, al-  tiores regiones petuut, factum  est , ut redeundi verba plerumque cum ara praepositione con-  iungercutur. — Schol. s. v. drj-  Xtov • x Q opLov xjjS LouaxiaS,    Athenienses ad Delium urbem a  Thebanis^prorfio victos Thncyd. \  narrat IV. 76 seqq. Proelium scimus fuisse Ol. , 1. Idem proelium u Lachete comme-  morilnr in Piat. Lach. p. 181.B. xui ptjv, go Avtiipaxi , p?}  atpUoo ye- xavSpoS' gjS iyos  &XX oSl ye avxov iStacdptji'  ov povov tov naxlpa dXXd  xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa. iv  ydp xf/ and Jr/Xiov <f>vyy pix  ipov cvvavexcjpiti xayaZ <5ot  Xiyco, oxi , ei ol aXXoi iJSeXov  rotovxot tlveti , dp$j) av ijpwv  7 } TtoXi? r,r xal ovx av initia  tote xo xoiovxov nxdopa. De  re ipsa Engelhurdtus ad h. I. ed.  p. 14 : Cum Boeotorum, inquit,  nonnulli imperium Lacedaemo-  niorum aegre ferentes ope Athe-  niensium democr&tiam in Boeo-  tiae civitatibus instituere ctipe-  rent, inter eos atque Atheiiieu-  sium duces Demosthenem et Hip-  pocratem convenit, ut ipsi Atheniemibus urbes Siphas ad sinum  Ciisuenm, et Cbaeroncam prope  Orchomenum Minycum traderent,  Athenienses nutem eodem «lio  Delium Apollinis sacrum iu finibus Boeotiae et Atticae vernus  Euboeam situm vi occuparent.   Sed ct Demostheni ad Siphas oc-  cupandas profecto res Boeotis  iam prodita infeliciter cessit, et  Hippocrates, qui serius, quam  convenerat, Delium pervenit,  postquam vallo praemunire atque  praeauliu instruere contigit, Boeo- *t a  4    ijdrj tcov av&Q(07tG)v ovtos n apa xal Aaxrjg * Xfti  2yw 7 teQitvy%dv & , xal Ida tv ex>ftvg vtagaxefavopuL rs  avTolv ftaQQeiv xal SXsyov , art oi5x djtotefyco avzoj.  Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv EttXQazrj ?;  JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’  ' wnrou £itm* jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za  B HpxpQCov sivat * Sjtsiza Zpoiye idoxsi , oJ *AQi6zocpavsg —  to tfov 6'ij rovto — xal .&cct diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad De-  lium collectis, turpi clade in fu-  gam conversus est. Quos autem  Delii relinquerat Athenienses, castello die post proelium XVII.  yi expugnato, partim interfecti,  partim capti sunt exceptis iis,  qui ad naves pervenerunt.   xal iyco ns pixvy xdv p»  Nota praesens historicum , quo  incredibiliter orationis vigor augetur. Exempla huius dicendi  usus Matthiaeus collegit Oram ni.  ampl. $. 504« 1. p, 955. Eo  tempore Alcibiades etiam p. 2 17.  C. utitur: npoxaXovpai 8t) av-  tov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~  Xv&S ooSTCEp ipa6xt/S nai8ixoii  inifiovXevGov Hoc tempore utuntur, qui narrant aliquid, non nt  rem de industria tanquam praesentem auditoribus exponant, sed  narratoribus rei memoria abreptis  res tanquam praesens obversatur,  tanquam praesentem igitur ex-  ponunt. Sed inter loquendum  saepe ad se rursum redeunt et  ad auditores, atque temporis rationem agnoscunt, quo lacto ad  praeterita tempora verborum su-  bito recurrunt, ut hoc fit loco  nostro: xal idcov ev$vS napa-  xeXEvopai te avxolv Sapptiv  xal £A syov.  insita ipoiys idoxez  — ro* <Sov 6 7 } tovxo — . Verba ro 6or 81 f xovto lineolia  adhibitis a praecedentium et nb  insequentium verborum iunctura  seclusimus , no quis forte haco Verba ex i8oxei apta censeat.  Ad iSoxst enim o JSa?xpdr?/f  supplendum est ; Xo 6ov 81} Tov-  X O autem absolute positum est  prorsus nt ro' Af yopevov et aliao  huiusmodi figurae dicendi. Ver-  sus, ad quem respicit Alcibiades  in Nubibus Aristophanicis fcou-  tinetur 561.   oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv 080IS  xal XM<p$a\pGo napapaXAEiS,  ad quae verba Schol. annotat:  fipevSvEt * anotispvvvEiS 6eav-  xov iv ro3 6xppaxi xal xav-  pij8ov opaS. xopitdBftiS xal  yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem ad  Aristoph. Pac. v. 25.  xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsv-  SvEtai xe xal <payEiv ovx  a£,ioi   annotat: ro fipsvSvEXai avii   xov pkya (ppovEi. ol pb* ano  (IpivSovS rosi cpvxov , ol 6f,  (iique ialsisflpi quidem, ut pa-  tere opinor ex annotat, p.4. et  5.) pvpov E1S0S , c5 xpi ° v a 1  ywaixES xal in 9 avxcp piya  <ppovov6iv. Timaeus L. V. Pi.  fipevSvopevoS • yavpovpivoS  xal uyxvXopsvoS pexa fidpovS.  Recte igitur Stalibaumis f ipev- Ivftads , Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov ,  ygifia jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg,  Sijlog <dv ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai  xovtov rov dvdgog, ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio  xal doqiaXag dstysi xal ovrog xal 6 etegog. a%t8bv ydg  ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi axroy-  tai , dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C  xokld (uv otw L > tig xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm~    SveCBcn est, inquit, superbire  maguoque cara fastu i u »  cedere. Minus recte, at vide-  tur, tcotp^aXfito napaftdX\oov  esse ait torvo vultu oculos  huc et illuo coniiciens,  Recte Scliol. x avpT/dov dpti?.  Bobus torvum vultum esse nemo concedet, qui huius animalis oculos  accuratius inspexerit. Tavpqdov  autem Scliol. dixit, ut esset, quocum tranquillitas vultus compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem illa tranquillitas cum  incessu superbo, tum oculis iu  obliquum conversis, quales iu ci-  coniis persaepe auimad vertimus. Sententiae nostrae verba favent  t/pEpa TtapatixoTzeiov, quibus ma-  nifesta continetur proxime praecedentium explicatio. Miror au-  tem, etiam Stallbaumiura probusso  coniecturara Bekkeri , 7t epitixo-  irdjv scribentis, quae, si quid video, e Fichii conversioue hausta  est ; deinde mihi visus est> o  Aristophanes, quod et ipse ais, ibi non aliter quam hic incedere  superbus , et o cpl is. quiete  omnia circumlustrans , cauteque examinans singula. Qui cir-  cumspicit, non providentiam solum prodit, quae ipsa apud pro-  bos scriptores circumspectio  audit, sed etiam timiditatem  quandam animi quippe undecunque do periculo vitae metneif. Ceterum xal dupliciter posito in  comparutione: xal Ixel duxno  peveOSai wSnep xal £v$a8t,  nihil frequentius apud scriptores Graecos.   xal rov? tpiXov? xal  xov? ito\£ fiiovS. Eadem re-  ligio, qua scribae propter inso-  • quens 7to\Efjlov? scripsere qn-  Mov?, recentioribus impedimento  fuit, quominus, quod vulgo le-  gitur, tpL\oi>? iu ordinem ver-  borum recipereut. Yide annotat,  p. 13.   8f/Xo? cjv — itavv n J/3-  fia^Er, Similiter Apollodorus»  qui Socratis incessura imitatus est  xgjv ovv yvGopljx oov xi?, inquit,  OKl6$E xaxid GJV p,E 710 P(J G0-  Sev ixaXs6Er, x. r. A.   it por p ondbrjv . Annotat  Schol. ad h I. npoxpoitdSijv •  TtpoSvflGD?, dpEXadXpETtti , /lEXtZ  nporponij? r/ eI? xovpnpooHiY.  Ficiuus verba convertit : Fer. ne  enim qui ita incedunt, nemo  eos iuvadit , sed eos , qui efl isa  fuga deferuntur. Tt pronomen  indefinitum ad perli-   nens, neque Latino neque vernaculo sermone reddi potest satas  commode. Efficitur autem eo,  ut ov verbi potestas paol-  lisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal davfiatiia • akXa t Crv fdv aXXtov iitmjStv-  Hurav t u% uv ug xal itigl ciXlov rouzvra rfjtoi' ro  de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai , (itjte uxrv uta-  X.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV , TOVTO CC^LOV ftttV TOg &aV- ficcrog. ciog yciQ ’A%iXlivg    totius enuntiati ; Denn es ge-  schieht ia wohl , dass auf die,  welche sich so im Kriege be-  nehmen , fast nicht einmal ein  Angrili' gemncht wird , soudern  nur die werdeu verfolgt , welche  ia wilder Hast iliehen.   TtoXXa fi\v ov v av xiS  xal d XX a. E nostra loquendi  consuetudine Alcibiadis verba au-  dirent: noXXci a\Xa Savpdtita'.  Vieles audere wunderbare. II c-  ctius Graeci xal vocula adhibita  disiunxere verba , qua re edici-  tur, ut singulum quodque verbum  suum pondus habeat propriamque  potestatem accipiat. Persaepe  Luiosmodi dictionis exempla reperiuntur; interdum tamen etiam,  «]uue cum nostro usu loquendi  couveniant, reperias. cfr, Symp,  p. 195. B, iyoa 81 <Pai8poj xoX-  Xd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx  bjzoXoydi x . t. A., quo loco rovzo  pronominis vis nou passa est,  opinor, ut xai addito 7toXkct  «AA a verba validius emineant.  Jb. p. 201. D. y xavxa te 6o<py  yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. praeterea Matth. Gramm, ampl.   444. 4. p. 830.   22a>xpdxy inaiv e6 at.  "Vulgatae lectioni 2(*>xpdxouS  praeferendum ducimus meliorum  librorum scripturam) exquisita  **uirn dictio est neque multo usu  protrita inaivetv xivd xi, quam  recte comparavit Astiu3 cum formula A dyuv xiva xi. Etiam io-tyivtxo , (i7C£ixcc(S£UV av tl$    fra p. 222. A. e melioribus li-  bris recepimus a iyta 2<axpdxy  InaivGj. S t a 1 1 b.  «AAa xdov p.\y aXXcov  littxydev p ctXGDV. Genitivus  cum sequente xoiavxa cohaeret;  quod quo sensu dicatur ut iotel-  ligas celerius : expletior oratio   audit : aXXa x&v plv aXXcov  Imxybevpdxwv a EAeyov, xdx  civ xiS xal 7tF.pl aXXov xoiavxa  efjroi. Huius genitivi absoluti  qui quidem argumentum indicet  sequentium verborum, multa ex-  empla Matth. collegit Grapnm.  ampl. §. 342. 3. p. 650., quae  quidem omnia ita comparata esso  videntur, ut e verbis facillime  supplendis aptentur. Dubitari  igitur licet, num Graeci genitivo casu ita usi sint, ut eo po-  sito expresserint, quod Latinis ia  asu est: quod spectat ad,  quod pertinet ad, cet.   roiro d£ibv 7cavroS  SavfxaxoS. Ficiuus vei ba red-  didit : Verum illa praecipua io isto, per quae nemini  aliorum hominum neque antiquo-  rum neque novorum esse similis  reperitur. Quam conversionem  si recte intelligo, Ficinus sensum  verborum esse ait hunc: Praeter  ea, quae in Socrate , esse Alcibia-  des dixerit, alia nova esse, quae  cum nemine comparari possint.  Sed proreus aliud quid Alcibia-  dem dicere arbitror. Agit nimi-  rum de integritate hominis, quam    Di  t>-  889    «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai  NiiSxoga xal 'Avxrjvoga , dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d  aXXovg xara ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl  ytyovt. xrjv uxoidav av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi  avxov , ov8’ iyyvg av tvgoi ug ir/xuv , ovxs xuv    individualitatem vocant recentio-  res» Singala quidem ait , quae  in Socrate sint, passim apud alios  quoque reperiri, integrum homi-  nem autem si spectes, neminem  esse, quocum Socratem compa-  rare possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis fortissimus , dux Lacedaemoniorum, praematura morte ex-  stinctus in pugna ad Amphipolin  01. LXXXIX. 3. H. e. a. Ch.  422- Ceterum nota iuversum no-  minum ordinem, quo in altero  enuntiati membro Achilles priori  loco positus est, in altero poste-  riori Nestor et Antenor, quo no-  minum ordine hoc, opinor, indi-  catur I Antiquitas viros habet,  qui cura nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari pos-  sunt, rursum nostris temporibus  sunt et fuertfnt, qui antiquitatis viris similes esse reperiuntur.   oloS ovrodl ykyove  xrjv dtonlav av$ pGoitoS,  Ovxo 6 i paullo infra accuratius  definitur verbis avxoS" xccl ol  Xoyoi avxov , quibus verbis ad-  ditis Alcibiades aditum paraturos  est ad ea commemoranda, quae  in superioribus commemorare omisit» Sic paullo infra eodem modo  legitur : avxov , — avxov xal  XovS XoyovS. Laudat Stallbaumius apposite Piat. Criton. p. 50.  E. ovxl rpikxipoS rjtiSa $ot>-  Aof, avxos te xal ol 601 izpo-  yoroi; Soph» Oed. Coi, v, 452*    iita&oS p\v OlSlitovf xa-  xoixtldai   avxoS xe naidks $r* aib*.  et v. 864.   xoiyap 6l , xocvtov xal yk -  "vo? ro 6ov Becov   d txavxa A evddojV "HXtos doitj  filov   xoiovxov .   In hoc genere dicendi quoniam  copulam bis posuisse videantar  veteres, Riickerti industria etiam  nostro loco dupliciter poni iubet,  atque revera edidit avxov xe  xal xovS A oyovSf quae scriptura  in aliquot codicibus comparet»  Potuisse Platonem copulam bis  ponere nemo negabit, qui ex-  empla supra laudata legerit $ sed  cur non item dicere licuerit Grae-  cis avxov xal xov* A 6yovS> frustra rationem quaeras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ V  TCaXai gj v. Suspicionem moverit haec verba depravationis, quae fieri potuit facillime, ut e  praecedentibus verbis p. 221. C.  r 6 ptjdEvl avSpoditGov opotov   elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE  Xgdv vvv ovxojp, huc transfer-  rentur. Suspiciosa autem verba  sunt, non, quod cum rls pronomine indefinito coniungi debeant,  tjuo facto sane sententia existe-  tet neUtiquam probabilis, neque,  quod nimis remotum sit iyyvs  iromen, ex quo genitivi illi pen-  dent, — tantam autem vim habet  kyyvf principe enuntiati loco po-  litum, ut huiuamodi structurae vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o Xeya> txxei-  xagoi rtg ttvxw , av^ganav fiiv /ir/devl, toij da 2,'ec-  Xrjvolg xal EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX VII.   ICal yag ovv xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov.   pondus facile sustineat, — sed  Platonem scripsisse arbitror, si  verba addidisset ovte rc ov vvv  ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva ovd  lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor. Ficinus  exhibet in conversione: Sed qua-  lis Socratis est qoalisque eius  mira dicendi ratio, nemo prope  ad eius similitudinem accedet ne-  que veterum neque eorum , qui  nunc sunt.   el ptr) dpa. Post dpa cod.  Bodleianos aliique pauci ei ha-  bent, quod Bekkerus et Stall-  baumius in ordinem verborum re-  ceperunt. Atque hic quidem ad  ei firj apa e praecedentibus repetendum censet: evpoi xi$. Ad-  modum dubito, num cuiquam lentorum placere possit, quod hoc  supplemento edicitur, dicendi genus impeditissimum. Riickertus  alterum hoc ei e textu semovit.  Recte, ut videtur.   xal yap ovv xal. Duplex  xal ne quem offendat hoc loco :  xal yap ovv xal ex eo dicendi  genere esse contendimus, de quo  supra dictum est annotat, p. 5.  et 6. Recte autem nobis vide-  mur ibi annotavisse, prius xal  in liuiusmodi dicendi formulis ex-  pletivum esse, atque particula-  rum quarundam levitatem ita ag-  gravare, ut principis in enuntia-  tioue sedis gravitatem sustinere  possint. In harum particularum  numero etiam particula caussalia  est , quam veteres nunquam in  enuntiationis alicuius initio posuere. Alteram xal diximus gravitate quadam verbum, cui praepositum sit, ornar j , quae cum  aflirmatione sit coniuncta. Iatr»  cum supra Alcibiades dixisset p.  215. A. iav pivxoi dvaut -  fivjjdxopevoS aWo a\\o$ev A i-  ycj, pTjStv Savpadyf, verisimile  est, eundem nunc ad ea respe-  xisse, atque exemplo malam me-  moriam comprobasse. Kal yap  ovv xal verborum paullo dilfi-  cilior vernacula conversio est. In  Schleiermacheri conversione legi-  tur l Und dies habe ich gleich  zuerst noch ubergaogen , quod  cum Graecis verbis minus con-  venire arbitror. Mens Alcibiadis  respicientis, quod accurate tenendum est, ad verba p. 215.  A. , haec est : Denn da ist ja  nun der Beweis, dieses habe ich  zn Anfang ausgelassen.  T oiS dioiy ojiev oi$. Sae-  pius iam de usu verborum annota-  vimus, quo omittuntur alia quae-  dam verba, quorum additamen-  tum, secundum nostram loquendi  consuetudinem si rem iudicas, ad  rem necessarium est. Ut exem-  plo utar, dioiyexai dicitur pro  8iolye65ai Svvaxai, dioiyojii-  vovS pro StoiyeGSai dvvapti-  vovSy quibus exemplis statim edo-  cearis , qua conditione hujusce-  modi omissiones Graeci scripto-  res admiserint. Fusius (ie hoc  dicendi genere supra diximus an-  notat. p. 169., p. 207. , al.   ei yap t5e\ei zt$. Haec ion xal ot loyoi avxov otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg  xolg dwiyofiivoig. tl yag IfthXet, xig ' xav Eaxgdxovg e  uxoveiv Xoycov, qiavEitv av itaw ytkoloi x 6 xcgmov’  xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa ^a&ev rtegia/ixe-  %ovxui Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg yag    plurimorum atque optimorum co-  dicum lectio est, prae qua multo  deterius est, quod vulgo edeba-  tur ISlkoi, Diximus de ei par-  ticula cum indicativo coniuncta,  praecedente vel subsequente opta-  tivo et av 'annotat, p. 38. ibi-  que potestatem huius structurae  explicavimus. Supra Alcibiades  dixit p. 216. A. xal In ye'rvv  Hvvoid' ipavzoo , ozi, ei i$6-  Xoifit itapexwv za atra, ovx av  xapZ7fp//(Saipi x. r. A. et panllo  infra filat ovv oa?nep ano zdav  2 'eipjjvcov , inidxopevo? za arae  oFxojuai tpevyoov x. z. A. , quae  verba ideo laudo, ut melius per-  spicias, qui fiat, ut Alcibiades  potissimum dicat ei yap iSehei  T i? x. z. A, h, e, denn wenn ei-  ner wirklich das Ilerz hat , die  Reden des Socrates zu veroeh-  roen. Quivis alius, qui non ex-  pertus esset, quae sibi accidisse  Alcibiades narrat, non dixisset  ei yap i$£\et zi? x, z. A,   2azvpov av xivavfipt-  6tov 6opav, h. e., Stall-  baumius inquit, ol A oyoi avxov  totavza ovopaza xal firjpaza  ixovtiiv &snep av ei SZwSev  7tepiapn^x otyTO 2azvpov ziva  vfipidxov dopav : sermones  eius talibus nominibus  et verbis compositi sunt,  quasi Satyri quadam irrisoris pelle extrinsecus  amicti sigt. Porro ne quis  av particulam suspectum habeat,  verbo omisso in oppositione po-    sita, sententiam hoc modo explicandam censet : oia av efrf   Sazvpov zi? ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo magis pateat, propriam dictionem cum tropica per  elegantem quandara breviloquen-  tiam conflatam esse, interpunctio-  nem post nepiapnlxovzai vulgo  positam delevit* Riickertus im-  probata hac omissione interpunctionis comparationis significa-  tionem in ziva' pronomine in-  definito deprehendisse sibi vide-  tur verbaque convertenda censet 1  talibus nominibus et ver-  bis extrinsecus involuti  sunt, quasi Satyri quadam pelle» Ficinus habet in  conversione; Nomina quippe et  verba exteriori aspectu Satyri  cuiusdam contumeliosi habitum  prae se ferunt. Satis nobis displi-  cet ziva pronomen indefinitum,  neque, quomodo interpretibus satisfacere potuerit istud: Satyri  quadam pelle , intelligimus ;  Ficini pronomine offensi liberior  conversio: Satyri cuiusdam  pelle; sed ne hoc quidem , si  in Graecis legeretur XiVot , setia  bene habere videtur. Respicitur  enim ad Marsyam , cuius men-  tionem supra fecit Alcibiades. Av autem particula admodum du-  bito , num recte explicari possit*  Pone recte a Stallbaumio explicatam esse: o£nf av eXrj 2a->   rvpov xi? vfipidtov &opd : hoc  certissimum est, enuntiationem  addita hac av particulae notione  frigidiorem fieri atque langui-  njATaNOs  I  xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal dxvroropoug    xal (IvQGodtipae , xai au dia    dSorem. Itaqne non dnbium eat   nobis, quia verba dv ttva depra-  vata sint. Scribendum est: tot-  avtct xal 6v6f.ta.ta. xal faijfiatct  HZaoSev 7t£piafi7texovtai f 2arv-  pov avtixa vftptdtov 8opav .  Quam facile avtixa , cuius vo-  cabuli usum non intelligereat librarii, in av tiva mutari po-  tuerit, ipse, lector, vides. Adhi-  buere autem illud vocabulum scriptores ia exemplis argumentisque  afferendis atque in comparatione  haud raro. cfr. incerti auctoris  Alcib. II. p. 138. C, tSsnep tov  OiSinovv avtixa <pa6\v evB»a~  6$ai SieXidZat ta na -   tpoHa tovS vlelS x . t. X. Ibid.  p. 189. B. navtaS ovv av <pdv -  reS , oj AXxifiidSrj, rovS a<ppo -  vaS ftaivedSat, opSwS av (pai-  tjpev. avtixa tc ov ddov 77 A 1 -  xtootcov et tiveS tvyxdvovdtv  acppovLS ovteS, &Snep eidi, xal  tgjv iti npedftvtipoov. Ibid. p.  144. C. ovxovv ol firjtopes a y-  rixa, ytoi eldotes &vftfiovXev-  etv rj obfSevteS eldivai x. t. A.  Piat. Protag. p. 359. E. aXXd  fikvtoi , i<prf, co 2c6xpateS, ntiv  ye tovvavttov idtlv ini a ol  te deiXol ipxovtai , xal ol av -  6peioi. avtixa eis tov noXe-  ftov ol fiev iSeXovdiv levat, ol 0  61 ovx iSiXovdtv. Piat. Gorg. p.  472. D. avtixa npcotov,nepl  ov vvv 6 Xoyos idrl, dv ?}yet  olov te eivai, elvat ftaxapiov  avdpa adixovvta te xal d6t-  xov , etnep x. r. X. fii loci ac-  curate inspecti satis docent, per  avtixa vocabulum exempla af-  ferri talia, qualia loquentia animo illico offeran-  tur. Quoniam autem exempla,  tov avtav ta avtct <pai-  quae loquentis animo inter lo-  quendum offeruntor, non sem-  per aptissima sunt neque omnium  optima , quae afferri potuissent :  avtixa vocabulum indicat, alia  exempla reperiri posse fortasse,  quae rectius nunc laudentur, sed  loquentem, quod primum ipsi se  obtulisset, id exhibuisse, Inest  simul caussae indicium , cur ex-  emplum laudatum scriptoris ani-  mum primum subierit. Sic io  Alcib. II. p. 139* B. quoniam  cum Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai Alcibiadis per avtixa vocabulum exempli caussa laudantur. In Piat. Prot. p. 559.  E. SelXqjv et avSpeicov nomina  ultro ad bellum laudandum loqoen-  tem duxerunt. Rem extra dubitationem ponit , ut alios locos  praetermittam , Piat. Gorg. p.  472. D. avtixa npdotov , nepl  ov vvv 6 XoyoS idtiv. Neque  mirum , Socraticos sermones cum Satyri pelle addito avtixa vocabulo comparari , cum ipse. So-  crates paullo ante cum Marsya  comparatus sit. Iam nostro loco  avtixa pro dv ttva ubi posue-  ris, verba vertenda sunt: So1che  (b. e. so litcherliche) Worte  und Satze haogen auswen-  dig durum heram, eben  eine wahresSatyrfell. Ce-  terum quod Stallbaumius censet  nOn opus fuisse in hac compa-  ratione 00 S particula : coS 2atv~  pov dv ttva vftptdtov dopav,  quoniam et Graeci, et Latini  scriptores haud raro eam appo-  sitioni vim tribuerent, ut habe-  ret simul comparatiqpis signifi-  cationem : coS particulam nostro  loco ne ferri quidem posse con-   veta* leyuv, agrs SltEigog «ai dv<njTog Sv9qox og zdg  &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id av av 222    Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav  foret : quasi Satyri peJle amicti  sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut Satyri  pelle r er er a amicti dicantur*  Recte igitur a nobis in conver-  sione additam nomen : wahr.   Eodem modo loci explicandi sont,  quos Stallbaumius laudat annotat,  ed h. 1.: Aristopb. Aw. y. 169.  et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvX-  XoS vitoxddxcov ipeiS t ad quae  yerba frustra Scliol. X sinet 81,  Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS ai-  CxpovpyiaiS nexr}vo6s. Tibuli.  I. 1. 7» ipse seram vites  rusticus, quo loco illud ipse  aeram quasi rusticus ad-  modum ieiunum foret. Horat.  6erm. I. 1. 99. hunc liberta  • ecuri divisit medium for-  tissima Tyndaridarum.   ovovS yap xavSTjXlovS  Scliol. s. v. navSrjXiovS * xovS  fipaSeiS , inquit, voijdai r) a -  <pvels ano navSavoS, oS idxiv  tvoS, elprjpkvoi , oS naXiv ano  to ov xav^njXiGov , xcjv inixiSe-  fikvcov avtqS inindpnxcev B,v-  Xa)v , xovxidxi daypdxoov, ovo -  paP t Exai ovxcoS. Idem sub T,  fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS  ipyapopkvovS nal paXazxov -  taS, Socraticum hunc morem, res  vilissimas atque tritissimas cum  aummis miscendi multi loci Pla-  tonis repraesentant. Sic io Piat.  Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal  naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov,  <paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov  rivoS ht Mei/S elpi. xrjv yap  $epaneiav (sc. rc5v Seobv) oviccd  G vritlfit rjvxiva ovopapaS. ov  yap itov Xkyeif ye , oleti nep  nal ai nepl za aXX* Sepanetai  eidi, toiavxrjv nal nepl xovs  SeovS. Xkyopev yap itov , olor (papev , innovS ov naS  inidxaxat Scpaneveiv , aXX’ d  inmxoS. r\ yap; E. navv ye,  2. r\ yap itov Innixi} Inncov  Sepaneia; E. vai. 2. ov8k ye  nvvaS naS inidxaxat Sepanev-  €iy , aXX* d xwipyenxds. E.  ovxgos. 2. ij yap nov nvvrjye-  xim } xvvgoy Sepaneia; E vai.  2. t\ 8k ye fiorjXaxim/} ^ocov ;  E. navv ye. 2. rj 81 6 q odtoxnS  re xal evdkfieia Segov c o Ev-  Svtppov ; ovxooS XkyeiS \ E. i-  ycoye.   nal dnvxoro fiovS cfr.  Piat. Gorg. p. 490. E. rov dxv-  toxdpov IdcoS pkyidxa Sei vno -  Sijpaxa xal nXetdxa vnoStSe -  pivov nepinaxeiv. K. nola vno-  Sipiaxa tpXvapeiS ix cor; quae  Callidis verba optime transtulit  Stallbaumius annotat, ad h. 1. p.  ed. 157. Was liast du nur, dass  du doch immer von Schuhen  achwazzest. Quae seqnuntur ver-  ba xal dei 8id xcov avtcevxd  avxa (paivezai Xkyeiv optimo  probantur Callidis verbis in Piat.  Gorg. p. 490. E. cos dei xavxa  XkyeiS , gj 2cdxpaxeS. 2. ov po~  vov ye, cJ KaXXixXetS , aXXa  nal nepl xdev avzaov. K. vi}  rovS Seovf, dxexy&s ye ael  tinvxkaS xs nal nvatpkaS nal  payeipovS Xkycev nal ipcxpovS  ov8lv navet coS nepl xovxcoy  rpiiv dvxa xov Xoyov.   StotyopkyovS dhiScev  av xiS. Bekkerua pro av, quae  omnium librorum lectio est, av  in ordinem verborum recepit.  Eum secuti sunt Astius et Din-  dorhus. Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog «vrinv yiyvv/isvog ngcorov pev vovv  fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav koycov, inuta ftu-  otdtovg xal nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg E%ovcag  zcd Ini TtktiOtov ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov  ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu, xcdco xayadqi iOECidcu.   Tavt’ istiv , « avdgeg , a lya Evxgdr-q incava’    pcv particulam etiam eo nomi-  ne improbare, quod, si eam exhibuisset scriptor, alio loco po-  puisset : 8iozyo/.iivovs av   idejy. Male autem {Scov av ex-  plicat : idv TiS I8y: si quis  forte viderit. Nihil enim  certius est, quam IScjv dv idem  significare atque el fdot dv, quam dicendi formulam frustra negantur  scriptores Graecos interdum adhibuisse, Alio tempore explicatius  de idv TiS fd#, eI tiS I801 dv,  Similibus dicendi formulis discemus, nunc hoc tantummodo an-  notare iuvat , eI particulam cum  optativo et ay coniungi, ubi  heri aliquid pouitur, quod vix  heri possit, et quod si fiat,  ex insperato accidisse putatio  dum sit.   h# 1 irroS ccvzgjv yi-  yvopEvoS. Haec verba Schlei-  ermacherus convertit: Wenn sie  aber eiuer geoflhet sieht u n d  inwendighineintritt. Hecte quidem verba Graeca conversa sunt, sed haec ipsa vehementer dubito, num bene se habeant. diotyojxevovS participium satis docet, Alcibiadem ad Silenos respicere in artificum officinis collocatos, Iam si quis  (jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri, epistomio ab utrius-  que lateris foramine remoto ad  alterum foramen propius acce-  debat, non in concavum Silenum    descendebat ; scribendum Igitur  videtur esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy  yiyvojievoS. De ivtoS , iyyvS ,  al. saepissima in libris commatatione vide aunotat. p. 122,   fiOYOVS evpjjaci TGOV  X6ya)v. MuvovS Statlbaumius  eodem modo dici censet, atque  p. 215. C, pova HaTExzGSoti  ItoiEi , h. e. eximie. Sed vide  annotat, ad haec verba p. 341.  Hoc potius Alcibiades dixisse censendus est: Solum Socratis sermonem in se habere, quod vodv  h. e. iutelligentiam fere divinam prodat. Quod ita dici ab  Alcibiade nemo mirabitur, qui  quidem legerit, quae p. 215. D.  et E» de Socratico seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus ad-  ditum censet propter oppositio-  nem sophistarum, quorum ora-  tiones extrinsecus quidem splen-  deant , magnamque veri speciem  prae se ferant, intus autem, si  quis accuratius exploraverit, omni  veritate careant. Dubito, num  hac ratione ivdov vocabuli po-  testatem satis recte explicatura  habeas, "Ev8ov potius additum,  Ut lector moneatur significantius,  sermones Socraticos cum Silenis  comparari, qui in artificum of-  ficinis sedentes intus in se simu-  lacra recondita habeant deorum.   pdXXov 8 e . MdXXoy 8e  eius est, qui arctioribus finibus  circamscrih^t, quae proxime prae- i by'Cyo<j[c  zrMnosioN .  'acu ccv, 8 (lificpofifu <Svf lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e.  xal (dvtoi ovx Itis fiovov ratha nsxolrjxev , alia xa i  XccQfildtjv rov riavxuvos xal EvftvSr]fiov rov a ho -  xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov  c5g sgaGTrjs xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’  Iqu6tov. a 6rj xal Ool Isya, a ’Jyd&cn>, fitj locata-    cedentibus minus accurate erant  atque latius patentia enarrata.  Vide annotat, p. 15.   tavx* £dtlv y qj avdpeS  — v (5 pld ev* Vulgo iuterpun—  ctio comparet post pipqiopai,  quam BekJcerus iu textum rece-  pit, Stallbaumius delevit, Riicker-  tus post dvppi£>aS transponen-  dam curavit. Nos et post dvp»  pl&<xS et post av 3 quod cum in-  aequente eluor arctius coniun-  geudum est , comma ponendum curavimus. Sensus est: Haeo  sunt, o viri, quae mihi iu  Socrate laude uda videntur  et rursum dixi vobis, laudationi vitupcrium adjungendo, quanta superbia necum egerit. Quam  Wolfins foci interpunctionem pro-  bavit : a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa t  xal av a pkpcpopai. tivppl&ctf  vfiiv eItxov , a pe vfipidav , ea  ne rectam quidem sententiam  fandi t.   X a ppiSijv rov r\av -  xcdvoS. J)e Gharmidc. Glauco**  uis lilio, vide Plat. Charmidem  p. 154. seqq. , p. 157. seqq.,  Xenopb. Memor, III. 7., Sympos.  III. 9-> IV. 29. coli. Wytten-  Lach. ad Select. Princip. Ilistor,  p. 411. Iuvenis fuit et genere  nobilissimo Gritiarum oriundus et  praeclara animi indole praeditus. Enthydemus intelligitur Dio-  clis filius j idem est , qui cum    Socrate colloquens inducitor apud  Xenoph, Mera. IV. 2. 40* Male  eum Wolfius confudit cum Eu-  thydemo Sophista, cuius nomine  Platonis dialogus Euthydemus in-  scriptus est. Stallb.   itaiSixa fiaXXov avr of.  Socrates hominibus pulcris ita  insidiari solebat, ut eorum amore  captum se simulans ipsis vehementissimum amorem iniiceret  sui. Respicitur ad hanc rem iu  Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS  tovxoiS psvxoi toSe XeyG i, oxi  XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo  6]pjltu % g3 2<nxpocteS , ro plv  dor £y<v , dv Sk xovpov . ov  yap Idxiv oncoS ov itaidaya)-  yijdco ds ano xijsde trjS rjpi-  paS, dv 6* vit * ipov itaiSa-  yayrjdEi. 2. yevvale , ice-  Xapyov apa 6 ipoS ipnoS ov-  6lv dioidei 9 si itapa dol £v-  VEaxxtvdaS tpeoxa vitoitXEpov  vito tovtov Ttakiv $Epa7tEV-  dsrau /   a 8?j — pr) £Za7tata-  d$ai vico tovtov. Bodle-  ianus codex, in quo interdum  manifesta indicia correctoris nou  indocti reperiuutur , ttiaitaxa,-  dSe exhibet , quod quamquam  aptum est et bonum , tamen  recte postponitur lectioni vulgatae. Per epexegesin enim pt }  iZartaxadSeii verba praecedenti  relativo pronomini apposita sunt,  idque genus dicendi , quoniam  i  jiaathnoz   raO&cn vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav Tca&yfiu-  xav yvovtct tvXaptj&yvai , xal (itj xotzd vqv 71uqoiuluv,  SgitEQ injTCiov, xu&bvrci yvuSvat.  Cap. XXXVIII.  C Ehtbvtog Srj xccvvu xov 'Alxifhudov , yikma ys-  vlaftcu Ini xy na^Qyisla ccvxov , on idoxei in Igco-  xixws i%uv xov Suxquxovs. xov ovv Eaxqccxij, Ntj-    suum quoddam pondus habet,  Graecia adamatam est magno  opere. Eius ut unam exemplum  alleram, legitur io Sophocl. An-  *ig. v. 446.   8v 8’ tini poi pfj pijxoS j  aAAd dvvxopa  ySyS xd xrjpvx^ivxa , prj  npatfaetr r a8e ;   Ceterum quod relativum prono*,  mea attinet, quod ad praecedens  tia semper refertur secundum  praecepta grammaticorum, prae-  clare Stallbaumius annotat, ad  b. 1. Plene, inquit, Alcibiades  dicere poterat sicj ex quibus  quae consequuntur, ea  etium te moneo, videli-  cet ue ah hoc decipiaris, oxctxd rtjy TC a p oiplpr.  Respicit Alcibiades ad Hom, '11,  XYIJ. v. 32. et XX. 198.   aXKd d’ iytuy dvaxooptj*  davxa xe\eva>   IS nXr/^vv liycu , pt/8’ mV-   xioS tdxad’ i/tuo  nplr xi xaxdv naSietv- fie-  X$tr di xe yi/nios lyra,   $cho]. nd Ii. 1. annotat; fiexShr  Si Xf. vyttiQf iyvay ini reo r  peia xu naSelr dvviivxajy xd  apaptrjpa. figd xd avxd txipu  papoipia' d «Atetifr n Ay-  yeis y ovy ipvdft. qxxGt    ydp aXiia ayxidxpevorxa, inei~  Sdy dnddtp xo 5 A Ivoo xov ix$vv,  xtf x n Pl npotayaydvxa xaxi-  Xeir , ira prj <pvyg . xvvxo 61  dvrtjSatS noiovyxa vno dxop-  xtiov icXr/yrjvat' xal tine onXti-  yels yovv cpvdetS, xal pr\-  yixt npoSayeiy ig ixetvov xtjv  Xtipa. — "E<Sxi xal xpixrj opalo-  idv prj naSyS, ov prj p a-  Sr/S. iXix^t/ 61 ini Tipatrof  Xov ptdavSptdnov ptjxhi npoS-  tepirov x ovi xoXaxaS, Apud  Hesiodum legitur, quod propius  etiam videtur ad Platonis verba  accedere Opp, 216. naStdy Si  Xt vr/moS lyvat,   ini xy nafi/tr/dlce av-  xov. Ipse Alcibiades p. 217, E.  xd 8' ivxtvSttv , inquit, ovx av  pov tjxovdaxe XiyovxoS, el ptj  npdxor pb> xd A eydpeyov ol-  yoS avev xe nalScov xal pexa  naiSatv r/v dXt/Btjs, quibus verbis napfttjdiay excusari mani-  festum est.   xdy ovv 2<» xpdrijt Mira  arte , quae sequuntur, excogitata  sunt atque praecedentibus an-  nexa- Etenim cum orationem  Alcibiades finiisset^ quae ingen-  tem cautineret Socratis laudem,  fieri non potuit, quin Socrates  aliquid responderet. Exspectabas  urio fer« quid responsurum esse,  %   m    q>t tv (ioi tipxs Ig, tpavai , <o ‘AhufiiaSri’ ov yctg Sv  nors ovza xouipcSg oxvxXty X£QifiaU.6[isvog utpavloai  ivt%siQu; ov evexa zavza navza dgtjxag, xal cSg tv  uaQtQycp drj Uyov ixl zetevpjs avxo Edjjxag, tog ov  navza zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai h fya&ava  tiucpaXluv , olofitvog deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs- o  vog allov , 'Aya%ava 6'i vxo Oov iguodai xal ftijd’  i(p' tvog aU.ov. alX’ ovx tXadtg , akla zo UazvQixov    quale, qui laudantur, edere so-  lent, modestiae documentum. Id  si Socratem proferentem indu-  xisset scriptor, verendum 6aue  erat, ne rerum ab Alcibiade ex-  positarum fides imminueretur vel  vis atque vigor infringeretur.  Contra si nihil respondeutem fe-  cisset ad laudes illas , neminem  esse arbitror, qui Socraticum si-  lentium non superbiam et arro-  gantiam sit interpretaturus. Ne  igitur ad laudes Socrates respon-  deat atque ne superbire videatur,  finem Alcibiadeae orationis ag-  gredientem Piato fingit, atque a  laudatione animos auditorum fe-  liciter deflectentem. Qua ratio-  ne id fiat, exponere nolo} ipsi  lectores verba examinent, stu-  diose singula expendant, Plato-  nisque artificium, quod ipsi de-  prehenderint perse nserintque, ad-  mirentur.   ovx a xopip 00 ^ h. Stall-  baumius inquit, tam scite  artificiose. Idem xo/iqfrev-  e6$ca rectissime annotat. ad Piat,  de rep, IV, p. 4 36. D. de ora-  tione festiva , arguta et ad ca-  piendos auimos auditorum apta  interpretatur Timaei laudans L,  V. Pl. p, 154. seqq. Verba *«-  kAo>7 nepifiacXXopevoS esse docet  multis orationis ambagi-  bus usus. Fortasse ad Alcibiadis verba Socrates respicit p,  215. A. iav fUvxoi dvajJtipvTj-  tixopxvoS aWo aWoSev XSyco,  fiTjdlv SavpdtiyS' ov yap xi  fipSiov xrjv (??jv axoxiav gj< 5 *  ftovn evnopooS xai itpeZrjS xa-  xapi%pij6au De a<pavi6ai ver-  bi potestate supra dictum est an-  notat. p. 561.   x.al cJ s iv itaptpyop  tdi} particulae ironicam significationem. de qua vide Indices s. v.  6rj, etiam ex hoc loco cogno-  scere possis. Sensus est ver-  borum : Et scilicet quasi praeter propositum at*  que consilium tuum,   r ov ipl xal 'AydSoora  § iap aWeiv . cfr. Piat. de.  rep. VI. p, 498. C. firj 6ia-  fiaX\e, jjv 6* lyw, i/ih xal Spa-  Qvpayov apxi (plXovX yeyovo-  xaf, Qvdfc Ttpq % ov i%$pov$  ortas,   oiofteros 6elr tfil. D.  (Uiv verbi potestate supra dictum  est annotat, p, 12. Non sino  acerbitate hoc loco positam est,  simulque vanitas opinandi Alci-  biadea perstringitur: indera du dir einbildest, ich miisse uuura-  giinglich cet, Prorsus eodem  tpodo Alcibiades paullo infra p.  222- E, oiexai pov 6elv nav-  raxi KBpuwccu \ .* I Oov dQC!(ia tovto xal OeiXrjvixbv xataStjkov lyivEto.  ' bAA’ , tJ <plle 'Ayaftuv , fitjdlv ‘nUov avttp ytvrjtai,  «AAa naoa<S>isva£ov , oxag ifih xal al [lydels 6ia(id At;  Tov ovv Ayd&uva. tlmlv , Kal firjV, i b ZdxQatEq , xiv-  dwt vug cckrj&rj i.tyuv ’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xate-  E xltvrj Iv pii 1(o sftou rs xal tSo v , Zva %aq\q jj/iag 6iu-  JLufiy. ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd xagd    dAAa ro Sarvpixdv  6ov 8 p a p a tovto xal  SeiXtjvixoy . Recte intelli-  pet haec verba qui meminerit,  non nisi ante actis fabulis tragicis Spapaxa 2atvpixa edita  esse. Duo autem sunt, quae iis  commemoratis Socrates reprehen-  dit. Alterum, quod in fine  orationis Alcibiades posuerit ea,  quae primarium locum obtinere  debuissent, si apertius sensa sua  ille depromere voluisset. Alterum , quod Satyri Silenorumque  comparatio ea taatum de caussa  instituta sit, ut orationis finis  Alcibiadisque consilium facilius  tegi possit atque velari. Satyricum illam poesin quod attinet,  apud Zenob. legitur: tqvS Sazv-  povSv6TEp6v 28o%tv ccvToiS npQ-  EtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy liti-  \avSavE(5Sai t od $eov. Probat  hanc sententiam Wachsmuthius  in libro: Hellen. Alterthumslr. II.2. p. 412. : Ais die Tragocdie des urspriinglichen voti Dionysos haudelnden Inhalts sich  entdussert hatte, und wie eia  freigewahltes und au den Dio-  liysosfesten nur ausserlich hinzu-  gefiigtes Kuustgcbilde erschien, vrurdp, man mogte sogen aus ei-  ucr Art von religiosem Bedenken  tmd zur Eriuneiung an die an*-  fftnglichc Beschafienheit des Chors  das satyrische Drama eingefiihrt,  das freilich rait seineu StolTeu    auch nicht nuf den Kreia dio-  nysischer Mythen beschrankt, und  dessen iunerer Ton und Haltung  tveder von dem tragischen Ernste  noch dem komischen Scherze  streng gesondert war, dessen ei-  genthiimliches Weseu daher wohl  nnr in der Wiedereinfiihrung des  ehemaligen Satyrchors zu suchen  sein mochte.   pTjdlv itXkor avTQj yk -  vrjxai , h. e , Stallbaumius in-  quit, opa, pt) te TcKtov avTGj  ykvijrai. Dubito, nui n hao  ratione veiba recte explicata sint.  Scriptum certe exspectaveris : pt/-  8lv tc\Lqy atheo ykm/rai, xal  xapadxF.vdctov , oizgdS ipk xat  Ce pt/SsiS 8iafid\y. Non recte  enim in eadem enuntiatione consociari videntur opa — d A.A. d  itapaCxeva£ov> Mj/81y — yk-  vr/xai in eum potius cadere videtur, qui suarum rerum certissimus eloquitur, quod non sit  futurum: Oewinn soli er da von  tilcht huben, \  Zvct x&pl* vpds 8ia-  Xdfty, Dictum hoc eleganter  cum amphibolia qqadam, ut et  de spatio possit cogitari et do  animorum disiunctione, Stallb.   a\X’ ei pt/ ti dAAo, g5  $ avpaCiE, Alcibiades cum  Socratem se potiorexn esse anim-  adverteret in capiendis homi-  num animi;, oj SavpdCu op-   ztmiiozion  fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai. Tlavv yi , <pavcu rov Ha-  XQattj , Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv , cl~  mlv rov ’AXxi(iiadt]v , ola av na<S% co vxo rov uv&q<6-  jcov. o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl (itj  n aXXo , o) &avuc((hE , Iv pioco rj(i<av tu 'Ayu&avcc  xataxslo&ca. 'A XX’ aSvvazov , (pavae, rov JkaxQanj.   <Sv filv yccQ lui httjVEGas , 8b t fi’ i(i's av rov Ixc dt^ta    pellatione usus est, cnias po-  testatem aut non explicarunt in-  terpretes , aut non satis recte*  Gav/iageiv verbum haud raro  ita adhibetur, ut rem magicam  significari indicetur. Sio in Ari-  stoph. Nubb. v. 180.   ri 6t/t* ixetvov rov QaXrjr  Sav/HxZojxev 5   De Thalete praestigiatore sermo  est, quem axpov pr\xavix6v vocat Schol. ad hunc locum. Gav-  fiaxa praestigiae sunt. cfr. Plat.  de rep. VII.p. 514. B. xap*   7jv (sc. 060 ^) TEtxlov ita -   poDxodoppjnirov y coSTtep xolG  $CtVpaTQ7tOlOlS 7CpO XCk)V CLV-  $pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa -  1 ppaypaxa , vitlp gov t a 2av-  paxa SewvvaGiv. Sic etiam, opinor, SavpadioS hoc loco ita  ab Alcibiade adhibetur, 'ut prae-  stigiatorem significet Socratem,  quippe qui mira arte hominum animos deliniat atque vel nolen**  tes ad se trahat.   figi 5* ij.th av rov iit\  8 b£,zol. Vulgo avxov legitur  pro av xoY, quod de Bekkeri  coniectura hodie omnibus probatur. Patet autem, a principio  ita consedisse Agathonem atque  Socratem, ut hic ad Agathonis  dextrum latus cubaret. Alcibiade  accedente, quem medium inter  utrumque consedisse rrperimus,  ordo hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus consedit Socrates,  ad sinistrum Agatho. Iam cum  laudasset Alcibiades Socratem, et  hic quidem Agathonem iuxta con-  sidere iussisset, patere opinor, ad  dextrum latus ipsum considere  iussisse quippe hominem lauda-  tione ornaturus. Iam iutelligitur,  «juid verba significent iv p&6a»  7JJ.IUV, Rogat enim Alcibiades, ut  Agatho ad sinistrum latns Socratis  considat, quo facto ille medius inter Alcibiadem atque Socratem consideret. Ilaic Socrates: Vellera  quidem, inquit, tibi obse-  cundare, si possem; sed  non possum ego. Etenim  me laudando tu, qui es  magister bibendi, legem  edidisti, secundum quam  dextrorsus alter alterum  laudare debet. Necessitatem igitur milii impo-  sitam vides Agathonem  laudandi. Iam.si medius  inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum abiret. Sed  non sperandum est, qui  modo a te laudatus sit,  eum alteram laudationem  ex Agathone auditurum  esse. Sine igitur, Aga-  tho ad dextram iuxta me  considat, eiusque lauda-  tioni ne invideas.   QV 6?} 7tov i fih za\iv  iitatv i (Sex at. Supra diximus *\ (o  ixaivuv. tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav , ov 6rj  nov ifih Ttctiw Incuvidtrox , nglv in’ tfiov (iaU.ov  inaivt&ijvau aM.’ EaOov , d datfi6vis , xal [l t) <p&o-  S33 vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal yag  naw iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov , cpavat  rov ‘Jya&ava, 'AXxifiuxSrj , ovx Ead’ onag av Iv&ade  (tilvaifu, akka neturos (ia?.lov fiiravaetTjOofiat , Zva  ino JEaxgaxov g Inaivs&a. Tath’ bulva , (pavae rov  'AAxipucdrpv , ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog rem   da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica- dis fortunam commiseratos dltione annotat, p, 98. Provocat xisae videri possit: Wchc, vrehe,  entem plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier  dicium, qni his voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um  ita, ut rem extra dubitationem alles den Platz wachseln , damit positam esse una significet. Jif Socrates mich lobt. Diilicile est  eutem voculae irouica potestas ad diiudicandum , utra explicatio  satis manifesta est converti con- rectior sit. Hoc unum certum  tra eum, qui forte, quod certis* est, contra Alcibiadem haec omola  simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam  veSijvat positum cohaeret cum laetitia Agathonis , non dubium  dicendi formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit  eius esse, qui ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia,  xavxct ixeiva — ra tlao-  Sora, Diximus de xavxa i -  XEiva verbis annotat, p.309.,  ixeiva autem dicitur, quia ad  aliquid plerumque, quod prius est cum acerbitate respicitur,  curavimus licet commate sequente; ea enim vis est syllabae finalis , quae accentus vigorem paullisper infringi non patiatur. , % ,   IOV iov Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov,   quorum animus subito com- 0 ^ cctzoXqoXexev .   inoretur, laetitiamque non mi- Sed perrara sunt xovxo duplici-  nus , quam tristitiam exprimit. ter positi exetppla. Aliqua eaque  Interpretes laetitiam iov iov vo- perpauca exempla Matthiaeus lan-  culis Agathonem prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471. 11.  trantur, neque nos huius expli- p, 874. Ceterum non diu quae-  catiouis veritatem negamus : hoc renda fuit vernacula dictio, qua-  tautummodo contendimus , etiam cum Graeca verba comparare posde contraria animi commotione sis : Da haben wir das alte Lied.  boo loco voculas accipi posse, Satis trita haec hominum iuferio-  quatenus quidem Agutho Alcibia- rem ordinum locutio , cui eadem   l  Ad praesentem rem respicient  Strepsiades in Aristoph. Nubb.  v. 26, ait ;  supra annotavimus p. 15. Couvertenda igitur verba sunt: ante quam a me potius (rectius) lau-  datus sit. '   iov iov t tpdvai x 6 v  'AydSaova, *lov scribendum   xaldiv petaXafciv dSvvcnov Skhp. xai vvv , tj? evao-  qo£ xal niAtavwi loyov evpev , ogTB n cap uwr<p voviovi  xaraxeuS&aa. Cap. XXXIX. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog xtctaxuOoptvov stupa b  ta HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s xapcttitag ryxuv  scap.stoD.ovg ixl rag fhjgag , xal ixixvyfivtuq avtaypi-  vaig, kfciovtog uvog tig to uvtcxpvq, scoQtveti&at scapi    atque Graecis verbis ironia ple-  rumque admixta est.   ojS evitopcj$ xal itt  vov Xoyov . Duo suut, quae  miratur Alcibiades , unum , quod  tam facile rationem invenit, alte-  rum, quod tam probabilem et ad  persnadendum aptam. Riickert.   Tov plv ovv — i£al-  <pvrjf. Supra iam diximus anno-  tat. p. 318. de artificio, quo ad-  hibito scriptor noster, quae su-  bito gesta esse narrantur, noa  solum igacicpvTiS vocabuli usu  exprimere, sed actionum felicis-  sima iuuctura legentium oculis  quodammodo exponere soleat atque vividissime describere. Sio  cap. XXX. initio legitur: e/-  novxoS 61 ? ravta tov 2ojxpcc-  rovS tovS jxlv inaivetVf tov 6&  *Api6To<pavrf Xkyeiv tl liztxet-  pelv , oti ipvtj6^Tf avrov \£-  yoDV 6 2ooHpd T7/S izepi tov Ao-  yov , xal iZaitpvTjS %. r. A.  Eodem modo hic lB,cd<pvr\S vo-  cabulo actionis alicuius narratio  praemissa est, cuius exitum eodem  studio , atque illic Aristophanica  verba, lectores prosequuntur: cum  subito factum esse commemora-  tur, quod illius actionis tenorem  illico interruperit.   xoifiatitdf Ijxeiv TCajjt -   froAAovf. Grex comissatorum    nemine vocanto poetae cabicaluin  ingressus incredibiles turbas excitat ordinemque omnem convivii  pervertit. Noli mirari, quod ali-  qui ipsi se iuvitasse narrantur  atque non vocati multo cum strepitu in Agathonis domicilium' !r*  rupisse. Lenaeis enim Dionysio  sacris vino solebant largius se  invitare homiues , ebriique per  plateas vagari atque intrare, ubicunque fores adopertas reperi-  reut, Neque erat, qui liuius rei  miraretur insolentiam. Viui enim  hausti virtus haec est, ut homiucs cum hominibus arctius coniungat, omnesque sibi amicissimos reddat. Adde Agathonis liberalitatem, quam qui norunt,  eo minus dubitarunt invocati eius domicilium adire.   £B,ioytoS tivoS xo  &v nxpvs, ico p ave 6$ at.  Cum aliquis eorum, qui  apud Agathonem essent,  exire vellet, pessulo re-  tracto fores aperiebat,  atque per ens iam exiturus erat, cum continuo turba comissatorum  intro se coniecit. Dubitant  interpretes, utrum ad sequentia  an tui praecedentia referenda sint  verba eis to avTtxpvS. Sohleier-  machcrus exhibet in conversione:  iodem einer hinaosgegaogen ih-   6(pag xal xataxXivtG%ai , «ai dogvflov ficata aavza  elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl avayxa&G&ai. nl-  vuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv , EgvlLy.ayov xal  tov OaldQov xal aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios  oi%eG&ui aiubvraq , 2 <5 e vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv navv xoXv , ats fiaxguv uov wxtuv ovabav,  l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav fidi] aXixxgvbvav aSov-  tav l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg xa&evdov-   nen entgegen, waren sie einge-  drungen. Apud Ficinum legitur:  nam pauIlo ante quis coutra exierat. Stnllbaumius contra elS z 6  dvnxpvS cum TtopeveCSai con-  jungens verborum sensum esse  ait: recta ad ipsos accessisse, quod explicandi genus  minime probamus, neque placet,  quod exhibuerunt, qui paullo supra  laudati sunt. ’EZi6vroS nvoS eis  to avzixpvS imaginem proponit  comissatorum, contra ni-  tente eo, qui iam exiturus erat, aditum vi expugnantium» Comma igitur,  quod Riickertus post i%idvzoS  TivoS ponendum curavit, recte  expunxisse nobis videmur.   dvayxd2e6$ ai ziveiv  na pitoXvv olvov. Frustra  subiectum quaeras, quod ad d~  vayxaZeGSai referas ; quare Rii-  ckertus auuotat. ad h. 1. explicandum esse censit: Se et reliquos cogi coeptos esse.  In recta, inquit, oratione avay -  9ide}£6$ai foret rJvayxaZopsSa,  Non se enim solum intelligere  Aristodemum videmus ex eo, quod  aliorum statim mentio fit ita, ut  lioc quoque ad eos pertinuisse  appareat; de solo coepto accipi-  endum esse item docent sequentia, ubi, quibus quisque viis necessitatem aut eviturit aut pertulerit, edocemur.  Rectior loci explicatio haec est: avayxa-  &6Sai verbum absolute positam  est, ut idem fere significet atque  dvdyxyv elvai. Haec bibendi  nova lex quibus displicebat, ii  clanculum abierunt, quod moneo,  ne quis forte Ruckerti sententiam  probet censentis : de solo coepto  dvayxd$e6$ai verbnm accipi-  endum esse.   rov p\v ovv 'Epvgipa-  XOV . Eryximaehum et Phaedram recte scriptor abeuntes fecit.  Conf. verba p. 176. D. /pol plv  yap 8rj zovzd ye olpai xaza-  SyXov yeyovivai ix zijs latpi-  xijS , ori r oiS av^poS-   icoiS y piSy i6rl' xal ovte av-  zoS Ixcjv elvai noppaa iSeXy-  6ctif.n dv itieiv , ovte dWoo 6vp-  ($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal xpai-  TtaXaivza Izi ix zrjs nporepalaS .  9 JXXd pyv, £<py cpavai vno\a -  fiovza $aZ8pov rov Mvfifiivov-  6iov , iytayi 6oi etoSa nei-  $e6Sai ze xal azt r av   ftepl iatpixijs XlyyS.   dttiovz at , 5? dfc vtcvov  Xafieiv, Vulgo legitur uitidv -  zas oUxaSe vtcvov Xaftelv, Opti-  mi codices illud habent. Ut iuter  se conciliaret utramqne lectionem,  Comarius scribendam coniecit:  aniovzaS oixade , ,2 vtcvov  Xafleiv. Sed verisimillimum vi-  detur, olxa8e glossema esse, quod  ras xal ol%ofitvovg , 'Ayaftava 8s xal 'Agiotoipavti  xai 2-axQdtrj In fiovovg iygrjyoQtvai , xal nuvtiv ex  qnulrjg [leyubjg ini da| ia. rov ovv Hay.Qazrj aviolg  HialeyeG&cu. xal ra ixiv ulla 6 AgLGroSrjfiog ovx iqyq  (isfivi}6&at. rcov loycov ovre yag t| ag^ijg nagayevi-  tfOttt , vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi xeqxilaiov Etpij, 0  mgogavayxa&iv rov Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig, rov  tcvrov avdgog elvca xofiipSiav xal tgaycpSiav ini- sciolus olim margini ad scripserit,  videlicet ut intelligerent lectores,  Eryximachum atque Phaedrum  •ivisse domum.   axe paxpcov rcor rv-  xxoor ovdair. cfr. Schol. ad  Aristoph. Nubb. v. 2,   au Zev ftadi\e v, x 6 XPW a   TGJY VVXTQdV 06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6 pa-  pctxoS dvredtaA^ai xaS rvxraS  avayxrj 6ux to xoiovxv xcnpcS  xmoniitteir xd Aiorvdta.   t/Stj dXexx pvo va>r ddor-  xcor. Haec ut recte intelligantur, tenendum est, incolas terra-  rum versus Orientem sitarum ante  solis ortum exsuscitari solere,  qui gallorum gallinaceorum cantu  iudicatur. cfr. Aristoph. Nubb. v. 4.  xal pr\r TtaXai y dXexxpvo -  ros jjxovd ’ iyoj'  ol 6 olxixai fiiyxovtiiy  Igitur tardius se surrexisse Ari-  stodemus narrat, utpote qui, cum  galli gallinacei iam cecinissent  diesqne illuxisset, somnum expulerit.   iZeypoperos di idelr.  De nominativo participii vide an-  notat. p. 22., qua explicatum reperies, cur participii structura non  ad praecedens £ pronomen directa  sit. Positum autem illud prono-  men est, quod obiectum est, non  aubiectum enuntiationis»    xa^evSovtaS xal olxo-  filr ovS. Fipinus, quem receu-  tiores interpretes omnes secuti  sunt, verba convertit: Somno ex-  citum invenisse, quod alii quidem  partim dormiebant partim discesserant. — Qui sciunt, quum saepe  xai et ?j in libris commutata re-  periantur propter scripturae com-  pendium, quo alterum vocabulum  ab altero interdum vix dignoscitur, nimiae audaciae eum non accusabunt, qui forte scribendum  censuerit : xaSevdorxaS rj ofro-  jxevovS. Cogitari potest etiam xai  prima xaSevSorxaS participii syllaba Absorptum esse, ut integra  verba audiant: xal xa$ev8or-  xaS xal olXouirovS . Sed nihil  mutandum videtur. Praecedente  euim personarum distinctione,  Graeci quippe orationis leniter ac  leviter procedentis studiosi actio-  num distinctionem non admise-  runt. Quam si addideris, vah,  qnautum morae verbis inferes!   *Ay a5 cor a xai ' 'Api -   6 x.o <p a rrj xal 2. Egregie  haec Socratis temperantiam , moderationem et constantiam de-  clarant , qui quum per totam no-  ctem cum hominibus epularum  amant issimis bibisset, tamen sobrius neque vino vigiliisque con-  fectus a convivio discessit. Ne  talia quidem negligenda sunt iis,  qui de dialogorum Platonicorum  <Sxa6dai stoieTv, xal xov xtyyr) XQayuSonoiov ovxct xai  KU/iuSonoiov tlvut, xavxa dq dvayxa£ofievovs ccvrov$  xal ot5 <S<po8Qa faopivov$ wOt xal hqcoxov ftev  xaxadaQ&eiv xov ’AQi6roq>avri, ^8r/ 81 Tjiiegag yiyvo-  (jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv ZaxQaxt] xcczaxoLfirj-  davx’ ixetvovg, avaiSxdvta aicdvai , xal avtog & gittQ  eludet, foetidat , xal eXdovxa elg Avxetov , axoviipa-  ftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav diaTQifhtv, xal  o vra StaxQhpavta elg ttixigav olxoi avanavetidau    argumento et consilio prudenter  iudicare volunt. S t a 1 1 b.   xa> ptp Siar xal xpaytp-  Siar initixatiSai noielv.  Facillime intelligitur, qui factum  sit, ut de hac materie Socrates  disputarit. Ipsa Lenaea aasam  dederunt de poesi ac de variis  eius generibus disserendi, et quum  Socrates cum Aristophane disse-  reret, comico poeta suae aetatis  celeberrimo, et cum Agathone, qui  tragoediarum granditate nobilem  se fecit, colloquium quasi ultro  eo delatum est, ut inprimis de  tragoedia atque de comoedia quae-  stiones instituerentur. Ceterum  frustra Stallbaumius eorum sen-  tentiam impugnat, qui e Schol.  ad Aristoph. Ran. v. 84. aliisque locis colligunt, Agathouem non solum tragoedias sed etiam comoedias scripsisse. Nam quod  etiam Agatho hoc loco narratur  Socrati oblocutus esse censenti, et  comoedias et tragoedias posse ab  uno eodemque poeta scribi, id  Iride , ne parum validum rei argumentum sit. Quid, si Agatho  comoedias scripsit revera, quas  ipse tragoediis a se scriptis multo    deteriores esse intelligeret, nonne  fortius potuit quippe experientia  doctus Socraticam illam senten-  tiam impugnare ?   x p ay gj$ oit oiov ovxa  xal x a pu>8on oior elvau  Vulgo TpayGoSionoiov et xgo/zco-  SzoffotoV, quae formae ab At-  ticorum usu alienissimae sunt.  Moeris habet : xoDpcodoitoioS'   ! 'Atxixg xcoptpdiojzoioS' 'ivi-   \7fVlX(k>S>   xal avxoS , toiitep slco-  Sei, exedSat. cfr. p. 173- B.  xapayeyorei 6* iv xjj tivrov -  6 i(f 2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv  toti /uxAtdta xdov xoxe, gJ S  ipol 6oxet.   xal ovxa eli Av -  Xtiov. DE LYCEO, GYMNASIO extra urbem sito vide Wucbs-  muthii librum ; Hellen. Alterthumsk. II, 2. p. 56. Ibi Socra-  tem versatum Stallbaumius an-  notat propterea , quod sophistae  in eo scholas habebant, quorum  inscitiam solebat couviucere , et  quod plurimos illic adolescentes  nansciscebatur, quibuscum sermo-  nes instituere posset. EXCURSUS Scribendam confecimus p. 179. C. : xa\ xovx* ipyatictpivTj r<>  ipyov ovxcj xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov dr^pcaxoiC,  a XX a kolL Scois , goSxe noXXdav itoX Xa -noti xaXa ipyadctplvwv  evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav xovxo yipaS ol 3eol, IB, AiSov  nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv ixeiyrjs ctveitiav avay~  xad$krx e £ tgo Ipyco.   Ad haec verba Scholiastes annotat : *AXxrjdxiS 7 } IleXiov Sv-  ycexrjp vnopcLvatiot vn\p tov l8iov av8poS XEXsvxydoct 'HpaxXkovS  lni8r]pi)davroS iv ry ©ExxaXin. Stadco^sxai fiiadapkvov xovS *5o-  viovS SeovS xal dcpeXofiEVOv xrjv yvvaixa. Hic mythus veras  esse videtur; quod Phaedrus dedit, mythi artificiosa interpretatio est. Vix intellexit autem Scholiastes , quam utilis ille mythus faturus esset explicationi verborum supra laudatorum. Confirmat enim  fiiadapkvov participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem au-  tem quod attiuet , doceri possis herois mentione , quomodo olim  populi mythos genus hominum eruditius interpretatum sit. Recte  nobis annotatione p. 71. indicasse videmur: Phaedrum hunc mythum pro consilii sui ratione ita interpretatum  esse, ut Alcestidis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque Alteri substitueret. Quo cla-  rior res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in artis operibns haud  raro eruditorum , quam populi iudicium secutos esse magis, AMORIS imaginem gemmae incisam infra addendam curavimus sub Nr. I,  Petita haec imago est e Winckelmanni libro: Monumens inedits  de l’antxquite Tom. I. Paris. Pellis leonina, qna Amor  indutns est, et clava, quam gerit, Herculis insignia sunt. Claves  quid sibi velint, iam videamus, Winckelmannus I. 1. p. 200. haec  habet : L’Amour portait ces cies ou pourouvrir qtfer-  mer a son gre 1’appartement de Venus, ou pour de-  signer les plaisirs, dont il etait le dispensateur, On  peut-dtre aussi pour faire al Iasion aux cies portes»  par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil in nostram   26 f    ' X *o   t ~ . imaginem cadif, qnn« audaciam, constantiam, duritiem, non dnlce*  risn» Cupidinis prodit. Rectius igitur « laves gerere AMOREM censeas  et clavam et leoninam pullem, quod Herculea vi inferos deos cogendo Orci p u r t n s recludit. De altera, quam apposuimus. Imagine Winckelmannus sio fodicat : Cette pierre gravie reprisente un petit amour avec un Jiam -  beau allumi, hatant sa marche pour embrasser un jeune homme  extriment afflige , et dunt on aperpoit lea efforts pour fuir .   Cette al ligor ie peut assur ement a' interpreter de diverses mani eres , et prepare des torturcs a Vcaprit des savans , Pour moi 9   j'y vois tout simplement l' expression de la passion de V amour  dont le disespoir est temperi par un rayon d' csperance* La  jeune homme, abandonni par l’objet de ses tendres affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au , dont il s ’ enveloppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de  son corps plii en avant etait , selon Aristophane Lysistr. r.  1002, propre d ceux qui, marclrant la nuit , portaient une lanterne , et tachaient d ’ empecher le vent d J en eteindre la lumiere,   Le rocher, qu'on aperpoit, devient le symbole de V expedient 9 qiCil  a choisi pour se donner la mort. Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir , L’Amour en arrete /* ejfet sinistre  en faisant briller Vcspirance d ses yeux ; son Jlambeau allumi de-  vient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui , blessee par V Amour,  va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour elle. Les deux  passions contraires de V espirance et du desespoir sont designees  dans ce jeune homme , d*un cote, par V attitude de son bras , qu*il  tient iloigne de son visage , et de l ’ aut re coti , par son second  bras , qui embrasse V Amour.   Habet haec huius imaginis explicatio, quo admodum sese com-  mendet. Quaeritur tamen, num infertilissima illa rupes non etiam  de vilitate unius rei amoris intelligi possit; fax certe elata et me-  dia in imagiue posita non spei solius symbolum est, sed etiam my-  steriorum, Iam cfr. p. 209, E. Tama p\v oZv x a. Ipooxixa tdaP,  gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea xai litonrixd, cov  evena xcri xavxa Zdxiv , Iav xiS opSaiS per ovx 016’ el oloS  r* av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo itpdypa  apx^d^ai pkv vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpco -  xov phv, iav opS goS ijyijxat d ijyovpevoS , kvo£ av xgov Oaopa-  xojv ipav xal ivravSa yevvdv XoyovP xaAovS , liteixa Sei  avxov xaxavorjdat , oxi xo xctXAoS xo liti oxgoovv dcdpaxi xgj liti  Ixipo) dofpaxi abeXtpov Idxi x. r. X. Etenim non sine caussa duo  Amores ab artifice exhibiti sunt, alter laterna, alter face insignes.  Necessitas autem illa nimium unius corporis amorem remittendi  quantos dolores amatoris animo afferat, amatoris effigie vividissime   26 * i expressam habes» Iam ipse, lector* vide, atram imago tibi pro-  posita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis accipiat* necne. Nos  unam boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc opus est,  •i quis primum initiationis gradum superare cupit. Quem ubi supe-  raverit * laetius, liberius * circumspectius incedet , id * quod alte-  rius Amoris figura repraesentatum est» Flamma autem facis* ven-  tis circumagitata, mox nimium effulgens, mox paene exstincta, supe-  rato primo initiationis gradu laternae inclusa temperatius quidem?  sed aequabilius fulget. Legitur p. 193. A. xal itpo x ov t wSitep \£ym , ev 7/pty *  wvl 8& Sta xrjy dSixiay SicpxiC^ifpey vito xov Seov , xctSditep  'ApxadeS vito AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur interpretes ad definiendum tempus, quo Symposium Plato conscripserit. Alii post 01. XCVIII. 4. conscriptum  censent, quo tempore scimus Mantineam a Lacedaemoniis eversam  esse, alii ante hoc tempus compositum potant, sed denuo editum  post 01» XCVIII. 4. Concidet haec temporis definitio simulatque est demonstratum, verba depravata esse, ad quae illa defiuitio directa  est» Age igitur primum de anachronismo videamus verborum xa Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit. Anachronismos passim admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi annotationem ad Plat. Menex. p. 236. Eos cur admiserit,  daplex caussa cogitari potest. Aut negligentia fecit atque per obli-  vionem, aut de industria et assequendi alicuius finis studiosus»  Atque iu Meuexeno quidem Socratem de re loquentem inducens,  quae post huius mortem facta est, anachronismum admisit, acer-  bissimi ludibrii commodissimum vehiculum. Etenim in oratores  invehitor, scriptores laudationum locis communibus refertarum quibus data occasione facili negotio atque satis leviter rei adaptatis  ntercutor. Ipsa audi Platonis verba cap. II. init,: xot\ fiijv, <a Me-  y{£eve, itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw dito-  SrijtSxeiv. xal yap racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs rvyxa-  vn, xal iay xivtjS riS cov reXevrt/ey, xal inaiyov av Ervx* xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov 6oq>oiv re xal ovx  elxy ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov XoyovS  xapedxev a<5 pev cor , o? ooro xaXmS inaivo v 6 1 v,  tSste — xal ta hpoSoyra xal t a pij — s tepl txa'6rov  XlyovteS, xaXXuSr d xai toti ovopou >t xoixlXXov-  TtS, yoqt evovdtr 1 } p <2v taS t/ivxaS x. t. X. Iam cam  dixisset Menexenus, oratoris electionem subito fieri, quo facto orator non possit non subitaria oratione uti, Socrates omnibus oratoribas orationes, napepya otiosi temporis, recondita facere conten-  dit, atque ipse huiusmodi orationem, h. e , sententiis communibus  refertam profert, quam, quo acerbius vituperiura sonet, ab Aspasia  sibi traditam narrat. Intelliges , opinor, anachronismi acumen. Ad  nostrum locum ut revertar, nihil reperitur, quo anachronismum excusare possis. Huc accedit, quod omnem verisimilitudinem Platonicae narrationis ita pervertit, ut et habitum revera sjmposinm docearis et non habitum. Negligentiane igitur anachronismum adhibitam censeamus atque maculam artificio praestantissimo additam? Credant, qui velint, nobis nunquam persuadebitur. Sed mittamus anachronismum , comparatio per verba xaSanep  'ApxaSeS vno AaxESaipoviatY instituta quid sibi velit, videamus. Nolo ApxadtS nomen nimiam premere j fieri enim potuit, ut avijp  *A^rjvaloS de Mantineae eversione illa loquens pro MavtireiS diceret ApxaSsS, sed, si eodem modo propter iniuriam homines dissecti esfce narrantur a deo, quo modo Mantineenses in varios pagos  distributi sint a Lacedaemoniis, merito tertiam, quod vocatur, comparationis quaeras. Caussam dissectionis si spectas: hominibus dissectis iniuria, qua ipsi utebantur, perniciei fuit, Mantineen.sibus  iniuria Lacedaemoniorum; diremtum ipsum quod attinet, homines  bifariam divisi sunt, Mantineenses Xenophonte teste Hell. V. 2. 7.  TETpaxi/ > auctores diremtus his dii, illis Lacedaemonii fuere, divisi hic sunt omnes homines, illic Mantineenses. Una restat dis-  secandi dirimendique ratio. Utrique et humanum genus et Manti-  neenses vi et ferro dissecti sunt. 8ed num verisimile est, eius rei  describendae gratia, quam ia praegressis expositam habes, et quae  ipsa per se intelligitur, allatam esse Mantineae eversionem a Lacedaemoniis patratam? Ut paucis rem absolvam, scripsisse Plato videtur: yvvl 8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv vno tov Seov, xa-  Sdnep 'ApxabeS aito Aaxe8aipov}<aY . Arcadiam inter et Lace-   daemonctn scimus montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terrae arctior coniunctio prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse  videtur xaSansp *Apxd8eS ano Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur,  qui naturalem firmitatem alicuius fissurae describebant atque impossibilitatem , (venia sit verbo,) restituendae integritatis. Annotatione p. 806 et 807. Platonis verba, quae leguntur, hoc modo scribenda censuimus: pera 81 r a iititrj8&vpara iit i ra( imCnjfiaS dycty&v , 7va {8y av bn&cijp&v xaAAo?, xa\  fiXiitcov npoS itoXv ydrf tu xaXuv , pi\xkxi tu irap ' lv \ , wsnep   0 ixiryfi ctyaitcSv itaiSaptov xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iitt-  rrjdev/xaxoS hrof, SovXevarv qiavXoS y xai opixpoXuyoS x. r. X.  Constans omnium librorum lectio est c ZsitEp olxkxT/S, quod Stall-  baumius ceteroqnin optime de huius loci explicatione meritas hoc  modo explicandum censet, ut apte additum dicat, quod, qui unius tantum rei admiretur pulcritudiuem , is ei tanquam servus emancipatus  rideatur. Sed scripsisset, opinor, Plato, si hoc exprimere voluis-  set, ooSTttp dudXoS. JovXoS enim nomen proprium est de contu-  meliosa servitute, quam hoo loco requirimus, et quae explicatius descripta est a Pausania p. 183. A. ei ydp — iSlXoi rtoieir olaxep   01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te xat dvxipoXi/tiEis: iv  tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS xal xoifiijCEif  iit\ SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8 av 8ov-  Aof otldeif x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura Latinorum  familiaris confertur, de quo Macrob. Satum, I. 9.: nam et maiores,  inquit, nostri omnem dominis invidiam, omnem 6ervis contumeliam detrahentes dominum patrem familias, servos familiares appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum discrimen hand raro Graecos scriptores neglexisse, atque multis io locis olxixrjS posuisse,  ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de servis lo-  quentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco reperitur. Quoniam igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad o lxk~  Tt/S scripturam ducti sumus, quae et a corruptionis verisimilitudine maxime commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog. Gr.  Melcagr. Epigr. XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita apta reperitur, ut haud sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret, excogitari possit. Nota vis est amo-  ris, Ea amatorum animi ita percellantur turbanturqae , ut vitam  non vitalem putent atque da salute desperent, si forte repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt, inveniant, at eius ani-  mum sibi concilient, qnem amant, neque, ut propitium sibi reddant,  a precibns abstinent et a suppliciis, Quid multis? Huiusmodi ama-  torem simillimum esse reperimus homini, qni in summa vitae versans discrimine ad deorum aras confugit, auxilium rogans, et vitam et salutem j apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci desunt, quibus de AMATORE AMASIUM perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris  «etatis scriptoribus in usu fnisse probemus, J Apud seriores saepis-  sime reperitur, v, c, apud Meleagrum Epigr. IV. v 9 6., Aathol,  Gr. lacobsii T. I. p. 4., quod epigramma, quoniam falsissime a  Iacobsio explicatum est, de rectiore carminis explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus hoc modo apud Iacobsium leguntur; npoSoxai tfrvxv*> tcoo^qov xrJvef, ailv £v ££$3  KvnpidoS otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi,   Tfpnadax 1 aAAov "Epoox , apves Xvxor, ola xopoovrj  dxopnloy, cJs - r kfppy nvp vnoSocXnopeyoy. 6pa$' o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira  Sdxpva , itpos 6* Inkxijy avxopoXelcs taxos;  onxadS Iv xctXXet, xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv,  axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS "EpwS. Argumentum epigrammatis Iacobsius ait esse hoc! Poeta in oculos invehitur, novi semper amoris novique cruciatus auctores. Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse; Invehi in oculos poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc mutata consuetudiuo  amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis disticho secundo, quod huc modo scribendum est;   i}pna0av 9 aXXoy "Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj  dxopnloy, c Js xktppij nvp vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum verborum  esse ceuset  uovura AMOREM rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quae explicatio cum praecedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non convenit. Quid euim  sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris insidiari soletis,  novum amasium rapuistis ; nonne frigero sentis atque languere ?  AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum indicet, ut, qui antea amator fuerit puerorum, is nunc subito amasius  factus esse perhibeatur. Gopferri possis Aeliani Var. Hist. II, 12.  xal x <£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ) , r/pa 61  ipGoxa Sxepor , roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur. Insequentia  exempla nostram interpretationem comprobant. *! ApveS Xvxor enim  nihil aliud siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Saepissime cum lupis amatores comparantur, cum ovibus amasii. Vido  Stallbaumium ad Piat. Phaedr. p. 241 V., Iacobsium ad Anthol. Gr. Ad luporum atque ovium comparationem, quae in proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt ola xopoovtj dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim, quod debilius natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x  nata maius dlcl superasse. Nihil aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius, qui, ot opud Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam servitutem In se suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura sio scribendum esse putat:  6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01 vevoti6peva xdxe  daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce.  censetque, suos poetam alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et itoXvfiavlav incuset. Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et  fortasse vera; quamvis et sic aliquid relinquitor, quod palatum  paullo morosius offendat, cum e}px xi/S in hoc imaginum contextu  vix satis apte mentio fiat. Recte Iacobsius xey et sequentem  coniunctivum improbat, non recte pro ixlxrj v fortasse scribendum  esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator est, ad quem, poiita frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt. Iam intelligetur, quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum est:  Gj7ttd65 *Iv xaXXei, tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t  axpoS ii nl ipvxijs idx t pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum , quibus insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma eius, qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros mi-  sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: idealismo Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --.  Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone,  Ficino, il convito, convivium, Pausania, Alicibiade, puerile, uomo puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il maschio, il vocabolario dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator, amatore, amatum, amicus, amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario latino, il vocabolario transliterato, erote, il vocabolario translato, il vocabolario in Toscano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool Library. Colombo.

 

Grice e Colonna: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --  giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and, early in his career, that an eternally created world is possible. He defended only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in compostes, including man.   Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta.  “Quaestio de gradibus formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia coeli” Girolamo Duranti,  “Quodlibeta”. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de' principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il loro sovrano bene in diletto corporale. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere ricchezze. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione, è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à, alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali. Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere. Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere, e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù che l'uomo chiama virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà, ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la quale' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre. Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare. Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare, e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie, e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina, e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a una femmina, e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina, e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo, die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi, e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse, al governa mento delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è, che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi. Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”,  testimoniato da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del “Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica, bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico, dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono almeno altre cinque).  Nella parte prima della Nota al testo si dà conto della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali (descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi del copista.  L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.  Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows, but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if,  as the Treccani notes, ‘the links with the Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,  arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg   Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus, indicato anche come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.   Fu discepolo di San Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De regimine principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo.  --  è considerato tra i più autorevoli teologi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico; infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il De regimine principum, opera scritta per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello Stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate, invece, Egidio Romano afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale.  La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In seguito alle condanne di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari del papato trovano nel pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena che è Civitas Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”.  Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis. Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che coincida con la sua stessa missione spirituale.  Opere:Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, In secundum librum sententiarum quaestiones,  1, Francesco Ziletti. In secundum librum sententiarum quaestiones,  2, Francesco Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502.  De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford,.  Charles F. Briggs e Peter S. Eardley, A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill,. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C. su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona.  Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie Raynaud de La Porte.  NUMISMATIC NOTES  AND MONOGRAPHS. ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY  AND MEDALS OF HONOUR    By HARROLD E. GILLINGHAM    THE NUMISMATIC SOCIETY  Wonr    nl     PUBLICATIONS  TheJournal of Numismatics. With many plates, illustrations, maps and  tables. Less than a dozen complete sets of  the Journal remain on hand. Prices on  application. The numbers necessary to  complete broken sets may in most cases be  obtained. An index to the first fifty volumes has been issued as part of Volume  LI. It may also be purchased separately  for $3.00.    The American Numismatic Society. Catalogue  of the International Exhibition of Contemporary Medals. March, 1910. New and  revised edition. New York. The American Numismatic Society. Exhibi¬  tion of United States and Colonial Coins. NUMISMATIC   NOTES & MONOGRAPHS    Numismatic Notes and Monographs  is devoted to essays and treatises on sub¬  jects relating to coins, paper money,  medals and decorations, and is uniform  with Hispanic Notes and Monographs  published by The Hispanic Society of  America, and with Indian Notes and  Monographs issued by the Museum of the  American Indian—Heye Foundation.    Publication Committee   Agnes Baldwin Brett, Chairman  Henry Russell Drowne  John Reilly, Jr.   Editorial Staff   Sydney Philip Noe, Editor  Howland Wood, Associate Editor  V. E. Earle, Assistant . Italy (savoy)   Order of the Most Sacred Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF  CHIVALRY    AND   MEDALS OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY  BROADWAY AT I56TH STREET  NEW YORK  GrS   THE NUMISMATIC SOCIETY  Press of The Lent & Graff Co., New York   ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY  AND MEDALS OF HONOUR   By Harrold E. Gillingham   Students have always found the coinage  of Italy of more than passing interest, and  the country of the early Romans is still a  far from exhausted field of numismatic research. Few sections of Europe have had  such a varied history. Few have been more  fought over. Greeks, Romans, Vandals,  Goths, Franks, Germans, Normans, Span¬  iards, Austrians and the Papal Authorities  have had a hand in the mismanagement of the  country’s affairs, and all have left traces  of their influence, but nowhere more defi¬  nitely than in the field of numismatics.  The changing coinage has always been  interesting, and the publication of the Corpus  Nummorum Italicorum, undertaken by His Majesty, Victor Emmanuel III, is a magnifi¬  cent demonstration of the value of numis¬  matic research.   In the time of Augustus, “Italia” was  divided into eleven sections. In the feudal  period many of these had been governed for  centuries by members of the same family.  It was a normal condition for these clans to  wage war one upon the other, and this state  of affairs existed almost uninterruptedly  until the middle of the Nineteenth Century.  “The destinies of Italy were decided in the  cabinets and on the battle-fields of Northern  Europe—a Bourbon at Versailles, a Haps-  burg at Vienna or a thick-lipped Lorrainer,  with the stroke of his pen, wrote off province  against province, regarding not the popula¬  tion who had bled for him or thrown them¬  selves upon his mercy.” Through it all, the  Papacy has exerted a powerful influence. In  the early period such a shifting of control was  not to the best interests of the inhabitants.   The Kingdom of Italy, as we know it  today, did not exist, of course, until 1870.  With the fall of the French Empire under  Napoleon III, the assistance of France was no longer available, and Rome came under  the dominion of Victor Emmanuel. All of  that gieat mountainous peninsula was  united and free. For over seventy years the  country has been governed by a Prince of the  House of Savoy. Its population has pros¬  pered more during that period than for many  preceding centuries.   These changing conditions were not with¬  out effect upon the organisations which we  class as Orders of Knighthood. Many of the  Orders of Chivalry founded by the Ducal or  Princely rulers of Italy were named for their  patron saints. It has seemed expedient in  this article to treat of the Orders and Decora¬  tions of all of these changing principalities  separately. Insofar as is possible, any  repetition which this course involves has  been avoided. Lucca, the most northern province of  Tuscany, lies between the Apennines and  the Mediterranean Sea. Its principal city,  Lucca, on the River Sarchio, is famous for a  remarkable bridge which is said to have been  built about 1000 A.D. From the time of  the Narses, in the Sixth Century, Lucca was  an important city. Here and at Pisa, the  earliest Italian school of painting flourished  in the Twelfth and Thirteenth Centuries.  Lucca became an autonomous commune  from the death of Matilda (1115). In 1314  Uguccione della Faggiola seized the reins of  Government, but later he was superseded  by the powerful Castruccio Castracani.  Louis of Bavaria, after having occupied it  by his troops, sold it to a Genoese banker,  Gherardo Spinola; it was seized by John,  King of Bohemia, pawned by him to the  Rossi of Parma, sold to Florence, relin¬  quished to Pisa, nominally liberated by  Charles IV (Emperor of Germany, 1346-  1^78) and governed by his vicar. Lucca, MEDALS OF HONOUR   5   subjected to endless vicissitudes, managed  first as a democracy and after 1628 as an  oligarchy, to maintain its independence,  alongside of Venice and Genoa, and painted  the word “Libertas” on its banner until the  French Revolution. In 1805, Napoleon I  gave Lucca to his sister Eliza, who had  married Bacciochi. It was occupied by  the Neapolitans in 1814, and from 1816 to  1847 it was the Duchy of Maria Louisa of  Parma (who married her cousin, Charles IV  of Spain), and was ruled by her son, Charles  Louis. It later formed one of the provinces  of Tuscany. Under the rule of the Lombard  Dukes, Lucca possessed a coinage of its own.   MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE  OF LUCCA. Duke Charles Louis Ferdi¬  nand, a Spanish Bourbon, founded this  Order on June 1, 1833. It was called Or dine  di San Giorgio per il Merito Militare, and  was awarded for military services to the  Duchy. It was also issued to officers and  privates whose service exceeded three years.   The Decoration is a Maltese cross, enam¬  elled white. It is edged with gold for the first class, with silver for the second, while  for the third class it is silver without the  enamel. In the centre is a white medallion,  upon which there is a gold figure of St.  George slaying the dragon, surrounded by  the words AL MERITO MI LI TARE on a  green band. The reverse shows the initials  of the founder, C.L., crowned, and the date  183J. The ribbon is bright red with a white  stripe.   ORDER OF SAINT LOUIS. Founded  on December 22, 1836, by Duke Charles  Louis, and awarded for civil merit. It was  reorganized in 1849 by his son, Charles III,  Duke of Parma, a Bourbon, for Civil and  Military service; it is, therefore, classed  with the Orders of Parma also. See page 19.   The badge of the first class is a white-  enamelled cross, with heavy gold lines and  with a large fleur-de-lis at the tip of each  cross-arm. The obverse bears a shield upon  which is an effigy of Saint Louis in golden  armour; the reverse has a shield bearing the  Bourbon crest of three lilies. The second  class cross is of silver and white enamel,    NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS    Pl. 1     Parma   Order of Saint Louis  while the third is all silver but without the  crown. The ribbon is blue with a yellow  stripe on either side.   MEDAL FOR MILITARY SERVICE.  Created on June i, 1833, for officers who had  served over thirty years, and called the  Medaglia di Anzianita. The obverse bears  a gilt Maltese cross with the initials C.L. and  a crown above; on the reverse are the Roman  figures XXX, denoting the years of service.  The ribbon is blue, with yellow stripes—  four of the former and three of the latter.   CIVIL MEDAL OF MERIT. This Dec¬  oration was also instituted by Duke Charles  Louis. It is of silver and bronze. The  initials of the founder, C.L. intertwined, ap¬  pear on the obverse, and the reverse has  inscribed thereon the words, AI BEN EME¬  RITI DELLA SALUTE PUBBLICA.    NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena was then  called, was a Roman colony. For more than  twelve centuries there were constantly  changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II  (1240-1293), of the princely house of Este,  received the lordship of Modena. The  Este family was one of the oldest of North¬  ern Italy, dating back to about 917 A.D.  Through the marriage of an heiress of the  house of Welf, of Bavaria, with a younger  son of the house of Este, this family became  connected with the houses of Brunswick  and Hanover, from which are descended the  Sovereigns of England, through the house of  Guelph. At various periods, the Estensi  received the sovereignties of Ferrara, Modena  and Reggio. The male branch of the family  lost the duchies of Modena and Reggio on  the death of Hercules Rinaldo, who died in  1803. His only daughter, Maria, married  Ferdinand of Austria, son of Francis I and  Maria Theresa. Their son, Francis IV, in  1816 became the first Hapsburg duke of    AND MONOGRAPHS         IO   ITALIAN ORDERS    Modena. He died in 1846, and when his  son Francis V died in 1875, the male line of  the Austrian Estensi became extinct and the  title passed to Francis, son of Archduke  Charles Louis. Members of the Este family  and their descendants had held the Duchy  of Modena almost continuously from 1288  until i860. In that year the territory by  a plebescite was declared part of the King¬  dom of Italy.   ORDER OF THE EAGLE OF ESTE.  Founded by Francis V on December 27,  1855, and awarded for military and civil  merit. The number of the members of the  Order was limited to 20 for the Grand Cross,  40 for the Commander Class and 120 for the  Class of the Knights. The decoration was  surrendered on the death of the Knight.  The insignia is a gold Maltese cross with  gold knobs at the points, white-enamelled  and edged with blue. Between the arms of  the cross are gold scrolls, and the letters  E.S.T.E. are distributed in the angles. On  the blue medallion is the white-crowned  eagle of the house of Este, surrounded by a    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS    Pl. J L     Modena   Order of the Eagle of Este    white-enamelled band, inscribed PROXIMA  SOLI MDCCCLV. The reverse centre of  white enamel bears the figure of Saint Con-  tardo holding a cross. It is surrounded by  a blue-enamelled band bearing three stars  and inscribed S. CON TARDUS ATESTI -  NUS. The ribbon is white, edged with blue  stripes. When awarded for military merit,  the cross is surmounted by a trophy of arms;  for civil merit, by an oak wreath.   MILITARY MEDAL FOR LOYALTY.  Francis IV, the first Hapsburg duke of Mo¬  dena (1816-1846), caused a medal to be struck  and awarded to those of his troops who re  mained faithful during the riot of February   4, 1831. This disturbance was organized  by Ciro Menotti, and forced Francis IV to  flee from his capital. It was thought by  some that the Duke was in league with  Menotti, but as the Duke caused Menotti  to be put to death when the Revolution was  suppressed, this is doubtful. The silver  medal given to his supporting troops bears  the inscription FIDELI MILIT 1  MDCCCXXXI. Within a wreath of laurel,    NUMISMATIC NOTES         MEDALS OF HONOUR   1 3   and below are two crossed swords. The  reverse is inscribed FRA NCI SC US IV DUX  MUTINAE. The ribbon has three stripes,  equal in width; the middle one white, the  side ones blue.   CROSS FOR SERVICE. Authorized by  Francis V, May 16, 1852. This medal was  awarded to officers who had served 25 years  under the banner of the house of Este. It  is a silver cross with a gilt edge. In the  centre is the white eagle of Este, surmounted  by a crown and the letters F. V. The reverse  bears the Roma n figures XX V. The cross  is surmounted by the ducal crown, and the  ribbon is white, edged with blue.   MILITARY MEDAL OF MERIT. This  decoration was created in 1852 for the junior  officers and privates. It is silver. On the  obverse appears a bust of the duke facing  left, and the legend FRANCESCO V DUCA  Dl MODENA EC. EC. ARCIDUCA D’AUS¬  TRIA ESTE EC. EC. On the reverse, within  a laurel wreath, PEL MERITO MI LI TARE.  The ribbon is blue, edged with white.    AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY. Francis V ap¬  pears to have been in a struggle with his  subjects during most of the thirteen years  of his reign. He was compelled to seek  refuge in Austria in 1849, but he returned to  Modena after the battle of Novara on March  24th of the same year. Ten years later he  was again forced to flee. In i860 Modena  became part of United Italy. To reward  those of his subjects who had remained  faithful to him during his exile, he created  the Medal of Fidelity in 1863. It is bronze,  32mm. in diameter. On the obverse it bears  the effigy of the duke and the inscription  FRANCESCO V AUST. ATESTENUS  DUX MUT 1 NAE ; on the reverse, the  words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE  IN ADVERSIS MDCCCLXIIL surrounded  by a wreath of oak leaves. The ribbon is of  blue and white horizontal stripes, edged with  blue and white.    PARMA.   Parma was the Eastern section of Gallia  Cispadane at the time of Constantine. It  lies in the Lombard plain, north of the  Apennines, south of the River Po and west  of Modena. For the first fifteen centuries  of the Christian era, the many rulers of  Parma were of various nationalities. The  duchy came into the possession of the Far-  nese family during the early part of the Six¬  teenth Century. Eight dukes of that family  ruled over the destinies of its people. From  Antonio, who died childless in 1731, the  duchy passed to Charles of Bourbon (Don  Carlos), Infante of Spain, who became King  of Naples in 1735. Both Austria and Spain  governed it at various times. At the Con¬  gress of Vienna in 1815, the duchy was  granted to Marie-Louise (daughter of Fran¬  cis I of Austria), second wife of Napoleon I.  She died in 1847. Spanish and Austrian  rulers again came into possession. Charles  III, a Bourbon and the grandson of Victor  Emmanuel I of Sardinia, reigned until his assassination. During the regency of his son Robert, Parma  was incorporated in the Kingdom of Italy.   ORDER OF CONSTANTINE. Authori¬  ties differ with regard to the date of the insti¬  tution of this Order. It has been said that  it was founded by Constantine the Great  about the year 313 A.D. Others give credit  to thle Byzantine Emperor Isaac II (Isaac  Angelus Comnenus), and fix the year as  1190. This seems the more probable date.  The Order is also called the Order of Saint  Angelus, the Order of the Golden Chevaliers,  and the Military Order of Constantine of  Saint George, it being under the patronage  of that Saint and Martyr. Late in the  Seventeenth Century its control appears to  have been sold to Francis I (Francis of  Farnese), Duke of Parma, who became the  Grand Master. The Order came into high  repute because of the rules he observed in its  distribution, and also because of the large  domains he conferred upon it, including the  church of the Madonna della Steccata at Par¬  ma. Clark attributes its revival to Charles V.    In 1734 or 1735, after the extinction of the  male line of the Farnese family, the heir  to the Duchy of Parma, Infante Don Carlos  (son of Philip V of Spain and Elizabeth Far¬  nese), became the Grand Master. He trans¬  ferred the Order to Naples when he ascended  that throne. It was abolished in Naples  by Joseph Bonaparte in 1806 but continued  in Sicily. Revived in 1814, it remained in  existence until the unification of Italy.  Owing to its transfer to Sicily, it is fre¬  quently classed among the Orders of the Two  Sicilies. The members of the Order consist  of Senators, Commanders, Knights, Serving-  brothers and Squires.   On August 8, 1922, the Count d’Caserta  of the Austrian line of Bourbons, and a dis¬  tant cousin of the King of Italy through the  female line, honoured one Michael Cangiano,  the official Interpreter of the Superior Court  of Cambridge, Massachusetts. Signor Can¬  giano was made a Knight of the Order of  Constantine of Saint George of Parma and  of Sicily. This indicates that the Order  has been continued as a Family Order by the  old rulers of those Duchies Pl. Ill     Parma   Order of Constantine       MEDALS OF HONOUR   19   The insignia is a red-enamelled gold cross,  fleurv. On the arms are the letters I.H.S. V.  (In hoc signo vinces). In the centre is the  Labarum, or Standard. Greek letters X  and P crossed,and A (Alpha) and & (Omega).  Harold Bayley, in his book entitled Lost  Language of Symbolism, London, 1913,  writes,—“The Latin P has the same form as  the Greek letter named Rho. One of the most  famous emblems of early Christianity—  known as the Labarum, the seal of Con¬  stantine, or the Chi-Rho monogram—is the  letter X surmounted by a P. The two letters  Chi and Rho are assumed to read Chr, a  contraction for the name Christ, but the  symbol was in use long ages prior to Chris¬  tianity.” The first class members of the  Order wear a gold figure of Saint George  slaying the dragon, suspended from the  cross. The ribbon is light blue moire.   ORDER OF SAINT L OUIS. Charles III,  Duke of Parma, revived this order at Parma,  August 11, 1849, as an award of merit. His  father Charles Louis (or Charles II) had  originated the order in Lucca in 1836. There    are five classes and the insignia is a cross,  composed of four fleurs-de-lis, bound together  by their leaves. On the centre of the  obverse in a blue-enamelled shield are three  gold lilies. On the reverse is a figure of  St. Louis, surrounded by the motto DEUS  ET DIES (God and light). The Grand  Cross and that for Commanders and Cava¬  liers of the first class have a gold figure of  St. Louis surmounted by a gold crown. The  cross for the second class Cavaliers has a  silver figure with a silver crown, and the  fifth class is of enamelled silver without a  crown. The ribbon is light blue and yellow.   MEDAL OF MERIT. Founded during  the reign of Marie Louise. Marie  Louise was the mother of the Little King  of Rome who, fortunately for Italy, never  reigned. The medal is silver, 20 mm.,  and bears on the obverse, AI BENEMER-  ENTI DEL PRINCIPE E DELLO STATO.  On the reverse is the head of Marie Louise  and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D.  AUSTRIA DUCA DI PARMA PIAZ. E.  GUAST. The ribbon is light blue and light red.    NUMISMATIC NOTES          MEDALS OF HONOUR   #   21   SAN MARINO.   When Marinus, the Dalmatian monk,  and his companions settled in the Eastern  Apennines, in the third century, they little  thought they were establishing a community  with such a future. For a long time San  Marino was something like a buffer state,  between hostile Italian dynasties in that  vicinity. In 1631, the Independence of San  Marino was acknowledged by the States of  the Church. Napoleon I preserved its sep¬  arate existence in 1797, and Napoleon III  protected it from the designs of Pope Pius  IX in 1854. At the unification of Italy,  1859-1860, San Marino was still allowed its  independence, and today it is the smallest  Republic in Europe.   ORDER OF CHIVALRY OF SAN MA¬  RINO. Sometimes called the Equestrian  Order of San Marino, created on August 13,  1859, by the Council of the Republic, in  commemoration of the fifteenth century of  its foundation. The purpose of its founda-    AND MONOGRAPHS ITALIAN    DECORATIONS   f    Pl. IV    San Marino   Order of Chivalry of San Marino       MEDALS OF HONOUR   23   tion was to reward those who were promi¬  nent in the welfare of the country and its  people. There are five grades: Grand  Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬  cers and Chevaliers. The badge or cross,  which is surmounted by a gold crown, is a  gold-edged, white-enamelled cross moline  with a gold ball at the end of each arm. Be¬  tween the arms are four gold towers. The  obverse centre bears the effigy of Saint  Marino to left, surrounded by a blue band,  inscribed SAN MARINO PROTETTORE.  The reverse bears on a gold shield, in the cen¬  tre, the arms of the country—the three  towers. The shield is surrounded by a blue  band bearing the words MERITO CIVILE  E MI LI TARE. The ribbon is of seven  equal stripes, four of blue and three of white.   The writer has four specimens of this cross.  Two have full-faced busts of San Marino,  with white hair and beard. One has a  younger face to the left, with black beard  and hair, while the fourth has a bust in gold,  facing to the left, but on a white-enamelled  field. Two of the specimens bear on the  reverse MERITO CIVILE. Elvin and    AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND    Lawrence-Archer give the inscription as  “Merito Militare,” while the Catalogue  Musee de VArmte has it “Merito Civile.”  Cappelletti and Puca, the Italian authori¬  ties, give the former wording, and the figure  of San Marino facing to the left; and this,  no doubt, is correct.   MEDAL OF MERIT. Instituted on  March 22, i860. This is octagonal in form  and of gold, silver and bronze, according to  the importance of its award. In the centre  of the obverse is the Arms of the Republic,  the three towers, within an oak and laurel  wreath, below which is the word LIBERT AS;  around this is, REPUBBLICA Dl SAN  MARINO. On the reverse, within an oak  wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬  pose of the reward is military, or MERITO ,  if for civil award. The ribbon is light blue,  edged with red.    NUMISMATIC NOTES          MEDALS OF HONOUR   25   SARDINIA, SAVOY AND THE  KINGDOM OF ITALY.   Sardinia, one of the islands of the King¬  dom of Italy, is known to have been settled  by the Carthaginians in 512 B.C. Thence¬  forward Romans, Vandals, Goths, Saracens,  and the Genoese ruled the island. In the  year 1325 A.D, the king of Aragon took pos¬  session. From that time until 1403 Sardinia  was an Aragonese province. After the union  of Aragon and Castile, it became Spanish  and so remained until 1713, when it was  ceded to Austria by the treaty of Utrecht.  In 1720 it w r as given to Victor Amadeus II  (1666-1732), Duke of Savoy, in exchange for  the island of Sicily, and he became King of  Sardinia; the title of King of Savoy was con¬  ferred upon him the same year. This title  of King of Sardinia and Savoy continued  until the unification of Italy in 1859-1860.   MEDAL OF VALOUR. Created in 1793  by Victor Amadeus III (1727-1796), King of  Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm.    AND MONOGRAPHS         26   ITALIAN ORDERS    in diameter, and bears on the obverse a  bust of the king facing to right and VITTO¬  RIO-AM ADEJJS III. The reverse has a  wreath of oak leaves, within which is a tro¬  phy of arms and flags, and the words AL  V A LORE. The ribbon is dark blue.   About 1404 Amadeus VIII, (the first Duke  of Savoy), extended his provinces. The  teriitory over which he later reigned extend¬  ed from the Lake of Geneva to the Mediter¬  ranean Sea, and from the River Saone (in  France) to ,the River Sesia in Italy. The  Duchy of Savoy also included Nice. This  section remained almost continually in the  possession of the house of Savoy until i860.   It is said that Napoleon III had a secret  treaty with Count Cavour, the Italian states¬  man, before the French army went to assist  the Sardinians to drive the Austrians from  Northern Italy. At the Peace table, Savoy,  the cradle of the house of that name, as well  as Nice, was given to France. Of this set¬  tlement, Garibaldi is reported to have said,  “That man (Cavour) has made me a foreigner  in my own house.”   Inasmuch as the Kingdom of Italy has    NUMISMATIC NOTES         MEDALS OF HONOUR   27   been ruled by princes of the house of Savoy,  it seems proper to describe, in the subsequent  pages, the decorations generally known as  Italian Orders of Chivalry and Medals of  Distinction.   ORDER OF THE MOST SACRED  ANNUNCIATION. This Order is the high¬  est in rank and most important of all the  Italian Decorations. It ranks with the  Golden Fleece of Spain and the Garter of  England. Authorities differ as to its origin,  though many of them give the year 1362 as  the date of its foundation. In that year,  the Order of the Neck Chain 01 Order of the  Collar of Savoy was founded by Amadeus  VI, Count Verde of Savoy. His  grandfather, Amadeus V, called the Great,  assisted the Knights of the Order of Saint  John of Jerusalem at Rhodes, and compelled  the Turks, under Mahomet II, to abandon  their siege of that island in 1310 or, as some  state, in 1315. For this service Amadeus V  was presented with a collar, bearing the let¬  ters F.E.R.T. Fortitudo ejus Rhodum tenuit  (By his bravery Rhodes was held). He was also granted for his Arms, the use of  the white cross of the Crusaders, which later  became the Cross of Savoy (H. W. Finch-  am’s “Order of St. John of Jerusalem in  England”). Although authorities differ as  to the exact meaning of these letters  F.E.R.T., the above is the more generally  accepted explanation, and is that given by  Bernardo Giustinian, the Italian authority,  in 1692. In 1518, new statutes were formu¬  lated for the Order by Charles III, Count of  Savoy. At that time the name was changed  to the Order of the Most Sacred Annuncia¬  tion. Several changes in the Order have  been made by various Counts of Savoy since  that time, among whom were Victor Emman¬  uel II in 1869 and Humbert I in 1889. There  is but one class of Members—Chevaliers or  Knights, whose number, exclusive of the  Sovereign and Church Dignitaries and  Princes, is limited. They must also be of  the Roman Catholic faith. The insignia  consists of a gold medallion on which is a  representation of the Annunciation, above  which is a dove, symbolising the Holy Spirit.  This is surrounded by a group of symbolic    NUMISMATIC NOTES         «£    ITALIAN DECORATIONS    Pl. V     Italy (savoy)   Order of the Most Sacred Annunciation    30   ITALIAN ORDERS    knots of ribbon (lacs d’amour), on which are  numerous roses, a possible reference to the  Mystic Rose. The whole is suspended from  a gold chain, composed of alternate knots of  ribbon and roses, with the letters F.E.R.T.  interwoven. The plaque, or star, is similar  to the badge, surrounded by eight rays of  flame, with the letters F.E.R.T. on the sides.  The ribbon is blue moire. (Frontispiece.)   ORDER OF SAINT MAURICE AND  SAINT LAZARUS. The Order of St. Mau¬  rice was instituted in 1434, at Ripaille,  near the lake of Geneva, by Amadeus VIII  (13^3-1450), Count and first Duke of Savoy.  The Order took its name from the patron  saint of Savoy. Amadeus VIII conferred  this Order on ten of his courtiers when they  accompanied him to his retreat at the priory  of Ripaille. He was elected Pope in 1439,  taking the name of Felix V, but he resigned  in 1448 and retired to the solitude of Ripaille,  where he died in 1450. He is buried at  Lausanne. Shortly after his death, the Or¬  der became dormant. It was revived in    NUMISMATIC NOTES          ITALIAN DECORATIONS    Pl. VI     Italy (savoy)   Order of St. Maurice and St. Lazarus        1572 by Duke Emmanuel Philibert of Savoy,  to encourage the Catholics to resist the Cal-  vinistic reforms attempted in Savoy. The  Dukes of Savoy were Grand Masters.   The Order of Saint Lazarus was gen¬  erally supposed to have been founded about  the year 1060, during the earlier crusades,  although there was a Fraternity of Ecclesias¬  tical Knights who as early as 366 A.D.  founded a hospital at Jerusalem to care for  the lepers. These were known as the  Knights of St. Lazarus. Elias Ashmole,  in his “History of the most noble Order of  the Garter,” London, 1715, writes—“At  length, through the incursion of the Barba¬  rians, and Injury of Time, it (the order)  lay extinguished, but was revived when the  Latin Princes joyned in a Holy League to  recover the Holy Land. . . . For in that  Time the Monks of this Order added Martial  Discipline to their Skill in Physick; and for  their Services against the Infidels, begat a  great Esteem from Baldwin II, King of  Jerusalem, and some of his Successors.”  The Order was inactive for a long period.    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF HONOUR   33   In 1490 it was united with the Hospitallers  of St. John at Rhodes, but in 1565 Pope Pius  IV restored it and granted additional privi¬  leges. In September, 1572, Pope Gregory  XIII, at the request of Emmanuel Philibert,  Duke of Savoy, restored the Order of Saint  Maurice and united it with that of St. Laz¬  arus, under the title of the ORDER OF  SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS.  Pope Gregory XIII also appointed the Dukes  of Savoy Hereditaries and Masters, and as  Ashmole writes—“oblig’d them to furnish  out two Gallies for the Service of the Papal  See, to be employ’d against Pyrates.”   There have been many changes in the Or¬  der by the various sovereigns, but at present  there are five grades: Knights of the Grand  Cross, Grand Officers, Commanders, Officers  and Chevaliers. The number of the last  grade is unlimited. Many foreigners have  been decorated with this grade. The pres¬  ent form of decoration was established by  Duke Charles Emmanuel I (1562-1630). The  badge consists of a white-enamelled cross,  treflee, of St. Maurice, conjoined at the   *   AND angles with the green Maltese cross of St.  Lazarus, which is ball-tipped at the points.  The badges of the four higher grades are sur¬  mounted by a Royal crown, the size of the  cross and of the crown indicating the par¬  ticular grade. It is suspended by a bright  green watered ribbon. The eight-rayed star  of the Order is silver. In the centre is a  reproduction of the badge or cross, without  the crown.   MEDAL OF SAINT MAURICE. Insti¬  tuted for Military services by King Charles  Albert, 1 King of Sardinia, on July 19, 1839.  It was intended as further recognition of  those officials who had received the cross of  the Order of St. Maurice and St. Lazarus,  and who had served under the flag 11 per la  durati di died lustri” (lustri meaning a five  year enlistment, and died lustri , therefore,  fifty years). The Medal is gold, bearing on  the obverse the equestrian figure of the pa¬  tron saint of Savoy, St. Maurice, holding the  flag of the Order in his right hand. Around  this are the words S. MAURIZIO PRO-    NUMISMATIC NOTES            MEDALS OF HONOUR   35   TETTORE DELLE NOSTRE ARMI. The  reverse is inscribed as below,   AL C A V A LI ERE   MAU RIZIA NO   PER DIECI LUSTRI   NELLA CARRIERA   MI LI TARE   BENEM ERITO   space being reserved for the name of the  recipient. There are two sizes of the medal.  The larger, 55 mm. in diameter, is for Gen¬  erals or Admirals who had received the  higher decoration of the Order of St. Maurice  and St. Lazarus, and the smaller, 39 mm.,  for officers who had received the lower grades  of the same Order. The ribbon is green, the  same as for the Order.   ROYAL MILITARY ORDER OF SAVOY.  Founded at Genoa, on August 14, 1815, by  Victor Emmanuel I (1759-1824). Its pur¬  pose was to reward acts of valour and  magnanimity. The Order was modified on  September 28, 1855, by Victor Emmanuel  II, later king of Italy, who also changed the    decoration to the present form. There are  five classes: Knights of the Grand Cross,  Grand Officers, Commanders, Officers and  Chevaliers. The cross, which is white-  enamelled with curvilinear tips, is edged with  gold. It rests upon a wreath of laurel  leaves. On the red background of the medal¬  lion is the white cross of Savoy, around  which on a circular band are the words AL  M ER 1 TO MI LI T A RE. The reverse medal¬  lion of red enamel has two crossed swords,  points up, above which is the date 1855, and  on either side, the initials V. E. The cross  of the first three classes is surmounted by  a Royal crown, that of the fourth class by a  trophy of flags and arms, while the fifth class  cross has but the suspension ring. The ribbon  is blue moire, with a red band in the centre.   The star, which is of silver, has eight rays;  in the centre is a duplication of the obverse of  the decoration, without the crown. Prior  to 1855, the star or plaque bore the motto  AL MERITO ED AL VALORE.   CIVIL ORDER OF SAVOY. Founded at  Turin, on October 29, 1831, by Charles    Pl. VII     Italy (savoy)  Military Order of Savoy    38   ITALIAN ORDERS    Albert (1798-1849), King of Sardinia and  Savoy. During most of his reign of eighteen  years, he was at war with Austria. Follow¬  ing the revolution of 1848 in France, he  began war for the Independence of Italy  but was compelled to abdicate in 1849 after  his defeat by the Austrians at Novara. The  object of the Order was to rewaid ‘those of  other professions, not less useful than that of  the army, who have become through long and  profound study the ornaments of the State to  which they have rendered important service.’   There is but one class to the Order, known  as Knights, and it is seldom conferred on  foreigners. The decoration is a light blue  Savoy cross edged with gold. The medallion  on the obverse is white with a gold rim; in  the centre are the intials of the founder,   C. A. The reverse has AL MERITO  CIVILE 1831 , in gold lettering on a white  field, on the centre medallion. The moire  ribbon is of three equal stripes—light blue  with white either side.   ORDER OF THE CROWN OF ITALY.  Created on February 20, 1868, by Victor    Pl. VIII     Italy (savoy)  Civil Order of Savoy                40   ITALIAN ORDERS    Emmanuel II (1820-1878), the first King of  United Italy, to commemorate the annexa¬  tion of Venice to that kingdom. This is  sometimes called the Order of the Iron  Crown. Doubtless the origin of the name  arose from the fact that at the coronation  of Agilif, King of the Lombards (592-615),  a crown was used, composed of gold and  precious stones, inset with a band of iron  which was said to have been forged from a  nail of the true Cross. Tradition says that  this crown was kept in the Cathedral of  Monza and removed to Mantua in 1859.  When Napoleon I became King of Italy in  1805, it is said he was crowned with this  crown. The Order of the Iron Crown of  Italy, founded by Napoleon I in 1805, was  abolished in 1814, although revived in  Austria in 1816 by Francis I as the Austrian  Order of the Iron Crown.   The first distribution of the Order of  the Crown of Italy, as founded by King  Victor Emmanuel II, occurred on April  22, 1868, when the heir-apparent, Humbert,  married Princess Marguerite of Savoy.  There are five classes of the Order—Grand    Pl. IX     Italy   Order of the Crown of Italy        Cordons, Grand Officers, Commanders,  Officers and Knights. The grade of Knight  or Chevalier is frequently conferred on  foreigners. The insignia is a white-enam¬  elled cross-pattee edged with gold, and  convex, with knots of gold cord connecting  the arms. In the blue-enamelled medallion  is a gold crown. On the reverse medallion  is the crowned eagle of Savoy. On its  breast is a red shield, bearing the white cross  of Savoy. The ribbon is of red with a white  stripe in the centre. The star of the order,  for the highest grade, is of eight silver rays,  on the centre of which is a gold crown on  blue field, encircled by a white band, in¬  scribed VICTORIUS EMMANUEL II  REX I TALI A E MDCCCLXVI. This device  is surmounted by a crowned eagle bearing the  Arms of Savoy on its breast. The star of the  Grand Officer is an eight-pointed silver star,  on which is a reproduction of the Cross.   ORDER OF INDUSTRY. By a decree of  May 9, 1901, Victor Emmanuel III created  a Decoration called the “Cavalieri del  Lavoro” (Knights of Industry). It is    awarded to those prominent or proficient in  the Industrial, Commercial or Agricultural  work of the Kingdom or of its Colonies.  The decoration consists of a green-enamelled  Savoy cross, edged with gold. On the  obverse is a white medallion, bearing the  words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901  The reverse medallion bears the initials of the  founder, V. E., in gold on a white field. The rib¬  bon is dark green with a red stripe in the cen¬  tre. There is but one class to this order, and its  award carries with it no particular privileges.   COLONIAL ORDER OF THE STAR OF  ITALY. Founded in 1911 by King Victor  Emmanuel III. Its purpose was to reward  those deserving of especial recognition who  were prominent in the work of the Colonies.  There are five classes to the Order: Knights  of the Grand Cross, Grand Officers, Com¬  manders, Officers and Chevaliers. The  decoration consists of a white-enamelled  star of five points, edged with gold and ball-  tipped. On the obverse medallion of red,  is the gold monogram (V. E.) of the founder,  with crown above. A green-enamelled circle    AND MONOGRAPHS         44    ITALIAN ORDERS    has at the bottom of it 1911. On the  reverse red medallion are the words AL/ ;  MERI TO /COLO NI ALE in gold letters.  The ribbon is red, with narrow white and  green bands on either side. All grades of  the star have a crown above, except that of  Chevalier, which is plain. The plaque, j  which is worn by the first and second classes  only, consists of thirty-five silver rays, on  which is the uncrowned star described above.   MILITARY CROSS FOR SERVICE.  On November 8, 1900, Victor Emmanuel  III authorized a cross for long and faithful  service, called the “Croce per anzianita di  servizio Militare.” It is of gold for Officers,  and of silver for the troops. The decoration  is a Maltese cross; on the obverse, a medallion  bearing the Royal cipher V E crowned, and  on the reverse Roman characters, denoting  years of service —XXV for the Officers and  XVI for the troops. If the officers have  served forty years and the troops twenty-five  years, the Roman characters vary accordingly,  and the cross has a crown above. The ribbon is  green, with a wide white stripe in the centre.    NUMISMATIC NOTES               ITALIAN DECORATIONS    Pl. X     Italy   Colonial Order of the Star of Italy    46   ITALIAN ORDERS    MILITARY MEDAL OF VALOUR. As  early as 1793, during the war between Pied¬  mont and France, Victor Amadeus III,  King of Sardinia (1727-1796), created a  Medal of Valour. This was awarded for  individual acts of bravery, and was struck  in gold and in silver. Victor Emmanuel I  revived the award in 1815, at the time of the  downfall of Napoleon I, but abolished it in  August of that year when he created the  Military Order of Savoy. When Charles  Albert was King of Sardinia and Savoy,  he reinstituted the medal in 1833, for acts  of valour not sufficiently important to war¬  rant the M ilitary Order of Savoy. From the  time of its inception to 1887, it was always  awarded in gold or silver, but in that year  Humbert I decreed that a bronze medal  should be given for acts of valour of a lesser  degree. This medal ranks in Italy almost  as highly as does the Victoria Cross in Great  Britain or the Medal of Honour in this  country. It is frequently called the Sar¬  dinian Medal of Valour. The earliest model  was 38 mm. in diameter, having on the  obverse the bust of the king facing to the    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XI     Italy (savoy)  Military Medal of Valour        48    IT A    LI A    N ORDERS AND    right and the words VITTORIO AMADEUS  III. The reverse had a wreath of oak leaves,  within this is a trophy of arms and flags and    the words AL V A LORE. About the time  of the Crimean war, the design was changed.  The size was reduced to 33 mm. The  obverse has the Arms of Savoy, surmounted  by a crown in an oval. Below are a palm  and laurel branch, tied at base with a ribbon;    and around the whole, the words AL V A LO¬  RE MI LI TARE. The reverse has two laurel  branches tied with a ribbon, with a space  in the centre for the recipient’s name. The  name of his campaign is placed on the outer  edge. The ribbon has always been a dark  blue moire. Victor Emmanuel II caused a  number of these medals, in both gold and  silver, to be given to the British and French  troops who took part in the Crimean war.  Two of these are in my collection, and have  been awarded to Frenchmen. The reverse  has the name and title of the recipient en¬  graved at the centre, while around the outer  edge of one are the words SPEDIZIONE  D’ORIENTE 1855-1856, in relief. The  second specimen has the same words en-      NUMISMATIC NOTES                 MEDALS OF HONOUR   49   graved. The Musee de VArm'ee of Paris has  a medal with the recipient’s name engraved  and GUERRE DTTALIE 1859 in relief.  This was for the war with Austria. Another  has in relief CAMP A GNA DELLA BASS A  ITALIA 1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of  Boston, has in his collection a variant of  this Medal of Valour. It is but 25 mm. in  diameter. The reverse has around the edge,  outside the wreath, in relief , the words  GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬  TRIA.   Many of these medals have been awarded  to the men of other countries who have  assisted Italy in her campaigns. It was a  Military Medal of Valour, of gold, which  General Diaz placed upon the grave of the un¬  known American soldier at Arlington on Nov¬  ember 11,1921, by order of the King of Italy.   CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬  thorized by King Victor Emmanuel II on  April 3, 1851. It was given in gold, silver  and bronze. Under a decree of April 29,  1888, Humbert I authorized a bronze medal  also. These are awarded to civilians for per-    AND MONOGRAPHS          50   ITALIAN ORDERS AND    sonal acts of courage and valour, such as  rescues at fires and at sea. The medal is  34 mm. in diameter, bearing on the obverse  the Arms of Savoy in an escutcheon, with a  Royal crown above. Around this at the  top are the words AL VALORE CIVILE.  The r everse has a wreath of oak leaves, with  space in the centre for the recipient’s name.  The writer’s medal is engraved D’ONOFRIO  GIO. ANTONIO CERVINARA (AVEL-  LINO) 22 XBRE. 1868. The ribbon for this  medal is of the Italian National colours.  Three equal stripes—red, white and green.   NAVAL MEDAL OF VALOUR. Insti¬  tuted in March, 1836; modified in 1847, and  again by Victor Emmanuel II in i860, to  reward the men of the Navy for heroism.  In 1888, Humbert I established three grades,  gold, silver and bronze, according to the  character of the award. The obverse bears  the Arms of Savoy on a shield, with a crown  above, and encircled by a palm and laurel  branch tied at the bottom; and round the  outer edge is the motto AL VALORE DI  MARINA. On the reverse is an oak    NUMISMATIC NOTES         MEDALS OF HONOUR  wreath (less full than that of the Military  medal of Valour) with a reserve in the  centre for the name of recipient and mention  of the act for which the medal is awarded.  The ribbon is dark blue moire, with one wide  and one narrow white stripe at each side.   MEDAL OF MERIT FOR PUBLIC  SAFETY. This decoration was first insti¬  tuted on September 13, 1854, by Victor  Emmanuel II and was called “La Medaglia  di Benemerenza per i Benemeriti della  salute pubblica” Its purpose was to reward  the services of volunteers in epidemics of  contagious diseases and those who took part  in other ways beneficial to the health and  safety of the public.   It is given in gold, silver and bronze.  On the obverse is a bust of the King to left,  around which is inscribed UMBERTO I  RE D'IT ALIA. On the reverse are oak  and laurel branches, surrounded by the words  SALUTIS PUBLICAE BENEMERENTI-  BUS. A reserve at the centre is left for the  name of the recipient. On the earlier  models the bust and title of Victor Emmanuel    AND MONOGRAPHS            II appeared on the obverse, and the reverse  motto read AI BEN EMERITI DELLA  SALUTE PUBBLICA . The ribbon is light  blue, edged with black.   MEDAL FOR VETERANS GUARDING  THE TOMB OF THE KINGS. This medal  was authorized on July 14, 1879, and altered  on January 1, 1880. It was established to  honour the veterans of the war of 1848-1849  who guarded the tomb of Victor Emmanuel  II. It is 30 mm. in diameter and of silver.  The ribbon is blue with a white stripe in the  centre, with one edge green and the other  red. The first model has on the obverse a  wreath of laurel with a superimposed, five-  pointed star bearing at the centre the bust  of the King and the words UMBERTO 1°  RE D’lTALIA; on the reverse, VETERAN!  1848-49 / GUARDI A D’ONORE / ALLA  TOMB A DEL RE / VITTORIO EMA-  NUELEII. After the death of Humbert I,  Victor Emmanuel III altered the medal.  The obverse bore his own bust and title, and  the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870  /GUARDIA D’ONORE / ALLE TOMBE    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XII      Italy   Veteran Guard of the Tomb of the Kings       54   ITALIAN ORDERS    DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E  UMBERTO I. A specimen of this design  is in my collection.   LIFE SAVING MEDAL. Authorized by  Royal Decree on March 8 , 1888 . This  decoration is awarded to those, not in the  Navy, who have risked their lives to save  others from drowning, or shipwreck, or for  other forms ot personal valour at sea. It is  issued by the Ministry of the Marine. The  medal is in silver and in bronze only and is  not to be worn on the person. The obverse  bears the effigy of the King, facing left, and  the inscription VITTORIO EMANUELE  III RE D J IT ALIA. The reverse has two  circles, one within the other; in the outer  circle occur the words MIN1STERO DELLA  MARIN A, while the inner one is left blank  for the name of the recipient, the date and  the statement regarding the occasion of the  award.   MEDAL OF MERIT. Authorized by a  Decree of May 6, 1909. This medal was  awarded to all persons, including many    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIII      Italy   Medal of Merit    56   ITALIAN ORDERS AND    foreigners, who from philanthropic or  charitable motives went to the relief of the  inhabitants of Sicily and Southern Calabria  at the time of the earthquake of December  28, 1908. It is 34 mm. in diameter, and  was issued in gold, silver and bronze. The  obverse bears the effigy of the King, facing  left, and the words VITTORIO EMA-  NUELE III. On the reverse, the inscription  TERREMOTO / 28 DICEMBRE 1908  /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬  rounded by a wreath of oak leaves. The  ribbon is green with a white stripe on either  side. A variation of this medal was issued,  bearing on the obverse the bust of the king  surrounded by the inscription VITTORIO  EMANUELE III RE D’I TALI A. The  reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO-  RA TI V A / TERREMOTO / C ALABRO  SICULO/28 DICEMBRE /1908. The  ribbon for this has 5 stripes, alternately  white and green.   The writer possesses an interesting medal,  for the official issuance of which no authority  has been found. It is of silver, 33 mm. in  diameter. The obverse bears the head of    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF HONOUR    57    the King of Sardinia and Savoy, facing left,  with A CARLO ALBERTO at the sides.  Under the bust, the letters S.J. (probably  standing for Stephano Johnson). The  reverse reads I VETERANI/ITALIANI  /IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA SUA  TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark  blue with a yellow stripe each side. It is  believed that these medals were given to the  veteran soldiers of Charles Albert who made  the pilgrimage to his last resting place.  The Abbey of Superga was founded by  Victor Amadeus III near Turin. In its church  rest the remains of the Princes of Savoy.  Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in  1849. His body was buried on the heights of  Superga. Italy later recognized his devotion,  and pilgrims still journey to his tomb.   CRI MEAN M EDAL. Italy was not back¬  ward in awarding what are commonly  known as Campaign or Service Medals but  which the Italian authorities style “Medaglie  Commemorative.” That for the Crimean war  was the first. It was authorized on October  22, 1856, and was issued to the Piedmont    AND MONOGRAPHS  ITALIAN ORDERS AND    troops serving during that campaign under  General La Marmora. The medal is of  silver, 35 mm. in diameter. On the obverse  appears the effigy of the King, facing left,  and the inscription VITTORIO EM AN U ELE  II. The reverse has in large letters, in  relief, CRIMEA/1855-1856. The ribbon is  light blue with a narrow gold edge. Some  authorities assign a ribbon of the Italian  National colours—red, white and green.   MEDAL FOR THE LIBERATION OF  SICILY. This medal was issued to com¬  memorate the dethronement of Ferdinand  II and the union of the ancient Kingdom of  Sicily with the Kingdom of Italy. As a  result of that insurrection, Garibaldi with  his thousand troops landed at Marsala, and  in three weeks was master of Messina. The  medal (30 mm.) is of silver and bronze.  On the obverse is the bust of the king and  the words VITTORIO EM AN U ELE; below  the bust, the initials S.J., probably standing  for Stephano Johnson, the maker. The re¬  verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI  SA VOIA / LIBERAZIONE DI / SICILIA    NUMISMATIC NOTES           MEDALS OF HONOUR    59    1860. The ribbon is red, with one white  and one green edge.   STAR OF THE THOUSAND. Here might  appropriately be mentioned a unique dec¬  oration. On January 9, 1861, General Turr  went to the island of Caprera to carry to  that great Italian patriot, General Giuseppe  Garibaldi (1807-1882), the Star of Honour  which his famous thousand companions had  offered him. It is a gold star of seven points,  loosely set with diamonds. In the centre  on a blue-enamelled field in letters of gold is  ARTURO (a star which is said to protect  any one with an ideal). On this is super¬  imposed a gold Trinacria, the emblem of  Sicily. This is surrounded by an enamelled  band of white, green and red, inscribed in  letters of gold I MILLE AL LORO DUCE  (The thousand to their chief). This was  the only decoration which that great  General consented to wear; and after his  death at Caprera on June 2, 1882, the star  was given by his sons to the Quirinal Museum  in Rome where it may now be seen.    AND MONOGRAPHS           6o   ITALIAN ORDERS    MEDAL OF THE THOUSAND, or  MARSALA MEDAL. Issued by the city  of Palermo, and authorized by the Italian  government in 1865. It was presented to  the troops of Garibaldi who entered the City  in i860, and is called LA MEDAGLIA DEI  MILLE. The obverse has in the centre an  eagle with raised wings, standing on a fillet  inscribed S. P. Q. R. Around this are the  words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬  BALDI (To the brave men who were led by  Garibaldi). On the reverse within a wreath  of laurel is IL MUNICIPIO/PALERMI-  TANO / RI VENDICA TO / MDCCCLX.  Around this, outside the wreath are the words  MARSALA CALATAFIMI PALERMO.  The medal was issued in silver and in bronze.  The ribbon is bright red, with a gold stripe each  side, and on the face of the ribbon is fastened  a silver Trinacria , the emblem of Sicily.   MEDAL OF ITALIAN INDEPENDENCE.  This decoration was authorized in 1862. It  is of silver, and 32 mm. in diameter. On the  obverse is the head of the king, to left,    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIV     Italy   Medal of the Thousand    62   ITALIAN ORDERS    around which are the words VITTORIO  EMANUELE II RE D’I TALI A The  reverse depicts a standing female figure,  symbolizing Italy, holding in her right hand  a spear, and in the left, a shield with the  Arms of Savoy. Around the whole is in¬  scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA  E V UNIT A D’IT ALIA. The ribbon is  composed of six narrow stripes of the  National colours—green, white and red.  Bars or barrets are issued in silver to be  attached to the ribbon, as follows: 1848-  1849 (war with Austria), 1855-1856 (Cri¬  mean War), 1859 (war with Austria), 1860-  1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and  the Campaign in central Italy), 1866 (war  with Austria), 1867 (Campaign against  Rome), and 1870 (Capture of Rome).   MEDAL FOR UNITED ITALY. This  medal was authorized in 1883. It is 32 mm.  in size, and of silver and bronze. On the  obverse is the effigy of the King and the  words UMBERTO I RE D’lTALIA. On  the reverse, within a laurel wreath the in¬  scription UNITA/D’ITALI A/1848-1870.    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XV     Italy   Medal of Italian Independence    ITALIAN DECORATIONS    Pl. XVI     Italy   Medal for United Italy           MEDALS OF HONOUR    65    The ribbon has a broad green stripe with a  white and a red stripe on both sides.   Unlike the British campaign medals, few  of the Italian medals are inscribed on the  edges. The writer has a group of three  medals, inscribed PHILIP FIGYELMESY  COM ANDANTE USSERI UNGHERESI.  These are for the Campaign of United Italy,  Liberation of Sicily, and for Italian Inde¬  pendence.    MEDAL FOR AFRICA. Created on  November 3, 1894; sometimes called the  “Medal for Abyssinia.” It was awarded to  the forces of the Army and Navy which took  part in the operations in Abyssinia, especially  in that portion bordering on the Red Sea,  called Eritrea. This included the campaign  of 1887-1897 against Menelik II, who was  the Negus of Abyssinia. The medal was  issued in bronze, 32 mm., and bears on the  obverse the crowned head of King Humbert  I, facing right. On the reverse, within a  laurel wreath, are the words CAMPAGNE  D } AFRICA. The ribbon is red with blue  borders. Silver bars, suitably inscribed,    AND MONOGRAPHS          66   ITALIAN ORDERS    were issued to the troops taking part in the  following expeditions, viz: Campagna 1887-  1888, Saati, Dogali Saganeiti, Keren,  Asmara, Adua, Agordat (1890), Halat,  Serobeti, Agordat (1893), Kassala, Halai,  Coatit, Campagna 1895-1896 and Cam¬  pagna 1897.   MEDAL FOR THE FAR EAST. Au¬  thorized on June 23, 1901, and also known  as the “Medal for China/’ or the “Medal  for the Boxer Uprising.” At the time of  that unfortunate affair, when so many of  the Nations went to the relief of their lega¬  tions at Pekin, Italy was among the first.  To all those taking part in this expedition,  and to those who remained as guardians of  the territory until the end of the year 1901,  this medal was given. It is of bronze,  32 mm., and bears on the obverse the effigy  of the King facing left and the words VIT-  TORIO EMANUELE III RE D’lTALIA;  on the reverse, within a wreath of laurel,  CINA 1900 - 1901 . The ribbon is yellow,  with four dark blue stripes. Another medal  for China is exactly like the above, excepting    NUMISMATIC NOTES               ITALIAN DECORATIONS    Pl. XVII     Italy   Medal for Africa         68   ITALIAN ORDERS    that the reverse bears the word CINA only.  This was given to the troops and sailors  who served in China from December 31,  1901 to April 1, 1908. The ribbon is  similar.   MEDAL FOR THE TURKISH WAR OF  1911 - 1912 . But a few years ago Italy and  Turkey were fighting desperately for the  control of Tripoli, a section of Northern  Africa which had been under Turkish rule  for several centuries. It was at this time  that Germany all but precipitated a Euro¬  pean war by insisting upon certain methods  of settlement. Fortunately conflict was  averted by the treaty of Lausanne. To  commemorate the triumph over Turkey and  to honor those engaged there, a silver medal  of 32 mm. was authorized on November 21,  1912. The medal was issued to all men of  the Army and Navy who took part in the  operations against the Ottoman Empire,  whether in Africa or in Turkish territory.  On the obverse of the medal is the head of  the King, facing right, and the inscription,  VITTORIO EM A N V ELE. III. RE    NUMISMATIC NOTES        Pl. XVI 11     Italy  War Cross      70   ITALIAN ORDERS    D* I TALI A. On the reverse, within a  wreath of laurel, the words GUERRA /  ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 . The ribbon is  of six narrow blue and five narrow red stripes  of equal width.   MEDAL FOR THE WAR IN LIBYA.  The treaty of Lausanne did not stop all war  operations on the part of Italy. The tribes  of the newly acquired Colonial possessions  continued to make trouble. To reward the  troops taking part in such campaigns, a  silver medal of 32 mm. was authorized on  September 6, 1913. This was identical with  the Turkish war medal, except that the re¬  verse bears the words GUERRA/IN LIBIA.  The ribbon is of the same design and colour.   WAR CROSS OF ITALY. Authorized in  1918. It was awarded to those worthy of  official recognition during the World War,  but whose service was not of sufficient im¬  portance to warrant the Medal of Military  Valour. The Decoration is of bronze, 38  mm., in the form of the Savoy Cross. On  the obverse is inscribed MER 1 T 0 Dl    NUMISMATIC NOTES             ITALIAN DECORATIONS    Pl. XIX     Italy   Medal for the World War    72   ITALIAN ORDERS    GUERRA , above which is the King’s  crowned monogram, V. E. and III. On the  lower arm of the cross is an upright sword  entwined with a branch of oak. The  reverse has a. star in the centre surrounded  by rays. The ribbon is dark blue with  two white stripes.   MEDAL FOR THE WORLD WAR.  Created on July 29, 1920 and made from  captured Austrian cannon. It is bronze,  32 mm. On the obverse appears the hel-  meted bust of the King, encircled by the  inscription, GUERRA PER V UNIT A  D' I TALI A 1915-1918 and three branches of  oak leaves. The reverse has an allegorical  figure of Victory, standing on a support  borne by two helmeted soldiers, and the  inscription CONIT A NEL BRONZE N E-  MICO (Coined from enemy bronze). The  ribbon has eighteen narrow stripes of green,  white and red—six of each colour. Bars  were issued to be worn on the ribbon to  designate the years of service in the war.  These bear the dates of 1915 , 1916,1917 and  1918 .    NUMIS M ATIC NOTES            ITALIAN DECORATIONS    Pl. XX     Italy   Medal of National Gratitude       74   ITALIAN ORDERS    VICTORY MEDAL. Created on De¬  cember 16, 1920, but not issued until 1922.  The medal is bronze, 36 mm. As with the  Victory medals of the other allies, the winged  Victory is the dominant feature. This  figure stands facing on a triumphal chariot  drawn by four lions. The reverse shows a  tripod above which two doves of peace are to  be seen. At top the inscription GRANDE-  G VERRA-PER-LA-Cl VILTA . In field, at  each side of tripod MCMXIV-MCMXVIII,  below, in two lines, AI COMBATTENTI  BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬  CIATE. The badge is suspended by the  rainbow ribbon as are all the Victory  medals.   MEDAL OF NATIONAL GRATITUDE.  This medal is awarded to mothers who lost  sons in the World War. The obverse shows  an allegorical figure presenting a wreath to  a fallen warrior. Standing alongside is  another female in an attitude of grief. The  reverse has an inscription in eight lines  IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL  DOLORE / TI RINASCE “0 BEAT A”  /    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXI     Italy   Victory Medal        7 6   ITALIAN ORDERS AND    NELLA GLORIA / E IL VIVO EROE /  “PIENA DI GRAZIA” / E PECO. The  ribbon is grey with center composed of  narrow green, white and red stripes.    MEDAL FOR WAR ORPHANS. This  medal has also been authorized but no  information has been received concerning it.    ITALIAN UNITY MEDAL. This medal  has not as yet been distributed and details  concerning it are lacking. It is to be sold  and the money received is to go to the widows  and mothers of those killed in the war.    MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS,  Notice has been received that a medal will  be issued shortly to those who volunteered  in the World War.    CROWN OF MERIT. At this writing,  and before any confirmation could be secured,  advices have come that the Councils of  Ministers have proposed a decoration to be  awarded to clerks and workingmen who have  remained faithful to their employers for    NUMISMATIC NOTES          MEDALS OF HONOUR   77   twenty-five years or more. Presumably this  medal is intended to stimulate a spirit of co¬  operation between the employed and em¬  ployer. No decision as to the design has  been announced.   Several of the municipalities of Northern  Italy issued medals to honor those who aided  in the efforts to free that country during the  strenuous days of 1848-1849. None of  these medals of the cities are official medals,  and consequently few if any of the authori¬  ties mention them. They are inserted here  in order that the numismatist may have  some facts relating to them.   Como had a medal inscribed on the ob¬  verse, COMO LIBERATA NELLE GLORI-  OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848 .  The reverse bears the Arms of the city and  the words AL VALORE DEL CITTADINO.   Bologna issued a medal inscribed VIT¬  TORIO BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 . On the re¬  verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA  DIO SI PONE ALLA SUA TESTA.   Livorno’s medal bears on the obverse  AI V A LOROSI DIFENSORI DI LIVORNO  10 E 11/5 18 49. The reverse bears the    AND MONOGRAPHS         78   ITALIAN ORDERS AND    Arms of the State and the words MUNICI-  PIO DI LIVORNO. The ribbons for the  above medals are red and white.   Milano likewise had a medal to show her  appreciation of the efforts of her citizens for  freedom. It bears on the obverse a figure  of Victory and the dome of the Cathedral.  The reverse has the Arms of the State and  the inscription COMMUNE DI MILANO.  The ribbon is red and yellow.   Cadore, Vicenza and Brescia are also said  to have issued medals, but a dependable  description has not been obtainable.   During the war of 1848-1849 against  Austria, and the several Principalities of  which Italy is now composed, Rome, too,  became involved. At the time of the  Insurrection of 1848, Pope Pius IX fled to  Gaeta, where he remained until 1850. On  February 9, 1849, Rome was declared a  Republic. To those who took part in the  Insurrection, and who aided in the formation  of the short-lived Republic, as well as for  connection with subsequent events, Rome  awarded several medals. As with the others,  authentic information is difficult to obtain.    NUMISMATIC NOTES          MEDALS OF HONOUR   79   MEDAL OF MERIT. Issued for the  battle of Vicenza on June io, 1848. This  medal was of both silver and bronze, and  30 mm. in diameter. On the obverse within  a wreath of oak leaves, the Arms of the city  of Rome—a crowned shield, bearing the  letters S. P. Q. R. (Senatus Populus que  jRoman us —The Senate and the people of  Rome). Around this device is the inscription  ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI.  On a plain reverse is the motto, P VGNA  STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA TA  / IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL VIII.  The ribbon is of equal stripes of magenta  and yellow—the colours of Rome.   MEDAL OF MERIT (Rome). Issued in  silver and bronze. The obverse has in the  centre, the she-wolf with Romulus and  Remus. Around this is BENEMERITO  DELLA PATRIA, with an oak and olive  branch beneath. The reverse has in the  centre a group of flags and a trophy of arms,  surrounded by the inscription INDIPEN-  DENZA ITALIAN A 1848 . The ribbon is  similar to the preceding.    AND MONOGRAPHS         8o   ITALIAN ORDERS    MEDAL OF MERIT. Struck in silver  and bronze, and is said to have been issued  by the Republic of Rome to those who dis¬  tinguished themselves during the Insurrec¬  tion of 1848. It is 30 mm., and has on the  obverse the she-wolf with Romulus and  Remus, standing on a pedestal, bearing the  letteisS. P. Q. R . The reverse reads AL  MERITO, surrounded by an oak wreath.  The ribbon is magenta and yellow.   Another medal is described by one au¬  thority as a reward to the combatants of  1848. It is 23 mm., bronze, and bears on  the obverse an allegorical female figure,  holding a spear in her right hand and a  cornucopia in her left. At her feet is a  globe surmounted by an eagle. Above is a  rayed .star. On the edge is inscribed  REPUBLIC A ROM AN A. On the reverse  is the motto ALLA VIRTU CITTADINA  within an oak wreath. This is surrounded  by the inscription LA P ATRIA RICONO-  SCENTE. No ribbon is described.   According to Padiglione still another  Medal of Merit was issued in commemora¬  tion of September 20, 1870, when Rome was    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXII     Rome. Battle of Vicenza  Rome. Medal of Merit    82    ITALIAN ORDERS AND    admitted into the Kingdom of Italy. Scul-  fort, a French writer, says this medal was  given to commemorate the proclamation of  the Republic of Rome in 1848; although  preference is here given to the Italian  authority’s version. The medal was issued  in silver and bronze, 30 mm. in diameter.  On the obverse is a shield bearing the Arms  of the City, surmounted by the she-wolf  with Romulus and Remus. This device  rests upon two crossed battle axes and an  oak wreath. The reverse bears within an  oak wreath ROMA /RIVENDICA TA ,/AI  SUOI/LIBERATORI, surmounted by a  star. The ribbon has narrow alternating  stripes of magenta and yellow. Some rib¬  bons have nineteen stripes; others have  eleven.    NUMISMATIC NOTES              MEDALS OF HONOUR   83   THE TWO SICILIES   Even more so than with Italy proper,  Sicily has been a battle-ground from the  earliest times. And this condition, as is  usually the case, has made the numismatics  of Sicily of great importance. Before the  period of coinage, the Sikels dwelt in the  land. Later the Carthaginians disputed  with the Greeks for its control, both yielding  ultimately to the Romans. In addition to  the struggles between the Normans and the  Spaniards for its possession, it had to with¬  stand the onslaught of the Saracens.   Sicily, especially in the mediaeval period,  has shared the fate of the kingdom of  Naples, or, as they came to be known, the  Kingdom of the two Sicilies—a title which  in itself is a commentary of the relative  importance of Naples. After the Lombard  rule in the nth century, the Normans,under  Count Roger, brought about a consolidation  of Naples and Sicily. The conquest dates  from 1130 A.D., when he assumed the title    AND MONOGRAPHS         8 4   ITALIAN ORDERS AND    of King of Naples and Sicily. There were  two periods of separation—1282 to 1442  and 1458 to 1504, but after the last-named  year the two kingdoms remained under one  crown until the unification of Italy in 1861.   It is unnecessary here to dwell upon the  constantly changing rule for the two king¬  doms more than to mention the conflict  between the House of Anjou and of Aragon  through the 14th and 15th centuries. Under  Charles VIII (from 1494), the French ruled,  while between 1504 and 1707 the Spanish  were in control. They were followed by  the Austrians (until 1720). After that  date Spanish Bourbons held possession.   The Napoleonic rule on the mainland  dates from 1805, while Ferdinand IV con¬  trolled the island of Sicily. The downfall  of Napoleon at Waterloo saw the two  kingdoms again united under the Bourbons.  The wars for the independence of Italy, and  the efforts of Garibaldi in 1859 and i860,  finally brought both sections into the  Kingdom of Italy and under the rule of the  house of Savoy.    NUMISMATIC NOTES        M EDALS OF HONOUR   85   ORDER OF THE SHIP. In 1269, St.  Louis founded in France the Order of the  Ship or of the Double Crescent. Upon his  death in 1270, his brother, Charles d’Anjou,  established this order in the Kingdom of  Naples. Owing to the design of the collar,  this order is sometimes given a third name—  The Order of the Sea Shell. The insignia was  a gold collar of scallop shells, alternating with  double crescents. From this was suspended a  medal with a ship as its design. The motto  is NON CREDO TEMPORI. Clark, an Eng¬  lish writer, describes an order founded in 1382  by Charles III, King of Naples, called the  “Order of St. Nicholas,” while Elias Ashmole  styles it “The Order of the Argonauts of  St. Nicholas.” Both give the motto as NON  CREDO TEMPORE Apparently, therefore,  this is a survival or a later form of the  Order of the Double Crescent.   ORDER OF THE CRESCENT. Favine  states that this order was founded in An-  giers, France, in 1464, by Rene, Duke of  Anjou, King of Jerusalem and Sicily.  Ashmole quotes St. Marthes as giving 1448    AND MONOGRAPHS          86   ITALIAN ORDERS AND    as the date for its foundation. Rene was  unable to hold his island kingdom very long.  The order was not popular, and those  honoured with it were afraid to wear the  badge. The insignia consisted of three gold  chains from which is suspended a gold  crescent, bearing three letters in red, L.O.Z.,  which signify, according to Favine, L’oz en  croissant (Praise by increasing). To the  crescent were attached gold tags indicating  the battles and feats of honour in which the  knights had been engaged. 2   Aragon controlled the Island Kingdom of  Sicily from 1282 to 1442. In 1351 Louis I,  King of Sicily, founded the ORDER OF THE  STAR to replace that of the CRESCENT  MOON. This insignia was a Maltese  cross, in the centre of which is an eight-  pointed star. This Order seems to have  been discontinued in 1394. Giustinian, the  Italian writer in 1692, gives a list of eighteen  Grand Masters of the Order of the Crescent  Moon and of the Star from 1268 to 1667.  This would seem to indicate that the Orders  described above were connected or continued  by the several rulers under different titles.    NUMISMATIC NOTES         MEDALS OF HONOUR   OO   ^4   ORDER OF THE SPUR. Founded in  1266 by Charles d’Anjou, King of Naples  and Sicily, to commemorate his triumph over  Manfred near Benevento. The insignia is  a white-enamelled cross, each of the arms  having double points. A spur is attached  at the base. The Order was shortlived.    ORDER OF THE KNOT OF NAPLES.  Created in 1351 by Louis of Taranto when  he married the Queen of Naples. This was  also termed the “Order of the Holy Spirit  of the Right Desire.” It ceased to exist  after the death of the founder. The  insignia is a knot of cord entwined with  i gold thread.    ORDER OF THE REEL AND LIONESS  (Naples). This Order, of short duration,  was instituted by partisans of the house of  Anjou, during the troubles of 1386-1390.  The insignia is a yarn reel and a lioness, the  significance of which is difficult to learn.  Clark, writing in 1784, states that the  followers of Louis II, Duke of Anjou, were  divided into two factions, one of which wore    AND MONOGRAPHS             88   ITALIAN ORDERS AND    on its arms an embroidered reel as a sign  of contempt for Queen Margaret, widow of  Charles III, who desired to hold the reins of  government. This faction took the name  of “Knights of the Reel.” The other, the  Knights of the Lioness, wore on its breast  the figure of a lioness with feet tied, indi¬  cating that it looked upon Queen Margaret  as one tied by the leg.   ORDER OF THE ERMINE (Naples).  Founded in 1463, by Ferdinand I (1423-  1494) Aragon, King of Naples, at the end  of the war which he had been waging against  John of Anjou, Duke of Calabria. He was  led into this war by his brother-in-law,  Marinus Marcianus, Duke of Sesso, who  conspired to murder Ferdinand. Marinus  Was not only pardoned for his treachery but  was admitted into this Order. The motto  was MALO MORI QUAM FOEDARI  (Death is preferable to dishonor), and the  patron was St. Basil. The badge is a gold  ermine suspended from a gold chain. Au¬  thorities differ as to the exact date of both  the creating and discontinuance of this Order.    NUMISMATIC NOTES             MEDALS OF HONOUR   89   ORDER OF THE GRIFFIN (Naples).  Attributed to Alphonse by Perrot and by  De Genouillac. The date of its founding is  given as 1489. As Alphonse died in 1458 and  was succeeded by his son, Ferdinand I, who  reigned until 1494, it may, therefore, have  been instituted by Ferdinand. No descrip¬  tion of the insignia can be found.   ORDER OF SAINT MICHAEL (Naples).  This Order is likewise attributed to Ferdi¬  nand I, and the insignia is described by  Ashmole as an oval, bearing the word  DECORUM . No other record has been  found.   ORDER OF SAINT JANUARIUS (of the  Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by  King Charles of Sicily (1716-1788), to cele¬  brate his marriage with Princess Amelia,  daughter of Augustus III of Poland. Charles  was of the Spanish Bourbons, and second  son of Philip V. His army had conquered  Sicily, and he became its King in 1735 at  the age of eighteen, having previously borne  the titles of Duke of Parma and Grand-Duke    AND MONOGRAPHS         90   ITALIAN ORDERS    of Tuscany. In 1759 he became Charles  III of Spain, at which time he resigned his  Neapolitan and Sicilian Kingdom in favor  of his son, Ferdinand. Charles formed the  Noble Order of the Immaculate Conception  of the Virgin Mary, often also called “The  Order of Charles III of Spain.” It was he  who, as King of Spain, joined France in  sending assistance to the American Colonies  in their war of Independence. At the Peace  Treaty following that conflict, he recovered  Florida for Spain from England, to whom it  had been ceded in 1763.   Saint Januarius (San Genaro), for whom  this Order is named, was the Patron Saint  of Naples. Relics of this Saint, to whom  miraculous cures are attributed, are pre¬  served in the cathedral named for him in  that city. When the French invaded  Naples in 1806, the Order was abolished in  that country, though it continued in Sicily,  whither Ferdinand had fled. It was revived  after 1814. At the present time it is classed  among the non-active Orders of Italy.  There are two classes: Knights and Honor¬  ary Knights. The badge of the Order is a    NUMISMATIC NOTES          ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXIII     Two Sicilies  Order of Saint Januarius     ITALIAN ORDERS AND    gold Maltese cross, enamelled red with  white edges; gold Bourbon lilies in the  angles. The obverse centre has a figure of  the patron saint, San Genaro, clad in a red  robe and hat, with an open book in the left  hand. The reverse shows an open book and  two receptacles partly filled with the mirac¬  ulous blood of this martyr. The ribbon is  bright red. The plaque is of silver, the same  design as the cross, and bears the words  IN SANGUINE FOEDUS (the Covenant  in Blood).   ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT  CHARLES. Instituted by Royal Decree of  October 22, 1738, by King Charles, its  purpose was to reward citizens and members  of the army and navy who had shown  exceptional zeal and fidelity to the crown.  This Order supposedly never received the  Apostolic confirmation of the Pope, and  according to an Italian writer, Ruo, was  shortlived, all record of its existence having  been lost when Charles, its founder, assumed  the throne of Spain in 1759.   The decoration is a fou r-armed cross, each    NUMISMATIC NOTES               MEDALS OF HONOUR   93   arm terminating in the form of a lily, and  the whole surmounted by a royal crown.  The centre medallion bears the image of  Saint Charles. No description of the  reverse is given. The ribbon is violet.   ORDER OF SAINT FERDINAND and  OF MERIT. Founded on April i, 1800 by  Ferdinand IV, King of Naples (also Ferdi¬  nand III of Sicily and I of the Two Sicilies).  It was instituted in commemoration of his  having been restored to his Kingdom after  the defeat of the French by the united  forces of England, Austria, Russia and   I Turkey. The object of the Order was to  reward the Neapolitans who had remained  faithful to the King and his monarchy.  Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of  the first foreigners to have this Order  bestowed upon him. He was made a  Knight of the Grand Cross. Like the Order  of Saint Januarius, this was suppressed in  Naples when the French under Joseph  Bonaparte controlled that country. It was  continued in Sicily until 1814 but is said to  have been definitely abolished in i860.    AND MONOGRAPHS              94   ITALIAN ORDERS    There were three classes: Knights of the  Grand Cross, Commanders and Chevaliers.  The cross of this Order is a gold star of six  branches, in the form of rays. In the angles  are Bourbon lilies. The whole is surmounted  by a crown of gold. The gold-centred  medallion bears a figure of St. Ferdinand in  Royal robes and crowned, holding a laurel  wreath in the left and a sword in his  right hand. The encircling blue-enamelled  band is inscribed FI DEI ET MERITO.  The reverse centre of gold is inscribed FERD.  IV. INST. ANNO 1800 . The plaque of the  Order is similar to the obverse of the cross,  without the crown. A dark blue ribbon with  red edges is used for suspension of the cross.   MEDAL OF HONOUR. By a decree of  July 25, 1810, Ferdinand IV added a gold  and silver Medal of Honour. This was  33 mm. in diameter, with the obverse similar  to the cross. The reverse was inscribed  FI DEI ET MERITO. This was worn with  a similar ribbon. Officers and privates of  the Army and Navy were awarded this  medal for distinguished services.    NUMISMATIC NOTES               ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXIV     Two Sicilies  Medal of Honour    96   ITALIAN ORDERS AND    MEDAL OF MERIT FOR LOMBARDY.  Ferdinand IV instituted a medal of silver  for the Neapolitan troops who assisted him  in the campaign in Lombardy against the  French in 1796. This was 38 mm., bearing  on the obverse the helmeted effigy of the  king and the title, FERDIN. IV UTRI  SICILIAE REX P.F.A. ( P-Pio , devout,   F-Forte, brave, A-Augusto , august). On the  reverse, within a laurel wreath, FI DEI/  REGIAE DOM US / PA TRIAE / PROPUG-  NA TORI /OB / EG REGIA FACTA . In the  exergue, E. V.A/MDCCXC VI.   MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This  medal was of gold and awarded by Ferdi¬  nand IV to the troops who distinguished  themselves in the Siena campaign in 1797.  On the obverse is the helmeted effigy of the  king and his title FERDIN AN DUS IV  UTRIUSQ. SICILIAE REX P.F.A. On  the obverse is an allegorical figure of a  woman crowning a soldier with a laurel  wreath. Surrounding this, an inscription  reads MI LI TIB US BENE DE REGE AC  PATRIA MERIT 1 S. In the exergue is    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF HONOUR   97   E. V.A./MDCCXC VII. The ribbon is blue  and white, edged with narrower stripes of  blue (Sculfort, p. 176).   MEDAL OF HONOUR FOR THE SIEGE  OF GAETA. When Napoleon I sent his  brother Joseph Bonaparte to rule over the  kingdom of Sicily, Ferdinand IV fled to  Gaeta. This fortress was gallantly de¬  fended in 1806 against the French under  Marechal Massena, but was finally forced to  capitulate, and Ferdinand fled to the island  of Sicily. To reward those who valiantly  assisted him to hold his kingdom, Ferdinand  IV instituted this Medal of Honour. It is 35  mm., and was struck in both gold and silver,  and is suspended from a deep red ribbon.  The obverse of the medal has a bust of the  king facing to right, the head wearing a  helmet, laurel wreathed and surmounted by  a dragon. The inscription is FERDI-  NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX.  The reverse has in the centre a view of the  fortress of Gaeta, surrounded by the motto,  MERITO ET FI DEI CAJETAE DEFEN -  SO RUM 1806 .    AND MONOGRAPHS           98   ITALIAN ORDERS AND    ROYAL ORDER OF THE TWO SICI¬  LIES. Created on February 24, 1808, by  Joseph Napoleon, when King > of Naples   It was issued in three classes: Grand Officers,  Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬  rat, when ruler, modified the Order in 1811;  its purpose was to reward those who had  assisted in the conquest of the country.  The decoration is a red-enamelled star of  five points, ball tipped and with gold edges.  Above this is the Imperial eagle surmounted  by a crown. In the centre medallion is the  Arms of Sicily, a Trinacria or Triquetra,  having a face in the centre. This me¬  dallion is surrounded by the title, JOS. NA-  POLEO SICIL. REX INST 1 TUIT. The  reverse medallion bears a prancing horse,  the Arms of Naples, encircled by a blue-  enamelled band inscribed PRO RENO V A TA  PATRIA. The ribbon is dark blue with a  red stripe in centre.   Following the death of Murat on October  13, 1815, the Kingdom was restored to  Ferdinand IV, who changed the design of  the above decoration. The star was at¬  tached to the surmounting crown by a lily    N U M I S M ATIC NOTES          MEDALS OF HONOUR   99   (replacing the eagle). The obverse medal¬  lion contained the Arms of Sicily and of  Naples, surrounded by the inscription  FERDINANDUS BORBONIUS UTRI-  USQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pio Forte  Augusta). The reverse medallion had in  the centre a Bourbon lily and the motto  FELICITATE RESTITUTA X. KAL.JUN.  1815 . The ribbon was changed to azure blue  with a red stripe in the centre. This Order  was finally abolished in 1819 and replaced by  the “Order of Saint George of the Reunion.”   MEDAL OF HONOUR FOR THE PRO¬  VINCIAL LEGION. On March 29, 1809,  Joachim Murat, instituted this medal for  the Provincial Legion. It is of silver and  bronze, and bears on the obverse the effigy  of the King, facing to left, encircled by  the words GIOACCHINO NAPOL. RE  DELLA DUE SICIL. On the reverse is a  group of fourteen flags and a royal crown,  the outer flags bearing, respectively, the  words SICUREZZA/INTERNA. Around  this device is the inscription ALLE LEGIONI    AND MONOGRAPHS            IOO   ITALIAN ORDERS AND    PROVINCIALI 26 MARZO 1809 . The  ribbon is light blue moire. Ruo, the  Italian writer, states that the inscription on  the obverse is Gioacchino Napoleone, but the  previous description is taken from a medal  and various French authorities.   MEDAL OF HONOUR FOR NAPLES.  Murat authorized another Medal of Honour  on November i, 1814, to reward the guard of  Naples for its devotion to his cause. It is  of gold and silver, in the form of a wreath of  oak and laurel leaves, tied with a ribbon and  surmounted by a crown. Superimposed  on the wreath are two crossed flags, enam¬  elled in the colours of the kingdom. On  the obverse centre medallion of white is the  bust of the king, facing to left, and the title  GIOACCHINO NAPOLEONE (or GIO¬  ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the re¬  verse medallion are the words ONORE ET  FEDELTA. The ribbon is magenta. The  Medal for Civil Merit is similar to the above,  except that the reverse is inscribed ONORE  ET MERITO.    NUMISMATIC NOTES              MEDALS OF HONOUR   IOI   MEDAL OF HONOUR. After the death  of Murat at Pizzo, a medal of 38 mm. was  authorized by Ferdinand IV. It was issued  in gold and silver, and worn with a bright  red ribbon. On the obverse is a crowned  effigy of the restored king, facing to left,  and the inscription FERDINANDUS IV  UTRI USQUE SICILIA E REX P.F.A.  The reverse has in the centre a large Bourbon  lily, surrounded by the inscription OB  EGREGIAM URBIS PITH FIDELITA-  TEM. In the exergue, POSTRIDIE NO¬  NAS OCTOBRIS/ANNI R. S./MDCCCXV.   MEDAL OF HONOUR (Sicily). By de¬  crees of August 9 and 30, 1816, bronze  medals were authorized and awarded to  soldiers and sailors who were faithful to the  cause of Ferdinand IV. This is a green-  enamelled Maltese cross with gold Bourbon  lilies in each angle. The centre medallion  bears the effigy of the king to right, and the  words FERDINANDO IV INSTITUI 1816 .  The reverse has in the centre a lily and the  inscription CONSTANTE ATTACCA-  MENTO. This was worn with a red ribbon.    AND MONOGRAPHS         102   ITALIAN ORDERS    SECURITY GUARD MEDAL. Created  on May 30, 1816, and issued in gold and  silver; it was worn with a Bourbon red rib¬  bon. The medal is surrounded by a wreath  of oak leaves and surmounted by a crown,  attached by laurel branches. On the  obverse is the effigy of the king surrounded  by the title FERDINANDO IV RE DELLE  DUE SI Cl LIE P.F.A. The reverse bears  a lily and the motto ALLA GUARDI A Dl  SICUREZZA. In the exergue, PER LA  GIORNATA DE 22 MAGGIO 1815 .   ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT  GEORGE OF THE REUNION. This  order was created on January 1, 1819, by  Ferdinand IV. It commemorated the  reunion of Naples and Sicily, and was  awarded for valour, military distinction and  loyalty. There are four classes: Knights of  the Grand Cross, Commanders, Officers and  Chevaliers, the decoration varying in size  according to the grade. This Order was  discontinued in i860, with the formation  of the present Kingdom of Italy. The  insignia is a red-enamelled cross, fleuree, with i    NUMISMATIC NOTES                 ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXV     Two Sicilies   Order of Saint George of the Reunion    104    ITALIAN ORDERS AND    concave arms. Two gold swords cross at  the angles, and a wreath of green-enamelled  laurel connects the arms of the cross and  the swords. The medallion bears a figure  of Saint George slaying the dragon; around  this is a blue-enamelled band inscribed IN  HOC SIGNO VINCES. The reverse is the  same, with the word VIRTUTI above.  The ribbon is light blue moire. The decora¬  tion of the Knights of the Grand Cross is  distinguished from the other grades by a  gold pendant of St. George and the dragon.  The Chevalier’s cross has no such pendant;  and on the reverse is the word MERITO.   MEDAL OF ST. GEORGE. In addition  to the “Order of Saint George of the Re¬  union,” gold medals were awarded for  heroism in war, and in silver for continued  service. These are 28 mm., bearing in the  centre the figure of St. George slaying the  dragon, encircled by a wreath and the words  VIRTUTI or MERITO according to the  purpose of the award. The obverse and  reverse are the same. The ribbon is blue  with yellow edges.    NUMISMATIC NOTES         MEDALS OF HONOUR    105    ORDER OF CONSTANTINE, (described  on page 18). Instituted in Naples and  Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph  Bonaparte abolished it in 1808, although it  continued in the island of Sicily. Upon the  return of Ferdinand IV to Naples in 1814,  it was restored in both Kingdoms.    ROYAL ORDER OF FRANCIS I.  Francis I, upon the death of his father,  Ferdinand IV, became King of the Two  Sicilies on January 4, 1825. He was of the  Neapolitan branch of the Bourbon family.  On September 28, 1829, he founded the  Royal Order of Francis I. Though usually  conferred as a reward for Civil Merit, the  army was not debarred from its honours.  There are five classes: Grand Cross, Com¬  manders, Officers, Knights and Chevaliers.  The fourth and fifth classes receive, re¬  spectively, the gold and silver medals,  described later. This Order was discon¬  tinued in i860 when the Kingdom of the  Two Sicilies became part of Italy, though, as  a family Order, it was continued for a while  longer. The decoration is a four-armed,    AND MONOGRAPHS            io6   ITALIAN ORDERS AND    double-pointed cross of white enamel with  gold edges, surmounted by a gold crown.  Bourbon lilies of gold are in each angle.  The medallion is larger than in most of the  other Orders. In the centre, on a field of  gold, appear the initials of the founder, F.I.,  with crown above. These are surrounded  by a laurel wreath of enamel. On the blue  encircling band are the words, DE REGE  OP TIME MERITO. The reverse bears the  inscription FRANCISCUS PRIMUS IN-  STITUIT MDCCCXXIX, within a green  wreath. The ribbon is bright red with  blue edges. The star or plaque of the order  is a silver cross without the crown, and  with the same centre medallion.   The gold and silver medals, worn by the  fourth and fifth classes, are 36 mm. in diam¬  eter, bearing on the obverse the portrait  of the founder, within a laurel wreath, and  the inscription FRANCISCUS I.D.G.UTRI¬  USQUE SICIL. ETHIER. REX. The reverse  has three Bourbon lilies in the centre within a  wreath, and the motto DE REGE OPTIME  MERITO 1829 . The ribbon is dark red with  blue edges; not as wide as that for the Cross.    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXVI     Two Sicilies  Order of Francis I    io8   ITALIAN ORDERS AND    MEDAL OF CIVIL MERIT. Authorized  by royal decree of December 17, 1727. It  is of gold and silver and worn with a red  ribbon. The obverse bears an effigy of the  king, and the title FRANCISCUS I.D.G.  REGNI UTRIUSQUE SICIL. ET HIER.  REX. On the plain reverse is engraved  the name, date and cause of award. A medal  similar to this was awarded during the reign  of Ferdinand II and may be found with  either of the following inscriptions: FERDI-  N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬  LIA E ET HIERUS. or FERDINANDO II  RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.   Another MEDAL OF CIVIL MERIT was  issued, 44 mm. in size. On the obverse are  busts of Francis I and Queen Maria Isabella,  facing to right, surrounded by branches of  laurel. On the reverse is a Bourbon lily,  crowned.   MEDAL FOR MESSINA. Francis I was  succeeded in 1830 by his son, Ferdinand II,  who died in 1859. Ferdinand II instituted  the Medal for Messina for troops faithful  to him, in that city, during the Revolution    NUMISMATIC NOTES                   MEDALS OF HONOUR   109   of 1847. It is of bronze, and 30 mm. On  the obverse, within a wreath of oak and  laurel leaves, is the word FEDELTA with  one Bourbon lily. The reverse reads,  MESSINA 1 SEPTEMBRE 1847 . The  ribbon is light blue and white. A variant  of this medal has on the obverse the effigy  of the king and the words FERDINANDO  II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE;  and on the reverse the word FEDELTA.    LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand  II also created a bronze medal for Long  Service. It is 38 mm. and bears on the  obverse the king’s bust on a pedestal,  surrounded by implements of war and flags.  Above is FERDIN ANDO II. The reverse  reads LODEVOLE SERVIZIO MI LI TARE  DI 25 ANNI. The ribbon is red.    MEDAL FOR THE SIEGE OF MES¬  SINA. After the long siege of the citadel  of Messina in 1848 by Ferdinand II which  resulted in his reconquest of Sicily, a com¬  memorative medal was authorized by the  king. This was to reward the troops who    AND MONOGRAPHS            no   ITALIAN ORDERS    had taken part in the campaign. The  medal for the senior officers was of gold and  enamel, 35 mm. in diameter. On the  obverse within a green-enamelled laurel  wreath, is a pentagonal fort; in the corners  are five bombs, the flames of which rest  upon the wreath. In the centre is the  fleur-de-lis of the Bourbons, in relief. The  reverse is similar, except that in the centre  of the pentagon is the legend, ASSEDIOJ  DELLA 1 CITTADELLA / DI MESSINA /  18 ^ 8 . The ribbon is red. For the junior  officers and soldiers the medal was of bronze  and of the same size, without enamel.  Obverse and reverse are identical, and the  medal was worn with a red ribbon. A variant  of this medal has a plain reverse, no fort, or  bombs, but with the same inscription in relief.   MEDAL FOR SICILY. Created for the  troops who, under the leadership of Filan-  gieri, suppressed the Insurrection of 1848-  1849. This is of bronze-gilt, and displays  the effigy of Ferdinand II facing to right  within a wreath of oak leaves. Outside, the  wreath are two draped flags, the whole is    NUMISMATIC NOTES          ITALIAN DECORATIONS    Pl.     Two Sicilies  Siege of Messina   Long Service Medal, Ferdinand II    112   ITALIAN ORDERS    surmounted by a Bourbon lily. The plain  reverse has CAMPAGNA DI SICILIA 18 J/. 9 ,  in relief. The ribbon has three equal stripes  of light blue and white.   MEDAL FOR CAMPAIGN OF 1860 .  Francis II came to the throne of Sicily in  1859, about the time of the Garibaldi  campaign for the Independence of Italy.  His reign was short. The Medal for the  Campaign of 1860 was created by him for  those troops who were loyal to him and  opposed to Garibaldi. It is bronze, 37 mm.,  and bears on the obverse the effigy of the  king, facing to left, within a wreath of oak  leaves. Surrounding this is FRANCESCO  II RE DELLE DUE SI Cl LIE. The reverse  bears the words, TRIFRISCO, CAIAZZO,  S.MARIA,S. ANGELO, GARIGLIANO, sur¬  mounted by three Bourbon lilies. Around  this inscription appear the words, CAM¬  PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The ribbon  is red with a blue stripe in the centre.   CAMPAIGN OF EASTERN SICILY.  Authorized in i860. It bears on the obverse    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS Pl. XXVJ1I      Two Sicilies   Medal for Sicily, Ferdinand II    the effigy of Francis II facing to right, and  the words SICILIA OCCIDENT ALE/  APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse,  within a wreath of laurel, the words AL   V A LORE. This is bronze, and 27 mm. in  diameter. A variant of this medal was  issued without the likeness of the king on  the obverse.   MEDAL FOR THE DEFENSE OF  CATANIA. The obverse bears the effigy of  Francis II, a trophy of arms, and the words  CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse,  within a wreath of laurel, the words AL   V A LORE.   MEDAL FOR GAETA. Issued to the  refugees who fled to Gaeta with the Royal  family in 1860-61 when Garibaldi entered  Naples. The medal is silver, 36 mm.,  having on the obverse the jugated busts of  the King and Queen Maria Sophia of Bavaria  and the words FRANCESCO II—MARIA  SOFIA. The reverse shows a view of the  city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in  the exergue. A variation of this medal has    NUMISMATIC NOTES         ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXIX     Two Sicilies   Medal for Gaeta, Francis II        on the reverse the fortress of Gaeta only,  with the same inscription in the exergue.   After the Garibaldi campaign of 1860-  1861 for the freedom of Sicily, and after the  Royal family had given up the Kingdom of  Sicily, Francis II by a decree dated March  12, 1861, authorized medals for all his  soldiers who took part in the second siege of  Messina. It appears that dies were made  but only one medal is known to have been  struck. That rests in the famous Ricciardi  collection in Naples. The writer is in¬  debted to Sig. Guido de’Mayo’s article in  the May-June 1922 issue of Miscellanea  Numismatica, which describes this medal.   It is silver, 35 mm., and bears on the  obverse the jugated busts of the King and  Queen, facing to left (similar to the Gaeta  Medal), and the titles, FRANCESCO II—  MARIA SOFIA. The reverse has a design  of the pentagonal fortress of Messina; in  the corners of the pentagon are five bombs,  the flames of which rest on the wreath which  surrounds the fort. In the centre is the  Bourbon fleur-de-lis. The exergue reads  CITTADELLA DI MESSINA 1860-61.    The ribbon is given as red with blue  stripes.   MEDAL FOR SICILY. This is said to  have been awarded to those who took part  in the uprising against Ferdinand II in 1848,  in the movement for a United Italy, but the  purpose of this award cannot be verified  from the several authorities consulted. It  was issued in silver and bronze, 30 mm.,  and suspended from a ribbon of the Italian  National colours—three equal stripes of  green, white and red. On the obverse is an  allegorical figure of Sicily, armed with a  sword; at her feet is a shield with the Arms of  Sicily, while in the sky, a brilliant sun bears  the Arms of Savoy. In the distance is Mt.  Aetna in eruption. The reverse has in the  centre SICILIA/1848. Around this is the  inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO  D’lTALIA.    AND MONOGRAPHS         118    ITALIAN ORDERS AND    TUSCANY   Tuscany, the ancient Etruria, lies south  of the Apennines. On the east it was  bounded by the districts of Umbria and the  Marches, while to the south lay the section  known in Classical times as Latium, but  which later, with the rise of the Church,  was usually known as the Papal States.  None of these provinces had boundaries that  were fixed for any great length of time, and  their geographical history is very com¬  plicated.   Between the ioth and 16th Centuries,  Tuscany was composed of several self-  governed communes or Republics, the most  important of which were Lucca, Pisa,  Florence and Siena. The Medici family  was a dominant factor in the government for  a long period. In 1735 the country came  under Austrian rule. Francis, Duke of  Lorraine and afterwards Emperor of Aus¬  tria (1708-1765), became Grand Duke of  Tuscany. He succeeded John Gaston, the  last of his line, and thus the Duchy passed    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF HONOUR   119   from the control of the Medici and into that  of the Hapsburg family. This had been  arranged by treaty.   The Hapsburgs continued in control until  the entrance of the French in 1799 under  Napoleon I, though the battle of Waterloo  in 1815 brought back once more their rule  in the domain. Ferdinand III (1769-1824)  was succeeded by his son, Leopold II, who  lost the Duchy of Tuscany when the constit¬  uent Assembly voted for its inclusion in the  Kingdom of Italy on August 16, i860.  From that time all the Orders of Tuscany  have been discontinued.   ORDER OF SAINT STEPHEN. This  Order was founded at Pisa in 1561 or 1562,  by Cosimo I de’ Medici, Duke of Florence,  afterwards the first duke of Tuscany, to  commemorate his victory over the French at  Siena. The battle took place on St. Stephen’s  day, August 2, 1554 (or August 6 accord¬  ing to some historians). The inhabitants  of the city and the troops under Henry II,  after withstanding a siege of fifteen months,  finally capitulated. In 1567, Pope Pius V    AND MONOGRAPHS          120   ITALIAN ORDERS    granted Cosimo the title of the first Grand  Duke of Tuscany. The Order was named in  honour of Stephen IX, Pope and martyr,  once bishop of Florence, on whose festival  Cosimo de’ Medici gained his victory. It  is said to have been discontinued in 1565,  but Elias Ashmole states that new statutes  were approved in 1590. He also lists it as  one of the Orders extant in 1715; though  Hugh Clark informs us that the Order was  “revived in 1764 and put on a respectable  footing.” Whatever its status in the  interval may have been, the Order was  reorganized in 1817 by Ferdinand III,  Grand Duke of Tuscany (1769-1824), and  its regulations were altered by him at that  time. The insignia is a red-enamelled, gold-  edged cross, similar to that of the Knights  of Malta. In the angles are golden fleurs-  de-lis and above the cross is a ducal crown of  gold. The ribbon is bright red.   ORDER OF SAINT JOSEPH. Founded  by Ferdinand III on March 19, 1807, when  as Grand Duke of Wurtzburg he was ad¬  mitted to the Confederation of the Rhine.    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXX     Tuscany   Order of Saint Stephen    Upon the downfall of the Napoleonic control  of Tuscany in 1814, Ferdinand restored the  Order in Tuscany when he again assumed  control of the Duchy. The Order was for  meritorious service and was awarded to  civilians, ecclesiastics and the military,  whether native or foreign. Generally the  honour was confined to those of the Roman  Catholic faith. There are three classes:  Grand Cross, Commanders and Knights.  The Decoration of the first class is silver,  a double-pointed, six-armed cross, with  rays between the arms. An oval medallion  in the centre bears the figure of St. Joseph;  around this on the band, likewise of silver,  is the motto UBIQUE SI MI LIS (Everywhere  the same), with a branch of laurel and oak.  In the lower centre of the band is the letter  F. The cross of the second class is gold,  and similar to the star of the first class,  though smaller. It has white-enamelled  arms, and the rays and the medallion band  are of red enamel. It is surmounted by a  gold crown and a suspension ring for the  ribbon, which is bright red, with a white  stripe at each edge. The reverse medallion    NUMISMATIC NOTES   _         ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXXI     Tuscany   Order of Saint Joseph    AND    has in the centre S.J.F .1807 (SanctoJosepho  Ferdinando —Dedicated by Ferdinand to  Saint Joseph). The third class cross is  smaller and worn with a narrower ribbon.    ORDER OF THE WHITE CROSS.  Instituted by Grand Duke Ferdinand III  in 1814. This was a decoration solely for  the military faithful to him. It is sometimes  called the “Cross of Loyalty.” A MEDAL  OF HONOUR was also founded in 1816 for  those who had distinguished themselves in  the Duchy. No description of these two  insignia is obtainable from the several  authorities consulted.   MILITARY MEDAL. Authorized in 1815  for distinguished service. It was awarded  only to junior officers and soldiers. This  medal is silver, bearing on the obverse a  bust of the founder facing to right, and the  title FERDINANDO III.A.D.A.GRAND.  DI TOSCANA. The reverse has in relief  AI PRODI E FED ELI TOSCANI 1815 .  (To the brave and faithful Tuscans.) The  ribbon is half red and half white.    LONG SERVICE MEDAL. Founded in  1816 and issued to junior officers and sol¬  diers. It is bronze, 37 mm., and bears on  the obverse two crossed swords, with a  shield bearing the letter F superimposed.  Above this device is a crown, and below is  1816, the date of its creation. The reverse  reads, in relief, AL LUNGO E FED EL  SERVIZIO. The ribbon is half red and  half white.    MEDAL OF MILITARY MERIT. This  was founded by Leopold II on May 19, 1841,  and bears the effigy of the Duke and the  words LEOPOLDO II GRANDUCA DI  TOSCANA. The reverse has in relief  FI DELTA E V A LORE. The ribbon is  half red and half black.    ORDER OF MILITARY MERIT. In¬  stituted on December 19, 1853, by Leopold  II. The decoration is a five-armed white-  enamelled cross of gold on a gold laurel  wreath, which is surmounted by a gold  crown. The obverse medallion is inscribed  L II. surrounded by the words MERITO    AND MONOGRAPHS          126    ITALIAN ORDERS    MILITARE. On the reverse medallion,  1853 records the date of its creation. The  ribbon is of red and black in equal stripes.   MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold  II for the war of Italian Independence.  This was a service medal for his troops  taking part in that campaign. It is bronze-  gilt, and bears on the obverse the effigy of  the Grand-duke and title LEOPOLDO II  GRANDUCA DI TOSCANA. On the re¬  verse within a laurel wreath is the inscription  GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA /  ITALIANA/18^8. The loop for the ribbon  is a wide bar-like affair, similar to that for  many of the Italian medals. The ribbon is  blue, bordered with two red stripes.   MEDAL OF MERIT. Attributed by but  one authority to Ferdinand IV. Issued  in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.;  silver, of 49 mm. and 30 mm., and bronze,  45 mm. in diameter, according to the impor¬  tance of the award. On the obverse is a  bust of the Grand-duke and FERDINANDO  IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-    NUMISMATIC NOTES           ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXXII     Tuscany   Order of Military Merit, Leopold II    verse bears the inscription AL MER1T0  within a wreath. The ribbon is dark blue  with black stripes at the sides.   LONG SERVICE MEDAL. Instituted  by Leopold II in December, 1850, for officers  of the Army who had served at least thirty  years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross,  having in the centre medallion of silver the  head of Leopold II to left, encircled by  LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the  reverse medallion is the word ANZIANITA,  with a crown above. No information  concerning the ribbon is obtainable.    NUMISMATIC NOTES        ITALIAN DECORATIONS    Pl. XXXIII     Venice. Defence of Venice, 1848  Tuscany. Long Service Medal            VENICE   At the time of Augustus, there was no  city of Venice, and Padua was the chief city  of the district which has since come to be  known as Venetia. This district occupied  the Northeastern section of that country  from the Alps on the North and East to the  Adriatic Sea, and to the River Po on the  West. From the Sixth and Seventh Cen¬  turies, after the foundation and the growth  of Venice, it developed a considerable com¬  merce with its island domains and became a  great maritime power. For many centuries  an independent Republic was maintained,  governed by a Senate and a Doge, elected  by the people; his authority, however, was  limited. Constant wars with neighboring  peoples and with the Turks did not exhaust  the wealth of Venice; and until the Eight¬  eenth Century Venice wielded great in¬  fluence in European politics. The Republic  was unable to withstand the French army,  however, and on October 17, 1797, was  divided—one half of the territory going to    NUMISMATIC NOTES           MEDALS OF HONOUR   131   Austria and the other half to the Cisalpine  Republic; the Ionian Islands went to France.  For a thousand years the Venetian Republic  maintained its independence, and exhibited  a form of government which commanded  universal admiration.   ORDER OF SAINT MARK. Probably  founded early in the Eighth Century.  Giustinian, writing in 1692, states that  Domenico Leoni was the first Grand Master  of the Or dine di San Marco in the year 737.  He also lists a number of the Grand Masters  from that date to 1688, and gives several  authorities. Other writers fix the date of  its origin as 828, when the remains of Saint  Mark were taken from Alexandria to Venice.  No exact information is obtainable as to the  discontinuance of the Order, though Ashmole  indicates its existence in 1672, as does Clark  in 1784.   The insignia is a gold chain to be worn  around the neck. From this a gold medal¬  lion is suspended. On the obverse is the  Arms of Venice—the winged lion of St.  Mark, seated with a sword in the right paw,    and with the left paw resting on an open  book, on which is the motto PAX TIBI  MARCE EVANGELISTA MEUS (Peace  to thee, Mark, my Evangelist). The reverse  is believed to have been plain, although  Ashmole asserts that it had the name of the  Doge then living as well as a portrait—if  that is what may be understood by his words  “a particular impress.” This Order was  conferred by the Senate or by the Doge,  and later was called the Order of the Doge  of Venice. On late forms, the insignia was  changed to a blue-enamelled cross, on the  centre of which was a medallion with the  above described Arms. The reverse bore  the effigy of the reigning Doge, sometimes  represented as on his knees receiving a  standard from the hands of St. Mark.  All recipients of this Order had to show  records of noble birth and were known as  the Knights of Saint Mark.   MEDAL FOR THE DEFENCE OF  VENICE OF 1848 . This medal was issued  in 1849, during the second year of the short¬  lived Republic of Saint Mark—as Venice    was at that time called. It was of silver and  bronze, 27 mm., bearing on the obverse the  Arms of the Republic. Around this are  the words INDIPENDENZA ITALIAN A.  On the reverse is the cross of St. Maurice  surrounded by VESSILLO DI VIT TORI A  18^8. The ribbon is crimson with a narrow  gold stripe at each side. (PI. XXXIII.)   MEDAL FOR BRAVERY. Also issued  in 1849. It was of silver and bronze, but  32 mm. in diameter. The obverse has the  lion of St. Mark and GOVERNO PROVI¬  SO RIO 1848-49.   On the reverse, within an oak wreath, are  the words DI FEN SORE DI VENEZIA.  The ribbon is red with gold stripes at the  sides.   MEDAL FOR THE CIVIL GUARD.  Authorized in 1849. It was silver and  bronze gilt, oval in form, 40 mm. by 34  mm. On the obverse appear two crossed  flags and the words GUARDI A Cl VIC A  VENETA. The reverse reads VV/  VI TALI A. The ribbon is yellow.    OBSOLETE ORDERS   The following Orders listed by the several  authorities consulted, as having been formed  in Italy, have long been discontinued.   Order of the Golden Star of Venice, date  not given.   Order of the Golden Stole, date not given.   Order of the Royal Crown of Mantua, was,  according to Genouillac, created in 771 by  Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind,  King of Saxony), in honour of his marriage  with Adalgise of Lombardy, daughter of  Gisulf, due de Frioul.   Order of the Eagle of Italy. Created  February 15,941, by Hugo II of Gonzaga, to  perpetuate the memory of his marriage with  Princess Elizabeth of Gonzaga and Lom¬  bardy. New statutes were formed for the  Order in 968.   Order of Holy Mary, Mother of God.  Founded in Italy in 1233. Its creation is  attributed to Bartholomew, Bishop of  Vincenza. The purpose of its foundation  was to quell the discords which arose    NUMISMATIC NOTES            MEDALS OF HONOUR   135   between the Guelphs and the Ghibellines  and also to defend and support the Roman  Catholic religion. It was approved by  Pope Martin IV, who placed the knights  under the protection of St. Augustin. It was  called by some the “Order of the Brothers  of the Jubilation,” later the “Order of St.  Mary of the Tower,” and the “Order of the  Chevaliers of the Mother of God.” 3 Archer  states that this later Order was founded in  1737. Towards the end of the Sixteenth  Century the Order had entirely disappeared.   Order of the Black Swan of Italy, founded  in 1350 by Amadeus VI and other Italian  Princes, for the purpose of preventing feuds,  then so prevalent.   Order of St. George of Genoa. Founded  in 1472 by Frederick III of Germany. It  was to reward the Genoese for the reception  he received during his journey to Rome,  where he received the Imperial Crown.  The Order was short-lived. The badge is  a plain red cross suspended from a gold  chain. This Order is not to be confused with  the Order of St. George of Austria, founded  in 1468 by the Emperor Frederick III.    and monographs            Order of St. George of Ravenna. Founded  in 1534 by Alexander of Farnese (then  Pope Paul III). Its award was confined  to those who defended the city and its  vicinity from the attack of the Moslems  or Corsairs. On the death of its founder  it ceased to exist. Cappelletti says it was  suppressed by Gregory XIII. The insignia  was a red-enamelled star of eight points,  over which was a gold ducal crown.   Order of the Lily. Founded in 1546 by  Alexander of Farnese.   Order of the Lamb of God of Tuscany.  Founded in 1568 by John III.   Order of the Redeemer or of the Precious  Blood of our Saviour. Founded in 1608 by  Vincent (IV) Gonzaga, Duke of Mantua.   It was in honour of the marriage of his son  Francis with the Princess Marguerite, the  daughter of Charles Emmanuel I, Duke of  Savoy. The Order survived about a  century and lapsed in 1708 on the death of  Ferdinando Gonzaga, Duke of Mantua.  An attempt was made to revive it in 1847  but without success. The insignia was an  oval medallion, in the centre of which were    two angels in adoration. Around this was  the motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO.   Order of the Conception. Instituted on  September 8, 1617, by Ferdinand 1 of  Gonzaga, Duke of Mantua, in honour of  the conception of the Virgin and placed  under the protection of St. Michael the  Archangel. Like many other Orders founded  about this time, the members swore alle¬  giance to the Church and agreed to fight  against the infidels.   Order of the Virgin or the Order of the  Virgin Mary the Glorious. Created in Italy  by three gentlemen of Spella, named Peter,  John the Baptist, and Bernard, surnamed  Petrignani. The Order was approved by  Pope Paul V in 1618, and placed under the  protection of the holy Virgin. The mem¬  bers agreed to defend and uphold the Roman  Catholic religion and make war on the in¬  fidels. No record has been found of the  discontinuance of the order.   Order of Saint Rosalie of Palermo. Founded  in 1634 by Alderon de Carreto.    iCharles Albert (1789-1849) was of the line of  Savoy-Carignano which was founded by Thomas  Francis (1596-1656), son of Charles Emmanuel the  Great. Carignano, a town in the province of Turin,  was in 1630 bestowed by Charles Emmanuel I upon  his son Thomas Francis, who was known as the Prince  of Carignano. The present reigning king of Italy is  of this house. Ency. Brit. Vol. XXI, p. 342 and Vol.  5. p. 105.   2 “At this Crescent was fastened as many' small  Pieces of Gold fashion’d like Columns and enamell’d  with Red, as the Knights had been engag’d in Battels  and Sieges; for none could be adopted into this Order  unless he had well trod the Paths of Honour.”  Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter, 1715, p. 69.   3 Ashmole, 1672, p. 80. ‘‘It was approved and con¬  firmed by Pope Urban IV, anno 1262, and the Rule of  St. Dominick prescribed to the Knights.” Armani, E. Insegne Cavaileresche e Meda-  glie del Regno d'ltalia. Rome, 1915.   Ashmole, Elias. The Institution, Laws and  Ceremonies of the Most Noble Order of the Garter.  London 1672.   Ashmole, Elias. The History of the Most  Noble Order of the Garter. London 1715.    N U M ISMATIC NOTES            MEDALS OF HONOUR   139   Burke, Sir Bernard. The Book of Orders  of Knighthood and Decorations of Honor.  London 1858.   Cappelletti, Licurgo. Ordini Cavalle-  reschi. Livorno 1904.   Cibrario, Luigi. Descrizione e Storica degli  Ordini Cavallereschi. 2 vols. Torino 1846.   Clark, Hugh A. A Concise History of  Knighthood. London 1784.   Cuomo, Raffaele. Ordini Cavallereschi  antichi e moderni. 2 vols. Naples 1894.   Elvin, C. N. Handbook of the Orders of  Chivalry. London 1893.   Favine, Andrew. The Theatre of Honour  and Knighthood. London 1623.—Translated  from a French Edition of 1620.   Genouillac, H. Gourdon de. Diction-  naire historique des ordres de Chevalerie. Paris  i860.   Genouillac, H. Gourdon de. Nouveau  Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris  1891.   Giorgio, Florindo de. Dellc cerimonie  Pubbliche della onorificenze della nobilta e  de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net Regno  delle Due Sicilie. Naples 1854.   Giustinian, Bernardo. Historic degli Or¬  dini militari, etc. Venezia 1692.    AND MONOGRAPHS          140   ITALIAN ORDERS AND    J. S. The History of Monastical Conven¬  tions and Military Institutions, etc. London  1701.   Lawrence-Archer, Major J. H. The  Orders of Chivalry. London 1897.   Mennenii, Francisci. Deliciae Eqyestrivm  sive Militarivm Ordinvm et Eorundem Origines,  etc. Coloniae Agrippinae 1638.   Perrot, A.-M. Collection J Historique des  Ordres de Chevalerie. Paris 1820.   Puca, Antonio. Gli ordini cavallereschi del  Regno dTtalia. Naples 1879.   Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due  Sicilie. Naples 1910 and 1913.   Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi ....  instituti nel regno delle Due Sicilie. Naples 1832.   Saint Joachim. An accurate historical account  of all the Orders of Knighthood, by an Officer of  the Chancery of the Order of Saint Joachim.  London 1802. (Said to be by Sir L. Hamon).   Sculfort, Lieut. V. Catalogue; Decorations  et Medailles du Musee de VArmee. Paris 1912.   Trost, L. J. Die Ritter- und Verdienst  Or den, Ehrenziechen und Medaillen aller Sou-  ver'dne und Staaten. Wien & Leipzig 1910.    NUMISMATIC NOTES        MEDALS OF    HONOUR    Lucca   Civil Medal of Merit. 8   Military Service Medal. 8   St. George, Order of. 5   St. Louis, Order of. 6   Modena   Cross for Service. 13   Eagle of Este, Order of. 10   Fidelity Medal. 14   Military Medal for Loyalty. 12   Military Medal of Merit. 13   Parma   Constantine, Order of. 16   Medal of Merit. 20   St. Louis, Order of. 19   San Marino   Medal of Merit. 24   Order of Chivalry. 21   Sardinia, Savoy and Kingdom of Italy   Africa, Medal for. 65   Boxer Uprising, Medal for (Medal for Far   East). 66   China, Medal for (Medal for Far East)... 66    AND MONOGRAPHS                                Civil Medal of Valour.   • 49    Civil Order of Savoy.   • 36    Colonial Order of the Star of Italy.   • 43    Crimean Medal.   ■ 57    Crown of Merit.   • 76    Crown of Italy, Order of.   • 38    Far East, Medal for.   . 66    Industry, Order of.   ■ 42    Italian Independence Medal.   60    Italian Unity Medal.   • 76    Liberation of Sicily, Medal for.   • 58    Life Saving Medal.   • 54    Marsala Medal (Medal of the Thousand).   60    Medal of Merit.   • 54    Medal of Merit (Battle of Vicenza).   • 79    Medal of Merit (Rome).   • 79    Medal of Merit (“S.P.Q.R.”)...   . 80    Medal of the Thousand.   60    Military Cross for Service.   • 44    Military Medal of Valour.   . 46    Most Sacred Annunciation, Order of. . . .   27    National Gratitude, Medal of.   • 74    Naval Medal of Valour.   • 50    Public Safety, Medal of Merit.   • 5i    Royal Military Order of Savoy.   • 35    St. Maurice, Medal of.   • 34    St. Maurice and St. Lazarus, Order of. . .   • 30    Star of the Thousand.   • 59    NUMISMATIC NOT   E S MEDALS OF HONOUR    Turkish War of 1911-1912. 68   United Italy, Medal for. 62   Valour Medal. 25   Veterans Guarding Tomb of the Kings   Medal. 52   Victory Medal. 74   War Cross of Italy. 70   War in Lybia Medal. 70   War Orphans Medal. 76   War Volunteers Medal. 76   World War Medal. 72   See also Obsolete Orders. 134   The Two Sicilies   Campaign of 1860. 112   Civil Merit, Medal of. 108   Constantine, Order of. 105   Crescent, Order of the. 85   Defence of Catania, Medal for the. 114   Double Crescent (Order of the Ship). 85   Eastern Sicily, Campaign of. 112   Ermine (Naples), Order of the. 88   Francis I, Royal Order of. 105   Gaeta Medal. 11 4   Griffin (Naples), Order of the. 89   Holy Spirit of the Right Desire (Order of   the Knot). 8 7   Knot (Naples), Order of. 8 7   Lombardy, Medal of Merit for. 96    AND MONOGRAPHS Long Service Medal. 109   Medal of Honour. 94   Medal of Honour (1815). 101   Medal of Honour (Sicily). 101   Messina, Medal for. 108   Naples, Medal of Honour for. 100   Provincial Legion, Medal of Honour for the 99   Reel and Lioness, Order of. 87   St. Charles, Royal Military Order of. . . . 92   St. Ferdinand, Order of, and Order of   Merit. 93   St. George, Medal of. 104   St. George of the Reunion, Royal Military   Order of. 102   St. Januarius, Order of. 89   St. Michael (Naples), Order of. 89   Security Guard Medal. 102   Ship, Order of the. 85   Sicily, Medal for (Ferd. II.). no   Sicily, Medal for (Nationalist). 117   Siege of Gaeta, Medal of Honour for the. . 97   Siege of Messina, Medal for the. 109   Siena, Medal of Merit for. 96   Spur, Order of the. 87   Two Sicilies, Royal Order of the. 98   Tuscany   Long Service Medal. ^5   Long Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES  Medal of 1848. 126   Medal of Merit. 126   Military Medal. 124   Military Merit, Medal of. 125   Military Merit, Order of. 125   St. Joseph, Order of. 120   St. Stephen, Order of. 119   White Cross, Order of the (Cross of   Loyalty). 124   See also Obsolete Orders. 134   Venice   Bravery, Medal for. 133   Civil Guard, Medal for the. 133   Defence of Venice of 1848, Medal for the. . 132  St. Mark, Order of. 131   Obsolete Orders   Black Swan of Italy, Order of the. 135   Conception, Order of the. 137   Eagle of Italy, Order of the. 134   Golden Star of Venice, Order of the. 134   Golden Stole, Order of the. 134   Holy Mary, Mother of God, Order of the. . 134  Lamb of God of Tuscany, Order of the... 136   Lily, Order of. 136   Precious Blood of Our Saviour (See Order   of the Redeemer). 13b   Redeemer, Order of the. 13b    AND MONOGRAPHS 146   ITALIAN ORDERS    Royal Crown of Mantua, Order of the. . . 134   St. George of Genoa, Order of. 135   St. George of Ravenna, Order of. 136   St. Rosalie of Palermo, Order of. 137   Virgin, Order of the. NUMISMATIC NOTES Numismatic Notes and Monographs    1. Sj'dney P. Noe. Coin Hoards. 1921.   47 pages. 6 plates. 50c.   2. Edward T. Newell. Octobols of Histiaea,   1921. 25 pages. 2 plates. 50c.   3. Edward T. Newell. Alexander Hoards —   Introduction and Kyparissia Hoard.  1921. 21 pages. 2 plates. 50c.   4. Howland Wood. The Mexican Revolu¬   tionary Coinage 1913-1916. 1921. 44   pages. 26 plates. $2.00.   5. Leonidas Westervelt. The Jenny Lind   Medals and Tokens. 1921. 25 pages.  9 plates. 50c.   6. Agnes Baldwin. Five Roman Gold Me¬   dallions. 1921. 103 pages. 8 plates.   $1.50.   7. Sydney P. Noe. Medallic Work of A.   A. Weinman. 1921. 31 pages. 17   plates. $1.00.   8. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands. 1921. 8 pages. 4 plates.  50c.   9. David Eugene Smith, LL.D. Computing   Jetons. 1921. 70 pages. 25 plates.   $1.50.   10. Edward T. Newell. The First Seleucid  Coinage of Tyre. 1921. 40 pages. 8  plates. $1.00.     Numismatic Notes and Monographs   (Continued)   11. Harrold E. Gillingham. French Orders   and Decorations. 1922. no pages. 35  plates. $2.00.   12. Howland Wood. Gold Dollars of 1858.   1922. 7 pages. 2 plates. 50c.   13. R. B. Whitehead. Pre-Mohammedan   Coinage of N. W. India. 1922. 56   pages. 15 plates. $2.00.   14. George F. Hill. Attambelos I of   Characene. 1922. 12 pages. 3 plates.  $1.00.   15. M. P. Vlasto. Taras Oikistes (A Con¬   tribution to Tarentine Numismatics).  1922. 234 pages. 13 plates. $3.50.   16. Howland Wood. Commemorative Coin¬   age of United States. 1922. 63 pages.  7 plates. $1.50.   17. Agnes Baldwin. Six Roman Bronze   Medallions. 1923. 39 pages. 6 plates.  $1.50.   18. Howland Wood. Tegucigalpa Coinage   of 1823. 1923. 16 pages. 2 plates.   50c.   19. Edward T. Newell. Alexander Hoards—   II. Demanhur Hoard. 1923. 162   pages. 8 plates. $2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier implicature.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library. Colonna.

 

Grice e Colonnello: l’implicatura conversazionale della voce di Boezio – vox significativa – voce che e segno – parola usata metaforicamente – nome, voce che e segno – significativa -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks more than one, if the plural is of any guide!”  Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.  Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce, Armando, Roma);  Martin Heidegger e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente, Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi” (Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine).  Primum oportet constituere, quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio et enuntiatio et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem haec primorum NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae similitudines, res etiam eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta de anima, alterius est enim negotii. est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim et divisionem est falsitas veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia sunt sine conpositione vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non additur aliquid; neque Titulus ex   nisi quod de  gr. in lat. om. hic, hahet in suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem SIGNUM hoc est: hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum tempus. Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars est significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero non quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis quidem eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim neque verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus cuius pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur nota. dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est currit vero verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit vero et non laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed  sit in finitum verbu, quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non est. similiter autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi. differt autem a verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero quod conplectitur. Ipsa quidem secundum se dicta verba nomina sunt et significant aliquid. constituit enim qui dicit intellectum et qui audit quiescit. sed si est vel non est, nondum significat;  neque enim esse signum est rei vel non esse, nec si hoc ipsum est purum dixeris. ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam conpositionem, quam sine conpositis non est intelleger. Oratio autem est vox significativa; cuius partium aliquid significativum est separatum, ut dictio, non ut adfirmatio. dico autem, ut homo significat aliquid, sed non quoniam est aut non est, sed erit adfirmatio vel negatio, si quid addatur. sed non una hominis syllaba. nec in eo quod est sorex rex significat, sed vox est nunc sola. in duplicibus vero significat quidem, sed non secundum se, quemadmodum dictum est. Est autem oratio omnis quidem significativa non sicut instrumentum, sed, quemadmodum dictum est, secundum placitum. enuntiativa vero non omnis, sed in qua verum vel falsum inest. non autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est, sed neque vera neque falsa.et ceterae quidem relinquantur; rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio est; enuntiativa vero praesentis est speculationis. Est autem una prima oratio enuntiativa adfirmatio, deinde negatio; aliae veroconiunctione unae. necesse est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu. etenim hominis ratio, si non aut est aut erit aut fuit aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. quare autem unum quiddam est et non multa animal gressibile bipes neque enim eo quod propinquedicunt ur ununi erit, est alterius hotractare negotii. est autem una c. oratio enuntiativa quae unum significat vel coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae. nomen ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non, sed ipsum proferentem. harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta velut oratio quaedam iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox significativa de eo quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. Adfirmatio vero est enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo. quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt extra praesens tempora similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare et quod quis negaverit adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni adfirmationi est negatio opposita et omni negationi adfirmatio. et sit hoc contradictio, adfirmatio et negatio oppositae. dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem aequivoce et quaecumque cetera talium determinamus contra sophisticas inportunitates. Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim; dico autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod non, ut homo quidem universale, Plato vero eorum quae suntsingularia: necesse est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut non aliquotiens quidemeorum  alicui quae sunt universalia, aliquotiens autem eorum quae sunt singularia. si ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae enuntiationes. dico autem in universali enuntiationem universalem, ut omnis homo albus est, nullus homo albus est. quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariae, quae autem significantur est esse contraria. dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia, ut est albus homo non est albus homo. cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non universale, sed quoniam universaliter consignificat. in eo vero, quod praedicatur universale, universale praedicare universaliter non est verum; nulla enim adfirmatio erit in qua de universali praedicato universale praedicetur, ut omnis homo omne animal est. opponi autem adfirmationem negationi dico contradictorie, quae universale significat eidem, quoniam non universaliter, ut omnis homo albus est, non omnis homo albus est nullus homo albus est, est quidam homo albus; contrarie vero universalem adfirmationem et universal negationem, ut omnis homo iustus est, nullus homo iustus est. quocirca has quidem inpossible est simul veras essehis vero oppositas contingit in eodem, ut non omnis homo albus est est quidam homo albus. quaecumque igitur contradictiones universalium sunt universaliter, necesse est alteram veram esse vel falsam et quaecumque in singularibus sunt ut est Socrates albus, non est Socrates albus; quaecumque autem in universalibus non universaliter, non semper haec vera est, illa vero falsa. simul enim verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus, et est homo pulcher (probus) et non est homo pulcher (probus). si enim foedus (turpis, et non pulcher (probus); etfit aliquid, et non est. videbitur autem subito inconveniens esse idcirco quoniam videtur significare non est homo albus simul etiam quoniam ut om. esfet est © (xat habent Arist. codices praeter duos) pro v.aX6q et cctaxQos in editione prima posuit pulcher et foedus, in editione secunda probus et turpis jiemo homo albus. hoc autem neque idem significat neque simul necessario. Manifestum est autem quoniam una negatio unius adfirmationis est; hoc enim idem oportet negare negationem, quod adfirmavit adfirmatio, et de eodem, vel de aliquo singularium vel de aliquo universalium, vel universaliter vel non universaliter. dico autem ut est Socrates albus, non est Socrates albus. si autem aliud aliquid vel de alio idem, non opposita, sed erit ab ea diversa. huic vero quae est omnis  homo albus est illa quae est non omnis homo albus est, illi vero quae est aliqui homo albus est illa quae est nullus homo albus est, illi autem quae est est homo albus illa quae est non est homo albus. Quoniam  ergo uni negationi una adfirmati opposita est contradictorie et quae sint hae dictum est et quoniam aliae sunt contrariae et quae sint hae et quoniam non omnis vera vel falsa contradictio et quare et quando vera vel falsa. Una autem est adfirmatio et negatio quae unum de uno significat vel cum sit universale universaliter vel non similiter, ut omnis homo albus est, non est omnis homo albus; est homo albus, non est homo albus; nullus homo albus est, est quidam homo albus, si album unum significat. sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel om.T aliquis MT est homoalb us ed. II. Ar.: h. a. est codices (hae) Mc locus in paucis admodum codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex  Boetii expositione natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est. quoniam aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum est. duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram D, falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum et om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est positum, ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen tunica homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio una. nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc autem  nihil  differt quam dicere est equus albus et est homo albus. si ergo hae multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima multa vel nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his necesse est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his ergo quae sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel falsam esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram, illam vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in his vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse; dictum autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam si omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel esse vel non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat hoc idem ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum, si omnis adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus. nam si verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album vel non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel negare; et si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a casu nec utrumlibet nec erit nec non  erit, sed ex necessitate nomen quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret; utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse. quod autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem inpossibile est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt necesse est fieri. niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu, non ex necessitate. at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut quoniam neque erit neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit negatio non vera et haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram. ad haec si verum est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse; sin vero erit cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit utrumlibe, ut navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non fieri navale  bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et huiusmodi alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in universalibus dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse est oppositarum hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse in his quae fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho, non erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et quod hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio et negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt; manifestum est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit, ille vero negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit nec in millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni tempore sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et unumquodque eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando enim vere dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est verum erat dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non  sunt possibilia: videmus enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus aliquid et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile et non, in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et  fieri et non fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc vestem possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter autem et non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset possibile non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam dicuntur huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt vel fiunt, sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio, alia quare quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego: etiamsi non b: uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E habeatest erat habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur — exteritur codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est Tvero magis quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum, alterum vero minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est, quando non est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod non est necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario, quando est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod non est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse est et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario. dico autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine, unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed infinitum nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non currit non verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine et verbo vel ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio vel negatio. est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi, verba ex his sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima adfirmatio et negatio est homo, non est  homo, deinde est non  homo, non est non homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non homo, non est omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est. quando autem est tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. dico autem ut est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen vel verbum in adfirmatione. quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae quidem ad adfirmationem et negationem sese habebunt secundum consequentiam ut privationes, duae vero minime. dico autem quoniam est aut  iusto adiacebit aut non iusto, quare etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod diciturex his quae subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est iustus homo; est non iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est enim hoe loco et non est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel innominabile codices item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est inf. nom. et uerbo erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo erunt] enim sunt huius disposita. similiter autem se habet et si universalis nominis sit adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus; omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter angulares contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae oppositae sunt, aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est iustus non homo, non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non iustus non homo. magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra illas ipsae secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus est non convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic posita ac si est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo; currit omnis non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non omnis homo sed non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale significat, sed quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est currit homo, non currit homo; currit non homo non currit  non  homo. haec enim ab illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel nullus nihil aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine veladfirmat vel negat. ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria est negatio ei quae est omne est animal iustum illa quae significat quoniam  nullum est animal iustum, hae quidem manifestum est quoniam numquam erunt neque verae simul neque in eodem ipso, his vero oppositae erunt aliquando ut non omne animal iustum est et est aliquod animal affirmatio sithaec ac uero non om. non ullus T ergo et opponi apponi E ut E, om. ceteri et om. quoddam et est —iustum om.B c. iustum. sequuntur vero hae: lianc quidem quae est nullus est homo iustus illa quae est omnis est homo non iustus illam vero quae est est aliqui iustus homo opposita quoniam non omnis est homo non iustus. necesse est enim esse aliquem. manifestum est autem, quoniam etiam in singularibus, si est verum interrogatum negare quoniam  et adfirmare verum est, ut putasne Socrates sapiens est? non; quoniam Socrates igitur non sapiens est. in universalibus vero non est vera quae similiter dicitur, vera autem negatio, ut lO putasne omnis homo sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens. hoc enim falsum est. sed non omnis igitur homo sapiens vera est; haec autem est opposita, illa vero contraria. Latin. (16a.) Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα, ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet constituere quid sit nomen et quid verbum, postea quid est negatio et affirmatio et enuntiatio et oratio. First we must define the terms 'noun' and 'verb', then the terms 'denial' and 'affirmation', then 'proposition' and 'sentence.' Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ. καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταί• ὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων, ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά.Sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae, et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec eaedem voces; quorum autem hae primorum notae, eaedem omnibus passiones animae sunt, et quorum hae similitudines, res etiam eaedem.Spoken words are the symbols of mental experience and written words are the symbols of spoken words. Just as all men have not the same writing, so all men have not the same speech sounds, but the mental experiences, which these directly symbolize, are the same for all, as also are those things of which our experiences are the images. περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, —ἄλλης γὰρ πραγματείας•De his quidemdictum est in his quae sunt dicta de anima -- alterius est enim negotii.This matter has, however, been discussed in my treatise about the soul, for it belongs to an investigation distinct from that which lies before us. — ἔστι δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ᾧ ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ• περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε καὶ τὸ ἀληθές.Est autem, quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa compositionem enim et divisionem est falsitas veritasque.As there are in the mind thoughts which do not involve truth or falsity, and also those which must be either true or false, so it is in speech. For truth and falsity imply combination and separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ συνθέσεως καὶ διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρωπος ἢ λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ τι• οὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δ’ ἐστὶ τοῦδε• καὶ γὰρ ὁ τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι προστεθῇ ἢ ἁπλῶς ἢ κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba consimilia sunt sine compositione vel divisione intellectui, ut 'homo' vel 'album', quando non additur aliquid; neque enim adhuc verum aut falsum est. Huius autem signum: 'hircocervus' enim significat aliquid sed nondum verum vel falsum, si non vel 'esse' vel 'non esse' addatur vel simpliciter vel secundum tempus.Nouns and verbs, provided nothing is added, are like thoughts without combination or separation; 'man' and 'white', as isolated terms, are not yet either true or false. In proof of this, consider the word 'goat-stag.' It has significance, but there is no truth or falsity about it, unless 'is' or 'is not' is added, either in the present or in some other tense. Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ κατὰ συνθήκην ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ σημαντικὸν κεχωρι- σμένον• ἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθ’ αὑτὸ σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars est significativa separata; in 'equiferus' enim 'ferus' nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est 'equus ferus'.Chapter 2 By a noun we mean a sound significant by convention, which has no reference to time, and of which no part is significant apart from the rest. In the noun 'Fairsteed,' the part 'steed' has no significance in and by itself, as in the phrase 'fair steed.' οὐ μὴν οὐδ’ ὥσπερ ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοις• ἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ οὐδαμῶς τὸ μέρος σημαντικόν, ἐν δὲ τούτοις βούλεται μέν, ἀλλ’ οὐδενὸς κεχωρισμένον , οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης τὸ κελης.At vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in compositis; in illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem sed nullius separati, ut in 'equiferus' <'ferus'>.Yet there is a difference between simple and composite nouns; for in the former the part is in no way significant, in the latter it contributes to the meaning of the whole, although it has not an independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the word 'boat' has no meaning except as part of the whole word. τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον• ἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum placitum" vero, quoniam naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota; nam designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The limitation 'by convention' was introduced because nothing is by nature a noun or name-it is only so when it becomes a symbol; inarticulate sounds, such as those which brutes produce, are significant, yet none of these constitutes a noun. τὸ δ’ οὐκ ἄνθρωπος οὐκ ὄνομα• οὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα ὅ τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν• — ἀλλ’ ἔστω ὄνομα ἀόριστον. 'Non homo' vero non est nomen; at vero nec positum est nomen quod illud oporteat appellari -- neque enim oratio aut negatio est -- sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man' is not a noun. There is indeed no recognized term by which we may denote such an expression, for it is not a sentence or a denial. Let it then be called an indefinite noun. τὸ δὲ Φίλωνος ἢ Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis' autem vel 'Catoni' et quaecumque talia sunt non sunt nomina sed casus nominis.The expressions 'of Philo', 'to Philo', and so on, constitute not nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἢ ἦν ἢ ἔσται οὐκ ἀληθεύει ἢ ψεύδεται, —τὸ δ’ ὄνομα ἀεί,— οἷον Φίλωνός ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν• οὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀληθεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio autem eius est in aliis quidem eadem sed differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit' vel 'erit' adiunctum, neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut 'Catonis est' vel 'non est' -- nondum enim aliquid neque rerum dicit neque mentitur.The definition of these cases of a noun is in other respects the same as that of the noun proper, but, when coupled with 'is', 'was', or will be', they do not, as they are, form a proposition either true or false, and this the noun proper always does, under these conditions. Take the words 'of Philo is' or 'of or 'of Philo is not'; these words do not, as they stand, form either a true or a false proposition. Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν σημαίνει χωρίς• ἔστι δὲ τῶν καθ’ ἑτέρου λεγομένων σημεῖον.Verbum autem est quod consignificat tempus, cuius pars nihil extra significat; et est semper eorum quae de altero praedicantur nota.Chapter 3 A verb is that which, in addition to its proper meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any independent meaning, and it is a sign of something said of something else. λέγω δ’ ὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δ’ ὑγιαίνει ῥῆμα• προσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν, οἷον τῶν καθ’ ὑποκειμένου.Dico autem quoniamconsignificat tempus, ut 'cursus' quidem nomen est, 'currit' vero verbum -- consignificat enim nunc esse -- ; et semper eorum quae de altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto.I will explain what I mean by saying that it carries with it the notion of time. 'Health' is a noun, but 'is healthy' is a verb; for besides its proper meaning it indicates the present existence of the state in question. Moreover, a verb is always a sign of something said of something else, i.e. of something either predicable of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα λέγω• προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει, τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα οὐ κεῖται• ἀλλ’ ἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ὅτι ὁμοίως ἐφ’ ὁτουοῦν ὑπάρχει καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος.'Non currit' vero et 'non laborat' non verbum dico; consignificat quidem tempus et semper de aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit infinitum verbum, quoniam similiter in quolibet est vel quod est vel quod non est.Such expressions as 'is not-healthy', 'is not, ill', I do not describe as verbs; for though they carry the additional note of time, and always form a predicate, there is no specified name for this variety; but let them be called indefinite verbs, since they apply equally well to that which exists and to that which does not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν ἢ τὸ ὑγιανεῖ οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματος• διαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν πέριξ.Similiter autem vel 'curret' vel 'currebat' non verbum est sed casus verbi; differt autem a verbo quoniam hoc quidem praesens significat tempus, illa vero quod complectitur.Similarly 'he was healthy', 'he will be healthy', are not verbs, but tenses of a verb; the difference lies in the fact that the verb indicates present time, while the tenses of the verb indicate those times which lie outside the present. αὐτὰ μὲν οὖν καθ’ αὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά ἐστι καὶ σημαίνει τι, —ἵστησι γὰρ ὁ λέγων τὴν διάνοιαν, καὶ ὁ ἀκούσας ἠρέμησεν,— ἀλλ’ εἰ ἔστιν ἢ μή οὔπω σημαίνει• οὐ γὰρ τὸ εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν. αὐτὸ μὲν γὰρ οὐδέν ἐστιν, προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι.Ipsa quidemsecundum se dicta verba nomina sunt et significant aliquid -- constituit enim qui dicit intellectum, et qui audit quiescit -- sed si est vel non est nondum significat. Neque enim 'esse' signum est rei vel 'non esse', nec si hoc ipsum 'est' purum dixeris: ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam compositionem quam sine compositis non est intellegere.Verbs in and by themselves are substantival and have significance, for he who uses such expressions arrests the hearer's mind, and fixes his attention; but they do not, as they stand, express any judgement, either positive or negative. For neither are 'to be' and 'not to be' the participle 'being' significant of any fact, unless something is added; for they do not themselves indicate anything, but imply a copulation, of which we cannot form a conception apart from the things coupled. Λόγος δέ ἐστι φωνὴ σημαντική, ἧς τῶν μερῶν τι σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον, ὡς φάσις ἀλλ’ οὐχ ὡς κατάφασις.Oratio autem est vox significativa, cuius partium aliquid significativum est separatum (ut dictio, non ut affirmatio);Chapter 4 A sentence is a significant portion of speech, some parts of which have an independent meaning, that is to say, as an utterance, though not as the expression of any positive judgement. λέγω δέ, οἷον ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλ’ οὐχ ὅτι ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (ἀλλ’ ἔσται κατάφασις ἢ ἀπόφασις ἐάν τι προστεθῇ)• ἀλλ’ οὐχ ἡ τοῦ ἀνθρώπου συλλαβὴ μία• οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι νῦν μόνον.dico autem ut 'homo' significat aliquid (sed non quoniam est aut non est; sed erit affirmatio vel negatio, si quid addatur) sed non una 'hominis' syllaba; nec in hoc quod est 'sorex' 'rex' significat sed vox est nunc sola.Let me explain. The word 'human' has meaning, but does not constitute a proposition, either positive or negative. It is only when other words are added that the whole will form an affirmation or denial. But if we separate one syllable of the word 'human' from the other, it has no meaning; similarly in the word 'mouse', the part 'ouse' has no meaning in itself, but is merely a sound. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς σημαίνει μέν, ἀλλ’ οὐ καθ’ αὑτό, ὥσπερ εἴρηται.In duplicibus vero significat quidem sed non secundum se, quemadmodum dictum est.In composite words, indeed, the parts contribute to the meaning of the whole; yet, as has been pointed out, they have not an independent meaning. ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός, οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ ὥσπερ εἴρηται κατὰ συνθήκην• ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς, ἀλλ’ ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει• οὐκ ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει, οἷον ἡ εὐχὴ λόγος μέν, ἀλλ’ οὔτ’ ἀληθὴς οὔτε ψευδής.Est autem oratioomnis quidem significativa non sicut instrumentum sed (quemadmodum dictum est) secundum placitum; enuntiativa vero non omnis sed in qua verum vel falsum inest; non autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque vera neque falsa.Every sentence has meaning, not as being the natural means by which a physical faculty is realized, but, as we have said, by convention. Yet every sentence is not a proposition; only such are propositions as have in them either truth or falsity. Thus a prayer is a sentence, but is neither true nor false. οἱ μὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, —ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς οἰκειοτέρα ἡ σκέψις,— ὁ δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας.Et caeterae quidemrelinquantur (rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio est; enuntiativa vero praesentis considerationis est).Let us therefore dismiss all other types of sentence but the proposition, for this last concerns our present inquiry, whereas the investigation of the others belongs rather to the study of rhetoric or of poetry. Ἔστι δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις• οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ εἷς.Est autem una primaoratio enuntiativa affirmatio, deinde negatio; aliae vero coniunctione unae.Chapter 5 The first class of simple propositions is the simple affirmation, the next, the simple denial; all others are only one by conjunction. ἀνάγκη δὲ πάντα λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος εἶναι ἢ πτώσεως• καὶ γὰρ ὁ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν μὴ τὸ ἔστιν ἢ ἔσται ἢ ἦν ἤ τι τοιοῦτο προστεθῇ, οὔπω λόγος ἀποφαντικός (διότι δὲ ἕν τί ἐστιν ἀλλ’ οὐ πολλὰ τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, —οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι εἷς ἔσται,— ἔστι δὲ ἄλλης τοῦτο πραγματείας εἰπεῖν).Necesse est autemomnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu; et enim, hominis rationi si non aut 'est' aut 'erit' aut 'fuit' aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. Quare autem unum quiddam est et non multa 'animal gressibile bipes' -- neque enim eo quod propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc tractare negotii.Every proposition must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which defines the species 'man', if no verb in present, past, or future time be added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a footed animal with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that the words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry, however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἢ ὁ ἓν δηλῶν ἢ ὁ συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν ἢ οἱ ἀσύνδετοι.Est autem una oratioenuntiativa quae unum significat vel coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae.We call those propositions single which indicate a single fact, or the conjunction of the parts of which results in unity: those propositions, on the other hand, are separate and many in number, which indicate many facts, or whose parts have no conjunction. τὸ μὲν οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον, ἐπεὶ οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι τῇ φωνῇ ὥστ’ ἀποφαίνεσθαι, ἢ ἐρωτῶντός τινος, ἢ μὴ ἀλλ’ αὐτὸν προαιρούμενον.Nomen ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non sed ipsum proferentem.Let us, moreover, consent to call a noun or a verb an expression only, and not a proposition, since it is not possible for a man to speak in this way when he is expressing something, in such a way as to make a statement, whether his utterance is an answer to a question or an act of his own initiation. τούτων δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν ἀπόφανσις, οἷον τὶ κατὰ τινὸς ἢ τὶ ἀπὸ τινός, ἡ δ’ ἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον λόγος τις ἤδη σύνθετος.Harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta, velut oratio quaedam iam composita.To return: of propositions one kind is simple, i.e. that which asserts or denies something of something, the other composite, i.e. that which is compounded of simple propositions. Ἔστι δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις φωνὴ σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται.Est autem simplexenuntiatio vox significativa de eo quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt.A simple proposition is a statement, with meaning, as to the presence of something in a subject or its absence, in the present, past, or future, according to the divisions of time. Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός.Affirmatio vero est enuntiatio alicuius de aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo.Chapter 6 An affirmation is a positive assertion of something about something, a denial a negative assertion. ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι ὡς μὴ ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς μὴ ὑπάρχον, καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ τοῦ νῦν χρόνους ὡσαύτως, ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι καὶ ὃ ἀπέφησε καταφῆσαι• ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη καὶ πάσῃ ἀποφάσει κατάφασις.Quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod est esse et quod non est non esse, et circa ea extrinsecus praesentis temporis similiter omne contingit quod quis affirmaverit negare et quod quis negaverit affirmare; quare manifestum est quoniam omni affirmationi est negatio opposita et omni negationi affirmatio.Now it is possible both to affirm and to deny the presence of something which is present or of something which is not, and since these same affirmations and denials are possible with reference to those times which lie outside the present, it would be possible to contradict any affirmation or denial. Thus it is plain that every affirmation has an opposite denial, and similarly every denial an opposite affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι• λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι τὴν τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, —μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα ἄλλα τῶν τοιούτων προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις.Et sit hoccontradictio, affirmatio et negatio oppositae; dico autem opponi eiusdem de eodem, non autemaequivoce et quaecumquecaetera talium determinamus contra sophisticas importunitates.We will call such a pair of propositions a pair of contradictories. Those positive and negative propositions are said to be contradictory which have the same subject and predicate. The identity of subject and of predicate must not be 'equivocal'. Indeed there are definitive qualifications besides this, which we make to meet the casuistries of sophists. Ἐπεὶ δέ ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθ’ ἕκαστον, —λέγω δὲ καθόλου μὲν ὃ ἐπὶ πλειόνων πέφυκε κατηγορεῖσθαι, καθ’ ἕκαστον δὲ ὃ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον,— ἀνάγκη δ’ ἀποφαίνεσθαι ὡς ὑπάρχει τι ἢ μή, ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί, ὁτὲ δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον.Quoniam autemsunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim (dico autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod non, ut 'homo' quidem universale, 'Plato' vero eorum quae sunt singularia), necesse est autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non, aliquotiens quidem eorum alicui quae sunt universalia, aliquotiens vero eorum quae sunt singularia.Chapter 7Some things are universal, others individual. By the term 'universal' I mean that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by 'individual' that which is not thus predicated. Thus 'man' is a universal, 'Callias' an individual. Our propositions necessarily sometimes concern a universal subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ τοῦ καθόλου ὅτι ὑπάρχει ἢ μή, ἔσονται ἐναντίαι ἀποφάνσεις, —λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ καθόλου ἀποφαίνεσθαι καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός• — ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι δηλούμενα ἔστιν εἶναι ἐναντία, —λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν καθόλου, οἷον ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος• καθόλου γὰρ ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει• τὸ γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλ’ ὅτι καθόλου.Si ergo universaliterenuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae enuntiationes (dico autem in universali enuntiationem universalem ut 'omnis homo albus est', 'nullus homo albus est'); quando autem in universalibus non universaliter, non sunt contrariae, quae autemsignificantur est esse contraria (dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia, ut 'est albus homo', 'non est albus homo'; cum enim universale sit homo, non universaliter utitur enuntiatione; 'omnis' namque non 'universale' sed 'quoniam universaliter' consignificat).If, then, a man states a positive and a negative proposition of universal character with regard to a universal, these two propositions are 'contrary'. By the expression 'a proposition of universal character with regard to a universal', such propositions as 'every man is white', 'no man is white' are meant. When, on the other hand, the positive and negative propositions, though they have regard to a universal, are yet not of universal character, they will not be contrary, albeit the meaning intended is sometimes contrary. As instances of propositions made with regard to a universal, but not of universal character, we may take the 'propositions 'man is white', 'man is not white'. 'Man' is a universal, but the proposition is not made as of universal character; for the word 'every' does not make the subject a universal, but rather gives the proposition a universal character. — ἐπὶ δὲ τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθές• οὐδεμία γὰρ κατάφασις ἔσται, ἐν ᾗ τοῦ κατηγορουμένου καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν ζῷον.In eo vero quod praedicatur universaliter universale praedicare universaliter non est verum; nulla enim affirmatio erit, in qua de universaliter praedicato universale praedicetur, ut 'omnis homo omne animal'.If, however, both predicate and subject are distributed, the proposition thus constituted is contrary to truth; no affirmation will, under such circumstances, be true. The proposition 'every man is every animal' is an example of this type. Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς τὴν τὸ καθόλου σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός—οὐ πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός—ἔστι τις ἄνθρωπος λευκός• ἐναντίως δὲ τὴν τοῦ καθόλου κατάφασιν καὶ τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος—οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος•Opponi autemaffirmationem negationi dico contradictorie quae universale significat eidem quoniam non universaliter, ut 'omnis homo albus est', 'non omnis homo albus est', 'nullus homo albus est', 'quidam homo albus est'; contrarie vero universalem affirmationem et universalem negationem, 'ut omnis homo iustus est', 'nullus homo iustus est';An affirmation is opposed to a denial in the sense which I denote by the term 'contradictory', when, while the subject remains the same, the affirmation is of universal character and the denial is not. The affirmation 'every man is white' is the contradictory of the denial 'not every man is white', or again, the proposition 'no man is white' is the contradictory of the proposition 'some men are white'. But propositions are opposed as contraries when both the affirmation and the denial are universal, as in the sentences 'every man is white', 'no man is white', 'every man is just', 'no man is just'. Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords: la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’ Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita, vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction, thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from bodily movement, voce, ‘vox significativa’ ‘voce significativa’, voce che e segno di… la voce dei animali, uso metaforico di ‘voce’ – the voice of Alighieri, la voce di, la voce di Mussolini, la voce di, voice, etimologia di voce. phone, phonic, suono – voce e suono – immagine acustica del suono, riconoscimento della voce, voce come sinonimo di parola, o espressione – una ‘voce toscana’ --  ‘la voce umana’ – ‘sine voce’ – the voiceless – voce come schema distintivo – voiced and voiceless – nome come voce, verbo come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO dell’afezione dell’animo, ma SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library. Colonnello.

 

Grice e Colorni: l’implicatura conversazionale della diadologia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli).  Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista  ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico  per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa.  Incontra Croce, con il quale conversa a lungo.  Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di Croce.  Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel.  Nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero”.  La sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa.  Circa le dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile, riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.  Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica.  Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante.  Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria.  Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.  “Io ero da poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è  assassinata alla vigilia della liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista:  «Ricordare l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo fascista: C. e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di Ventotene".  Pochi giorni prima della liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione del Comune di Roma, contiene un errore.  Foto delle tre lapidi.  Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino). Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni, in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli, Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del ’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini. Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni, in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista. Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero, staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere *conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti, Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. […] le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9. Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i filosofi professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (a cura di), C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta, con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni. Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il linguaggio  Cinque scritti metodologici di C. 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi. Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»: “Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate, Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà da  Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a questo argomento19. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia scientifica – da C. discusso fra gli altri con Ludovico Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C., Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C.  7 cora Somenzi ha sottolineato come esso corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano. Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come quella di Borgese, che C.  e compagni chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto lavori su L’estetica d’Ardigò.  21 V. Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società»,  Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe Hegel, ma non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz; l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli, Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra C. e Borgese rimando a Riosa,  Borgese e C.  tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota, C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda, a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr. anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza (L. Guzzardi, Lo specchio della natura. C. e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C. nella recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C., L’estetica di Croce.  Cfr. Cerchiai, L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai. Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto. Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di Benedetto Croce, cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni, Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36. L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C., Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V. Somenzi, C., cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», nel 1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con Geymonat. Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C. indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio di identità.  Cfr. infra, la Nota del curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti» da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo, decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura: «La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica, pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue […]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che  i tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore.  Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per poi dedurne le altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C., cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie 1942-2000, 1, C. e Cotone, b. 3, Colorni). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2, il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2, Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7 di aprirle (Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E.  già stato compiuto FS: già compiuto E.  parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS: sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi suoi FS: nei suoi E.  scuoterlo FS: smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E.  Queste righe, e quelle immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS: mente E. Eugenio Colorni  vuta ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mondo […] che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto  il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua mente, ricerca  dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS: assolutamente impossibile E.  elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie; contentandosi  positivisti), oppure FS: positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS: Newton e  di FS:, di  I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece, E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E. 70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS: disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS: parola, E. 78 A capo in E.  essere FS: esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91. Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS: misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS: quei E.  campi senza FS: campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS: logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E.  di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS: che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS: kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e malvagio. Il vostro  C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6; sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63). E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo dopoguerra.  Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia leibniziana ha ai  suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico. Intendiamo  'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun pro-  blema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra  conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rap-  porti fra conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al  sofista dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose »  è estraneo a Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua  essenza divina od umana, secondo le sue leggi razionali o em-  pn iene. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i suoi  aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a  formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel  campo filosofico e metafisico l’atteggiamento onde i suoi grandi  predecessori o contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, ave-  \uno improntato la loro indagine del mondo fìsico: un ten-  tativo di visione complessiva, armonica, coerente di tutti i  latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano una  spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.  A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello  di Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi  da un solo principio posto inizialmente come unico valido.   . me ! ltre con la filosofia cartesiana molti saranno i rapporti  di Leibniz nella formulazione e nello sviluppo dei vari pro-  ficui 1 , egli se ne differenzia però fondamentalmente per la sua  concezione essenziale del mondo come un complesso a sè stante,  di cui si debba ricercare un principio unificatore, e non come  qualche cosa di inizialmente problematico, la cui esistenza e   le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in que-  st'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea diret-  trice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia mo-  derna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta,  tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero  greco, in un atteggiamento che potremmo avvicinare a quello  di Aristotele.    La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella co-  noscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non  dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non  solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura spe-  ciale che essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa  non si è limitata a creare ima volta le cose dal nulla, ma  continuamente le crea e risuscita ? Devo dire che, quando  ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esul-  tai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra finalmente  volersi l’appacificare con la religione; con la quale, non  per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari de-  gli uomini, o anche a causa di espressioni e termini mal  scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino dunque gli uomini  pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver timore  della ragione; basta che si studino di raggiungere la ra-  gione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di  riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare  come vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle  nozioni crasse e materiali, nelle quali taluni credono di  poter circoscrivere tutta la natura.   (Dialogo Pacidius Philalelhi).   Questo studio oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo  sforzo di una visione unitaria del tutto, conduce Leibniz a  complessi e armonici panorami, in cui fede e ragione, mondo  divino e mondo umano, scienze naturali e scienze metafisiche  si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò cui  egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.  Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia univer-  sale è al centro dei suoi pensieri.  L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause materiali  delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la sapienza  dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così  costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come  per necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è  dunque bisogno li filosofi naturali che non introducano  soltanto la geometria nel campo delle scienze fisiche (dato  che la geometria manca di cause finali) ma rendano anche  manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione, per  così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande re-  pubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi  (cittadini o nemici) le altre creature agli schiavi.   (Lettera al Thomasius).   In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di  considerazione del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del  movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli  ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i  fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli  scettici ; per dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di tanti  e così importanti teoremi; per elaborare un" ipotesi fisica  di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale,  per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e  finora mai raggiunte, sull intima essenza del pensiero e  sull eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di qui  sgorgano le fonti della bontà e dell’equità, del diritto e  delle leggi, così chiare e limpide, così piccole d’estensione  e insieme profonde di contenuto, da poter valere come  grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qual-  siasi problema, con una compendiosita stupefacente per   []. CON LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di cui il volgo, io erodo, non ha  neppure 1’ idea (1).   (Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, 1671, pref., G. IV 226).   A quest’ idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di  ogni metodo d’ indagine nella suprema armonia e coerenza della  natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo  tutta la sua carriera, di un’organizzazione sistematica delle  scienze, di un’ Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse  una visione complessiva, concordante e concaten antesi in tutte  lo sue parti; progetti, questi, che richiamano alla Pansofia  eomoniana (2) e per realizzare i quali Leibniz si fece promotore  di società scientifiche e fondatore di accademie.   Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun  modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello  spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l’espres-  sione di una realtà divina oggettiva, a sè stante, con le sue  leggi concordanti e armoniche. La scienza scopre questa unità  noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito, che corrispondono,  in virtù dell armonia stessa, alle leggi del mondo.   Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà oggettiva  può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione «  verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale, retto  ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie inconfondibili  caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi modi  di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due defi-  nizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere distan-  tissime per data e per argomento:   Le verità di ragione sono necessarie, quelle di fatto  sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono    (1) Quale sia il significato (lei termini .j ni adoperati (continuità, indi-  visibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito.   (2) Giovanni Amos Comenio (1592-1670), noto principalmente nel campo  della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica Magne r, concepì il sapere come un'or-  ganizzazione di ogni elemento della conoscenza secondo leggi universali  (Pansofia), trasformando il concetto di enciclopedia da quello di una semplice  raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz  conobbe ed apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale identiche, poiché  sembra che esse non facciano che ripetere la medesima  cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o ne-  gative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni  casa è ciò che è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B;  io sarò quel che sarò; ho scritto quel che ho scritto....   Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre, sono  pure suscettibili di tale identità; e io considero afferma-  tiva anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica:  se A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A  è BC, ne segue che non-A è BC....   Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono  rette o dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei  disparati. Il principio di contradizione è in generale il se-  guente: una proposizio-ne è vera o falsa. Il che contiene  due enunciazioni vere: l una che il vero e il falso non sono  compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una  proposizione non può esser vera e falsa ■ contemporaneamente ;  l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del falso  non sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo  fra il vero e il falso; o, in altri termini, che non è possi-  bile che una proposizione non sia nè vera nè falsa (2). Óra.  tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni partico-  lari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere  non-A,...   Quanto ai disparati , sono quelle proposizioni che di-  cono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di un’ altra  idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa  che il colare, oppure che uomo e animale non sono la me-  desima cosa, per quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto  questo si può stabilire indipendentemente da qualsiasi    (1) Leibniz, come molti altri, chiama « principio rii contradizionc >; quello  che dovrebbe essere chiamato più esattamente « principio di non contra-  dizionc ».   (2) È questo il principio che si suole chiamare del «terzo escluso»,    prova o dalla riduzione all' assurdo o al principio di con-  tradizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da  non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario c’è pe-  ricolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e tri-  latero non sono la medesima rosa, si cadrebbe in errore:  perchè, a ben considerare, si vede che i tre lati e i tre  angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il rettangolo  quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa, si  sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro  lati può avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre  dire in astratto che il triangolo non è il trilatero, o che  le ragioni formali ( 1 ) del triangolo e del trilatero non sono  le medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni diverse  della medesima cosa.   Taluno, dopo aver ascoltato con pazienza ciò che ab-  biamo detto finora, la perderà infine, e dirà che noi ci  divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le verità  identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli -  derrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste ma-  terie. Le dimostrazioni di logica, per esempio, procedono  dai principi dell - identità : e i geometri hanno bisogno del  principio di contradizione nello loro dimostrazioni per as-  surdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle propo-  sizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi di  ragionamento.   Segue lo sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sul-  I applicazione del principio di contradizione ai procedimenti  logici.   Ciò mostra che anche le pili pine e apparentemente  inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande utilità    (1) TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano.  nei procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare  che non si deve disprezzare nessuna verità....   Quanto alle verità primitive di fatto, sono le esperienze  immediate interne di una immediatezza di sentimento.   (Nuovi   saggi, 1701 segg., IV, 2, § 1).   Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria (1) si  rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna, che  hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro  propria natura. Quanto alle proposizioni singolari e per  cosi dire storiche, come p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle proposizioni  clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sul-  l’essenza ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso,  cioè per arbitrio di Dio. come p. es. « tutti gli uomini  adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di tali pro-  posizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo il  caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da  un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osser-  vazioni si riferiscono tutte le proposizioni particolari che  non siano inverse o subalterne di una universale (2). È  chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che dell’ indivi-  duale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il pro-  fondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi  degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti  e le ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni  è uno solo: la definizione (3). Ma quando di una cosa si  deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse viscere,    (1) I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa in  considerazione in seguito.   (2) Inverse o subalterno di una universale sarebbero per esempio le prò  posizioni particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere ana-  litico.   (3) Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto  i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei cri-  teri di probabilità, di induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo  venzono trattati nei due Analitici.     p. es. che Cristo è nato a Betlemme, nessuuo potrà arri-  vare a tali proposizioni attraverso le definizioni, ma la  materia sarà fornita dalla storia, e i testi sovverranno  alla memoria.   (Ara Combinatoria, 1000, G. IV, 69-70).   Lo verità di ragione si fondano dunque su puri principi lo-  gici ; quelle di fatto invece sull’esperienza. Le une riguardano  1 'essenza, le altre V esistenza-, quelle il necessario, queste il con-  tingente.   Le verità di ragione sono analitiche. Esse non tanno ohe svi-  luppare ciò che è già contenuto nelle viscere di ciascun con-  cetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza delle  cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le  scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche;  i principi su cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del  terzo escluso, che poi si riducono tutti al principio di identità.   Le verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da  esse derivano il predicato non è, come in quelle di ragione,  già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa  di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli appar-  tiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza  deve invece essere concretamente constatata, sperimentata vol-  ta per volta. Ad esse si applica 1’ induzione ; di esse si occu-  pano le scienze naturali, quello storiche, tutte le indagini che  partono dal dato concreto e contingente. Si reggono, queste ve-  rità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente. (Ofr. p. 17 ss.).   LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di ra-  gione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della as-  soluta certezza e necessità, o dell’ impossibilità del contrario;  esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà  poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra  parte, però, hanno una staticità che non permette loro alcuno  sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella loro fissità.  Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali, contingenti;  non dipendono da nessuna legge a priori ; ma appunto questo  carattere di non poter venir dedotte da principi già conosciuti,  quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente perce-  pibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che è  nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire  che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di  relazioni, di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi  la cornice, la forma della realtà: e le verità di fatto il conte-  nuto, la realtà stessa in tutti i suoi particolari. E infatti, le  verità di ragione vengono da Leibniz concepite piuttosto come  relazioni che come cose-, il che egli esprime col dire che le ve-  rità di ragione, necessarie, ci dànno la sola 'possibilità delle  cose, che non implica ancora affatto la loro realtà effettiva.   Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può im-  maginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse av-  venire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o  dovesse divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe  nuli’ altro che la necessità e non vi sarebbe nè scelta nè  provvidenza.   (Polemica pubblicata nel Journal de# Savants, 1697, G. IV, 341).   Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione,  può assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che  rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la  realtà; la quale poi concretamente si manifesta in una sola di  esse. Ciò che noi vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto,  che si svolge e manifesta entro l’ambito segnatole dai principi  della ragione (infatti qualsiasi fatto concreto non potrebbe de-  rogare al principio di non contradizione). Tali principi però  potrebbero inquadrare infinite altre forme di realtà, diverse  da quella di questo mondo, concretamente esistente. È questo  il principio dell’ infinità < lei mondi possibili, cioè dell’ infinità  delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di ragione,  schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi realtà.   Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili, in-  tendo che non implichino contradizione, così come si pos-  sono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono  tuttavia possibili. Per essere possibile basta che una cosa   sia intelligibile. (Lettera al Bourguet, 1712, G. Ili, 558).   È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera è  un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la co-  nosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risol-  viamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni  di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è  di contradi ttorio...; a posteriori quando sperimentiamo at-  tualmente resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è  esistito attualmente, è senz'altro possibile (I). E ogni qual-  volta si ha una conoscenza adeguata, si ha la conoscenza  della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine,  se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è  certamente possibile.   (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et 'de in, 1684, G. IV, 425).   Alle verità di ragione c di fatto corrispondono anche i due  modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità ap-  partengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In questo  senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee chiare  e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di ragione.  Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi evidenza  conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.   Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la  nostra percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del  fatto che il circolo sia la figura di massima area con  dato perimetro non sarebbe secondo lui altrimenti ricono-  scibile se non attraverso la chiara e distinta percezione che  noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse con-  formato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara  e distinta percezione del contrario, il contrario sarebbe  vero. Questa è la sua opinione, che io non approvo punto.  E non è assolutamente vero quel suo principio metafìsico  universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui  ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po-    li) Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della possibilità,  ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori dal campo  dell’attualmente esistente.  ligono di mille lati o dell'ente sommamente perfetto: prin-  cipio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli  disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono  delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argo-  mento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi  fosse anche 1' idea di cose impossibili, p. es. del movimento  sommamente veloce; fra le quali cose impossibili, coloro  che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno anche  l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia. clic  altro è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento  sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di  Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a  compimento, vi debba aggiungere molto di suo.   (Frammento del 1077 (1), 0. IV, 271-5).   Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con queste af-  fermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al cri-  terio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne ».  E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente  sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova  ontologica dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente somma-  mente perfetto, egli dice, potrebbe essere contradittoria, come  quella della velocità massima o del numero più grande di tutti  (iflee contradittorie, queste, perchè sarà sempre possibile con-  cepire una velocità o un numero maggiori di una qualsiasi  altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si potrà  mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque, non  basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità, di-  mostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle  nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne  di ragione.    (1) Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal prof. Ritter,  direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia delle Scienze di  Berlino.   (2) La prova ontologica, clic Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta  (1033-1109), afferma che Tessere sommamente perfetto deve contenere, fra  le sue perfezioni, anche resistenza: quindi esiste. Tale prova considera  quindi l’esistenza come un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo.   L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma  generalmente a questa dichiarazione di incompletezza; e non  mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente  perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esi-  stenza. Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità  di ragione e quelle di fatto appartengono a due sfere diverse  e - per cosi dire - incommensurabili, sì che non sia possibile  far rientrare l’una nel campo dell’altra.   Ma in generale non si può dire che Leibniz si preoccupi  troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto che  il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti  fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità  armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non  una conclusione cui egli arrivi.   Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c di fatto (  Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si contrap-  pone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori l'esistenza  di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della sua  volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di  fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dal-  l'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono  rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici  dell’ univorso, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino  i decreti della volontà divina. Si è già visto che le verità  di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o ma per loro  propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti di  Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.   È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ra-  gione, nè ci si deve fermare finché non si arrivi alla prima....    (1) C'fr. per esempio, Meditazioni metafisiche, Risposte alle seste obbie-  zioni,!). U: «...lo dico che è impossi bile che una tale idea [del bene o del vero]  abbia preceduto la determinazione della volontà di Dio.... in modo che que-  sta idea del bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che  l’altra. Por esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse  creato nel tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo;  o non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per  aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il fatto  che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò meglio così che  se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli ha voluto che i tre an-  goli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due retti, ciò è ora vero  o non può essere altrimenti; e così di tutte le altre cose».   E iiuale. è dunque l’ultima ragione della volontà divina?  L’ intelletto divino. Quale la ragione dell' intelletto divino?  L’armonia delle cose. Quale dell'armonia delle cose ? Nulla.  Per esempio, della proposizione 2:4=4 : 8 non si può  dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà  divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea  delle cose. i   (Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II, I, 117).   L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità di  ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito  segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità  di /atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto  libero della sua volontà.   Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che sono  limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimen-  tiamo. sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda  la loro esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo,  lo spazio e la materia, uniti e uniformi in sé stessi, e in-  differenti a tutto, avrebbero potuto ricevere movimenti e  figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine. Bisogna  dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è  tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla  nella sostanza che contiene la ragione della sua esistenza  in se stessa (1), e che, per conseguenza, è necessaria ed  eterna. Bisogna pure che tale causa sia intelligente: poi-  ché dato che questo mondo che esiste è contingente, es-  sendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti al-  l'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di  altri mondi, bisogna che la causa del mondo abbia avuto  rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por  determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una    (1) Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione dell’ FI tea di Spinoza:  Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia invaivi t existenliam; vive id,  cujus natura non potest concipi, nini existensv.  sostanza esistente con semplici possibilità, non può essere  altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne  una non può essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie.  Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la volontà  efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l' in-  telletto al vero, la volontà al bene. E questa causa intel-  ligente deve essere infinita in tutti i modi, e assolutamente  perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché essa  tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è con-  nesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo  intelletto è la fonte delle essenze, la sua volontà è l'ori-  gine delle esistenze. Ecco in poche parole la prova di un  Dio unico con le sue perfezioni e, per suo mezzo, l'origine  delle cose.   (Teodicea, 1710, § 7).   Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto  di Dio , le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra  le infinite possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi  del principio di non contradizione, Dio ne sceglie una, e la  pone in atto. Anche in questo, Leibniz si oppoue a Cartesio,  il quale ritiene che la materia assuma tutte le forme possibili.  Egli cita, per confutarlo, questo passo dei Princip { rii Filosofia  (parte III, art. 47): a Poiché la materia assume successiva-  mente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo ordi-  natamente queste forme, giungeremo infine a quella che ap-  partiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere  alcun errore per colpa di una eventuale falsa i potesì " ( 1 ) .  Leibniz risponde:   Non credo che si possa enunciare una proposizione più  pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve succes-  sivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si   (1) Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano  effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole  idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una netta  separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da questo passaggio  per tutte le forme della possibilità, e risolvere il problema dell origine del  mondo sensibile con un diretto ricorso al principio delle verità di fatto.    I. - VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO 17   possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto biz-  zarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia,  che non sia accaduto o che non debba accadere un gior-  no.... È questo, a mio avviso, il 7rpwxov tpeòSoq (primo in-  ganno) e il fondamento della filosofia atea, la quale non  tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma  la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfe-  zione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto  nella morale.   (Lotterà al Philippi, 1080, G. IV, 283-4).    Il principio di ragion sufficiente. La realtà contin-  gente posta in atto da Dio è il mondo sensibile che noi speri-  mentiamo. Per la giustificazione di esso, le immutabili leggi  della logica non sono sufficienti. TI mondo, la realtà di fatto è,  ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello che  è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio lo-  gico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è  il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion suffi-  ciente, quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale  alla sua causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla  causa jprima, cioè Dio.   11 principio universale nihil esse sine catione (1) risolve  quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene, del  cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato  (cur factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non  possa render ragione.   (Frammento sulla Selenita Media, 1677, C. 25).    (L) È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione fra  questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di ra-  gione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la forma generalo che  regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si contrappongono invece a  queste ultimo, e si fondano sul principio di non contradizione. La somi-  glianza di due termini dal significato così differente e quasi opposto, deriva  ila un diverso uso del termino « ragione ». Nella locuzione principio di ra-  gione » osso equivale a « motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica , servendoci del gran  principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma  che nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che  nulla accade senza che sia possibile a colui che conosca  sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a  determinare perchè è così e non altrimenti. Posto questo  principio, la prima domanda che si avrà il diritto di porre,  sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché il  nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inol-  tre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si  possa rendere ragione del perchè esse debbano esistere così,  e non altrimenti.   Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo  non si può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè  dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime : poiché,  essendo la materia indifferente in sè stessa al movimento  e al riposo e a questo movimento o ad un altro, non si  può trovare in essa la ragione del movimento e ancor  meno di questo movimento. E. benché il movimento at-  tuale che è nella materia derivi dal precedente, e questo  ancora da un precedente, non si avanzerà affatto, per  quanto lontani si possa andare: poiché resterà sempre la  medesima domanda. Così bisogna che quella ragione suf-  ficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia  fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in  una sostanza che ne sia la causa o che sia un essere ne-  cessario il quale porti con sè la ragione della sua esistenza :  altrimenti non si avrebbe mai una ragione sufficiente, alla  quale arrestare il processo. E questa ultima ragione delle  cose è chiamata Dio.   ( Principe# de la nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 002).   La causa FINALE E il « mkiliore ». Dio è dunque la causa  o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del mondo  sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio  questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?   Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una  ragione determinante. In virtù di questo principio, che ci  conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri predecessori, Dio  non cambia mai volontà e operazione senza averne qual-  che valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è  di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di  giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può  essere una ragione o no. Quando la volontà di Dio è im-  piegata da sola, senza che nella natura delle creature vi  sia la ragione di questa volontà, nè il modo del suo ope-  rare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco oppor-  tuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i  pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti  da altri corpi Ogni volta che noi conosciamo qual-   che cosa delle opere di Dio, vi troviamo dell' ordine.   (Lettera allo Hartaoekcr, 1711. G. Ili, 52D).    II principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per  risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi  lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo  mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da  un criterio della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza  una ragione del suo agire; e questa ragione che. determina  la sua volontà, è i l criterio del massimo be ne, della massima  perfezione.   A q uest o criterio Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a  questo criterio si deve ricorrere dunque come alla ultima ra-  gione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come motivo  dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{ è±.   Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause  finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes  nei Principi di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto  per mezzo di esse che tutto si debba determinare, poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una  volontà e perciò tendendo al bene.   (Lettera al Philipp!, 1080, 0. IV, 281).   Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti mondi  possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione. Questo  criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra i  mondi possibili.   Questa infinita saggezza, unita ad una bontà non meno  infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il migliore;  poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene,  cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa  ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche  cosa da correggere nelle azioni di Dio, se vi fosse modo  di far meglio. E come in matematica, quando non vi è  nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto,  tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non  avviene addirittura nulla ; si può dire lo stesso a proposito  della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che  la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore (opti-  mum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe pro-  dotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 in-  sieme di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che  più mondi hanno potuto esistere in differenti tempi e  in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli tutti  insieme come un solo mondo, o se volete, come un universo.  E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi,  resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in  una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di mondi  possibili, di cui Dio deve aver scelto il migliore, perchè  egli non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione.   (Teodicea, 1710, § 8).   Dio dunque non scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si  ispira ad un principio - il principio del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la realtà del mondo. In  che cosa consiste questo principio? Che cos’è il «migliore»,  questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di mas-  sima realizzazione, di massima perfezione, di massima felicità,  bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei limiti  della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza pos-  sibile.   Discende dalla perfezione suprema di Dio che, produ-  cendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possi-  bile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo  ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il  massimo effetto prodotto coi mezzi più semplici; il mas-  simo di potenza, il massimo di conoscenza, il massimo di  felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell' universo.  Infatti, dato che tutti i possibili pretendono all'esistenza  nell intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni,  il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il mondo  attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non  sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano  andate così piuttosto che in altro modo.   ( Pricipes de la Nature et de la (brace, 1713-14, G. VI, 003).   È un mio principio, che tutto ciò che può esistere ed  è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio exi-  atendi a preferenza di tutti gli altri possibili, non deve  essere limitata da altra ragione, se non da quella che non  tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L' unica ragione  determinante è dunque ut exislant / totiora , quae plurimum  involvant realitatis.   (Ii'rammonto del 1070, C. 530).   Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa  piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande prin-  cipio che nulla avviene senza una ragione, così come deve  esservi anche una ragione per cui esista una cosa piut-  tosto che un' altra. Tale ragione deve essere in qualche ente reale o causa.  Infatti la causa non è altro che una realis ratio , e le ve-  rità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene negata  la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se  le possibilità non si fondassero su qualche cosa di attual-  mente esistente.   Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si  dovrebbe ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là da  esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quel-  l'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e in una  parola lo si suole chiamare Dio.   Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba pre-  valere sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium est exi-  stentificans.   Ma quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che  la possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possi-  bile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si può  trovare in generale una ragione di restrizione all esistenza  dei possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un inizio  di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente necessario  attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe alcuna  via per la quale potesse possibilmente giungere ad at-  tuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esi-  stano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero com-  possibili.   Ma poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili  con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano al-  l'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non  solo relativamente al medesimo tempo, ma anche uni-  versalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono im-  plicite le future.   Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili che pre-  tendono all' esistenza, deriva questo almeno, che esista    (1) Traduciamo così il termine existilurire.     quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza il  massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti i  possibili. E questa serie unica è determinata, così come  tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo  retto, tra le figure e i solidi quelle di massima capacità,  cioè il circolo e la sfera. E come vediamo che i liquidi si  raccolgono spontaneamente in gocce sferiche, così nel-  l' universo esiste la serie di massima capacità.   Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se  non nella quantità di realtà.   Inoltre la perfezione non si deve soltanto ravvisare nella  materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio, la  cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo,  ma nella forma o varietà.   Ne consegue che la materia non è ovunque simile a sè  stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non  otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile....   Ne consegue anche che ha prevalso quella serie dalla  quale derivava il massimo di pensabilità distinta.   E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e bellezza  a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio plu-  rium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti  bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere  l una dall'altra.   Cade così il concetto eli atomo e in generale di qual-  siasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione  di una parte dall'altra.   E ne deriva universalmente che il mondo è un y.óapoc.  un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare  massimamente chi comprenda.   Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis ) non è  altro infatti che la percezione della bellezza, dell' ordine,  della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa di  disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,  assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci dispiace nella serie delle cose,  ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è  possibile che ciascuno spirito comprenda tutto distinta-  mente; e a chi osservi solamente alcune parti piuttosto  che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso.   Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la  giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o  perfezione riguardo agli spiriti.   (Frammento, G. VII, 289-90).   Necessità e libertà. - Anche questo criterio di perfezione,  di bontà, di armonia è, aqalogamente alle verità di ragione,  assoluto, oggettivo, a sè stante, indipendente dalla volontà di  Dio, imposto dalla necessità delle cose. Dio sceglie il migliore:  ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti. Siamo qui in  presenza della celebre questione della conciliazione fra neces-  sità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il nostro argomento,  e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a que-  sto proposito Leibniz si oppone a Cartesio.   Contro coloro che sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio  o che le regole della bontà e della bellezza sono arbitrarie.   Io sono molto lontano dall'opinione di coloro che so-  stengona che non vi siano affatto regole di bontà e di  perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne  ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la  ragione formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio,  sapendo che egli ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione  di guardarle in seguito e trovarle buone, come testimonia  la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia servita di  questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro  eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche  se non si fanno riflessioni su questa semplice denomina-  zione esteriore, che le riattacca alla loro causa. E ciò è    (I) Leibniz allude qui al racconto del Co p. I della Genesi , in cui a cia-  scun atto della creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considera-  zione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bi-  sogna dunque che queste opere portino in sè il suo carattere.  Confesso che l'opinione contraria mi sembra estremamente  pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori (1),  i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà  che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non  chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro.  Cosi, dicendo che le cose non sono buone per nessuna  regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge,  mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua  gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se  egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il con-  trario? Dove sarà dunque la sua giustizia e la sua sag-  gezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se la  volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la defi-  nizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, ap-  punto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà  supponga qualche ragione di volere, e che questa ragione  sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che  io trovo anche molto strana l’espressione di altri filosofi (2),  i quali dicono che le verità eterne della metafisica e della  geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,  della giustizia e della perfezione non sono che effetti della  volontà di Dio, mentre mi sembra che esse non siano che  conseguenze del suo intelletto, il quale non dipende affatto  dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua essenza.   Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio.   Non posso neppure approvare l’ opinione di alcuni mo-  derni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio   (1) Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione che  Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e turbata  da preconcetti.   (2) Cartesio (cfr. ibid.).   (3) Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta perfezione, e che egli avrebbe potuto  agire assai meglio. Poiché mi semina che le conseguenze  eli questa concezione siano assolutamente contrarie alla  gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni, ita  mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire im-  perfettamente, agire con minor perfezione di quello che  si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull' opera di un ar-  chitetto il mostrare che egli avrebbe potuto farla meglio....   Questi moderni credono anche di provvedere così alla  libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta libertà quolla  di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana. Poiché  credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna  ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è  opinione poco conforme alla sua gloria. Per esempio, suppo-  niamo che Dio scelga fra A e li. e che egli prenda A senza  avere alcuna ragione di preferirlo a B: io dico che questa  azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto lodevole;  poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione  che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio  non faccia nulla per cui non meriti di essere glorificato.   ( Discours de métaphysique, 108G, §§. Il, III).   I l criterio della, bontà e del «migliore», non è dunque con-  seguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina  che si ispira a questo criterio, il «piale ha una validità ogget-  tiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione  di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della possibilitòj  dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del «piale  essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da epiesto  finalismo, da questo principio del « migliore », della bontà,  che costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo i  lati dunque, essa si trova determinata: e questa determina-  zione costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione.   Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi  di esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir con-  cepiti diversi da «piel che sono; necessità anche nelle verità  di fatto, in quanto la loro ragion sufficiente non può non essere  il principio della suprema perfezione e bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la volontà divina,  quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra di  loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione  fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai  medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime  leggi. La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie.  Essa non implica quella impossibilità «lei contrario che è es-  senziale caratteristica della necessità di ragione.   La necessità morale. - La necessità di ragione è una legge  regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di fatto e la  ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa  ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario  sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz  lo distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo  motivo inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.    Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità  ipotetica. Bisogna pure distinguere fra una necessità che  ha luogo perchè l’opposto implica contradizione, e che vien  chiamata logica, metafisica, o matematica, ed una neces-  sità olio è morale , che fa sì che il saggio scelga il migliore,  e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.   La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai  futuri contingenti dalla supposizione o ipotesi della pre-  visione e preordinazione da parte di Dio....   ....11 bene, sia vero sia apparente, in una parola il motivo,  inclina senza necessitare, senza imporre cioè una necessità  assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio, sceglie il mi-  gliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto a  perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che  Dio sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe im-  possibile, contro T ipotesi; poiché Dio sceglie tra i pos-  sibili, cioè fra vari partiti, dei quali nessuno implica con-  tradizione.   Ma dire che Dio non può scegliere se non il migliore,  e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la neces-  sità metafisica e la necessità morale, le essenze e le esi-  stenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua  essenza, poiché l'opposto implica contradizione; ma il con-  tingente che esiste deve la sua esistenza al principio del  migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo  che io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che  vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità  assoluta nelle cose contingenti.   Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea che  questa necessità morale è felice, conforme alla perfezione  divina, conforme al gran principio delle esistenze, che è  quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la  necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande  principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle es-  senze, cioè quello dell’ identità o della contradizione; poiché  quello che è assolutamente necessario è l’unico possibile  fra i vari partiti, e il suo contrario implica contradizione.   (Polemica col Clarke, 171ò, G. VII, 380-391).   Bisogna distinguere tra il necessario e il contingente,  quantunque determinato. E non solo le verità contingenti  non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non sono  sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere  che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le con-  seguenze che hanno luogo in materia necessaria e quelle  che hanno luogo in materia contingente. Le conseguenze  geometriche e metafìsiche necessitano, ma le conseguenze  fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il fi-  sico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario  rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno  altra necèssità che quella del migliore. Ora Dio sceglie libe-  ramente, benché egli sia determinato a scegliere il meglio.  E, poiché i corpi stessi non scelgono (avendo Dio scelto  per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati agenti  necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non  si confonda il necessario col determinato, e non si vada  ad immaginare che gli esseri liberi agiscano in una ma-  niera indeterminata: errore, questo, che ha prevalso in al-  cuni spiriti e che distrugge le più importanti verità, ed  anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza ra-  gione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè  altre grandi verità potrebbero essere ben dimostrate.   (Nuovi Saggi, 1701 scgg., 11, 21, § 13).   Su questo argomento della necessità e libertà, come su mol-  tissimi altri con questo comiessi (origine del male e sua giu-  stificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si  imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto  del pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare:  ([nello della Teodicea. Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costi-  tuita là realtà. Le une assolute, necessarie, imi versali, ma di  una universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale  delle possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili, esi-  stenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che la loro  esistenza non può venire ilimostrata a priori, nè discendere  matematicamente da alcuna forma inerente alla costituzione  del reale. La necessità morale, basata sul principio ili ragione  e finalistico, non elimina, come si è visto, la contingenza:  non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità di  ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario.   Il problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità  anche nel campo del contingente; o, in altri termini, la ridu-  zione del principio di ragion sufficiente a una linea altrettanto  fissa e immutabile che quella del principio di non contradi-  zione. La sostanza individuale sarà la soluzione di questo pro-  blema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre  nell’ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una  sintesi di universale e individuale.   La carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una  certezza matematica in tutte le cose conosciute, in modo ila  eliminare tutto ciò che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni  ragionamento a un calcolo. È questo il fondamento di quella  Scienza generale, Caratteristica, Ars inveniendi di cui egli va-  gheggia 1 idea, a partire dal suo primo scritto del 1666 sul-  V Arte Combinatoria, fino alla fine della sua vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei,  sono uno di quelli che pili ha approfondito la scienza ma-  tematica; ed ho scoperto metodi e procedimenti comple-  tamente nuovi, che portano questa scienza di là dai limiti  che le erano stati prescritti.   1 saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia  ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora molti  altri ; ma io non faccio gran caso delle scoperte particolari,  e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare l’arte  d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che  soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende  un’ infinità di soluzioni....   E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considere-  volmente l'arte d' inventare o analisi dei matematici, ho  cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per ri-  durre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo  che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è  possibile ex datis , posto cioè quel che ci è dato o conosciuto.  E quando le conoscenze date non bastano a risolvere la que-  stione proposta, questo metodo servirebbe, come nelle ma-  tematiche, ad accostarsi il più possibile alla soluzione e a  determinare esattamente ciò che è pili probabile.   Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso tempo  una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi  vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la potrebbe  intendere nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente  la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche set-  timane, avendo essa caratteri ben collegati secondo 1 or-  dine e la connessione delle cose; mentre i cinesi hanno  una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e  occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrit-  tura (1).    (1) I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della  sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici egiziani,  non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate, ma l'oggetto stesso che essa    Questa scrittura o lingua (se si rendessero enunciabili i  caratteri) potrebbe essere presto accolta nel mondo, per-  chè la si potrebbe imparare in poche settimane, e forni-  rebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe  di glande importanza per la diffusione della fede e per  1 istruzione dei popoli lontani.   Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi; giacche  questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra  geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché,  invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si tro-  verebbe che gli errori di ragionamento non sono che errori  di calcolo, riconoscibili mediante prove, come nell’ arit-  metica.   Gli uomini avrebbero così un giudice delle controversie  veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere se  è possibile decidere la questione j>er mezzo delle conoscenze  che essi posseggono già, e quando non fosse possibile  soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare  ciò che è più verosimile....   J ci giungere dunque a questa scrittura o caratteristica,  che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna cercare  le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le nostre  parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni  confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri,  la cui nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni  non sono se non un'espressione distinta dell’ idea della  cosa.   E avendo io studiato con cura non solamente la storia  e le matematiche, ma anche la teologia naturale, la giu-  risprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti questo  progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per    rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse più filo-  ne;. e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come quelle  chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita citata in J. Bakuzi,  Leibniz et l' organisation reXigieuse de la terre, Paris, 1907, pp. 82-3).  esempio la definizione della giustizia per me è la seguente :  La giustizia è la carità del saggio, o una carità conforme  alla saggezza. La carità non è altro clxe la benevolenza  generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità  è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di  perfezione, la perfezione è il grado di realtà.   Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le pas-  sioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno.  E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esat-  tezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre  le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo  di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra.   Ma per portare a termine un progetto di tanta impor-  tanza. il quale fornirebbe al genere umano una specie di  strumento così adatto a perfezionare la vista dello spirito  come gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà  molta meditazione ed un poco di assistenza.   (Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27).   È principalmente per attuare questo vastissimo progetto  che Leibniz propugnò durante tutta la sua vita la fondazione  di società di scienziati ed accademie. Il progetto rimase sem-  pre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi com-  piuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per  raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri " dalla cui  composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza uma-  na, è un metodo di scomposizione delle idee che troviamo di  fronte a noi già composte, partendo dalle loro definizioni (2).    (1) Data comunicatami dal prof. Ritter.   (2) Ecco la primitiva formulazione di questo metodo nella giovanile  Arte Combinatoria:    i L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si ri-  solva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi  si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini della  definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini indefinibili; poiché  „ non di tutte lo cose si deve ricercare la definizione » (*). E questi ultimi    (*) In greco nel testo: citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi dimostrazione. Co-  nosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun concetto, si  potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato  rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi ele-  menti costitutivi.   Di qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, nep-  pure da un angelo, finché noi non conosciamo i termini  costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità tutti  i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i ter-  mini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricer-  cato comprendono i mezzi che sono stati necessari per  produrlo.   (Initia et specimina scientiae generali 8, G. VII, 62).   termini non si comprendono più per definizione, ma per analogia (** (***) ). Tro-  vati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si indichino con  segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pon-  gano non solo lo cose ma anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini  composti variano in distanza dai termini primi, a seconda del numero di  termini primi di cui si compongono - cioè a seconda dell’esponente della  combinazione, - si facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in cia-  scuna classe si pongano i termini che constano di un ugual numero di ter-  mini primi. I termini sorti da una combinazione di due non si potranno  indicare altrimenti che scrivendo i termini primi di cui si compongono; c  poiché i termini primi sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che  indichino i due termini. Ma i termini derivati da una combinazione di tre  o anche da una combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono  nella classe terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi  diversi quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, con-  siderato non più come esponente, ma come numero Per esempio, siano   alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine com-  posto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es.  dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti  combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico  che quel dato termine della classe terza si può scrivere o cosi : 3. 0. 9,    (**) Per « analogia» Leibniz intende un modo di apprensione più imme-  diato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio un’ im-  magine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono coi  sensi.   (***) Questo significa che i termini semplici non si devono intendere so-  lamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono anche dati  astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini semplici  o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in proposito sempre in modo  vago e impreciso.  Criterio della  verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del sog-  getto; e questo rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale  criterio vale solamente per le verità di ragione ohe sono ana-  litiche. In esse sole il predicato è già contenuto nel soggetto,  poiché solo in esse tutto ciò che si afferma (predica) a propo-  sito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io dico  che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non faccio  altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qua-  lità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti)  fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma  posso io affermare che nel concetto di Giulio Cesare, per  esempio, sia già contenuta, a priori, l’azione di passare il  Rubicone? La proposizione: «Cesare passò il Rubicone» non  è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel sog-   esprimendo tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o,  in luogo degli altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 op-  pure 8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato  fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui numero  superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello inferiore  o denominatore il numero della classe. (*) È più comodo, nell’ indicare i ter-  mini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli intermedi, per  diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di scegliere quelli che più  facilmente vengono in mente a chi consideri quella determinata cosa. Ma  sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini primi. Stabiliti questi principi,  si possono trovare tutti i soggetti 0 i predicati, sia affermativi sia negutivi,  sia universali sia particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti 1  suoi termini primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai  primi, i termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque  il termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione  dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano,  o si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si conser-  verà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine dato è indi-  cato corno una composizione di composti, o in parte di composti, in parte  di semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo compongono  si può predicare anche del termine dato (**).... In tal modo sara facile inda-  gare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto  dato ».   (Ara Combinatoria, 1666, 0. IV, 64-6).   (*) P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del termine semplice 3 col ter-  mine composto che ha il quinto posto nella seconda classe; e cioò, secondo  la lista indicata sopra, con 6.9. La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine  composto 3.6.9.   (**) Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in cui  «iò che si predica del termine più generale si può predicare anche del parti-  colare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contin-  gente. Questa proposizione appartiene alle verità di fatto.   Ora, sarà possibile una dimostrazione rigoros.a in questo  campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice  calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato  fanno parte del complesso dei termini componenti il soggetto?  Leibniz dice a volte c he la dimo strazione, quanto alle propo-  sizioni di fatto, da solo IìT probabilità e non la (■ertezza. Ma egli  tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione  logica di queste verità, e di far rientrare anche esse nella re-  gola del predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli  si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le  verità di fatto. « I termini dell effetto ricercato - si è visto -  comprendono i mezzi necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, com-  prende già nella sua nozione tutte le cause che 1 hanno deter-  minato. E, reciprocamente, potremo dire che la nozione della  causa racchiude in sè già implicitamente tutti gli effetti cui  darà luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene alla  serie delle cause e degli effetti, ed è insieme effetto e causa,  si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se  le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli effetti cui  darà luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta- con-  terranno le loro cause e i loro effetti, e così via, lino alla causa  prima del tutto e causa di sè, cioè Dio; sicché ciascun singolo  dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con tutto  l’universo.   La conoscenza di tutti questi infiniti nessi causali è su-  periore alle forzi* dell ingegno umano, il quale perciò si  contenta di ricorrere alFesperienza del dato di fatto, rinun-  ciando a dedurlo dalle sue cause; sarebbe però, in linea di  principio, possibile.   Le proposizioni certe per sè stesse sono di due tipi; le  ime hanno la loro validità nella ragione — e cioè nel con-  tenuto dei loro termini e io le chiamo « note per sè stesse » ■  o anche « identiche »; le altre sono di f'atdoT e ci sì ma-  nifestano attraverso esperienze indubitabili; e tali sono  anche le testimonianze immediate della coscienza. Ma vera-  mente anche le proposizioni di fatto hanno le loro ragioni,  e perciò potrebbero essere risolte nella propria costiti!-    II. zione ( 1 ) : ma noi non potremmo conoscerle a priori attra-  verso le loro cause, se non conoscendo la totalità del-  l'universo (cognita tota serie renivi) : il che supera la forza  dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori,  sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire ri-  guardo a cose per le quali manchiamo di una sicura scienza,  è preferibile che almeno sappiamo di sicuro che una certa  proposizione è probabile.   ( Praecoynita <id Encyclopatdiam, G. VJI, 44).   L’apprensione per via sperimentale e il metodo della pro-  babilità derivano dalla imperfezione della conoscenza umana.  In linea di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può  avere una nozione analitica, a priori, tale che contenga in sè  già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gli effetti e le cause.   Il segno di una conoscenza perfetta si ha quando non  c'è nulla della cosa trattata di cui non si possa render  ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si  possa predile l'avverarsi.   (Frammento De la Hagense, G.VIJ, S3).   Ora, tale conoscenza a priori dei contingenti, se è impossi-  bile alla mente umana, non è impossibile a Dio che li ha scelti  e li ha messi in atto.   Di qualsiasi verità si può rendere ragione; infatti la  connessione del predicato col soggetto o è evidente eli per  sè, come nelle proposizioni identiche, oppure si deve spie-  gare, il che avviene con la scomposizione dei termini. E  l'unico c massimo criterio della verità, beninteso nelle pro-  posizioni astratte e non derivanti dall' esperienza, è di ri-  solversi nell' identità (ut sit rei identica vel ad identicas  revoca bilia). Di qui si possono dedurre gli elementi della  eterna verità e il metodo in ogni problema, purché si sap-    (1) Oioè potrebbero essere considerate come analitiche.  pia procedere in modo altrettanto dimostrativo che nella  geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a priori e  al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno  di esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in  modo adeguato, mentre da parte nostra quasi nessuna  cosa è conosciuta adeguatamente, poche a priori, e le più  per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di cono-  scenza si devono usare altri principi ed altri criteri.   (Ve Synthesi et Analysi universali, G. VII, 295-296).   Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione a  priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè come  predicati tutti gli altri contingenti che sono stati o saranno  in una qualsiasi connessione causale con essa: in una parola,  tutto il suo passato e tutto il suo avvenire. Ciò che erano i  termini semplici nella costituzione dei concetti di ragione, sono,  nelle verità di fatto, questa serie di cause e di effetti.   Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come sog-  getto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza indivi-  duale: essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua  comprensione, con gli infiniti suoi collegamenti, tutto l'uni-  verso .   Per distinguere le azioni di Dio e delle creature, viene spiegato  in che consista il concetto di sostanza individuale.    Poiché le azioni e le passioni appartengono propria-  mente alle sostanze individuali (actiones sunt mppo-  sitorum), sarebbe necessario spiegare che cosa sia u mutale  sostanza.   E pur vero che quando si attribuiscono piìi predicati  ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attri-  buisce come predicato a nessun altro, lo si chiama so-  stanza individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale  spiegazione non è che nominale. Bisogna dunque conside-  rare che cosa significhi l'essere attribuito veramente ad  un certo soggetto. Ora è evidente che ogni vera predicazione ha qualche  fondamento nella natura delle cose, e quando una propo-  sizione non è identica, quando cioè il predicato non è  compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia  compreso virtualmente (1) : ed è ciò che i filosofi chiamano  in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così oc-  corre che il termine del soggetto comprenda sempre quello  del predicato, in modo che colui che intendesse perfetta-  mente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il  predicato gli appartiene.   Posto ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza  individuale o di un essere completo è che la sua nozione  sia così compiuta, da bastare a comprendere e a farne  dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione  si attribuisce. Mentre l’accidente è un essere la cui no-  zione non comprende affatto tutto ciò che si può atti i-  buire al soggetto al quale si attribuisce questa nozione.  Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno,  facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza deter-  minata ad un individuo, e non comprende affatto le altre  qualità del medesimo soggetto, nè tutto ciò che è com-  preso nella nozione di quel principe; mentre Dio, vedendo  la nozione individuale o /«eccetto* d Alessandro, vi vede  nello stesso tempo il fondamento e la ragione di tutti i  predicati che gli si possono veramente attribuire, come  per esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a cono-  scervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di  morte naturale o per* veleno; cose che noi non possiamo  sapere se non dalla storia. Inoltre, quando si consideri bene  la connessione delle cose, si può dire che vi sono da ogni  tempo nell’ anima di Alessandro resti di tutto ciò che gli e    (1) Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è contenuto  nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso (espressamente). Nelle  proposizioni di fatto, invoee.il predicato è contenuto nel soggetto in quanto  collegato ad esso da una relazione di causa ad effetto (virtualmente). accaduto, e segni di tutto ciò che gli accadrà, perfino  tracce di tutto ciò che accade nell’universo; benché non  appartenga che a Dio di riconoscerle tutte.   ( Discours de métaphysiqtu:, 1080, § Vili).   A questa stregua possiamo dire che l’atto di passare il Ru-  bicone non si aggiunge alla nozione di Cesare come qualche  cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. Cesare, per chi in-  tenda, questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in  sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, compreso  l'atto di passare il Rubicone: il quale, quando si attuerà, non  sarà che la conseguenza necessaria delle cause che 1" hanno  prodotto, quindi lo sviluppo ili ciò che era già contenuto  in esse.   Libertà e causalità. - Sorge qui di nuovo, analogamente  a ciò che si è visto poc’anzi a proposito della determinazione  di Dio a scegliere il «migliore», il problema della libertà. Se  ogni fatto contingento è presente nella mente di Dio, non  cesserà esso di essere contingente ? Non sarà per ciò stesso ne-  cessario, predeterminato? E non cadrà così anche qualsiasi  libertà nell azione dell uomo, la quale si svolge nel campo  delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni responsabilità  umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo pro-  blema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa una  distinzione fra connessione necessaria e inclinante.    Poiché la nozione individuale di ogni persona comprende una  volta per tutte ciò che mai le accadrà, si redono in essa le prove a  priori dell' avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui  è avvenuta una cosa piuttosto che un'altra ; ina queste verità, benché  sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul libero ar-  bitrio di Dio o delle creature, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni  che inclinano senza necessitare.   Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che può  nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra.  Abbiamo detto che la nozione di una sostanza indivi-  duale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può  mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di essa,  come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le pro-  prietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con  ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le ne-  cessarie, che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una  fatalità assoluta venga a regnare su tutte le nostre azioni  come su tutto il resto degli avvenimenti del mondo. Al  che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che è  certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i  futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede;  ma non si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma,  si dirà, se qualche conclusione si può dedurre infalli-  bilmente da una definizione o nozione, essa sarà neces-  saria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve  accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente  nella sua natura o nozione, così come nella definizione del  circolo sono comprese le sue proprietà, la difficoltà sussiste  ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che la con-  nessione o consecuzione è di due specie : l’ una è assoluta-  mente necessaria, e il suo contrario implica contradizione  (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità eterne,  come quelle di geometria). L’altra non è necessaria che ex  hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sè stessa  è contingente: e ha luogo quando il contrario non implica  contradizione. E questa connessione è fondata non sulle  pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui  suoi liberi decreti e sull'ordine dell’universo.   Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare diverrà  dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la  libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua no-  zione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale  nozione perfetta di un soggetto sia di comprendere tutto,  affinché il predicato vi sia compreso, ut possit inesse sub-  jecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa no-  zione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa non gli conviene se non perchè Dio sa tutto.  Ma si insisterà che la sua natura o forma risponde a  questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto questa parte,  gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere invo-  cando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno  ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di  Dio, e poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma,  bisognerà in ogni modo che vi rispondano.   Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle con  l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà  a chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento di  applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che  ciò che accade conformemente a questi precedenti è sicuro,  ma non necessario: e se qualcheduno facesse il  contrario,  non farebbe nulla d’ impossibile in sé, quantunque sia im-  possibile (ex hypothesi) che ciò accada. Poiché, se qualche  uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimo-  strazione in virtù della quale potrebbe provare questa con-  nessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la  sua fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la  dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento nella sua  nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli  ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestar-  visi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la gior-  nata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e  perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò  fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario impli-  casse contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e si-  curo che Dio farà sempre il migliore, benché ciò che è  meno perfetto non implichi affatto contradizione.   Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo pre-  dicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei  numeri o della geometria, ma che essa presuppone l’ordine  delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondato  sul primo Ubero decreto di Dio - il quale comporta di fare   sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e sui decreto che Dio  ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura umana,  cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò  che parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su  questa specie di decreti è contingente, benché sia certa;  poiché questi decreti non cambiano affatto la possibilità  delle cose e, come ho già detto, benché Dio scelga sem-  pre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che  è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso,  sebbene non accadrà ; perchè non è la sua impossibilità,  ma la sua imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è  necessario, di cui sia possibile l’opposto.   Si sarà dunque in condizione di risolvere queste specie  di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse  non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le  altre che si sono mai riferite a tale materia), purché si  consideri bene che tutte le proposizioni contingenti hanno  ragioni per essere piuttosto così che altrimenti, oppure  (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a priori  della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano  che la connessione del soggetto e del predicato di que-  ste proposizioni ha il suo fondamento nella natura del-  l’ imo e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni  di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate che  sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,  cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugual-  mente possibili : mentre le verità necessarie sono fondate  sul principio di contradizione e sulla possibilità o impos-  sibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla  volontà libera di Dio o delle creature.   ( Discour « de métti physique, 1086, §X1II).   D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti per sal-  vare la libertà e la responsabilità in questa connessione causale  universale. Libertà non è sempre necessariamente un contrap-  posto di determinazione causale.  Quanto al libero arbitrio, sono dell' opinione dei tomi-  sti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia  predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però  non impedisce che noi abbiamo ima libertà esente non  solo dalla costrizione, ma anche dalla necessità: ed in ciò  la nostra situazione è analoga a quella di Dio stesso, il  quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché  non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se  egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico  possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Piu si è  perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più liberi  nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza  tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei  limiti della perfetta ragione.   (Lettera al Bayle, G. Ili, 58-9).   Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi in  rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in  sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di con-  seguenza che il loro legame sia sempre di una vera ne-  cessità. cioè che la verità la quale stabilisce che un fatto  è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo prin-  cipio che bisogna applicare particolarmente alle azioni  volontarie.   Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire  o di non uscire, il problema è se, con tutte le circostanze  interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impres-  sioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora in  istato di contingenza, o se io sia necessitato a scegliere,  per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposi-  zione vera ed effettivamente determinata: « in tutte queste  circostanze prese insieme io sceglierò di uscire », sia con-    (1) Il principio ohe il mondo sensibile sia retto dalla leggo di causalità  appartiene alla tradizione ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso la  scolastica. tingente o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente;  perchè nè io nè alcun altro spirito più illuminato di me  potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità impli-  chi contradizione. E supposto che per libertà il' indiffe-  renza & intenda una libertà opposta alla necessità (come  ho or ora spiegato), io accetto tale concetto della libertà.  Poiché sono effettivamente d'opinione che la nostra libertà,  così come quella di Dio e degli spiriti beati, è esente non  solo da coazione, ma anche da una necessità assoluta;  benché essa non possa essere esente dalla determinazione  e dalla certezza.   Ma io penso che in questo argomento sia necessaria una  grande precauzione, per non cadere in una concezione chi-  merica che urta contro i principi del buon senso: la quale  sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equi-  librio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che  io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che que-  sto legame di cui ho parlato, assolutamente parlando non  è punto necessario, ma che non jier questo è men vero;  e che in generale, ogni volta che. in tutte le circostanze  prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi carica  da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che que-  sto partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno  sempre il migliore conosciuto, e se un partito non fosse mi-  gliore dell'altro, essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro.  Nelle altre sostanze intelligenti, le passioni spesso terranno  luogo di ragione, e si potrà semine dire, riguardo alla vo-  lontà in generale, che la scelta segue la jiiù grande incli-  nazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le  ragioni vere o apparenti.   So bensì che qualcuno immagina che ci si determini  qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che  Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene,  e che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le  sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione che determini la  scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è uno  dei massimi principi del buon senso che nulla accada  senza causa o ragione determinante.   Così, quando Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del mi-  gliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il partito che l'avrà  colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede meno  utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è divenuto  piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per  analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non  per questo saranno meno determinanti, anche quando non  fossero concludenti. E non si troverà mai un esempio con-  trario a ciò.   Così, quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza  che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una indif-  ferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni determi-  nanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci la sce-  gliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e  sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non  vi sia portato necessariamente (se non per mia necessità  morale), noi siamo sempre portati infallibilmente a ciò  che ci colpisce di più, ma non necessariamente. Poiché  il contrario non implicava alcuna contradizione, non era  punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché  nè che creasse particolarmente questo mondo: benché la  sua saggezza e la sua bontà ve lo abbiano indotto.   (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).   Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile  pensare che la previsione dei predicati contingenti da parte-  di Dio non contraddica alla libertà. P reveder e non significa  predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale  soiuTdpaT contenute determinate azioni col carattere di li-  bertà. Nello sceglierle, egli non le crea nè le determina: non  fa che metterle in azione, attualizzare la loro possibilità. Nel  farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali mantengono,  nella serie attuale come in quella possibile, la loro caratteri-  stica di libertà.    Dio inclina la nostra anima senza necessitarla ; non si ha il diritto  di lamentarsi, e non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma  solamente perchè il peccatore Giuda sia ammesso all' esistenza a pre-  ferenza di altre persone possibili. Imperfezione originale prima del  peccato e gradi della grazia.   Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono  moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo  esporre qui. Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire  all' ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle nostre  azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite;  egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro es-  sere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente  o liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della  nostra sostanza individuale, nella quale essi si potevano  prevedere fin dall’eternità. In più, in virtù del suo decreto  secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente,  esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti  particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha  sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra  alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza però ne-  cessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell’ in-  differenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed ha  il potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto  la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rima-  nendo possibili.   Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sor-  prese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare  riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate oc-  casioni, se non dopo aver maturamente deliberato, fi vero  però, ed anche è assicurato da tutta f eternità, che qualche  anima non si servirà affatto di questo potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri  che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum  sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum.  Ora quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe mo-  tivo di lagnarsi di Dio come se egli la determinasse al  peccato? Essendo le determinazioni di Dio in questa ma-  teria imprevedibili, d’onde sa essa di essere determinata  a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?  Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe pro-  porre condizione più agevole e piii giusta; così tutti i  giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto un  uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a consi-  derare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse  è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete  voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che voi non  potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite  seguendo il vostro dovere, che conoscete.   Ma qualche altro dirà : D onde consegue che quest'uomo  commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è  facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché  Dio vede dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui  nozione o idea posseduta da Dio contiene questa azione  futura libera. Non resta dunque se non questo problema:  perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non possibile  nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda  non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in gene-  rale si deve dire che, poiché Dio ha trovato giusto che  Giuda esistesse nonostante il peccato che egli prevedeva,  bisogna che questo male si compensi ad usura nell - universo,    che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma questo  ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è com-  presa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili (1).    (1) Questo concetto del male come parte integrante e necessaria dell’ar-  mnnia universale, sarà il tenia fondamentale della Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa  scelta, non si può, durante il nostro passaggio su que-  sto mondo; e basti saperlo, senza comprenderlo. Questo  è il momento di riconoscere altitudinem divitiarum, la  profondità e l’abisso della saggezza divina, senza voler  sviluppare problemi di dettaglio, che implicano considera-  zioni infinite.   Si vede però bene che Dio non è la causa del male.  Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza degli  uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima,  ma ancor prima vi era una limitazione o imperfezione  originale connaturale a tutte le creature, che le rendeva  soggette al peccato e capaci di errare. Così non vi è mag-  gior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che riguardo  agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opi-  nione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del  male sia nel nulla; cioè nella privazione o limitazione delle  creature, alla quale Dio rimedia graziosamente col grado  di perfezione che gli piace di dare. Questa grazia di Dio,  sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue misure,  è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo effetto  proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non  solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla  salvazione, supponendo che l’uomo si unisca ad essa per  quanto dipende da lui. Ma essa non è sempre sufficiente  a superare le inclinazioni dell' uomo, perchè altrimenti egli  non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla sola grazia  assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che lo  sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.   (Discount de mélaphysiqne, 1 080, §XXX).    (I) L supralapsari sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeter-  minazione divina si esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra  lapsum, prima della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato  compiuto per un atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua concilia-  zione di predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema,    4. — Leibniz, La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità, libortà, previsione  predeterminazione, che rientrano piuttosto nell’ambito della  Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V universalità della  sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni che rac-  chiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un particolare  punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il proprio  avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto l'universo;  raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione to-  tale, complessiva del tutto.   E d'altra parte conserva tutta la sua individualità. 11 punto  di partenza è sempre il singolo dato di tatto, specifico, parti-  colare, contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane ben  chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo svolgentesi al-  I' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali. Rimane  e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di percor-  rere ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E d’altra  parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di partenza.  Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di fatto,  cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da un  diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’uni-  verso è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di  esso: ma da ciascun particolare si ha la possibilità di risalire  alla totalità nel suo complesso. In questa unione di particolare  e universale nella sostanza individuale, sta la prima grande  scoperta di Leibniz, il nu cleo fon damentale del concetto di  monade. Un altro campo del! attività di pensiero loibniziana è la filo-  sofia della natura; campo ben distinto da quello che si è visto  fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt’altro genere.  I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con quelli  dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza o meno  degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, del-  l’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di questi  problemi dai principi generali della sua filosofia metafisica:  li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi propria,  seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo di  ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di  ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate  soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto  con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così a  sintesi sempre più ricche e comprensive.   La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz nella  filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla giova-  nile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E  nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fon-  damentali in questo campo. Egli comincia come atomista, al  seguito del Gasa elidi (1592-1G65), il quale rinnovava le dottrine  di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti  i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli  atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa  teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità. È questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica  non solo alla considerazione della materia, ma anche a molti  altri aspetti della sua speculazione. Per esso non esistono arresti,  interruzioni, distacchi nello sviluppo delle cose. Per esso natura  non facil saltus. Applicato alla considerazione logica del mondo  sensibile, questo principio è il fondamento del passaggio inin-  terrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto alla causa, senza  ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione -  nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo princi-  pio tutto il mondo è comiesso in tutte le sue parti; sì che dal-  ì’una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare a  qualsiasi altra.   Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie grandi mas-  sime, e delle più ricche di applicaziomi, è che la natura  non fa mai salti : 1' ho chiamata legge della continuità;....  e l’uso di questa legge è molto importante nella fisica:  essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e  viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti,  e che mai mi movimento nasca immediatamente dal ri-  poso, nè vi giunga se non attraverso un movimento più  piccolo; che non si possa mai finire di percorrere alcuna  linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea più  piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora  le leggi del movimento, non abhiano affatto osservato  questa legge, credendo che un corpo possa ricevere in mi  istante un movimento contrario al precedente. Tutto ciò  permette di stabilire che anche le percezioni evidenti^de-  rivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per  essere osservate. Giudicare altrimenti significa non cono-  scere a sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle cose, che  implica sempre e ovunque un infinito attuale.   (Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione. G. V, 49).   Applicato alla considerazione del mondo materiale, il principio  di continuità stabilisce che la materia è divisibile all’ infinito,  e che non è possibile concepire un arresto in questa divisibilità,  o pensare un elemento che sia indivisibile e possa rappresentare  un punto ili partenza per la costituzione dei corpi. Viene così  a cadere la dottrina dell’ atomo (1) come elemento primo e  semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della  materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è  concepito come composto di parti.   Poiché il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo  sarà, in certo modo, come un mondo di infinite specie,  e vi saramio mundi in mundis in infinitum.   ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti, 1671, G. IV, 201).   Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali  e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non  contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso at-  tualmente all' infinito.   (lettera al Burnott, 1699, G. Ili, 250).   Il movimento. La materia, dunque, non è formata di  atomi: è divisibile all’infinito, continua, omogenea, tale che  mai si potrà arrivare all’elemento più piccolo di essa. D’altro  lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva Car-  tesio (2). Tale concezione, che terrebbe conto nella materia dei  soli elementi geometrici e la considererebbe solo in funzione  dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La ma-  teria è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza,  movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza.   Che la natura normale della sostanza corporea sia co-  stituita dall’estensione, mi pare sia affermato da molti con  grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente,  non derivano dal l’estensione nè il movimento o azione,  nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura  che regolano il movimento e l’urto dei corpi. E veramente  il concetto dell'estensione non è primitivo, ma risolubile   (1) "ATOfioq significa appunto indivisibile.   (2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,  prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio spi-  rituale) e ree exietcne (principio della materia).  in altri. Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un  tutto continuo in cui coesistano vari elementi. E, per dir  tutto, all estensione, il cui concetto è relativo, è necessario  qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come nel  latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce  l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso  sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con  lo Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni  naturali e matematiche), cho spazio vuoto e pura esten-  sione siano un solo e medesimo concetto: nè, a mio giudi-  zio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono spiegarsi con la  pura estensione, ma solo con un soggetto dell’ estensione il  qualo non solo determini, ma riempia anche uno spazio.   (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm, prima  del 1692, G. IV,   I)a che cosa derivano, ora, queste qualità della materia?  Questa azione, questa resistenza etc., in cui consiste l’essen-  ziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa derivare tutte  le qualità della materia dal movimento.   La materia prima è la massa stessa, nella quale non è  nuli altro che estensione e àvTiTtmta, ovvero impene-  trabilità: ('estensione le deriva dallo spazio che riempie;  ma la vera natura della materia consiste nell'essere alcun-  ché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza  tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova  (dato che l’uno dei due deve cedere). Questa massa con-  tinua che riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri-    ti) Cristiano Huvobns (1629-1695) grande scenziato olandese, autore  della teoria ondulatoria della luco e primo applicatole del principio del pen-  dolo alla costruzione degli orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente  influito sullo sviluppo dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c cor-  rispondenza dura da iranno della loro conoscenza a Parigi (1672) finn alla mor-  te della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di Huygens  sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della materia.   (2) Antitypia è il termine usato da Leibniz por indicare la compattezza e  impenetrabilità della materia.  mangono in quiete, è la materia prima, dalla quale ogni  cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto  si dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe’  infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità, se  non vi fosse il movimento....   Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo  che la forma non sia altro che figura, troveremo di nuovo  una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è il  limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della  materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari  limiti nella materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità  delle parti, dato che (piando le parti sono discontinue,  ciascuna di esse ha termini separati (infatti Aristotele de-  finisce i continui come quelli il cui limite è uno (1)); ma  la discontinuità, in quella massa inizialmente continua, può  essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme an-  che la contiguità, il che ha luogo quando avviene una se-  parazione fra le parti, in modo che si produca un vuoto;  oppure conservando la contiguità, come quando le parti,  pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in direzioni  diverse: così per esempio due sfere, comprese l una nell'al-  tra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia ri-  manere contigue cessando di essere continue. Di qui è  chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discon-  tinua o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser  state create contemporaneamente alla materia; se invece  la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme   sorgano dal movimento perchè dal movimento deriva   la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai li-  miti delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi  dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che  ogni tendenza alla forma è movimento: e questa è la so-  luzione della contrastata questione sull’origine delle forme...    (1) lu greco nel tosto: uv Tà cacata sv.    Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti  si enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: ge-  nerazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione,  e mutamento di luogo o movimento. I moderni ritengono  che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso  il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto  all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di quan-  tità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo  e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare attraverso  il movimento la generazione e la corruzione e l’ altera-  zione.... E tanto la generazione e la corruzione quanto  l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile movi-  mento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che  riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno  bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli  specchi; e questa è la ragione per cui la spuma dell’acqua  è bianca, constando di innumerevoli bollicine che sono al-  trettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori derivano  dal semplice mutamento di figura e di situazione nella  superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne  avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qua-  lità. E invero, se le qualità mutano a causa del solo movi-  mento, per ciò stesso muterà anche la sostanza: mutati  infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di essi) si  elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce  o il calore, avrai eliminato il fuoco.   (Lettera al Thomasius, 1669, 6. J, 17-19).   Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza  il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua  solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia.  Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu  consistenliam quiescentis ».   Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione, sembrando  a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io  sono di opinione contraria : questo glutine è il movimento.  .... Ciò che è in quiete è spazio vuoto.   (Lettera ali’Oldenburg, 1671, Ale. II, I, 166-7).   Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore o  minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda  perchè i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: af-  fermo che non si deve cercare altra causa di ciò se non  nel fatto che queste parti stanno o si muovono insieme.  Si muovono insieme perchè in una così grande varietà di  movimenti generali in tutta la massa complessiva era in  ogni modo necessario che alcune parti si allontanassero  di molto dalle loro vicine, altre poco in paragone. E la  medesima causa che ha fatto sì che queste parti poco o  nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche sì che  esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la  causa permane. La causa è la combinazione stessa dei mo-  vimenti generali : e i movimenti generali permangono sem-  pre. Li turba dunque chi muti improvvisamente un qual-  siasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta  la natura consente. Ne deriva chiaramente che la pres-  sione esterna è la causa prima della solidità, e che la  quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa  prossima, ma soltanto quando deriva da una causa esterna  permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la  quiete o il movimento cospirante costituiscono il corpo  solido, analogamente il movimento vario delle parti costi-  tuisce il liquido. E questo è il principio della diver-  sità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono più  densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti so-  lide più grandi. Questa tesi è anche confermata dal-  l’esperienza.    (Lettera a Onorato Fabri, 1677, G. IV, 250).      li. «conatcs». — Il concetto di materia dun que si dissolve in  quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora, tale creazione di  materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del movi-  mento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?  Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi,  avendoli già negati in nome del principio di continuità. Egli  modifica il suo punto di partenza, rendendolo privo di esten-  sione: considerandolo non più come la particella più piccola  di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa),  ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso.  In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine del-  lo Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e  l’ inizio derTìTTTvtrnrnto.   Vi sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti non sa-  rebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento cor-  poreo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ ini-  zio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento   0 di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare   1 inizio, indicato da una linea ab il cui punto mediano  sia c, e il mediano fra a e c sia d, e quello fra a e d sia e,  e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte sinistra, verso il  lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può to-  gliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli  si può togliere ed, e così via; non si può mai dunque  considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualche  cosa dalla parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna  estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio del corpo, o dello  spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto, il  conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è  inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che  non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le  parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti  non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è  da considerarsi, è inassegnabile, è minore di qualsiasi gran-  dezza die possa avere un rapporto non infinito con una  altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna-       Iòle: e ciò è il fondamento del metodo di Cavalieri (1) e  dimostra in modo chiaro, la verità di quel suo principio  per il quale si concepiscono dei rudimenti, per così dire,  o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi asse-  gnabile....   11 conatus sta al movimento come il punto allo spazio,  cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine del  movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debol-  mente, sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propa-  gherà il conatus all ’ infinito per tutto ciò che gli si op-  pone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a  tutte le altre cose : nè si può negare che, quando anche  cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e per-  ciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un  inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, an-  che se venga superato da questi ostacoli. Così in cia-  scun corpo vi possono essere contemporaneamente più conati  contrari....   Nel tempo di una spinta, di un urto, di un incontro, i  due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero sono  nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due  corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo  dell altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a  penetrare in esso, a unirsi con esso. Infatti il conatus è  inizio, penetrazione, unione; quei due corpi sono perciò  all inizio dell unione, cioè i loro estremi si uniscono:  dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.  Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui ter-  mini sono uno (2), sono continue o coerenti, anche pel-    li) Bona vkstuka Cavai.ihri (1598-1(147), autore della Geometria indivisi-  hiliurn. ebbe, eoi suo concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero  matematico di Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il principale  precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al  Newton.   (2) In greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55.    definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un solo  luogo, l’una non può essere spinta senza l’altra.   (Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti, 1071, (i. IV, 228-30).   Corpo e spirito. — il conatus è dunque, per così dire, l' ini-  zialo punto di contattoTra “materia e movimento: l'atto in  cui il movimento, applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna  I' inizio del corpo. Ma che cos’ò il movimento rispetto alla ma-  teria, se non un principio spirituale?   La lisica tratta della materia e della unica affezione  risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè  del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una  figura e situazione delle cose buona e a lui gradita, for-  nisce alla materia il movimento. Infatti la materia di per  sè è priva di movimento. Principio di ogni movimento è  lo spirito.   (Lotterà al Thouiasius, l(i(iU, U. I, 22).   Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto  al concetto di conattie . in esso egli fa consistere il principio  dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello spazio,  dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma di  memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito  come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto  allo spazio.   Nessun conato senza movimento dura più di un istante,  se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante  è il conato, quello è nel tempo il movimento del corpo:  qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso la vera  distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata  spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens momen-  tanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi  di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario ;  due elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al  piacere o al dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi Y ar-  monia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso  delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio).   (llypothesis physica nova, Theoria motus abxtracli, 1671, (!. IV, 230).   Come le azioni del corpo consistono nel movimento,  così consistono le azioni dello spirito nel conatun o, per  così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche  lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto  dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo,  per parlare popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo  spirito dev'essere nel luogo d : incontro di tutti i movi-  menti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato  che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro,  prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso,  e ne conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito  sia in un luogo in cui tutte le linee della vista, dell’udito  e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi dessimo  allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sa-  rebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò  non sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e  così non potrebbe anche riflettersi su tutti i suoi elementi e  le sue azioni. Eppure in ciò consiste proprio l’essenza dello  spirito. Posto dunque che lo spirito consista in un punto,  è indivisibile e indistruttibile. Da questi principi e da altri  ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose riguardo  alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di tutti  gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora aveva  pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto  la verità della religione, della provvidenza divina, dell im-  mortalità della nostra anima e la possibilità di molti su-  blimi misteri (come quello della giustizia divina, della  predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed io  spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più  chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano l’ateismo  oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.   (Lettera al duca ili Hannover, 1671, f!. I, 52-53).   Da questo contatto fra sostanza spirituale e materiale nel  conatus, Leibniz trao le sue prime conclusioni verso la fun-  zione della spiritualità nel mondo fisico, e 1 importanza dello  spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e materiale.   Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento  nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non  può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga  lo spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito  agisce su sè stesso, che nessuna azione su sè stesso può  essere movimento, che l'azione ilei corpo non è se non il  movimento, e che quindi lo spirito non è corpo. Che lo  spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è indi-  visibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro con-  corrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito  tutte le impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque  lo spirito è un piccolo mondo concepito in un punto, il  quale consiste delle proprie idee così come il centro con-  siste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte del centro,  nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere  spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.   (Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il).    La conservazione della forza. — Queste sono le teorie  fisiche del giovane Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che  egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza  dei corpi, e lo sostituisca con quello di forza.   Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza della  quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movi-  mento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da  un altro, sì ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre  costante: intendendo per quantità di movimento il prodotto  della massa per la velocità. Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane costante  non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza viva   0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa per  il quadrato della velocità.   Quale sia la portata di questa scoperta nel campo fisico,  non è il caso qui di notare. Per intendere l'uso che Leibniz  ne farà in questioni filosofiche e metafisiche bisogna osservare  che I azione motrice non rappresenta più come la quantità  di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un luogo  ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato ef-  fetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata  altezza. Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si  chiama energia.   In generale la forza assoluta deve essere stimata per   1 effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto  violento ciò che consuma la forza dell'agente, come, per  esempio, imprimere una certa velocità ad un corpo dato,  elevare un corpo determinato ad ima determinata altezza,  etc. E si può giudicare comodamente la forza di un corpo  pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesan-  tezza per 1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in  virtù del suo movimento.... Quando un corpo pesante ha  progredito discendendo liberamente, ed ha acquistato im-  peto o forza' viva , le altezze a cui questo corpo potrebbe  allora arrivare non sono affatto proporzionali alle velocità,  ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel  caso della forza viva le forze non sono affatto come le  quantità di movimento, o come i prodotti delle masse  per le velocità....   Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la  forza viva assoluta - quella determinata dall'effetto violento  che può produrre - che si conserva, e non già la quantità  di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai  aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa,  oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi  movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la forza potesse dimi-  nuire, essa perirebbe alla line completamente perchè, non  potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, an-  drebbe via via decadendo : il che è senza dubbio contrario  all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo conferma....   Adesso mi piace di guardare la questione da un altro  punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di  qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento,  cioè la conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la  regola generale che io stabilisco. Qualunque cambiamento  possa accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il  loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concor-  renti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione  motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, v i  deve essere durante questa ora tanta azione motrice nel-  T universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in un  sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora  qualsiasi.   Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la va-  lutazione deh' azione motrice, tutta diversa da quella della  quantità di movimento, intesa la quantità di movimento  secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione  motrice possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 ef-  fetto formale del movimento. Tale effetto formale o essen-  ziale al movimento consiste in ciò che è cambiato dal mo-  vimento, cioè nella quantità della massa trasportata, e  nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa  è trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento,  o il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo  era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza  è tanta....   Bisogna ben distinguere quello che io chiamo 1 effetto  formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato  più sopra l' effetto violento. Poiché 1 effetto violento con-  suma la forza e si esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in  sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva:  poiché la medesima traslazione della medesima massa si  deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non F im-  pedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute sono  come gli effetti violenti che le consumano, ma non già  come gli effetti formali.   Ora sarà più facile d' intendere che cosa sia F azione mo-  trice: bisogna diuique stimarla non solo per l’effetto for-  male che essa produce, ma anche per il vigore e la velocità  con la quale essa lo produce. Si vogliono far trasportare  100 libbre alla distanza di un miglio; questo è l’effetto  formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora,  un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia  di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su ili  un medesimo effetto....   Questa definizione dell azione motrice si giustifica ab-  bastanza a priori, perchè è chiaro che in un' azione pura-  mente formale presa in sè stessa, come è qui quella di  un corpo in movimento considerato a sè, vi sono due punti  da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato, e  la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che  colui che produce il medesimo effetto formale in minor  tempo, agisce di più.   (Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21).   La forza come attività. — La forza, l’energia, è dunque  sostituita al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva trasla-  zione dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta il centro  della attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su  ciò che contiene già in sè - per così dire - il movimento allo  stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà  a favore della forza. La forza viene considerata come assoluta  e il movimento come relativo.   Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di  assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa  dell’ente di ragione, e non sono veri e reali per sè stessi,  ma solo in quanto attributi divini involventi 1* immensità,  l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ise con-  segue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel tempo,  che il movimento separato dalla forza, cioè quando non  si considerino in esso se non le caratteristiche geometriche,  cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è  altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movi-  mento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice rela-  zione-, il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando  definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze  di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne  le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le  regole del movimento come se il movimento fosse qualche  cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che,  quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è pos-  sibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi  sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete;  ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in  quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori.   (Specimen Dynamicum, parte 11, M. VI, 247).   1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto  di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara  impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti  giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realiz-  zazione.   Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi  è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima del-  l’estensione : la forza della natura, riposta ovunque dal-  l’autore supremo, la quale non consiste soltanto in una  semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scola-  stici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il  suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri  sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per via ra-  zionale ovunque nella materia, anche là dove non è evi-  dente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire  a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia im-  messa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1' intima  natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze,  e l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non  indica altro che la continuazione o diffusione di una so-  stanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè resista.  Nè importa che ciascuna azione corporea derivi dal mo-  vimento, e il movimento non derivi se non da mi altro  movimento esistente già da prima in quel corpo o im-  pressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il  tempo) non esiste mai, a considerare la cosa rigorosamen-  te; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti coe-  sistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid  istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento.  A ciò dimque si riduce tutto ciò che è nella natura cor-  porea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al di  fuori deH’estensione.   (Speri intra Jji/namicum, M. VI, 235).   11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva  clic supera, la materialità ed ha carattere spirituale.   Tò Su o ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva  e attiva. La forza passiva costituisce propriamente la ma-  teria o massa, quella attiva la entelechia (5) o forma. La  forza passiva è la resistenza stessà^per la quale il corpo  resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al mo-    li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine usato  da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz lo riprende  per definire l’aspetto attivo della sostanza e della monade. Questo termine  6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili monade. C’fr. Monadologia,  §§ 18, 48.  vimento. e per la quale avviene che un altro corpo non  possa subentrare al suo posto senza che esso ceda: d altra  parte, esso non cede se non ritardando alquanto il mo-  vimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseve-  rare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da  non scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a  ciò che tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o  masse: la prima, quella che chiamano antitypia o impene-  trabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia  naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del  suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi  non accolgono un nuovo movimento se non per forza, e  perciò resistono al corpo che li preme e ne indeboliscono  la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo, oltre all'esten-  sione, non vi fosse tò Su jo gtxó , cioè il principio delle leggi  del movimento, per il quale avviene che la quantità delle  forze non può essere aumentata, e che un corpo non può  essere spinto da un altro corpo se non diminuendo la  forza di quello/   La forza attiva, che si suole anche dire senz altro forza,  non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della  scuola, cioè come ima recettività di azione, ma implica  un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché, se non  vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propria-  mente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola:  una tale potenza infatti comprende 1 atto, nè permane una  semplice facoltà, benché non sempre proceda direttamente  all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone un im-  pedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice,  primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La  forza attiva primitiva, che vien chiamata da Aristotele  la prima entelechia (è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio  comune forma della sostanza, è il secondo principio na-  turale che, insieme con la materia o forza passiva, costi-  tuisce la sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come  per esempio vi è grande differenza tra un animale e un  gregge di animali. E perciò questa entelechia è o un'anima,  o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre attua na-  turalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse  preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontana-  tane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un ag-  gregato di molti, insomma un artificio della natura....   La forza derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus,  cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un qualche  movimento determinato, attraverso il quale la forza pri-  mitiva o principio dell'azione viene modificato. Quanto a  questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la  medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia di-  stribuita in piìi corpi, rimane sempre nella medesima  quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso,  la cui quantità non si conserva..,.   A stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte  ragioni, e principalmente l'esperienza stessa, la quale mo-  stra che nella materia vi sono movimenti i quali devono  bensì essere attribuiti originariamente alla causa univer-  sale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e speci-  ficamente devono essere spiegati attraverso la forza posta  da Dio nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione  ha dato ai corpi una legge di aziono, non è altro se non  dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui quella  legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso  procurare continuamente per via straordinaria l'osservanza  di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa che  ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato  ad essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che  la forza derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale,  perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste  in qualche modificazione di alcunché di pexsistente, o me-  glio di assoluto. Come la figura è in certo modo una limitazione o mo-  dificazione della forza passiva o massa estesa, così la forza  derivativa e l'azione motrice è in certo modo una modifi-  cazione non già di qualche cosa di puramente passivo  (altrimenti la modificazione o limite conterrebbe più realtà  di ciò stesso cho è limitato), ma di qualche cosa di attivo,  cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza derivativa e  accidentale o mutevole sarà una qualche modificazione della  vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi sostanza  corporea. Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun prin-  cipio attivo sostanziale modificabile nel corpo, furono co-  stretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a trasferire  l'azione nel solo Dio: un Deus ex machina, principio tut-  t' altro che filosofico.   ( Frammento del 1702, >1. VI, 100-103).   Valore metafisico della forza. Questa entelechia, que-  sta forza di qui è formata la materia, che ne costituisce anzi  la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo all'anima.   La materia ha essenzialmente in sè il principio del mo-  vimento, ma secondo me ciò non si deve intendere se  non nel senso che vi sono delle anime nella materia, le  quali sono indivisibili e indistruttibili.   (Lettera al Burnett, 1704, G. Ili, 200).   E questo principio delTanimazione della materia che spinge  Leibniz ad una considerazione del mondo corporeo diversa da  quella puramente meccanica: che gli fa vedere in esso, attra-  verso il principio spirituale, un elemento finalistico e, attra-  verso questo, la mano di Dio.   Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto  avviene meccanicamente nella natura e che, per rendere  una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno par-  ticolare (come per esempio della pesantezza o della ela-  sticità), bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento  sorgono a mio parere da alcunché di superiore, che dipende  piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e che non  si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito  lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella na-  tura, oltre alla nozione di estensione, convenga impiegare  quella di forza, che rende la materia capace di agire e di  resistere. E per forza o potenza non intendo il potere o la  semplice facoltà; che non è se non una possibilità pros-  sima di agire e che, essendo come morta, non produce  neppur mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori  Ma intendo qualche cosa di mezzo fra il poterete l’azione  che implica imo sforzo, un atto, un’entelechia, poiché la  forza passa per sua virtù all" azione finché nulla ne la  impedisce. Questa è la ragione per cui io la considero  come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa il  principio dell azione che della sostanza è il carattere  essenziale(^l)   Così io vedo che la causa efficiente delle azioni fisiche  deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto  lontano da coloro che non riconoscono nella natura se  non ciò che è materiale o esteso, e che perciò si rendono  sospetti con qualche ragione presso le persone pie. Ri-  tengo pure che il concetto del bene o della causa finale,  I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa  anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni  naturali; poiché l'autore della natura agisce secondo il  principio dell ordine e della perfezione, con una saggezza  alla quale nulla si può aggiungere: e ho mostrato altrove,  a proposito della legge generale dell" irraggiamento della  luce, come il principio della causa finale basti spesso a  scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia trovata  la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi. Tì)   (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee», primo  abbozzo, 1(395, G. IV, 472).  La vera scienza tìsica deve essere tratta dalle sorgenti  ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l' ultima ragione delle  cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle scienze,  così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi  delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità della  filosofia, tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi  finora sono riusciti a dedurre, dalla considerazione delle  proprietà divine, verità di qualche importanza nella scienza.  Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti da questi  esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione in  essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teo-  logia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si  debbano rifiutare le cause finali e la considerazione di uno  spirito sapientissimo che agisce secondo bontà (onde la  bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie o soltanto re-  lative a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella, di  Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece, dalla conside-  razione dello spirito, si possono dedurre principi essenziali  della fisica.   (Principium quoddam generale, M. VI, 134).   In questa organizzazione divina del mondo noi vediamo la  forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più atomi  corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e indivisibile,  ma privo di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali  stanno al confine fra materia e spirito, potendosi sviluppare  in ambedue le direzioni ; e racchiudono in sé una forza che  permette loro una spontaneità di sviluppo verso l’universale.  In tale spontaneità e attività consiste il carattere spirituale  degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina al-  l’ anima e all’ io.   Poiché è necessario che vi sieno nella natura corporea  delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe affatto    (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della bontà e dell’ar-  monia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per Spinoza invece la bontà  è un rapporto della creatura individuale alla Sostanza assoluta, cioè Dio.  Tri    molteplicità uè aggregati, bisogna che ciò che costituisce  la sostanza corporea sia alcunché di rispondente a ciò che  si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e tuttavia  agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza parti,  non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,  sarà qualche cosa di sostanziale.   (Syitcmc un uveali, primo abbozzo, I 695, G. IV, 47ii).  Costituzione e funzione della monade. - Si sono stu-  diati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della filo-  sofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e il  principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il primo,  derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo dal  rigoroso pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione  di questi due principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi  hanno in comune è il fatto di racchiudere ambedue in sè, allo  stato potenziale, un infinita possibilità di sviluppo: la sostanza  individuale, punto di partenza di una catena di causo e di  effetti che racchiude nelle sue maglie il passato e l’avvenire  di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo corporeo, forza  capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo carattere  spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità. Dei  due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente lo-  gico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di uni-  versalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro  manca: e la monade sarà un principio spirituale e universale  insieme, ma pur concreto, tale che di esso consti effettiva-  mente il mondo esistente. La monade è « l’atomo della natura  e 1 elemento delle cose ». Ad essa vengono dati da Leibniz  nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc., a seconda delle  varie occasioni in cui ne parla.    (1) Monade ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato  anche da Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è  però sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo di Epicuro, benché fornito di parti, è ima  cosa unita nel suo interno, mentre l'anima, quantunque  senza parti, racchiude in sé un gran numero, o meglio un  numero infinito di varietà, per la molteplicità delle rap-  presentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappre-  sentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto.   ( Osservazioni al dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 544).   Le monadi sono i principi primi c più semplici onde è  costituito il mondo: non sono materiali, ma da esse deriva  tutta la materia: sono individuali, molteplici (in quanto sono  sempre punti di vista particolari presi sull’universo, e i punti  di vista possono essere infiniti); e d’altra parte ciascuna rac-  chiude in sè una visione del tutto.   L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivi-  sibile e indistruttibile per natura, poiché la sua nozione  involve tutto ciò che gli deve accadere; e ciò non si po-  trebbe trovare nè nella figura nè nel movimento, che im-  plicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario - come  potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale, sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono  questi i soli veri esseri compiuti, come avevano ricono-  sciuto gli antichi e soprattutto Platone, il quale ha ben  chiaramente mostrato che la sola materia non è in sè  sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto,  o ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale,  non può essere nè fatto nè disfatto dall'avvicinamento o  dall'allontanamento delle parti, procedimento puramente  esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire preci-  samente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre  quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a  darci qualche conoscenza delle altre per analogia.   (Lotterà all' Arnauld, 1086, G. 11, 76-7).   Non so se sia possibile spiegare la costituzione dell' anima  meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità  esprime tuttavia la molteplicità, cioè i corpi, e che li  esprime il meglio possibile secondo il suo punto di vista  o il suo rapporto ; 3.° che così essa è espressiva dei fenomeni  secondo le leggi metafisico-matematiche della natura, cioè  secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla ra-  gione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una imitazione  di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che essa  è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto  attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle  distinte, essa e limitata. Invece tutto è distinto nella so-  stanza sovrana, dalla quale tutto emana, e che è la causa  ilcll esistenza e dell ordine e, in una parola, l'ultima ragione  delle cose. Dio contiene 1 universo eminentemente, e l'anima  o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo specchio  centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche  dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti  questi mondi si accordano e sono rappresentativi dei me-  desimi fenomeni, secondo rapporti differenti; e che questa  è la maniera più perfetta di moltiplicare gli esseri quanto  è jiossibile, ed il meglio possibile.   (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72).   Il concetto di sostanza individuale è stato formulato da  Leibniz por la prima volta nel Dìscours de Méta physìque del  1686. La parola monade è introdotta da lui nel 1696. Verso  il mezzo della sua vita, cioè, egli è giunto in possesso dell’ele-  mento fondamentale onde per lui è costituito il mondo. Tro-  vato questo, il problema che gli si pone è di spiegare, attra-  verso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come  nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della  scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il  pensiero umano, e poi, attraverso la varia combinazione di  essi, formare di nuovo ogni possibile concetto, così ora un’ in-  dagine analitica nel campo logico, fisico, metafisico, ha condotto  alla nozione di monade come sostanza semplice, costituente il  mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso  sia spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i  diversi aspetti delle monadi.   Inizio e fine della monade. - Donde nasce la monade?  Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino?   Noijl è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi  ente naturale: essere prodotta significa sempre in qualche modo  essere causala ; c, poiché essa comprende già in sé tutta la  serie infinita delle causo e degli effetti, non si può attribuirle  una causa al di fuori di sé stessa: qualsiasi sua causa sarebbe  sempre compresa nel suo interno. Analogamente, non è con-  cepibile neH’ordine naturale la fine della monade; implicando  tale fine un interruzione nella serie delle cause e degli effetti,  che è invece continua e infinita. L’origine e la fine delle monadi  deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell' universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno ori-  gine: sono nate insieme con l’universo stesso, sono concreate  ad esso; e il creatore di esse è il medesimo creatore deH'uni-  verso: Dio.    Quanto all' inizio e alla fine di queste forme, anime, o  principi sostanziali, bisogna dire che esse non possono avere  origine se non dalla creazione, e non possono aver fine  se non da un annullamento compiuto espressamente dalla  potenza suprema di Dio.... Così queste forme non comin-  ciano nè finiscono naturalmente. E perchè non avrebbero  esse il medesimo privi egio degli atomi, i quali, secondo  i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi? Tale  privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente  una sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indis-  solubile. Dato ciò, bisogna credere che queste sostanze  sono state inizialmente create insieme col mondo.   (Syslème noiweau, primo abbozzo, 1605, G. IV, 474).    Così (eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora  creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive delle sostanze sono state create insieme  col mondo e che sussistono in eterno.   (Syntènu nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479).   Individualità e universalità della monade. - Lo monadi  hanno in se stesse il doppio carattere di essere ciascuna un  elemento costitutivo del mondo, e insieme di implicare cia-  scuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo stesso.  11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da  un certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto  di vista : questo è il criterio che permette di conservare e con-  ciliare quelle due caratteristiche. Ciascuna monade mantiene  la sua individualità* e la sua distinzione dalle altre, in quanto  implica e rappresenta il medesimo tutto, ma da un diverso  punto di vista. E i punti di vista sono infiniti; così sono in-  finite le monadi. L individualità della monade si concilia in  tal modo con la sua universalità.    Benché ciò possa parere paradossale, è impossibile a noi di  avere conoscenza degli individui e di trovare il mezzo per  determinare esattamente l'individualità di qualsiasi cosa.se  non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze  possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insen-  sibili; il luogo e il tempo, lungi dal determinare, hanno  anzi bisogno di essere essi stessi determinati dalle cose  che contengono. Ciò che vi è di più notevole in questo  principio, è che Y individualità involve l'infinito; e sola-  mente colui che è capace di comprendere ciò, può aver  conoscenza del principio di individuazione di questa o di  quella cosa: principio il quale deriva dall" influenza retta-  mente intesa di tutte le cose dell' universo le une sulle  altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo  fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma in  tal caso non vi sarebbe pure alcuna differenza tra due in-  dividui differenti aventi la medesima figura e la medesima  grandezza.    [Nuovi Saggi, 1701 s.gg., ILI, 3, § «>.     Proprio Inaili versali tà della monade è ciò che garantisce la  sua individualità. Due atomi di ugual forma e grandezza, con  le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero indistinguibili  1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere indi-  stinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere due,  implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:  e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ in-  finito che necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun  altro punto di vista. Due monadi perfettamente identiche in  tutto il complesso dei rapporti implicati, non sono concepi-  bili: sarebbero una sola e medesima monade. È questo il prin-  cipio che Leibniz chiama della identità degli indiscernibili. Per  esso ogni monade ha garantita la sua individualità e inconfon-  dibilità fra tutte le altre.   K eli grande importanza in tutta la filosofia e anche  nella teologia il principio che non esistono denominazioni  puramente estrinseche; e questo a causa della connessione  delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e solo  locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che  interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così  non è possibile che vi siano due atomi simili per forma e  uguali per grandezza : per esempio due cubi uguali. Queste  sono nozioni matematiche, cioè astratte, non reali. Tutto  ciò che è differente deve distinguersi per qualche cosa; e  la sola posizione non basta a differenziare le cose reali.  Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia pura-  mente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi  siano atomi, altrimenti vi sarebbero due cose che non dif-  ferirebbero se non dall’esterno. In secondo luogo, se la  sola posizione presa per sè non costituisce un mutamento,  ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia pura-  mente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la  quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono  se non relazioni che risultano da altre cose che costi-  tuiscono per sè stesse il mutamento. Così, essere in un  determinato luogo, astrattamente parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente bisogna  che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel  luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza  implica anche un modo di esprimere in sè la cosa distante,  di agire su di essa, e di essere da essa affetto. Ed effet-  tivamente la posizione implica un grado di espressione....   Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal principio  fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;  principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene  feci cenno: - j’ en ay esté frappe - mi scrisse.   (Frammento, C. 8-10).    Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel carat-  terizzare la struttura della monade. Essa contiene in sè tutto  il proprio sviluppo futuro, insieme con lo sviluppo del mondo.  Ma quello che determina la sua particolarità e il suo valore,  è di contenerlo non esplicito ed esteso nel tempo e nello spazio,  ma implicito, in modo pregnante, allo stato potenziale.   Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade, attualmente  sviluppato, tutto il suo svolgimento completo, perderemmo,  per così dire, il vantaggio essenziale della monade: avremmo  di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e inaf-  ferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel rac-  cogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di con-  tenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito sarebbe  Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione.   Ora, come si svolge e quale aspetto assume concretamente,  nella monade, tale implicazione della totalità ? Assume l’aspetto  di forza o appetito da un lato, di rappresentazione dall'altro.  Ciascuna monade ha una rappresentazione di tutti gli stati  futuri che essa contiene in sè, e contemporaneamente ha un  impulso, una tendenza che la spinge a passare a questi futuri,  dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge, nel-  I - individuo, il passaggio all'universale.    (1) Antonio Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola  cartesiana e giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corri-  spondenza col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo stato  di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare  di luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro  cambiano nel modo piìi semplice e più uniforme che il  loro stato permetta. Come mai allora (mi si domanderà) c'è  tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta va-  rietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo  (così come lo si i mm agina, benché veramente non esista  in natura), quantunque sia composto di parti, non ha  nulla che determini varietà nel suo tendere, poiché si sup-  pone che queste parti non mutino i loro rapporti reciproci ;  mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una ten-  denza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti  dei quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a  seconda di ciò che esso contiene; e questi pensieri si tro-  vano tutti insieme nell'anima, in virtù del suo rapporto  essenziale con tutte le altre cose del mondo. E anzi, è  fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impos-  sibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o  parte dell' universo deve rappresentare tutte le altre; Sic-  ilie 1 anima, quanto alla varietà delle sue modificazioni,  non deve paragonarsi all'atomo materiale, ma piuttosto  all universo, che essa rapprasenta dal suo punto di vista,  e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta  in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione con-  fusa e imperfetta dell' infinito).   11 sentimento del piacere, per esempio, sembra semplice,  ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare troverebbe  che esso implica tutto ciò che ci circonda e conseguente-  mente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la ragione  del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima  ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che  essa rappresenta. Infatti i rapporti meccanici che sono  sviluppati nei corpi, sono riuniti e, per cosi dire, con-  centrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi in esse    0. — Leibniz, La monadologia.   la loro origine. È vero che non tutte le entelechie sono,  come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non tutte  sono fatte per essere membri di una società o di uno stato  di cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini del-  l'universo. Sono mondi in compendio, a modo loro: sem-  plicità feconde ; unità di sostanze ; ma virtualmente infinite,  por la molteplicità delle loro modificazioni; centri che  esprimono una circonferenza infinita.   (Polemica col Bayle, 1712, G. 1 V, óti2).   Non potrebbe Dio forse dare inizialmente alla sostanza  una natura o forza interna che le faccia produrre ordi-  natamente (come in un automa spirituale o formale, ma  libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò  che le accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che  essa avrà ; e ciò senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ?  Tanto più che la natura della sostanza richiede necessa-  riamente e implica essenzialmente im progresso o un cam-  biamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di  agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa  dell" universo in modo esattissimo (benché più o meno di-  stinto), la serie delle rappresentazioni che l'anima produce  in sé risponderà naturalmente alla serie dei cambiamenti  dell’universo stesso.   (Syxtème nouveau, lt>95, G. IV, IS.">).    Una monade, in sé stessa e in un istante, non può essere  distinta da un'altra, se non per le sue qualità e azioni  interne, le quali non possono essere altro che le sue per-  cezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che  sta al di fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il  suo tendere da una percezione all'altra) che sono i prin-  cipi del cambiamento. Infatti la semplicità della sostanza  non impedisce la molteplicità delle modificazioni che si  devono trovare insieme in questa medesima sostanza semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rap-  porti rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un  centro o punto, per quanto semplice, si trova un' infinità  di angoli formati dalle linee che ad esso concorrono.   ( Principe « de la Mature et de la Grace, 1713-14, G. VI, 598).   Tn tal modo si viene anche a configurare il concetto di rap-  presentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz lo  tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione  delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione.   11 pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima,  non ha luogo nella figura e nel movimento, i quali non  possono mostrare il principio d ima azione veramente in-  terna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri semplici,  altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per  aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che so-  stanze, ed esistono piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piut-  tosto moralmente o razionalmente che fisicamente) per  parlare con Democrito. E se non vi fosse cambiamento  nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle com-  poste, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella  realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle  cose semplici sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel  pensiero, e si può dire che in generale la percezione è  V espressione della molteplicità nell' unità. Ella non ha bi-  sogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla immate-  rialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammi-  revole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste conside-  razioni con la mia ipotesi particolare, mi pare che l'una  serva a dar luce alle altre.   (Lotterà ni Bayle, 1702, G. Ili, 69).   (1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il principale  rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo. Fondatore delle 1 Volt-  velles de la republique des lettres, autore del Dictionnaire historique et crilique,  ebbe col Leibniz lunghe od interessantissime polemiche su vari argomenti,  quali l’ipotesi dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra  fede o ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in  quanto sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono  abitudini o disposizioni; e noi sappiamo molte cose alle  quali non pensiamo punto.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79).   Mi meraviglio, Signore, che Ella insista nel volgere le mie  opinioni in modo completamente diverso da ciò che io  intendo. Ella pretende che, secondo me, noi non facciamo  altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di noi. Non  so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo in-  vece che noi facciamo tutto ciò che avviene in noi.   (Lettera al Jaquelot, 1701, G. VI, 567).   II pensiero come unità della molteplicità e come azione:  ecco due concetti che saranno propri della filosofia idealistica  postkantiana, cui Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento  del concetto di monade come spirito.   Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz trae  anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la nega-  zione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano,  si era opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto  viene aU’anima esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori,  come segni che si imprimano su di una tabula rasa. I Nuovi  saggi sull’ intelletto umano di Leibniz sono tutti destinati ad  una presa di posizione di fronte alle tesi del Locke. Di essi  verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo no-  tare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi  soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è in-  nato allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ra-  giono. È innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima,  intesa come monade, cioè tutta la serie dei rapporti di causa  e di effetto di cui essa ha rappresentazione. Tutto ciò costi-  tuisce il contenuto dell’anima, e non viene ad essa dal di fuori  ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto 1 uni-  verso, insomma, è già insito a priori nell’anima.   Ma l’anima non ha nozione attuale di tutto questo suo con-  tenuto. Il campo della sua conoscenza è limitato e si estende    IV. - LA MONADE    85    solo a ciò che le è pili immediatamente a contatto. Come si  concilia questo con la sua universalità e con l’innatismo?  Leibniz ricorre a* questo proposito alle piccole percezioni o per-  cezioni insensibili, le quali non cessano di influire sull’anima,  pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono bensì  dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha con-  sapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto  innatismo di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia  di ragione sia di fatto, con la limitazione attuale delle nostre  conoscenze. Le piccole percezioni permettono a Leibniz di con-  cepire la monade limitata insieme e universale.   La questione dell’origine delle nostre idee e dei nostri  principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser  molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di po-  ter dire che le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili  vengono dal nostro proprio intimo.... Non sono affatto fa-  vorevole alla tabula rasa di Aristotele; e vi è del giusto  in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi di  piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di  tutti i nostri pensieri passati, ma anche un presentimento  di tutti i nostri pensieri futuri. È vero che ciò avviene in  modo confuso e senza distinguere questi pensieri, press’ a  poco come quando io odo il rumore del mare: odo allora  il rumore di tutte le onde particolari che compongono il  rumore totale, pur senza distinguere un'onda dall'altra.  Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato : cioè  die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni  (sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più  indipendente di quanto non si pensi; benché resti pur  vero che nulla avviene in essa che non sia determinato,  e che nulla è nelle creature, che non sia continuamente  creato da Dio.   (Suri' Essay de l'entendement liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i).   Si tratta di sapere se l' anima in se stessa sia compieta-  mente vuota, come delle tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo l'opinione di Aristotele  e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi è tracciato  derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure se  l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni  e dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle  varie occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e  anche con la Scuola e con tutti coloro che prendono in  questo significato il passo di S. Paolo (Rom. 2,15), dove  egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori....   Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel  nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così  dire - a noi stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità,  la sostanza, la durata, il cambiamento, l'azione, la per-  fezione, il piacere e mille altri oggetti delle nostre idee  intellettuali? Ed essendo questi oggetti immediati al no-  stro intelletto e sempre presenti (benché non possano esser  sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei  nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che  queste idee ci sono innate con tutto ciò che ne dipende?  Mi sono servito anche del paragone di una pietra di marmo  che abbia delle venature, anziché essere tutta unita come  le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano tabula  rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette  vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole  è in un marmo, quando questo marmo è completamente  indifferente a ricevere questa figura o qualche altra. Ma  se vi fossero delle vene in quella pietra, elio indicassero  la figura di Ercole a preferenza di altre figure, questa  pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come  innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario  un certo lavoro per scoprile queste vene e polirle, elimi-  nando ciò che impedisce loro di apparire. E in questa  guisa le idee e le verità ci sono innate come inclinazioni,  disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come  azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche azione, spesso insensibile, ad esse rispon-  dente.... D'altronde, vi sono mille segni i quali mostrano  che in ogni istante vi è in noi un' infinità di ■p ercezio ni,  prive però di appercezione (1) e di riflessione, cioè cam-  biamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo  perchè le impressioni sono troppo piccole o troppo nume-  rose o troppo unite fra di loro in modo da non aver nulla  che lo distingua partitamente ; ma, unito ad altre, non  mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per lo  meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che  noi non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di  una cascata, quando vi abbiamo abitato vicino per qualche  tempo. Ciò non significa che tali movimenti non conti-  nuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga anche  nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste in-  pressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive dell'attrat-  tiva della novità, non sono abbastanza forti per attirare  la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali sono  rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione  richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così dire  ammoniti ed avvertiti di prestare attenzione a talune delle  nostre percezioni presenti, le lasciamo passare senza rifles-  sione e senza neppur notarle; ma se qualcuno ce ne av-  verte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un qual-  siasi suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e  ci accorgiamo di averne avuto poco fa una sensazione.   Così si trattava di percezioni di cui non ci eravamo ac-  corti immediatamente, derivando in questo caso l'apper-  cezione solo dall' avvertimento venuto dopo un intervallo  sia pur minimo....   Non si dorme mai tanto profondamente da non aver  qualche sensazione debole e confusa, e non si sarebbe mai  svegliati neppure dal più grande rumore del mondo, so   (1) Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir: accorgersi)  Cfr. Monadologia , 8 14.    ss   non si avesse una qualche percezione del suo inizio, che  è piccolo; cosi come, neppure col più grande sforzo del  mondo, non si romperebbe mai una corda so essa non  fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi minori;  per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non  appaia.   (Nuovi .Saggi, 1701 segg., Prelazione, G. V, 42 47).   Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo  nel volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante  notale come lo sviluppo del concetto di monade influisca di-  rettamente anche su tutti i problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche dello spi-  rito. Universale, priva di estensione, eterna, indistruttibile,  dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come la  pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa  è spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia,  il mondo materiale sia il mondo spirituale la devono assu-  mere come punto di partenza. Da questa concezione della  monade come elemento costitutivo del mondo, e dall’ impegno  di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi sviluppi.  Non si tratta più ora di studiare questo principio sostanziale  nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire nel  mondo.   I problemi che si pongono a questo proposito si possono  ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la suprema  sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle varie  monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura  corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevol-  mente collegati.   Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rap-  presentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria  realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe  alla tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano la  divinità. Per questo riguardo la monade non è diversa da Dio.  L) altro lato essa è una creatimi di Dio; e il suo aspetto di  creatura consiste proprio nel punto di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale rappresentazione  ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile che  alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,  passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua  rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto  corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo  che due panorami di una città da punti di vista diversi si  corrispondono senza influenzarsi a vicenda. Questa comple-  tezza della monade chiusa in sè stessa, è espressa da Leibniz  con due detti celebri: il primo, che le monadi non hanno fi-  nestre', il secondo, che basta all’esistenza e universalità della  monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo.   Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti che  egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la natura  propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una, corri-  sponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una agisca  immediatamente sull’ altra.   È in primo luogo chiarissimo che le sostanze create di-  pendono da Dio, il quale le conserva, anzi le produce con-  tinuamente per ima specie di emanazione, così come noi  produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge,  per così dire, da tutte le parti e in tutte la maniere il si-  stema generale dei fenomeni ch’egli crede bene di produrre  per manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli aspetti  del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rap-  porto sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il ri-  sultato di ciascuna visione dell’universo da un determinato  punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo in  modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di rendere  il suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E  poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì  le nostre percezioni : ma ciò che ci inganna sono i nostri  giudizi, che dipendono da noi.   Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ulti-  me affermazioni, che ciascima sostanza è come un mondo a  parte, indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’ infuori  di Dio. Così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci  potrà mai accadere, non è che una conseguenza del nostro  essere. E poiché questi fenomeni conservano un certo or-  dine conforme alla nostra natura, o. per così dire, al mondo  elio è in noi - onde possiamo fare osservazioni utili a  regolare la nostra condotta e giustificate dall' avverarsi  dei fenomeni futuri, e possiamo spesso arguire senza errare  1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire che  tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano  fuori di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia  è pur vero che le percezioni o espressioni di tutte le so-  stanze si rispondono vicendevolmente, in modo che cia-  scuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi che  ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ; così  come, quando più persone si sono accordate di trovarsi  insieme in un determinato luogo e in un determinato  giorno, lo possono fare effettivamente se vogliono. Ora.  nonostante che tutti esprimano i medesimi fenomeni, non  per questo le loro espressioni sono perfettamente simili,  ma basta che siano proporzionali: così come vari spetta-  tori credono di vedere la medesima cosa, e infatti si in-  tendono vicendevolmente, per quanto ciascuno veda e parli  secondo la misura della sua vista.   Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente  tutti gli individui, e il quale vede l'universo non solo  come lo vedono essi, ma anche in modo completamente  diverso) è causa di tale corrispondenza dei loro fenomeni,  e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a tutti;  altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dun-  que dire — in certo modo e in senso esatto, per quanto  lontano dall'uso comune che una sostanza particolare  non agisce mai su di un'altra sostanza particolare nè è  affetta da essa, se si considera che ciò che accade a cia-  scuna non è che una conseguenza della sola sua idea o  nozione completa ; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime tutto l’universo. Infatti,  niente ci può toccare se non pensieri e percezioni, e tutti  i nostri pensieri e le nostre percezioni future non sono  che conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri  e percezioni precedenti; in modo che, se io fossi capace  di considerare distintamente tutto ciò che mi accade o mi  appare in questo istante, vi potrei vedere tutto ciò  che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non ver-  rebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche  tutto ciò che è fuori di me fosse distrutto, purché non ri-  manesse se non Dio e io stesso.   ( Discovra de métaphysique, 1686, § XIV).   La differenza fra la monade e Dio consisto dunque in ciò,  die la monade è rappresentazione del mondo da un solo punt o  di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé. E  <|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra  di loro, pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e in-  dipendenza.   Le percezioni confuse e l’azione reciproca delle mo-  nadi. - Ma anche per un altro lato si distingue la monade da  Dio: perla minor chiarezza e precisione della sua rappresen-  tazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il concetto  delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a dimo-  strare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e in-  distinta - di tutto il contenuto del mondo, queste fanno  ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa della im-  perfezione propria di ciascuna monade.   Nella rappresentazione delle monadi sono contenuti bensì  tutti i legami di causa ed effetto che costituiscono l’universo:  ma non come percezione chiara, distinta, perfettamente svi-  luppata. Man mano che ci si allontana dal punto di partenza  che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna monade,  tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva  dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è  il luogo, per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé  gli infiniti punti di vista, la rappresentazione dell’universo  nella sua totalità è sempre perfettamente chiara e distinta.  Le percezioni dei nostri sensi, quand' anche sono chiare,  devono necessariamente contenere una qualche sensazione  confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo sim-  patizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri :  e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto,  non è possibile che la nostra anima possa por mente a  tutto particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le  nostre sensazioni confuse sono il risultato di una varietà  di percezione assolutamente infinita. Così il mormorio con-  fuso che vien udito da chi si avvicini alla riva del maro  deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli onde.  Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto  a costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che ec-  cella al di sopra delle altre, e se esse producono press’ a poco  impressioni di uguale intensità o ugualmente capaci di  determinare l'attenzione dell'anima, l'anima non può ac-  corgersene se non confusamente.   ( Discoltra de mélaphysique, J 080 , § XXXHI).   La differenziazione nella chiarezza della percezione è dunque  ciò che costituisce l'individualità di ciascuna monade e ciò che  differenzia le monadi una dall’altra. E anche spiega, in certo  qual modo, come si possa parlare - impropriamente però -  di azione, di una monade sull’altra.   Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che  agiscano su di noi, ciò che percepiamo in un certo modo,  bisogna considerare il fondamento di questa opinione e  ciò che vi è in essa di vero.   L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non nel-  l’accrescimento del grado della sua espressione , unito alla diminu-  zione di quello dell'altra , in quanto Dio le obbliga ad accordarsi.   Ma senza entrare in una lunga discussione, basta ora,  per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, os-  servare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i fenomeni che esprimiamo più perfettamente;  e clie attribuiamo alle altre sostanze ciò che ciascuna di  esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza, clie è di esten-  sione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata per  il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal  modo dunque si può concepire che le sostanze si impe-  discano e limitino vicendevolmente; e quindi si può dire  in questo senso che esse agiscono l’ima sull'altra e sono  obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una all'altra.  Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti  l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la  virtù di mia sostanza particolare è di bene esprimere la  gloria di Dio; ed è questo l'aspetto onde ossa è meno li-  mitata. E qualsiasi cosa, quando esercita la sua virtù o  potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e si svi-  luppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un  cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effetti-  vamente ogni cambiamento le tocca tutte), credo che si  possa due che quella che per questo cambiamento passa  immediatamente ad un maggior grado di perfezione o ad  una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e  agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfe-  zione, mostra la sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre  che ogni azione della sostanza che abbia una qualche per-  cezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni passione un  qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere che  un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore  in seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire  o nell’ esercitare la propria potenza e provando piacere.   (Discovra de méiuphysique, 1686, § XV).   Le percezioni confuse come corpo. - Percezione distinta  è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione confusa  l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito delle  leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce l’azione  come il principio spirituale, e la passione (o passività) come  quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,  rappresentano nella monade il principio corporeo.   Ho già detto che da un punto di vista rigorosamente  metafisico, considerando come azione ciò che a va- iene alla  sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo, tutto  ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poi-  ché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non  è possibile che una sostanza creata abbia influenza sul-  l’altra. Ma, considerando come azione un esercizio di per-  fezione, e passione il contrario, non vi è azione nelle vere  sostanze se non quando la loro percezione (e io attribuisco  percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta; e  non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di  modo che nelle sostanze capaci di piacere e di dolore,  ogni azione è un avviamento al piacere, e ogni passione  al dolore.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg., II, 21, § 72).   Le ideo e verità innate non possono essere cancellate;  ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato attuale)  dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso ancor  pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di  illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" in-  telletto e darebbero calore alla volontà, se le percezioni  confuse dei nostri sensi non si impossessassero della no-  stra attenzione. È questa la lotta di cui parla la Sacra  Scrittura e anche la filosofia antica e la moderna.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg., 1, 2, § 20).   Si ha ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturba-  zione o passione ciò che consiste nei pensieri confusi, in  cui vi è dell' involontario e dello sconosciuto ; ed è ciò che  nel linguaggio comune si attribuisce non ingiustamente alla  lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono la no-  stra imperfezione.   (Polemica eoi Bayle, 1702, G. It , olio).    D’altro lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio con-  temporaneamente alla definizione delle percezioni confuse come  provenienti dalla natura corporea, riafferma che esse non hanno  nulla di essenziale che no distingua la natura da quella delle  percezioni distinte; che è come dire che la natura corporea  non differisce essenzialmente dalla natura spirituali'.    Si concepiscono generalmente i pensieri confusi come di  un genere completamente diverso dai pensieri distinti, e il  nostro autore (1) giudica die lo spirito sia più unito al  corpo attraverso i pensieri confusi che attraverso quelli  distinti. Ciò non è senza fondamento, poiché i pensieri  confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre pas-  sioni, la nostra dipendenza dall' insieme delle cose este-  riori o dalla materia, mentre la perfezione, forza, do-  minio, libertà e azione dell’anima consistono principal-  mente nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men  vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono altro  che ima molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai  distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente  non eccita la nostra attenzione e non è distinguibile.  Si può dire anzi che nelle nostre sensazioni ve ne è com-  presa insieme una quantità veramente infinita. E in ciò  consiste proprio la grande differenza fra i pensieri confusi   e quelli distinti.... .   Così non bisogna punto concepire le sensazioni contuse  come qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ; altri-  menti le si mettono press’ a poco a pari con le antiche qua-  lità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle quali non si farebbe    (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane de soy  , nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in polemica.   (2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica Becondocuiognisensa.  zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si volesse sostenere tale  differenza essenziale; e ciò non sarei) he che spostare la  difficolta. E, quantunque sia vero che la loro spiegazione  completa superi le nostre forze a causa della troppo grande  molteplicità che esse implicano, non si cessa tuttavia di  penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che fanno  scoprire in esse i fondamenti dei pensieri distinti. La luce  e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste sensazioni  confuse, non sono neppur esse arbitrarie; e io non sono  d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più e seguita  dal nostro autore, che non vi sia somiglianza o rapporto  fra le nostre sensazioni e le loro tracce corporee. Direi  piuttosto che le nostre sensazioni rappresentano ed espri-  mono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse che la  sensazione del calore non assomiglia al movimento: sì.  senza dubbio, non assomiglia a un movimento sensibile  quale quello della ruota di una carrozza; ma assomiglia  all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli organi  che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la loro  rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno  specchio sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme  di una quantità di piccoli specchi convessi quali si vedono  nella schiuma, guardandola da vicino. E se noi potes-  simo sempre scoprire con la medesima facilità la causa  delle nostre sensazioni, troveremmo che essa si riduce  sempre a qualche cosa del genere.   (Addition à l'Explication du systeme nouteau, dopo il 1700, G. IV, 674-0).   Corporeità nella monade. Immortalità. - Si è giunti  dunque a concepire il corpo come un semplice aspetto dello  spirito: o meglio, corpo e spirito come due diversi aspetti della   per penetrare in noi. Tale concezione faceva di ogni sensazione alcunché di  primitivo, originario, irresolubile. Le varie sensazioni derivano invece per  Leibniz dal differente comportarsi di un’unica sostanza, e la differenza fra  confuso e distinte — cioè fra anima e corpo - è differenza di grado, non es-  senziale.    7. — I.kihniz, La monadologia.   sostanza semplice originaria, o monade; la quale non è in sè  corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto aumenti  o diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o come  corpo. Le percezioni possono infatti divenire da confuse di-  stinte, e viceversa.   Oltre alle percezioni di cui l'anima ha ricordo, essa ne ha  una quantità infinita di confuse, di cui non viene in chiaro;  e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e  giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i  corpi che essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qual-  che cosa che colpisce fortemente il suo. Cosi l’ anima passa  qualche volta dal bianco al nero o dal sì al no, senza sa-  pere come, o almeno in modo involontario. Poiché ciò  che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono  in essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque  meravigliarsi se un uomo che mangia un dolce, e si trova  punto da un qualche animale, passa immediatamente, suo  malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale era già  in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso  prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva  già la sua anima, ma insensibilmente. Tuttavia a poco a  poco F insensibile passa al sensibile, nell' anima come nel  corpo ; e così l’anima si modifica da sè anche contro la sua  volontà; poiché essa è schiava, attraverso le sensazioni e  i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del suo  corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque  per quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte  succedono i dolori senza che l'anima ne sia sempre avver-  tita o vi sia preparata; come per esempio nel caso che  l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore; op-  pure, se fosse per esempio una vespa, quando una di-  strazione ci impedisce di fare attenzione al ronzio della  vespa che si avvicina. Così non bisogna punto dire che  non è avvenuto nulla di nuovo nella sostanza di questa  anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono i presentimenti confusi o, per meglio dire, le dispo-  sizioni insensibili dell'anima che rappresentavano la dispo-  sizione alla puntura nel corpo (I).   (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 5-10-7).   Discende anche necessariamente da tutto ciò che ogni mo-  nade, e perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E, poiché  ogni monade è eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è  immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di morte, a  ligoie, nella natura, non si può parlare, ma solo di una com-  posizione e scomposizione di vari elementi semplici tra loro.   Io ritengo non solo che queste anime o entelechie ab-  biano tutte con sè un qualche corpo organico proporzio-  nato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno sempre  e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non  solo l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è ana-  logo all anima e all animale, per non fare questioni di  parole) permane, e la generazione e la morte non possono  essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura ci  mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per  aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il  terrò, ne il fuoco, ne tutte le altre violenze della natura,  qualunque rovina portino nel corpo di un animale, non pos-  sono impedire all'anima di conservare un qualche corpo  organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e l'artificio,  è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e orga-  nizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve  sempre conservare traccia del suo autore. Questo mi fa  pensare anche che non vi sia alcuno spirito separato    (I ) Quanto è qui affermato contraddice solo in parte all' ipotesi dell’ar-  monia prostabilita, secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi sepa-  rati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima sono  qui intese non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici nel-  l'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz a volte  attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere nettamente corporeo.  (Cfr. pp. 94 ss., 110 ss.).  completamente dalla materia, salvo l'essere primo e so-  vrano (1). .   (Lettera a Lady Mnsham, 1704, G. Ili, 340).   In natura e secondo un rigore metafisico, non vi è nè  generazione nè morte, ma solo sviluppo e involuzione di  un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un salto ec-  cessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di  uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile.  L’esperienza conferma tali trasformazioni in alcuni animali,  nei quali la natura stessa ci ha mostrato un piccolo saggio  di ciò che essa nasconde altrove. L' osservazione anche  permette ai più accorti osservatori di notare che la gene-  razione degli animali non è altro che un accrescimento ag-  giunto alla trasformazione; il che consente di giungere alla  conclusione che la morte non può essere se non il con-  trario; consistendo la differenza solamente nel fatto che  in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e  nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde,  l'esperienza mostra anche che un numero troppo grande  di piccole percezioni poco distinte, come quelle che ven-  gono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci stoi-  disce: e che in un deliquio avviene che noi ricordiamo  - e dobbiamo ricordare — così poco di tali percezioni, come  se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola del-  T uniformità ci deve permettere di non giudicare diversa-  mente anche della morte degli animali, secondo l'ordine  naturale; poiché la cosa è facile a spiegarsi in tale ma-  niera già conosciuta e sperimentata, ed è inesplicabile in  qualsiasi altra maniera. Non è intatti possibile concepire  come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione del principio  percettivo, nè la sua disgregazione.   ( Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, G. IH, alò).   (1) Cioè Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui  tutto ò realizzato.  Gerarchia delle monadi. - La concezione delle percezioni  distinte e confuse come criteri di perfezione o imperfezione,  dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le varie  monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni  distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e  propria gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi  staili della vita vegetativa, i superiori le più alte vette della  spiritualità. La monade dell’uomo sta al culmine di questa  ascesa; e ciò che le attribuisce tale titolo di nobiltà sono le  percezioni riflesse, onde essa giunge alle idee astratte, all’auto-  coscienza, alla memoria di sè che le garantisce la conservazione  dellasua personalità individuale. AI di sopra di tutto poi, come  percezione sommamente distinta e completa, e oggetto pure di  ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio.    Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una  sostanza vivente. Così non vi è solamente vita dapper-  tutto, imita alle membra o organi, ma questa vita si mo-  stra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando le  une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha  organi così bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo  e distinzione nell' impressione che essi ricevono, e quindi  nelle percezioni che rappresentano tali impressioni (come  per esempio quando, per la conformazione degli umori degli  occhi, i raggi della luce sono concentrati e agiscono con  maggior forza), allora ciò può giungere fino al sentimento ( 1 ),  che è una percezione accompagnata da memoria, della  quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire  occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato ani-  male, così come la sua monade è chiamata anima. E  quando quest’anima s’ innalza fino alla ragione, essa è  qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli spiriti,  come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a  volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime    (1) Questo termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con  la parola « sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro per-  cezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa  ricordare, come nel caso di un sonno profondo senza sogni,  o di uno svenimento. Ma le percezioni divenute intera-  mente confuse si devono sviluppare di nuovo negli ani-  mali.... Così è bene far distinzione fra la percezione, che è  lo stato interiore della monade che rappresenta le cose  esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza  riflessiva di quello stato interiore, e non è data a tutte  le anime, nè sempre alla medesima anima....   Vi è nelle percezioni degli animali un legame che ha  qualche somiglianza con la ragione, ma non è fondato  che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla cono-  scenza delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui  è stato colpito, perchè la memoria gli rappresenta il do-  lore che questo bastone gli ha prodotto. E gli uomini, in  quanto empirici, cioè nei tre quarti delle loro azioni, non  agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che  domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale espe-  rienza: ma solo l'astronomo lo prevede per via di ragione.  E anche questa previsione fallirà una volta, quando la  causa del giorno, che non è eterna, cesserà. Ma il vero  ragionamento dipende dalle verità necessarie o eterne,come  quelle della logica, dei numeri, della geometria, che costi-  tuiscono la connessione indubitabile delle idee e le conse-  guenze immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze  non si osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che co-  noscono queste verità necessarie, sono propriamente quelli  che si chiamano animali ragionevoli, e le loro anime sono  chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di compiere  atti riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io, so-  stanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità imma-  teriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle  scienze o dello conoscenze dimostrative.   ( Principe* (Iti la nature et de la yruce, 1711-14-, I». VI, 599-bOl).   Differenza fra gli spiriti e le altre sostanze, anime o forme so-  stanziali ; e dimostrazione che V immortalità di cui si vuol sostenere  l’esistenza, implica la memoria.   Supposto che i corpi che costituiscono unum per se,  come l'uomo, siano sostanze e abbiano fonile sostanziali,  e che le bestie abbiano anima, bisogna riconoscere elio  tali anime e forme sostanziali non possono perire com-  pletamente, non meno che gli atomi o le ultimo parti  della materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giac-  ché nessuna sostanza perisce, per quanto possa mutarsi.  Esse esprimono tutto l’universo, benché più imperfetta-  mente che gli spiriti. Ma la principale differenza consiste  nel fatto che esse non conoscono ciò che sono, nè ciò che  fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non possono  scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di  riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse non  posseggono alcuna qualità morale : ne deriva che, passando  esse per mille trasformazioni - press’a poco come un bruco  si muta in farfalla - ciò equivale per la morale o pratica ( 1 )  a dire che esse periscono. Si può anzi dirlo, da un punto  di vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono  per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò che  essa è, e potendo dire quella parola io che ha un così pro-  fondo significato, non solo permane e sussiste metafisica-  mente anche piii delle altre, ma rimane la medesima anche  moralmente, e costituisce il medesimo personaggio. Giac-  ché è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la rende  passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità  ciie si richiede nella morale e nella religione non consiste  nella sola sussistenza perpetua che appartiene a tutte le  sostanze; poiché, senza il ricordo di ciò che si è stati, non    (1) Morale, ha per Leibniz e per tutti i filosofi del suo tempo anche il si-  gnificato di pratico, contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la  nooessità morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla neces-  sità di ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del contrario.  avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato  qualsiasi debba divenire ad un tratto re della Cina, ma  a condizione di dimenticare ciò ch'egli è stato, come se  nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto agli ef-  fetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se egli  dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel me-  desimo istante al suo posto un re della Cina? Cosa che  questo privato non ha alcuna ragione di desiderare.   Eccellenza degli spiriti, che Dio considera a preferenza delle al-  tre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo , ma  le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio.   Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni natu-  rali che Dio conserverà sempre non soltanto la nostra so-  stanza, ma anche la nostra persona, cioè il ricordo e la co-  noscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza distinta  ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti), bisogna  unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto  considerare Dio come il principio e la causa di tutte le so-  stanze e di tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte  le persone o sostanze intelligenti, e come il monarca asso-  luto della più perfetta città o repubblica, quale è quella  dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme; essendo  Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e il  massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti  sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la  divinità. Ed essendo la natura, il fine, la virtù e la fun-  ziono delle sostanze nuli’ altro che di esprimere Dio e l’uni-  verso (come è già stato spiegato a sufficienza) non vi è  ragione di dubitare che le sostanze che lo esprimono con  conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci di  conoscere grandi verità riguardo a Dio e all' universo, non  lo esprimano incomparabilmente meglio che quelle nature  che sono o brute e incapaci di conoscere le verità, o com-  pletamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo sono  è così grande come quella che c’è fra lo specchio e colui  che vede.   E poiché Dio stesso è il piii grande e il più saggio degli  spiriti, è facile comprendere che gli esseri coi quali egli  può, per così dire, entrare in conversazione e perfino in  società comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue  volontà in modo particolare e in guisa che essi possano  conoscere ed amare il loro benefattore, lo devono interes-  sare infinitamente pi fi che il resto delle cose, le quali non  possono essere considerate se non come strumenti degli  spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone sagge  hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra  cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione  che possa avere un’anima, per altri riguardi contenta, è  di vedersi amata dagli altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio,  questa differenza: chela sua gloria e il nostro culto non pos-  sono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non essendo  la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della  sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o  dall’esseme in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e  ragionevole negli spiriti finiti, si trova eminentemente in  lui. E come noi loderemmo un re che preferisse conservare  la vita di un uomo che quella del più prezioso e più raro  fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che  il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non  abbia il medesimo sentimento.   Dio è il monarca delta più perfetta repubblica composta di tutti  gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità di questa città  di THo.   Effettivamente gli spiriti sono le sostanze massimamente  sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni hanno questo  di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi si  aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale  tende sempre alla massima perfezione universale, avrà più  cura degli spiriti e darà ad essi non soltanto in generale  ma anche a ciascuno in particolare, il massimo di per-  fezione permesso dall'armonia universale.   Si può anzi dire che Dio. in quanto è uno spirito, è  l'origine delle esistenze; altrimenti, se gli mancasse la vo-  lontà per scegliere il migliore, non vi sarebbe alcuna ra-  gione affinchè esistesse un possibile a preferenza di altri.  Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso uno  spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può  avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a  sua immagine, appartengono quasi alla sua razza e sono  come i figli della casa, perchè essi soli possono servirlo  li fieramente e agire coscientemente ad imitazione della na-  tura divina: un solo spùito vale tutto un mondo, perchè  non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta  al modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni so-  stanza esprima tutto l'universo, pine le altre sostanze espri-  mono piuttosto il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono  piuttosto Dio che il mondo. E tale natura così nobile  degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità quanto è possi-  bile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi gloria  infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto  gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per  glorificare Dio.   Questa è la ragione per cui quella qualità morale di Dio  che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca,  per così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È  in ciò ch'egli si umanizza, ch'egli soffre rapporti umani,  eh' egli entra in società con noi, come un principe con i  suoi sudditi; e tale rapporto gli è così caro, che lo stato  felice e fiorente del suo impero, consistente nella massima  felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema  delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è per gli esseri. E se il primo principio del-  l'esistenza del mondo fisico è il decreto di dargli il mas-  simo di perfezione possibile, il primo disegno del mondo  morale o della città di Dio, clie è la parte pili nobile del-  l'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità pos-  sibile.   Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non abbia  ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano  vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi con-  servino sempre la loro qualità morale, affinchè la sua  città non perda alcuna persona, così come il mondo non  perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti saranno sempre  ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di ri-  compensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene  all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più  perfetta, nella quale nulla può essere negletto.   Ingomma, essendo Dio contemporaneamente il più giusto  e il più benevolo dei monarchi, e non richiedendo se non  la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi sudditi  non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per  renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo  amino.    Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammi-  revoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che  Dio prepara a coloro che lo amano.   I filosofi antichi non hanno abbastanza conosciuto que-  ste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha espresse di-  vinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare, che  gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così  il suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle  cose umane: egli ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella  perfetta repubblica degli spiriti che merita il titolo di città  di Dio, di cui ci ha scoperto le leggi ammirevoli: egli  solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale esattezza  abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoc-  cupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragio-  nevoli che gli sono infinitamente più care; che tutti i ca-  pelli della nostra testa sono contati; che cadranno il cielo  e la terra, prima che sia cambiata la parola di Dio e ciò  che riguarda l'economia della nostra salvezza; che Dio ha  più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta  la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò  che può distruggere il corpo ma non può nuocere all' anima,  perchè solo Dio può rendere l'anima febee od infebee; che  le anime dei giusti sono nella sua mano al coperto da  tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di -  esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene  dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo pa-  role oziose, anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato:  infine, che tutto deve riuscire per il maggior bene dei  buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che nè i nostri  sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla che  si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo  amano.   ( JJiecours de mélaphysique, 1(180, §§ XXXIV- XXXVII).   Così termina il Discours de métaphysique : nel quale, dal  principio della differente chiarezza di percezione nelle varie  monadi, si giunge ad una gerarchia degli esseri, e alla defi-  nizione deU’anima o della personalità umana in sè e nei suoi  rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette a  Leibniz uno di quegli sguardi armonici e complessivi su tutto  ("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti scientifici o filoso-  fici, principi morali, dogmi religiosi coincidono in una suprema  armonia.  La materia come aggregato. - Si è studiata finora la  natura del corpo come elemento essenziale della monade, inse-  parabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo rii conside-  rare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia  può essere vista anello altrimenti che come forza passiva, ap-  partenente a ciascuna delle sostanze fondamentali onde consta  il mondo, o come ciò che vi è di confuso e indistinto nella  percezione della monade. Materia è, pili concretamente, tutto  ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari aspetti, cade  sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla analizzare  più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali, di  monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza ca-  ratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non  dipende dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non  esistono unità che siano puramente materiali), ma dal fatto  stesso di non essere un’unità, ma un gruppo di unità: un <kj -  gregaio.   Quanto alle forme sostanziali o entelechie primitive...,  io non le approvo se non quando le si considera sostanze  semplici, capaci di percezione e di appetito, insomma anime,  o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che si  potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che  tutta la natura sia piena di corpi organici viventi. Così  non ritengo in verità che una pietra sia essa stessa una  sostanza corporea animata o dotata di un principio di    Ilo  unità o di vita; ma ritengo che in essa vi siano dapper-  tutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte di  materia nella quale non si trovi un animale o una pianta  o qualche altro corpo organico vivente (quantunque di  organico vivente noi non conosciamo che le piante e gli  animali). Così una massa di materia non è propriamente  ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma un'ammasso  e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali so-  stanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di  vermi.   ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI, 550).   Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola sostanza  di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi  sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi,  e tutte le monadi non sono spiriti. E queste monadi non  compongono affatto un tutto effettivamente unitario. Que-  sto tutto, se esse lo componessero, non sarebbe in nulla  uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia sia  un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è  un ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come  sarebbe un esercito, un gregge; e in quanto la si consideri  come componente una cosa unica, è un fenomeno; feno-  meno ben reale effettivamente, ma la cui unità è determi-  nata dal nostro concepirla.   (Frammento del 1710, G. VI, 025).   L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in que-  sto modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza  consiste appunto nel fatto di essere una riunione di sostanze  reali: in sé stessa, essa è dunque qualche cosa di costruito,  (li artificiale. Quando viene osservata a fondo, si dissolve ne-  cessariamente nei suoi componenti. Leibniz esprime ciò col dire  che essa ha natura fenomenica { 1).    (1) Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da Platone  per indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a rigore i corpi non meritino affatto il nome  di sostanze; e questa pare esser già stata l’opinione di  Platone, il quale ha osservato che essi sono esseri tran-  seunti, i quali non sussistono mai più di un istante. Ma  questo è un punto che richiede più ampia discussione; e  io ho altre ragioni importanti che mi conducono a rifiu-  tare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisi-  camente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il  corpo non ha affatto una vera unità; non è che un aggre-  gato, che la scuola chiama puro accidente ; un insieme,  come mi gregge. La sua unità deriva dalla nostra perfe-  zione. È un essere di ragione o piuttosto di immaginazione,  un fenomeno.   (Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI, 58(>).   I corpi non possono essere sostanze propriamente dette,  poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti di  sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese  e perciò non sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono  sostanze immateriali.   ( Lettera a Lady Masham, 1705, G. 111.357).   II continuo e il discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi  argomenti per dimostrare 1 irrealtà della natura corporea in  generale e la necessità di ricorrere, di là da essa, a qualche  cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista anche  nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La  monade in sè non è estesa; non è considerabile se non come  un « punto metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che da una  molteplicità, una ripetizione: in questo senso essa è puramente  fenomenica, così come lo è l’aggregato. La differenza consiste  nel fatto che la materia come aggregato è discreta , cioè com-  posta di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione in-  vece è continua, cioè divisibile all" infinito. A maggior ragione  essa non sarà nulla di reale, ma un semplice ordine di rapporti  spaziali, così come il tempo è un ordine di rapporti successivi.   Non vi sono se non gli atomi di sostanza, cioè le unità reali  e assolutamente prive di parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi assoluti della composizione delle  cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostan-  ziali. Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché  di vitale e una specie di percezione, e i punti matematici  sono i loro punti di vista per esprimere l'universo. Ma  (piando le sostanze corporee sono ristrette insieme, tutti  i loro organi non costituiscono se non un punto fisico ri-  guardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non  in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono  che modalità; e solo i punti metafisici o sostanziali (costi-  tuiti dalle forme o anime) sono esatti e reali. E senza di  essi non vi sarebbe nulla di reale, poiché senza le vere  unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.   ( Syslème nourea u, 1695, G. IV, 482-83).   Benché la materia consista in un ammasso di sostanze  semplici innumerevoli, e la durata delle creature, così come  il movimento attuale, consista in un ammasso di stati  momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è af-  fatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movi-  mento matematico di momenti, nè la tensione di gradi  estremi. Il fatto è che la materia, lo scorrere delle cose,  e insomma ciascun composto attuale, è ima quantità  discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento mate-  matico, la tensione e l’ accrescimento continuo nella velo-  cità e in altre qualità, e insomma tutto ciò la cui valu-  tazione appartiene al campo delle possibilità, è una quan-  tità continuata e indeterminata in sé stessa, o indifferente  alle parti che vi si possono prendere e che vi si prendono  attualmente in natura. La massa dei corpi è divisa attual-  mente in modo determinato, e nulla non vi è esattamente  continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta che è  nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata  di dividere come si vuole. Nella materia e nelle realta  attuali, il tutto è un risultato di parti: ma nelle idee e  nei possibili (che comprendono non solamente questo imi-  verso, ma anche qualsiasi altro che possa essere concepito  e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente), il  tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la no-  zione dell' intero è più semplice che quella delle frazioni,  e la precede....   Per meglio concepire la divisione attuale della materia  all' infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni conti-  nuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che Dio  vi ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto  era possibile di introdurvi finora, e che così nulla vi è  rimasto di indeterminato, mentre 1' indeterminazione è l'es-  senza della continuità. Questo apprende il nostro spirito  dalla perfezione divina; e l'esperienza lo conferma attra-  verso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che non  vi si possa osservare qualche varietà, guardandola bene.  Un pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e al  microscopio questi granuli appaiono come rocce nelle quali  vi sieno mille giochi di natura. Se la forza della nostra  vista aumentasse continuamente, troverebbe sempre campo  per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà attuali, e mai  una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di materia  completamente simili l ima all’altra, sia nel grande, sia  nel piccolo.   (Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover, 1705, G. V]], 502-63).   Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spa-  zialità (o temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o  materia. E della materia Leibniz ha due concezioni diverse:  da un lato quella che abbiamo vista al Capitolo 111, come  potenza passiva primitiva, come quel substrato di resistenza,  densità, « anti tip' a», al quale si applica la forza, trasformandola  in attività, entelechia; d’altro lato questo concetto di aggre-  gato, composizione, costruzione artificiale posteriore alla mo-  nade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità. Per  distinguere tali due modi diversi di considerare la materia,  Leibniz usa i due termini di materia prima e materia seconda.   H.    Leibniz, La mvnailoloi/ia.  Nei corpi io distinguo la sostanza corporea dalla ma-  teria, e distinguo la materia prima dalla seconda. La ma-  teria seconda c un aggregato o composto di varie sostanze  corporee, come un gregge è composto di vari animali. Ma  ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza  corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che fa  sì die sia veramente una sostanza e non un aggregato.  E questo principio di unità è ciò che si chiama anima,  oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima. Ma oltre  al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua  massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggre-  gato di altre sostanze corporee più piccole, tino all' infi-  nito. Tuttavia la materia primitiva o presa in sè stessa,  è ciò che si concepisce nei corpi mettendo da parte tutti  i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in essa di passivo.  Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia vel  inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede  piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà  e senza diminuire il movimento complessivo di quello che  lo spinge. Così si può dire che la materia, in sè stessa,  involve, oltre l'estensione, ima potenza passiva primitiva.  Ma il principio dell’unità contiene la potenza attiva pri-  mitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai  e persevera sempre in un ordine esatto delle sue modi-  ficazioni interne che rappresentano quelle esterne.   (Lettera al Burnett, 1699, U. Ili, 260-261).   L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di aggregato,  Leibniz spiega anche la costituzione dei .corpi organici e degli  animali. TI loro corpo, egli dice, è un aggregato, con una mo-  nade, per così dire, dominante e ordinatrice, di natura su-  jieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento per-  manente di ciascun individuo.   Definisco 1* organismo, o macchina naturale, come una  macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va  all ? infinito, poiché nulla è tanto piccolo da poter essere  trascurato; mentre le parti delle nostre macchine artificiali  non sono a loro volta macchine. Questa è la differenza  essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni non  hanno ancora considerato abbastanza.   (Lettera a Lady Magliari), 1704, G. Ili, 356).   lo distinguo: l.°) fentelechia primitiva o anima. 2.°) La  materia prima o potenza passiva primitiva. 3.°) La monade,  composta di queste due. 4.°) La massa, o materia seconda,  o macchina organica, a formare la quale concorrono innu-  merevoli monadi subordinate. 5.°) L'animale o sostanza  corporea, la cui unità è determinata dalla monade domi-  nante nella macchina.   (Lettera al Le Volder, 1703, G. Il, 252).   E attraverso i due concetti di materia prima c seconda, si for-  mano pine duo concetti differenti di anima. Il primo, come  principio attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua pas-  sività ; l’altro, come quella monade a carattere più strettamente  spirituale, che permane in ciascun individuo, mentre le monadi  formanti la massa del suo corpo variano e si trasformano.   La materia, senza le anime e forme o entelechie, non  è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero che  attive: poiché la sostanza corporea completa veramente  una, chiamata dalla scuola unum per se (opposta all'essere  per aggregazione), deve risultare del principio dell' unità,  che è attivo, e della massa che costituisce la molteplicità  e che sarebbe solamente passiva se essa non contenesse  se non la materia prima. Invece la materia seconda o  massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta  di parti che sono in sé sostanze complete quando sono    (1) Con la parola « macchina » Leibniz intende qui, come già altrove, un  organismo composito, cioè formato di parti eterogenee.    altri animali o sostanze organiche animate o attuate a  parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organiz-  zate che costituisce il nostro corpo, non è imito alla nostra  anima se non per quel rapporto che deriva dall'ordine dei  fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza particolare.  £ tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima  e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che  limo è incompleto senza l'altro, poiché in natura l'uno  non è mai privo dell'altro.   ( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3).   Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. -  In qualunque modo la si intenda, sia come materia prima o  potenza passiva, sia come materia seconda o aggregato, la  natura corporea ha dunque qualche cosa di irreale. Nel primo  caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così dire, alla monade;  qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è ancor  nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che sarà  un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; poste-  riore, questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppa-  mento che rimanda però sempre alla monade come al suo  elemento costitutivo essenziale.   D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla monade.  Essa le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della  sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il  quale necessariamente si deve passare per raggiungere la vera  concretezza deH’entelechia. Questa materia che, analizzata nel  fondo della sua costituzione, si dissolve e perde ogni realtà,  puro ha ima parte fondamentale nel mondo concreto, natu-  rale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è  immateriale, si è visto, eppure ritiene un suo aspetto mate-  riale; così non vi è anima senza corpo. Affermato questo,  Leibniz va più in là, dimenticando quasi le sue premesse che  fanno della materia qualche cosa solo in funzione dell’anima;  e cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale, ben  distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi  alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, del-  l'anima e del corpo come due sostanze separate. E, per giu-  dtifìcare la distinzione, attribidsce al corpo la legge meccanica  sella causa efficiente, all'anima la legge vitale della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là dove il principio  della ragion sufficiente, nelle verità di fatto, rimandava diret-  tamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente all’anima  e al corpo.   Ciò è giustificabile anche, in parte, con la natura della monade.  Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo sviluppo futuro dell’uni-  verso allo stato di implicazione causale: l’effetto, cioè, è già  contenuto nelle cause che dovranno necessariamente produrlo.  E questa connessione causale puramente meccanica e determi-  nistica, ha carattere materiale. Per tale aspetto, la monade è  materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e neces-  sariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro  lato però, l’universalità si esplica nella monade come rappre-  sentazione e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in  essa allo stato di implicazione pregnante, cosciente e attiva.  In questa percezione e appetito, che Leibniz immagina tendente  al bene e retta dalla causa, finale del v migliore », egli fa con-  sistere l’anima. Leibniz fa anche coincidere questa nuova distin-  zione di anima-corpo, con l’altra in cui si concepisce il corpo  come percezione confusa e l’anima come percezione distinta.   Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso  le qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura,  e il movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato  vitalmente, cioè attraverso le qualità intelligibili dell anima,  quali la percezione e l’appetito. E nei corpi animati noi  vediamo esservi una mirabile armonia tra vitalità e mec-  canismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente viene  rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene per-  cepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua  completa esecuzione.   Ne deriva che, conosciute le qualità del corpo, possiamo  curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità del-  l’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte  più facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che  avviene nel corpo; a volte viceversa. E ogni volta che  noi usiamo delle indicazioni dell’ anima per essere d aiuto    (l) Cfr. sopra, p. 19.    al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo  questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda  comunemente, perchè il corpo non soltanto risponde al-  1 anima nei movimenti che vengono chiamati volontari,  ma anche in tutti gli altri; quantunque, per l'abitudine che  ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene in-  fluenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi  corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima.  Infatti le percezioni del corpo sono confuse, in modo che  la corrispondenza non appare così facilmente. E l'anima  comanda al corpo in quanto abbia percezioni distinte, gli  obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma pure,  chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può  essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo  e viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che a  volte anche nei fatti naturali noi ricerchiamo la verità at-  traverso le cause finali, quando non si può giungere fa-  cilmente ad essa attraverso le cause efficienti.   (Frammento, C. 12- 13).   Separazione dei due mondi. — Ora, formulata questa di-  stinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a proseguire per  quella via che, attraverso la concezione del rapporto di causa  ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva  condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la  risoluzione dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro.  Qui egli accentua invece la distinzione: corpo e spirito diven-  gono due mondi separati, due entità parallele ma prive di rap-  porti fra di loro. La loro situazione viene ad essere analoga  a quella di due monadi distinte: il contenuto di ciascuna cor-  i ispoude a quello dell altra, senza che perciò si possa dire che  I una influisce sull altra (1 ). Così, ciò che avviene meccanica-  monte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella rappresentazione  dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro o per  una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere stabiliti  attraverso un intervento della divinità.    (1) Cfr. sopra, p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro se-  condo leggi meccaniche, e che le anime producono in sè  stesse azioni interne. E non vediamo alcun modo di con-  cepire l'azione dell'anima sulla materia o della materia  sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché non è affatto  spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo variazioni  materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere una  percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cam-  biamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e  negli altri corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così,  sia l' inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine  della natura uniforme in sè stessa (per non parlare qui  di altre considerazioni), mi hanno portato alla conclusione  die l'anima e il corpo seguano perfettamente la loro legge,  ciascuno la sua separatamente, senza che le leggi corporee  siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi tro-  vino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.  Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo del-  f anima col corpo?   (Lettera a Lady Masharn, 1704, G. Ili, 340-11).   L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è  quello di questa corrispondenza del mondo corporeo con  quello spirituale. Ma una così netta distinzione dei due mondi  non era necessaria alla dottrina della monade. Leibniz fu  forse indotto ad accentuarla, dal fatto di trovarsi in pole-  mica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di aver  trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro medesimo  problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi occasionalistica  e di applicare la propria, gli fece forse formulare il problema  negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto non    (1) Nicola Malebranche (1638-1713) autore della Recherete de la viri té  h il rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la  corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un inter-  vento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel mondo  corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la corrispondente rappre-  sentazione nello spirito, e viceversa. Questo problema presuppone natural-  mente una netta separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale:  separazione di marca prettamente cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi di  cui parliamo è quella famosa dell’ armonia prestabilita , di cui  riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni lasciatene dal  Leibniz.   I mmaginate due orologi che si accordino perfettamente.  l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima consiste nella  mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda nella  cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro pro-  pria esattezza. La prima maniera è quella dell’ influenza....   La seconda maniera di far sempre accordare due orologi  anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere  da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e questa  è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza.   Infine la terza mainerà sarà di fare da principio queste  due pendolo con tanta arte e giustezza, da potersi assi-  emare il loro accordo per il futuro. E questa è la via del-  l’accordo prestabilito.   Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due  orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure in una  di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella  della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire  particelle materiali, nè specie o qualità immateriali che  possano passare dall’ima di queste sostanze nell’altra, si  è obbligati ad abbandonare questa opinione. La maniera  dell assistenza è quella del sistema delle cause occasionali:  ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex machina  ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo ragione,  egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera  nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura.  Così non resta che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'ar-  monia prestabilita attraverso un artificio divino preven-  tivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste so-  stanze in un modo cosi perfetto e regolato con tanta  esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi  ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una mutua  influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la  mano, oltre il suo concorso generale.   (Tetterà del 1696, a. IV, 500-501).   Vi è ordine e connessione nei pensieri, come ve ne è nei  movimenti; poiché l’uno risponde perfettamente all'altro,  quantunque la determinazione nei movimenti sia bruta,  e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa, il  quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene  e dal male (1). Infatti l’anima, rappresentando il corpo,  conserva le sue perfezioni; e, benché essa dipenda dal  corpo (se ben si guardi) nelle azioni involontarie, ne è  indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa nelle  altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e  consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro,  o più per 1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni  originali di ciascun individuo (2) ; mentre la dipendenza fisica  consisterebbe in un’ influenza immediata che l’imo riceve-  rebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe.   (Nuovi Saggi, 1701 segg. II, 21, § 12).   L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri il dolore  nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane  non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin  dall’ inizio alla sua anima una costituzione tale da produrre  attualmente tale doloro in esso, e la rappresentazione o  percezione che risponde al colpo del bastone. Ma se (cosa  impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la natura del-  l’anima e il corso naturale dello sue modificazioni, mutasse  il corso delle nature corporee in modo tale che il colpo    (1) Cfr. «opra, p. 27 ss.   (2) Abbiamo già visto come in ragione delle sue percezioni più distinte  o più confuse, ciascuna monade partecipi più dello spirito o del corpo, abbi»  cioù maggiore o minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss.    non arrivasse, ramina sentirebbe ciò che corrisponde a  questo colpo, mentre il suo corpo non lo riceverebbe af-  fatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le ragioni  per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma non  comprendo affatto come mai l'anima del cane che prova  piacere mentre mangia con appetito, passi così subitamente  al dolore senza che il bastone ne sia la causa (come vor-  rebbe la tesi scolastica), nè ne sia causa Dio in particolare  (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il signor Bayle  non comprende neppure come mai il bastone possa influire  sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miraco-  losa attraverso la quale Dio accorda continuamente l'anima  ai corpi. Invece io ho cercato di spiegare come tale ac-  cordo avvenga naturalmente, col supporre che ogni anima  sia uno specchio vivente rappresentante l' universo secondo  il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto col  suo corpo. Così le cause che fanno agire il bastone (cioè  l’uomo posto dietro al cane, preparato a colpirlo mentre  esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine corporeo contri-  buisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche  rappresentate fin da principio nell'anima del cane in modo  esatto sì, ma debole, per mezzo di percezioni piccole e  confuse e senza appercezione, cioè senza che il cane se ne  accorga; perchè anche il corpo del cane non ne è influen-  zato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine delle  nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente  al colpo ben assestato sul corpo del cane, analogamente  le rappresentazioni di queste disposizioni conducono nel-  l'anima del cane alla rappresentazione del colpo di ba-  stono: rappresentazione la quale, essendo distinta e forte  (come non lo erano le rappresentazioni delle predisposi-  zioni. poiché le predisposizioni influenzavano solo debol-  mente anche il corpo del cane), il cane se ne accorge  ben distintamente: ed è questo che determina il suo do-  lore. Così non si deve affatto immaginare che l'anima del cane, in questo caso, passi dal piacere al dolore senza  alcuno sviluppo e senza alcuna ragione interna.   (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G., IV, 531-32) -   Nel corpo tutto avviene meccanicamente secondo le leggi  del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente o  secondo le apparenze del bene e del male: in modo che,  anche (piando si tratta dei nostri istinti o delle azioni in-  volontarie alle quali sembra partecipare solamente il corpo,  vi è nell'anima un appetito di bene o una fuga dal male  che la spinge; benché la nostra riflessione non possa ben  districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo seguono  così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si  incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca al-  l' anima, e che l'anima risenta del corpo? Per spiegare  questo mistero naturale bisogna ben ricorrere a Dio, così  come quando si tratta di dare la ragione primordiale del-  l’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non  avviene che una volta per tutte, e non come se Dio tur-  basse le leggi dei corpi per farli corrispondere alle anime,  e viceversa. Egli ha invece fatto fin da principio i corpi  in modo tale che, seguendo le loro leggi e le tendenze na-  turali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima  chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha  fatto le anime tali che. seguendo le tendenze naturali del  loro appetito, giungeranno anche sempre alle rappresenta-  zioni degli stati del corpo. Giacché, come il movimento  conduce la materia di figura in figura, così l’appetito con-  duce l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è  inizialmente dominante ed obbedita dal corpo nella mi-  sura in cui il suo appetito è accompagnato da percezioni  distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando essa  vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure fin dal-  1’ inizio, in misura delle sue percezioni confuse. Noi spe-  rimentiamo infatti che tutte le cose tendono al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1 appetito  che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo  la sua maggiore o minore perfezione. E non bisogna affatto  meravigliarsi di quest’accordo primordiale delle anime e  dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati secondo le in-  tenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le anime  essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell uni-  verso, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna,  essendo essi perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso.  È come se Dio avesse variato 1 universo tante volte quanto  sono le anime, o come se egli avesse creato tanti universi  in compendio, accordantisi nel fondo o differenziati nel-  l'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa sem-  plicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E  si può ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba  essere perfettamente disposta, essendo ciascuna ima par-  ticolare espressione dell'universo e come un universo con-  centrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun corpo,  e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da  tutti gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco  in poche parole tutta la mia filosofia.   (Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, 0. 111,340-48).    Tale ò l' ipotesi dell'armonia prestabilita; la quale termina  e corona il sistema di Leibniz, ma non si può dire che aggiunga  molto di essenziale alla dottrina della monade. TI principio  qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la  corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello  di tutte, pur senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai  rapporti fra anima e corpo, obbliga ad una distinzione e se-  parazione fra l’ordine corporeo e l’ordine spirituale; mentre  proprio nel superamento di tale separazione e nella sintesi dei  due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico del con-  cetto di monade.   Ma questa separazione è posteriore idealmente a quel con-  cetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far agire la sua mo-  nade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal inter-  preta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto  ilei suo pensiero è la struttura interna del concetto di monade :  questa sintesi di universale e individuale, di materia e spirito,  ili attività e passività, che è un punto di arrivo e un punto  di partenza nella storia della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che  ima sostanza semplice che entra nei composti; semplice,  cioè senza parti.   2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che  vi sono composti; poiché il composto non è altro che un  ammasso o aggrega tum di semplici (1).   •1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè estensione,  nè figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi sono  i veri atomi (3) della natura; in una parola gli elementi  delle cose.   4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione da temere,  e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una  sostanza semplice possa perire naturalmente.   ó.° Per la medesima ragione, non v'è alcun motivo per  il quale una sostanza semplice possa aver principio natu-  ralmente; poiché essa non può essere formata per com-  posizione.    (1) 1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici, (la cui cleri vano per composizione tutte  le altro cose, è una dello idee fondamentali di Leibniz. Applicato al campo  logico, questo concetto dà luogo ai progetti di arte combinatoria, carattc-  ristica, scienza generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto  di aggregato, cfr. p. 100 s.   (2) Si toglie così olla monade ogni carattere di materialità.   (3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le particelle mate-  riali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che Leibniz combatteva.  Così si può dire che le monadi non possono aver  principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non pos-  sono aver principio se non per creazione, ne fine se non  per annullamento; mentre ciò che è composto comin-  cia o finisce per parti (1).   7» Neppure c'è modo di spiegare come una mo-  nade possa essere alterata o cambiata nel suo interno da  qualche altra creatura; poiché in essa non e possibile  trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi  possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito ,  ciò invece è possibile nei composti, dove si danno cam-  biamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre pei  le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli acci-  denti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle so-  stanze. come facevano una volta le specie sensibili deg  scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non possono en-  trare dall’ esterno in ima monade (2).   8° Tuttavia occorre che le monadi abbiano qualche  qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri. E  se le sostanze semplici non differissero affatto per le loro  qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cam-  biamento nelle cose, poiché ciò che è nel composto non  può venne se non dagli ingredienti semplici; e se le monadi  fossero prive di qualità, sarebbero indistinguibili una dal-  l'altra. giacché esse non differiscono neppure nella quan-  tità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non rice-  verebbe mai, nel movimento, se non l'equivalente (lei mo-  vimento che aveva già avuto : e uno stato di cose sarebbe  y indiscernibile dall altro.   deducono dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà   r ^   C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese   può dire cl/e £ de™ da, di lucri, se  tutto quanto le avviene è già compreso m essa. Cfr. p. 89 ss.    "'O.o Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente  da ogni altra. Poiché non vi sono in natura due esseri  che siano perfettamente uguali, e nei quali non sia pos-  sibile trovare una differenza interna o fondata su di una  denominazione intrinseca (1).   10. 0 Considero inoltre come ammesso, che ogni essere  creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mu-  tamento: e anzi che questo mutamento sia continuo in  ognuna.   11.0 Da quanto abbiamo detto, consegue che i muta-  menti naturali delle monadi derivano da mi j)rinci]iio in-  terno, dato che ima causa esteriore non potrebbe influire  sul loro interno (2).   12.° Ma occorre pure che, oltre il principio del muta-  mento, vi sia un dettaglio (3) di ciò che muta-, il quale deter-  mini, per così dire, la specificazione e la varietà delle so-  stanze semplici.   v 13.° Tale dettaglio deve implicare una molteplicità nel-  l'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni cambiamento  naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e qualche  cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice  vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa  non abbia parti.   14.° Lo stato transitorio che implica e rappresenta  una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non   (1) Nei §3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In  quale deve fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,  riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori. Questo  principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso punto di vista,  secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul principio dell’ iden-  tità degli indiscernibili, efr. p. 78 ss.   (2) Il mutamento nolla monade consiste nello sviluppo c nella realizza-  zione di quanto è già implicito in essa. In questo sviluppo essa manifesta  la sua facoltà attiva o quella conoscitiva: percezione c appetito. Cfr. p. 78,  80 ss., 89 ss.   (3) Traduciamo cosi, non trovando vocabolo migliore, la parola ilétail,  che altri traduce con a particolarità » o in modo affine. Essa vuole indicare  uno sviluppo completo, disteso e particolareggiato in tutti i suoi dettagli.   è altro che ciò che si chiama percezione (1), da distinguersi y  dalla appercezione o dalla coscienza, come si vedrà in se-  guito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno gravemente  errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui non  ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i  soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero affatto  anime di bestie nè altre entelechie; ed a confondere, come  fa il volgo, un lungo stordimento con la morto propria- 1 2 3 4  mente detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio  scolastico delle anime interamente separate, ed ha pure con-  fermato gli spiriti mal disposti nell'opinione della morta-  lità dell'anima (3).   * 15.° L’azione del principio interno che determina il  mutamento o il passaggio da ima percezione ad un altra,  può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sem-  pre può giungere completamente all’ intera percezione cui  tende; ma ne ottiene pur sempre qualche cosa, e giunge  a percezioni nuove (4).   16.° Noi stessi sperimentiamo una molteplicità nella  sostanza semplice, quando troviamo che il minimo pensiero    (1) La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto dunque la sintesi  dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare l’unità e immaterialità della  monade oon la varietà e mutevolezza del suo contenuto. Percepire è cogliere  una molteplicità e riferirla ad un unico soggetto. 11 contenuto, diremmo noi.  è molteplice, la forma ò una. Cosi è nella monade; e ciò spiega conio la va-  rietà e mutevolezza in essa venga concepita da Leibniz in termini di perce-  zione. Cfr. p. 82 s.   (2) « Accorgersi « traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev)  significa dunque l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto al  percepire senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cfr. p. 87.   (3) Cartesio, che considera ogni attività conoscitiva come razionale,  quindi cosciente, non può attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene  nettamente separata da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti  sopra elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione  di cui non ci si accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che  sia quindi attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di con-  tatto fra la materia e lo spirito. Cfr. pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss. Vedi anche  in seguito, §§ 19 ss.   (4) L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui essa può pas-  sare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss.  di cui ci accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così  tutti coloro che riconoscono che l’ anima è una sostanza  semplice, devono riconoscere questa molteplicità nella mo-  nade; e il Bayle non avrebbe dovuto trovarvi difficoltà,  come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo Borariua (1).   17. ° Peraltro bisogna pur riconoscere che la percezione  e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni mec-  caniche, cioè mediante ligure e movimenti (2). E supposto  che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare,  sentire, aver percezione, si potrà concepirla ingrandita,  conservando le medesime proporzioni, in modo che vi si  possa entrare, come in un mulino. E posto ciò, non si tro-  verà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi vi-  cendevolmente, ma nulla di che spiegare una percezione.  E dunque nella sostanza semplice e non nel composto o  nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi, non  vi è se non questo che si possa trovare nella sostanza  semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo in ciò  possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze  semplici.   18. ° .Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte  le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno  in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è  una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti delle  loro azioni interne, e, per così dire, automi incorporei.   l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha  percezioni e appetiti nel senso generale che ho spiegato or  ora. tutte le sostanze semplici o monadi create potrebbero  essere chiamate anime; ma siccome il sentimento è qualche    ( 1) Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, il Bayle discute P ipotesi  leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova contradjt-  toria la. tesi cho una sostanza semplice e priva di parti sia soggetta a cam-  biamento.   (2) Ragioni meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche della pura  in viaria. Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo  immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice percezione, io acconsento a  che il nome generale di monadi e entelechie basti per le  sostanze semplici che non hanno se non la pura perce-  zione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui  percezione è più distinta e accompagnata da memoria (1).   20. ° Infatti noi sperimentiamo in noi stessi uno stato  in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo alcuna  percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o  quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni.  In questo stato, l'anima non differisce sensibilmente da ima  semplice monade; ma siccome questo stato non è dure-  vole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa di più.   21. ° E non ne consegue punto che in tale stato la  sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi  possibile, per le ragioni suddette; poiché essa non può pe-  rire. nè può sussistere senza qualche affezione, che non è  poi altro che la sua perceziome. Ma quando vi è una grande  moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non vi è  nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira  continuamente nello stesso senso per più volte di seguito  si è presi da una vertigine che può farci svenire e che  non ci permette di distinguere nulla. E la morte può de-  terminare questo stato per un certo tempo negh animali.   22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza sem-  plice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente,  sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire (2);   23. ° dunque, poiché, appena desti dallo stordimento,  ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure che se    (1) La percezione pura e semplico, incosciente o priva di appercezione  tasta a costituire la monade; ma le monadi più complesse c perfette si di-  stinguono appunto per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza,  di memoria eoe. Cfr. §§ 24-30 e p. 101 ss.   (2) Leibniz introduce qui incidentalmente un suo principio fondamentale:  il principio di causalità o di ragion sufficiente. Ogni stalo della monade  deriva da cause e produce effetti, c se si segue tale connessione causale in  tutto il suo sviluppo, si va all’ infinito e si comprende tutto l’universo pas-  sato e avvenire. Cfr. p. 17 a., 35 ss. Vedi anche in seguito, § 32.  ne siano avute immediatamente prima, quantunque non  ce ne siamo accorti ; poiché una percezione non può venire  in natura se non da un'altra percezione, come un mo-  vimento non può venire in natura se non da un movi-  mento (1).   24 . ° Si vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di  distinto e, per dir così, in rilievo e di un più forte sapore  nelle nostre percezioni, saremmo sempre in uno stato di  stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure e  semplici (2).   25. ° Così noi vediamo che la natura ha dato perce-  zioni in rilievo agli animali, dalla cura che essa si è presa  di fornirli di organi che raccolgono più raggi di luce o  pili vibrazioni di aria per aumentarne l'efficacia con l’u-  nione. E vi è qualche cosa di simile nell'odorato, nel gusto  e nel tatto, e forse in una quantità di altri sensi che ci  sono sconosciuti. E spiegherò fra poco (3) come ciò che  avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli organi.   26. ° La memoria fornisce alle anime una specie di  concatenazioM che imita la ragione, ma che deve esserne  distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno per-  cezione di qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già  avuto anteriormente una percezione simile, si attendono,  per la rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi  era unito in quella percezione precedente, e sono portati a  sentimenti simili a quelli che avevano provati allora. Per  esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si ram-  mentano del dolore che esso ha loro causato, e abbaiano  e fuggono.    (1) Si riferisce qui al principio di continuità, secondo il quale natura  non facil saliti)). Cfr. p. 52.   (2) Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi della  gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni incoscienti;  quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche di ragione, o spi-  riti. Cfr. p. 101 ss.   (3) Cfr. §§ 62, 78 ss.    E la forte immaginazione che li colpisce e li com-  muove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle perce-  zioni precedenti. Poiché spesso un' impressione forte pro-  duce d’un sol tratto l’ effetto di una lunga abitudine o di  molte percezioni mediocri ripetute.   28. ° Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto la  concatenazione delle loro percezioni non avviene se non  per il principio della memoria; assomigliano, per questo  riguardo, ai medici empirici che hanno una semplice pra-  tica senza teoria; e noi non siamo che empirici nei tre  quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si at-  tende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente,  perchè finora è sempre avvenuto così. Soltanto l’ astro-  nomo giudica ciò per Ada di ragione.   29. ° Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne  è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la ra-  gione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi  e di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito.   30. ° Inoltre, mediante la conoscenza delle verità necessa-  rie e delle loro astrazioni, noi siamo elevati agli atti riflessivi  che ci fanno pensare a ciò che si chiama io, o considerare  che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così che, pen-  sando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al sem-  plice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso, col  concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti.  E questi atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei  nostri ragionamenti.   \ 31.° I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi   principi ( 1 ) : quello delia contradizione, in A T irtù del quale giu-  dichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò che  è opposto o contradittorio al falso;    (I) Passa ad altro argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c  insieme i fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio  di non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion suflìciente  o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s.   e quello della ragion sufficiente, in virtù del quale  consideriamo clic nessun fatto può esser vero o esistente,  nessuna proposizione veritiera, se non vi è una ragione suf-  ficiente per cui sia così e non altrimenti; benché tali ra-  gioni il più delle volte non possano esserci note.  y 33° Vi sono pure due specie di verità: quelle di ra-  gione e quello di fatto ; le verità di ragione sono necessarie  e il loro opposto è impossibile; quelle di fatto sono con-  tingenti e il loro opposto è possibile. Quando una verità  è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo del-  l'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fin-  ché si giunga alle primitive (1).   34° Così nelle matematiche i teoremi speculativi e i  canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi, a defi-  nizioni, assiomi e 'postulati,   35.° Vi sono infine idee semplici, di cui non si può  dare la definizione; vi sono pure assiomi e postulati o,  in una parola, principi primitivi che non possono essere  dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni  identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione.   36° Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle  verità contingenti o di fatto, cioè nell'ordine delle cose dif-  fuse nell'universo delle creature ; nel quale la risoluzione  in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un frazio-  namento senza limiti, a causa della varietà immensa delle  cose della natura e della divisione dei corpi all' infinito.  Vi è un" infinità di figure e di movimenti presenti e passati,  che entrano nella causa efficiente della mia scrittura at-  tuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e disposi-  zioni della mia anima, presenti e passate, che entrano  nella causa finale (2).    ( 1 ) È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »; cfr. p. .'iUtss-  (2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati diversi secondo le oc-  casioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa efficiente rivolta verso  l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica se  non altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno  dei quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè  se ne possa rendere ragione, per questa via non si procede  affatto; e conviene che la ragion sufficiente od ultima sia  fuori dell’ ordine o seriett di questo dettaglio di contingenze, *  per quanto infinito esso possa essere.   38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consi-  stere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio  dei cambiamenti non si trovi se non in modo eminente,  come in una fonte; e tale sostanza noi la chiamiamo Dio.   39. ° Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente di  tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato univer-  salmente, non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V  dente (1).   40. ° È da ritenere inoltre che questa sostanza su-  prema, che è unica, universale e necessaria, non avendo  nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed essendo  semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere in-  capace di limiti e contenere la massima quantità possibile  di realtà.   4 1 . ° Donde consegue che Dio è assolutamente perfet-  to; non essendo la perfezione altro che la grandezza della  realtà positiva intesa precisamente, eliminando i limiti o  confini nelle cose che ne hanno. E là dove non vi sono  confini, cioè in Dio, la perfezione è assolutamente infinita.    cosa è avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je « ragioni della cosa  stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a Leib-  niz per indicare un aspetto più spontaneo, attivo, spirituale, morale del prin-  cipio di ragion sufficiente. Essa si contrappone in questo senso alla causa  efficiente, la quale indirà un rapporto puramente materiale e meccanico.  Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss.   (1) Questa dimostrazione di Ilio è basata sul principio di rugion suffi-  ciente. Dio è la causa prima di tutta la serie delle cose del mondo, delle verità  di fatto empiriche e contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine  delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè, e  non sarebbe più causa prima. Appartiene quindi all’ordine delle essenze  necessario.   Ne consegue pure che le creature ricevono le loro  perfezioni dall' influsso di Dio, ma che derivano le imper-  fezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza  limiti. Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio.  Tale imperfezione originaria delle creature, si riscontra nel-  f inerzia naturale dei corpi (1).   43. ° È anche vero che Dio è non solo la fonte delle  esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto reali,  o di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intel-  letto di Dio è la regione delle verità eterne, o delle idee  da cui esse dipendono; e senza di lui non vi sarebbe nulla  di reale nelle possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe  di esistente, ma neppure alcunché di possibile.   44. ° Infatti, se vi è mia realtà nelle essenze o possi-  bilità, o nelle verità eterne, bisogna pure che questa realtà  si fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si fondi  quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza  implica l’esistenza, o cui basta di essere possibile per essere  attuale.   45. ° Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha  questo privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista.  E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che  non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna  contradizione, ciò solo basta per riconoscere a priori la  esistenza di Dio (2). Noi l’abbiamo anche dimostrata per    (1) Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto compatibile eoi  principi della possibilità, determinati dalle verità di ragione. Cfr. p. 21 ss.  Imperfezione è una limitazione di realtà. L’intero complesso del mondo  dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio, rappresenta il massimo di realtà  possibile, ed è perfetto. Solo le cose particolari sono imperfette, in ragione  appunto della loro particolarità. Questa concezione àia medesima die Leib-  niz svolge nella Teodicea.   (2) Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui aggiunto  alla formulazione cartesiana di essa il criterio della possibilità. Bisogna an-  zitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto dell’ente perfettissimo ò pos-  sibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché esso è effettivamente pos-  sibile, ne segue che esso contiene in sé anche l'attributo dell’esistenza. Cfr.  p. 13 ss. mezzo della realtà delle verità eterne (1). Ma l'abbiamo di-  mostrata or ora anche a 'posteriori (2), poiché esistono es-  seri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione  ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha in  aè stesso la ragione della sua esistenza.   40.° Tuttavia non bisogna punto immaginarci, come  fa taluno, che le verità eterne, essendo dipendenti da Dio,  siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà, come sembra  aver inteso Cartesio e dopo di lui il Poiret (3). Ciò non è  vero se non delle verità contingenti, il cui principio è la  convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità ne-  cessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono  l'oggetto interno (4).   47.° Così Dio solo è f unità primitiva, o la sostanza  semplice originaria di cui tutte le monadi create o derivate  sono prodotti; e queste monadi nascono, per così dire,  per fulgurazioni continue della divinità, di momento in  momento, limitate dalla recettività della creatura, alla  quale è essenziale di essere limitata.   4 8.° \ i è in Dio la potenza , che è la sorgente di tutto,  la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la vo-  lontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo  il principio del migliore (5). E ciò corrisponde a quello che  nelle monadi create costituisce il soggetto o base, la fa-  coltà percettiva, e la facoltà appetitiva. Ma in Dio questi    (1) Ai §§ 43, 44.   (2) Ai §§ 37-30.   (3) Teologo protestante (1640-1719).   ( I) Questa affermazione correggo in parte quunto fc stato attenuato ai  SS 43 o 44. Le verità di ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno  pure una loro realtà di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da Dio.  Ma la loro conformazione in quanto principi regolativi dell’universo, ha una  validità a sò stante, indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esi-  stenze o realtà di fatto sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo  il criterio del «migliore». Cfr. pp. 13 ss., 18 ss.   (5) L’intelletto divino Ita come contenuto le verità di ragione; la sua  volontà mette in opera le realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e invece  nelle monadi create o entelechie (o perfectihabies, secondo  la traduzione di questa parola data da Ermolao Bar-  baro (1)) essi non sono se non imitazioni, in ragione della  perfezione di ciascuna.   49. ° La creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto  essa ha perfezione, e {Mire da parte di un’altra in quanto  è imperfetta. Così si attribuisce azione alla monade in  quanto essa ha percezioni distinte, e passione in quanto ha  percezioni confuse (2).   50. ° E ima creatura è più perfetta di un'altra, in  quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a  priori di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò  si dice che l una agisce sull’altra.   51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta che di  un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che  non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di  Dio, in quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende  con ragione che Dio, regolando le altre fin dal principio  delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti, giacché una  monade creata non può avere influenza fisica sull' interno  dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipen-  denza dell’ima dall’altra.   f>2.° Per questo appunto, fra le creature, le azioni e  passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due  sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni  che l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi ciò che è  attivo per certi riguardi, è passivo da un altro punto di  vista; attivo in quanto ciò che in esso vien conosciuto di-  stintamente serve a render ragione di ciò che accade in  un altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade    (1) Filologo e filosofo italiano (1454-1403), tradusse in latino vario  opere di Aristotele.   (2) Sulle percezioni confuse, efr. p. 92 ss.  in esso si trova in ciò che vien conosciuto distintamente  in un altro (1).   53. ° Ora, poiché vi è un' infinità di universi possi-  bili nelle idee di Dio, e invece non ne può esistere che uno  solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente della scelta  di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che l’altro.   54. ° E questa ragione non può trovarsi se non  nella convenienza o nel grado di perfezione che questi  mondi contengono; poiché ogni possibile ha diritto di  pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione che  racchiude.   55. ° E ciò appunto è la causa dell’esistenza del  mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la  sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa pro-  durre (2).   5(j.° Ora questo legame o adattamento di tutte le cose  create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le altre,  fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti    (I) Le monadi, ohe sono senza Maestre (J 7), non possono agile l una  sull’altra. Il contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre,  in quanto ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo universo.  (§§ 50-57), Ciascuna contiene nel suo intimo tutto il proprio sviluppo;  e tutto le viene dal suo intorno, nulla dal di fuori. Solo in senso improprio  c metaforico si può parlare d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso  punto di vista dal quale l’ universo viene rappresentato, costituisce la  particolare individualità di ciascuna monade; esso viene indicato dalla di-  versa sfera delle percezioni distinte che rappresentano, per così dije, la  zona centrale di ogni monade, mentre le confusene rappresentano la peri-  feria. (Cfr. § 60). Questa varia collocazione reciproca dei centri e delie peri-  ferie ò ciò che permette una differenziazione fra le varie monadi. Ora, se  si vuol chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni distinte, e pas-  siva la periferia che ha solo percezioni confuse (§49), si potrà parlare anche  di una sfera di attività in ciascuna monade, cui corrisponde una sfera di  passività nelle altro; insomma di una certa azione ideale dcH’una sull’altra.  Cfr. p. 93 ss.   (2) I mondi possibili, cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i prin-  cipi di ragione, sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il  piò perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato dalla  pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di realtà. Ogni  possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior quantità di esi-  stenza può dar luogo. Cfr. pp. 19-24. V. anche S§ 40-42, 46. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno  specchio vivente perpetuo dell'universo.   57.° E come una medesima città, guardata da diffe-  renti punti, sembra diversa ed è come moltiplicata in  prospettiva, analogamente avviene che, per la moltepli-  cità infinita di sostanze semplici, vi sono come altrettanti  universi differenti, i quali non sono peraltro se non le  prospettive di un universo solo, secondo i differenti punti  di vista di ciascuna monade.   ò8.° È questo il modo di ottenere il massimo di va-  rietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè il  massimo di perfezione possibile.   59.° Dunque solo questa ipotesi (che io oso dire dimo-  strata) esprime in modo adeguato la grandezza di Dio.  Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Di-  zionario (articolo Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu  anzi spinto a credere che io attribuissi troppo a Dio, e  più che non sia possibile. Ma egli non potè addurre alcuna  ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa armonia  universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima esat-  tamente tutte le altre per i rapporti che ha con esse.   00.° Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto, le  ragioni a priori per cui le cose non potrebbero procedere  diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto  riguardo a ciascuna parte, e particolarmente ad ogni  monade; la cui natura essendo rappresentativa, nulla  la può limitare a non rappresentare se non una parte  delle cose; benché sia vero che questa rappresenta-  zione non è se non confusa nel dettaglio di tutto l'uni-  verso, e non può essere distinta che per una piccola parte  delle cose, per quelle cioè che sono o più vicine o pili  glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni monade  sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modifi-  cazione della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li  mitate. Esse tendono tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e differenziate secondo i gradi  delle percezioni distinte (1).   tìl.° E i composti in ciò corrispondono ai semplici.  Intatti, siccome tutto è pieno (il che fa sì che tutta la  materia sia concatenata (2)), e siccome nel pieno ogni mo-  vimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in  ragione della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo  è affetto da quelli che lo toccano e risente in qualche  modo di tutto ciò che accade ad essi, ma anche per mezzo  loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso è  toccato immediatamente; ne consegue che questa comu-  nicazione va a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo  risente di tutto ciò che avviene nell' universo; sì che chi  avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe leggere in cia-  scun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che è  avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è  lontano, sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio (3) :  ffup.7r.oia 7ràvTa (4), diceva lppocrate. Ma mi' anima non  può leggere in sè stessa se non ciò che vi è rappresen-  tato distintamente; essa non saprebbe svolgere in una  sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' in-  finito.   (i2.° Così, quantunque ogni monade creata rappresenti  tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente il corpo  che lo si riferisce particolarmente e di cui essa costituisce  l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto l'universo  a causa della connessione di tutta la materia nel pieno.   (1) Ciascuna monade, in quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è  analoga alla divinità. Solo la minor foiza di questa rappresentazione la  rende imperfetta e la ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio  tutto è chiaro e distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più  vicino al contro, come si è già visto. (§? 49-52) Cfr. pp. 78, 92 ss.   (2) Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della continuità  applicato alla materia. Cfr. p. 52 ss.   (3) Ecco un’altra formulazione della concatenazione universale secondo il  principio di causalità, considerato questa volta nel suo aspetto fisico.   (4) i Tutto ù conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene in  maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso(l).   03.° 11 corpo appartenente ad una monade che ne è  l’entelechia o l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che  si può chiamare un vivente, e coll'anima ciò che si può  chiamare un animale. Ora questo corpo di un vivente o  di un animale è sempre organico; poiché, essendo ogni  monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed essendo  l'universo regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che  vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a dire nelle per-  cezioni dell’ anima, e per conseguenza nel corpo, secondo  il quale l'universo è rappresentato nell’anima.   (>4.° Così il corpo organico di ogni vivente è ima specie  di macchina divina o di automa naturale che supera infi-  nitamente tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina  fatta dall’arte dell' uomo non è macchina in ciascuna delle  suo parti. Per esempio, il dente di una ruota di ottone  ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche  cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di  macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le  macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora  macchine nelle loro più piccole parti, all' infinito. Ciò de-  termina la differenza fra la natura e l'arte, cioè fra l’arte  divina e la nostra (2).   65.° E 1 autore della natura ha potuto operare questo  artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni  porzione di materia non solo è divisibile all’ infinito, come  hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa  attualmente senza fine, ogni parte in parti (3), ognuna    (1) « LI corpo - commenta il Boutroux (eil. eit., p. 178) -, attraverso lo  infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina ncl-  l’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa cioè comu-  nicare lo anime fra di loro». C’fr. pp. 35 ss., 78 ss.   (2) Cfr. p. 114 ss.   (3) È questa un’altra applicazione del principio di continuità alla ma-  teria. Cfr. p. 52 ss.   10. — Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sa-  rebbe impossibile che ogni porzione della materia potesse  esprimere tutto l’ universo.   66. ° Donde si vede che vi è un mondo di creatine,  di viventi, di animali, di entelechie, di anime anche nella  minima particella di materia.   67. ° Ogni porzione di materia può essere concepita  come un giardino pieno di piante, e come uno stagno  pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro  dell' animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un giar-  dino, uno stagno.   68. ° E quantunque la terra e l'aria interposta fra le  piante del giardino, o l’acqua interposta fra i pesci dello  stagno, non siano punto pianta nè pesce, esse ne conten-  gono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza  a noi impercettibile.   69. ° Cosi non vi è nulla di incolto, di sterile, di morto  nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in ap-  parenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno  stagno, ad una distanza dalla quale si vedesse un movi-  mento confuso, un brulichio, per così dire, di pesci, senza  discernere i pesci stessi (1).   70. ° Si vede da ciò che ogni corpo vivente ha una  entelechia dominante che è f anima nell'animale; ma le  membra di questo corpo vivente sono piene di altri viventi,  piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua ente-  lechia, o la sua anima dominante.   71. ° Ma non bisogna immaginare, come fece taluno  che aveva male inteso il mio pensiero, che ogni anima  abbia una massa o porzione di materia propria o applicata  ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri vi-  venti inferiori, destinati sempre al suo servizio. Poiché  tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come fiumi; e  parti vi entrano e ne escono continuamente.    (1) Ofr. pp. 84 ss., 109 ss., 114 ss.    Così l’anima non cambia di corpo se non a poco  a poco, per gradi, di modo che essa non è mai spogliata  ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso metamor-  fosi negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmi-  grazione delle anime; non vi sono neppure anime comple-  tamente separate, nè genii senza corpo. Dio solo è staccato  interamente dal corpo.   73. ° Perciò anche non vi è nè generazione assoluta,  nè morte perfetta, intesa rigorosamente, come separazione  dall’anima. E ciò che noi chiamiamo generazione , è sviluppo  e accrescimento; come ciò che noi chiamiamo morte, è  involuzione o diminuzione (1).   74. ° I filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine  delle forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci si è ac-  corti, per mezzo di ricerche esatte sulle piante, sugli in-  setti e sugli animali, che i corpi organici della natura  non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma sem-  pre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche pre-  formazione, si è ritenuto che, prima della concezione, vi  fosse già non solo il corpo organico, ma anche un’anima  in questo corpo, insomma l'animale stesso; e che per mezzo  della concezione questo animale sia stato solamente di-  sposto ad una grande trasformazione per divenire un ani-  male di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di si-  mile fuori del campo della generazione; come quando i  vermi divengono mosche e i bruchi farfalle (2).    (1) La menade, elio ò assolutamente immateriale (§3), non è però priva  di un suo aspetto di materialità. La materialità viene definita da Leibniz  in vari modi: come percezione confusa (cfr. p. 91 ss.); come aggregato  (ofr. p. 109 ss.). Sempre però come un modo di essere della monade, un suo  particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato che la monade è eterna e indi-  struttibile (§§ 4-6) non si può a rigore parlare di morte neppure nella materia;  si potrà parlare solo di aggregazione e di disgregazione, di passaggio do uno  stato all’altro (cfr. p. 99, s.; v. anche §§ 70-77). Cosi non si può parlare  di una materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura  anima. Cfr. § 14.   (2) Le teorie biologiche del suo tempo servono qui a Leibniz come so-  stegno e conferma delle sue concezioni metafisiche.    10". — Leibniz, La monadologia.  Gli animali dei quali alcuni sono elevati al grado  di animali più grandi per mezzo della concezione, possono  essere chiamati spermatici-, ma quelli fra di essi che ri-  mangono nella loro specie, cioè la maggior parte, nascono,  si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali, e  non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un  teatro più vasto (1).   76. ° Ma questo non era che la metà della verità; ho  dunque ritenuto che se 1 animale non ha mai inizio natu-  ralmente, non avrà neppure fine naturale, e che non solo  non vi sarà generazione, ma neppure distruzione intera,  nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti  a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfet-  tamente coi miei principi dedotti a priori qui sopra.   77. ° Così si può dire che non solamente l'anima (spec-  chio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma  che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina  perisca spesso in parte, e lasci o prenda spoglie organiche.   78. ° Questi principi mi hanno dato modo di spiegare  naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del corpo  organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo  le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia presta-  bilita fra tutte le sostanze, poiché le sostanze sono tutte  rappresentazioni di un medesimo imiverso (2).   79. ° Le anime agiscono secondo le leggi delle cause  finali, per appetizioni, fini e mezzi. 1 corpi agiscono se-  condo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i  due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause  finali, sono armonici fra di loro (3).   80. ° Cartesio ha riconosciuto che le anime non possono  attribuire forza ai corpi, perchè vi è sempre la medesima   (1) Questa teoria ha il suo corrispondente nella dottrina della gerarchia  delle monadi (jjij 24-30), secondo cui solo alcune di esse possono elevarsi agli  stadi superiori di animale o spirito ragionevole. Cfr. $ 82.   (2) Cfr. pp. 89 ss., 119 ss.   (3) Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a] j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia cre-  duto che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi.  Ma egli credeva ciò, perchè ai suoi tempi non si conosceva  la legge naturale che stabilisce anche la conservazione della  medesima direzione totale nella materia: se egli avesse  notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema del-  l’armonia prestabilita (1).   81. ° Tale sistema stabilisce che i corpi agiscono come  se (ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le anime  agiscono come se non vi fossero corpi; e che entrambi  agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime ragionevoli, benché io  ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi e animali  siano in fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale  e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non  col mondo stesso), vi è però di particolare negli animali  ragionevoli, il fatto che i loro piccoli animali spermatici, fino  a che non sono che tali, hanno soltanto anime cornimi o  sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così dire,  pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana,  le loro anime sensitive vengono elevate al grado della ra-  gione e alla prerogativa degli spiriti.   83. ° Tra le differenze che intercedono fra le anime  comuni e gli spiriti, e di cui già ne ho notato alcune, vi  è anche questa: che le anime sono in generale specchi    Questo leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la direzione totale (o  quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento di direzione, in un si-  stema chiuso, deve corrispondere un altro cambiamento di direzione eguale  o contrario-, contribuisce a fare del mondo meccanico un sistema a sè, chiuso  a qualsiasi influenza elio provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Car-  tesio credeva alla oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz  sostituisce la conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mu-  tare la dirozionedi un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale  influenza dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo  rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come lo  sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito attraverso  l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane, cfr. pp. 62 ss., 65 ss. viventi o immagini dell'universo delle creatine; ma che gli  spiriti sono anche immagini della divinità stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci di conoscere il sistema  dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo di saggi  architettonici; essendo ogni spirito come una piccola di-  vinità nel suo ambito.   84. ° Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci  ili entrare in una specie di società con Dio, e che egli sia  rispetto a loro non solo quello che un inventore è per la  sua macchina (ciò che Dio è rispetto alle altre creature),  ma altresì quel che mi principe è per i suoi sudditi, ed  anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile concludere che l’insieme di tutti  gli spiriti deve compone la città di Dio, cioè il più per-  fetto stato possibile sotto il più perfetto dei monarchi.   86. ° Questa città di Dio, questa monarchia veramente  universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò  che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di  Dio. E proprio in essa consiste la gloria di Dio; poiché  non vi sarebbe gloria, se la sua grandezza e la sua bontà  non fossero conosciute ed ammirate dagli spiriti; e anche  solo in rapporto a questa città divina egli è propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua potenza  si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una perfetta  armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause efficienti,  1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra  armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale  della grazia, cioè fra Dio considerato come architetto della  macchina dell universo, e Dio considerato come monarca  della città divina degli spiriti. Tale armonia fa sì che le coso conducano alla  grazia per le vie medesime della natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato per  vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti  lo richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli  altri.  Si può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in quanto legislatore; e che così i  peccati devono portare con sè la propria pena per ordine  di natura e hi virtù anche della strattura meccanica delle  cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare  a sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto questo governo perfetto, non vi  sarebbe azione buona senza ricompensa, nè cattiva senza  castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni, cioè  di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato,  che si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro  dovere, e che amano e imitano come si conviene l’Autore  di ogni bene, compiacendosi nella considerazione delle sue  perfezioni, secondo la natura del vero puro amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si  ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino  a tutto ciò che sembra conforme alla volontà divina pre-  suntiva o antecedente, e si contentino, d'altra parte, di  ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo della sua volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo  che, se noi potessimo intendere a sufficienza bordine del-  l'universo, troveremmo che esso supera tutti i desideri dei  piii saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello  che è, non solo quanto al tutto in generale, ma anche  La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che deriva  dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza; la vo-  lontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui Dio ha  messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di ra-  gione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. Cfr. pp. 6 ss., 10 ss.    quanto a noi stessi in particolare, perchè ci teniamo le-  gati, come è giusto, all'autore del tutto, non solamente  come all architetto e alla causa efficiente del nostro essere,  ma anche come al nostro signore e alla causa tinaie che  deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e solo  può procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale della Teodicea, secondo  cui tutto oiò che apparo come malo cessa di essere tale, quando venga con-  siderato in connessione con l'arinonia del tutto, nella quale anche i lati  oscuri hanno una loro funziono, e le ombreggiature contribuiscono alla per-  fezione del quadro. Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.

 

Grice e Conte: l’implicatura conversazionale del sacrificio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo. Grice: “Must say I love Conte – he  has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo parzialmente éditi:  Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio normativo).  Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with any definiteness the  ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an  extremely difficult task.Those, ideas would differ  with the individual and the sect, being determined or varied by a  number of considerations and influences — by locality,  education, and temperament. SILIO would not hold  the views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA, as  distinct from various other ‘religions’ tolerated and  practised in different parts, but it is  scarcely possible to define the contents of that  ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special priests  and priestly bodies who see to it that certain rites  and ceremonies are performed scrupulously in a  prescribed manner and on prescribed dates. But these  are officers of the state – LO STATO ROMANO -- whose knowledge and  functions are confined to the ritual observances with  which they have to deal. They are not persons  trained in a system of ‘theology’, nor are they  preachers of a code of doctrines or morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They  have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer. Though most well-informed  persons will know the prominent  deities in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of  the total. It is not merely that the deities on the  list are so numerous. There are other reasons for  ignorance or vagueness. In the first place, the line  between the operations of one deity and those of another is often too fine to draw, and deities originally  more or less distinct come to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not impossible, to  make up one's mind whether a so-called deity — such  as SPES — is supposed to have  a real existence, or whether it is simply the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of fashion, and to a  large extent out of memory, while new ones come, or were  coming, into vogue.  The state possesses its old-established calendar of days sacred to a number of deities, and its code of  ritual to be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what certain priests should  wear, what they should do or avoid in their priestly  character, what victims — ox, sheep, or pig — they  should sacrifice, what instruments they should use for  the purpose, and in what formula of words they  should pray in particular connections. There is a  standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the state  religion, to see that its requirements are carried out,  and that no one ventures to commit an outrage  towards it. But the state will not tell you  with any precision that you must believe in just so  many deities and no others. It would not tell  you precisely what notions to entertain concerning  those deities whom it does officially recognise. The state  dictates no theological doctrine; neither does it dictate  any moral doctrine beyond those which you would  find in the secular law. It reserves the right to  prevent the introduction of a foreign divinity  if it finds sufficient cause; but so long as the  temples, the rites and ceremonies, the cardinal moral  axioms of the Roman ''religion,'' and the basic  principles of Roman society are respected, the state  practises no sort of inquisition into your beliefs or  non-beliefs, and in no way interferes with your  particular selection of favourite deities. Poly-theism in an advanced commimity is always  tolerant, because it is necessarily always indefinite. What it does not readily endure is an organised attack  upon the entire system, whether openly avowed or  manifestly implied. Even undisguised unbelief in  any deity at all it is often willing to tolerate, so long  as the unbelief is rather A MATTER OF PHILOSOPHICAL DIALECTICS than  anything else, and makes no attempt at a crusade.  When a state so disposed is found to interfere with a  novel religion, it will generally be easy to perceive  that the jealousy is not on behalf of the deities nor  of a creed, but on behalf of the community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour to realise  as best we can the religious situation among the  Roman population.  Though we are not here directly concerned with  the steps by which the Roman religion had come to  be what it was, we can scarcely hope to understand  the position without some comprehension of that  development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the peculiarities of their worship  are due to the retention of old forms which had lost  such spirit as they once possessed. In the infant days of the nation there had been no such things as gods in human shape, or in recognisable  shape at all. There were only ''powers" or "influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must work out his existence. The early  Romans and such Italian tribes - as they became  blended with were, as they still are, EXTREMELEY SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other  peoples, are at a loss to understand what produces  a thunder or a lightning, rain, the fertility or failure of  crops, the changes of the seasons, the flow or cessation  of springs and streams, the intoxication or exhilaration proceeding from wine, and a multitude of other  phenomena. Fire is a perplexing thing; so is  wind. The woods are full of mysterious sounds and  movements. They could comprehend neither birth  nor death, nor the fructification of plants. The  consequence is a feeling that these things are due to some unseen agency; and the attempt is made to  bring those powers into some sort of relation with  mankind, either by the compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and offerings of propitiation, or by promises. A superhuman  power might be placed under a spell, or placated with  food and drink, or persuaded by a vow. Such  "powers" were exceedingly numerous. Greatest of  all, and recognised equally by all, was the power  working in the sky with the thunder and the rain.  Its presence was everywhere alike, and its bperations  most palpable at every season. Countless others were  concerned with particular localities or with particular  functions. Every wood, if not every tree, and also  every fountain, was controlled by some such higher  ''power''; every manifestation or operation of nature  came from such an 'influence.'' There was no kind of  action or undertaking, no new stage of life or change  of condition, which did not depend for help or hin-  drance upon a similar power. At first "the ''powers"  bore no distinctive names, and were conceived in no  definite shapes. They were not yet gods. The  human being who sought to work upon them to  favour him could only do, say, and offer such things  as he thought likely to move them. But in process of  time it became inevitable that these superhuman  agencies should be referred to under some sort of  title, and the title literally expressed the conception.  Hence a multitude of names. Not only was there  the ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there  was a veritable multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger conceptions the  power concerned with the sowing of seed was Saturn,  that with the growth of crops was Ceres, that with  the blazing of fire was Vesta. Among the smaller,  the power which taught a babe to eat was Edulia,  that which attended the bringing home of a bride was  Domiduca. The ability to speak or to walk was  supposed to be imparted by separate agencies named  accordingly. Flowers depended on Flora and fruits  on Pomona.   But to assign a name is a great step towards  creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies  began to take shape in the mind of those who named  them. This was the second stage. Jupiter, Ceres,  Satmn, and almost all the rest became "gods." The  powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus —  became embodied, like the more modem gnomes and  kobbolds. Once imagine a shape, and the tendency  is to give it visible form in an image "like unto man,*'  and to honour it with an abode — a temple or shrine.  The earliest Romans known to us erected no images  or temples, but they were not long in creating them.  Particularly rapid was the reducing of a god to  human form when they came into close contact with  the Etruscans and the Greeks. For all the important  deities poetry and art combined to evolve an  appropriate bodily form, which gradually became  conventional, so that the ordinary notion of a Jupiter,  a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that  which had been gathered from the statue thus  developed. This trouble was not taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and  local deities, and many of those with quite minor  provinces, were left vague and unrealised. They  were represented in no temples and by no statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of  neighbouring farms into a great city, and from a small  settlement into a vast empire, the little local gods fell  into the background. The deities which concerned  the state, and to which it erected temples, were those  with the more far-reaching operations — such as the gods identified with the sky and its thunders, with  war, with fertility, with the sea, with the hearth-fire  of all Rome. The rest might well be left to localities  or to domestic worship.   From the early days of Rome there existed a  calendar for festivals to certain divinities important  to the little growing town, and a code of ceremonies  to be performed in their honour, and of formulae of  prayer to be offered to them. The later Romans, in  their characteristic conservatism, adhered to those  festivals, to that ritual, and to those formulae, even  when some of the deities had ceased to be of appreci-  able account, and when neither the meaning of the  ritual nor the sense of the old words was any longer  imderstood by the very priests who used them.   Reflect a moment on this situation. First, we  have a number of deities of the first rank, housed in  temples, embodied in statues, and recognised in all  the Roman world; next a number of minor divinities  whose operations and worship may be remotely rural  or otherwise local, and whose functions are by no  means always distinguishable from those of the  greater gods; then a series of more or less un-  intelligible ceremonials carried out by ancient rule  in honoiu" of divinities often practically forgotten ;  outside these a number of vague powers presiding  over small domestic and other actions; finally, a  peculiar Roman tendency — in keeping with the last  — to erect into divinities, and to symbolise in statues  housed in temples, all manner of abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,  Health, Fame, and Youth.   Reflect agam that, when the Romans, as they  spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or  other foreigners, they met with deities whose provinces  were necessarily often identical with or closely akin      Fio. 110. — A Sacrifice.     to their own. Then remember that there is no  church and no official document to define the complete  list of Roman gods. Does it not follow, as a matter  of course, on the one hand, that the importation of  new gods was an easy matter, and on the other, that  no individual Roman could draw the line as to the  number of even the old-established deities in whom  he should or should not believe? The guardians of the public reUgion were satisfied  if the due rites were paid by the state to those deities,  on those. dates, and precisely in that manner, which  happened to be prescribed in the official religious  books. For the rest they left matters to the  individual.   So much it has been necessary to say in order to  account for existing attitudes. We must use the  plural, since the attitude of the state officials is but  one of several, and, inasmuch as the state officials  themselves were not a theological caste but only  secular servants of the community administering  the regulations for external worship as laid down in  the records, it often happened that their official  attitude had nothing to do with their individual  beliefs. Often they did not know or care whether  there was a real religious efficacy in the acts which  they performed ; sometimes all that they knew was  that they were doing what the state required to be  done properly by some one.   Cicero quotes a dictum of a Pontifex Maximus  that there was one religion of the poet, another of  the philosopher, and another of the statesman. This  is true, but it is hardly adequate. We must at least  add that of the common people. A well-known  statement of more modern birth puts the case — rather  too strongly — that at our period all religions were  regarded by the people as equally true, by the phi-  losopher as equally false and by the statesman as  equally useful. We may begin with the ordinary  people of whatever station, who were not poets nor thinkers nor magistrates. It is an error to  suppose that such Romans of the first eentiu'y were  either atheistic or indifferent to religion. Their fault  was rather that they were too superstitious, ready to  believe too much rather than too Uttle, but to beUeve  without relating their beUef to conduct. They did  not question the existence of the traditional gods,  nor the characters attributed to them; they were  ready to perform their dues of worship and to make  their due offerings, but all this had no bearing  upon their own morality. They believed with the  terror of the superstitious in omens and portents, and  in rites of expiation and purification to avert the  threatened evil. They were alarmed by thunder and  lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen on  the wrong side of the road, and other evil tokens.  They commonly accepted the existence of maUgn  spirits, including ghosts. They were prepared to  believe that on occasion a statue had bled or turned  round on its base; that an ox had spoken in  human language; or that there had been a rain of  blood. There were doubtless exceptions, and super-  stition was less dire and oppressive than once it  was. More than fifty years before our date Cicero  had said that even old women no longer shuddered  at the terrors of an underworld, and fifty years  after it the satirist asserts the same of children.  But both writers are speaking somewhat hyper-  bolically. Doubtless it had been wondered how  two augurs could look at each other without a  smile, but there is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious of any-  thing to smile at.   In the multiplicity of deities the ordinary people  were prepared to accept as many more as you chose  to offer them, especially if the worship attaching to  them contained mystic or orgiastic ceremonies. By  this date the populace had become exceedingly mixed,  especially in the capital, and the cool hard-headed  Roman stock had been largely replaced or leavened  by foreign elements, especially from the East. The  official worship of the state was formal and frigid ; it  offered nothing to the emotions or the hopes. Many  among the people felt an instinct for something more  sacramental, and especially attractive was any form  of worship which promised a continued existence,  and probably a happier existence, after death. Even  the mere mysteriousness of a form of worship had its  allurements. Hence a tendency to Judaism, still  more to the Egyptian worship of Isis and Osiris.  The latter made many proselytes, particularly among  the women, and contained ideas which are by no  means ignoble but to our modern minds far more  truly ''religious'' than anything to be found in the  native Roman cults. To pass through purification,  to practise asceticism, to feel that there was a life  beyond the grave apportioned to your deserts, to go  through an impressive form of worship held every  day, and to have the emotion^-thus worked upon —  all this supplied something to the moral nature which  was lacking in the chill sacrifices and prayers to  Jupiter and the other national divinities. In vain had the authorities, in their doubt as to the moral  effects, tried on several occasions to suppress this  foreign worship; it always revived, and it now held  its established place both in the imperial city and in the provinces, particularly near the sea, for it was  especially a sailors' religion. Rome, like Pompeii,  had its temple of Isis and her daily celebrations.  There was, however, no necessary conflict between  this worship and the oflScial religion. It was quite  possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particular cult has required mention,  must it be taken as belonging to more than a section  of the Roman population. Most Romans would look  upon it and other deviations with acquiescence, some  with contempt, and perhaps some with a shake of the  head, while themselves satisfied with an indifferent  conformity to the more estabUshed customs of the  state.   Setting aside the devotees of the mystic, the more  ordinary point of view was that between Romans and  the established gods of Rome there is an understanding.  The gods will support Rome so long as Rome pays to  them their dues of formal recognition. Their ritual  must not be neglected by the authorities; it is not  necessary for an individual member of the community  to concern himself further in the matter. The  state, through its appointed ministers, will make the  necessary sacrifices and say the necessary words;  the citizen need not put in an appearance or take  any part. He will not do or say anything dis-  respectful towards the deities in question, and he will  enjoy the festivals belonging to them. If remarkable  portents and disasters occur, he will agree that there  is something wrong in the behavioiu* of the state,  and that there must be some public purification or  other placation of the gods. If the state orders such  a proceeding, he will perform whatever may be his  share in it. So far he is loyal to the ''religion of  the state.''   In his private capacity he has his own wants,  fears, and hopes. He therefore betakes himself to whatever divinity he considers most likely to help  him; he makes his own prayers and vows an offering  if his request is granted. Reduced to plain commercial  language his ordinary attitude is — no success, no  payment. A cardinal difference between the religion  of the Romans and our own is to be seen in the nature  of their prayers. They always ask for some definite  advantage — prosperity, safety, health, or the like.  They never pray for a clean heart or for some moral  improvement. Of more importance than the man's  moral condition will be his scrupulous observance  of the right external practices. Unlike the Greek,  he will cover his head when he prays. He will raise  his hand to his lips before the statue, or, if he is  appealing to the celestial deities, he will stretch his  palms upwards above his head ; if to the infernal  powers, he will hold them downwards. These are  the things that matter.   At home, if he belongs to the better type of  representative citizen, our Roman has his household  shrine and his household divinities, whom he never  neglects. If he is very pious, he may pray to them  every morning, or at least before every enterprise.  In any case he will remember them with a small  offering when he dines. There are the ''gods of the  stores" — his ''penates'' — certain deities whom he  has selected as guardians of his belongings, and who  have their little images by the hearth in the  kitchen. There is the household ''protector," or  more commonly there are two, who may be painted  under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche or shrine above a small altar. To these  he will offer fruits, flowers, incense, and cakes.  And there is the ''Genius'' of the master of the  house, who is also painted on the wall, or who  may be represented by his own portrait bust or by  the pictxu-e of a snake. That "Genius" means the  power presiding over his vitality and health and well-  being. If he is an artisan and belongs to a guild, he  will pay special worship to the patron god or goddess  of that, guild — to Vesta, if he is a baker, to Minerva,  if he is a fuller. Out of doors he will find a street  shrine in the wall at a crossing, pertaining to the  tutelary god of what may be called his ''parish,'' and  this he will not neglect. Like all other orthodox  Romans he will not undertake any new enterprise —  betrothal, marriage, journey, or important business —  without ascertaining that the auspices are favourable.   In a general way he has a notion that the gods  are displeased at certain forms of crime, and that  they approve of justice and the carrying out of  compacts. The gods overlook the state, because the  state engages them so to do, and therefore to break  the laws of the state is to anger the gods of the state.  But this is rather subtle for the common man, and  there is generally no understood immediate relation  between these gods and his moral conduct, unless he has  sworn an oath by one or other of them. The purpose  of calling a god to witness is to bring upon a perjurer  the anger of the offended deity. But he entertains  no such conception as the modem one of "sin" or of  "remorse for sin." "Sin" is either a breach of the secular law or breach of a contract with a deity,  and ''remorse'' is but fear of or regret for the  consequences.   His morality is determined by the laws of the state,  family discipUne, and social custom. For that reason  his vices on the positive side will mostly be those of  his appetites, and on the negative side a want of  charity and compassion. He may be guiltless of lying  and stealing, murder and violence; he may be honest  and law-abiding ; but there .is nothing to make him  temperate, continent, or gentle. His avowed code is  ''duty,'' and duty is defined by law and tradition.   If this is the religious condition of the conunon-  place man or woman — a blend of superstition,  formalism, and tolerance — it is by no means that of  the educated thinker. Such persons were for the  most part freethinkers. Many of them, finding no  better guide to conduct, conform to the "religion" of  the state without any real belief in its gods or  attaching any importance to its ceremonies. They  do not feel called upon to propagate any other views,  and they probably think the current notions are at  least as good fqr the ignorant as any others. If they  are poets, like Horace or Lucan, they will dress up  the mythology, mostly from Greek models, and write  fluently about Jupiter and Juno, Venus and Mercury,  either attributing to them the recognised characters  and legends, or varying them so as to make them  more picturesque and interesting — perhaps even im-  proving them — but all the time believing no more in the stories they are telling^ or in the deities them-  selves,* than Tennyson need have beUeved in King  Arthur and Guinevere. The gods are good poetic  material and are sure to afford popular, or at least in-  offensive, reading. The poets doubtless do something  to hiunanise and beautify the popular conception of  a deity, but they seldom deUberately set out with any  such purpose. If the educated are not poets, but  pubUc men of affairs, they may beUeve just as Uttle,  and yet regard the established cult of the gods as an  excellent discipline for the vulgar and the best known  means of upholding the national principle of ''duty.''  If they are philosophers they may not, and the  Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at all  — certainly not as they are generally conceived — and  will openly discuss in speech and in writing the ques-  tion of their existence or non-existence, and of their  character and nature if they do exist. They will  endeavour to substitute for the barren formalism of  rites and ceremonies, or the inconsistent or incomplete  traditional morality of duty, another set of principles  as a sounder guide to life and conduct. Some are  monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's  own tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the  gods? Then be good. The true worshipper of the  gods is he who acts like them." "Better," remarks  Plutarch, "not believe in a God at all than cringe  before a god who is worse than the worst of men."  In the actual worship of images none of them believe.  One conspicuous writer of the time says : "To look for  a form and shape to a god, I consider to be a mark of human feebleness of mind." Concerning the schools  of thought and in particular the tenets of those Stoics  and Epicureans whom St. Paul met at Athens, and  whom he could meet in educated circles all over the  Roman Empire, we shall have to speak in a following  chapter, when sununing up the intellectual and moral  condition of the time. Meanwhile it should be under-  stood that, though a profound or anything approach-  ing a professional study of philosophy was discouraged  among the true Romans — more than once the profes-  sional philosophers were banished from the capital —  there were few cultivated persons who did not to  some extent dabble in it, and even go so far as  to profess an adherence to one school or another.  None of these men believed in the "Roman religion"  as administered by the state, although many of  them were administering it themselves. The same  man could one day freely discuss the gods in con-  versation or a treatise, and the next he might be  clad in priestly garb and officially seeing that the  rites of sacrifice were being religiously carried out in  terms of the books, or that the auspices were being  properly taken.   It does not, however, follow at all that because  poet or public man cared nothing for the pantheon  and all its mythology, he was therefore without his  superstitions. He might still tremble at signs and  portents, at comets, at dreams, and at the un-  propitious behaviom* of birds and beasts. He might  believe in astrology and resort to its professors, called  the ''Chaldaeans." On the other hand he might  laugh at such things. It was all a matter of tempera-  ment. It certainly was not every man who dared to  act like one of the Roman admirals. When it was  reported that the omens were unpropitious to an  inuninent battle because the sacred chickens ''would  not eat," he ordered them to be thrown into the sea  so that at least they might drink. The freethinkers  were in advance of their times. "Science" in the  modern sense hardly existed, and until phenomena  are explained it is hard to avoid a perplexity or  astonishment which is equivalent to superstition.     Consider now these various states of mind — that  of the people, ready to add almost any deity to the  large and vague number aheady recognised ; that of  the poet, who finds the deities such useful literary  material ; that of the magistrate or public man, who,  without enthusiasm or necessary belief, regards  reUgion as a thing useful to society; and that  of the philosopher, who thinks all the current re-  Ugious conceptions unsound, if not absurd, and  morally almost useless.   Manifestly a society so composed will be one of  unusual tolerance. The Romans had no disposition  to force their religion on the subject provinces of the  empire. Their religion was the Roman religion; the  rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish  religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian.  Any nation had a right to the religion of its fathers.  Nay, the Jews had such peculiar notions about a  Sabbath day and other matters that a Jew was exempted from the military service which would  have compelled him to break his national laws. All  religions were permitted, so long as they were national  religions. Also all religious views were permitted to  the individual, so long as they were not considered  dangerous to the empire or imperial rule, or so long as  they threatened no appreciable harm to the social  order. If a Jew came to Rome and practised Judaism,  well and good. It was, in the eyes of the Romans, a  narrow-minded and uncharitable religion, marked by  many strange and absurd practices and superstitions,  but if a misguided oriental people liked to indulge in  it, well and good. Even if a Roman became a  proselyte to Judaism, well and good, so long as he did  not flout the official reUgion of his own country. If  the Egyptians chose to worship cats, ibises, and  crocodiles, that was theii^ affair, so long as they let  other people alone. In Gaul, it is true, the emperor  Claudius, predecessor of Nero, had put down the Druids.  Earlier still the Druids had already been interfered  with ; but that was because the Druids — those weird  old white-sheeted men with their long beards and  strange magic — were performing human sacrifices —  burning men alive in wicker frames — and such  conduct was not pnly contrary to the secular law of  Rome, but even to natural law. And when Claudius  finally suppressed them, or drove the remnant out of  Gaul into Britain, it was not simply because they  worshipped non-Roman gods and performed non-  Roman rites, but because they were, as they had  always notoriously been, a dangerous political influence interfering with the proper canying out of  the Roman government.   And when we come to Christianity it must be  remarked that, so long as that nascent religion was  regarded as merely a variety of Judaism, it was actu-  ally protected by the Roman power, and owes no  little of its original progress to the fact. In the  Acts of the Apostles it is always from the Roman  governor that St. Paul receives, not only the fairest,  but the most courteous treatment. It is the Jews  who persecute him and work up difficulties against  him, because to them he is a renegade and is weaning  away their people. To the philosophers at Athens he  appears as the preacher of a new philosophy, and  they think him a "smatterer" in such subjects. To  the Roman he is a man charged by a certain com-  munity with being dangerous to social order, to wit,  causing factious disturbances and profaning the  temple; and since he refuses to let the local author-  ities judge his case, and has exercised his citizen  privilege by appealing to Caesar, to Caesar he is  sent. And, when a prisoner in somewhat free  custody at Rome, note that he is permitted to speak  ''with all freedom,'' and that in the first instance he  is acquitted.   True, but the fact remains that Nero bimit  Christians in his gardens after the great fire of Rome,  and that certain later emperors are found punishing  Christians merely for avowing themselves such. Why  was Christianity thus singled out? It was not  through what can be reasonably called ''religious intolerance/' for, as has been said, the Romans did  not seek to force Roman religion on other peoples,  nor did they make any inquisition into the beUefs of  Romans themselves. The reasons for singling out  Christianity for special treatment are obvious enough.  The question is not whether the reasons were sound,  whether the Romans properly understood or tried to  understand, whether they could be as wise before the  event as we are after it, but whether the motive was  what we should call a religious" one. To allow  Epicureans to deny the existence of gods at all, and  to make scornful concessions to the peculiar tenets of  Jews, could not be the action of a people which was  bigoted. If there was bigotry and intolerance, it was  political or social bigotry and intolerance, not reUgious.  To prevent any possible misconception let the present  writer say here that he considers the principles of  Christianity, as laid down by its Founder and as spread  by St. Paul, to have been the most humanizing and  civilising influence ever brought to bear upon society.  But that is not the point. The early Christians were  treated as they were, not because they held non-  Roman views, but because they held anti-Roman  views ; not because they did not believe in Jupiter  and Venus, but because they refused to let any one  else believe in them; not because they threatened to  weaken Roman faith, but because they threatened to  weaken and even to wreck the whole fabric of Roman  society ; not because they were known to be heretics,  but because they were supposed to be disloyal; not  because they converted men, but because they appeared to convert them into dangerous characters.  As it has been put, the Christians were regarded as  the ''Nihilists" of the period. We are apt to judge  the Romans from the standpoint of Christianity  dominant and understood; it is fairer to judge them  from the standpoint of a dominant pagan empire  looking on at a strange new phenomenon altogether  misunderstood and often deliberately misrepresented.  Moreover — and the point is worth more attention  than it commonly receives — we have only to read the  Epistles to the Corinthians, to perceive that the early  Christian gatherings were by no means always such  meek, pure, and model assemblages as they are almost  always assumed to have been. Some of the members,  for instance, quarrelled and ''were drunken.". There  were evidently many unworthy members of the new  communion, and of course there were also many  manifestations of insulting bigotry on their part. The  class of society to which the Christians belonged was  closely associated in the Roman mind with the rabble and the slave, if not with criminals. What the pagan  observer saw in the new religion was "a pestilent superstition," "hatred of the human race," "a malevolent  superstition." He thought its practices to be connected  with magic. The intransigeant Christian refused to  take the customary oath in the law courts, and there-  fore appeared to menace a trustworthy administration  of the law. He took no interest in the affairs of the  empire, but talked of another king and his coming  kingdom, and he appeared to be an enemy to the  Roman power. He held what appeared to be secret meetings, although the empire rigidly suppressed all  secret societies. He weakened the martial spirit of  the soldier. He divided f amiUes — the basis of Roman  society— against themselves. He was a socialist  leveller. He threatened with ruin all the trades  connected with either the established worship — as  amongst the silversmiths at Ephesus — or with the  luxuries and amusements of Ufe. Those amusements  in circus or amphitheatre he hated, and therefore  appeared misanthropic. He not only stood aloof  from the religious observances of the state and the  household, but treated them with contempt or  abhorrence.   Moreover, at this date, he refused to acknowledge  the one great symbol of the imperial authority. This was the statue of the emperor. When that statue  was set up in every town it was not understood by  any intelligent man that the emperor was actually a  god, or that, when incense was burnt before the statue,  it was being burned to the emperor himself as deity.  But just as every householder had his attendant  Genius'' — the power determining his vital functions  and well-being — which was often represented as a  bust with the man's own features, so the statue of  the Augustus, ''His Highness," represented the Genius  of that Head of the State, and the offering of incense  was meant as an appeal to the Genius to keep the  emperor and the imperial power ''in health and  wealth long to live." The man who refused to make  such an offering was necessarily considered to be ill-  disposed to the majesty and welfare of the Head of the State, and therefore of the state itself. The Roman  attitude towards the early Christians was partly that  of a modern government towards Nihilists, and partly  that of a generation or two ago to a blend of extreme  Radical with extreme atheist. We are not here concerned with the whole story of  the persecution of the Christians, but only with the  situation at and immediately after the date we have  chosen. It is at least quite cer ain that when Nero  burned the Christians in the year 64 he was treating  them, not as the adherents of a religion, but as social  criminals or nuisances. How far his notions of  Christianity may have been influenced by Poppaea  we do not know. At least he believed he was  pleasing the populace.  Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!”  Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library. Conte.

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